materiali anna pagano

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Chiara Zamboni, “Prefazione”, in Diotima, La sapienza del partire da sé, Liguori 1996
Non abbiamo inventato la pratica del partire da sé: noi l'abbiamo ereditata dal movimento
delle donne. Qui la mettiamo al centro dell'attenzione per la sua dirompenza.
Consiste nel trovare le parole per dire il reale e per portarlo alla sua verità. Noi tutti
abbiamo legami con il mondo da quando siamo stati messi al mondo. I legami sono profondi e
non sempre ne avvertiamo la ricchezza. Essi sono la costrizione e anche la bellezza della
nostra esistenza di esseri umani.
Ora, seguendo l'esempio di alcune donne, ne abbiamo fatto una pratica per noi e un tema
di riflessione. Abbiamo trasformato quelle che erano delle costrizioni in legami di dipendenza
accettata. Se ne ricava forza per un agire orientato. Si cambia così la realtà, ma rimanendo al
medesimo tempo profondamente fedeli ad essa.
Come mostrare tali legami? E impossibile attraverso un sapere già costituito, che li riduce
a formule. Occorre ritornare ai vissuti nel loro farsi: ai desideri, ai sentimenti, alle
contraddizioni in cui ci dibattiamo. Essi sono nostri, personali, ma anche più che personali,
perché li sperimentiamo vivendo assieme agli altri. Dicono di noi e del mondo.
E una vera e propria sapienza saper fare tesoro di tali legami. Una sapienza che ad alcuni
manca, tanto è vero che finiscono per cercare di regolare la piccola parte di mondo dove sono
con protocolli e norme formali. Dimenticano così í legami che ognuno di noi ha con sé, con
gli altri, col lavoro, con il proprio ambiente. Non hanno fiducia in tali legami e per questo li
tralasciano inconsapevolmente. Questo regolamentare per via formale alla lunga arreca più
danno che vantaggi e crea effetti distorti su tutta la società.
E di questo che qui parliamo: di una politica che invece sappia fare tesoro dei vissuti e del
desiderio.
Questo è vero sia per le donne sia per gli uomini. E indubbio però che la pratica del partire
da sé risulta più consueta alle donne che agli uomini.
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Italo Calvino, “Testa di Bufala” in Fiabe italiane, Mondadori, 1968
Un contadino nel campo s'arrovellava a zappare la sua grama terra, quando diede col ferro
in qualcosa di duro. Scalzò adagio dai lati e venne fuori una testa di bufala, grande il doppio
di tutte le teste di tutte le bufale, con le corna ritte, il pelo lucido e gli occhi aperti, che pareva
viva. E non pareva soltanto: difatti, mentre il contadino, a quella brutta vista, faceva per
vibrarle addosso una zappata, la testa parlò e disse: «Fermati, non m'ammazzare, io sarò la
fortuna d'una delle tue figlie. Mettimi da parte.»
Il contadino, fiutando l'incantesimo, prese con riguardo la testa, la mise da una parte del
campo, e la coperse con la sua giubba. E quando la sua figlia maggiore venne a portargli una
focaccia per colazione, le disse: «Guarda che c'è sotto alla mia giubba».
La ragazza alzò la giubba e lanciò un urlo: «Oh! che brutto mostro!» e scappò via a casa
sempre urlando.
La mamma, a vederla tornare così impaurita, pensò fosse successo qualcosa al suo uomo,
e disse alla figlia mezzana: «Va tu dal babbo e senti se ha bisogno di qualcosa».
Anche a lei il contadino domandò di guardare sotto la giubba, anche lei fuggì come il
vento gridando: «Oh! Che grugno spaventoso!»
Allora la mamma chiamò la più piccola, che era anche la più svelta e coraggiosa, e mandò
lei sul campo. La bambina, quando il padre le disse d'alzar la giubba, ubbidì, e si mise a
sorridere, e a carezzare con la mano la testa di bufala «Oh, che bella testina! Che belle
cornine! Che bei baffetti! Babbo, dove l'avete trovata quella bella testa di bufala?» La testa di
bufala a quelle carezze si alzò a muso all'aria mugolando dalla gioia e disse: «Ci verresti a
stare con me, bella bambina?»
E la bambina: «Se il babbo mi dà il permesso, io per me ci vengo subito.»
Il contadino non seppe dir di no. La Testa di Bufala si mise a camminare facendo capriole
sulle corna, e la bambina le andava dietro saltando e battendo le mani. In mezzo a un bosco,
c'era una botola in un prato, la Testa di Bufala l'aperse con un corno, sprofondò giù a
balzelloni. Dal fondo la bambina sentì la sua voce che diceva: «Levati gli zoccoli e scendi
anche tu. Bada di far piano, perché la scala è di vetro.» La bambina scese la scala di vetro e si
trovò in un salone principesco; la Testa di Bufala era lì su una poltrona. In quella casa
sotterranea la bambina si trovava molto bene. La Testa di Bufala le insegnava lavori d'ogni
sorta, a tener pulite le stanze, a far da cucina, a stirare, meglio d'una mamma vera e propria; e
la sua scolara veniva su brava in ogni cosa, anche a leggere e a scrivere, e cresceva a vista
d'occhio, sicché presto si fece una gran bella ragazza, e s'era affezionata tanto alla Testa di
Bufala che la chiamava mamma.
Dopo un po' d'anni che era in quella buca, la ragazza cominciò a dire: «Mamma,
mandatemi un momento su nel prato, a prendere un po' d'aria.» Testa di Bufala pareva
contrariata, ma la ragazza insistette e allora le diede una veste d'argento, una seggiolina, e le
permise di sedersi sul prato a far la calza.
Mentre faceva la calza in mezzo al prato, passò un cacciatore che aveva perso la strada e
la vide. Era il figlio del Re di quei paesi. Attaccò discorso e ci mise poco a innamorarsene.
«Bella ragazza,» le disse, «voi mi piacete troppo in tutti i modi, e se non dite di no, io a
voi vi sposo.»
Rispose la ragazza: «Io per me di no non lo dico, ma prima voglio sentire la mia mamma»
S'allontanò e scese giù per la scaletta di vetro della botola. Testa di Bufala non disse di no:
«Fa pure qual che più ti piace; e se vuoi lasciarmi, lasciami. Ricordati però di non essere
ingrata. Tutto quel che hai avuto lo devi a me, anche se hai subito trovato un figlio di re per
sposo.»
Il figlio del re promise di tornare di lì a otto giorni, a prendere la sposa con le dame e i
cavalieri e le carrozze reali, e la sposa intanto preparò il corredo con l'aiuto di Testa di Bufala,
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ed era proprio un corredo da regina «Ricordati,» le diceva Testa di Bufala «quando starai per
lasciar questa casa; sta attenta a non dimenticare nulla. Se dimenticherai qualcosa, ti potrà
succedere una gran disgrazia.»
Ma quando verme il figlio del re col suo corteo, tanta fu l'ansia e la furia della sposa, che
non solo dimenticò di prendere con sé il pettine, ma anche di salutare Testa di Bufala, e corse
via senza nemmeno chiudere la botola. Il corteo s'era già molto allontanato, quando a un tratto
la sposa si battè la fronte con la palma. «Torniamo indietro, torniamo indietro, Maestà! Ho
dimenticato il pettine.»
Disse il figlio del re: «Hai paura di non trovare pettini nel mio palazzo? O che le botteghe
della città ne siano rimaste senza?»
Ma lei, col pianto nella voce, gli rispose «Ho paura che mi succeda qualche disgrazia,
perché la mia mamma m'ha detto che non dovevo dimenticar nulla a casa, se non volevo
capitare male. La supplico, Maestà, torniamo» E il Principe fece voltare i cavalli e tornarono
nel bosco.
La botola era sempre aperta; la sposa corse giù e si mise a cercare il pettine.
«Oh, eri andata via?» chiese Testa di Bufala.
«Si mamma,» rispose lei, «e nella fretta m'ero scordata il pettine, ed ora non mi riesce di
trovarlo.» «Il pettine, ti eri dimenticata, eh?» disse Testa di Bufala «Solo il pettine? Cercatelo
da te.»
La sposa, tutta affannata, aperse un cassetto del comò e ci cacciò la testa per frugarci
dentro. Quando si rialzò, si vide nello specchio e diede un grido. La testa le s'era trasformata
in una gran testa di bufala. «Mamma Mamma!» gridò. «Ohimè che disgrazia! Correte,
salvatemi!»
Disse Testa di Bufala: «Io non posso. Questo è il premio che ti spetta per la tua
riconoscenza. Te n'eri andata senza nemmeno dirmi addio.»
«E cosa dirà il mio sposo. adesso?»
«Dovrà tenerti come sei. Ormai ha promesso di sposarti.»
Insomma, la ragazza non potè far altro che avvolgersi intorno alla testa un fitto velo e così
presentarsi al principe. «Come mai ti sei imbacuccata in questo modo?» lui le chiese. E la
ragazza rispose che le era venuta una gran flussione agli occhi. A corte, la madre del principe
e tutte le gran dame aspettavano, curiose di vedere questa gran bellezza. Ma lei, col pretesto
della flussione, arrivò col velo e non si fece vedere da nessuno. Venne il momento che restò
sola col principe e dovette alzare il velo; figuratevi com'egli rimase, al vedere che la sua sposa
era diventata un mostro! Si mise le mani sugli occhi e non la volle più vedere. Dapprima
pensò d'ordinare un rogo e bruciarla; ma si consigliò con sua madre, che lo persuase a
chiudere quella creatura nelle soffitte del palazzo. Così fece, e a corte sparse la voce che la
teneva rinchiusa per gelosia. Solo sua madre conosceva il suo segreto, e a vederlo sempre più
malinconico, ci pativa. Un giorno gli disse: «Figlio mio, quella testa di bufala bisognerà pur
mandarla via, e pensare a sceglierti una sposa come si deve.»
E lui: «Come faccio a mandarla via, se le ho dato la mia parola di sposarla?» «Il modo c'è,
stammi a sentire», disse sua madre. «Ci sono a corte due belle damigelle che non sognano
altro che di farsi sposare da te! Facciamo una gara tra loro due e la Testa di Bufala. Che in
capo a otto giorni ognuna fili una libbra di lino; quella che l'avrà filato meglio, prendila per
sposa.»
Il principe seguì il consiglio. Le damigelle si misero a filare la loro libbra di lino con
grande diligenza, chiuse ognuna in una stanza. La povera sposa invece non concludeva nulla,
non sapeva che piangere sulla sua mala sorte. Il sabato sera si calò con una fune giù dalla
soffitta e corse nel bosco, fino alla botola di Testa di Bufala. «Mamma, mamma,» le disse,
«aiutatemi in qualche modo, levatemi da queste pene, voi che potete.
M'avete ridotta così, da fortunata che m'avevate fatta con la vostra bontà, e ora sono la più
sfortunata di tutte le donne!»
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Rispose Testa di Bufala «E ti pare una colpa da nulla, l'ingratitudine? Aiutarti non posso.
Solo posso darti questa noce. Domani porgila al figlio del re e digli che ne mangi il gheriglio,
in cambio della libbra di lino che t'ha dato da filare.» La domenica le damigelle presentarono
al giudizio della regina il loro lino filato filo a filo, e la regina disse: «Eh! non c'è male. Ma c'è
pure qualche difetto: non è tutto ben uniforme. Vediamo ora il lavoro di quest'altra.»
La sposa presentò la noce. «Mi vuoi anche canzonare?» disse il figlio del re. Ma aperse la
noce e dentro ci trovò una matassa di lino da una libbra, filato alla perfezione, che non se n'era mai
visto l'uguale.
Disse però la regina: «Il lino, sì, è bello non si può negare. Però non vorrai mica tenerti per sposa
un mostro per via d'una libbra di lino? Bisogna fare un'altra prova. Ora daremo a queste dame una
camicia di tela da cucire, e chi la cuce meglio entro otto giorni, quella sarà la tua sposa.»
Ecco le donne daccapo chiuse in camera e accanite sul lavoro: un puntino per volta, minuto
per minuto le damigelle; mentre la sposa invece, sempre a piangere, e senza nemmeno toccare la tela.
Il sabato sera, ridiscende con la fune e torna da Testa di Bufala. «Mamma, aiutatemi! Perdonatemi
per quel che ho mancato. Avete perso davvero tutto l'amore per vostra figlia?»
«Non sai che piangere e lamentarti,» disse Testa di Bufala «Non ho mica colpa io se ti trovi
così. Non t'ho avvertita forse a suo tempo? Tutto quel che posso fare ora eccolo qui. Tieni questa
nocciola, dalla al figlio del re: che la schiacci e se la mangi, e se non è contento, la sputi.»
Quando il figlio del re schiacciò la nocciola, uscì fuori una camicia tutta ricamata in oro, con
certi puntini così sottili e fitti che non c'erano occhi che li potessero scoprire.
La regina disse: «Allora, facciamo la prova decisiva. Tra otto giorni si darà un gran ballo.
Comanda a queste tre dame che cerchino di farsi belle, e chi sarà la più bella, quella sia la tua
sposa.»
Le due damigelle, appena furono nelle loro stanze, cominciarono ad arrabattarsi per
diventare le più belle; e lì a strofinarsi con acque odorose, rossetto sulle gote, pettinature d'ogni
sorta, vestiti provati e riprovati, e non dormivano più, e se lo specchio si potesse consumare, a
quest'ora non ne sarebbe rimasto neanche un briciolino. La sposa cosa volete che facesse, con
quella testaccia di bufala sul collo? Passò la settimana a piangere, e il sabato sera tornò alla botola
nel bosco.
«Sei qui daccapo a frignare?» disse Testa di Bufala.
«Mamma, che volete che faccia, ora? Se non mi perdonate, ormai col mio sposo non c'è
più rimedio.»
«Hai quel che hai voluto. Te ne andasti via come un cane, dopo il bene che ti avevo
fatto!» «Non fu malanimo, mamma, che volete? Ero così allegra, spensierata, non avevo testa a
nulla.» «E adesso, se tu dovessi andar via come quel giorno, cosa faresti?»
«Oh mamma, vi saluterei e bacerei e abbraccerei e non mi dimenticherei nulla, e chiuderei
la botola per benino.»
«Andiamo, allora: ti perdono,» disse Testa di Bufala, «cerca pure il tuo pettine.»
La sposa andò al comò, aperse il suo cassetto, ci frugò dentro e trovò il pettine. Alzandosi
quale fu la sua meraviglia vedendo nello specchio la sua testa di prima ma il doppio più bella
e più splendente. Saltando e gridando dall'allegria, corse da Testa di Bufala, l'abbracciò e baciò, le
fece mille carezze e ringraziamenti. Alla domenica nella Sala Reale c'era radunata tutta la
Corte col re e la regina seduti nel trono lassù in aria, e il loro figlio ai piedi dei gradini. Ecco che
vengono innanzi le tre donne, coperte d'un fitto velo da capo a piedi. Il principe alza il velo alla
prima, e dice: «Che! È tutta imbottita di stracci!»
S'avanza la seconda e il principe alza il velo: «Che! È tutta nastri e tinture!» II velo della sua
sposa non osava alzarlo, ma quando l'alzò restò di stucco «Eccola mia moglie! Eccola come la
trovai seduta a far la calza in mezzo al bosco! È ancor più bella d'allora! Cara madre, la scelta
l'ho fatta: la mia sposa è quella che m'incanta con le sue bellezze e buone grazie.»
La prese per mano e la mise a sedere accanto a sé sul trono. Tutta la corte la acclamò regina.
Da quel giorno se ne stettero insieme trionfanti, e camparono felici come pasque.
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Elizabeth von Arnim, Vera, Bollati Boringheri, 2006
Mentre lui le era rimasto accanto, l'aveva soverchiata gettandola in un torpore, in una
chiusura degli occhi e della mente, in un totale abbandono, dopo gli sconvolgimenti e le agonie
della settimana, nella benedizione di una semincoscienza accudita e accarezzata; ed era soltanto
quando avevano cominciato ad arrivare le prime lettere - lettere così semplici e adoranti, che
prendevano la situazione proprio com'era, proprio come la vita e la morte aleggianti tra loro
gliel'avevano offerta, non turbate da domande, non offuscate da dubbi, prive di sguardi sul
passato ma con una toccante, riconoscente accettazione del presente - che lei si era a poco a
poco acquietata in una serenità cui la zia aveva risposto insieme con sollievo e con stupore.
E quelle lettere erano così facili da comprendere! Erano, in maniera così riposante, prive dei
complicati pensieri e delle sottili frasi allusive che il padre era solito scrivere agli amici.
Persino la grafia era quella tondeggiante, lenta, di un ragazzo. Lucy prima gli aveva voluto
bene; ma adesso si stava innamorando di lui, proprio a causa delle sue lettere. ….
Erano perduti in un magico cerchio che nulla e nessuno poteva penetrare, e al suo interno
stavano mano nella mano, al sicuro. Lucy gli aveva dedicato tutto il suo cuore. Le bastava
che lui entrasse nella stanza per essere felice. C'era una naturalezza, una grandezza nel suo
modo di guardare alle cose, da fugare con la sua sola presenza qualsiasi sentimento contorto
e tormentato. Anche non considerando il suo amore per lui, la sua gratitudine, il suo
desiderio che egli fosse felice e dimenticasse la sua orribile tragedia, Wemyss era davvero
una persona confortevole. Non aveva mai incontrato nessuno così confortevole cui affidarsi
mentalmente. Per quanto riguardava il corpo, nelle poche occasioni in cui la zia spariva
dalla stanza, era esso pure confortevole. e ricordava i divani più comodi, quelli più costosi,
tutti cuscini.
Ma mentalmente era ancor più confortevole, era decisamente sontuoso. Ascoltarlo parlare
era un relax perfetto. Non aveva bisogno di pensare. Nella sua visione, le cose erano o
bianche o nere. Con suo padre, le cose non erano mai o bianche o nere; e uno doveva
increspare la fronte e concentrarsi e spremersi le meningi per seguire e comprendere le sue
distinzioni, le sue infinitamente numerose, delicate, difficili distinzioni. Le nette divisioni di
Everard di ogni cosa in due categorie, bianco neve e nero profondo, erano riposanti come la
chiesa cattolica. Non doveva affaticarsi o preoccuparsi, doveva soltanto abbandonarsi. E a
quale amore, a quale salvezza! La sera non riusciva ad addormentarsi, a forza di pensare a
quanto era felice. Sedeva immobile nell'angusto spogliatoio, con le mani in grembo e un
proverbio che le ronzava in testa: «Dio chiude una porta e apre un portone».
Nemmeno per un attimo, o quasi, era stata lasciata sola a soffrire. Subito, o quasi, Everard
era entrato nella sua vita e l'aveva salvata. ……….
Lucy rimase seduta in silenzio sulle sue ginocchia, stretta nel suo abbraccio, la testa sul
suo petto.
Stava pensando.
Per quanto cercasse di svuotarsi di tutto tranne che del suo assenso all'amore, scoprì che
soltanto il suo corpo era controllabile. Esso giaceva quieto nelle braccia di Wemyss; ma la
mente rifiutava di restare passivi, voleva pensare. Strano, quanto forte il corpo potesse
essere stretto, quanto accosto al cuore di qualcuno, mentre la mente non era in alcun modo
vicina a chi lo stringeva. Allo stesso modo possono chiuderti in prigione, bloccare il tuo
corpo e pensare che ti hanno in pugno; e nel frattempo la tua mente - tu - è libera come il
vento e la luce del sole. Non poteva farci nulla; lottava duramente per sentirsi come si era
sentita al risveglio, quando l'aveva visto seduto accanto a lei; ma il modo in cui lui aveva
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respinto la sua offerta di pace, il totale rifiuto di venirle incontro - non a metà strada, ma
nemmeno a un quarto, nemmeno per un pezzetto - l'avevano per la prima volta resa
cosciente di aver paura di lui.
Aveva paura di lui e aveva paura di se stessa in relazione a lui. Le sembrava estraneo a
tutto ciò di cui aveva avuto esperienza. Non le sembrava - e in ogni caso non lo era stato
quel giorno - generoso. Non pareva esserci una via, in nessun punto, che la conducesse a
lui. Com'era veramente? Quanto le sarebbe occorso, per conoscerlo davvero? Anni? E per
quanto riguardava se stessa.., ora sapeva, ora che ne aveva fatto conoscenza, che non
poteva assolutamente sopportare le scenate. Nessun genere di scenate. Né da soli, né in
presenza di altri. Non poteva sopportarle mentre si svolgevano, né sostenere lo sfinimento
del lungo protrarsi dell'attesa della loro fine. E non solo non riusciva a vedere come
potessero essere evitate (perché nessuna cura, nessuna precauzione avrebbe potuto
consentirle di badare ogni volta a quello che diceva o faceva o guardava o - egualmente
importante - a quello che non diceva, non faceva o non guardava); ma aveva paura, una paura
mista a un presentimento inquietante, che prima o poi, dopo una di queste scenate o nel bel
mezzo di una di esse, i suoi nervi avrebbero ceduto e avrebbe subito un tracollo. Un tracollo
deplorevole, che l'avrebbe ridotta a un essere capace soltanto di ululare e piagnucolare.
Era comunque orribile. Non doveva pensare a quel modo. Quei suo piagnucolare di prima pensò cercando di sforzarsi di sorridere - era già sufficiente per tutto il giorno. No, non
avrebbe piagnucolato, non sarebbe crollata, avrebbe trovato un modo per dominare la
situazione. Dove c'era tanto amore, doveva esserci un modo per dominare la situazione. ….
Lui le aveva scostato la camicetta e le baciava le spalle e le chiedeva di chi fosse la
mogliettina. Ma che gusto c'era a fare l'amore, se il farlo era immediatamente preceduto o
seguito o interrotto da un'esplosione di collera? Aveva paura di lui. Non era per nulla
presente a tutti quei baci. Forse già da tempo aveva inconsciamente paura di lui. Che
cos'era quella viltà durante la luna di miele, quell'ansioso desiderio di compiacerlo e di
evitare ogni parvenza d'offesa, se non paura? Era un amore timoroso, timoroso di essere
ferito, di non essere in grado di credere senza condizioni, di non essere in grado - era questo
il lato peggiore - di essere fiero del proprio amato. Ma ora, dopo le esperienze di quel
giorno, provava una paura di lui più separata, più definita, più distinta dall'amore. Strano,
aver paura di lui e amarlo nello stesso tempo. Forse se non l'avesse amato non ne avrebbe
avuto paura. No, non avrebbe avuto paura, perché allora nessuna cattiveria da parte di lui
avrebbe raggiunto il suo cuore. Solo, non poteva nemmeno immaginarlo. Lui era il suo
cuore.
- A che cosa stai pensando? - domandò Wemyss, che, avendo finito con la sua spalla, aveva
notato che era troppo quieta.
Poteva dirglielo sinceramente, adesso: solo un momento prima non avrebbe potuto. - Stavo
pensando - disse - che tu sei il mio cuore.
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Elizabeth von Arnim, La moglie del pastore, Bollati Boringheri, 2003
Herr Dremmel tornò nella sua casa vuota in uno stato d’animo meditativo. Mentre
sobbalzava nella stessa carrozza, solo diventata più vacillante, con la quale aveva portato a
casa la sua sposa sette anni addietro, egli si lasciò andare innanzitutto a un breve istante di
stupore per gli alti e bassi delle donne; passò poi a riflettere sulla superiore affidabilità dei
composti chimici; indi proseguì quel corso di pensiero dicendosi che la vita di un uomo,
come un bel fazzoletto, doveva avere delle decorazioni ai bordi, e che non vi era decorazione
migliore della famiglia. Ingeborg, nonostante i suoi alti e bassi, era stata una buona moglie;
egli non si era pentito di averla scelta quale ornamento per decorare gli orli della sua
esistenza, benché egli avesse fatto la sua parte comportandosi da buon marito. Pochi
matrimoni, considerò, risultavano armoniosi e ben riusciti come il loro. Lui l'amava nel
modo in cui ogni uomo onesto ama la propria moglie, vale a dire a intervalli di tempo scanditi
con assennatezza. Aveva sempre provato dell'affetto per lei, e regolarmente apprezzato la
sua compagnia, beninteso quando lei godeva di buona salute. Il suo denaro - ogni moglie
avrebbe dovuto averne un po' - l'aveva aiutato parecchio o, per meglio dire, aveva reso
possibile il successo che aveva coronato i suoi sforzi. Inoltre lei gli aveva dato un figlio
all'anno che, se ne rendeva conto, era il massimo rendimento possibile, una quota che lo
rendeva totalmente rispettabile agli occhi della comunità. Che quattro di quei figli non
fossero riusciti a rimanere vivi e che i due rimasti avessero una rassomiglianza così
formidabile con sua madre, una donna a detta di tutti ottusa, era di certo una sfortuna; nella
vita però non bisognava indugiare sulle sfortune, bensì girar loro le spalle, allontanarsi e
mettersi al lavoro. Il perno centrale dell'esistenza, il sommo valore si disse, mentre giungeva
a casa, appendeva il cappello in corridoio e si dirigeva verso il laboratorio per dedicarvisi con
rinnovato vigore, era il lavoro. …….
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Tony Morrison, Paradiso, Frassinelli, 1993
… aveva preso la decisione di passare la notte lì soprattutto per via della Madre.
Il biancore al centro era accecante. Ci volle un po' perché Mavis riuscisse a scorgere la forma
tra i guanciali e le lenzuola bianche come il gesso, e sarebbe rimasta accecata ancora più a
lungo se una voce autorevole non avesse detto: «Non fissarmi a quel modo, piccina».
Connie si piegò ai piedi del letto e allungò una mano sotto le lenzuola. Con la mano destra
sollevò le caviglie della Madre e con la sinistra sprimacciò i cuscini al di sotto. Borbottando:
«Unghie come rasoi», riadagiò dolcemente i piedi.
Quando gli occhi si abituarono all'oscurità e alla luce, Mavis vide una sagoma di letto fin
troppo piccola per una donna malata - quasi il letto di un bambino - mentre dal bordo nero
circostante affiorava una gran varietà di tavolini e di sedie. Connie prese qualcosa da uno dei
tavoli e si curvò nella luce che incorniciava la paziente. Mavis, seguendone i movimenti, la
guardò mentre applicava un poco di vaselina sulle labbra di un volto più pallido della pezza
bianca che avvolgeva la testa della malata.
«Ci deve pur essere qualcosa con un sapore migliore», disse la Madre passandosi la punta
della lingua sulle labbra unte.
«Il cibo», disse Connie. «Che gliene pare?»
«No.»
«Un po' di pollo?»
«No. Chi è questa qua? Perché hai portato qualcuno qua dentro?»
«Gliel'ho già detto. È la donna che ha finito la benzina.» «Questo è stato ieri.»
«No. È stato questa mattina.»
«Be', molte ore fa, comunque. Chi l'ha invitata in camera mia? Chi è stato?»
«Indovini. Lei, ecco chi è stato. Vuole che le massaggi il cuoio capelluto?»
«Non adesso. Come ti chiami, piccina?»
Mavis bisbigliò il suo nome dall'oscurità in cui era immersa.
«Avvicinati. Non vedo niente se non ce l'ho proprio davanti. È come vivere in un guscio
d'uovo.»
«Non le dia retta», disse Connie a Mavis. «Non le sfugge niente.» Avvicinando una sedia al
letto, si sedette, prese la mano della donna e una per una ricacciò indietro le pellicine di ogni
dito storto.
Mavis si avvicinò anche lei al cerchio di luce, e posò una mano sulla spalliera di metallo del
letto.
«È a posto ora? L'automobile funziona?»
«Sì, signora. Va tutto bene. Grazie.»
«Dove sono i tuoi bambini?»
Mavis non riuscì a parlare.
«Qua una volta c'erano molte bambine. Questa una volta era una scuola. Una bella scuola.
Per bambine. Bambine indiane.»
Mavis guardò Connie, ma quando lei la guardò a sua volta, Mavis abbassò rapidamente gli
occhi.
La donna nel letto rise appena. «È difficile, vero», disse, «guardare in quegli occhi. Quando
l'ho portata qua erano verdi come l'erba.»
«E i suoi erano azzurri», disse Connie.
«Lo sono ancora.»
«Lo dice lei.»
«Di che colore sono, allora?»
«Come i miei - del colore annacquato delle vecchie.»
«Dammi uno specchio, piccina.»
«Non le dia niente.»
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«Sono ancora io che comando.»
«Certo. Certo.»
Tutte e tre guardarono le dita brune accarezzare le dita bianche. La donna nel letto sospirò.
«Guarda qua. Non riesco nemmeno a star seduta e sono arrogante fino alla fine. Mi sa tanto
che Dio si sta sbellicando dalle risate.»…
Connie incrociò le mani della Madre sul lenzuolo e fece cenno a Mavis di seguirla. Richiuse
la porta e si avviarono lungo il corridoio.
«Pensavo fosse sua madre. Da come ne parlava, voglio dire, pensavo fosse proprio sua
madre.» Stavano scendendo la scalinata centrale.
«Infatti è mia madre. Anche la sua. Chi è sua madre?»
Mavís non rispose, un po' perché non riusciva a farlo ma anche perché stava cercando di
ricordare dove, in una casa senza elettricità, potesse essere la fonte da cui scaturiva la luce
nella camera della Madre.
L’ultimo giorno Consolata era salita sul letto dietro di lei, aveva gettato per terra i guanciali,
aveva sollevato quel corpo leggero come una piuma e lo aveva stretto tra le braccia e le gambe.
La piccola testa bianca si era accoccolata tra i seni di Consolata, e così la signora era entrata
nella morte come una creatura appena nata, cullata tra le preghiere dalla donna che lei aveva
rapito da bambina. A dire il vero erano tre le bambine rapite, la cosa più facile al mondo nel
1925. Mary Magna, una sorella, a quel tempo, non ancora una madre, si era decisamente
rifiutata di lasciare due piccine sedute in mezzo alla strada tra la spazzatura. Così si era limitata
a tirarle su, le aveva portate all'ospedale in cui lavorava e lavate, in rapida successione, con la
soda, poi con il Glover's Mange, il sapone, l'alcol, un unguento, il sapone, l'alcol e alla fine
aveva passato con cura sulle piaghe la tintura di iodio. Le aveva vestite e, con la complicità
delle altre suore della missione, le aveva portate con sé sulla nave. Erano sei suore americane
di ritorno negli Stati Uniti dopo essere state trattate dall'alto in basso per dodici anni da ordini
portoghesi più antichi e severi. Nessuno aveva fatto domande alle «Sorelle devote agli indiani
e alla gente di colore» mentre pagavano il biglietto ridotto per le tre monelle certamente non
bianche a loro affidate. Perché nel frattempo erano diventate tre, dato che il destino di
Consolata, che aveva già nove anni, era stato deciso all'ultimo momento. Secondo i loro criteri
quel rapimento equivaleva a un salvataggio, poiché qualsiasi tipo di vita quella suora esasperata e
testarda le avesse costrette a fare, sarebbe stata superiore a quella che le aspettava nei vicoli
imbrattati di merda della loro città. Quando erano arrivate a Puerto Lirnón, suor Mary Magna ne
aveva messe due in un orfanotrofio, perché nel frattempo si era innamorata di Consolata.
Saranno stati gli occhi verdi? I capelli color del tè? Forse la sua docilità? Forse la pelle
color fumo, della stessa tinta del tramonto? Se l'era portata dietro, sotto la sua tutela, fino al
luogo in cui quella monaca difficile avrebbe esercitato il suo nuovo incarico: un collegio per
bambine indiane in una desolata regione occidentale del Nordamerica.
10
Erano arrivate nel corso degli ultimi otto anni. La prima, Mavis, durante la lunga malattia della
Madre; la seconda subito dopo la sua morte. Poi era stata la volta delle altre due. Ognuna
aveva chiesto il permesso di restare qualche giorno, ma poi non se n'era mai più andata. Ogni
tanto l'una o l'altra metteva le sue cose .in una piccola borsa malconcia, diceva addio e
sembrava che scomparisse per un po', ma solo per un po'. Finivano sempre col tornare per
rimanere a vivere come topolini in una casa che nessuno voleva, neppure l'ispettore delle
tasse, in compagnia di una donna amante del cimitero. Consolata le guardava attraverso il
bronzo, il grigio o l'azzurro dei suoi vari occhiali da sole e vedeva ragazze a pezzi, ragazze
spaventate, deboli e bugiarde. ………
Non solo non facevano che lo stretto necessario, ma non avevano in programma niente. Al
posto dei progetti avevano tanti desideri, sciocchi desideri infantili.
Mavis parlava incessantemente di modi infallibili per far quattrini: con le arnie, offrendo a
pagamento camera e colazione, vendendo pranzi e cene pronte, aprendo un orfanotrofio. Una
pensava di aver trovato uno scrigno pieno di soldi o di gioielli e voleva una mano per imbrogliare
le altre. Un'altra si martoriava in gran segreto braccia e cosce. Nel desiderio di essere la regina
delle cicatrici, si faceva delle sottili ferite rosse nella pelle con qualunque cosa le capitasse a tiro:
un rasoio, una spilla da balia, uno sbucciapatate. Un'altra aspirava a vivere sul palcoscenico di un
cabaret, in un locale affollato dove poter cantare a occhi chiusi canzoni piene di struggimento.
Consolata ascoltava quei sogni infantili con ovattata indulgenza, mitigata dal vino, poiché non
erano tanto loro a infuriarla quanto quei sussurri d'amore che restavano con lei a lungo dopo che
le donne se n'erano andate. Una dopo l'altra fluttuavano giù per le scale, con in mano una
lampada a cherosene o una candela, simili a vergini che entravano in un tempio o in una cripta, e
si sedevano per terra a parlare di amore come se sapessero tutto. Parlavano di uomini che le
accarezzavano nel sonno; di uomini che le aspettavano nel deserto o presso una sorgente di acqua
fresca; di uomini che un tempo le avevano amate disperatamente o di uomini che avrebbero
dovuto amarle, potuto amarle o voluto farlo.
Sparano prima alla ragazza bianca. Per il resto c'è tempo. Quaggiù non c'è bisogno di
affrettarsi. Sono a diciassette miglia da un paese che ne dista novanta dalla località più
vicina. Nel Convento i posti per nascondersi sono tanti, ma c'è tempo e il giorno è
appena cominciato.
Sono in nove, più del doppio rispetto al numero di donne che sono costretti a mettere in
fuga o ad ammazzare, e hanno con sé l'occorrente per entrambe le esigenze una corda, una
croce di foglie di palma, le manette, uno spray che rende temporaneamente ciechi, occhiali
da sole e armi lucide, belle.
11
Joyce Carol Oates, Uccellino del paradiso, Mondadori, 2011
Aprì la porta socchiusa. Vide immediatamente un corpo femminile seminudo riverso sulla
sponda del letto disfatto, e un braccio insanguinato steso sul pavimento, come a richiamare
l'attenzione.
Dalla sua gola eruppe un grido. Il gemito di un animale ferito, che gli graffiò la gola.
Non urlò il suo nome, Zoe, ma mamma.
Gridò ripetutamente mamma mamma mamma, e non solo in quei momenti ma tante altre
volte, per tutta la vita.
Ricordava quei primi, terribili istanti, quando aveva sentito qualcosa avventarglisi contro,
come la sagoma scura di un pipistrello, sul viso, come se volesse soffocarlo. Fu sul punto di
perdere i sensi, le ginocchia cedettero, sì ritrovò a terra piegato in due a vomitare.
Un caldo vomito acido, un rigurgito che fuoriusciva dalla bocca.
Ecco che significa essere morti. La carne che imputridisce. Ecco che significa essere morti.
Gli era parso di sentire l'odore di lei. Anzi, ne era certo. Nonostante l'aria gelata. Ne era
certo.
Quello che Aaron fece nei minuti successivi non fu rivelato dagli organi d'informazione.
Non corse fuori dalla stanza, come avrebbero fatto altri. Non si precipitò giù per
gridare aiuto. Nemmeno per un attimo gli passò per la mente il pericolo che incombeva
su di lui, se l'assassino o gli assassini di sua madre erano ancora in casa.
Non fece niente di tutto questo. Riuscì a rimettersi in piedi e si avvicinò a sua madre, al
cadavere insanguinato, seviziato, riverso sulla sponda del letto disfatto, grugnendo per lo
sforzo issò il corpo per adagiarlo sul letto, sollevando da terra il braccio rigido. Cercò di
distendere le braccia piegate in una posa grottesca, e di coprire le nudità. Le lenzuola indurite
erano intrise di sangue. Nella stanza faceva molto freddo, si gelava: una finestra era stata
aperta con la forza. Malgrado ciò si avvertiva un inconfondibile puzzo di urina e di feci.
Nonostante lo shock, Aaron si sentiva mortificato e provava vergogna. Non per lui, per Zoe.
Per sua madre, per il suo corpo nudo. Si prova una grande vergogna davanti a un corpo
nudo. E per le urine e le feci che le imbrattavano le cosce. Sul palco, illuminata dai
riflettori, con quel costume scintillante Zoe Kruller appariva splendida, ma il suo corpo
straziato e mutilato era tutto tranne che splendido. Come quell'odore.
Qualcuno aveva lasciato la finestra semiaperta. La neve era caduta dentro. Aaron si trascinò alla
finestra e la spalancò.
Perché? Perché perdere tempo per fare una cosa simile?
Eri impazzito, Aaron? Cosa ti passava per la testa?
La stanza era sottosopra, come inetto di Zoe. Dava l'idea che fosse stata
sistematicamente, deliberatamente messa sottosopra. Era stata teatro di una lotta
furibonda. Il pavimento era cosparso di oggetti caduti. Aaron incespicò in una scarpa
col tacco alto. Un paralume lacerato, una lampada di ceramica infranta. Indumenti intimi,
calze da donna. Un maglioncino sporco, alla rovescia. Un reggiseno color carne strappato,
trasparente come una ragnatela. Fuori dalla finestra la neve appena caduta rifletteva i
raggi accecanti del sole di febbraio, che mettevano a nudo la sudicia carta da parati
chiazzata di sangue. Sembrava che un bambino impazzito avesse schizzato di vernice
rossa le pareti.
Serrato al collo di Zoe, legato intorno alla nuca, c'era un asciugamano inzuppato di sangue.
La donna aveva perso sangue dalla testa, le avevano sfondato il cranio. Avevano
scaraventato a terra gli oggetti posti su un cassettone: una borsetta azzurra di paillettes con
una tracolla dorata, articoli da toilette, un vasetto di borotalco versato. La polvere odorava
di mughetto, Aaron si accovacciò e si mise subito a spargerne manciate sul corpo della
madre e sul letto. Ne cosparse il pavimento e le pareti appiccicose di sangue rappreso. Tirò
su le lenzuola e arrotolò le coperte per coprire il corpo martoriato, vi ammucchiò sopra
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qualsiasi cosa trovasse, ogni oggetto che gli capitava tra le mani brancicanti, e quello che
rimaneva del borotalco.
«Così va meglio. Adesso sì.»
Infine, esausto, uscì dalla stanza….