Trombofilie e gravidanza

Transcript

Trombofilie e gravidanza
2
Periodico
di aggiornamento
professionale
per il Ginecologo
Evidence-based-medicine
Endocrinologia
Menopausa
Clinica quotidiana
Trombofilie e gravidanza: quale approccio
diagnostico e terapeutico?
Amenorrea primaria
nelle adolescenti
Prevenzione e trattamento
dell’osteoporosi
Inquadramento diagnostico e terapeutico
dell’insulino-resistenza in gravidanza
TRANIZOLO
ITRACONAZOLO
nelle Candidosi vulvovaginali
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Posologia: per le candidosi vulvovaginali assumere
2 capsule (200 mg) al mattino e 2 capsule (200 mg)
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Depositato presso AIFA in data 17-04-2009
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d’aria fresca
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N
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G
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ommario
Periodico di aggiornamento professionale
per il Ginecologo n. 2
Registrazione N. 125 del 28 febbraio 2007
presso il Tribunale di Milano
Clinica
Editore
Scienza e società
Hippocrates Edizioni Medico Scientifiche srl
via Vittor Pisani 22 - 20124 Milano
telefono 02.67100800 fax 02.6704311
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di Luciano Sterpellone
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Evidence-based-medicine
Direttore responsabile
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Redazione scientifica
Lella Cusin, Simona Regondi,
Andrea Ridolfi, Rossella Traldi
Progettazione e impaginazione grafica
Marzia Bevilacqua, Giovanni Carella,
Daniela De Martin, Vittorio Resmi
Segreteria di redazione
Isabella Monza
Trombofilie e gravidanza:
quale approccio diagnostico e terapeutico?
4
6
di Lisa Albertini, Fabio Facchinetti, Valentina Vaccaro
Endocrinologia
Amenorrea primaria nelle adolescenti
12
di Gianni Russo, Matilde Ferrario
Coordinamento scientifico
Giovanni Scambia
Hanno collaborato a questo numero
Lisa Albertini, Alberto Bacchi Modena, Fabio
Facchinetti, Matilde Ferrario, Giorgio Mello, Gianni
Russo, Serena Ottanelli, Luciano Sterpellone,
Valentina Vaccaro.
Pubblicità e marketing
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Borghetto Lodigiano - LO
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27 aprile 2009
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Menopausa
Prevenzione e trattamento dell’osteoporosi
22
di Alberto Bacchi Modena
Clinica quotidiana
Inquadramento diagnostico e terapeutico
dell’insulino-resistenza in gravidanza
30
di Giorgio Mello, Serena Ottanelli
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cienza e società
di Luciano Sterpellone - Roma
Buon vino dall’orto
dei Semplici
4
Gli Orti Botanici che a partire
dal Medioevo
erano annessi ai
monasteri per la
coltivazione delle erbe officinali con le quali si
preparavano i
medicamenti,
cominciarono
nel tempo ad ospitare anche i vitigni. Ciò in quanto
i ridenti vigneti italiani e dei Paesi limitrofi rischiavano di estinguersi sotto la pressione delle orde barbariche che - notoriamente - al vino preferivano la
birra, cercando di imporla alle popolazioni soggiogate. Le autorità ecclesiastiche, per assicurarsi almeno il vino necessario alla celebrazione della Messa in
tutte le chiese cristiane, imposero appunto ai religiosi di includere tra le coltivazioni degli orti anche quella della vite.
I frati infirmari non si lasciarono tuttavia sfuggire l’occasione di utilizzare il vino anche come eccipiente dei
medicamenti da loro stessi preparati, tant’è che per
lungo tempo i “vini medicati” godranno ampio favore presso i medici. Di tali vini si trovano ancora abbondanti tracce nei ricettari ufficiali sin quasi alla prima metà del XX secolo.
Ovviamente, non tutto il vino prodotto negli orti dei
Semplici serviva a questi scopi: i religiosi cominciarono ad apprezzare anche il gusto del vino “grezzo”,
cioè non contaminato, servendosene qualche bicchiere in più nelle tediose serate d’inverno, forse nell’intento di prendere alla lettera le parole di Gesù: “Io
sono la vera vite, e il Padre mio è il vignaiolo”.
Anatomia bisex
Nella recente sessione (novembre 2008) del Women, Health and Gender Forum di Madrid, una
relazione ha riguardato l’importante tema (malauguratamente trascurato per secoli!) della...
“pari opportunità” tra i due sessi nei Trattati di
Anatomia. Maria José Barral dell’Università di
Saragoza, che si è occupata a fondo del vitale
problema, ha documentato (con il supporto di
molte delle 17.000 immagini esaminate e l’accurata disamina dei dodici Trattati impiegati nelle venti più autorevoli Università mondiali) che
esiste una imperdonabile e netta discriminazione di ordine razziale e sessuale tra maschio e
femmina. Prevalgono infatti i riferimenti al corpo maschile (di tipo caucasico), mentre quello
femminile e di altre etnie resta tristemente in secondo piano, a meno che non si parli specificamente dell’apparato riproduttore.
La Barral tiene a sottolineare che non si tratta
semplicemente di superficialità da parte degli
autori, ma di un evidente basso maschilismo:
per esempio, quando si tratta di raffigurare il sistema nervoso si prende esclusivamente a modello il corpo maschile, quasi a dire che “le donne non hanno cervello”.
Quante sono le
ossa umane?
Sembrerebbe un calcolo ozioso, perché basterebbe contarle. Eppure i nostri predecessori non
sono mai riusciti a mettersi d’accordo. Gli antichi medici cinesi, per esempio, ne contavano
265, mentre Charaka - uno dei due più famosi
medici indiani - parlava di 360 (compresi i denti e le unghie) e Susruta di sole 300. Secondo il
Talmud, invece, lo scheletro umano contiene 252
ossa, mentre Galeno ne
conta ancor meno (244),
quattro in meno di quante ne conteranno medici di
lingua araba come Albucasis e Avicenna. Ma non
è finita. Nel 1300, Guy de
Chauliac conta nello scheletro umano 245 ossa,
qualcuna meno di quante
ne conterà due secoli dopo Ambroise Paré. Andrea
Vesalio, che dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto, enumera invece 307 ossa, mentre qualche anno prima Gabriele Falloppio parlava di 256, una cinquantina
in meno dei moderni anatomisti. Tanta disparità di vedute si spiega in parte con i criteri seguiti per questo... inventario: per esempio, alcune
ossa - primo tra le quali il sacro - potevano essere considerate come unità a sé stanti, oppure
in base alle singole unità costituenti.
Archeologi beffati
In base ai ritrovamenti negli antichi siti precolombiani si sa oggi che il mais è originario del Sudamerica.
Tale certezza fu però temporaneamente scossa verso la metà del 1800, quando alcuni archeologi reperirono in una tomba egizia alcuni grani di mais.
La cosa suscitò enorme scalpore tra archeologi, paleontologi e storici di tutto il mondo, accendendo
aspre e appassionate discussioni, talora sull’orlo del-
Coloranti
contro batteri
Com’è noto, la scoperta dello storico “Salvarsan 606”
- il primo chemioterapico efficace contro la sifilide fu messo a punto nel 1910 dal grande ricercatore tedesco Paul Ehrlich. Già quand’era studente egli aveva condotto esperimenti con sostanze coloranti i tessuti, un originale tipo di ricerca basato su di un presupposto quantomai logico: per colorare le fibre delle stoffe, i colori devono necessariamente penetrare
e fissarsi stabilmente nelle loro fibre (costituite da cellule), secondo il noto detto latino Corpora non agunt
nisi fixata. Restava quindi da accertare se essi non
fossero anche in grado di fissare - quindi immobilizzare e uccidere - le cellule batteriche. In un primo
tempo Ehrlich mise a punto un composto, il RossoTrypan, efficace nei topi contro il Tripanosoma equinum; poi nel 1910 realizzò (con il giapponese Sahachiro Hata) un composto arsenobenzolico - lo storico “Salvarsan 606” -, così chiamato in quanto il 606°
composto “testato” nelle ricerche.
la lite. Fu a questo punto che, spaventati per la brutta piega che la vicenda stava prendendo, alcuni scavatori si decisero a confessare
che quei grani li avevano messi loro, così, tanto per tirare una burla agli archeologi e
punire quella “scienza” che ostentavano ogni giorno con
tanta superbia.
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EVIDENCE-BASED-MEDICINE
N
O
G
T
rombofilie e gravidanza:
quale approccio diagnostico
e terapeutico?
Il management clinico della trombofilia in gravidanza presenta aspetti
ancora incerti o controversi, soprattutto per quanto riguarda l’impatto
dello stato protrombotico in termini di complicanze gravidiche,
il ruolo dello screening e della tromboprofilassi.
di Lisa Albertini, Fabio Facchinetti, Valentina Vaccaro
Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero Universitaria - Modena
L
6
a trombofilia è una condizione
caratterizzata da un incremento della tendenza a sviluppare
trombosi sia di tipo venoso che di
tipo arterioso e quindi da un’aumentata probabilità di eventi
trombotici come la trombosi venosa profonda (TVP) e l’embolia
polmonare (EP): essa può essere
causata da diversi gruppi di disturbi coagulativi e avere un’origine
congenita, acquisita o mista.
• Forme congenite: le più frequenti sono le mutazioni del fattore II (protrombina) e del fattore V (per esempio, la mutazione di Leiden che si traduce
in una diminuita capacità di
inattivare il fattore V attivato da
parte del sistema della proteina C) e il deficit di anticoagulanti fisiologici come la proteina S, la proteina C e l’antitrombina III. La prevalenza combinata di questi difetti nella popolazione generale supera il 5%1.
• Forme acquisite: la condizione
più comune è la presenza di anticorpi antifosfolipidi (anti-LAC,
anti-cardiolipina).
• Forme miste: in questo contesto
va ricordata, in particolare, l’iperomocisteinemia che può essere causata sia da fattori ambientali che genetici (per esempio,
mutazioni del gene per la metilentetraidrofolato-reduttasi).
Negli ultimi anni è stata suggerita l’esistenza di una stretta associazione tra trombofilia materna
ed esito avverso della gravidanza:
quest’ultima, infatti, comporta, di
per sé, uno stato di ipercoagulabilità fisiologica che aiuta a mantenere la funzione placentare e
contribuisce a ridurre l’emorragia
al momento del parto2.
Poiché a livello placentare si realizza un delicato equilibrio tra fattori procoagulanti e anticoagulanti, la placenta rappresenta un distretto vascolare particolarmente
a rischio: nelle donne trombofiliche questa ipercoagulabilità fisiologica risulta accentuata e può
predisporre alla trombosi e alle
complicanze vascolari placentari.
La conseguente riduzione anatomo-funzionale del letto coriale si
traduce in un’insufficienza vascolare utero-placentare che può favorire l’insorgenza di gravi complicanze ostetriche.
In particolare, le gestanti trombofiliche sembrerebbero esposte a
un aumentato rischio di preeclampsia, insufficienza placentare cronica con restrizione di crescita fetale (FGR), insufficienza placentare acuta con morte endouterina
fetale (MEF) e distacco intempestivo di placenta normalmente inserita (DIPNI).
Questo gruppo di complicanze si
presenta in più di una gravidanza su 6 e spesso produce conseguenze devastanti per la donna,
la famiglia e la società3.
EVIDENCE-BASED-MEDICINE
le non solo allo stato di ipercoagulabilità, che può condurre a microtrombosi
placentare, ma anche a un’alterazione
dei meccanismi di
differenziazione trofoblastica 6,7.
Sta diventando infatti evidente un’importante azione
reciproca tra attivazione della coagulazione/fibrinolisi e lo sviluppo
placentare, particolarmente attraverso meccanismi infiammatori che potrebbero essere indipendenti dalla trombosi7,8. In effetti,
studi condotti su modelli animali hanno dimostrato come il sistema emostatico giochi un importante ruolo nello sviluppo placentare e fetale8-10.
La gravità delle manifestazioni cliniche, e la probabilità che esse si
verifichino, dipendono da quanto precocemente s’instaurano le
lesioni placentari, da quanto rapidamente si realizzano i fatti
trombotici e dal grado di interessamento del letto placentare.
Queste variabili, a loro volta, potrebbero essere influenzate dal tipo di trombofilia materna, dalla
contemporanea presenza di fattori ambientali (per esempio, infezioni/infiammazioni degli annessi fetali) e, secondo ipotesi più
recenti, dall’eventuale presenza
di trombofilia anche nel feto.
La gravidanza
è associata a uno stato
di ipercoagulabilità
fisiologica
Fisiopatologia
dello stato coagulativo
in gravidanza
Durante la gravidanza viene modificato il delicato equilibrio tra
fattori anticoagulanti e procoagulanti proprio dell’emostasi. In particolare, si osserva un marcato incremento dell’attività procoagulante in seguito all’aumento di
quasi tutti i fattori della coagulazione, del fibrinogeno e del fattore di Von Willebrand. Per contro, il fisiologico sistema anticoagulante diventa meno efficiente
in seguito a un’aumentata resistenza alla proteina C attivata nel
II e III trimestre e a una riduzione
dell’attivazione della proteina S2,
inoltre l’attività fibrinolitica risulta compromessa.
Al momento del parto si assiste a
un’ulteriore accentuazione di questa ipercoagulabilità fisiologica,
dovuta alla liberazione di sostanze tromboplastiniche.
Segni di consumo piastrinico, diminuzione dell’antitrombina e aumento dei prodotti di degradazione del fibrinogeno sono pertanto comuni dopo il parto, soprattutto se espletato per via laparotomica, e possono persistere per
alcune settimane.
Il puerperio rappresenta quindi un
fattore di rischio; non a caso, molti eventi trombotici si verificano in
questo periodo più che in tutto il
resto della gravidanza.
Trombofilia e circolo
placentare: quali
correlazioni?
La placenta, per le peculiari caratteristiche emodinamiche del circolo a livello degli spazi intervillosi, sembrerebbe giocare nelle
gestanti trombofiliche un ruolo
cruciale nell’eziopatogenesi degli
eventi ostetrici avversi.
In particolare, è stato ipotizzato
che l’inadeguata invasione della
circolazione materna da parte del
trofoblasto e il danno alle arterie
spirali possano determinare una
riduzione del flusso e modificazioni protrombotiche a livello della parete dei vasi4 e che tutto ciò
possa portare a eventi ostetrici avversi placenta-mediati. La bassa
pressione del sistema utero-placentare può essere così suscettibile di complicazioni trombotiche
in casi di ipercoagulabilità.
In effetti, le placente di donne
trombofiliche con complicazioni tardive della gravidanza presentano più frequentemente
quadri istologici perlopiù riconducibili a un eccessivo deposito di fibrina e a trombosi
dei vasi placentari5.
Tuttavia, secondo
una recente ipotesi,
l’insufficienza placentare che spesso
si riscontra nelle
donne trombofiliche
sarebbe riconducibi-
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La placenta gioca
un ruolo fondamentale
nello sviluppo di eventi
ostetrici avversi
7
EVIDENCE-BASED-MEDICINE
N
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G Trombofilia ed eventi
ostetrici avversi
Sebbene numerosi studi abbiano
esaminato l’associazione tra trombofilia congenita ed eventi ostetrici avversi, non sono state ancora delineate chiare conclusioni. Infatti, se alcuni di questi lavori mostrano l’esistenza di una relazione positiva tra eventi ostetrici avversi e trombofilia, altri non individuano alcuna correlazione.
Alcuni dei più citati studi che hanno documentato l’esistenza di associazioni positive sono limitati
da casistiche ridotte e da outcome compositi11,12; inoltre, i fattori confondenti sembrano essere
numerosi13. Alcune metanalisi di
studi caso-controllo1 suggeriscono un’aumentata prevalenza di
trombofilia ereditaria in donne
con preeclampsia, FGR, distacco
intempestivo di placenta, aborti
e morti fetali, rispetto a quanto
osservabile in donne con gravidanze non complicate; tuttavia,
alla luce delle considerazioni sopraesposte, l’interpretazione di
questi risultati deve essere cauta
(tabella 1). Qui di seguito verranno esaminate, nello specifico, le
evidenze pubblicate in letteratura per ogni singola complicanza
ostetrica.
FGR
La trombofilia si associa a quadri
anatomopatologici caratterizzati
da microtrombosi placentare, con
conseguenze quali necrosi e infarti placentari; per questo motivo, una correlazione fisiopatologica tra trombofilia e FGR è teoricamente plausibile. Tuttavia, i
pochi studi presenti in letteratura mostrano come tale associazione sia debole14 o addirittura inesistente15,16.
Un’importante metanalisi pubblicata nel 200517 ha evidenziato un lieve incremento del rischio
di sviluppare un FGR in donne
con mutazione del fattore V Leiden (FVLeiden) in eterozigosi o del
gene della protrombina 20210;
gli stessi autori raccomandano però cautela nell’interpretazione dei
risultati, visto il limitato numero
di trial esaminati (dieci), la ridot-
ta casistica e l’assenza di studi prospettici disponibili (tabella 1).
Risultati contrastanti emergono
invece da uno studio caso-controllo del 200215, confermato dagli stessi autori nel 200516, in cui
si evidenzia la mancanza di associazione. Analogamente, l’unico
studio di coorte sufficientemente
ampio presente in letteratura18 ha
correlato FGR e la mutazione
FVLeiden con un RR pari a 0,9.
Dalla revisione della letteratura
non emerge quindi una chiara correlazione tra trombofilia materna
e FGR.
Preeclampsia
Diversi studi hanno indagato la
possibile associazione tra trombofilia materna e preeclampsia, ma
anche in questo caso i risultati non
sono sempre omogenei; inoltre, la
maggior parte di essi trae conclusioni valide solamente per alcune
forme di trombofilia congenita, in
particolare per la mutazione del
fattore V di Leiden in eterozigosi
o della protrombina 20210.
Una recente metanalisi19 ha pre-
Tabella 1 Associazione tra trombofilia ereditaria ed eventi ostetrici avversi: metanalisi di studi osservazionali
Fattore V
Leiden
Protrombina
G20210A
Deficit
di proteina C
Deficit
di proteina S
Deficit
di antitrombina
Morte fetale
OR (IC 95%)
Aborto ricorrente
OR (IC 95%)
Distacco placenta
FGR
OR (IC 95%)
OR (IC 95%)
Preeclampsia
OR (IC 95%)
3,26 (1,82-5,83)
2,0 (1,5-2,7)
6,7 (2,0-21,6)
2,7 (1,3-5,5)
2,19 (1,46-3,27)
2,3 (1,09-4,87)
2,0 (1,0-4,0)
7,71 (3,01-19,76)
2,5 (1,3-5,0)
2,54 (1,52-4,23)
1,41 (0,96-2,07)
1,57 (0,23- 10,54)
--
--
21,5 (1,1-414,4)
7,39 (1,28-42,83)
14,72 (0,99-218,01)
0,3 (0-70,1)
10,2 (1,1-91)
12,7 (4,0-39,7)
--
--
4,1 (0,3-49,9)
--
7,1 (0,4-117,4)
Rodger MA et al, Obstet Gynecol 2008
8
EVIDENCE-BASED-MEDICINE
so-controllo condotto
nel 2005 su una popolazione caucasica25,
ha evidenziato una
netta prevalenza di
condizioni trombofiliche, sia congenite che
acquisite, nelle pazienti con preeclampsia severa rispetto ai
controlli (tabella 2).
Il medesimo studio ha riscontrato anche una prevalenza significativamente più alta di complicazioni ostetriche (distacco intempestivo di placenta, insufficienza
renale acuta, parto prematuro e
morte perinatale) tra le preeclamptiche trombofiliche rispetto alle
preeclamptiche non trombofiliche. Uno studio multicentrico di
coorte di recente pubblicazione26
che ha arruolato 172 pazienti ha
dimostrato un elevato rischio di
ricorrenza della preeclampsia
(OR=2,5 IC 95% 1,2-5,1) nelle pazienti con difetti trombofilici rispetto ai controlli.
La trombofilia materna
è associata
a preeclampsia grave
so in considerazione 47 studi caso-controllo, per un totale di
7.522 casi, dimostrando l’esistenza di una correlazione tra preeclampsia severa e l’eterozigosi sia
dell’ FVLeiden che della protrombina 20210 (tabella 2).
Questi dati sono in linea con altre revisioni e metanalisi14,20 riguardanti soprattutto la preeclampsia
e la sindrome HELLP21,22; per alcune di queste, però, la correlazione è solo debolmente positiva23
(OR=1,6 IC 95% 1,2–2,1).
Sono comunque da ricordare
esperienze contrastanti24.
Un ampio studio multicentrico ca-
Tabella 2 Associazione tra trombofilia ereditaria e preeclampsia
grave e moderata
Fattore V
Lin J et al*
(PE grave)
Mello G et al**
(PE grave)
Mello G et al**
(PE moderata)
Fattore II
Lin j et al*
(PE grave)
Mello G et al**
(PE grave)
Mello G et al**
(PE moderata)
Casi/controlli
OR
1.135/1.471
2,24
(1,28-3,94)
5,2
(2,9-9,8)
1,0
(0,42-2,32)
406/406
402/402
325/533
406/406
402/402
* Lin J et al, Obstet Gynecol 2005
1,98
(0,94-4,17)
6,0
(2,7-14,1)
3,3
(1,1-10,3)
** Mello G et al, Hypertension 2005
Tutti i dati della letteratura, aldilà
delle disomogeneità cliniche, suggeriscono pertanto l’esistenza di
una chiara associazione tra trombofilia materna e preeclampsia di
tipo severo; l’associazione con le
forme lievi-moderate (anche tardive) di preeclampsia appare, invece, molto dubbia. Un’ipotesi accreditata è che la trombofilia materna sia un fattore peggiorativo
e non causale dello stato preeclamptico.
N
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Aborto e morte fetale
endouterina
Prima di esaminare gli studi sulla
correlazione tra trombofilia materna e morte fetale endouterina occorre premettere che un’importante limitazione alla base della loro
interpretazione riguarda la definizione di aborto e morte fetale in
relazione all’epoca gestazionale
poiché essa differisce ampiamente a livello internazionale e questo
condiziona sicuramente la possibilità di trarre conclusioni univoche.
Dalla letteratura sembra emergere una netta differenza tra aborti precoci e perdite fetali tardive e
ricorrenti. Infatti, prima delle 10
settimane di gestazione, non pare sussistere alcun tipo di associazione27, probabilmente a causa
dello sviluppo embriogenetico del
sistema vascolare28: prima delle 810 settimane esiste per l’embrione la vascolarizzazione del sacco
vitellino e solo successivamente si
sviluppa un contatto tra circolazione materna e fetale; appare
perciò improbabile che la trombofilia materna possa danneggiare lo sviluppo embrionale in epoche gestazionali così precoci.
Le evidenze sono invece consistenti per le perdite fetali dopo le
10 settimane di gestazione 29-32,
9
EVIDENCE-BASED-MEDICINE
N
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G
sebbene esistano anche studi con
risultati negativi33. In particolare,
secondo un lavoro di Robertson
e Wu32, l’aumentato rischio di perdite ricorrenti alla fine del primo
trimestre sarebbe associato a donne con mutazioni FVLeiden (OR
1,91; IC 95% 1,01-3,61), varianti del gene della protrombina (OR
2,7; IC 95% 1,82-14,01) o elevati livelli di omocisteina (OR 4,21;
IC 95% 1,28-13,87). La mutazione FVLeiden (OR 4,12; IC 95%
1,93-8,81) e la variante G202110A
della protrombina (OR 8,60; IC
95% 2,18-33,95) sarebbero inoltre associate a perdite fetali non
ricorrenti nel secondo trimestre;
tali correlazioni sono state confermate anche da un altro studio34.
Un’ampia metanalisi pubblicata
nel 200334 ha evidenziato che la
mutazione FVLeiden è associata a
un aumentato rischio di morte fetale (OR 7,83; IC 95% 2,8321,67). Secondo lo stesso studio
in queste morti endouterine si osserva frequentemente un deficit
materno di proteina S (OR 7,39;
IC 95% 1,28-42,63) mentre la resistenza alla proteina C attivata
rappresenta una condizione di aumentato rischio per morti fetali
precoci e/o ricorrenti. La correlazione tra trombofilia e perdite fetali sembra più evidente nei casi
di perdite ricorrenti35,36, sia aborti
che morti fetali 37.
Distacco di placenta
Diversi lavori di revisione sistematica pubblicati in letteratura evidenziano l’esistenza di un’associazione significativa tra distacco
intempestivo di placenta normalmente inserita e mutazione in eterozigosi dell’FVLeiden e della protrombina14,23,32. Tuttavia, la reale
correlazione tra questi elementi
potrebbe essere influenzata dalla
presenza di numerosi fattori confondenti, come, per esempio,
l’ipertensione cronica38,39; inoltre
spesso le casistiche non sono ampie23,32 e il distacco di placenta è
osservato all’interno di quadri clinici tipici dei più comuni eventi
ostetrici avversi, quali preeclampsia, FGR e perdita fetale. Esiste
però anche un interessante lavoro che dimostra una prevalenza
di trombofilia congenita aumentata anche in pazienti nelle quali
il distacco di placenta non è associato a preeclampsia40.
In definitiva, la letteratura sembra
suggerire che le forme più comuni di trombofilia congenita, quali
le mutazioni FVLeiden e della protrombina, risultano associate a un
rischio aumentato di incidenti placentari acuti, tra cui il distacco intempestivo di placenta.
Conclusioni
I dati della letteratura di questi ultimi anni indicano in modo abbastanza chiaro che la trombofilia
rappresenta un fattore di rischio
per alcune complicazioni della gravidanza. Nello specifico, però, i risultati degli studi non sono univoci e in parecchi casi la numerosità dei campioni non è così convincente: l’unica forte evidenza è
l’associazione tra trombofilia congenita materna e preeclampsia severa. Anche il distacco di placenta e la morte endouterina sembrano associati alla presenza di
trombofilia materna, anche se con
minor impatto. Le evidenze scientifiche circa la tromboprofilassi con
eparine a basso peso molecolare
non sono al momento sufficienti9, ma sono attualmente in corso
alcuni studi clinici randomizzati a
livello internazionale i cui risultati forniranno specifiche indicazioni in merito al trattamento clinico. Anche le raccomandazioni per
lo screening non sono ancora supportate da livelli di evidenza significativi33; attualmente sono disponibili indicazioni più chiare per lo
screening e la tromboprofilassi in
caso di sindrome da anticorpi antifosfolipidi.
Bibliografia
10
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ENDOCRINOLOGIA
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A
menorrea primaria
nelle adolescenti
Un corretto inquadramento clinico deve sempre prevedere,
oltre a un’accurata anamnesi, un minuzioso esame obiettivo
e la valutazione del quadro ormonale anche al fine di escludere
patologie rimaste misconosciute fino all’età peripuberale.
di Gianni Russo, Matilde Ferrario
Centro di Endocrinologia dell’infanzia e dell’adolescenza, Università Vita-Salute San Raffaele - Milano
P
12
er amenorrea primaria si intende, come noto, l’assenza del
menarca e dei caratteri sessuali
secondari in età >13 anni oppure assenza del menarca in presenza dei caratteri sessuali secondari a 15 anni di età.
L’American Academy of Pediatrics
e l’American College of Obstetrician and Gynecologists hanno indicato come meritevoli di valutazione le seguenti condizioni che
non rientrano strettamente nella
definizione di amenorrea primaria:
• assenza del menarca a >3 anni
dalla comparsa di telarca;
• assenza del menarca all’età di
14 anni in presenza di:
■ sospetto di disturbo dell’alimentazione o esercizio fisico
intenso;
■ segni di irsutismo;
■ sospetto di ostruzione o malformazione a livello genitale.
Un approccio clinico valido può
essere quello di considerare l’ame-
norrea come espressione di una
patologia organica o funzionale
a carico dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi: secondo questo criterio, a seconda del livello in cui si
ha la patologia, si può distinguere tra ipogonadismo normogonadotropo/ipergonadotropo/ipogonadotropo e iperprolattinemie, tenendo presente che le cause di
amenorrea primitiva e secondaria
(assenza delle mestruazioni da più
di 4-6 mesi) non hanno sempre
una netta demarcazione.
Ipogonadismo
normogonadotropo
Malformazioni utero-vaginali.
Esse possono condizionare l’assenza della mestruazione per la
mancanza di tessuto mucoso uterino o per l’impossibilità alla fuoriuscita del flusso mestruale; le pa-
zienti hanno normale anatomia e
funzionalità ovarica, normali livelli di gonadotropine ipofisarie e un
adeguato sviluppo dei caratteri
sessuali secondari.
Le anomalie congenite possono
interessare il tratto genitale inferiore (vagina, cervice uterina) e
ostacolare la fuoriuscita di sangue; in tali situazioni vi è il rischio
che il flusso mestruale si raccolga
nella cavità uterina (ematocolpo):
• imene imperforato;
• setti vaginali trasversali;
• aplasie vaginali parziali/totali;
• aplasia cervicale.
Le malformazioni a carico dell’utero sono responsabili di circa il 15%
dei casi di amenorrea primaria:
nella sindrome di Rokitansky (frequenza 1:4.500 bambine nate) è
presente agenesia completa dell’utero e dei 2/3 superiori della vagina. Vi sono due forme, la tipo I
(isolata) e la tipo II (associata a displasia renale e anomalie verte-
ENDOCRINOLOGIA
ti chimici o fisici, a cause infettive
(malattia tubercolare, oggi rara).
brali); la maggior parte dei casi è
sporadica, ma sono stati descritti casi familiari per cui è stata ipotizzata una trasmissione autosomica dominante con penetranza
incompleta ed espressività variabile. Le pazienti in assenza di adeguata correzione chirurgica possono presentare difficoltà o impossibilità ad avere rapporti sessuali e non sono fertili.
L’assenza completa dell’utero associata ad amenorrea si riscontra
anche nella sindrome da insensibilità completa agli androgeni
(CAIS), la cui diagnosi non di rado viene posta in ragazze adolescenti che presentano amenorrea.
Clinicamente in questi casi si osserva un fenotipo femminile con
presenza di scarsa peluria pubica
e ascellare e ghiandola mammaria normoestrogenizzata; è caratterizzata dall’assenza sia di utero
che di ovaie e dalla presenza di
gonadi maschili (testicoli) ritenute in addome o a livello inguinale; il cariotipo è maschile normale (46XY). La sindrome è dovuta
a un’alterazione del gene del recettore per gli androgeni e le indagini di laboratorio mostrano elevati valori di testosterone per il sesso femminile a fronte dell’assenza di segni clinici di virilizzazione.
Le malformazioni acquisite possono essere formazioni di sinechie
uterine conseguenti a revisioni/interventi di chirurgia ginecologica
(sindrome di Asherman), ad agen-
L’anovulazione da iperandrogenismo può essere:
• di origine ovarica (tumori androgeno-secernenti, sindrome
dell’ovaio policistico);
• di origine surrenalica (tumori
surrenalici, sindrome di Cushing,
forma non classica di iperplasia
surrenalica congenita, CAH-NC);
• da aumento della frazione libera di testosterone (patologie tiroidee).
La sindrome dell’ovaio policistico
(PCOS) è un’endocrinopatia caratterizzata da oligoanovulazione e
iperandrogenismo e, in molti casi,
da alterato rapporto LH/FSH (con
aumento di LH e rapporto >1,5).
Clinicamente il disturbo dell’ovulazione si manifesta con oligomenorrea e, in una minor parte, amenorrea (24%); i segni
di iperandrogenismo
sono acne e irsutismo. Spesso si tratta
di pazienti obese con
insulino-resistenza e
tendenza a sviluppare diabete mellito di
tipo II.
Attualmente, non vi
è una completa univocità sulla diagnosi
di PCOS nella donna
adulta e nell’adolescente. Tuttavia, una
recente consensus (Rotterdam,
2003) ha stabilito che la presenza di almeno 2 dei seguenti criteri permette di porre diagnosi di
PCOS nelle pazienti adulte: 1) presenza di caratteristiche ecografiche di ovaio policistico; 2) oligoanovulazione; 3) iperandrogenismo clinico o biochimico. La forma non classica di iperplasia surrenalica congenita (CAH-NC) può
presentarsi con caratteristiche cliniche sovrapponibili alla PCOS
quali l’irsutismo, l’acne, l’amenorrea. Anche i valori ormonali
di gonadotropine e androgeni
possono essere sovrapponibili; la
diagnosi definitiva si pone riscontrando valori patologici di 17OHP basali o dopo stimolo con
ACTH; la ricerca di mutazioni del
gene CYP21 può confermare la
diagnosi.
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Ipogonadismo
ipergonadotropo:
sindromi primitive
ovariche
Un deficit primario della funzione
ovarica (in cui il patrimonio follicolare può essere conservato o
meno) si associa a persistenti va-
L’amenorrea primaria
può essere considerata
come il sintomo
di una patologia organica
o funzionale che interessa
l’asse ipotalamo-ipofisigonadi
lori elevati di gonadotropine.
La disgenesia gonadica è una compromissione più o meno grave delle gonadi fetali, spesso associata
ad alterazioni cromosomiche. La
sindrome di Turner (il cariotipo
45X0 è il più frequente) è una forma di disgenesia gonadica caratterizzata dalla presenza di streak
gonads, ovvero gonadi con aspetto a banderella o masserelle costi-
13
ENDOCRINOLOGIA
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tuite da tessuto fibrotico, generalmente privo di ovociti, la cui deplezione inizia già dalla 18a settimana gestazionale in utero.
La secrezione delle gonadotropine delle bambine affette dalla sindrome di Turner è parallela a quella delle bambine con gonadi normali, ma molto più amplificata
per l’assenza del feedback negativo da parte degli estrogeni; nelle ragazze adolescenti si riscontrano pertanto valori elevati di LH
e di FSH.
rian Failure, POF) è una condizione caratterizzata da amenorrea
primaria o secondaria, ipoestrogenismo e aumento delle gonadotropine prima dei 40 anni di
età. La frequenza per le donne
<20 anni è approssimativamente
di 1:10.000 e, sebbene siano state ipotizzate diverse cause all’origine di tale patologia, le evidenze degli ultimi anni sono più a favore di un’eziologia multifattoriale, mentre cause quali il fumo
e lo stress non sono mai state ben
definite quali possibile origine di POF.
L’elevata frequenza
di casi familiari (3050%) suggerisce
una forte componente genetica della
patologia, ma nel
90% delle donne
con POF non viene
identificata l’origine.
Tra le cause note di
POF vi sono:
Cause iatroge•
ne: trattamenti radio-chemioterapici in giovani
donne possono compromettere l’ovulazione causando inizialmente una fluttuazione della
funzione ovarica fino alla totale deplezione degli ovociti. La
fase di fluttuazione può corrispondere a un’oscillazione dei
valori di FSH e il fallimento ovarico è confermato dalla presenza di valori di FSH costantemente elevati.
• Autoimmunità: la presenza di
anticorpi anti-ovaio isolata o in
associazione ad altre patologie
autoimmuni (per esempio, sindrome polighiandolare autoimmune, APECED) può spiegare
fino al 40% dei casi di POF.
• Diverse mutazioni geniche studiate sono state associate a POF
L’impostazione
di un corretto iter
diagnostico non può
prescindere da un’accurata
anamnesi familiare
e personale e dall’esame
obiettivo
14
Clinicamente, oltre ai dismorfismi
caratteristici della sindrome che
possono essere presenti in modo
variabile (pterigium colli, impianto basso dei capelli alla nuca, torace a scudo, teletelia, cubito valgo, brevità degli arti rispetto al
tronco) e alla bassa statura, queste pazienti non hanno in genere uno sviluppo spontaneo della
ghiandola mammaria per la carenza di estrogeni, mentre presentano una normale comparsa
e progressione della peluria pubica e ascellare. Nel 95% delle
pazienti viene riscontrata amenorrea primitiva, mentre solo in
una minima percentuale è stata
osservata la comparsa di un ciclo
mestruale spontaneo. La menopausa precoce (Premature Ova-
e ne spiegano complessivamente una piccola frazione di casi;
tra queste vi sono i geni per il
recettore di FSH e LH, il gene
BMP15 espresso nelle cellule
germinali che interviene nella
follicologenesi, alcuni fattori trascrizionali che regolano l’espressione dei geni per la maturazione dell’ovocita (FOXL2, NOBOX). Altri geni sono stati studiati, ma la loro associazione
con POF non è stata definitivamente dimostrata. La premutazione del gene FMR1 responsabile della sindrome dell’X Fragile (cioè espansioni della tripletta CGG tra 55 e 199, considerando la normalità <30 e la
mutazione vera e propria che
causa la sindrome >200) è riscontrata nel 5% dei casi di
POF, mentre il 13-15% delle
portatrici di premutazione sviluppa POF.
• Riarrangiamenti cromosomici
che coinvolgono il cromosoma
X sono stati i più studiati in ragione anche dell’associazione
di POF con la sindrome di Turner (in cui la deplezione ovocitaria inizia già in utero) e con la
sindrome dell’X Fragile (dovuta a mutazione sul cromosoma
X). Essi hanno evidenziato la
presenza di una regione critica
sul braccio lungo del cromosoma X, che è molto estesa; a tal
ENDOCRINOLOGIA
proposito è attualmente in corso la sperimentazione di nuove tecniche per l’identificazione dei geni del cromosoma X
responsabili del fenotipo delle
monosomie.
Ipogonadismo
ipo-normogonadotropo:
sindromi centrali
da cause ipotalamoipofisarie
Patologie organiche o funzionali a carico del sistema nervoso
centrale (SNC) possono essere
causa di amenorrea e si associano a valori bassi o normali di gonadotropine.
Le patologie organiche del SNC a
carico dell’ipotalamo o dell’ipofisi possono essere deficit di sviluppo, lesioni di origine tumorale (per
esempio, craniofaringioma), lesioni infettive o infiammatorie, malattie degenerative croniche.
I disturbi funzionali del SNC si instaurano attraverso un meccanismo regolato dall’ipotalamo; tra
le cause più frequenti si riconoscono lo stress psicogeno, l’anoressia, il calo ponderale, la pratica di sport a elevato livello di competizione; anche alcune malattie
croniche non ben controllate possono causare amenorrea con un
meccanismo centrale (epatopatie,
insufficienza renale, diabete, malattia infiammatoria intestinale,
celiachia, patologia tiroidea).
Per quanto riguarda i disturbi alimentari è bene precisare che restrizioni nella dieta possono portare ad amenorrea di origine ipotalamica anche in presenza di un
normale peso corporeo; inoltre,
circa il 20% delle pazienti con
anoressia nervosa sviluppa amenorrea prima di arrivare a un importante calo ponderale. Le pazienti con bulimia, invece, presentano più raramente irregolarità del
ciclo mestruale.
L’ipogonadismo ipogonadotropo
congenito isolato (Isolated Hypogonadotropic Hypogonadism, IHH)
è una condizione caratterizzata da
assenza totale o parziale di secrezione di gonadotropine per difetto ipofisario o ipotalamico. Vi sono pertanto bassi valori di estradiolo circolante con
normali o bassi livelli
di LH e di FSH; non
sono presenti alterazioni anatomiche ipotalamo-ipofisarie né
difetti di funzione dei
restanti assi.
Alcune mutazioni geniche (a carico del recettore del GnRHGPR54- e del suo ligando) sono associate a questo difetto,
ma si riscontrano solo in una ridotta percentuale di casi. L’associazione di ipogonadismo ipogonadotropo e anosmia è denominata sindrome di Kallman, in cui sono state riscontrate diverse alterazioni
geniche: mutazioni a carico del gene KAL1 (situato su Xp22.3) a trasmissione X-linked; mutazioni e
delezioni del gene FGFR1 a trasmissione autosomica dominante;
mutazioni di PROKR2 o del suo ligando PROK2. La sindrome di Kallman è più frequente nei maschi
rispetto alle femmine, nelle quali
si riscontra in 1:50.000. Alla base
della sindrome vi è un deficit di migrazione dei neuroni olfattori e
GnRH. La diagnosi è definita con
indagine genetica e riscontro neuroradiologico dell’assenza dei bulbi olfattori.
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Iperprolattinemie
L’iperprolattinemia (PRL) interferisce con la funzione mestruale in
due modi:
1. con l’aumento del tono dopaminergico-oppiaceo, che determinerebbe una ridotta pulsatilità
delle gonadotropine, soprattutto
dell’LH;
2. con l’inibizione della steroidogenesi ovarica.
L’approccio clinico
è improntato a riconoscere
possibili patologie
rimaste misconosciute
fino all’età peripuberale
Nella maggior parte delle ragazze puberi l’iperprolattinemia si accompagna a quadri clinici sfumati e raramente si accompagna a
galattorrea; spesso in queste adolescenti si ha un normale inizio e
progressione dello sviluppo dei caratteri sessuali secondari; in alcuni casi, invece, si ha un ritardo dello sviluppo puberale.
Nei soggetti con iper-PRL si riscon-
15
ENDOCRINOLOGIA
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trano valori di LH, FSH ed estrogeni nei range di normalità, con
riduzione dei picchi secretori di
LH, poiché il feedback negativo
dell’estradiolo sull’LH è conservato, mentre scompare il feedback
positivo.
Vi sono alcuni fattori o situazioni
fisiologiche che possono causare
ipersecrezione transitoria di PRL:
stress, esercizio fisico, sonno, ipoglicemia, stimolazione del capezzolo, gravidanza, post-partum, periodo neonatale (2-3 mesi). Inoltre, le variazioni di pulsatilità circadiana della PRL sono molto ampie (fino al 100%); per tale motivo il dosaggio della PRL deve essere effettuato almeno su 3 prelievi venosi in tempi diversi. Il riscontro di livelli persistentemente
elevati di PRL merita un approfondimento diagnostico.
L’approccio clinico
Anamnesi
ed esame obiettivo
L’anamnesi e l’esame clinico permettono un primo inquadramento della paziente, in particolare è
opportuno indagare:
• anamnesi familiare: difetti genetici, tempi dello sviluppo puberale (ritardo costituzionale di
pubertà), caratteristiche dei cicli mestruali, familiarità per menopausa precoce, sterilità o patologie autoimmuni;
• anamnesi personale: situazione di stress, esercizio fisico intenso (sport agonistici), importanti variazioni del peso corporeo o continue oscillazioni (sia
perdita che aumento), abitudini alimentari patologiche (anoressia o bulimia nervosa), patologie croniche, uso di farmaci o droghe, chemio/radioterapia
(possibile danno al
SNC o alle gonadi),
se presente tempo
di inizio dello sviluppo puberale e sue
caratteristiche, attività sessuale (possibile gravidanza);
• esame obiettivo: peso, altezza,
BMI, curva di crescita e stadio
puberale per valutare se rallentamento della crescita, eccessiva magrezza o sovrappeso,
presenza o meno di iniziali segni di sviluppo puberale e segni di estrogenizzazione (presenza di ghiandola mammaria);
ricerca di eventuali dismorfismi
(escludere sindrome di Turner),
ricerca di eventuali segni di virilizzazione (ipertrofia clitoridea), segni di ipercorticismo,
Impostare un adeguato
follow-up clinico
e terapeutico o evidenziare
la presenza di malattie
intercorrenti e rimuoverne
se possibile le cause
16
Cause patologiche di iperprolattinemia sono tumori ipofisari (prolattinomi e pseudoprolattinomi),
patologie ipotalamo-ipofisarie, endocrinopatie (ipotiroidismo primario, policistosi ovarica), lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, insufficienza renale cronica. L’utilizzo di alcuni farmaci o
sostanze comporta, per il loro
meccanismo d’azione, un aumento dei livelli di prolattina (per esempio, antidopaminergici, antidepressivi serotoninergici, oppioidi).
segni di ipo/ipertiroidismo, presenza di acne o irsutismo, caratteristiche dei genitali (per
esempio, evidenza di sinechie),
galattorrea, disturbi della vista,
sintomi vasomotori (menopausa precoce), ipo-anosmia (sindrome di Kallman).
Indagini di laboratorio esami strumentali
Per poter porre una corretta diagnosi, dopo l’esame clinico è necessario sottoporre la paziente a
valutazioni laboratoristiche e strumentali (tabella 1).
In particolare, gli accertamenti
necessari in prima battuta sono
il dosaggio di gonadotropine,
prolattina, TSH, che permettono
di effettuare una prima importante distinzione nelle 4 categorie. Il dosaggio dell’estradiolo può
essere utile, ma non dirimente
nella maggior parte dei casi.
L’ecografia pelvica permette di valutare la presenza di malformazioni dell’utero o del tratto genitale
inferiore (sindrome di Rokitanski
o agenesia parziale o totale dell’utero, setti vaginali), le caratteristiche delle gonadi (ovaie fibrotiche o streak gonads, tipiche della sindrome di Turner, ovaio policistico, presenza di masse tumorali, presenza di gonadi maschili
in scavo pelvico, come nella sindrome da insensibilità agli androgeni). Il riscontro di elevati valori di LH e di FSH deve orientare
verso un difetto ovarico; a questo punto è necessario eseguire
un’analisi del cariotipo per escludere la sindrome di Turner.
In presenza di normale cariotipo
e normale anatomia degli organi genitali interni si deve approfondire lo studio indagando le
possibili e finora note cause di
ENDOCRINOLOGIA
POF: studio dell’autoimmunità
con ricerca degli anticorpi antiovaio; studio della funzionalità
surrenalica per escludere un deficit di 17-alfa idrossilasi; ricerca
di alterazioni genetiche; sindrome dell’X-fragile. Il riscontro di
bassi valori di gonadotropine
orienta verso una patologia del
SNC a carico del tratto ipotalamo-ipofisario o verso forma di
ipogonadismo transitorio secondario a patologie organiche (ce-
liachia, malattie renali, ipotiroidismo, ipercorticismo, patologie
cardiache ecc.).
La RM dell’encefalo permette di
escludere patologie organiche
(tumori) o di evidenziare agenesia dei bulbi olfattivi (come nella
sindrome di Kallman). Il test da
stimolo con LHRH analogo preferibile al test con LHRH permette di valutare la risposta delle gonadotropine e di orientare la diagnosi verso un ipogonadismo ipo-
gonadotropo o un ritardo costituzionale di pubertà. Il test con
medrossiprogesterone acetato
(MAP test) può essere utile e
complementare nella diagnosi di
amenorrea ipotalamica funzionale: la comparsa di sanguinamento simil-mestruale (test positivo)
indica la produzione di estrogeni e, quindi, la presenza di una
parziale funzionalità ovarica. Il riscontro di normali livelli di gonadotropine necessita dell’indagi-
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Tabella 1 Approccio diagnostico alle amenorree
Esami di primo livello
Esami di secondo livello
Esami di terzo livello
LH, FSH, PRL, TSH, ecografia pelvica, test di gravidanza
Cariotipo, RM encefalo,
altri dosaggi ormonali/test
da stimolo, autoimmunità
Studi genetici
FSH, LH bassi: patologia ipotalamo-ipofisaria
■
■
■
■
Escludere s. Kallman: test per anosmia, RM encefalo
Valutare anoressia-malnutrizione: indici nutrizionali, Ab antitransglutaminasi, funzionalità epatica e renale
Escludere altre patologie infettivo-infiammatorie-tumorali ipotalamo-ipofisarie: RM encefalo
Test con LHRH-analogo: diagnosi differenziale ipogonadismo ipogonadotropo/ RCCP
FSH, LH elevati: insufficienza ovarica
■
■
Escludere s. Turner: ecografia pelvica, cariotipo
Valutare cause di POF: accurata anamnesi familiare; dosaggio Ab anti ovaio, Ab anti surrene, Ab anti TPO, indagare
altre eventuali patologie autoimmuni; eventuale studio genetico (ricerca premutazione FMR1, BMP15 ecc.)
FSH, LH normali
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Ecografia pelvica è escludere malformazioni utero-vaginali, escludere CAIS
Valutare iperandrogenismo: dosaggio 17-OHP, DHEAS, testosterone totale e libero, SHBG, Delta4-androstenedione,
insulina, glicemia
Escludere patologie tumorali ovariche o surrenaliche: ecografia/RM/TC addome
Escludere iperplasia surrenalica congenita: ACTH test
Escludere sindrome di Cushing: ritmo cortisolo-ACTH, cortisoluria, test di soppressione con desametasone
Iperprolattinemia
■
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Valori <40 ng/ml è escludere cause para-fisiologiche (stress ecc.)
Valori 40-100 ng/ml è escludere ipotiroidismo (dosaggio TSH, FT4), cause farmacologiche (anamnesi)
è se elevati valori persistenti o segni/sintomi associati (per esempio, disturbi della vista, cefalea ecc.):
RM encefalo
Valori >100 ng/ml (elevata probabilità di macroprolattinoma) è sempre RM encefalo subito
17
ENDOCRINOLOGIA
N
O
G
Conclusioni
ne ecografica per escludere malformazioni dell’apparato genitale, presenza di tumori androgeno-secernenti ovarici o surrenalici, policistosi ovarica.
Nel caso di normalità dell’ecografia è utile il dosaggio degli androgeni e l’eventuale esecuzione di
test ormonali (quali l’ACTH test
nel sospetto di forma non classica di CAH; il test di soppressio-
ne con desametasone, nel sospetto di Cushing); qualora il quadro
ecografico non fosse dirimente
può essere necessaria la RM dell’addome.
Il riscontro di persistenti valori elevati di PRL pone indicazione a effettuare RM dell’encefalo per
escludere la presenza di prolattinomi o di tumori della regione
ipotalamo-ipofisaria.
L’amenorrea primaria può essere considerata come il sintomo
di una patologia organica o funzionale che interessa l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi.
L’adolescente che giunge alla nostra attenzione per amenorrea
primaria deve essere indagata
innanzitutto per escludere patologie congenite, anomalie cromosomiche, sindromi genetiche,
alterazioni ormonali, patologie
croniche.
L’impostazione di un corretto iter
diagnostico, che non può prescindere da un’accurata anamnesi familiare e personale e dall’esame obiettivo, è pertanto
molto importante per riconoscere possibili patologie rimaste misconosciute fino all’età peripuberale e impostare un adeguato follow-up clinico e terapeutico o per evidenziare la presenza di malattie intercorrenti e rimuoverne se possibile le cause.
Bibliografia
18
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RIASSUNTO DELLE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO
1. DENOMINAZIONE DEL MEDICINALE. Tranizolo.
2. COMPOSIZIONE QUALITATIVA E QUANTITATIVA. Ogni capsula contiene 100
mg di itraconazolo. Eccipienti: saccarosio 195 mg/capsula. Per una lista completa degli eccipienti vedere paragrafo 6.1.
3. FORMA FARMACEUTICA. Capsula rigida. Capsula allungata di gelatina rigida, rossa, opaca (misura 0).
4. INFORMAZIONI CLINICHE. 4.1 Indicazioni Terapeutiche. - Candidosi vulvovaginale. - Candidosi orale, dermatomicosi (es. tinea corporis, tinea cruris, tinea pedis, tinea manus) ed onicomicosi (causate da dermatofiti e lieviti), pityriasis versicolor. - Sporotricosi linfocutanee, paracoccidioidomicosi, bastomicosi (in pazienti immunocompromessi) ed istoplasmosi. - Itraconazolo può essere usato per trattare pazienti affetti da aspergillosi invasive risultate resistenti o
intolleranti all’amfotericina B. Si deve prestare attenzione alle linee guida ufficiali riguardanti l’uso corretto degli agenti antimicotici. 4.2 Posologia, e modo di somministrazione. Le capsule di itraconazolo sono per uso orale. Le
capsule devono essere assunte immediatamente dopo i pasti. Le capsule devono essere inghiottite intere. Raccomandazioni posologiche per adulti ed adolescenti: - Candidosi vulvovaginale: 200 mg al mattino e 200 mg alla sera per
un giorno. - Candidosi orale: 100 mg una volta al giorno per 2 settimane. - Tinea corporis/cruris: 100 mg una volta al giorno per 2 settimane. - Tinea pedis/manus: 100 mg una volta al giorno per 4 settimane. - Pityriasis versicolor: 200 mg
una volta al giorno per 1 settimana. - Onicomicosi: Terapia a cicli di trattamento. Un ciclo consiste di due capsule due volte al giorno per una settimana (400
mg/die), seguito da un periodo di tre settimane senza trattamento. Un totale di
3 cicli viene somministrato per l’onicomicosi delle unghie dei piedi, due cicli sono raccomandati per l’onicomicosi delle unghie delle mani. Trattamento continuo. Due capsule (200 mg/die) una volta al giorno per 3 mesi. Il risultato del
trattamento è visibile solo dopo la fine della somministrazione quando le unghie
ricrescono. - Sporotricosi linfocutanea*: 100 mg una volta al giorno per 3 mesi. - Paracoccidioidomicosi*: 100 mg una volta al giorno per 6 mesi. - Blastomicosi*: 100 mg una volta al giorno, possono essere aumentati a 200 mg due
volte al giorno, per 6 mesi. - Istoplasmosi*: 200 mg una volta al giorno, possono essere aumentati a 200 mg due volte al giorno, per 8 mesi. - Aspergillosi
invasiva: inizio con una dose di 200 mg tre volte al giorno per 4 giorni e poi continuazione con 200 mg due volte al giorno fino a che le colture sono negative
o fino a che le lesioni sono scomparse (2-5 mesi di durata) o almeno fino a
quando è cessata le neutropenia. *) I tempi di trattamento specificati sono medi e possono variare a seconda della gravità della malattia o della guarigione
clinica e micologica. Per le infezioni cutanee l’effetto clinico ottimale viene raggiunto 1-4 settimane dopo la cessazione del trattamento e per le infezioni delle unghie dopo 6-9 mesi. Questo avviene perché l’eliminazione di itraconazolo
dalla pelle e dalle unghie avviene più lentamente che dal plasma. Bambini (sotto i 12 anni): I dati sull’itraconazolo nei bambini sono inadeguati per raccomandarne l’uso, a meno che i potenziali benefici superino i rischi (vedere paragrafo 4.4). Anziani: I dati sull’itraconazolo negli anziani sono inadeguati per raccomandarne l’uso, a meno che i potenziali benefici superino i rischi (vedere paragrafo 4.4). Alterazioni delle funzioni epatiche: L’itraconazolo è principalmente metabolizzato nel fegato. Una lieve diminuzione della biodisponibilità orale è
stata osservata in pazienti cirrotici, benché ciò non abbia significatività statistica. L’emivita terminale è risultata lievemente ma significativamente aumentata
da un punto di vista statistico. Se necessario la dose deve essere aggiustata.
Può essere necessario il monitoraggio dei livelli plasmatici (vedere paragrafo
4.4). Alterazioni delle funzioni renali: La biodisponibilità orale dell’itraconazolo
può essere inferiore nei pazienti con insufficienza renale. Può essere preso in
considerazione un adattamento della dose. Può essere necessario il monitoraggio dei livelli plasmatici. L’itraconazolo non può essere eliminato mediante dialisi (vedere paragrafo 4.4). Diminuita acidità gastrica: L’assorbimento dell’itraconazolo è alterato quando l’acidità gastrica è ridotta. Per informazioni sui pa-
zienti con acloridria o in trattamento con inibitori della secrezione acida o che
assumono medicinali ad azione antiacido, vedere paragrafo 4.4. L’alterato assorbimento in pazienti con AIDS e neutropenici, può portare a bassi livelli emetici di itraconazolo ed a mancanza di efficacia. In questi casi può essere indicato il monitoraggio dei livelli ematici e se necessario un aggiustamento della
dose. 4.3 Controindicazioni. Itraconazolo è controindicato in: - ipersensibilità
all’itraconazolo o ai derivati azolici correlati o ai suoi eccipienti. - Simultanea
somministrazione di: terfenadina, astemizolo, cisapride, chinidina, pimozide, mizolastina, dofetilide, inibitori della HMG-CoA reduttasi metabolizzati dal CYP3A4
come la simvastatina, atorvastatina e lovastatina o triazolam e midazolam per
via orale. 4.4 Avvertenze speciali e opportune precauzioni di impiego. Con
itraconazolo esiste la possibilità di interazioni clinicamente rilevanti con altri farmaci (vedere paragrafo 4.5). - L’assorbimento di itraconazolo da Tranizolo 100
mg capsule è influenzato dalla diminuzione dell’acidità gastrica. Pazienti trattati anche con sostanze che neutralizzano gli acidi (ad es. idrossido di alluminio) devono prendere queste sostanze almeno 2 ore dopo la somministrazione
di itraconazolo. A pazienti affetti da acloridria come alcuni pazienti con AIDS o
a pazienti in trattamento con inibitori acidi (ad es. Antagonisti H2, inibitori della
pompa protonica) si consiglia di assumere itraconazolo capsule 100 mg con
bevande contenenti anidride carbonica che hanno un basso pH. - Nei pazienti
sottoposti a trattamento continuo per più di un mese si consiglia un controllo
della funzionalità epatica. Durante la somministrazione di itraconazolo in casi
molto rari si è manifestata grave tossicità epatica, inclusi alcuni casi di insufficienza epatica acuta fatale. Nella maggior parte questi casi riguardano pazienti che hanno avuto disturbi epatici prima del trattamento, che erano trattati per
indicazioni sistemiche, che hanno sofferto di altre gravi malattie e/o usavano
altri agenti epatotossici. Alcuni di questi casi si manifestano già al primo mese
di trattamento: pochi perfino nella prima settimana. Si devono monitorare frequentemente le funzioni epatiche dei pazienti che sono trattati con itraconazolo. Bisogna inoltre istruire i pazienti a riferire immediatamente al proprio medico i segni e i sintomi di epatite, come anoressia, nausea, vomito, stanchezza,
dolore addominale o urina di colore scuro. In questi pazienti il trattamento deve essere interrotto immediatamente ed è necessario controllare le funzioni epatiche. - Itraconazolo non deve essere prescritto a pazienti con aumentati valori
di enzimi epatici o con disturbi epatici pre-esistenti, o che hanno mostrato tossicità epatica come reazione ad altri farmaci. Se si prende la decisione di iniziare un trattamento a lungo termine è necessario controllare i valori degli enzimi epatici durante il trattamento. - L’uso a lungo termine (più lungo di 6 mesi o più lungo di 6 mesi cumulativi) non è raccomandato eccetto quando non vi
siano alternative terapeutiche. - La biodisponibilità orale dell’itraconazolo risulta diminuita in alcuni pazienti con insufficienza renale. L’aggiustamento della
dose può essere preso in considerazione. - Insufficienza epatica: itraconazolo
viene prevalentemente metabolizzato nel fegato. L’emivita terminale dell’itraconazolo è piuttosto prolungata in pazienti che soffrono di cirrosi epatica. La biodisponibilità orale di itraconazolo è ridotta nei pazienti che soffrono di cirrosi
epatica. Può essere necessario un aggiustamento della dose. - La biodisponibilità orale di itraconazolo può essere ridotta in alcuni pazienti immunocompromessi sottoposti a trattamento aggressivo con chemioterapici ed antibiotici. Per
questi pazienti è pertanto raccomandato monitorare la concentrazione di itraconazolo nel plasma e se necessario aumentare la dose. - In uno studio con
itraconazolo per via endovenosa in soggetti sani, si è osservata una temporanea sintomatica riduzione della frazione di eiezione del ventricolo sinistro che
scompariva prima della successiva infusione. La rilevanza clinica di questa osservazione per le formulazioni orali non è nota. - Itraconazolo sembra avere un
effetto inotropo negativo ed è stato messo in relazione a segnalazioni di scompenso cardiaco. Itraconazolo non deve essere usato in pazienti con scompenso cardiaco o con una storia di scompenso cardiaco a meno che i benefici siano chiaramente superiori ai rischi. Durante questa valutazione individuale dei
benefici e dei rischi, bisogna prendere in considerazione fattori quali la gravità
dell’indicazione, il dosaggio e i fattori di rischio individuali per lo scompenso
cardiaco. Questi fattori includono malattie cardiache quali malattie ischemiche
e valvolari, importanti malattie polmonari, quali la pneumopatia cronica ostruttiva, l’insufficienza renale ed altre malattie edemigene. Questi pazienti devono
essere informati sui sintomi dello scompenso cardiaco congestizio, devono essere trattati con cautela e sottoposti a controlli sui sintomi di scompenso cardiaco durante il loro trattamento; in caso che si manifestino tali sintomi durante il trattamento, la somministrazione di itraconazolo deve essere interrotta. Bisogna avere cautela nel somministrare contemporaneamente itraconazolo e
agenti calcio-antagonisti (vedere paragrafo 4.5). - Itraconazolo è un potente ini-
bitore del CYP3A4. L’uso di itraconazolo in associazione a farmaci metabolizzati dal CYP3A4 può portare ad interazioni clinicamente rilevanti (vedere paragrafo 4.5). L’uso concomitante di itraconazolo con alcaloidi della segale cornuta come l’ergotamina può portare a più elevati livelli di questi alcaloidi a causa
dell’inibizione del CYP3A4 da parte dell’itraconazolo. Questo può portare a sintomi di ergotismo. - Non vi sono informazioni relative all’ipersensibilità crociata tra itraconazolo ed altri agenti antifungini azolici. Pertanto si deve usare cautela nel prescrivere itraconazolo a pazienti con ipersensibilità ad altri derivati
azolici. - L’esperienza clinica sull’uso di itraconazolo capsule nei bambini è modesta. Pertanto itraconazolo 100 mg capsule non deve essere somministrato
nei bambini eccetto nei casi dove gli effetti positivi attesi superano i potenziali
rischi. - A causa del rischio di danni al feto, le donne in età fertile e che usano
itraconazolo devono prendere adeguate misure anticoncezionali fino al primo
periodo mestruale successivo alla fine del trattamento. - Se compare neuropatia che può essere attribuita ad itraconazolo, il trattamento deve essere interrotto. - Itraconazolo non deve essere usato entro 2 settimane dall’interruzione
del trattamento di agenti che inducono il CYP3A4 (rifampicina, rifabutina, fenobarbital, fenitoina, carbamazepina, Erba di S. Giovanni). L’uso di itraconazolo
con questi farmaci può portare a livelli plasmatici sub-terapeutici di itraconazolo e pertanto ad inefficacia. - Ceppi della specie di Candida resistenti al fluconazolo non possono essere ritenuti sensibili all’itraconazolo. Test di sensibilità devono essere condotti prima dell’inizio della terapia con itraconazolo. Questo medicinale contiene saccarosio. I pazienti con rari problemi ereditari di
intolleranza al fruttosio, malassorbimento di glucosio-galattosio o insufficienza
della saccarasi-isomaltasi, non devono assumere questo medicinale. 4.5 Interazioni con altri medicinali ed altre forme di interazione. Effetti di altri prodotti medicinali sull’itraconazolo: Itraconazolo viene prevalentemente metabolizzato dal CYP3A4. Induttori del CYP3A4: Sono stati condotti studi di interazione con rifampicina, rifabutina e fenitoina che sono potenti induttori del CYP3A4.
La biodisponibilità di itraconazolo e idrossi-itraconazolo è diminuita in misura
tale che l’efficacia può essere considerata ridotta. Pertanto si raccomanda di
non associare itraconazolo a questi potenti induttori enzimatici. Simili effetti devono essere previsti con altri induttori dell’enzima come carbamazepina, fenobarbital e isoniazide. Inoltre l’itraconazolo non deve essere somministrato entro 2 settimane dall’interruzione del trattamento con qualunque medicinale induttore del CYP3A4. Inibitori del CYP3A4: Dal momento che itraconazolo è principalmente metabolizzato dal CYP3A4, potenti inibitori di questo enzima possono aumentare la biodisponibilità di itraconazolo. Esempi sono ritonavir, indinavir, saquinavir, sildenafil, tadalafil, alcuni agenti antineoplastici, sirolimo, claritromicina ed eritromicina. Per l’uso concomitante con sildenafil si raccomanda una riduzione della dose a 25 mg. Omeprazolo: Quando itraconazolo viene
somministrato con omeprazolo (inibitore della pompa protonica), l’esposizione
dell’itraconazolo viene ridotta del 65%. L’interazione è probabilmente dovuta al
ridotto assorbimento, che è pH-dipendente. Altri inibitori della pompa protonica devono comportarsi in modo simile (vedere paragrafo 4.2 e paragrafo 4.4).
Effetti dell’itraconazolo sul metabolismo di altri medicinali: Itraconazolo è un potente inibitore del CYP3A4 ed inibisce il metabolismo di farmaci che sono substrati di questo enzima. Itraconazolo è anche un potente inibitore della P-glicoproteina. La somministrazione concomitante di farmaci che sono substrati del
CYP3A4 e/o P-glicoproteina può portare ad aumento e/o prolungamento del loro effetto ed a un aumentato rischio di effetti collaterali. Associazioni controindicate sono: Terfenadina, astemizolo, pimozide, cisapride, triazolam, midazolam
per via orale, dofetilide, mizolastina e chinidina poiché la co-somministrazione
può risultare in un aumento dei livelli plasmatici di queste sostanze che può
portare a prolungamento del QTC ed in rare occasioni a torsade de pointes, inibitori della HMG-CoA reduttasi metabolizzati dal CYP3A4 come simvastatina,
atorvastatina e lovastatina (vedere paragrafo 4.3). Per l’interazione con gli alcaloidi della segale cornuta vedere paragrafo 4.4. L’uso concomitante dei seguenti farmaci può richiedere aggiustamento della dose: Si deve usare cautela quando si somministra itraconazolo con altri substrati del CYP3A4. Devono
essere monitorati i livelli plasmatici, gli effetti o gli effetti collaterali dei farmaci
co-somministrati e può essere necessario un aggiustamento della dose. Si noti che l’elenco seguente non è completo e l’itraconazolo può interagire con altri farmaci metabolizzati dal CYP3A4. Calcio antagonisti metabolizzati dal CYP3A4
(diidropiridine e verapamil). Anticoagulanti orali: Itraconazolo può potenziare l’effetto della warfarina. Si raccomanda di monitorare il tempo di protrombina se
si usa questa associazione. Inibitori della HIV-proteasi come ritonavir, indinavir,
saquinavir: Poiché gli inibitori della HIV-proteasi sono principalmente metabolizzati dal CYP3A4 ci si aspetta un aumento delle concentrazioni plasmatiche
se usati in associazione. Agenti per il trattamento delle disfunzioni erettili come
sildenafil, tadalafil: Itraconazolo può aumentare i livelli plasmatici di questi farmaci con la conseguenza di possibili effetti collaterali. Alcuni agenti antineoplastici come alcaloidi della vinca, busulfan, docetaxel e trimetressato: L’itraconazolo può inibire il metabolismo di questi farmaci. La clearance del busulfan è
diminuita del 20% quando somministrato in associazione. Alcuni agenti immuno-soppressori: ciclosporina, tacrolimus, sirolimus: L’itraconazolo può aumentare i livelli plasmatici di questi farmaci con la conseguenza di possibili effetti
collaterali. Le concentrazioni plasmatiche di ciclosporina, tacrolimus, sirolimus
devono essere monitorate se usati assieme all’itraconazolo. Digossina: Itraconazolo è noto per inibire il P-gp. La concomitante somministrazione di digossina e itraconazolo ha portato ad aumentate concentrazioni plasmatiche di digossina con sintomi di tossicità alla digossina. Ciò suggerisce una diminuita clearance urinaria della digossina poiché l’itraconazolo può inibire l’azione della Pglicoproteina che trasporta la digossina dalle cellule del tubulo renale nelle urine. I livelli plasmatici della digossina devono essere attentamente monitorati
durante la somministrazione concomitante con itraconazolo. Desametasone:
l’itraconazolo riduce del 68% la clearance del desametasone somministrato endovena. Metilprednisone: l’itraconazolo inibisce il metabolismo del prednisone.
È stato osservato un aumento di 4 volte dell’esposizione e di 2 volte dell’emivita. Vi è il rischio di effetti collaterali dello steroide, in particolare durante il trattamento a lungo termine, se la dose non è adeguata. Alprazolam: la somministrazione concomitante di itraconazolo ed alprazolam porta ad una riduzione del
60% della clearance dell’alprazolam. Le aumentate concentrazioni plasmatiche
possono potenziare e prolungare gli effetti ipnotici e sedativi. Buspirone: la somministrazione concomitante di itraconazolo e buspirone (dose orale singola) ha
dato luogo ad un significativo aumento (19 volte) della biodisponibilità. L’aggiustamento della dose è necessario quando itraconazolo e buspirone vengono
somministrati in associazione. Altri: Alfentanile, brotizolam, carbamazepina, cilostazolo, disopiramide, ebastina, eletriptan, alofantrina, midazolam e.v., reboxetina, repaglinide, rifabutina: resta da stabilire l’importanza degli aumenti di
concentrazione e la loro rilevanza clinica di questi cambiamenti durante la cosomministrazione con itraconazolo. 4.6 Gravidanza ed allattamento. Gravidanza. Dati limitati sull’uso a breve termine durante la gravidanza non hanno
finora rivelato effetti pericolosi. Non vi sono dati documentati sull’uso a lungo
termine in gravidanza. In studi sugli animali itraconazolo è risultato dannoso (vedere paragrafo 5.3). Itraconazolo non deve essere usato in gravidanza a meno
che sia chiaramente necessario. Allattamento. Itraconazolo è escreto nel latte
materno. L’allattamento al seno non è raccomandato durante il trattamento con
itraconazolo. 4.7 Effetti sulla capacità di guidare veicoli e sull’uso di macchinari. Non sono stati condotti studi sugli effetti di itraconazolo sulla capacità di guidare veicoli o di usare macchinari. Quando non si è alla guida di veicoli e si usano macchinari bisogna tener conto che in alcuni casi può manifestarsi la possibilità di vertigine. 4.8 Effetti indesiderati. In circa il 9% dei pazienti possono manifestarsi effetti indesiderati durante la somministrazione di itraconazolo. Nell’uso a lungo termine (circa 1 mese) l’incidenza degli effetti indesiderati è stata più alta (circa 15%). Gli effetti indesiderati maggiormente riportati sono stati di natura gastrointestinale, epatica e dermatologica. All’interno di
ogni classe organica gli effetti indesiderati sono ordinati in base alla frequenza
con cui si manifestano, rari (≤0,01%, <0,1%), molto rari (<0,001%) inclusi casi isolati. Sulla base dei dati dati post-marketing i seguenti effetti indesiderati
sono stati riportati. Alterazione del sangue e del sistema linfatico. Molto raro:
trombocitopenia; Alterazioni del sistema immunitario. Molto rare: reazioni anafilattiche anafilattoidi ed allergiche. Alterazioni del metabolismo e della nutrizione. Molto rare: ipokaliemia, ipertrigliceridemia. Alterazioni del sistema nervoso.
Molto rare: neuropatia periferica, mal di testa e vertigine. Alterazioni cardiache.
Molto raro: scompenso cardiaco congestizio. Alterazioni dell’apparato respiratorio, del torace e del metabolismo. Molto raro: edema polmonare. Alterazioni
dell’apparato gastrointestinale. Molto rari: dolore addominale, vomito, dispepsia, nausea, diarrea e costipazione. Alterazioni del sistema epatobiliare. Molto
rare: insufficienza epatica acuta fatale, grave epatotossicità, epatite, ittero colestatico e aumento reversibile degli enzimi epatici. Alterazioni della cute e del
tessuto sottocutaneo. Molto rare: sindrome di Stevens-Johnson, angioedema,
orticaria, alopecia, rash cutaneo e prurito. Disordini del sistema riproduttivo e
della mammella. Molto rari: disturbi mestruali. Disordini generali e alterazioni
del sito di somministrazione. Molto raro: edema. 4.9 Sovradosaggio. Non sono noti sintomi di sovradosaggio. In caso di sovradosaggio il paziente deve bere e si deve tentare di indurre vomito o deve essere eseguita una lavanda gastrica, dopo di che può essere somministrato carbone attivo ed un lassativo.
Non è noto un antidoto specifico. Itraconazolo non è rimosso con l’emodialisi.
5. PROPRIETÀ FARMACOLOGICHE. 5.1 Proprietà farmacodinamiche. Categoria farmacoterapeutica: antimicotici per uso sistemico, derivati triazolici.
Codice ATC: J02AC02. Proprietà generali: Itraconazolo è un composto triazolico sintetico con azione antimicotica contro dermatofiti, lieviti, Aspergillus ed altri miceti patogeni. Meccanismo d’azione. Itraconazolo inibisce la biosintesi dell’ergosterolo, il più importante sterolo della membrana cellulare di lieviti e miceti, a concentrazioni di solito tra 0,025 e 0,8 µg/ml. Questo causa cambiamenti della permeabilità e dei componenti lipidici della membrana. Microbiologia. I seguenti organismi sono considerati sensibili all’itraconazolo: Dermatofiti (Trichophyton spp., Microsporum spp., Epidermophyton floccosum), Lieviti (C.
albicans e altra Candida spp., Pityrosporum ovale, Cryptococcus neoformans,
C. glabrata) Aspergillus fumigatus ed altri Aspergillus spp., Miceti dimorfi: Sporothrix schenckii, Histoplasma spp., Paracoccidioides brasiliensis, Fonsecacea
spp., Cladosporium spp., Blastomyces dermatitidis. Candida glabrata e Candida tropicalis sono generalmente le meno sensibili tra le specie di Candida, con
ceppi isolati che mostrano resistenza in vitro all’itraconazolo. Le specie più importanti non inibite dall’itraconazolo sono: Zygomycetes (ad es. Rhizopus spp.,
Rhizomucor spp., Mucor spp. e Absidia spp.), Fusarium spp., Scedosporium
spp. e Scopulariopsis spp. La sensibilità in vitro è influenzata da: dimensione
dell’inoculo, temperature di incubazione, fase di sviluppo del fungo ed in particolare dal terreno di cultura usato. Pertanto possono essere trovate considerevoli differenze nei valori di CMI. Altre informazioni. La resistenza agli azoli sembra svilupparsi lentamente e spesso è il risultato di numerose mutazioni genetiche. Sono stati riportati diversi meccanismi di resistenza. Un meccanismo riguarda una diminuita affinità della 14α-demetilasi per gli azoli. Questo può causare una sovraespressione o una mutazione puntiforme in ERG11, il gene che
codifica la 14α-demetilasi. Più comunemente la resistenza agli azoli risulta da
un’espressione micotica di un sistema di pompa ad efflusso. Non sembra che
i miceti possano trasferire geni resistenti da un organismo ad un altro e spesso i casi isolati in clinica non sono correlati tra di loro. La resistenza micotica
probabilmente non risulta da una riduzione su larga scala della sensibilità dei
miceti come provato nel caso della resistenza batterica. Resistenza crociata tra
antimicotici azolici è stata riportata in pazienti clinicamente resistenti al clotrimazolo. Finora aumenti molteplici della CMI dell’itraconazolo sono stati osservati solo in mutanti selezionati in laboratorio di Aspergillus fumigatus. 5.2 Proprietà farmacocinetiche. I livelli plasmatici variano fortemente tra individui,
sia a dosi singole sia a dosi ripetute. Assorbimento. I livelli plasmatici massimi
di sostanza attiva immodificata si raggiungono in 2-5 ore dopo l’assunzione. La
biodisponibilità orale assoluta dell’itraconazolo è del 55%. La biodisponibilità
massima dopo assunzione orale si ottiene se l’itraconazolo viene assunto direttamente dopo un pasto. Distribuzione. Il legame di itraconazolo con le proteine
plasmatiche è del 99,8%. Nel sangue il 5% dell’itraconazolo è legato alle cellule ematiche, il 95% alle proteine plasmatiche e solo lo 0,2% è libero. La concentrazione di itraconazolo nel sangue intero è il 60% della concentrazione plasmatica. Non vi sono dati sul passaggio di itraconazolo nel latte umano. I livelli tissutali in tessuti contenenti cheratina, specialmente cute ed unghie, sono fino a 4 volte più elevati di quelli nel plasma. L’eliminazione dell’itraconazolo è in
relazione alla rigenerazione dell’epidermide, per le unghie l’eliminazione è determinata dalla velocità di crescita. Pertanto livelli terapeutici continuano ad esistere nella cute per 2-4 settimane dopo un trattamento di poche settimane; per
le unghie questo periodo è di 6-9 mesi. Itraconazolo viene escreto nella pelle
attraverso le ghiandole sebacee ed in minor misura attraverso quelle sudoripare. Esso inoltre raggiunge la pelle attraverso i cheratinociti dello strato basale.
Inoltre l’itraconazolo mostra buona penetrazione in altri tessuti che vengono attaccati da infezioni fungine. Concentrazioni di 2-3 volte quelle del plasma, sono state misurate in polmoni, reni, fegato, ossa, stomaco, milza e muscoli. Nel
tessuto vaginale la concentrazione terapeutica permane per 2-3 giorni dopo 2
somministrazioni di 2 capsule in un giorno. Dopo un trattamento di 3 giorni con
2 capsule una volta al giorno, una concentrazione terapeutica continua ad essere presente nel tessuto vaginale per 2 giorni. Metabolismo. Itraconazolo è
ampiamente metabolizzato nel fegato principalmente dall’isoenzima CYP3A4.
Uno dei metaboliti è l’idrossi-itraconazolo che in vitro mostra un’azione antifungina paragonabile a quella di itraconazolo. I livelli determinati usando dosaggi
biologici sono circa 3 volte più alti dei livelli di itraconazolo determinati con HPLC.
Escrezione. L’emivita terminale dell’itraconazolo è di 17 ore dopo somministrazione singola ed aumenta a 34-42 ore dopo somministrazioni ripetute. La farmacocinetica dell’itraconazolo non è lineare, di conseguenza la sostanza attiva
si accumula nel plasma dopo somministrazioni multiple. Le concentrazioni allo
stato stazionario si raggiungono in 15 giorni con una Cmax che raggiunge 0,5
µg/ml dopo 100 mg di itraconazolo una volta al giorno, 1,1 µg/ml dopo 200 mg
una volta al giorno e 2,0 µg/ml dopo 200 mg due volte al giorno. Alla sospensione del trattamento le concentrazioni plasmatiche dell’itraconazolo scendono quasi sotto il limite di determinazione entro 7 giorni. A causa del meccanismo di saturazione durante la metabolizzazione epatica, la clearance dell’itraconazolo decresce ai dosaggi più elevati. Il 3-18% della dose assunta viene
escreta con le feci come itraconazolo immodificato. Il contenuto di itraconazolo immodificato nelle urine è minore dello 0,03%. Nel fegato l’itraconazolo viene metabolizzato in un ampio numero di metaboliti che sono escreti con le feci e le urine. Circa il 40% di questo è escreto con le urine. 5.3 Dati preclinici
di sicurezza. Studi di tossicità subacuta e cronica hanno mostrato effetti indesiderati su adrenali, fegato e ovaie di ratti femmina. Il metabolismo dei grassi è
risultato alterato nei ratti. Studi non clinici non hanno indicato una capacità di
indurre mutazioni genetiche. Effetti tossici clinicamente rilevanti sono comparsi a livelli plasmatici. La rilevanza clinica degli effetti osservati negli animali non
è nota. In studi preclinici in ratti maschi, vi è stata una più elevata incidenza di
sarcoma dei tessuti molli dopo 2 anni di trattamento. Il rischio potenziale per
l’uomo è sconosciuto. Non vi è evidenza di influenza primaria sulla fertilità durante il trattamento con itraconazolo. Itraconazolo è risultato causare un aumento dose-dipendente della tossicità materna, embriotossicità e teratogenicità in ratti e topi a dosi elevate. Nei ratti la teratogenicità consiste in difetti scheletrici maggiori e nel topo in encefalocele e macroglossia.
6. INFORMAZIONI FARMACEUTICHE. 6.1 Elenco degli eccipienti. Contenuto della capsula: Sfere di zucchero (saccarosio/amido di mais), ipromellosa
(E464), sorbitano stearato (E491), silice colloidale idrata (E551). Capsula: cappuccio/corpo: gelatina. Agenti coloranti: titanio biossido (E171), ossido di ferro
rosso (E172). 6.2 Incompatibilità. Non pertinente. 6.3 Periodo di validità. 3
anni. 6.4 Speciali precauzioni per la conservazione. Non conservare a temperatura superiore ai 30 °C. 6.5 Natura e contenuto del contenitore. Blister
di PVC/PVDC/alluminio. Blister contenenti: 4, 6, 7, 8, 14, 15, 16, 18, 28, 30,
50, 60, 84, 100, 140, 150, 280, 300, 500 capsule in strip. Non tutte le confezioni saranno commercializzate. 6.6 Istruzioni per l’impiego e la manipolazione. Nessuna istruzione particolare.
7. TITOLARE DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO. EG
S.p.A. Via D. Scarlatti, 31 - 20124 Milano.
8. NUMERI DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO.
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 4 capsule
AIC n. 037093.010/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 6 capsule
AIC n. 037093.022/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 7 capsule
AIC n. 037093.034/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 8 capsule
AIC n. 037093.046/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 14 capsule AIC n. 037093.059/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 15 capsule AIC n. 037093.061/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 16 capsule AIC n. 037093.073/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 18 capsule AIC n. 037093.085/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 28 capsule AIC n. 037093.097/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 30 capsule AIC n. 037093.109/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 50 capsule AIC n. 037093.111/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 60 capsule AIC n. 037093.123/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 84 capsule AIC n. 037093.135/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 100 capsule AIC n. 037093.147/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 140 capsule AIC n. 037093.150/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 150 capsule AIC n. 037093.162/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 280 capsule AIC n. 037093.174/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 300 capsule AIC n. 037093.186/M
Tranizolo 100 mg Capsule rigide, 500 capsule AIC n. 037093.198/M
9. DATA DELLA PRIMA AUTORIZZAZIONE/RINNOVODELL’AUTORIZZAZIONE.
20 Ottobre 2006
10. DATA DI REVISIONE DEL TESTO. Ottobre 2006
MENOPAUSA
N
O
G
P
revenzione e trattamento
dell’osteoporosi
Per gestire in modo ottimale l’osteoporosi e le complicanze
ad essa correlate, è necessario adottare una strategia d’intervento globale
imperniata su interventi non farmacologici consigliabili a tutte le donne
e approcci farmacologici modulabili in base all’età e al livello di rischio
della singola paziente.
di Alberto Bacchi Modena
Dipartimento di Scienze Ginecologiche Ostetriche e di Neonatologia, Azienda Ospedaliero Universitaria - Parma
F
22
ino a quando non si verifica il
primo evento fratturativo,
l’osteoporosi è una patologia silente, ma, a partire da quel momento il rischio di successive fratture raddoppia a ogni nuovo
evento comportando un notevole aumento della morbilità e della mortalità1.
L’obiettivo più importante delle
strategie di prevenzione dovrebbe pertanto essere finalizzato a
scongiurare la prima e le successive fratture e non al trattamento o al miglioramento di ciascun
singolo fattore di rischio come,
per esempio, la densità minerale
ossea (BMD).
Poiché l’osteoporosi colpisce una
notevole parte della popolazione
femminile in postmenopausa dovrebbe essere preso in considerazione un approccio su larga scala, possibile solamente usando
strategie non farmacologiche come, per esempio, i cambiamenti
dello stile di vita. Per contro, le
strategie farmacologiche vanno
riservate alle pazienti ad elevato
rischio di frattura.
Cambiamenti
dello stile di vita
• Fumo di tabacco: uno studio recente ha confermato che le
donne fumatrici (anche pregresse) in postmenopausa presentano un aumentato rischio di
fratture dell’anca2. È stato inoltre dimostrato che il fumo provoca una riduzione del BMD e
della corticale dell’osso anche
nei giovani maschi3.
• Bevande alcoliche: l’abuso è associato a un aumento significativo di tutte le fratture su base
osteoporotica4.
• Farmaci: la perdita di osso è uno
dei più importanti effetti colla-
terali dei glucocorticoidi, anche
se utilizzati a basse dosi; essa si
manifesta rapidamente, raggiunge il massimo dopo 6 mesi di trattamento e risulta più
accentuata a livello delle ossa
con elevata componente trabecolare come, per esempio, le
vertebre. Gli interventi farmacologici atti a prevenirla dovranno prendere in considerazione
il dosaggio dei glucocorticoidi,
la durata prevista del trattamento, l’età, il sesso e il BMD al momento dell’inizio della terapia5.
Altri farmaci che possono compromettere la salute dell’osso
sono i tranquillanti che incrementano il rischio di caduta e
gli antidepressivi. In particolare, secondo uno studio recente le pazienti in trattamento con
inibitori del re-uptake della serotonina vanno incontro a un
aumento della perdita di massa ossea a livello dell’anca e
MENOPAUSA
ca di frutta e vegetali e povera di
grassi8. Si dovrebbe, inoltre, prendere in considerazione una supplementazione proteica, specie
dopo una frattura: infatti, secondo uno studio recente condotto
su donne anziane e magre affette da frattura dell’anca, essa è in
grado di aumentare il BMD9.
quindi del rischio di frattura6;
questi effetti non sono presenti quando si utilizzano gli antidepressivi triciclici.
• Sedentarietà: favorisce l’attività osteoclastica, mentre l’esercizio fisico stimola l’attività
osteoblastica; di conseguenza,
tutte le donne che entrano in
menopausa dovrebbero essere
stimolate a camminare tutti i
giorni ed eventualmente praticare un’attività fisica regolare7.
• Altri fattori di rischio: le pazienti in postmenopausa devono essere incoraggiate ad adottare
tutte le strategie in grado di minimizzare il rischio di cadute
(calzature adeguate, correzione di eventuali difetti del visus
o di patologie dell’orecchio, eliminazione di eventuali barriere
architettoniche e di pavimentazioni scivolose, buona illuminazione ambientale ecc.).
Dieta
e supplementazione
I benefici effetti di una dieta ricca di potassio e bicarbonati sono
noti da tempo: anche se non sono disponibili dati derivanti da trial
randomizzati e controllati in grado di supportare queste raccomandazioni, le donne in postmenopausa dovrebbero essere stimolate a consumare una dieta ric-
Ruolo
della supplementazione
di calcio…
Le donne in postmenopausa dovrebbero assumere almeno 1.200
mg/die di calcio elementare10 attingendoli dalla miglior sorgente
alimentare, ossia dai prodotti caseari. Una metanalisi condotta su
17 studi che avevano come endpoint il numero delle fratture, ha
dimostrato che la supplementazione a base di calcio in una popolazione di età superiore ai 50
anni è in grado di ridurre del 12%
il numero delle fratture; queste
ultime sono diminuite addirittura
del 24% nei soggetti che presentavano un’aderenza al trattamento dell’80%.
Ciononostante, in accordo con
quanto stabilito in una recente
consensus europea11, la supplementazione routinaria di calcio
nella popolazione generale non
può essere giustificata come strategia globale in termini di efficacia e di economia sanitaria.
Esiste tuttavia un razionale per
una supplementazione riservata
ai pazienti con aumentato rischio
di osteoporosi e a quelli osteoporotici, anche se già in trattamento con altri farmaci per l’osteoporosi. La supplementazione (5001.000 mg di calcio elementare)
dipende dalla quantità di calcio
che ciascun individuo introduce
giornalmente con la dieta.
Anche se non sono disponibili test
ematici in grado di valutare l’insufficienza calcica, bassi livelli di
secrezione urinaria di calcio nelle
24 ore, potrebbero essere indicativi di un ridotto apporto di calcio
con la dieta.
L’apporto dietetico di una quota
di calcio elementare inferiore a
1.500 mg al giorno non promuove la formazione di calcoli renali.
N
O
G
… e di vitamina D
Il ruolo della vitamina D sull’omeostasi dell’osso è stato recentemente ridefinito12. È noto da tempo
che essa è essenziale per l’assorbimento del calcio e la dose giornaliera raccomandata era stata
stabilita in 400 UI. I suoi livelli sono valutabili direttamente misurando la concentrazione ematica
di 25-idrossi-vitamina D e indirettamente valutando la correlazione inversa con i livelli di PTH. Basandosi sulle evidenze disponibili, gli esperti hanno stabilito che i
livelli di 25-idrossi-vitamina D devono risultare intorno a 75 nmol/L
(30 ng/mL) per far rientrare il paziente in un range a basso rischio
di frattura. Per raggiungere questo obiettivo, la dose giornaliera
di vitamina D3 per gli anziani è
stata portata a 800-1.000 UI13.
Se questo target non viene raggiunto circa il 60% degli anziani
presenta livelli di vitamina D inadeguati e ciò sembra anche legato all’incapacità della cute e del
rene di produrre la forma attiva
della vitamina nei soggetti in questa fascia di età. La supplementazione è pertanto l’unica opzione
possibile dato che sembra impossibile correggere il deficit con le
normali misure alimentari. È stato inoltre dimostrato che la supplementazione con vitamina D è
23
MENOPAUSA
N
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in grado di ridurre, come fattore
indipendente, il rischio di caduta
nei pazienti anziani14. Infine, l’impiego di questa vitamina è oggetto di un’attenta valutazione per
altri possibili effetti benefici, come la riduzione della carcinogenesi e della mortalità totale15.
Valutazione
del rischio di frattura
24
• Età avanzata: il rischio di fratture osteoporotiche di qualsiasi tipo subisce un incremento
con l’aumentare dell’età; per
esempio, un T-score di -2,5 in
una paziente di 75 anni implica un rischio di frattura notevolmente maggiore se paragonato allo stesso T-score a 50
anni.
• Sesso: le donne presentano un
rischio superiore a quello dei
maschi.
• Basso indice di massa corporea:
un BMI inferiore a 21 kg/mq si
associa a un basso BMD e a un
aumentato rischio di frattura e
può essere indicativo di carenze alimentari16.
• Presenza di una frattura o
anamnesi positiva per frattura
dopo i 50 anni di età 17: ogni
frattura vertebrale raddoppia il
rischio di una successiva frattura. Quest’ultimo è pari al
20% nel primo anno successivo a una frattura vertebrale e
aumenta in presenza di fratture multiple. Le fratture vertebrali possono essere asintomatiche ed evidenziabili solo attraverso una radiografia laterale della colonna vertebrale18.
Per la valutazione dei corpi vertebrali può essere impiegato il
metodo semiquantitativo di Ge-
•
•
•
•
nant che richiede un abbassamento del 20% della loro altezza19.
Anamnesi familiare di fratture
dell’anca20: il rischio di frattura aumenta in presenza di
un’anamnesi positiva per frattura dell’anca sia nella madre
che nel padre.
Uso di sostanze nocive per la
salute dell’osso: come già accennato, il fumo21, il consumo
elevato di alcolici4 e una terapia con glucocorticoidi della durata superiore a 3 mesi a una
dose di prednisone di 5 mg/die
o superiore22, aumentano il rischio di frattura.
Presenza di condizioni patologiche associate all’osteoporosi:
artrite reumatoide, iperparatiroidismo, deficit di vitamina D,
diabete mellito di tipo 1, osteogenesi imperfetta negli adulti,
ipertiroidismo non trattato per
lungo tempo, ipogonadismo,
menopausa prematura, malnutrizione cronica, sindromi da
malassorbimento (soprattutto
morbo celiaco), malattie epatiche croniche, malattia di Cushing.
Densitometria ossea mediante
DEXA: è una metodica non invasiva, ripetibile, affidabile e validata che fornisce un ottimo indice del rischio di frattura nella popolazione non trattata,
senza fratture23. Esiste una forte correlazione continua tra il
BMD e le fratture osteoporotiche, con un aumento del rischio
che può variare da 1,5 a 2,6 volte per ogni riduzione della deviazione standard in funzione
del sito in cui si effettua la misurazione e in cui si è verificata la frattura24.
La diagnosi di osteoporosi, stabilita nel 1994 dalla WHO, richiede una BMD inferiore di 2,5 deviazioni standard rispetto al valore del picco di massa ossea in
una popolazione di giovani donne caucasiche (T-score -2,5)25.
Anche se questa definizione è
utile dal punto di vista epidemiologico, non sembra altrettanto valida sotto il profilo della decisione clinica, in quanto
basata su un singolo fattore di
rischio.
Si è infatti visto che nell’82%
delle donne in postmenopausa
con frattura il T-score è migliore di -2,526. La valutazione routinaria con la DEXA è consigliata a tutte le donne in post-menopausa considerate a rischio
di frattura e a tutte le donne di
età superiore a 65 anni.
• Etnia: la popolazione di origine
afro-caraibica ha, solitamente,
una densità minerale ossea superiore a quella della popolazione caucasica.
MENOPAUSA
Soglia d’intervento
farmacologico
Le indicazioni assolute al trattamento sono le seguenti:
• BMD a livello della colonna con
T-score inferiore o uguale a -2,5
a L1-L4;
• BMD a livello dell’anca con Tscore inferiore o uguale a -2,5
al collo del femore;
• presenza di fratture da fragilità
indipendentemente dal BMD.
Il trattamento deve comunque essere deciso soprattutto su base
clinica (tabella 1) e dovrebbe essere imperniato sulla valutazione
del rischio di frattura a 10 anni.
La National Osteoporosis Foundation raccomanda di sottoporre a
trattamento tutte le donne osteopeniche in postmenopausa con
un rischio di frattura dell’anca a
10 anni uguale o superiore al 3%.
Tabella 2 Farmaci disponibili per la prevenzione delle fratture
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Anti-riassorbimento (attività anti-osteoclastica)
■ Terapia estroprogestinica
■ SERM
■ Bisfosfonati
Stimolanti la formazione di osso
■ Teriparatide (PTH 1-34)
Ad attività mista
■ Ranelato di stronzio
Terapia
estroprogestinica
sti, favorendone l’apoptosi; essi,
inoltre, svolgono un effetto positivo sul bilancio del calcio.
È ormai assodato da diversi anni
L’accelerazione della perdita d’osche la terapia ormonale sostitutiso che si osserva all’inizio della
va (TOS) è in grado di prevenire la
menopausa è direttamente correperdita ossea associata alla melata alla caduta degli estrogeni che
nopausa e di far aumentare il
esplicano un’attività anti-riassorBMD nelle pazienti osteoporotibimento attraverso l’inibizione delche. Lo studio Women’s Health
l’attività cellulare degli osteoclaIniziative (WHI) ha evidenziato che
la TOS e la terapia con
soli estrogeni riducono il
Tabella 1 Farmaci disponibili per la prevenzione delle fratture
rischio di fratture osteoporosi-correlate27,28. Il livello di rischio è molto
■ Elevati livelli serici di calcio potrebbero far sospettare un iperparatiroidismo.
basso subito dopo la me■ Elevati livelli di PTH devono far sospettare la presenza di iperparatiroidismo.
nopausa, mentre aumenta considerevolmen■ Bassi livelli di 25-idrossi-vitamina-D sono indicativi di un deficit di vitamina D.
te in età avanzata. Pertanto, dato che il bene■ Bassi livelli di calcio nelle urine delle 24 ore possono essere indicativi
ficio della TOS è presendi uno scarso apporto o di un cattivo assorbimento di calcio.
te solo in corso di tratta■ I valori dell’emocromo possono essere indicativi dello stato nutrizionale.
mento, sarebbe necessario proseguire la tera■ Elevati livelli di fosfatasi alcalina devono far sospettare un morbo di Paget.
pia per un lungo periodo di tempo. Tuttavia, è
■ La funzione renale deve essere valutata prima di decidere un trattamento.
anche necessario consi■ Semplici esami bioumorali possono rivelare la presenza di celiachia.
derare che il rischio di tumore della mammella
■ I marker biochimici del rimodellamento osseo hanno un ruolo limitato
s’incrementa con l’aunella routine clinica.
mentare della durata del
trattamento e che anche
■ Una radiografia latero-laterale delle vertebre toraciche e lombari è importante
il rischio cardiovascolare
per escludere fratture vertebrali secondarie a neoplasie.
diventa apprezzabile nelle donne più avanti con
25
MENOPAUSA
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26
gli anni. Di conseguenza, le autorità sanitarie europee hanno deciso di sconsigliare la TOS come
terapia di prima scelta per il trattamento dell’osteoporosi.
Lo studio WHI, anche se in gran
parte soggetto a critiche, spesso
giuste, ha documentato i seguenti aspetti.
• Aumento del rischio tromboembolico: 18 casi in più ogni
10.000 donne trattate per anno; il livello di rischio aumenta
con l’aumentare dell’età ed è
massimo nel primo anno di trattamento. I fattori di rischio comprendono un precedente episodio di trombosi venosa profonda (TVP) o una storia familiare positiva per TVP. Teoricamente, l’aumento del rischio di
TVP potrebbe essere notevolmente ridotto utilizzando, per
la TOS, le formulazioni per via
trasdermica.
• Aumento del rischio di ictus cerebrale: circa 8-12 eventi per
10.000 donne per anno; il rischio permane anche dopo il
primo anno d’impiego della
TOS.
• Aumento del rischio di tumore
della mammella: dopo 5 anni
di assunzione della TOS; que-
sto effetto aumenta con la durata del trattamento e diminuisce rapidamente dopo la sospensione della terapia.
Pertanto, il ricorso a questa strategia farmacologica nell’osteoporosi deve essere rivalutato alla luce delle nuove analisi di sottogruppi che indicano una finestra di opportunità per l’uso della TOS. In
particolare, iniziare il trattamento prima dei 60 anni implica rischi
molto bassi e può anche offrire
una protezione cardiovascolare29.
L’opinione di molti esperti, attualmente, suggerisce che la TOS ai
più bassi dosaggi efficaci può essere impiegata nei soggetti più
giovani a rischio di frattura30 che
magari presentano anche disturbi vasomotori e che potrebbero
sostituire la TOS con altri preparati dopo i 60 anni.
SERMs
(Selective Estrogens
Receptors Modulators)
L’unico SERM attualmente disponibile per la protezione nei confronti delle fratture è il raloxifene
alla dose orale giornaliera di 60
mg, ma sono in avanzata fase di
sviluppo altri principi attivi (lasofoxifene; bazedoxifene e arzoxifene). Questo gruppo complesso
di molecole sintetiche mima gli
effetti benefici degli estrogeni sull’osso e sull’assetto lipidico senza
però stimolare i recettori estrogenici a livello della mammella e dell’endometrio. Un importante studio randomizzato31 e una recente metanalisi32 hanno dimostrato
che il raloxifene è in grado di ridurre del 34-51% il rischio di fratture vertebrali nonostante un modesto aumento del BMD. Non è
stato, purtroppo, evidenziato alcun effetto positivo sul numero di
fratture non vertebrali (comprese
quelle dell’anca). Il raloxifene, inoltre, riduce del 76% il rischio di
cancro invasivo della mammella
con recettori estrogenici positivi33.
Un recente studio controllato e
randomizzato ha evidenziato che
il raloxifene ha la stessa efficacia
del tamoxifene nella prevenzione
del cancro della mammella nelle
pazienti non osteoporotiche34.
Contrariamente agli estrogeni, il
raloxifene non è efficace sui sintomi vasomotori, anzi può favorirne la comparsa. Il RUTH trial ha
dimostrato che il raloxifene non
ha effetto protettivo nei confronti della patologia coronarica in pazienti ad alto rischio35. In questo
studio le pazienti trattate con raloxifene avevano un maggior rischio di sviluppare eventi tromboembolici (HR 1,44) e di mortalità
per ictus (HR 1,49).
Bisfosfonati
Sono un gruppo di molecole che
mostrano una struttura bisfosfonata comune (P-C-P) con catene
MENOPAUSA
laterali diverse. La prerogativa di
questi principi attivi è quella di
inibire l’attività degli osteoclasti
bloccando la via dell’acido mevalonico.
Per la terapia dell’osteoporosi menopausale solitamente si usano le
seguenti preparazioni:
• etidronato, 400 mg/die per via
orale seguito da calcio carbonato per 76 giorni (cicli di 90
giorni ripetuti); riduzione del rischio di fratture vertebrali del
41-47%36;
• alendronato, 70 mg/settimanali o 10 mg/die per via orale riducono l’incidenza di fratture
vertebrali, dell’anca e del polso
di circa il 50%37;
• risedronato, 35 mg/settimanali o 5 mg/die per via orale riducono l’incidenza di fratture vertebrali del 41-49% e di fratture non vertebrali del 36%38;
• ibandronato, 2,5 mg/die o 150
mg una volta al mese per via
orale oppure 3 mg ogni 3 mesi per via venosa riducono il rischio di fratture vertebrali di circa il 50%39;
• zoledronato, 5 mg per via venosa una volta all’anno riducono il rischio di fratture vertebrali del 70%, delle fratture dell’anca del 41% e delle fratture
periferiche del 25%40.
I bisfosfonati assunti per via orale vengono assorbiti solo in piccola parte (meno del 1%) e dovrebbero essere assunti a digiuno
con un bicchiere di acqua. Il paziente dovrebbe rimanere in piedi o seduto e a digiuno per 30 minuti dopo l’assunzione, al fine di
evitare gli effetti collaterali o un
ridotto assorbimento del farmaco. L’assunzione settimanale o
mensile riduce la possibilità che si
verifichino effetti collaterali a carico dell’apparato gastrointestina-
le e può migliorare l’aderenza al
trattamento. La somministrazione endovena elimina gli effetti collaterali gastrointestinali e aumenta l’aderenza al trattamento, ma
può determinare la comparsa di
una sindrome simil-influenzale,
della durata di pochi giorni, subito dopo l’infusione.
Il livello di soppressione del turnover osseo varia a seconda delle molecole impiegate, tuttavia tale effetto dura per diverso tempo
anche dopo la sospensione della
terapia. I bisfosfonati si legano saldamente alla idrossiapatite sulla
superficie dell’osso e vengono qui
trattenut per un periodo di tempo molto lungo. Per questo motivo, potrebbe verificarsi un’eccessiva soppressione del turnover osseo con un possibile aumento del
rischio di frattura41,42. Recentemente si è parlato di un’osteonecrosi
della mascella come di una possibile complicanza correlata all’eccessiva soppressione del turnover
osseo da parte dei bisfosfonati43.
Negli ultimi due anni sono stati riportati casi di gravi episodi di fibrillazione atriale in soggetti trattati con bisfosfonati44,45.
Ma un’analisi della FDA su 19.687
soggetti in trattamento con questi farmaci e su 18.358 soggetti
trattati con placebo non ha evi-
denziato una chiara associazione
tra l’uso di bisfosfonati e l’aritmia
cardiaca. Un trial molto importante rivisto dall’FDA ha messo in evidenza un significativo incremento di fibrillazioni atriali gravi e l’impiego di zoledronato: tale correlazione viene evidenziata sulla
scheda tecnica che accompagna
il farmaco.
Nonostante questi dati conflittuali, nel novembre 2008 la FDA ha
stabilito che i medici non devono
cambiare le loro abitudini sulla
prescrizione dei bisfosfonati e che
i pazienti non devono sospendere il trattamento.
Questi farmaci non dovrebbero
essere prescritti nei soggetti con
esofago di Barrett per l’aumentato rischio di carcinoma esofageo.
Data la notevole lunghezza dell’emivita, i bisfosfonati dovrebbero essere usati con estrema attenzione nelle pazienti con insufficienza ovarica prematura.
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Teriparatide (PTH 1-34)
Si tratta dell’ormone paratiroideo
ricombinante, dotato di una potente attività anabolica sull’osso.
Si somministra quotidianamente
per via sottocutanea alla dose di
27
MENOPAUSA
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20 µg. Favorisce la formazione di
nuovo osso sia a livello corticale
che a livello trabecolare stimolando l’attività osteoblastica. È in grado di ridurre del 65% le fratture
vertebrali e del 53% quelle non
vertebrali46.
Gli effetti collaterali sono generalmente di scarsa entità (ipercalcemia, iperuricemia, crampi, nausea, cefalea). Le preoccupazioni
legate alla comparsa di osteosarcoma negli animali di laboratorio,
non sono state confermate nell’uomo. Il suo impiego è comunque controindicato nella malattia
di Paget, nei pazienti irradiati a livello scheletrico e in quelli con elevati livelli di fosfatasi alcalina non
spiegati. L’effetto anabolico risulta essere ridotto nei pazienti precedentemente trattati con bisfosfonati. L’uso di questo farmaco
è limitato dai costi estremamente elevati.
Ranelato di stronzio
Questo farmaco possiede una
doppia azione che è una sua caratteristica peculiare. In base ai
dati derivanti da studi sui marcatori dell’osso, lo stronzio ranelato sembra agire sia sull’inibizione
dell’attività osteoclastica, sia favorendo l’attività osteoblastica.
Questa attività viene mediata attraverso il sistema RANK e sui recettori del calcio47.
Due importanti trial randomizzati e controllati (SOTI e TROPOS)48,49
hanno fornito risultati molto importanti. Il trattamento con ranelato di stronzio provoca un significativo aumento del BMD e una
riduzione delle fratture vertebrali del 41%. Biopsie ossee dopo 5
anni di terapia hanno confermato gli effetti positivi del trattamento sulla microarchitettura tridimensionale dell’osso50.
Monitoraggio
della terapia
Il monitoraggio della terapia mediante la valutazione seriata del
BMD presenta diverse insidie come quelle legate alla precisione
degli operatori e degli strumenti
di misura. Per avere significato dovrebbero verificarsi cambiamenti
di almeno il 3,8% a livello dell’anca e del 2,4% a livello della colonna vertebrale. Le misurazioni
dovrebbero essere effettuate a distanza di almeno due anni. Il
BMD, inoltre, non tiene conto dell’effetto della terapia sullo spessore della corticale, sulla porosità
e sulla connettività trabecolare
dell’osso. Attualmente, la valutazione delle fratture vertebrali mediante la DEXA rimane il miglior
modo per monitorare gli effetti
della terapia.
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CLINICA QUOTIDIANA
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I
nquadramento diagnostico
e terapeutico dell’insulinoresistenza in gravidanza
Una situazione a rischio che può sfociare in un diabete gestazionale (DMG),
ma anche favorire la comparsa di ipertesione materna o di preeclampsia.
In presenza di insulino-resistenza occorre pertanto attivare un monitoraggio
particolarmente attento, mentre sul fronte della terapia del DMG sembrano
profilarsi buone prospettive per gli ipoglicemizzanti orali.
di Giorgio Mello, Serena Ottanelli
Dipartimento di Ginecologia, Perinatologia e Riproduzione Umana, Università di Firenze
L’
30
insulina svolge una funzione
fondamentale nella fisiologia
umana attraverso la regolazione
del metabolismo dei carboidrati,
dei lipidi e delle proteine a livello
epatico, muscolare e del tessuto
adiposo. Il suo ruolo non si limita
alla stimolazione del trasporto del
glucosio e all’inibizione della lipolisi poiché essa ha un’importante
influenza sulla funzione endoteliale e sulla regolazione dell’espressione genica. L’insulino-resistenza
(IR), definita come una ridotta risposta biologica all’insulina, in particolare a livello dell’omeostasi glicemica, rappresenta una caratteristica fondamentale della gravidanza: durante la gestazione si assiste, infatti, a un progressivo aumento della resistenza periferica
all’azione dell’insulina che raggiunge il suo massimo nel terzo
trimestre e scompare rapidamente dopo il parto; tutto questo è il
risultato, soprattutto, dell’attività
controinsulare di alcuni ormoni e
citochine di origine placentare, ma
anche dell’aumento del tessuto
adiposo materno. Tale modificazione metabolica permette di ottimizzare il passaggio transplacentare dei nutrienti durante l’assunzione di cibo e, allo stesso tempo,
accentua le capacità materne di
utilizzare le proprie riserve di grassi come fonte di energia durante
il digiuno1.
Le alterazioni di questa fisiologica IR sono coinvolte in importanti complicanze ostetriche. È ormai
ben chiaro come un’eccessiva IR,
insieme a una risposta β-cellulare
inadeguata, rappresentino il meccanismo fisiopatologico alla base
dello sviluppo del diabete mellito
gestazionale (DMG); negli ultimi
anni, inoltre, l’iperinsulinemia materna è stata proposta come possibile fattore patogenetico nello
sviluppo dell’ipertensione gestazionale e della preeclampsia.
Valutazione della IR
in gravidanza:
quale metodica?
La sensibilità insulinica (IS) rappresenta la capacità dell’ormone di
ridurre i livelli di glucosio ematico, sia stimolandone la captazione da parte dei tessuti periferici,
sia sopprimendone la produzione
a livello epatico. La disponibilità
di metodi sensibili e riproducibili
per studiare le variazioni dell’IS è
fondamentale per capire le modificazioni fisiologiche e patologiche che si verificano durante il corso della gravidanza.
Il metodo considerato il gold standard per quantificare la IS in vivo
è il clamp euglicemico iperinsulinemico. Il principio del test è quello di mantenere la glicemia costante infondendo glucosio a velocità controllata durante la contemporanea infusione di insulina
CLINICA QUOTIDIANA
a una dose fissa a livelli soprabasali2. Per la sua complessità di esecuzione e il suo alto costo, questa metodica non è facilmente applicabile per studi su larga scala.
Sono stati così elaborati test surrogati che consentono di valutare in modo semplice la sensibilità
e la secrezione insulinica in un largo numero di soggetti o in particolari condizioni quali la gravidanza. Un valido metodo alternativo
è la tecnica del minimal model,
che utilizza un modello matematico per analizzare i valori di glucosio e insulina ottenuti durante
un IVGTT (Intravenous Glucose
Tolerance Test)3. Anche se tecnicamente meno complesso del
clamp, anche il minimal model
non risulta ideale per studi su larga scala, in quanto comporta una
lunga procedura e richiede prelievi ematici ravvicinati.
Si è cercato quindi di sviluppare e
validare metodi sempre più semplici e meno invasivi. Da questa
necessità è nato, circa venti anni
fa, l’Homeostasis Model Assessment, un modello matematico
che rappresenta la relazione non
lineare tra le concentrazioni di insulina e di glucosio a digiuno.
L’equazione utilizzata da Matthews per stimare la resistenza insulinica è la seguente: ISHOMA =
(FPI x FPG)/22,5 dove FPI e FPG
rappresentano, rispettivamente,
l’insulinemia e la glicemia a digiuno. Correlazioni significative tra
ISHOMA e i risultati del clamp sono state ottenute sia in pazienti
con diabete di tipo 2 che nell’intero range della sensibilità insulinica, suggerendo che l’IS HOMA
rappresenta una valida alternativa a tecniche più sofisticate nella
valutazione dell’IS in vivo4. Kats et
al hanno introdotto più recentemente l’ISQUICKI (Quantitative Insulin-sensitivity ChecK Index), un
altro indice di IS ottenuto dai livelli di glucosio e di insulina a digiuno, definito come: ISQUICKI=1/[log
(I0) + log (G0)] dove I0 e G0 sono
rispettivamente le concentrazioni
di insulina e di glucosio a digiuno.
Tali autori hanno dimostrato che
l’ISQUICKI ha una significativa correlazione con i risultati ottenuti dal
clamp euglicemico, anche in soggetti obesi e diabetici5.
L’impiego di questi indici basati
sulla glicemia e l’insulinemia a digiuno è stato accuratamente validato durante la gravidanza6. Anche se essi non hanno lo scopo di
sostituire il clamp euglicemico nello scenario della ricerca, possono
fornire ai clinici e agli epidemiologi un utile strumento per valutare tale parametro metabolico e
le sue modificazioni durante la
gravidanza in larghi campioni di
studio.
IR materna e DGM
Il termine Diabete Mellito Gestazionale (DMG) definisce un’alterazione del metabolismo glucidico di entità variabile la cui insorgenza o il primo riconoscimento
avviene durante la gravidanza. È
il più comune disordine metabolico che complica la gravidanza
(7%) e la sua diagnosi clinica è
fondamentale per identificare gravidanze ad aumentato rischio di
morbilità e mortalità perinatale e
anche donne ad aumentato rischio di sviluppare un diabete mellito di tipo 2 negli anni successivi
al parto.
Nella gravidanza fisiologica, l’omeostasi glucidica è mantenuta,
nonostante lo sviluppo di un certo grado di IR, attraverso un concomitante e compensatorio aumento della secrezione insulinica.
Nella maggioranza dei casi di
DMG non viene riscontrata alcuna alterazione cellulare identificabile e la maggior parte delle donne con DMG sembra avere una
disfunzione delle β-cellule pancreatiche dovuta a IR cronica, similmente a quanto accade nel
meccanismo patogenetico alla base del diabete di tipo 2.
La diminuzione dell’IS che si verifica nella gravidanza fisiologica
avviene nello stesso modo nelle
gestanti sane e nelle donne che
svilupperanno il DMG, ma in queste ultime si sviluppa su un fondo di IR cronica cosicché le gestanti diabetiche tendono ad avere un grado maggiore di IR rispetto alle gestanti sane7. Questo concetto è stato confermato da recenti studi che hanno dimostrato
come alcuni indici di IR siano significativamente aumentati in
epoca precoce di gestazione nelle donne che svilupperanno il
DMG8,9. È stato per molto tempo
ritenuto che il DMG si sviluppi in
quelle donne che non sono in grado di incrementare la loro secrezione insulinica quando si trovano di fronte al fisiologico aumento del bisogno insulinico durante
le fasi tardive della gravidanza.
In realtà, il semplice smascheramento di un difetto β-cellulare da
parte della fisiologica IR della gravidanza non può spiegare la presenza dell’IR cronica dimostrata
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CLINICA QUOTIDIANA
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nelle donne che sviluppano il
DMG, a meno che il difetto delle
β-cellule e questa IR non siano in
qualche modo legati. Questo suggerisce che il difetto β-cellulare
sia il risultato di anni di esposizione a un’IR cronica e che il sommarsi della fisiologica IR nelle fasi tardive della gravidanza peggiora inevitabilmente la funzione delle β-cellule portando al manifestarsi del DMG.
IR e preeclampsia
32
La preeclampsia fa parte di un ampio spettro di disordini ipertensivi che possono complicare la gravidanza con una frequenza variabile dal 6 all’8% e rimane ancora oggi una delle principali cause
di morbilità e mortalità materna
e neonatale nel mondo occidentale. La limitata comprensione dei
meccanismi fisiopatologici che ne
sono alla base costituisce il principale ostacolo allo sviluppo di metodi in grado di identificare le gestanti a rischio e prevenire l’insorgenza della complicanza.
Anche se probabilmente le cause
della preeclampsia sono multifattoriali, l’IR potrebbe svolgere un
ruolo importante nella comparsa
della sindrome clinica. Numerosi
aspetti descritti nella fisiopatologia della preeclampsia sono comuni alle caratteristiche della sindrome metabolica: l’ipertensione,
la dislipidemia, la generalizzata risposta infiammatoria e gli alti livelli circolanti di TNF e di PAI110.
Diverse evidenze sperimentali derivanti da studi retrospettivi suggeriscono che la preeclampsia è
associata a gradi maggiori di IR rispetto alla gravidanza fisiologica:
numerosi studi svolti durante il
terzo trimestre dimostrano che le
donne che sviluppano ipertensione risultano iperinsulinemiche e
affette da vari gradi di intolleranza glucidica11.
Grazie a importanti studi prospettici, è stato oggi dimostrato che
l’IR non solo è una caratteristica
della preeclampsia, ma ne precede l’insorgenza, suggerendo un
suo possibile ruolo patogenetico.
Uno studio condotto da Sowers
et al in donne afro-americane ha
dimostrato che a 20 settimane di
gestazione i livelli di insulinemia
a digiuno erano aumentati in maniera significativa nelle pazienti
che avrebbero sviluppato la preeclampsia12.
In uno studio prospettico che ha
arruolato oltre 3.600 gestanti, Parretti et al hanno documentato in
un gruppo di 819 pazienti normotese e con normale tolleranza
al glucosio l’esistenza di un’associazione significativa tra gli indici
di IS a digiuno (ISHOMA >75° centile e ISQUICKI < 25° centile) sia in
epoca precoce che tardiva e l’incidenza di preeclampsia.
Tali indici sembrano in grado di
predire con una buona sensibilità
e specificità in entrambe le epoche di gravidanza il seguente sviluppo di preeclampsia13.
Questa relazione temporale supporta quindi l’ipotesi che l’IR sia
in qualche modo coinvolta nella
sequenza di cause che portano alla preeclampsia. Probabilmente
l’IR e la predisposizione alla sin-
drome metabolica rientrano in
quei fattori materni che interagiscono con l’ipoperfusione placentare e alimentano lo stress ossidativo e la disfunzione endoteliale
portando così al manifestarsi della patologia.
Nuove strategie
terapeutiche nel DMG
Il principale scopo del trattamento del DMG è quello di ridurre i livelli glicemici materni in modo da
prevenire l’iperinsulinemia e l’eccessiva crescita fetale e migliorare la funzione endoteliale materna. Il principale approccio per il
controllo glicemico in queste pazienti è il trattamento nutrizionale, con l’aggiunta di insulina quando il primo, da solo, non è sufficiente. La terapia insulinica è da
sempre considerata il gold standard per la sua efficacia nel raggiungere uno stretto controllo metabolico e per il fatto che non oltrepassa la barriera placentare.
Da quanto precedentemente
esposto, essendo il DMG caratterizzato, come il diabete di tipo 2,
da un’eccessiva IR materna associata a un deficit relativo di insulina, il trattamento con ipoglicemizzanti orali è da tempo stato ritenuto di potenziale interesse.
Gli svantaggi della terapia insulinica includono la necessità di iniezioni sottocutanee multiple e quindi di fornire alla paziente un’edu-
CLINICA QUOTIDIANA
cazione corretta circa i modi e i
tempi di somministrazione; quest’opzione comporta inoltre un rischio di ipoglicemia e un aumento dell’appetito, con conseguente incremento del peso materno.
L’impiego degli ipoglicemizzanti
orali potrebbe rappresentare una
attraente alternativa alla terapia
insulinica per la facilità di somministrazione e quindi per la soddisfazione della paziente, costituendo un approccio più “fisiologico”
al trattamento del DMG rispetto
all’insulina. La restrizione al loro
uso in gravidanza sarebbe principalmente correlata al rischio malformativo e al danno fetale da ipoglicemia per stimolazione diretta
del pancreas fetale.
Prospettive trapeutiche
con gliburide…
I dati più importanti sugli antidiabetici orali riguardano la gliburide, principio attivo appartenente
alla classe delle sulfaniluree. Questi farmaci agiscono sopprimendo la produzione epatica di glucosio e aumentando la secrezione insulinica dopo i pasti; è stato
quindi ipotizzato che essi potrebbero stimolare la produzione d’insulina da parte del pancreas fetale e quindi peggiorare la fetopatia diabetica in caso di passaggio
transplacentare.
Studi in vitro su placente di madri sia diabetiche che non diabetiche hanno dimostrato che la gliburide non oltrepassa in quantità significative la barriera placentare14. In un importante studio randomizzato, Langer et al hanno
confrontato l’impiego della gliburide e dell’insulina in circa 400
donne con DMG che non riuscivano a ottenere un adeguato controllo glicemico con la terapia nu-
trizionale dimostrando che il grado di controllo glicemico era essenzialmente lo stesso con i due
trattamenti e che solo il 4% del
gruppo in terapia con gliburide
aveva richiesto terapia insulinica.
Inoltre, non erano evidenziabili
differenze significative tra i due
gruppi nell’incidenza di preeclampsia, macrosomia, ipoglicemia
neonatale, anomalie congenite,
mortalità perinatale, TC e nelle
concentrazioni di insulina nel cordone ombelicale dei neonati.
Gli autori concludono che la gliburide sembrerebbe rappresentare una sicura ed efficace alternativa alla terapia insulinica per il
trattamento del diabete gestazionale15. La gliburide stimola la secrezione da parte delle β-cellule,
ma non risolve o affronta il problema dell’IR sia periferica che
epatica.
… e con metformina
La metformina, come sensibilizzante dell’azione insulinica, potrebbe sembrare un’opzione più
logica per le donne con DMG; essa agisce infatti diminuendo l’output epatico di glucosio, aumentandone l’uptake e l’utilizzo periferico e riducendo i livelli di FFA
(Free Fatty Acids).
Inoltre, a differenza della gliburide, non stimola la secrezione insulinica provocando meno frequentemente ipoglicemia. La metformina attraversa la placenta raggiungendo nella circolazione fetale livelli di circa la metà rispetto
a quelli materni; non stimolando
la secrezione β-cellulare non dovrebbe essere in grado di agire sulla secrezione insulinica del pancreas fetale e causare danni fetali da ipoglicemia e iperinsulinemia. I primi dati sull’uso della met-
formina in gravidanza risalgono a
circa 20 anni or sono; è infatti riportato l’impiego del farmaco nelle donne con DMG e con DM di
tipo 2 nelle popolazioni sudafricane; studi di coorte hanno dimostrato esiti perinatali simili nelle
donne trattate con metformina rispetto a quelle in terapia insulinica16. Tale esperienza è stata poi
confermata da lavori più recenti17;
solo uno studio retrospettivo danese ha segnalato un maggior rischio di preeclampsia e di morte
fetale in un gruppo di 50 donne
con DMG o DM di tipo 2 trattate
con metformina rispetto a 23 donne in terapia insulinica18.
Tuttavia il trial era retrospettivo e
poco controllato e probabilmente le morti fetali non erano correlate al trattamento. Ulteriori dati
sull’uso della metformina in gravidanza provengono dal suo utilizzo nelle donne con sindrome
dell’ovaio policistico (PCOS), tipicamente caratterizzate da IR. Il
trattamento con metformina in
queste pazienti ha mostrato migliorare l’ovulazione e la fertilità
e il suo proseguimento durante la
gravidanza sembra ridurre il rischio di aborto spontaneo dal 73
al 10% e di insorgenza di DMG
di circa 10 volte, senza aumentare la frequenza di preeclampsia o
di morte perinatale19.
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CLINICA QUOTIDIANA
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Oggi, i risultati del MIG TRIAL, un
recente studio randomizzato controllato che ha comparato la metformina con il trattamento insulinico in 751 pazienti con DMG,
sembrano confermare l’efficacia
e la sicurezza di questo antidiabetico orale nel trattamento del
DMG. In questo studio non è stata riscontrata differenza negli outcome perinatali tra i due gruppi
di gestanti; non c’erano inoltre
differenze nelle misure antropometriche dei neonati e nei livelli
di insulina nel sangue cordonale.
Delle donne in terapia con metformina circa il 46% ha avuto bisogno di un supplemento con in-
sulina per raggiungere il controllo glicemico; tali pazienti erano
quelle con un maggiore BMI e con
livelli di glicemia a digiuno più alti e hanno richiesto, comunque,
minori quantità di insulina e hanno avuto un minore incremento
di peso rispetto alle pazienti trattate con la sola terapia insulinica.
Gli autori concludono, quindi, che
la metformina, da sola o con un
supplemento di insulina, rappresenta un trattamento efficace e
sicuro per le pazienti con DMG
che rientrano nei criteri per l’inizio della terapia insulinica20.
Anche se dalla letteratura sembra
che questi farmaci siano sicuri, è
mandatorio considerare la possibilità di un’eventuale alterazione
della fisiologia fetale, che non può
essere esclusa fino a quando non
saranno disponibili dati rassicuranti sull’outcome neonatale in termini di composizione corporea e
IS a distanza di anni dalla nascita.
Al momento, la commissione della quinta Workshop Conference
internazionale sul DMG ha concluso che non esiste ancora evidenza per raccomandare il trattamento con metformina nel DMG,
eccetto che in studi clinici, che dovranno considerare come importante endpoint il follow-up a lungo termine di questi neonati.
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34
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2003-15.
GESTODIOL 20/30
RIASSUNTO DELLE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO
1. DENOMINAZIONE DELLA SPECIALITÀ MEDICINALE.
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite
2. COMPOSIZIONE QUALITATIVA E QUANTITATIVA.
Principi attivi: GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite:
ogni compressa contiene 20 microgrammi di Etinilestradiolo e 75 microgrammi di
Gestodene. GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite:
ogni compressa contiene 30 microgrammi di Etinilestradiolo e 75 microgrammi di
Gestodene. Eccipienti: GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse
rivestite contiene 38 mg di lattosio monoidrato e 20 mg di saccarosio. GESTODIOL
30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite contiene 38 mg di lattosio
monoidrato e 20 mg di saccarosio. Per l’elenco completo degli eccipienti, vedere
paragrafo 6.1.
3. FORMA FARMACEUTICA. Compressa rivestita: compresse rivestite di zucchero, di colore bianco, arrotondate, biconvesse senza impressioni su entrambi i lati.
4. INFORMAZIONI CLINICHE. 4.1. Indicazioni terapeutiche. Contraccezione orale. 4.2. Posologia e modo di somministrazione. Come assumere GESTODIOL.
Le compresse devono essere assunte nell’ordine indicato sulla confezione ogni giorno approssimativamente alla stessa ora. Una compressa al giorno per 21 giorni.
Ogni confezione successiva deve essere iniziata dopo un intervallo di 7 giorni in cui
non verrà assunta alcuna compressa: durante questo lasso di tempo si verificherà
un’emorragia da sospensione. Quest’emorragia inizia solitamente il secondo o terzo giorno dopo aver assunto l’ultima compressa e potrebbe continuare anche dopo l’inizio della confezione successiva. Come cominciare ad assumere GESTODIOL. Nel caso in cui non ci sia stato alcun trattamento contraccettivo ormonale nel mese precedente. È necessario assumere la prima compressa il primo
giorno del ciclo naturale della donna (vale a dire il primo giorno del suo ciclo mestruale). È possibile cominciare ad assumere le pillole dal secondo al quinto giorno
ma in questi casi si raccomanda di usare anche un metodo contraccettivo di barriera per i primi sette giorni d’assunzione delle compresse durante il primo ciclo. In
caso di passaggio da un’altra pillola contraccettiva orale di tipo combinato.
La donna deve cominciare ad assumere GESTODIOL il giorno dopo l’ultima compressa attiva del suo precedente contraccettivo - ma non più tardi del giorno successivo al completamento dell’usuale periodo in cui non assume alcuna pillola oppure assume placebo come previsto dal farmaco contraccettivo precedente. Quando si passa da un contraccettivo solo progestinico (pillola solo al progesterone (mini-pillola, iniezione, impianto) oppure da un sistema intrauterino a
rilascio di ormone progestinico (IUS). La donna può effettuare il passaggio dalla pillola solo al progesterone (POP) in qualsiasi momento del ciclo. La prima compressa deve essere assunta il giorno dopo aver assunto una qualsiasi delle compresse nella confezione di POP. Nel caso di un impianto o di una IUS l’assunzione
di GESTODIOL deve cominciare lo stesso giorno nel quale l’impianto viene rimosso. Nel caso di un iniettabile, GESTODIOL deve essere iniziato nel giorno in cui dovrebbe essere praticata la successiva iniezione. In tutti questi casi si raccomanda
alla donna di usare anche un metodo contraccettivo di barriera per i primi sette giorni di assunzione delle pillole. Dopo un aborto al primo trimestre. La donna può
iniziare immediatamente a prendere le pillole. Se si attiene a queste istruzioni non
sono necessarie ulteriori misure contraccettive. Dopo un parto o un aborto al secondo trimestre. Per l’uso in donne che allattano si veda il paragrafo 4.6. Si raccomanda alla donna di iniziare a prendere le compresse al 21°-28° giorno dopo il
parto, se non allatta al seno, o dopo un aborto al secondo trimestre. Se inizia più
tardi, la donna deve essere avvertita di usare anche un metodo contraccettivo di
barriera per i primi sette giorni di assunzione delle pillole. Se nel frattempo si fossero avuti rapporti sessuali, prima di iniziare effettivamente l’assunzione delle pillole si deve escludere una gravidanza oppure la donna deve attendere la comparsa della sua prima mestruazione. Mancata assunzione di compresse. La mancata assunzione di una compressa entro 12 ore dall’ora consueta non pregiudica
la protezione contraccettiva. La donna deve prendere la compressa appena se ne
ricorda e continuare ad assumere il resto delle compresse come al solito. La man-
cata assunzione di una compressa per più di 12 ore dall’ora consueta può diminuire la protezione contraccettiva. Le due regole seguenti possono essere utili nella
gestione della mancata assunzione di compresse. 1. L’assunzione delle compresse non deve mai essere sospesa per periodi superiori ai 7 giorni. 2. Servono 7 giorni di ingestione ininterrotta di compresse per ottenere una sufficiente soppressione dell’asse ipotalamo-pituitario-gonadale. Pertanto il consiglio che segue può essere dato nella pratica giornaliera: Settimana 1. La donna deve prendere l’ultima
compressa dimenticata non appena se ne ricorda, anche se questo significa che
deve assumere 2 compresse contemporaneamente. Dopodiché deve continuare ad
assumere le compresse alla solita ora. Contemporaneamente deve usare un metodo di barriera, ad es. un preservativo, per i successivi 7 giorni. Se nei 7 giorni precedenti si sono avuti rapporti sessuali la donna deve tenere in considerazione la
possibilità di poter essere incinta. Tante più compresse sono state dimenticate e
tanto più ciò è avvenuto in prossimità del periodo del mese in cui le compresse non
vengono assunte, tanto maggiore è il rischio che si instauri una gravidanza. Settimana 2. La donna deve prendere l’ultima compressa dimenticata non appena se
ne ricorda, anche se questo significa che deve assumere 2 compresse contemporaneamente. Dopodiché deve continuare ad assumere le compresse alla solita ora.
Se le compresse sono state assunte correttamente per 7 giorni prima della dimenticanza non è necessario prendere ulteriori precauzioni contraccettive. In caso contrario o se sono state dimenticate più compresse la donna deve comunque usare
un metodo di barriera, ad es. un preservativo, per i successivi 7 giorni. Settimana
3. Dato l’avvicinarsi del periodo di sospensione il rischio di una ridotta protezione
anticoncezionale è maggiore. È comunque possibile prevenire la riduzione della protezione anticoncezionale regolando l’assunzione delle compresse. Attenendosi a
una qualunque delle due opzioni seguenti non è pertanto necessario prendere alcuna precauzione contraccettiva supplementare, fatto salvo che le compresse siano state assunte correttamente per 7 giorni prima della dimenticanza. In caso contrario è opportuno consigliare alla donna di seguire la prima delle due opzioni e di
usare allo stesso tempo un metodo di barriera, ad es. un preservativo, per i 7 giorni successivi. 1. La donna deve prendere l’ultima compressa dimenticata al più presto, anche se questo significa che deve assumere 2 compresse contemporaneamente. Dopodiché deve continuare ad assumere le compresse alla solita ora. Incomincerà la nuova confezione immediatamente dopo aver assunto l’ultima compressa della confezione in uso; in questo caso non vi sarà il periodo di sospensione tra
le confezioni. È improbabile che si verifichino le mestruazioni fino al termine della
seconda confezione di compresse, tuttavia si potrebbe notare emorragia intermestruale o metrorragia durante l’assunzione delle compresse. 2. È possibile che alla donna venga suggerito di sospendere l’assunzione delle compresse dalla confezione in uso. In qual caso si avrà un periodo di sospensione della durata massima
di 7 giorni, inclusi i giorni in cui la compressa è stata dimenticata, dopodiché la donna inizierà una nuova confezione. Se, dopo che la donna ha dimenticato di assumere delle compresse, non si presentano le mestruazioni nel primo usuale intervallo libero da pillola, si deve considerare la possibilità che la donna sia incinta. Cosa fare in caso di vomito/diarrea. Se si manifesta vomito entro 3-4 ore dall’assunzione di una compressa, quest’ultima potrebbe non venire completamente assorbita. In questo caso ci si attenga alle istruzioni sopra indicate inerenti le compresse dimenticate. A meno che la diarrea non sia estremamente grave, essa non
influisce sull’assorbimento dei contraccettivi orali combinati, per cui non è necessario ricorrere a metodi contraccettivi supplementari. Se la diarrea grave perdura
per 2 o più giorni ci si attenga alle procedure previste per le pillole dimenticate. Se
la donna non desidera variare la consueta assunzione di compresse, deve prendere una compressa (o compresse) extra da un’altra confezione. Come spostare o
ritardare il mestruo. Per ritardare il mestruo, la donna dovrà continuare l’assunzione di GESTODIOL passando da una confezione blister ad un’altra, senza periodo di sospensione. Il mestruo può essere ritardato per quanto si desidera ma non
oltre la fine della seconda confezione. Quando si ritarda il mestruo è possibile che
si verifichino episodi di sanguinamento da sospensione o emorragia intermestruale. L’assunzione di GESTODIOL dovrà essere ripresa regolarmente al termine del
consueto intervallo in cui non viene assunta alcuna compressa. Per spostare il mestruo ad un giorno nella settimana diverso rispetto a quello previsto con le attuali
compresse, si può consigliare alla donna di abbreviare il successivo intervallo libero da pillola di quanti giorni lei desidera. Più breve è questo intervallo e maggiore
sarà il rischio di non avere sanguinamento mestruale ma metrorragia e emorragia
intermestruale durante l’assunzione delle compresse della confezione successiva
(questo si verifica anche quando si ritarda il mestruo). 4.3. Controindicazioni. I
contraccettivi orali combinati (COC) non devono essere usati se una delle condizioni sotto indicate è presente. Se una tale condizione si dovesse manifestare per la
prima volta durante l’impiego dei COC il loro uso deve essere immediatamente sospeso. • Patologia tromboembolica venosa in fase attiva o in anamnesi (trombosi
venosa profonda, embolia polmonare). • Tromboembolia arteriosa in fase attiva o
in anamnesi (infarto del miocardio, patologie cerebrovascolari) oppure sintomi prodromici (angina pectoris e attacco ischemico transitorio) (vedi paragrafo 4.4). • Predisposizione ereditaria o acquisita alla trombosi venosa o arteriosa come carenza
di antitrombina, carenza di proteina C, carenza di proteina S, resistenza alla proteina C attivata (APC), anticorpi antifosfolipidi (anticorpi anticardiolipina, lupus anticoagulante), iperomocisteinemia. • Fattori di rischio multipli o considerevoli per la trombosi arteriosa (vedi paragrafo 4.4). • Grave ipertensione. • Diabete complicato da
micro- o macroangiopatia. • Grave dislipoproteinemia. • Noti o sospetti tumori maligni ormono-dipendenti (ad es. a carico degli organi genitali o della mammella). •
Grave patologia epatica concomitante o in anamnesi fintanto che i valori di funzionalità epatica non sono rientrati nella normalità. • Tumori epatici benigni o maligni
concomitanti o in anamnesi. • Sanguinamento vaginale di natura non accertata. •
Emicrania con sintomatologia neurologica focale. • Ipersensibilità ai principi attivi
o ad uno qualsiasi degli eccipienti. 4.4. Avvertenze speciali e precauzioni d’impiego. Valutazione ed esame prima di iniziare l’assunzione dei contraccettivi orali
combinati. Prima dell’inizio o della ripresa del trattamento con contraccettivi orali
combinati è necessario che il medico analizzi l’anamnesi personale e familiare della paziente e che venga esclusa una gravidanza. Sulla base delle controindicazioni
(vedi paragrafo 4.3) e delle avvertenze (vedi “Avvertenze” in questa sezione) è necessario misurare la pressione sanguigna e sottoporre la paziente ad un esame fisico, se clinicamente indicato. Alla donna viene richiesto di leggere attentamente il
foglio illustrativo e di attenersi alle istruzioni fornite. La frequenza e la natura di ulteriori controlli periodici devono basarsi su linee guida di pratica stabilita ed essere adattate alla singola donna. Avvertenze. In generale. Informare le donne che i
contraccettivi ormonali non proteggono dall’HIV (AIDS) o da altre infezioni sessualmente trasmissibili. Se uno qualunque dei fattori di rischio sotto menzionati è presente, valutare caso per caso i benefici connessi all’uso del COC con i possibili rischi per ogni singola donna e discuterne con la donna prima di cominciare l’assunzione del contraccettivo orale combinato. In caso di aggravamento, esacerbazione
o insorgenza di una qualsiasi di queste condizioni o fattori di rischio è opportuno
che la donna prenda contatto con il suo medico. Il medico deciderà se interrompere l’assunzione del COC. 1. Disturbi della circolazione. L’uso di qualsiasi COC aumenta il rischio di tromboembolia venosa (TEV) rispetto al non uso. L’eccesso di rischio di TEV è massimo durante il primo anno in cui una donna fa uso di un COC
per la prima volta. L’aumento di rischio è inferiore rispetto al rischio di TEV associato alla gravidanza, che è stimato in 60 casi ogni 100.000 gravidanze. La TEV risulta fatale nell’1-2% dei casi. In diversi studi epidemiologici è stato riscontrato che
nelle donne che usano contraccettivi orali combinati contenenti etinilestradiolo, per
lo più alla dose di 30 µg, e un progestinico come gestodene il rischio di TEV è aumentato rispetto alle donne che usano contraccettivi orali combinati contenenti meno di 50 µg di etinilestradiolo ed il progestinico levonorgestrel. Relativamente ai contraccettivi orali combinati contenenti 30 µg di etinilestradiolo in combinazione con
desogestrel o gestodene in confronto a quelli contenenti meno di 50 µg di etinilestradiolo e levonorgestrel, è stato stimato che il rischio relativo complessivo di TEV
è compreso tra 1,5 e 2,0. Nel caso di contraccettivi orali combinati contenenti levonorgestrel con meno di 50 µg di etinilestradiolo l’incidenza di TEV è di circa 20
casi su ogni 100.000 anni-donna di utilizzo. Per quanto riguarda GESTODIOL l’incidenza varia da 30 a 40 casi per 100.000 anni-donna di utilizzo, vale a dire 1020 casi aggiuntivi ogni 100.000 anni-donna di utilizzo. L’impatto del rischio relativo sul numero di casi addizionali sarebbe massimo in donne durante il primo anno
di utilizzo del contraccettivo orale combinato quando il rischio di TEV con tutti i contraccettivi orali combinati è massimo. Molto raramente è stata segnalata trombosi
in altri vasi sanguigni, vale a dire di tipo epatico, mesenterico, renale oppure a carico delle vene e delle arterie della retina in utilizzatrici di contraccettivi orali. Non vi
è consenso circa la possibilità che l’insorgenza di questi casi sia correlata all’uso
di COC. Il rischio che si sviluppi tromboembolia venosa aumenta: • con l’avanzamento dell’età; • in caso di anamnesi familiare positiva (ad es. tromboembolia venosa che ha riguardato un parente o un consanguineo più soggetti di età relativamente giovane). In caso di sospetta predisposizione ereditaria, la donna deve essere indirizzata da uno specialista prima che le sia prescritto un contraccettivo orale; • in caso di obesità (indice di massa corporea superiore a 30 Kg/m2); • immobilizzazione prolungata, chirurgia maggiore, intervento chirurgico alle gambe o trauma maggiore. In questi casi è raccomandata la sospensione del trattamento con i
contraccettivi orali (nel caso di un’operazione chirurgica programmata almeno 4
settimane prima) e non deve essere assunto fino a 2 settimane dopo la completa
deambulazione; • non vi è consenso sul possibile ruolo di vene varicose e tromboflebiti superficiali nella tromboembolia venosa. In generale l’uso di COC è stato associato ad un aumento del rischio di infarto acuto del miocardio (AMI) o di ictus, rischio questo fortemente influenzato dalla presenza di altri fattori di rischio (ad es.
fumo, pressione sanguigna alta ed età) (vedi anche sotto). Questi eventi si verificano raramente. Il rischio di eventi tromboembolici aumenta con: • l’avanzamento
dell’età; • fumo (con forti fumatrici e con l’avanzare dell’età il rischio aumenta ulteriormente, soprattutto se si tratta di donne con più di 35 anni di età); • dislipoproteinemia; • obesità (indice di massa corporea superiore a 30 Kg/m2); • ipertensione; • valvulopatia cardiaca; • fibrillazione atriale; • anamnesi familiare positiva
(ad es. trombosi arteriosa che ha riguardato un parente o un consanguineo di età
relativamente giovane). Se si sospetta una predisposizione ereditaria la donna deve essere indirizzata da uno specialista prima che le sia prescritto un contraccettivo orale. Sintomi di trombosi venosa ed arteriosa possono includere: • dolore e/o
gonfiore unilaterale ad una gamba; • improvviso grave dolore toracico, che può o
meno estendersi al braccio sinistro; • fiato corto improvviso; • tosse improvvisa; •
cefalea insolita, grave, prolungata; • improvvisa perdita parziale o completa della
vista; • diplopia; • difficoltà nel parlare o afasia; • vertigini; • collasso accompagnato o meno da crisi epilettiche focali; • debolezza o improvviso intorpidimento
molto marcato di un lato o una parte del corpo; • disturbi motori; • addome “acuto”. Si deve tenere in considerazione l’aumento del rischio di tromboembolia venosa durante il puerperio. Altre condizioni mediche correlate ai disturbi vascolari sono: diabete mellito, lupus eritematoso sistemico, sindrome emolitico-uremica, malattia infiammatoria cronica intestinale (morbo di Crohn oppure colite ulcerosa) e
anemia a cellule falciformi. Un aumento della frequenza e della gravità dell’emicrania (che può essere prodromica in caso di malattia cerebrovascolare) durante l’impiego di contraccettivi orali deve far prendere in considerazione l’immediata sospensione dei contraccettivi orali. Fra i parametri biochimici indicativi della predisposizione ereditaria o acquisita alla trombosi venosa o arteriosa vi sono: resistenza alla proteina C attivata (APC), mutazione del fattore V di Leiden, iperomocisteinemia, carenza di antitrombina-III, carenza di proteina C, carenza di proteina S, anticorpi antifosfolipidi (anticorpi anticardiolipina, lupus anticoagulante). Mentre valuta il rapporto rischio/beneficio il medico deve tenere presente che il trattamento
adeguato di una condizione può ridurre il rischio associato di trombosi e che il rischio associato alla gravidanza è maggiore rispetto a quello connesso all’uso di
COC. 2. Tumori: Cancro della cervice. In alcuni studi epidemiologici si è riferito
un rischio maggiore di cancro cervicale nelle utilizzatrici a lungo termine dei COC
ma non è ancora chiaro fino a che punto questo rilievo possa essere influenzato
dagli effetti aggravanti del comportamento sessuale e di altri fattori quali il papilloma virus umano (HPV). Carcinoma della mammella. Una meta-analisi di 54 studi epidemiologici ha riferito un rischio relativo leggermente superiore (RR=1,24) di
diagnosi di cancro della mammella fra le donne che attualmente usano COC. L’eccedenza di rischio scompare gradualmente nel corso dei 10 anni seguenti all’interruzione dell’uso dei COC. Poiché il cancro della mammella è raro nelle donne di
meno di 40 anni, il numero superiore di diagnosi di tumore alla mammella fra le
utilizzatrici attuali e recenti di COC è limitato in rapporto al rischio globale di cancro
della mammella. Questi studi non forniscono evidenza di causalità. L’andamento
superiore del rischio osservato potrebbe essere dovuto ad una diagnosi precoce del
cancro della mammella nelle utilizzatrici di COC, agli effetti biologici dei COC o a
una combinazione di entrambi i fattori. Il cancro alla mammella diagnosticato nelle donne che hanno usato COC tende ad essere meno avanzato dal punto di vista
clinico rispetto alle forme tumorali riscontrate fra le donne che non hanno mai assunto COC. Tumori epatici. Tra le utilizzatrici di COC si sono riferiti tumori epatici
benigni e maligni. In casi isolati questi tumori hanno portato ad emorragie intra-addominali ad esito potenzialmente fatale. Pertanto, considerare la possibilità di tumore epatico nella diagnosi differenziale, quando un’utilizzatrice di COC presenti
severo dolore all’addome superiore, ingrossamento del fegato (epatomegalia) oppure segni di emorragia intra-addominale. 3. Altre condizioni. Le donne affette da
ipertrigliceridemia, o anamnesi familiare della stessa, possono essere a rischio maggiore di pancreatite mentre usano COC. In caso di disturbi acuti o cronici della funzionalità epatica potrà essere necessaria l’interruzione di GESTODIOL, fino al ripristino ai valori normali dei marker della funzionalità epatica. Gli ormoni steroidei potrebbero essere scarsamente metabolizzati in pazienti con funzionalità epatica compromessa. Malgrado si siano riferiti piccoli innalzamenti della pressione arteriosa in
molte donne che assumono contraccettivi orali combinati, gli innalzamenti clinicamente significativi sono rari. Se, durante l’assunzione di un contraccettivo ormonale combinato si sviluppa un’ipertensione clinica persistente bisogna sospendere
l’assunzione del contraccettivo ormonale combinato e trattare l’ipertensione. L’assunzione del contraccettivo orale combinato potrà riprendere se risulta possibile ottenere valori normotensivi mediante la terapia. Se il medico lo ritiene opportuno,
l’uso della pillola può essere ripreso quando i valori della pressione rientreranno
nella norma in seguito a terapia antiipertensiva. Sia con la gravidanza che con l’uso
di COC possono comparire o peggiorare delle condizioni qui di seguito riportate.
Tuttavia, le prove di un’associazione con l’uso dei COC non sono decisive: ittero e/o
prurito associato a colestasi; sviluppo di calcoli biliari; porfiria; lupus eritematoso sistemico; sindrome emoliticouremica; corea di Sydenham; herpes gestationis; perdita di udito dovuta a otosclerosi. I contraccettivi orali combinati possono avere un
effetto sulla resistenza periferica all’insulina e sulla tolleranza al glucosio. È pertanto necessario che le pazienti diabetiche vengano attentamente monitorate durante
l’impiego dei COC. GESTODIOL contiene lattosio e saccarosio. Le pazienti con rari
problemi ereditari di intolleranza al galattosio, deficit di Lapp-lattasi o malassorbimento di glucosio-galattosio oppure con rari problemi di intolleranza al fruttosio non
devono assumere questo medicinale. Durante l’uso dei COC si è riferito l’aggravamento della depressione endogena, dell’epilessia (vedi paragrafo 4.5 Interazioni),
del morbo di Crohn e della colite ulcerosa. È possibile che si manifesti cloasma,
specialmente nelle utilizzatrici con anamnesi di cloasma gravidarum. Le donne con
tendenza al cloasma devono evitare l’esposizione al sole o alla radiazione ultravioletta mentre assumono i COC. Le preparazioni erboristiche contenenti Iperico o erba di San Giovanni (Hypericum perforatum) non devono essere assunte contemporaneamente a GESTODIOL a causa del rischio di diminuzione delle concentrazioni
plasmatiche e degli effetti clinici di GESTODIOL (vedi paragrafo 4.5). Efficacia ridotta. L’efficacia dei contraccettivi orali può essere ridotta nel caso in cui ci si dimentichi di assumere delle compresse, in presenza di diarrea grave o vomito (vedi
paragrafo 4.2) oppure in caso di uso concomitante di altri medicinali (vedi paragrafo 4.5). Ciclo irregolare. Come con tutti i contraccettivi ormonali combinati, potrà
verificarsi la perdita irregolare di sangue (emorragia intermestruale o metrorragia),
particolarmente nei primi mesi di assunzione. Per questo motivo, un’opinione medica circa la perdita irregolare di sangue avrà utilità solo dopo un periodo di adattamento di tre cicli circa. Se la metrorragia persiste sarà necessario considerare la
possibilità di usare COC con un contenuto ormonale più alto. Se la metrorragia si
verifica dopo precedenti cicli regolari occorre considerare cause non di natura ormonale e prendere adeguate misure diagnostiche per escludere la presenza di una
patologia maligna o di una gravidanza. Occasionalmente potrebbe non esservi alcuna emorragia da sospensione nell’intervallo in cui non vengono assunte le compresse. Se le compresse sono state assunte secondo le istruzioni di cui al paragrafo 4.2, è improbabile che la donna sia incinta. Tuttavia, se le compresse non sono
state assunte in base a dette istruzioni precedentemente alla prima emorragia da
sospensione saltata, oppure se la donna salta consecutivamente due emorragie da
sospensione, è necessario escludere la gravidanza prima di proseguire l’assunzione del COC. 4.5. Interazioni con altri medicinali ed altre forme di interazione.
Le interazioni con medicinali in grado di portare ad una elevata clearance degli ormoni sessuali possono comportare metrorragia ed insuccesso della contraccezione orale. Questo effetto è stato stabilito nel caso di idantoine, barbiturici, primidone, carbamazepina e rifampicina, ed è risultato sospetto nel caso di oxcarbazepina, topiramato, griseofulvina, felbamato e ritonavir. Il meccanismo di queste interazioni sembra essere basato sulle proprietà di induzione degli enzimi epatici di questi medicinali. In generale la massima induzione enzimatica non si ha nelle prime
2-3 settimane dopo l’inizio del trattamento, ma l’effetto può essere sostenuto per
almeno 4 settimane dopo l’interruzione della terapia. Si sono riferiti anche casi di
insuccesso della contraccezione con antibiotici quali ampicillina e tetracicline. Il
meccanismo di questo effetto non è stato chiarito. Le donne in trattamento a breClassificazione
sistemica organica
Comune (da=1/100
a <1/10)
Patologie del sistema nervoso
Cefalea
Nervosismo
Irritazione oculare quando
si portano lenti a contatto
Disturbi della vista
Patologie dell’occhio
Patologie dell’orecchio e del labirinto
Patologie gastrointestinali
Patologie della cute
e del tessuto sottocutaneo
Disordini del metabolismo
e della nutrizione
Patologie vascolari
Patologie sistemiche e condizioni
relative alla sede di somministrazione
Disturbi del sistema immunitario
Patologie dell’apparato riproduttivo
e della mammella
Disturbi psichiatrici
Nausea
Acne
Emicrania
ve termine con uno qualsiasi dei gruppi di farmaci sopra citati o con singoli medicinali, devono usare temporaneamente un metodo di barriera oltre alla pillola anticoncezionale, ciò deve avvenire per tutto il tempo in cui questo medicinale viene
assunto contemporaneamente alla pillola come pure nei sette giorni successivi alla sua sospensione. Le donne in trattamento con rifampicina devono usare un metodo di barriera contemporaneamente al contraccettivo orale durante tutto il periodo in cui assumono la rifampicina come pure nei 28 giorni successivi alla sua sospensione. Se la somministrazione concomitante del medicinale continua oltre il
numero di compresse anticoncezionali nella confezione, la donna deve iniziare la
confezione successiva, senza osservare il consueto intervallo di sospensione. Per
le donne in terapia a lungo termine con induttori degli enzimi epatici, è necessario
considerare un altro metodo contraccettivo. Le pazienti che assumono GESTODIOL
non devono usare contemporaneamente preparazioni/prodotti medicinali alternativi contenenti Hypericum perforatum (Iperico o erba di San Giovanni) poiché essi potrebbero causare una perdita dell’effetto contraccettivo. Si sono riferite metrorragia
e gravidanze indesiderate. L’Hypericum perforatum (Iperico o erba di San Giovanni) aumenta, mediante induzione enzimatica, la quantità di enzimi che metabolizzano i prodotti medicinali. L’effetto di induzione enzimatica potrebbe persistere per
almeno 1-2 settimane dalla cessazione del trattamento con Hypericum. Effetti dei
contraccettivi orali combinati su altri farmaci: i contraccettivi orali possono interferire con il metabolismo di altri farmaci. Ne può conseguire un aumento (ad es. ciclosporina) o una diminuzione (lamotrigina) delle concentrazioni plasmatiche e tissutali. Test di laboratorio. L’impiego di steroidi contraccettivi può influenzare i risultati di alcuni esami di laboratorio tra cui i parametri biochimici della funzionalità
epatica, tiroidea, corticosurrenalica e renale, i livelli plasmatici delle proteine (di trasporto), per esempio della globulina legante i corticosteroidi e delle frazioni lipido/lipoproteiche, i parametri del metabolismo dei carboidrati ed i parametri della coagulazione e della fibrinolisi. Le variazioni rientrano, in genere, nei limiti dei valori normali di laboratorio. 4.6. Gravidanza ed allattamento. GESTODIOL è controindicato durante la gravidanza. In caso di gravidanza durante l’assunzione di GESTODIOL
sospendere immediatamente il trattamento. Estesi studi epidemiologici non hanno
evidenziato né un aumento del rischio di difetti congeniti in bambini nati da donne
che hanno assunto contraccettivi orali combinati prima della gravidanza, né effetti
teratogeni a seguito di involontaria assunzione di contraccettivi orali combinati durante la gravidanza. L’allattamento può essere influenzato dagli steroidi contraccettivi in quanto essi possono ridurre il volume ed alterare la composizione del latte
materno. Piccole quantità di steroidi contraccettivi e/o di loro metaboliti possono
essere escreti nel latte materno. Pertanto, l’uso di steroidi contraccettivi non è in
genere raccomandato in madri che allattano fino al termine del completo svezzamento. 4.7. Effetti sulla capacità di guidare veicoli e sull’uso di macchinari.
GESTODIOL non ha effetti, se non minimi, sulla capacità di guidare veicoli e di usare macchinari. 4.8. Effetti indesiderati. Gli eventi avversi riferiti con maggior frequenza (>1/10) sono sanguinamento irregolare, nausea, aumento ponderale, tensione mammaria e cefalea. Essi si manifestano solitamente all’inizio della tera-
Non comune (da=1/1000
a <1/100)
Raro (da=1/10000
a <1000)
Corea
Vomito
Iperlipidemia
Ipertensione
Otosclerosi
Colelitiasi
Cloasma
Tromboembolia venosa
Eventi tromboembolici arteriosi
Aumento ponderale
Ritenzione idrica
Sanguinamento irregolare
Amenorrea
Ipomenorrea
Tensione mammaria
Alterazioni della libido
Depressione
Irritabilità
Molto raro
(<1/10000)
Lupus eritematoso
Alterata secrezione vaginale
Pancreatite
pia e sono transitori. I seguenti gravi effetti indesiderati sono stati riportati in
donne che assumono COC, vedi paragrafi 4.3 e 4.4. • Tromboembolia venosa,
vale a dire trombosi venosa profonda in una gamba o alle pelvi ed embolia polmonare. • Eventi tromboembolici arteriosi. • Tumori epatici. • Patologia della
cute e del tessuto sottocutaneo: cloasma. La frequenza di diagnosi di cancro
della mammella fra le donne che assumono COC è leggermente maggiore. Poiché il cancro della mammella è raro nelle donne con meno di 40 anni, il numero superiore è limitato in rapporto al rischio globale di cancro alla mammella.
Non è noto il rapporto di causalità con i COC. Per ulteriori informazioni vedere i
paragrafi 4.3 e 4.4. 4.9. Sovradosaggio. Non sono stati riferiti effetti indesiderati seri in seguito a sovradosaggio. I sintomi che possono manifestarsi in seguito ad un sovradosaggio sono: nausea, vomito e sanguinamento vaginale. Non
c’è antidoto, e il trattamento deve essere sintomatico.
5. PROPRIETÀ FARMACOLOGICHE. 5.1. Proprietà farmacodinamiche. Categoria farmacoterapeutica: Contraccettivi ormonali per uso sistemico. Codice
ATC: G03AA10. L’effetto contraccettivo delle pillole anticoncezionali si basa sull’interazione di vari fattori, i più importanti dei quali sono l’inibizione dell’ovulazione e le modifiche dell’endometrio. Oltre a prevenire il concepimento i COC
possiedono diverse caratteristiche positive che, accanto alle proprietà negative
(illustrate al paragrafo 4.8 Avvertenze, Effetti indesiderati), possono aiutare nella scelta del metodo da adottare per il controllo delle nascite. Il ciclo mestruale è più regolare e le mestruazioni stesse sono spesso meno dolorose ed il sanguinamento più leggero. Quest’ultimo aspetto può determinare una diminuzione dei casi di carenza di ferro. 5.2. Proprietà farmacocinetiche. Gestodene.
Assorbimento. Dopo somministrazione orale il gestodene viene rapidamente
e completamente assorbito. Dopo somministrazione di una dose singola la massima concentrazione sierica di 4 ng/ml viene raggiunta dopo circa un’ora. La
biodisponibilità è intorno al 99%. Distribuzione. Gestodene è legato all’albumina sierica ed alle globuline leganti gli ormoni sessuali (SHBG). Solo l’1-2%
del gestodene totale in siero viene ritrovato come steroide libero, mentre il 5070% è specificamente legato alle SHBG. L’aumento delle SHBG indotto dall’etinilestradiolo influenza la distribuzione delle proteine sieriche con conseguente
aumento della frazione legata alle SHBG e diminuzione della frazione legata all’albumina. Il volume di distribuzione apparente del gestodene è di 0,7 l/kg. Metabolismo. Il gestodene viene completamente metabolizzato tramite i noti canali del metabolismo degli steroidi. L’entità della clearance metabolica dal siero è pari a 0,8 ml/min/kg. Non si manifestano interazioni quando il gestodene
viene assunto insieme all’etinilestradiolo. Eliminazione. I livelli sierici del gestodene diminuiscono in modo bifasico. La fase di eliminazione terminale è caratterizzata da un’emivita di 12-15 ore. Il gestodene non viene escreto immodificato. I suoi metaboliti vengono escreti nelle urine e nella bile in un rapporto
di 6:4. L’emivita di escrezione dei metaboliti è pari a circa 1 giorno. Steadystate. La farmacocinetica del gestodene è influenzata dai livelli sierici di SHBG
che aumentano di tre volte con l’etinilestradiolo. In seguito all’assunzione giornaliera i livelli sierici di gestodene aumentano di circa quattro volte il valore della dose singola e raggiungono lo steady-state entro la seconda metà del ciclo
di trattamento. Etinilestradiolo. Assorbimento. Dopo somministrazione orale
l’etinilestradiolo viene rapidamente e completamente assorbito. Il picco dei livelli plasmatici, pari a circa 80 pg/ml, viene raggiunto in 1-2 ore. La biodisponibilità assoluta, dopo coniugazione presistemica e metabolismo di primo passaggio, è all’incirca del 60%. Distribuzione. Durante l’allattamento lo 0,02%
della dose giornaliera della madre passa nel latte. L’etinilestradiolo è largamen-
te, ma non specificamente, legato all’albumina (approssimativamente per il
98,5%) e induce un aumento nelle concentrazioni sieriche dell’SHBG. È stato
determinato un volume di distribuzione apparente di circa 5 l/kg. Metabolismo.
L’etinilestradiolo è soggetto a coniugazione presistemica a livello sia della mucosa dell’intestino tenue sia del fegato. La principale via metabolica dell’etinilestradiolo è l’idrossilazione aromatica ma si forma anche una ampia varietà di
metaboliti idrossilati e metilati, presenti come metaboliti liberi e coniugati con
glucuronidi e solfati. L’entità della clearance metabolica è pari a circa 5 ml/min/kg.
Eliminazione. I livelli sierici dell’etinilestradiolo diminuiscono in modo bifasico,
con una fase di eliminazione terminale con un’emivita di circa 24 ore. L’etinilestradiolo immodificato non viene escreto, ma i suoi metaboliti sono escreti in
un rapporto urina:bile pari a 4:6. L’emivita dell’escrezione dei metaboliti è di circa 1 giorno. Steady-state. Le concentrazioni allo steady-state vengono raggiunte dopo 3-4 giorni ed i livelli sierici dell’etinilestradiolo sono più elevati del
30-40% rispetto alla singola assunzione. 5.3. Dati preclinici di sicurezza. Etinilestradiolo e gestodene non sono genotossici. Gli studi di carcinogenicità con
etinilestradiolo da solo o in associazione con vari progestinici non mostrano alcun pericolo carcinogenico in donne che usano il farmaco come contraccettivo
come indicato. È tuttavia necessario tenere presente che gli ormoni sessuali
possono promuovere la crescita di alcuni tessuti e tumori ormono-dipendenti.
Studi di tossicità riproduttiva su fertilità, sviluppo fetale o performance riproduttiva condotti con etinilestradiolo da solo o in associazione con progestinici non
hanno fornito indicazioni di un rischio di effetti avversi nell’uomo conseguenti
all’impiego del preparato secondo quanto raccomandato.
6. INFORMAZIONI FARMACEUTICHE. 6.1. Elenco degli eccipienti. Nucleo
della compressa: Magnesio stearato, Povidone K-25, Amido di mais, Lattosio
monoidrato. Rivestimento della compressa: Povidone K-90, Macrogol 6000, Talco, Calcio carbonato, Saccarosio, Cera di lignite. 6.2. Incompatibilità. Non pertinente. 6.3. Periodo di validità. Tre anni. 6.4. Speciali precauzioni per la
conservazione. Non conservare a temperatura superiore a 30 °C. 6.5. Natura e contenuto del contenitore. Blister: PVC/Alluminio. Confezioni: 1 X 21
compresse; 3 X 21 compresse; 6 X 21 compresse. È possibile che non tutte le
confezioni siano commercializzate. 6.6. Precauzioni particolari per lo smaltimento e la manipolazione. Nessuna istruzione particolare.
7. TITOLARE DELL’AUTORIZZAZIONE PER L’IMMISSIONE IN COMMERCIO.
EG SpA via D. Scarlatti, 31 - 20124 Milano.
8. NUMERI DELLE AUTORIZZAZIONI ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO.
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
1X21 cpr A.I.C. n. 037684014/M
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
3X21 cpr A.I.C. n. 037684026/M
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
6X21 cpr A.I.C. n. 037684038/M
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
1X21 cpr A.I.C. n. 037684040/M
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
3X21 cpr A.I.C. n. 037684053/M
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
6X21 cpr A.I.C. n. 037684065/M
9. DATA DI PRIMA AUTORIZZAZIONE/RINNOVO DELL’AUTORIZZAZIONE.
2 ottobre 2007
10. DATA DI REVISIONE DEL TESTO. Settembre 2007
Alfa-REPAGIN
crema
3 BUONE RAGIONI
CREMA INTIMA
Idratante
Cicatrizzante
Lenitiva
Lubrificante
Per attenuare la sintomatologia aspecifica o concomitante
a patologie, a livello vulvare e vaginale