Dalla Repubblica Democratica del Congo abbiamo notizie del

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Dalla Repubblica Democratica del Congo abbiamo notizie del
Dalla Repubblica Democratica
del Congo abbiamo notizie del
cremonese Paolo Carini
Parto da un fatto concreto. Oggi, 26 aprile, abbiamo
controllato i soldi nella cassa dell’ospedale. Ci sono poco
più di 900 mila franchi congolesi, l’equivalente di
950
dollari. Entro 4 giorni si dovrebbero pagare gli stipendi
degli 87 dipendenti che ammontano a circa 3 milioni e 800 mila
franchi. Non c’è alcun conto bancario sul quale fare
affidamento. Come si farà? L’ipotesi più probabile è quella di
un anticipo. Ma un conto è dare la metà dello stipendio, un
altro è darne un quarto.
Sono qui in Congo, nella città di Mbuji Mayi, capoluogo della
provincia del Kasai orientale, dal 3 marzo . Ci resterò per 3
anni per un progetto di ristrutturazione e di rilancio
dell’ospedale St Jean Baptiste di Kansele.
Il progetto è stato proposto dall’Ascom, un’associazione di
Legnago che da 35 anni lavora in Africa ed è finanziato dalla
Cei. Sempre con l’Ascom, sono stato 13 anni in Burundi tra il
1996 e il 2011. Un’esperienza per me importante e che adesso
mi è utile perché qui la situazione logistica non è delle più
agevoli. Ci si lava con un secchio, si cucina con il carbone,
fa un gran caldo e si ha a disposizione un’ora di corrente
elettrica al giorno. Non c’è un frigo per cui è necessario
consumare in giornata quello che si prepara (ma gli spaghetti
si possono mangiare anche il giorno dopo). L’altro lato della
medaglia sul piano logistico è che c’è una signora che cucina,
pulisce, lava e stira e un guardiano che va volentieri a
prendere una birra al bar quando occorre. Personalmente, ho
ripreso la decennale guerra con le pulci da materasso e altri
insetti non identificati, ma sono strategicamente in vantaggio
grazie ad una polvere magica acquistata al mercatino ed in
ogni caso, dormo più che a Cremona. E se i sogni sono sempre
strani, mi addormento senza grandi preoccupazioni per
l’indomani. Di solito, in Africa, quello che non fai un giorno
puoi farlo il giorno dopo. O almeno entro i 4 giorni seguenti.
Mbuji Mayi è la quarta città del Congo come numero di
abitanti, più di 2 milioni e mezzo, ed è conosciuta perché
costruita attorno ad una miniera di diamanti. Io ammetto di
non averla mai sentita nominare prima dell’anno scorso. Il
nostro guardiano di notte scruta tutti i sassolini che si
vedono in giardino, ma al momento non risulta aver scoperto
niente di prezioso perché continua a lavorare per 2 dollari a
notte. Sembra che i diamanti si trovino a partire dai 6 metri
di profondità. Per decenni la città è cresciuta grazie alla
Miba, l’azienda multinazionale che sfruttava la miniera. Ha
costruito strade, case, scuole, centro sportivo e ospedale.
Nei tempi d’oro aveva 5 mila dipendenti e il monte stipendi –
ben più grande di quello dell’ospedale – arrivava a 3 milioni
di dollari. La compagnia ha avuto un crollo nel 1997, durante
la seconda guerra del Congo, perché i diamanti sono stati
requisiti come “effort de guerre” dall’allora presidente
Désiré Kabila. E’ poi sopravvissuta con un numero minimo di
dipendenti e con un parco macchine sempre più vecchio ed
inadeguato. Venerdì scorso i pochi lavoratori rimasti avevano
programmato una marcia di protesta per chiedere il pagamento
degli stipendi arretrati. La marcia, però, non è stata
autorizzata.
Anche l’ospedale di Kansele sembra abbia fatto dei grossi
passi indietro. Il capo del personale, che lavora qua da 15
anni, ricorda un ospedale pieno di ricoverati e una lunga fila
per le consultazioni. Il problema di fondo è economico. Il
fondo di sostentamento dello stato, 10 milioni di franchi al
mese, è solo teorico perché da anni non arriva alcun
contributo. L’ospedale vive sulle consultazione, sugli esami,
sui ricoveri. Sono entrate che dovrebbero compensare le spese
di gestioni, tra le quali gli stipendi sono una voce
importante, ma non l’unica. Due anni fa il ministero ha alzato
bandiera bianca e ha chiesto alla diocesi se poteva occuparsi
della gestione ospedaliera. Si è tenuto per sé la medicina
preventiva e i programmi di cura per HIVpositivi e
tubercolotici che sono ben finanziati da organismi
internazionali. Tra il personale curante c’è chi riceve ancora
uno stipendio statale, al quale si aggiunge un premio. Ci sono
8 medici, dei quali 3 a tempo parziale, ma nessuno supera i
150 dollari al mese. Ma basta un confronto sul monte stipendi,
4 mila dollari per 87 lavoratori, per rendersi conto che è
l’equivalente di uno stipendio netto di un primario in Italia.
Per difetto.
La città è guidata da un governatore, recentemente rieletto
per altri 5 anni con 24 voti su 24. Votavano i rappresentanti
parlamentari di tutti i partiti. E’ come se il premier Renzi
fosse stato confermato con il voto plebiscitario di 24
capigruppo, anche quelli dell’opposizione!!!!
I rappresentati dell’opposizione hanno dovuto arrampicarsi
sugli specchi per spiegare ai loro elettori il voto a favore!
La città è sporchissima, non c’è alcun tipo di raccolta di
rifiuti e di convogliamento delle acque nere. Non casualmente
la febbre tifoide, legata all’igiene alimentare, è la seconda
malattia come frequenza dopo la malaria. Non sono in grado di
dire come viva la gente e cosa mangi. La signora che lavora a
casa nostra percepisce uno stipendio di 50 dollari, che è
superiore a quello di alcuni infermieri dell’ospedale. Come
faccia, con questi 50 dollari, a dar da mangiare ai suoi 6
familiari, non è spiegabile. A metà mese, ha chiesto un
anticipo di 25 dollari per poter pagare l’iscrizione del
figlio più grande all’esame di maturità. Il ragazzo è venuto a
ringraziarmi con la richiesta implicita che, questi 25
dollari, non fossero detratti dallo stipendio. Siamo qui per
aiutare, ne terrò conto.
Il direttore dell’ospedale, l’abbé Martin Mutombo,
è un
medico sacerdote congolese con specializzazione in sanità
pubblica. Ha studiato in Spagna, Ungheria ed Italia ed è
tornato a casa conservando gelosamente l’amicizia con una
famiglia veronese. E’ stato grazie a questa intermediazione
che è riuscito a contattare l’Ascom e a mettere in moto il
complesso meccanismo di aiuto. L’associazione di Legnago ha
presentato un progetto di ristrutturazione alla Cei che ha
accordato un finanziamento per le costruzioni. Una parte del
progetto resta a carico dell’Ascom e deduco che sia una parte
non trascurabile, visto i ripetuti consigli a spendere il meno
possibile. Nei prossimi giorni è atteso a Matadi, il porto
congolese sull’Atlantico, un container che contiene tutto il
materiale idraulico ed elettrico per la ristrutturazione della
maternità, più un trasformatore per un collegamento in media
tensione. Sappiamo che quella congolese è la dogana più cara
del mondo, ma quanto si dovrà pagare non si sa ancora. Da
Matadi a Mbuji Mayi ci sono ancora 1.500 chilometri. Fino a
Kinshasa il container viaggerà via terra, poi risulta più
conveniente spedirlo per cargo. Con raccomandazioni per
l’atterraggio perché la pista di Mbuji Mayi è tra le più corte
dell’Africa. Per Natale, un aereo cargo è atterrato
allegramente a metà pista ed ha finito la frenata nel giardino
del ristorante.
Uno dei passaggi chiave per la ristrutturazione dell’ospedale
è un nuovo collegamento con la linea elettrica. Attualmente
l’ospedale ha corrente elettrica per un’ora e mezza, verso
mezzogiorno, quando accende il gruppo elettrogeno. Fra
parentesi, un litro di gasolio costa 2 dollari perché è
gravato dal costo di trasporto dal porto meno lontano. Però,
la sera, si è tutti al buio. Ed è comprensibile che una
persona cerchi un ospedale che abbia un minimo di confort
durante la notte.
In realtà, il collegamento con la linea elettrica c’è già e
ogni tanto funziona anche. Ma è una tipica storia congolese.
Lungo i 1.500 metri del collegamento in bassa tensione, ci
sono molte case collegate in modo abusivo ed altre,
parzialmente in regola, che non pagano da tempo la bolletta.
L’azienda privata responsabile della distribuzione ha pertanto
deciso di non erogare corrente su questa linea. Ad essere
sinceri del tutto, nemmeno l’ospedale ha mai pagato una
fattura, ma qui si sostiene che l’energia per un ospedale
statale dovrebbe essere a carico del ministero. Mi pare
comunque di leggere, nel preventivo fornito dall’Enerka, un
anticipo di 3.500 dollari sulle prossime consumazioni
per essere sicuri…).
(tanto
Non è una sorpresa in Africa, ma il preventivo della società è
una lunga lista di richieste e si articola in due parti. Nella
prima si chiede una somma di circa 11 mila dollari, nella
seconda si fa l’elenco di tutto il materiale da mettere a
disposizione: trasformatori, piloni, armature, cemento e tutto
il resto. Probabile che l’Enerka ci metta solo la manodopera.
Comunque, con il preventivo in mano, si può iniziare la
discussione. Per lo sviluppo dell’ospedale non c’è alternativa
a dotarsi di corrente elettrica. Dal mio ufficio, verso le 11,
vedo 2 infermieri che portano fuori una grande pentola e la
mettono sul fuoco: è la sterilizzazione dei ferri chirurgici.
Il mio compito, in ospedale, è quello di approntare un sistema
di contabilità corretto e autosostenibile. I bilanci e i dati
statistici sull’attività non aumentano i soldi in cassa, ma
offrono indicazioni puntuali che dovrebbero servire a
migliorare la gestione. Un bel discorso, si potrebbe dire, ma
quanti soldi mancano per pagare gli stipendi di aprile? Il
futuro dell’ospedale di Kansele non può prescindere
dall’arrivo di altri sostenitori. Da sola, l’Ascom non ce la
può fare.
Carini Paolo
(dalla Parrocchia del Boschetto alla R.D. Congo)
Il Natale a Fadugu: lettera
di auguri del padre saveriano
Luigi Brioni, originario di
Villanova
Pubblichiamo il messaggio natalizio inviato dalla Sierra Leone
dal padre saveriano Luigi Brioni, originario di Villanova.
Padre Brioni ha scritto una mail a familiari, amici e
benefattori raccontando del proprio ministero in
africana e di come si vivranno i giorni di Natale.
terra
Buon Natale a tutti e ciascuno di voi dal mio paese di Fadugu,
dove mi è caro condividere con la gente la certezza di fede
che il Signore è nato davvero e non ci ha abbandonato,
nonostante le tragedie, le assurdità, le incertezze di ogni
giorno.
Papa Francesco ce lo ricorda, spesso ed a voce alta, per
riportare tutti al miracolo possibile di un’umanità unita,
senza divisioni e paure.
Buon Natale allora insieme alle vostre Famiglie ed Amici
perché sia per tutti voi portatore di bontà e di misericordia
universale, senza escludere nessuno.
È questo il messaggio che la mia gente, pur nella semplicità
della loro vita percepisce bene, perché tutto il mondo è
paese, è un villaggio globale, che sempre ha bisogno di
perdono e di speranza, cose che solo Lui può dare sempre e a
tutti.
Come festeggiamo qui il Natale? Prima di tutto, durante questa
Novena, andiamo a pregare di sera presso un famiglia.
Mezz’oretta, ma ben attesa. Poi abbiamo la Messa di mezzanotte
alle ore 20, per non tenere la gente troppo a lungo al freddo
della sera, che ormai si aggira sui 12/15 gradi anche qui, e …
senza riscaldamento!
Il giorno di Natale celebreremo la Messa alle 10.30 a.m. anche
attorno a un simpatico presepio e poi le nostre famiglie si
raduneranno nel salone parrocchiale per condividere il loro
cibo natalizio in serena fraternità. Cibo che sarà il riso di
ogni giorno con un po’ di salsa migliore, qualche pezzo di
gallina o di pesce secco! Ah, niente panettoni né spumanti …
ma vi assicuro tanta allegria e cordialità!
E un po’ di caramelle ai piccoli gliele darò di certo, anche a
nome vostro! Più tardi in molti andranno qui al vicino
ruscello per continuare la festa con danza e dolcini … quelli
che ci sono!
Buonissimo Natale allora. Io con voi e voi con me ed insieme
con Lui, che davvero ci soddisfa tutti!
Di gran cuore,
P. Luigi sx
Lettera dal Mozambico del
saveriano viadanese padre
Andrea Facchetti, che da
gennaio lascerà Charre per
far ritorno a Chemba
Di seguito la lettera del saveriano originario di Viadana,
padre Andrea Facchetti, che dopo Natale lascerà la comunità
di Charre (dove operava dal marzo 2014) per far ritorno a
Chemba, distante circa 60 chilometri, per sostituire un
confratello che ha dovuto rientrate in Italia. Era proprio da
Chemba che padre Facchetti aveva iniziato la sua missione in
Mozambico dopo l’ordinazione sacerdotale conferita il 30
giugno 2012 nel santuario di San Guido Maria Conforti, a
Parma, dal vescovo Dante Lafranconi.
0. Savana padana
Il giorno prima di partire di nuovo per l’Africa ho chiuso la
valigia a metà mattina. Arduo decidere cosa prendere e cosa
lasciare: fare la valigia genera dubbi amletici ed è – a modo
suo – metafora della vita. Se la vita pesa 30 kg, salame e
parmigiano-reggiano hanno un loro peso ontologico che ha più a
che fare con l’essere che con il non essere.
È la seconda metà di ottobre: autunno cominciato, sole pallido
segue a giorni di cielo uggioso. Dopo avere salutato la gente,
è doveroso salutare la terra, gli alberi e il fiume. Cosi
prendo la bici in direzione del ponte vecchio, dove la canoa è
rimasta in questi tre mesi. Scendo dall’argine, con le file
dei pioppi sulla destra che scivolano via mentre cominciano a
lasciare cadere le prime foglie. Il fiume è una meraviglia,
forse perché c’è il sapore di un arrivederci che, data la
distanza di tre anni, può avere anche alcuni tratti
dell’addio. Il calore del sole si riflette sull’acqua e dopo
pochi minuti tolgo la maglia. Metto dentro gli ultimi raggi di
sole padano. Le braccia remano l’acqua, mentre la testa e il
cuore remano il tempo. Le braccia remano in avanti. Testa e
cuore remano all’indietro. Remano tre mesi trascorsi nella
terra che mi ha generato, con i volti, gli incontri e le
storie che si portano dentro. Remano immagini che diventeranno
ricordi per quando sarò vecchio, ma che, già adesso, fanno
affiorare dall’acqua felicità e gratitudine. In mezzo ad un
fiume che si chiama Po. È un attimo e, d’improvviso, diventa
Zambesi. Perché i fiumi comunicano tra di loro e bevono la
stessa acqua. E per raggiungerli non serve l’aereo. Allora,
pianura padana diventa savana. Savana padana.
1. Di nuovo paura
Mi fermo tre giorni a Dondo. Poi, con p. Nicola partiamo verso
nord. Dopo nove ore di viaggio siamo in prossimità delle rive
dello Zambesi. Il battello a motore sul quale siamo soliti
caricare la macchina per attraversare il grande fiume tra Sena
e Mutarara quel giorno non funziona. Così siamo costretti ad
allungare il percorso attraversando prima lo Zambesi a Caia e,
dopo avere aggirato il monte Morrumbala, a superare il fiume
Chire con il battello a trazione manuale. Nei pressi del
villaggio di Sabe constatiamo che per strada non c’è anima
viva. Va bene che sono le due del pomeriggio e c’è un caldo
terribile, ma 10 km senza vedere né umani, né capre, né
galline è piuttosto insolito. Notiamo anche che le capanne
hanno le porte chiuse con il lucchetto. Arrivati a Sabe, un
gruppo di militari ci ferma con il kalashnikov spianato. Ci
fanno scendere e vogliono perquisire la jeep. Dicono che alle
tre del mattino c’è stato uno scontro armato tra esercito
regolare e uomini della Renamo. Ci sono stati morti e feriti:
per paura, la popolazione locale ha cercato rifugio nella
foresta. Poi i militari ci lasciano ripartire.
Il giorno successivo provo a cercare un po’ di informazioni su
quanto accaduto a Sabe. Le uniche fonti che accennano qualcosa
sono la pagina in portoghese dell’agenzia di stampa tedesca
(DW) e due blog mozambicani che parlano di scontri e morti nel
Distretto di Morrumbala. La stampa mozambicana – allineata e
coperta sulle posizioni del Governo e della Frelimo – tace il
tutto. Fino a quando dopo due giorni, di fronte all’evidenza
dei fatti, il Ministro degli Interni ammette quanto successo.
La situazione non è tranquilla da fine settembre, quando per
due volte hanno tentato di ammazzare il leader
dell’opposizione. La chiamano “guerra a bassa intensità”. È
cominciata tre anni fa e ogni tanto riprende con maggiore o
minore violenza. Le parti in gioco sono le stesse di sempre:
Frelimo e Renamo che, dopo avere fatto un milione di morti in
sedici anni di guerra civile e dopo avere firmato gli accordi
di pace nel 1992, oggi si contendono la spartizione delle
immense ricchezze naturali del paese.
2. Di nuovo Charre
Dopo 600 km e dodici ore di jeep eccoci di nuovo a Charre. È
l’ora del tramonto. Apro la porta della stanza: uno strato di
sabbia portata dal vento copre il letto, la scrivania e il
pavimento in cemento. Sento un crepitio da dentro l’armadio a
muro. Apro e trovo le termiti che hanno già divorato due
scatole di cartone. Provvidenzialmente, non hanno ancora
attaccato lo scaffale dei libri. Il giorno successivo gonfio
le gomme della bicicletta e vado a spasso per il villaggio a
salutare la gente. I bambini corrono dietro alla bicicletta
spingendola sulla strada sabbiosa e gridano: «Baba Andrea
abwera!», «Padre Andrea è tornato!». Anche gli adulti sono
felici: «Baba mwabwera? Takutsukwani! Mwasya tani mai na pai
anu?», «Padre sei tornato! Avevamo nostalgia. Come hai
lasciato tua madre e tuo padre?». Rispondo che anche io ho
avuto nostalgia e regalo alcune foto fatte ad alcune famiglie
di Charre prima di partire. Dico che i miei stanno bene, ma
mia madre «ali kubva kupha myendo», «ha male alle gambe».
Sorridono e chiedono: «Azungo asabvambo kupha myendo?», «Anche
i bianchi hanno male alle gambe?».
È il tempo del grande caldo. Dopo pranzo si arriva ai 42 gradi
in casa. Il corpo umano ha sei gradi di meno. Così gli oggetti
sono per forza caldi: il bicchiere per bere, il materasso per
coricarsi, l’acqua del rubinetto per lavarsi i denti. Dopo
pranzo, dopo avere preso il caffè, ci si siede e che si fa? Si
suda. Impossibile fare altro. Al pomeriggio si alza il bangwe,
il vento secco e potente che viene da sud. Fa lievitare dal
suolo nuvole di sabbia che dipingono di giallo le foglie degli
alberi, l’aria, i volti dei bambini.
Lo Zambesi al posto del Po. Il bao-bab che sta mettendo le
foglie al posto del pioppo che le sta perdendo. Le capanne di
mattoni in terra cotta e paglia al posto delle fabbriche
dismesse per la crisi economica. I bambini che spingono la mia
bicicletta sulla strada sabbiosa al posto delle mie quattro
nipotine portate a spasso in bici assieme a mia sorella. Ho
portato nel cuore e sono stato portato nel cuore.
3. Di nuovo la gente
Anche quest’anno la stagione delle piogge tarda ad arrivare.
La luna di novembre è passata e il cielo ha centellinato poca
acqua sufficiente solo a togliere la sabbia dall’aria per due
giorni. La gente ha pazienza e aspetta. Nel frattempo ha
preparato i suoi campi. Ore sotto il sole, prima a zappare e
poi a scavare i buchi dove verrà collocata la semente appena
sarà caduta la prima vera pioggia. Kubzwala è il seminare dopo
la pioggia. Mentre kupalira è il seminare prima della pioggia.
Generalmente si preferisce la prima modalità, dato che
seminando prima c’è il rischio che il seme germogli, ma poi il
grande sole secchi la pianta.
In questi mesi la vita è andata avanti. Per qualcuno ha preso
altre destinazioni. Pochi giorni prima che arrivassi hanno
sepolto pai Enfermeiro, il signore lebbroso della lettera
n°13. Aveva cominciato la cura contro la lebbra a dicembre
dell’anno scorso. Una volta al mese andavo all’ospedale di
Mutarara a ritirare le pastiglie che avrebbe dovuto continuare
a prendere per un anno. Avevamo fatto una visita la settimana
prima che partissi per le ferie ed era entusiasta perché dopo
sette mesi di terapia la malattia si era bloccata. Durante la
mia assenza avevo lasciato la terapia ad una persona di
fiducia. Ai primi di ottobre è stato colpito da una malaria
che forse ha trascurato e in pochi giorni è morto. A causa
della malattia, con gli anni, aveva perso mani e piedi.
«Ndisafamba na matako» – «cammino con il culo» – affermava
sorridente e compiaciuto. Nonostante questo, aveva un piccolo
orto attorno alla sua capanna dove coltivava un po’ di fagioli
e verdura. A modo suo, impugnava con i polsi una piccola zappa
e aveva segnato sulla terra dei sentieri fatti su misura per
il suo… matako. Pai Enfermeiro era tanto più potentemente
attaccato alla vita di quanto la lebbra fosse attaccata alle
cellule del suo corpo.
Una sera di metà novembre, dopo il tramonto, assieme alla
moglie, bussa alla porta pai Felix, il signore “che porta la
speranza nel nome e nel sorriso” della lettera n°14. Con i
volti visibilmente preoccupati, chiedono di accompagnare
all’ospedale rurale di Mutarara la loro nipotina di quattro
anni Chica, colpita da una forte malaria. Prendo la macchina e
partiamo. Vengono anche i giovani genitori che nei 15 km di
viaggio mi spiegano che il giorno prima il padre ha già
portato la bambina in bicicletta all’ospedale. Le è stata
somministrata la terapia antimalarica, ma non ha sortito
effetti. La febbre forte è invece peggiorata. Arrivati
all’ospedale, entro anche io per sincerarmi che la bambina
venga visitata. Con il respiro affannato, la sistemano a
pancia in su sopra un letto troppo grande per i suoi quattro
anni. Lasciamo Chica all’ospedale assieme ai genitori, mentre
io torno a casa assieme ai nonni. Fuori, notte e polvere di
vento. In macchina, silenzio. «Tiri kuphembera, baba», «Stiamo
pregando, padre». Mentre sto andando a dormire ascolto pianti
a distanza nel silenzio della notte. Un presentimento. «Ma no,
non sarà lei», mi dico. All’alba pai Felix è già a casa
nostra. Mi dice che due ore dopo essere tornati a casa, è
arrivata la telefonata del figlio che comunicava la morte di
Chica. È sabato mattina, c’è un caldo tremendo e la famiglia
decide di fare subito il funerale. Tra la capanna e il
cimitero ci sono poche centinaia di metri. Sole alto spietato,
espressione immobile dei volti, indumenti poveri intrisi di
vita e di sudore, sabbia gialla alzata dai piedi, quattro assi
di bara coperte da un lenzuolo bianco. Nascondo le lacrime
alla mia gente e chiedo a Dio perché.
4. Di nuovo si alza la testa
È il tempo delle ultime visite alle nostre 76 comunità. Un
sabato di vento e sabbia da colorare di giallo l’aria, a
Merkano inauguriamo la nuova cappella e la comunità ammazza
una mucca per la festa. A Nyaeka invece, la settimana
successiva, sono sufficienti tre capre. Riprendiamo anche i
lavori di Giustizia e Pace. A fine novembre organizziamo un
incontro con le Commissioni delle due parrocchie di Charre e
di Nyangoma per fare il punto della situazione sull’anno
trascorso e per programmare il lavoro di quello venturo.
Primo fronte: la questione della terra sottratta ad alcune
comunità da parte di una multinazionale indiana per impiantare
la monocultura della canna da zucchero. Senza consultazione
pubblica, senza assenso da parte delle famiglie interessate e
senza indennizzo, come invece previsto dalla “Legge della
Terra”. Nei tre mesi di ferie, ci sono state due novità
sostanziali. Prima novità. Il progetto di espropriazione della
terra continua, ma non sarà più per produrre canna da
zucchero, bensì riso e fagioli. Con le piene di Chire e
Zambesi a inizio anno, l’investitore straniero ha perso buona
parte del raccolto e dei macchinari, constatando che sono
venute meno le condizioni per un ulteriore investimento. Ha
così venduto la licenza ad un’altra impresa della quale per
ora non conosciamo né nome, né provenienza. Quest’ultima, nel
mese di agosto, ha già cominciato ad occupare alcuni terreni
delle comunità locali, allontanando le famiglie residenti, ma
spostandosi di qualche centinaio di metri dalle rive del fiume
Chire rispetto all’impresa precedente per evitare le
conseguenze delle esondazioni.
Seconda novità. A giugno avevamo consegnato un documento
all’Amministratrice del Distretto. La signora Palmira Pinto
aveva accettato la proposta di porre il Distretto (in Italia
equivarrebbe alla Provincia) come soggetto di mediazione tra
le famiglie espropriate e l’impresa. Nel caso la via
diplomatica non fosse andata buon fine, le avevamo comunicato
che saremmo ricorsi alla via legale con l’appoggio degli
avvocati. Tornato dalle ferie, dobbiamo riprendere i contatti.
Ma, stavolta, con l’Amministratore. Al maschile. Non solo se
ne è andata la signora Palmira Pinto, ma, dopo di lei, è
arrivata e se ne è andata una seconda nuova Amministratrice. E
ora, al suo posto un nuovo Amministratore. Il tutto in soli
tre mesi.
Secondo fronte: la questione del legname tagliato da
un’impresa cinese in un’area dove abbiamo sei comunità. Prima
di partire per le ferie ero venuto a conoscenza del fatto che
l’impresario cinese avrebbe dato sottobanco un valore di
500.000 meticais (circa 10.000 euro) al capo del Dipartimento
dell’Agricoltura del Distretto di Mutarara per aggiudicarsi
una licenza irregolare per tagliare alberi di chanfuta, ebano
e pau ferro. Una parte sarebbe andata a due capi villaggio
che, ricevuta una moto ciascuno, avrebbero autorizzato lo
sfruttamento delle loro terre, senza la consultazione
comunitaria come invece prevede la legge. Questo spiegherebbe
il perché fino ad ora non si sappia nulla di quel 20% della
tassa pagata allo Stato da parte dell’impresa che la legge
mozambicana stabilisce debba essere fatta pervenire alla
comunità locale sotto forma di progetti di sviluppo sociale. E
di come, allo stesso modo, non si sappia nulla di quel 15% che
dovrebbe essere utilizzato per il rimboschimento. Non si sa
nulla, semplicemente perché la tassa non è stata pagata. Che
sia un caso di corruzione pare evidente. Il problema è
dimostrarlo. Pai Emílio, responsabile di Giustizia e Pace di
Charre, sostiene che «pinthu pya ndi mwe mwene pinabuluka pa
kwecha». Che pressappoco significa «la verità viene fuori da
sola». Bisogna mettere l’Amministratore del Distretto con le
spalle al muro, in modo che sia lui stesso a chiarire il
perché risultino ancora non pervenuti il 20% alla comunità e
il 15% per il rimboschimento.
Cambiano gli Amministratori. Cambiano i volti dei politici che
mettono le loro tasche e gli interessi del partito al di sopra
della vita della loro gente. Cambiano i nomi delle società di
investimento e delle imprese multinazionali. Non cambiano i
meccanismi di sfruttamento, di espropriazione e di corruzione
a danno dei più poveri. Ma non cambia nemmeno la
determinazione e la perseveranza di chi è stanco di essere
calpestato e ha deciso che è arrivato il momento di alzare la
testa.
Per concludere: novità in buone mani
Questa lettera sarebbe finita così. Invece no. Perché – quasi
ultimata la lettera – ho preso atto che questa sarebbe stata
l’ultima lettera scritta da Charre. Questione di novità.
Perché ci sono novità che – pur essendo nuove – sono pur
sempre previste e attese. Il fatto che domani si alzerà il
sole, che la nostra gente andrà in campagna con la zappa nella
mano e con il desiderio della pioggia nel cuore, che appena
esco in bicicletta una decina di bambini cominceranno a
corrermi dietro gridando felici, che lunedì come ogni lunedì
mia madre e mio padre mi chiameranno, che se domani incontrerò
mãe Virgína per strada, la nostra conversazione terminerà con
lei che guarda verso il cielo ed esclama: «Mulungu ndi
mphambvu yathu», vale a dire «Dio è la nostra forza», che
questo fine settimana come ogni fine settimana mi recherò in
alcune delle nostre tante comunità, parleremo dei loro
problemi e punti di forza, celebreremo l’Eucaristia e
termineremo il tutto con il pranzo a menù fisso a base di
polenta di miglio e gallina mangiati rigorosamente con le
mani.
Poi, oltre alle novità previste ed attese, ci sono anche
quelle che arrivano all’improvviso. Né previste, né tantomeno
attese. Come quella di dieci giorni fa. Un confratello che
lavorava a Chemba – a sessanta km da qui, ma dall’altra parte
dello Zambesi – è dovuto tornare in Italia. A me è stato
chiesto di lasciare Charre per andare a Chemba, a partire dai
primi giorni di gennaio.
Tempo fa avevo appeso all’armadio della mia stanza un foglio
con queste parole: «Io devo potere avere la certezza di essere
nelle mani di Dio. Poi tutto diventa leggero». A scriverle fu
il pastore e teologo luterano Dietrich Bonhoeffer. Le scrisse
il 22 dicembre del 1943 dal carcere di Tegel, dove era
prigioniero per essere parte della Resistenza al Male
hitleriano. Era in carcere dall’aprile dello stesso anno e in
quella lettera manifestava ancora la speranza in una
liberazione prossima. Venne impiccato nel campo di
concentramento di Flossemburg il 9 aprile del 1945, pochi
giorni prima della fine della seconda guerra mondiale.
Poche volte nella vita, come in questi giorni, sto facendo mie
queste parole. Erano lì appese da tempo. Ora le sento nuove,
come lette per la prima volta. Perché una cosa è dirci che
siamo nelle mani di Dio. Un’altra, è sperimentare che siamo
nelle mani di Dio.
Tra qualche giorno sarà Natale. Dio è uomo. Mette i suoi piedi
sulla nostra strada e ci cammina incontro. Al tempo stesso,
già ci sta prendendo per mano. Anzi, siamo nelle sue mani.
Allora tutto diventa leggero.
Charre, 15 dicembre 2015
Baba Andrea
Lettera di suor Patrizia Di
Clemente,
combonina
originaria
di
Mozzanica,
missionaria in Zambia
Dallo Zambia abbiamo ricevuto notizie da suor Patrizia Di
Clemente, combonina, originaria di Mozzanica. Volentieri
pubblichiamo quanto ci ha scritto.
Qui in Zambia, al momento abbiamo quattro comunità dove i
giovani potrebbero essere accolti (favorendo il centro nella
periferia di Lusaka dove mi trovo io, per via dello spazio e
attività proposte). Due comunità sono in Lusaka, nelle zone di
periferia che chiamiamo compound, e le altre due in una
regione rurale nella zona ovest.
Il progetto che gestisco io è socio-educativo, per cui abbiamo
un corso di alfabetizzazione per donne, tuitions per ragazzine
che non vanno a scuola (questo le aiuta a farsi delle
fondamenta prima d’essere reinserite nella scuola statale e
fare gli esami), attività ricreative, spazio compiti per
bambini, zona studio per giovani, counselling…
A Mongu (zona rurale dell’ovest) stiamo iniziando un progetto
agricolo, agro-forestry tradizionale.
Abbiamo una famiglia
irlandese come volontari per tre anni. Anche lì sarebbe bello
se dei volontari andassero, ma solo uno o due per volta.
La stagione delle piogge inizia a dicembre fino a marzo. I
mesi più caldi sono da agosto a novembre e i mesi freddi sono
giugno e luglio.
Per noi una condizione importante è che chi viene sappia
l’inglese, altrimenti il coinvolgimento nelle attività e
l’interazione con la gente è troppo limitato e l’esperienza
rimarrebbe troppo condizionata. Possiamo accogliere una
persona (se non è troppo giovane; abbiamo sperimentato che
giovani dai 18 ai 20 anni è meglio se vengono almeno in due)
fino a piccoli gruppi di 4 (se si fermano per uno o due mesi).
Per tempi più prolungati (6 mesi/1 anno) è meglio limitarsi a
due persone.
Buona continuazione d’avvento and blessed year of mercy!
Sr. Patrizia
Nella periferia ovest di Lusaka, da alcuni anni le Suore
Missionarie Comboniane sono impegnate nella gestione di un
progetto di formazione integrale per ragazze orfane che non
hanno mai frequentato la scuola o che, per motivi finanziari,
non hanno potuto continuare la loro istruzione primaria. Le
ragazze, classificate secondo il livello scolastico, possono
seguire corsi di alfabetizzazione, di lingua locale e di
inglese, di aritmetica e una formazione umana e pratica che
comprende anche corsi di taglio, cucito e maglieria. Tutte
queste nozioni permetteranno loro di poter iniziare una micro
attività imprenditoriale. Un pasto completo è offerto ogni
giorno per alleviare il problema della malnutrizione molto
diffuso nella periferia della capitale.
Beneficiari:
circa 75-80 ragazze dai 15 ai 20 anni che frequentano il
centro diurno;
le famiglie delle ragazze.
Obiettivi:
educare le ragazze più vulnerabili ed insegnar loro un
mestiere che permetta loro di condurre una vita
dignitosa;
aiutare le ragazze che completano il corso triennale con
un microcredito in modo che possano iniziare subito a
rendersi autosufficienti;
assicurare un aiuto alle ragazze che dimostrano di
essere in grado di riprendere e seguire l’istruzione
nella scuola governativa.
Dal
Brasile,
Bellani
don
Emilio
Non mi è facile raccontare quanto accaduto di più
significativo in questi ultimi mesi, traboccanti di eventi.
Apro la mia agenda e la trovo molto pasticciata, colma di
nomi, di orari, di frecce, cancellazioni, sottolineature,
rimandi.
C’è una domanda che mi sento ripetere proprio tutti i giorni,
per strada e nelle case: “e padre Ignazio? Come sta padre
Ignazio? Hai notizie su di lui?” Padre Ignazio, lo scrivo per
chi ancora non lo sapesse, è il padre e l’amico del Pime che,
nel 2008 era presente all’inaugurazione della nostra chiesa,
il fondatore –diciamo- della nostra parrocchia. L’ho
affiancato nel 2010 ed insieme abbiamo vissuto e lavorato fino
al marzo di quest’anno, quando i superiori gli hanno chiesto
un grande sacrificio, di lasciare questa favela e la Bahia,
per lanciare le reti in un altro angolo del Brasile, in
Amazzonia. Duemila e otto chilometri in linea retta, avverte
Google, 2.800 per un altro sito …
Partirei proprio dal mese di marzo di quest’anno, se non ci
fosse –ad impedirmelo- un fatto che ci ha feriti in questi
ultimi giorni. Per me lei era una ragazzina molto speciale,
intelligenza acuta, vivacissima, provocatrice nata. “Da grande
farò la professora!” mi diceva, e a fatica io trattenevo la
risata, perché me lo diceva la ragazzina che tirava scema ogni
insegnante, e che una volta abbiamo allontanato anche dal
catechismo, perché … ingestibile. La notizia mi è giunta su
WhatsApp: ‘Emilio, sono Paola. Ho saputo una cosa terribile
che é accaduta al Boiadero. Mi ha chiamato Pekeno. Non riesco
a scrivere. Sono scioccata. Ti cerco domani.’
Paola è la
direttrice del nostro Centro educativo, e il messaggio era
scritto alle 2 e 33 di notte… Bruna ci ha lasciati non per
malattia, ma perché uccisa dallo zio. Ebbe solo il torto, quel
sabato sera, di trovarsi nel posto sbagliato all’ora
sbagliata. Un alterco violento tra ragazzine che vivono in
povere case,
che accendeva una furibonda lite tra le
rispettive famiglie. Odio atavico tra persone legate dallo
stesso sangue? Aggiustamento di conti?… L’uomo la colpiva
improvvisamente al collo con un coltello e la piccola
stramazzava a terra biascicando due paroline (“meu pai”) con
l’ultimo fiato che le restava. Non vi racconto il resto perché
non mi credereste, la gente che lancia pietre contro la casa
dell’omicida, e questi che –per fuggire una pena pesantissimaistiga una nipotina minorenne ad assumersi la colpa. Hanno
stampato, in ricordo di Bruna, una maglietta che conservo nel
mio studio e che dice così: ‘mais uma estrela que no céu ira
brilhar! Esteja com Deus!’. L’abbiamo ricordata nella santa
Messa domenica mattina, col papà e tante amiche. Certi che
quelle due ultime paroline la portavano dritta tra le braccia
di un papà più grande.
Domenica mattina la Messa è stata davvero speciale, c’erano
con noi gli amici Angelo Abbondio, di Milano, e la figlia
Cinzia. La nostra bella chiesa, senza di loro, non
esisterebbe, ed io non sarei qua. A loro, che ci accompagnano
sempre assieme alla mamma Fernanda(rimasta in Italia), abbiamo
affidato di tagliare il nastro al momento di inaugurare il
campo di calcetto a lato della chiesa, rimesso a nuovo. Un
torneo a quattro squadre ha poi di fatto solennizzato il
momento. Anche per questo, alla Messa, mi son visto arrivare
ragazzini in divisa, in maggioranza evangelici (protestanti),
che non avevano mai messo piede nella nostra chiesa. L’assedio
al campetto tirato a lucido era già cominciato qualche ora
prima e dovevate vedere gli occhioni sgranati e increduli dei
ragazzini! Il Brasile è il Brasile e, pure in assenza dei
campioni di una volta, è ancora … pane e pallone. La mia
giornata era cominciata alle 6, quando, in una nostra
chiesetta seminascosta tra le case della favela, i primi
bambini cominciavano a essere serviti a tavola da adulti
della nostra comunitá che gli avevano preparato una generosa
colazione a base di frutta, di torte, caffelatte e succhi.
Donna Vanda, 75 anni e una casa che è stata rifugio per decine
di ragazzine bisognose cresciute da lei, donava quella mattina
a tutti i ragazzini della colazione un bel piatto di plastica
sul quale aveva incollata l’immagine della Aparecida, la
Madonna patrona del Brasile.
E con la piccola statua dell’Aparecida, il 12 di ottobre, si
era fatta una bella processione per le stradine, io col
megafono e quattro ragazzine ad aprire il corteo avvolte in
vesti colorate, sotto un sole fortissimo. Giunti alla
chiesetta, tra canti e spari di mortaretti, siamo stati
accolti da un piccolo coro e tanta gente in festa. La
celebrazione si é chiusa, come sempre accade da queste parti,
con l’offerta di grosse fette di torta.
Altra festa –con processione e Messa- in altra parte del
quartiere, il 4 di ottobre, per celebrare san Francesco. La
chiesina era stracolma. Alla fine, pollo arrostito e
soprattutto fejoada (stufato di fagioli neri con carne di
maiale e pancetta, piatto per eccellenza della cucina
brasiliana). Il pentolone era davvero enorme e, quel che
rimase, venne offerto sulla strada alle persone in attesa.
Per l’occasione abbiamo anche chiamato a raccolta tanti
ragazzini del quartiere attraverso una caccia al tesoro tra le
varie stradine. E qui accadde ció che non mi era mai accaduto:
al momento di raggiungere il tesoro, questi non c’era. Non che
fosse ben nascosto, no, proprio non c’era! L’avevo consegnato
ad un pescatore amico perché lo nascondesse (un sacco pieno di
caramelle italiane!) sulla propria barca a poche decine dalla
riva, calcolando che la marea a quell’ora era bassa. Ma quando
mancavano ancora pochi biglietti alla fine del gioco,
constatavo nervosamente che pescatore e barca ancora non erano
rientrati dalla notte di pesca. Pregai che ciò potesse
accadere il più in fretta possibile. Inutilmente. Così la
squadra che era in testa, seguendo le indicazioni dell’ultimo
biglietto, si era portata in riva al mare a cercare la barca.
Dopo dieci minuti si aggiunge la squadra che era seconda. Una
manciata di secondi e arriva, nello stesso tratto di spiaggia,
anche quella più in ritardo. Tutti a cercare senza trovare.
Tutti a domandare. Io che non so quale santo invocare, ma
stavolta per l’esatto contrario: se la barca fosse rientrata
in quei momenti sarebbe stata la guerra tra decine di
ragazzini che l’avrebbero fatta da pirati. Non arrivò, grazie
a Dio. Il gioco non si è concluso come doveva, ma comunque le
caramelle, qualche giorno dopo, sono andate a tutti.
Mentre scrivo bussa alla porta donna Leda, con una richiesta:
“padre Emilio, posso fare qualcosa?”. “Certo”, le rispondo,
tra poco comincia il mese di novembre e ogni domenica ce n’é
una nuova: i Battesimi per ragazzi e adulti, le prime
Comunioni, le Cresime. Avremo da servire molte merende, nel
nostro salone, ai ragazzi e ai loro amici e familiari; e poi
ci sono i fiori per abbellire l’altare … Con certezza avremo
bisogno di te, preparati!”. “Io sono qua, mi risponde, lo sa!”
Che forza!, mi dico, ha quattro figli, … e poi tutte le
mattine si fa la sua strada sotto il sole o la pioggia per
andare al lavoro … Ma la parrocchia sta su per gente così. Non
abbiamo alle spalle le multinazionali nordamericane!
Ai sacramenti ci si prepara, qua come in tutto il mondo, con
la catechesi. E quest’anno, in questo lavoro, no sono mancate
delle sorprese proprio belle. Al Cabrito, per esempio. Un’area
piuttosto lontana dalla nostra chiesa, e non solo
geograficamente. Moltissime famiglie sono di fatto evangeliche
e altre, afrodiscendenti, praticano il Candomblé, religione
derivata dall’animismo africano. Di sabato celebro la Messa
nella piccola chiesa con 3 o 4 persone, salvo eccezioni. Da
anni, in questa regione, il catechismo non si faceva.
Ma
quest’anno la musica é cambiata. Attraverso Marta, giovane
mamma con un passato da catechista, Dio sta facendo fiorire
qualcosa di bello in questo deserto. Marta vien giú dalla
collina a piedi, di sabato, con la figlia in braccio e il
figlio Matteo che la aiuta a reggere una grossa borsa di
merende perlopiù preparate in casa. Poi apre con Jassiara,
l’altra catechista, la chiesetta e la piccola sala attigua,
mette in ordine le sedie e i tavolini … i bambini cominciano
intanto a sbucare da ogni lato, sono quasi una ventina ed
apprendono i primissimi rudimenti della fede, fanno
cartelloni, giocano, cantano, ballano. Alla fine entrano nella
sala alcune loro mamme, con qualche salatino o specialità
casareccia. Insomma, una festa dove prima non c’era quasi
niente. Una strada, un cammino che si é aperto, e per
iniziarlo Dio si é servito di una madre che ancora non é
sposata, e che parla di Maria con una tenerezza che sempre mi
commuove. Una donna che non ha la volontà, e neppure il
tempo!, di rivendicare per se ruoli speciali nella chiesa.
Anche quella delle Cresime é bella da raccontare. La partenza
del cammino preparatorio é avvenuta in sordina, con 3 o 4
ragazzine di 15 anni con le quali abbiamo diviso molte cose in
questi anni. Ad un tratto si é aggiunta, non ricordo come,
Annaurelia che, ogni settimana, vi portava uno nuovo: il
nipote, per cominciare, poi la sorella (alla quale –sue parole
al momento di presentarsi- interessa soprattutto la birra!),
un altro nipote, poi una seconda sorella con lo sposo, un
terzo nipote, … infine una amica. Quest’ultima, dopo due
settimane, ritorna accompagnando un ragazzino di 16 anni che
col pallone tra i piedi vi incanta… Il gruppo quindi si
allarga, e anche l’entusiasmo. Mi colpisce anche Rafaele, una
ragazza da poco tornata da Brasilia dove ha studiato. Mi dice
che coi sacramenti lei é a posto, però mi porta il moroso: “io
vorrei sposare un giovane che ama le stesse cose che io
amo!”. I due non mancano una sola volta. C’é poi Giovanni,
riaccostatosi alla chiesa cattolica dopo un terribile
incidente di moto.
Padre Ignazio lo andava a trovare nei
difficilissimi giorni del coma e da allora non lo ha mai
lasciato! L’altra domenica ciascuno di questi amici é uscito
di casa con qualcosa (torta, frutta, succhi, caffé) e
all’uscita da Messa insieme han voluto servire a tutti,
gratuitamente, una buona colazione.
Quando penso alla cresima mi invade la memoria di una nostra
ragazzina che, pur sollecitata, non ha mai voluto andare oltre
la prima comunione, Duda. Abitava con papá difronte alla
nostra chiesa, su un dosso scosceso. L’uomo aggiustava casse
acustiche e –quand’era su di giri- le testava anche a
mezzanotte, invadendo di musica tutta la favela sottostante.
C’erano notti che, per fare un favore ai padri, e non
importava l’ora!, metteva su “Roberta” e altre canzonette
italiane. Anche i suoi vicini erano piuttosto turbolenti, non
per questioni legate alla musica ma alla droga. Cosí un certo
capetto, di notte, forzato il cancelletto, entrava nella casa
del poveruomo chiedendo denari. Nella colluttazione il nostro
amico rimaneva ferito alla testa, alla mano, al piede.
Azzoppato e costretto alle stampelle per qualche mese.
Duda, che era stata con noi negli ‘Amici di Edimar’, cominció
a staccarsi dalla chiesa, dalla scuola e persino dal papá,
fuggendo di casa e frequentando il peggio. Una notte di due
anni fa ci chiamarono al telefono dicendo che, in preda
all’alcool (o ad altro?) Duda sibilava il mio nome. Io e
l’Ignazio, immaginando l’imminente pericolo, saltiamo in
macchina e la cerchiamo dappertutto, nell’ora nella quale non
gira nessuno. Anche al posto di polizia non hanno nessuna
notizia sulla ragazzina che continuava a fare il mio nome, io
credo, nel tentativo estremo di chiamare un soccorso. Fece
ritorno a casa qualche settimana piú tardi, inventandosi un
mare di bugie. Duda non chiedeva soldi, perché sapeva che non
gliene avremmo dati. Ma a volte si presentava alla nostra
porta con la pancia vuota. Bastavano due battute e una
manciata di biscotti perché cominciasse a raccontare tutte le
cavolate che faceva. Ma in fondo aveva un cuore bello, che il
male non era riuscito a distruggere. Mi vien la pelle d’oca al
ricordo di come una sera, commossa, gli eran scese le lacrime
a sentirsi raccontare la storia del figlio prodigo e del padre
buono. Il tempo passava e lei, inseguita da figuri coi quali
si era indebitata fino al collo, dormiva ogni notte in locali
differenti. Fino a quando, forse con la soffiata di una amica,
le hanno teso la trappola fatale. Mezz’ora dopo che l’hanno
freddata con vari colpi alla testa e al collo, in un angolo
squallido della collina, la foto di una ragazzina
raggomitolata in una pozzanghera di sangue era postata in
facebook, in pasto a tutti. É una foto che conservo nel mio
cellulare, insieme ad una sua poesia. Anche la sepoltura,
accompagnata dal papá e da due o tre amiche, sotto un cielo
grigio, sembrava fatta apposta per cancellare per sempre le
tracce di questa ragazzina che aveva cominciato a chiamarmi
“pai”, papá. Non c’era posto nel nostro cimitero e l’hanno
posta del peggiore dei cimiteri che io conosca, chiusa tra
quattro assi senza maniglie. Ma ci rivedremo, Duda, tu con
quella tua treccia indio, e la piccola Bruna nell’abito
inusuale ed elegante col quale era proclamata vice-regina
nella piccola sfilata tre giorni prima di morire.
Domenica sará la solennitá di tutti i Santi. Qua, nella Bahía
de Todos os Santos (fu il nostro Vespucci …), non si celebra
niente. Nella cittá piú festaiola non si celebra la festa che
ha dato il nome alla sua incantevole baia. Peró é domenica. E
noi usciremo di qua per un giorno intero su una piccola isola,
per la chiusura dell’anno catechistico. Nell’Ilha de Maré,
cantata da molti artisti, faremo gioconi, il bagno nell’acqua
cristallina, celebreremo la Messa dinnanzi ad una chiesetta
conosciutissima. Questi sono i giorni delle iscrizioni e
saltano fuori ragazzini che non ho visto una sola volta al
catechismo, inventandosi storie che li fanno tra i piú assidui
frequentatori della chiesa … Ma sí, li caricheremo proprio
tutti sul barcone che attraversa quel pezzo di mare … Ma al
momento di salpare, e prima che si scateni la grande festa,
vorrei mostrare a tutti, puntandovi il dito, quel cimitero in
cima alla collina. So che alcuni, al ricordo di Duda, si
commuoveranno. Ma é solo per dirgli che noi siamo proprio
fortunati, perché abbiamo tra noi Chi ci aiuta a stare davanti
a tutte le cose della vita, il sole e la pioggia, il gioco e
il pianto. In fondo, il corso e i tornei di calcio (60
ragazzi), la scuola di balletto (150), i vari corsi di
computer (siamo a 250), gli incontri e i pranzi … tutto ci é
dato per incontrare e scoprire, insieme agli amici, quel
pezzettino di mondo che si chiama ‘cuore’, e tutto il bisogno
che lo abita. Cosí da poter dire, con l’Avvento alle porte:
“vieni Signore Gesú!”
Vostro don Emilio, Salvador Bahia, 27 di ottobre 2015.