Dalla Repubblica Democratica del Congo abbiamo notizie del
Transcript
Dalla Repubblica Democratica del Congo abbiamo notizie del
Dalla Repubblica Democratica del Congo abbiamo notizie del cremonese Paolo Carini Parto da un fatto concreto. Oggi, 26 aprile, abbiamo controllato i soldi nella cassa dell’ospedale. Ci sono poco più di 900 mila franchi congolesi, l’equivalente di 950 dollari. Entro 4 giorni si dovrebbero pagare gli stipendi degli 87 dipendenti che ammontano a circa 3 milioni e 800 mila franchi. Non c’è alcun conto bancario sul quale fare affidamento. Come si farà? L’ipotesi più probabile è quella di un anticipo. Ma un conto è dare la metà dello stipendio, un altro è darne un quarto. Sono qui in Congo, nella città di Mbuji Mayi, capoluogo della provincia del Kasai orientale, dal 3 marzo . Ci resterò per 3 anni per un progetto di ristrutturazione e di rilancio dell’ospedale St Jean Baptiste di Kansele. Il progetto è stato proposto dall’Ascom, un’associazione di Legnago che da 35 anni lavora in Africa ed è finanziato dalla Cei. Sempre con l’Ascom, sono stato 13 anni in Burundi tra il 1996 e il 2011. Un’esperienza per me importante e che adesso mi è utile perché qui la situazione logistica non è delle più agevoli. Ci si lava con un secchio, si cucina con il carbone, fa un gran caldo e si ha a disposizione un’ora di corrente elettrica al giorno. Non c’è un frigo per cui è necessario consumare in giornata quello che si prepara (ma gli spaghetti si possono mangiare anche il giorno dopo). L’altro lato della medaglia sul piano logistico è che c’è una signora che cucina, pulisce, lava e stira e un guardiano che va volentieri a prendere una birra al bar quando occorre. Personalmente, ho ripreso la decennale guerra con le pulci da materasso e altri insetti non identificati, ma sono strategicamente in vantaggio grazie ad una polvere magica acquistata al mercatino ed in ogni caso, dormo più che a Cremona. E se i sogni sono sempre strani, mi addormento senza grandi preoccupazioni per l’indomani. Di solito, in Africa, quello che non fai un giorno puoi farlo il giorno dopo. O almeno entro i 4 giorni seguenti. Mbuji Mayi è la quarta città del Congo come numero di abitanti, più di 2 milioni e mezzo, ed è conosciuta perché costruita attorno ad una miniera di diamanti. Io ammetto di non averla mai sentita nominare prima dell’anno scorso. Il nostro guardiano di notte scruta tutti i sassolini che si vedono in giardino, ma al momento non risulta aver scoperto niente di prezioso perché continua a lavorare per 2 dollari a notte. Sembra che i diamanti si trovino a partire dai 6 metri di profondità. Per decenni la città è cresciuta grazie alla Miba, l’azienda multinazionale che sfruttava la miniera. Ha costruito strade, case, scuole, centro sportivo e ospedale. Nei tempi d’oro aveva 5 mila dipendenti e il monte stipendi – ben più grande di quello dell’ospedale – arrivava a 3 milioni di dollari. La compagnia ha avuto un crollo nel 1997, durante la seconda guerra del Congo, perché i diamanti sono stati requisiti come “effort de guerre” dall’allora presidente Désiré Kabila. E’ poi sopravvissuta con un numero minimo di dipendenti e con un parco macchine sempre più vecchio ed inadeguato. Venerdì scorso i pochi lavoratori rimasti avevano programmato una marcia di protesta per chiedere il pagamento degli stipendi arretrati. La marcia, però, non è stata autorizzata. Anche l’ospedale di Kansele sembra abbia fatto dei grossi passi indietro. Il capo del personale, che lavora qua da 15 anni, ricorda un ospedale pieno di ricoverati e una lunga fila per le consultazioni. Il problema di fondo è economico. Il fondo di sostentamento dello stato, 10 milioni di franchi al mese, è solo teorico perché da anni non arriva alcun contributo. L’ospedale vive sulle consultazione, sugli esami, sui ricoveri. Sono entrate che dovrebbero compensare le spese di gestioni, tra le quali gli stipendi sono una voce importante, ma non l’unica. Due anni fa il ministero ha alzato bandiera bianca e ha chiesto alla diocesi se poteva occuparsi della gestione ospedaliera. Si è tenuto per sé la medicina preventiva e i programmi di cura per HIVpositivi e tubercolotici che sono ben finanziati da organismi internazionali. Tra il personale curante c’è chi riceve ancora uno stipendio statale, al quale si aggiunge un premio. Ci sono 8 medici, dei quali 3 a tempo parziale, ma nessuno supera i 150 dollari al mese. Ma basta un confronto sul monte stipendi, 4 mila dollari per 87 lavoratori, per rendersi conto che è l’equivalente di uno stipendio netto di un primario in Italia. Per difetto. La città è guidata da un governatore, recentemente rieletto per altri 5 anni con 24 voti su 24. Votavano i rappresentanti parlamentari di tutti i partiti. E’ come se il premier Renzi fosse stato confermato con il voto plebiscitario di 24 capigruppo, anche quelli dell’opposizione!!!! I rappresentati dell’opposizione hanno dovuto arrampicarsi sugli specchi per spiegare ai loro elettori il voto a favore! La città è sporchissima, non c’è alcun tipo di raccolta di rifiuti e di convogliamento delle acque nere. Non casualmente la febbre tifoide, legata all’igiene alimentare, è la seconda malattia come frequenza dopo la malaria. Non sono in grado di dire come viva la gente e cosa mangi. La signora che lavora a casa nostra percepisce uno stipendio di 50 dollari, che è superiore a quello di alcuni infermieri dell’ospedale. Come faccia, con questi 50 dollari, a dar da mangiare ai suoi 6 familiari, non è spiegabile. A metà mese, ha chiesto un anticipo di 25 dollari per poter pagare l’iscrizione del figlio più grande all’esame di maturità. Il ragazzo è venuto a ringraziarmi con la richiesta implicita che, questi 25 dollari, non fossero detratti dallo stipendio. Siamo qui per aiutare, ne terrò conto. Il direttore dell’ospedale, l’abbé Martin Mutombo, è un medico sacerdote congolese con specializzazione in sanità pubblica. Ha studiato in Spagna, Ungheria ed Italia ed è tornato a casa conservando gelosamente l’amicizia con una famiglia veronese. E’ stato grazie a questa intermediazione che è riuscito a contattare l’Ascom e a mettere in moto il complesso meccanismo di aiuto. L’associazione di Legnago ha presentato un progetto di ristrutturazione alla Cei che ha accordato un finanziamento per le costruzioni. Una parte del progetto resta a carico dell’Ascom e deduco che sia una parte non trascurabile, visto i ripetuti consigli a spendere il meno possibile. Nei prossimi giorni è atteso a Matadi, il porto congolese sull’Atlantico, un container che contiene tutto il materiale idraulico ed elettrico per la ristrutturazione della maternità, più un trasformatore per un collegamento in media tensione. Sappiamo che quella congolese è la dogana più cara del mondo, ma quanto si dovrà pagare non si sa ancora. Da Matadi a Mbuji Mayi ci sono ancora 1.500 chilometri. Fino a Kinshasa il container viaggerà via terra, poi risulta più conveniente spedirlo per cargo. Con raccomandazioni per l’atterraggio perché la pista di Mbuji Mayi è tra le più corte dell’Africa. Per Natale, un aereo cargo è atterrato allegramente a metà pista ed ha finito la frenata nel giardino del ristorante. Uno dei passaggi chiave per la ristrutturazione dell’ospedale è un nuovo collegamento con la linea elettrica. Attualmente l’ospedale ha corrente elettrica per un’ora e mezza, verso mezzogiorno, quando accende il gruppo elettrogeno. Fra parentesi, un litro di gasolio costa 2 dollari perché è gravato dal costo di trasporto dal porto meno lontano. Però, la sera, si è tutti al buio. Ed è comprensibile che una persona cerchi un ospedale che abbia un minimo di confort durante la notte. In realtà, il collegamento con la linea elettrica c’è già e ogni tanto funziona anche. Ma è una tipica storia congolese. Lungo i 1.500 metri del collegamento in bassa tensione, ci sono molte case collegate in modo abusivo ed altre, parzialmente in regola, che non pagano da tempo la bolletta. L’azienda privata responsabile della distribuzione ha pertanto deciso di non erogare corrente su questa linea. Ad essere sinceri del tutto, nemmeno l’ospedale ha mai pagato una fattura, ma qui si sostiene che l’energia per un ospedale statale dovrebbe essere a carico del ministero. Mi pare comunque di leggere, nel preventivo fornito dall’Enerka, un anticipo di 3.500 dollari sulle prossime consumazioni per essere sicuri…). (tanto Non è una sorpresa in Africa, ma il preventivo della società è una lunga lista di richieste e si articola in due parti. Nella prima si chiede una somma di circa 11 mila dollari, nella seconda si fa l’elenco di tutto il materiale da mettere a disposizione: trasformatori, piloni, armature, cemento e tutto il resto. Probabile che l’Enerka ci metta solo la manodopera. Comunque, con il preventivo in mano, si può iniziare la discussione. Per lo sviluppo dell’ospedale non c’è alternativa a dotarsi di corrente elettrica. Dal mio ufficio, verso le 11, vedo 2 infermieri che portano fuori una grande pentola e la mettono sul fuoco: è la sterilizzazione dei ferri chirurgici. Il mio compito, in ospedale, è quello di approntare un sistema di contabilità corretto e autosostenibile. I bilanci e i dati statistici sull’attività non aumentano i soldi in cassa, ma offrono indicazioni puntuali che dovrebbero servire a migliorare la gestione. Un bel discorso, si potrebbe dire, ma quanti soldi mancano per pagare gli stipendi di aprile? Il futuro dell’ospedale di Kansele non può prescindere dall’arrivo di altri sostenitori. Da sola, l’Ascom non ce la può fare. Carini Paolo (dalla Parrocchia del Boschetto alla R.D. Congo) Il Natale a Fadugu: lettera di auguri del padre saveriano Luigi Brioni, originario di Villanova Pubblichiamo il messaggio natalizio inviato dalla Sierra Leone dal padre saveriano Luigi Brioni, originario di Villanova. Padre Brioni ha scritto una mail a familiari, amici e benefattori raccontando del proprio ministero in africana e di come si vivranno i giorni di Natale. terra Buon Natale a tutti e ciascuno di voi dal mio paese di Fadugu, dove mi è caro condividere con la gente la certezza di fede che il Signore è nato davvero e non ci ha abbandonato, nonostante le tragedie, le assurdità, le incertezze di ogni giorno. Papa Francesco ce lo ricorda, spesso ed a voce alta, per riportare tutti al miracolo possibile di un’umanità unita, senza divisioni e paure. Buon Natale allora insieme alle vostre Famiglie ed Amici perché sia per tutti voi portatore di bontà e di misericordia universale, senza escludere nessuno. È questo il messaggio che la mia gente, pur nella semplicità della loro vita percepisce bene, perché tutto il mondo è paese, è un villaggio globale, che sempre ha bisogno di perdono e di speranza, cose che solo Lui può dare sempre e a tutti. Come festeggiamo qui il Natale? Prima di tutto, durante questa Novena, andiamo a pregare di sera presso un famiglia. Mezz’oretta, ma ben attesa. Poi abbiamo la Messa di mezzanotte alle ore 20, per non tenere la gente troppo a lungo al freddo della sera, che ormai si aggira sui 12/15 gradi anche qui, e … senza riscaldamento! Il giorno di Natale celebreremo la Messa alle 10.30 a.m. anche attorno a un simpatico presepio e poi le nostre famiglie si raduneranno nel salone parrocchiale per condividere il loro cibo natalizio in serena fraternità. Cibo che sarà il riso di ogni giorno con un po’ di salsa migliore, qualche pezzo di gallina o di pesce secco! Ah, niente panettoni né spumanti … ma vi assicuro tanta allegria e cordialità! E un po’ di caramelle ai piccoli gliele darò di certo, anche a nome vostro! Più tardi in molti andranno qui al vicino ruscello per continuare la festa con danza e dolcini … quelli che ci sono! Buonissimo Natale allora. Io con voi e voi con me ed insieme con Lui, che davvero ci soddisfa tutti! Di gran cuore, P. Luigi sx Lettera dal Mozambico del saveriano viadanese padre Andrea Facchetti, che da gennaio lascerà Charre per far ritorno a Chemba Di seguito la lettera del saveriano originario di Viadana, padre Andrea Facchetti, che dopo Natale lascerà la comunità di Charre (dove operava dal marzo 2014) per far ritorno a Chemba, distante circa 60 chilometri, per sostituire un confratello che ha dovuto rientrate in Italia. Era proprio da Chemba che padre Facchetti aveva iniziato la sua missione in Mozambico dopo l’ordinazione sacerdotale conferita il 30 giugno 2012 nel santuario di San Guido Maria Conforti, a Parma, dal vescovo Dante Lafranconi. 0. Savana padana Il giorno prima di partire di nuovo per l’Africa ho chiuso la valigia a metà mattina. Arduo decidere cosa prendere e cosa lasciare: fare la valigia genera dubbi amletici ed è – a modo suo – metafora della vita. Se la vita pesa 30 kg, salame e parmigiano-reggiano hanno un loro peso ontologico che ha più a che fare con l’essere che con il non essere. È la seconda metà di ottobre: autunno cominciato, sole pallido segue a giorni di cielo uggioso. Dopo avere salutato la gente, è doveroso salutare la terra, gli alberi e il fiume. Cosi prendo la bici in direzione del ponte vecchio, dove la canoa è rimasta in questi tre mesi. Scendo dall’argine, con le file dei pioppi sulla destra che scivolano via mentre cominciano a lasciare cadere le prime foglie. Il fiume è una meraviglia, forse perché c’è il sapore di un arrivederci che, data la distanza di tre anni, può avere anche alcuni tratti dell’addio. Il calore del sole si riflette sull’acqua e dopo pochi minuti tolgo la maglia. Metto dentro gli ultimi raggi di sole padano. Le braccia remano l’acqua, mentre la testa e il cuore remano il tempo. Le braccia remano in avanti. Testa e cuore remano all’indietro. Remano tre mesi trascorsi nella terra che mi ha generato, con i volti, gli incontri e le storie che si portano dentro. Remano immagini che diventeranno ricordi per quando sarò vecchio, ma che, già adesso, fanno affiorare dall’acqua felicità e gratitudine. In mezzo ad un fiume che si chiama Po. È un attimo e, d’improvviso, diventa Zambesi. Perché i fiumi comunicano tra di loro e bevono la stessa acqua. E per raggiungerli non serve l’aereo. Allora, pianura padana diventa savana. Savana padana. 1. Di nuovo paura Mi fermo tre giorni a Dondo. Poi, con p. Nicola partiamo verso nord. Dopo nove ore di viaggio siamo in prossimità delle rive dello Zambesi. Il battello a motore sul quale siamo soliti caricare la macchina per attraversare il grande fiume tra Sena e Mutarara quel giorno non funziona. Così siamo costretti ad allungare il percorso attraversando prima lo Zambesi a Caia e, dopo avere aggirato il monte Morrumbala, a superare il fiume Chire con il battello a trazione manuale. Nei pressi del villaggio di Sabe constatiamo che per strada non c’è anima viva. Va bene che sono le due del pomeriggio e c’è un caldo terribile, ma 10 km senza vedere né umani, né capre, né galline è piuttosto insolito. Notiamo anche che le capanne hanno le porte chiuse con il lucchetto. Arrivati a Sabe, un gruppo di militari ci ferma con il kalashnikov spianato. Ci fanno scendere e vogliono perquisire la jeep. Dicono che alle tre del mattino c’è stato uno scontro armato tra esercito regolare e uomini della Renamo. Ci sono stati morti e feriti: per paura, la popolazione locale ha cercato rifugio nella foresta. Poi i militari ci lasciano ripartire. Il giorno successivo provo a cercare un po’ di informazioni su quanto accaduto a Sabe. Le uniche fonti che accennano qualcosa sono la pagina in portoghese dell’agenzia di stampa tedesca (DW) e due blog mozambicani che parlano di scontri e morti nel Distretto di Morrumbala. La stampa mozambicana – allineata e coperta sulle posizioni del Governo e della Frelimo – tace il tutto. Fino a quando dopo due giorni, di fronte all’evidenza dei fatti, il Ministro degli Interni ammette quanto successo. La situazione non è tranquilla da fine settembre, quando per due volte hanno tentato di ammazzare il leader dell’opposizione. La chiamano “guerra a bassa intensità”. È cominciata tre anni fa e ogni tanto riprende con maggiore o minore violenza. Le parti in gioco sono le stesse di sempre: Frelimo e Renamo che, dopo avere fatto un milione di morti in sedici anni di guerra civile e dopo avere firmato gli accordi di pace nel 1992, oggi si contendono la spartizione delle immense ricchezze naturali del paese. 2. Di nuovo Charre Dopo 600 km e dodici ore di jeep eccoci di nuovo a Charre. È l’ora del tramonto. Apro la porta della stanza: uno strato di sabbia portata dal vento copre il letto, la scrivania e il pavimento in cemento. Sento un crepitio da dentro l’armadio a muro. Apro e trovo le termiti che hanno già divorato due scatole di cartone. Provvidenzialmente, non hanno ancora attaccato lo scaffale dei libri. Il giorno successivo gonfio le gomme della bicicletta e vado a spasso per il villaggio a salutare la gente. I bambini corrono dietro alla bicicletta spingendola sulla strada sabbiosa e gridano: «Baba Andrea abwera!», «Padre Andrea è tornato!». Anche gli adulti sono felici: «Baba mwabwera? Takutsukwani! Mwasya tani mai na pai anu?», «Padre sei tornato! Avevamo nostalgia. Come hai lasciato tua madre e tuo padre?». Rispondo che anche io ho avuto nostalgia e regalo alcune foto fatte ad alcune famiglie di Charre prima di partire. Dico che i miei stanno bene, ma mia madre «ali kubva kupha myendo», «ha male alle gambe». Sorridono e chiedono: «Azungo asabvambo kupha myendo?», «Anche i bianchi hanno male alle gambe?». È il tempo del grande caldo. Dopo pranzo si arriva ai 42 gradi in casa. Il corpo umano ha sei gradi di meno. Così gli oggetti sono per forza caldi: il bicchiere per bere, il materasso per coricarsi, l’acqua del rubinetto per lavarsi i denti. Dopo pranzo, dopo avere preso il caffè, ci si siede e che si fa? Si suda. Impossibile fare altro. Al pomeriggio si alza il bangwe, il vento secco e potente che viene da sud. Fa lievitare dal suolo nuvole di sabbia che dipingono di giallo le foglie degli alberi, l’aria, i volti dei bambini. Lo Zambesi al posto del Po. Il bao-bab che sta mettendo le foglie al posto del pioppo che le sta perdendo. Le capanne di mattoni in terra cotta e paglia al posto delle fabbriche dismesse per la crisi economica. I bambini che spingono la mia bicicletta sulla strada sabbiosa al posto delle mie quattro nipotine portate a spasso in bici assieme a mia sorella. Ho portato nel cuore e sono stato portato nel cuore. 3. Di nuovo la gente Anche quest’anno la stagione delle piogge tarda ad arrivare. La luna di novembre è passata e il cielo ha centellinato poca acqua sufficiente solo a togliere la sabbia dall’aria per due giorni. La gente ha pazienza e aspetta. Nel frattempo ha preparato i suoi campi. Ore sotto il sole, prima a zappare e poi a scavare i buchi dove verrà collocata la semente appena sarà caduta la prima vera pioggia. Kubzwala è il seminare dopo la pioggia. Mentre kupalira è il seminare prima della pioggia. Generalmente si preferisce la prima modalità, dato che seminando prima c’è il rischio che il seme germogli, ma poi il grande sole secchi la pianta. In questi mesi la vita è andata avanti. Per qualcuno ha preso altre destinazioni. Pochi giorni prima che arrivassi hanno sepolto pai Enfermeiro, il signore lebbroso della lettera n°13. Aveva cominciato la cura contro la lebbra a dicembre dell’anno scorso. Una volta al mese andavo all’ospedale di Mutarara a ritirare le pastiglie che avrebbe dovuto continuare a prendere per un anno. Avevamo fatto una visita la settimana prima che partissi per le ferie ed era entusiasta perché dopo sette mesi di terapia la malattia si era bloccata. Durante la mia assenza avevo lasciato la terapia ad una persona di fiducia. Ai primi di ottobre è stato colpito da una malaria che forse ha trascurato e in pochi giorni è morto. A causa della malattia, con gli anni, aveva perso mani e piedi. «Ndisafamba na matako» – «cammino con il culo» – affermava sorridente e compiaciuto. Nonostante questo, aveva un piccolo orto attorno alla sua capanna dove coltivava un po’ di fagioli e verdura. A modo suo, impugnava con i polsi una piccola zappa e aveva segnato sulla terra dei sentieri fatti su misura per il suo… matako. Pai Enfermeiro era tanto più potentemente attaccato alla vita di quanto la lebbra fosse attaccata alle cellule del suo corpo. Una sera di metà novembre, dopo il tramonto, assieme alla moglie, bussa alla porta pai Felix, il signore “che porta la speranza nel nome e nel sorriso” della lettera n°14. Con i volti visibilmente preoccupati, chiedono di accompagnare all’ospedale rurale di Mutarara la loro nipotina di quattro anni Chica, colpita da una forte malaria. Prendo la macchina e partiamo. Vengono anche i giovani genitori che nei 15 km di viaggio mi spiegano che il giorno prima il padre ha già portato la bambina in bicicletta all’ospedale. Le è stata somministrata la terapia antimalarica, ma non ha sortito effetti. La febbre forte è invece peggiorata. Arrivati all’ospedale, entro anche io per sincerarmi che la bambina venga visitata. Con il respiro affannato, la sistemano a pancia in su sopra un letto troppo grande per i suoi quattro anni. Lasciamo Chica all’ospedale assieme ai genitori, mentre io torno a casa assieme ai nonni. Fuori, notte e polvere di vento. In macchina, silenzio. «Tiri kuphembera, baba», «Stiamo pregando, padre». Mentre sto andando a dormire ascolto pianti a distanza nel silenzio della notte. Un presentimento. «Ma no, non sarà lei», mi dico. All’alba pai Felix è già a casa nostra. Mi dice che due ore dopo essere tornati a casa, è arrivata la telefonata del figlio che comunicava la morte di Chica. È sabato mattina, c’è un caldo tremendo e la famiglia decide di fare subito il funerale. Tra la capanna e il cimitero ci sono poche centinaia di metri. Sole alto spietato, espressione immobile dei volti, indumenti poveri intrisi di vita e di sudore, sabbia gialla alzata dai piedi, quattro assi di bara coperte da un lenzuolo bianco. Nascondo le lacrime alla mia gente e chiedo a Dio perché. 4. Di nuovo si alza la testa È il tempo delle ultime visite alle nostre 76 comunità. Un sabato di vento e sabbia da colorare di giallo l’aria, a Merkano inauguriamo la nuova cappella e la comunità ammazza una mucca per la festa. A Nyaeka invece, la settimana successiva, sono sufficienti tre capre. Riprendiamo anche i lavori di Giustizia e Pace. A fine novembre organizziamo un incontro con le Commissioni delle due parrocchie di Charre e di Nyangoma per fare il punto della situazione sull’anno trascorso e per programmare il lavoro di quello venturo. Primo fronte: la questione della terra sottratta ad alcune comunità da parte di una multinazionale indiana per impiantare la monocultura della canna da zucchero. Senza consultazione pubblica, senza assenso da parte delle famiglie interessate e senza indennizzo, come invece previsto dalla “Legge della Terra”. Nei tre mesi di ferie, ci sono state due novità sostanziali. Prima novità. Il progetto di espropriazione della terra continua, ma non sarà più per produrre canna da zucchero, bensì riso e fagioli. Con le piene di Chire e Zambesi a inizio anno, l’investitore straniero ha perso buona parte del raccolto e dei macchinari, constatando che sono venute meno le condizioni per un ulteriore investimento. Ha così venduto la licenza ad un’altra impresa della quale per ora non conosciamo né nome, né provenienza. Quest’ultima, nel mese di agosto, ha già cominciato ad occupare alcuni terreni delle comunità locali, allontanando le famiglie residenti, ma spostandosi di qualche centinaio di metri dalle rive del fiume Chire rispetto all’impresa precedente per evitare le conseguenze delle esondazioni. Seconda novità. A giugno avevamo consegnato un documento all’Amministratrice del Distretto. La signora Palmira Pinto aveva accettato la proposta di porre il Distretto (in Italia equivarrebbe alla Provincia) come soggetto di mediazione tra le famiglie espropriate e l’impresa. Nel caso la via diplomatica non fosse andata buon fine, le avevamo comunicato che saremmo ricorsi alla via legale con l’appoggio degli avvocati. Tornato dalle ferie, dobbiamo riprendere i contatti. Ma, stavolta, con l’Amministratore. Al maschile. Non solo se ne è andata la signora Palmira Pinto, ma, dopo di lei, è arrivata e se ne è andata una seconda nuova Amministratrice. E ora, al suo posto un nuovo Amministratore. Il tutto in soli tre mesi. Secondo fronte: la questione del legname tagliato da un’impresa cinese in un’area dove abbiamo sei comunità. Prima di partire per le ferie ero venuto a conoscenza del fatto che l’impresario cinese avrebbe dato sottobanco un valore di 500.000 meticais (circa 10.000 euro) al capo del Dipartimento dell’Agricoltura del Distretto di Mutarara per aggiudicarsi una licenza irregolare per tagliare alberi di chanfuta, ebano e pau ferro. Una parte sarebbe andata a due capi villaggio che, ricevuta una moto ciascuno, avrebbero autorizzato lo sfruttamento delle loro terre, senza la consultazione comunitaria come invece prevede la legge. Questo spiegherebbe il perché fino ad ora non si sappia nulla di quel 20% della tassa pagata allo Stato da parte dell’impresa che la legge mozambicana stabilisce debba essere fatta pervenire alla comunità locale sotto forma di progetti di sviluppo sociale. E di come, allo stesso modo, non si sappia nulla di quel 15% che dovrebbe essere utilizzato per il rimboschimento. Non si sa nulla, semplicemente perché la tassa non è stata pagata. Che sia un caso di corruzione pare evidente. Il problema è dimostrarlo. Pai Emílio, responsabile di Giustizia e Pace di Charre, sostiene che «pinthu pya ndi mwe mwene pinabuluka pa kwecha». Che pressappoco significa «la verità viene fuori da sola». Bisogna mettere l’Amministratore del Distretto con le spalle al muro, in modo che sia lui stesso a chiarire il perché risultino ancora non pervenuti il 20% alla comunità e il 15% per il rimboschimento. Cambiano gli Amministratori. Cambiano i volti dei politici che mettono le loro tasche e gli interessi del partito al di sopra della vita della loro gente. Cambiano i nomi delle società di investimento e delle imprese multinazionali. Non cambiano i meccanismi di sfruttamento, di espropriazione e di corruzione a danno dei più poveri. Ma non cambia nemmeno la determinazione e la perseveranza di chi è stanco di essere calpestato e ha deciso che è arrivato il momento di alzare la testa. Per concludere: novità in buone mani Questa lettera sarebbe finita così. Invece no. Perché – quasi ultimata la lettera – ho preso atto che questa sarebbe stata l’ultima lettera scritta da Charre. Questione di novità. Perché ci sono novità che – pur essendo nuove – sono pur sempre previste e attese. Il fatto che domani si alzerà il sole, che la nostra gente andrà in campagna con la zappa nella mano e con il desiderio della pioggia nel cuore, che appena esco in bicicletta una decina di bambini cominceranno a corrermi dietro gridando felici, che lunedì come ogni lunedì mia madre e mio padre mi chiameranno, che se domani incontrerò mãe Virgína per strada, la nostra conversazione terminerà con lei che guarda verso il cielo ed esclama: «Mulungu ndi mphambvu yathu», vale a dire «Dio è la nostra forza», che questo fine settimana come ogni fine settimana mi recherò in alcune delle nostre tante comunità, parleremo dei loro problemi e punti di forza, celebreremo l’Eucaristia e termineremo il tutto con il pranzo a menù fisso a base di polenta di miglio e gallina mangiati rigorosamente con le mani. Poi, oltre alle novità previste ed attese, ci sono anche quelle che arrivano all’improvviso. Né previste, né tantomeno attese. Come quella di dieci giorni fa. Un confratello che lavorava a Chemba – a sessanta km da qui, ma dall’altra parte dello Zambesi – è dovuto tornare in Italia. A me è stato chiesto di lasciare Charre per andare a Chemba, a partire dai primi giorni di gennaio. Tempo fa avevo appeso all’armadio della mia stanza un foglio con queste parole: «Io devo potere avere la certezza di essere nelle mani di Dio. Poi tutto diventa leggero». A scriverle fu il pastore e teologo luterano Dietrich Bonhoeffer. Le scrisse il 22 dicembre del 1943 dal carcere di Tegel, dove era prigioniero per essere parte della Resistenza al Male hitleriano. Era in carcere dall’aprile dello stesso anno e in quella lettera manifestava ancora la speranza in una liberazione prossima. Venne impiccato nel campo di concentramento di Flossemburg il 9 aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della seconda guerra mondiale. Poche volte nella vita, come in questi giorni, sto facendo mie queste parole. Erano lì appese da tempo. Ora le sento nuove, come lette per la prima volta. Perché una cosa è dirci che siamo nelle mani di Dio. Un’altra, è sperimentare che siamo nelle mani di Dio. Tra qualche giorno sarà Natale. Dio è uomo. Mette i suoi piedi sulla nostra strada e ci cammina incontro. Al tempo stesso, già ci sta prendendo per mano. Anzi, siamo nelle sue mani. Allora tutto diventa leggero. Charre, 15 dicembre 2015 Baba Andrea Lettera di suor Patrizia Di Clemente, combonina originaria di Mozzanica, missionaria in Zambia Dallo Zambia abbiamo ricevuto notizie da suor Patrizia Di Clemente, combonina, originaria di Mozzanica. Volentieri pubblichiamo quanto ci ha scritto. Qui in Zambia, al momento abbiamo quattro comunità dove i giovani potrebbero essere accolti (favorendo il centro nella periferia di Lusaka dove mi trovo io, per via dello spazio e attività proposte). Due comunità sono in Lusaka, nelle zone di periferia che chiamiamo compound, e le altre due in una regione rurale nella zona ovest. Il progetto che gestisco io è socio-educativo, per cui abbiamo un corso di alfabetizzazione per donne, tuitions per ragazzine che non vanno a scuola (questo le aiuta a farsi delle fondamenta prima d’essere reinserite nella scuola statale e fare gli esami), attività ricreative, spazio compiti per bambini, zona studio per giovani, counselling… A Mongu (zona rurale dell’ovest) stiamo iniziando un progetto agricolo, agro-forestry tradizionale. Abbiamo una famiglia irlandese come volontari per tre anni. Anche lì sarebbe bello se dei volontari andassero, ma solo uno o due per volta. La stagione delle piogge inizia a dicembre fino a marzo. I mesi più caldi sono da agosto a novembre e i mesi freddi sono giugno e luglio. Per noi una condizione importante è che chi viene sappia l’inglese, altrimenti il coinvolgimento nelle attività e l’interazione con la gente è troppo limitato e l’esperienza rimarrebbe troppo condizionata. Possiamo accogliere una persona (se non è troppo giovane; abbiamo sperimentato che giovani dai 18 ai 20 anni è meglio se vengono almeno in due) fino a piccoli gruppi di 4 (se si fermano per uno o due mesi). Per tempi più prolungati (6 mesi/1 anno) è meglio limitarsi a due persone. Buona continuazione d’avvento and blessed year of mercy! Sr. Patrizia Nella periferia ovest di Lusaka, da alcuni anni le Suore Missionarie Comboniane sono impegnate nella gestione di un progetto di formazione integrale per ragazze orfane che non hanno mai frequentato la scuola o che, per motivi finanziari, non hanno potuto continuare la loro istruzione primaria. Le ragazze, classificate secondo il livello scolastico, possono seguire corsi di alfabetizzazione, di lingua locale e di inglese, di aritmetica e una formazione umana e pratica che comprende anche corsi di taglio, cucito e maglieria. Tutte queste nozioni permetteranno loro di poter iniziare una micro attività imprenditoriale. Un pasto completo è offerto ogni giorno per alleviare il problema della malnutrizione molto diffuso nella periferia della capitale. Beneficiari: circa 75-80 ragazze dai 15 ai 20 anni che frequentano il centro diurno; le famiglie delle ragazze. Obiettivi: educare le ragazze più vulnerabili ed insegnar loro un mestiere che permetta loro di condurre una vita dignitosa; aiutare le ragazze che completano il corso triennale con un microcredito in modo che possano iniziare subito a rendersi autosufficienti; assicurare un aiuto alle ragazze che dimostrano di essere in grado di riprendere e seguire l’istruzione nella scuola governativa. Dal Brasile, Bellani don Emilio Non mi è facile raccontare quanto accaduto di più significativo in questi ultimi mesi, traboccanti di eventi. Apro la mia agenda e la trovo molto pasticciata, colma di nomi, di orari, di frecce, cancellazioni, sottolineature, rimandi. C’è una domanda che mi sento ripetere proprio tutti i giorni, per strada e nelle case: “e padre Ignazio? Come sta padre Ignazio? Hai notizie su di lui?” Padre Ignazio, lo scrivo per chi ancora non lo sapesse, è il padre e l’amico del Pime che, nel 2008 era presente all’inaugurazione della nostra chiesa, il fondatore –diciamo- della nostra parrocchia. L’ho affiancato nel 2010 ed insieme abbiamo vissuto e lavorato fino al marzo di quest’anno, quando i superiori gli hanno chiesto un grande sacrificio, di lasciare questa favela e la Bahia, per lanciare le reti in un altro angolo del Brasile, in Amazzonia. Duemila e otto chilometri in linea retta, avverte Google, 2.800 per un altro sito … Partirei proprio dal mese di marzo di quest’anno, se non ci fosse –ad impedirmelo- un fatto che ci ha feriti in questi ultimi giorni. Per me lei era una ragazzina molto speciale, intelligenza acuta, vivacissima, provocatrice nata. “Da grande farò la professora!” mi diceva, e a fatica io trattenevo la risata, perché me lo diceva la ragazzina che tirava scema ogni insegnante, e che una volta abbiamo allontanato anche dal catechismo, perché … ingestibile. La notizia mi è giunta su WhatsApp: ‘Emilio, sono Paola. Ho saputo una cosa terribile che é accaduta al Boiadero. Mi ha chiamato Pekeno. Non riesco a scrivere. Sono scioccata. Ti cerco domani.’ Paola è la direttrice del nostro Centro educativo, e il messaggio era scritto alle 2 e 33 di notte… Bruna ci ha lasciati non per malattia, ma perché uccisa dallo zio. Ebbe solo il torto, quel sabato sera, di trovarsi nel posto sbagliato all’ora sbagliata. Un alterco violento tra ragazzine che vivono in povere case, che accendeva una furibonda lite tra le rispettive famiglie. Odio atavico tra persone legate dallo stesso sangue? Aggiustamento di conti?… L’uomo la colpiva improvvisamente al collo con un coltello e la piccola stramazzava a terra biascicando due paroline (“meu pai”) con l’ultimo fiato che le restava. Non vi racconto il resto perché non mi credereste, la gente che lancia pietre contro la casa dell’omicida, e questi che –per fuggire una pena pesantissimaistiga una nipotina minorenne ad assumersi la colpa. Hanno stampato, in ricordo di Bruna, una maglietta che conservo nel mio studio e che dice così: ‘mais uma estrela que no céu ira brilhar! Esteja com Deus!’. L’abbiamo ricordata nella santa Messa domenica mattina, col papà e tante amiche. Certi che quelle due ultime paroline la portavano dritta tra le braccia di un papà più grande. Domenica mattina la Messa è stata davvero speciale, c’erano con noi gli amici Angelo Abbondio, di Milano, e la figlia Cinzia. La nostra bella chiesa, senza di loro, non esisterebbe, ed io non sarei qua. A loro, che ci accompagnano sempre assieme alla mamma Fernanda(rimasta in Italia), abbiamo affidato di tagliare il nastro al momento di inaugurare il campo di calcetto a lato della chiesa, rimesso a nuovo. Un torneo a quattro squadre ha poi di fatto solennizzato il momento. Anche per questo, alla Messa, mi son visto arrivare ragazzini in divisa, in maggioranza evangelici (protestanti), che non avevano mai messo piede nella nostra chiesa. L’assedio al campetto tirato a lucido era già cominciato qualche ora prima e dovevate vedere gli occhioni sgranati e increduli dei ragazzini! Il Brasile è il Brasile e, pure in assenza dei campioni di una volta, è ancora … pane e pallone. La mia giornata era cominciata alle 6, quando, in una nostra chiesetta seminascosta tra le case della favela, i primi bambini cominciavano a essere serviti a tavola da adulti della nostra comunitá che gli avevano preparato una generosa colazione a base di frutta, di torte, caffelatte e succhi. Donna Vanda, 75 anni e una casa che è stata rifugio per decine di ragazzine bisognose cresciute da lei, donava quella mattina a tutti i ragazzini della colazione un bel piatto di plastica sul quale aveva incollata l’immagine della Aparecida, la Madonna patrona del Brasile. E con la piccola statua dell’Aparecida, il 12 di ottobre, si era fatta una bella processione per le stradine, io col megafono e quattro ragazzine ad aprire il corteo avvolte in vesti colorate, sotto un sole fortissimo. Giunti alla chiesetta, tra canti e spari di mortaretti, siamo stati accolti da un piccolo coro e tanta gente in festa. La celebrazione si é chiusa, come sempre accade da queste parti, con l’offerta di grosse fette di torta. Altra festa –con processione e Messa- in altra parte del quartiere, il 4 di ottobre, per celebrare san Francesco. La chiesina era stracolma. Alla fine, pollo arrostito e soprattutto fejoada (stufato di fagioli neri con carne di maiale e pancetta, piatto per eccellenza della cucina brasiliana). Il pentolone era davvero enorme e, quel che rimase, venne offerto sulla strada alle persone in attesa. Per l’occasione abbiamo anche chiamato a raccolta tanti ragazzini del quartiere attraverso una caccia al tesoro tra le varie stradine. E qui accadde ció che non mi era mai accaduto: al momento di raggiungere il tesoro, questi non c’era. Non che fosse ben nascosto, no, proprio non c’era! L’avevo consegnato ad un pescatore amico perché lo nascondesse (un sacco pieno di caramelle italiane!) sulla propria barca a poche decine dalla riva, calcolando che la marea a quell’ora era bassa. Ma quando mancavano ancora pochi biglietti alla fine del gioco, constatavo nervosamente che pescatore e barca ancora non erano rientrati dalla notte di pesca. Pregai che ciò potesse accadere il più in fretta possibile. Inutilmente. Così la squadra che era in testa, seguendo le indicazioni dell’ultimo biglietto, si era portata in riva al mare a cercare la barca. Dopo dieci minuti si aggiunge la squadra che era seconda. Una manciata di secondi e arriva, nello stesso tratto di spiaggia, anche quella più in ritardo. Tutti a cercare senza trovare. Tutti a domandare. Io che non so quale santo invocare, ma stavolta per l’esatto contrario: se la barca fosse rientrata in quei momenti sarebbe stata la guerra tra decine di ragazzini che l’avrebbero fatta da pirati. Non arrivò, grazie a Dio. Il gioco non si è concluso come doveva, ma comunque le caramelle, qualche giorno dopo, sono andate a tutti. Mentre scrivo bussa alla porta donna Leda, con una richiesta: “padre Emilio, posso fare qualcosa?”. “Certo”, le rispondo, tra poco comincia il mese di novembre e ogni domenica ce n’é una nuova: i Battesimi per ragazzi e adulti, le prime Comunioni, le Cresime. Avremo da servire molte merende, nel nostro salone, ai ragazzi e ai loro amici e familiari; e poi ci sono i fiori per abbellire l’altare … Con certezza avremo bisogno di te, preparati!”. “Io sono qua, mi risponde, lo sa!” Che forza!, mi dico, ha quattro figli, … e poi tutte le mattine si fa la sua strada sotto il sole o la pioggia per andare al lavoro … Ma la parrocchia sta su per gente così. Non abbiamo alle spalle le multinazionali nordamericane! Ai sacramenti ci si prepara, qua come in tutto il mondo, con la catechesi. E quest’anno, in questo lavoro, no sono mancate delle sorprese proprio belle. Al Cabrito, per esempio. Un’area piuttosto lontana dalla nostra chiesa, e non solo geograficamente. Moltissime famiglie sono di fatto evangeliche e altre, afrodiscendenti, praticano il Candomblé, religione derivata dall’animismo africano. Di sabato celebro la Messa nella piccola chiesa con 3 o 4 persone, salvo eccezioni. Da anni, in questa regione, il catechismo non si faceva. Ma quest’anno la musica é cambiata. Attraverso Marta, giovane mamma con un passato da catechista, Dio sta facendo fiorire qualcosa di bello in questo deserto. Marta vien giú dalla collina a piedi, di sabato, con la figlia in braccio e il figlio Matteo che la aiuta a reggere una grossa borsa di merende perlopiù preparate in casa. Poi apre con Jassiara, l’altra catechista, la chiesetta e la piccola sala attigua, mette in ordine le sedie e i tavolini … i bambini cominciano intanto a sbucare da ogni lato, sono quasi una ventina ed apprendono i primissimi rudimenti della fede, fanno cartelloni, giocano, cantano, ballano. Alla fine entrano nella sala alcune loro mamme, con qualche salatino o specialità casareccia. Insomma, una festa dove prima non c’era quasi niente. Una strada, un cammino che si é aperto, e per iniziarlo Dio si é servito di una madre che ancora non é sposata, e che parla di Maria con una tenerezza che sempre mi commuove. Una donna che non ha la volontà, e neppure il tempo!, di rivendicare per se ruoli speciali nella chiesa. Anche quella delle Cresime é bella da raccontare. La partenza del cammino preparatorio é avvenuta in sordina, con 3 o 4 ragazzine di 15 anni con le quali abbiamo diviso molte cose in questi anni. Ad un tratto si é aggiunta, non ricordo come, Annaurelia che, ogni settimana, vi portava uno nuovo: il nipote, per cominciare, poi la sorella (alla quale –sue parole al momento di presentarsi- interessa soprattutto la birra!), un altro nipote, poi una seconda sorella con lo sposo, un terzo nipote, … infine una amica. Quest’ultima, dopo due settimane, ritorna accompagnando un ragazzino di 16 anni che col pallone tra i piedi vi incanta… Il gruppo quindi si allarga, e anche l’entusiasmo. Mi colpisce anche Rafaele, una ragazza da poco tornata da Brasilia dove ha studiato. Mi dice che coi sacramenti lei é a posto, però mi porta il moroso: “io vorrei sposare un giovane che ama le stesse cose che io amo!”. I due non mancano una sola volta. C’é poi Giovanni, riaccostatosi alla chiesa cattolica dopo un terribile incidente di moto. Padre Ignazio lo andava a trovare nei difficilissimi giorni del coma e da allora non lo ha mai lasciato! L’altra domenica ciascuno di questi amici é uscito di casa con qualcosa (torta, frutta, succhi, caffé) e all’uscita da Messa insieme han voluto servire a tutti, gratuitamente, una buona colazione. Quando penso alla cresima mi invade la memoria di una nostra ragazzina che, pur sollecitata, non ha mai voluto andare oltre la prima comunione, Duda. Abitava con papá difronte alla nostra chiesa, su un dosso scosceso. L’uomo aggiustava casse acustiche e –quand’era su di giri- le testava anche a mezzanotte, invadendo di musica tutta la favela sottostante. C’erano notti che, per fare un favore ai padri, e non importava l’ora!, metteva su “Roberta” e altre canzonette italiane. Anche i suoi vicini erano piuttosto turbolenti, non per questioni legate alla musica ma alla droga. Cosí un certo capetto, di notte, forzato il cancelletto, entrava nella casa del poveruomo chiedendo denari. Nella colluttazione il nostro amico rimaneva ferito alla testa, alla mano, al piede. Azzoppato e costretto alle stampelle per qualche mese. Duda, che era stata con noi negli ‘Amici di Edimar’, cominció a staccarsi dalla chiesa, dalla scuola e persino dal papá, fuggendo di casa e frequentando il peggio. Una notte di due anni fa ci chiamarono al telefono dicendo che, in preda all’alcool (o ad altro?) Duda sibilava il mio nome. Io e l’Ignazio, immaginando l’imminente pericolo, saltiamo in macchina e la cerchiamo dappertutto, nell’ora nella quale non gira nessuno. Anche al posto di polizia non hanno nessuna notizia sulla ragazzina che continuava a fare il mio nome, io credo, nel tentativo estremo di chiamare un soccorso. Fece ritorno a casa qualche settimana piú tardi, inventandosi un mare di bugie. Duda non chiedeva soldi, perché sapeva che non gliene avremmo dati. Ma a volte si presentava alla nostra porta con la pancia vuota. Bastavano due battute e una manciata di biscotti perché cominciasse a raccontare tutte le cavolate che faceva. Ma in fondo aveva un cuore bello, che il male non era riuscito a distruggere. Mi vien la pelle d’oca al ricordo di come una sera, commossa, gli eran scese le lacrime a sentirsi raccontare la storia del figlio prodigo e del padre buono. Il tempo passava e lei, inseguita da figuri coi quali si era indebitata fino al collo, dormiva ogni notte in locali differenti. Fino a quando, forse con la soffiata di una amica, le hanno teso la trappola fatale. Mezz’ora dopo che l’hanno freddata con vari colpi alla testa e al collo, in un angolo squallido della collina, la foto di una ragazzina raggomitolata in una pozzanghera di sangue era postata in facebook, in pasto a tutti. É una foto che conservo nel mio cellulare, insieme ad una sua poesia. Anche la sepoltura, accompagnata dal papá e da due o tre amiche, sotto un cielo grigio, sembrava fatta apposta per cancellare per sempre le tracce di questa ragazzina che aveva cominciato a chiamarmi “pai”, papá. Non c’era posto nel nostro cimitero e l’hanno posta del peggiore dei cimiteri che io conosca, chiusa tra quattro assi senza maniglie. Ma ci rivedremo, Duda, tu con quella tua treccia indio, e la piccola Bruna nell’abito inusuale ed elegante col quale era proclamata vice-regina nella piccola sfilata tre giorni prima di morire. Domenica sará la solennitá di tutti i Santi. Qua, nella Bahía de Todos os Santos (fu il nostro Vespucci …), non si celebra niente. Nella cittá piú festaiola non si celebra la festa che ha dato il nome alla sua incantevole baia. Peró é domenica. E noi usciremo di qua per un giorno intero su una piccola isola, per la chiusura dell’anno catechistico. Nell’Ilha de Maré, cantata da molti artisti, faremo gioconi, il bagno nell’acqua cristallina, celebreremo la Messa dinnanzi ad una chiesetta conosciutissima. Questi sono i giorni delle iscrizioni e saltano fuori ragazzini che non ho visto una sola volta al catechismo, inventandosi storie che li fanno tra i piú assidui frequentatori della chiesa … Ma sí, li caricheremo proprio tutti sul barcone che attraversa quel pezzo di mare … Ma al momento di salpare, e prima che si scateni la grande festa, vorrei mostrare a tutti, puntandovi il dito, quel cimitero in cima alla collina. So che alcuni, al ricordo di Duda, si commuoveranno. Ma é solo per dirgli che noi siamo proprio fortunati, perché abbiamo tra noi Chi ci aiuta a stare davanti a tutte le cose della vita, il sole e la pioggia, il gioco e il pianto. In fondo, il corso e i tornei di calcio (60 ragazzi), la scuola di balletto (150), i vari corsi di computer (siamo a 250), gli incontri e i pranzi … tutto ci é dato per incontrare e scoprire, insieme agli amici, quel pezzettino di mondo che si chiama ‘cuore’, e tutto il bisogno che lo abita. Cosí da poter dire, con l’Avvento alle porte: “vieni Signore Gesú!” Vostro don Emilio, Salvador Bahia, 27 di ottobre 2015.