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Aspen Institute Italia – Aspenia n.9
LA GLOBALIZZAZIONE DELL’IMMAGINARIO
Conversazione di Shimon Peres con Sydney Pollack
(Shimon Peres è stato premier laburista d’Israele ed è attualmente ministro per lo Sviluppo
Regionale del governo Barak.
Sydney Pollack ha realizzato oltre venti film tra i quali "Tootsie", "I tre giorni del Condor"
e "La mia Africa".)
L’influenza e gli effetti culturali dell’industria dell’intrattenimento nell’incontro tra uno
statista, premio Nobel per la pace, e uno dei più grandi autori del cinema contemporaneo.
Shimon Peres Oggi, ad esportare nel mondo il Sogno Americano sono i film prodotti da
Hollywood. Un sogno, quello americano, che affonda le sue radici nel cuore e nella mente
degli emigranti sbarcati nel Nuovo mondo alla ricerca di una vita migliore. Una cultura di
massa e una lingua – l’inglese – che tutti masticano in qualche modo, hanno fatto sì che i
gusti e le aspirazioni americane siano condivisi a livello globale, non di rado a spese delle
culture nazionali. Mi chiedo se la presenza pervasiva di questa cultura costituisca un fatto
positivo o negativo.
Sydney Pollack I primi a fare film in America sono stati gli immigrati, alla ricerca di un
modo di comunicare col mondo esterno, di una lingua franca da utilizzare per mettere in
scena storie e immagini con cui tutti gli americani potessero identificarsi, nonostante la
diversità del bagaglio linguistico e culturale. Erano sostanzialmente film moraleggianti,
vere e proprie favole che contrapponevano il bene al male, e i cui protagonisti erano
sempre un eroe e una donzella in pericolo. Questi gli inizi di quella grande industria del
cinema che sarebbe fiorita in America per poi espandersi nel mondo intero.
Nella nuova realtà coesistono aspetti sia positivi che negativi. Il mondo è diventato così
piccolo da rendere necessario un linguaggio comune che ci consenta di comunicare senza
dover penetrare nei complicati recessi di una cultura che ci isola gli uni dagli altri. È ciò
che ha fatto oggi la cultura americana in tutto il mondo. Non senza, tuttavia, suscitare
qualche allarme giustificato dal fatto che il potere dell’industria americana emargina la
produzione locale e appiattisce le culture nazionali nel tentativo di uniformarle al modello
prevalente. In tutti i Paesi – fatta eccezione per l’India – la stragrande maggioranza degli
incassi di botteghino viene dai film americani. In Grecia e in Germania, ad esempio, l’80
per cento dei film in distribuzione sono "made in Usa". Si direbbe che, davanti al
botteghino, la gente dimentichi la propria appartenenza culturale. Sulle modalità di
affrontare questa situazione si è aperto un ampio dibattito, sia nell’ambito della stessa
industria del cinema americana che dei ministeri della cultura di diversi Paesi. Con quello
francese, in particolare, abbiamo organizzato seminari e dibattiti e sostenuto più di uno
scontro. Il fatto che un governo si erga a giudice in materia di cultura e decida di tassare o
contingentare i film americani non giunge certo gradito. L’unico modo realistico di
fronteggiare la presenza americana non consiste nel ricorrere al protezionismo culturale,
ma nell’incoraggiare la sopravvivenza e la vitalità dell’industria cinematografica locale.
Alla fin fine, la scelta del film spetta al pubblico e non al ministro della cultura.
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Ironia vuole che i registi di film americani siano stati profondamente influenzati dai film
stranieri. La prima ondata di cinema europeo, giunta negli Stati Uniti negli anni Sessanta e
Settanta, diede al film americano un nuovo impulso, una dose di linfa creativa quale non
si era vista da parecchio tempo. I film di Antonioni, Fellini, Bergman, Truffaut, Godard e
Kurosawa godevano di grande popolarità, specie tra gli studenti dei college.
Oggi invece – ed è abbastanza strano – l’America registra, in fatto di cultura, un
cambiamento radicale: il venerdì sera, gli studenti vanno ad affittarsi un film americano
degli anni Trenta, che considerano alla stregua di una esperienza "iniziatica".
Shimon Peres La cultura popolare americana veicola un messaggio preciso che si traduce
nell’antiautoritarismo e talora, addirittura, nell’irrisione dell’autorità. Messaggio che ha
molta presa in Paesi meno liberi dell’America.
Sydney Pollack Anche se è meglio non generalizzare in un settore così fertile com’è quello
del cinema americano, ritengo che nella sua affermazione ci sia un fondamento di verità.
L’eroe emblematico dei film americani è quello che si batte contro le differenze e sfida
l’autorità. Che sia un lui o un lei fa lo stesso: è irriverente. Il che ha senza dubbio il suo
fascino, soprattutto agli occhi dei giovani che si sentono soffocati da culture più
tradizionali. Resta il fatto che l’irriverenza può essere anche instillata nei confronti non
solo di un’autorità illegittima, ma anche di quella rappresentata dai genitori, dagli
insegnanti o dai leader politici.
Shimon Peres È vero: oggi la dittatura è impossibile anche grazie ai media, i quali, però,
contribuiscono pure a rendere intollerabile la democrazia.
Ciò detto, mi sembra giusto sottolinearne anche i contenuti in termini di giustizia e di
opportunità. L’America ha due volti: quello dello stato di diritto che ai sensi della
Costituzione tutela le minoranze, e quello del sogno che, proprio in virtù dello stato di
diritto, a ciascuno è dato di realizzare. Anche il povero può riscattarsi dalle condizioni in
cui vive...
Sydney Pollack Il messaggio è che tutto è possibile. Agli spettatori di tutto il mondo il film
americano manda a dire: "Per avere una vita sensazionale non c’è bisogno di essere né
grandi né potenti". Basta muoversi, essere disposti a non avere radici. Il ragazzino delle
elementari, magari ancora con l’apparecchio odontoiatrico in bocca, che vive in una
cittadina di provincia e sogna di potersene andare e vivere un’avventura, s’identifica con
uno dei personaggi di questi film e comincia a credere che il sogno possa diventare realtà.
Si tratta, forse, dell’aspetto più affascinante del messaggio americano che tanti film
trasmettono con un linguaggio metaforico. Ognuno di noi può scrivere la storia della sua
vita: questo è, in sostanza, il vero messaggio dell’America.
Shimon Peres È giusto che tanta parte dell’educazione dei bambini sia demandata al
cinema invece che ai libri?
Sydney Pollack No, certamente. Essere formato da una coscienza di gruppo – da un film
che punta a un comune denominatore – invece che dalla propria coscienza è esperienza
affatto diversa. La lettura di un romanzo, per esempio, è un viaggio nella conoscenza del
tutto personale, e in cui ognuno ha un ruolo attivo. A prescindere da ciò che è scritto sulla
pagina, infatti, è la nostra mente a creare le tre dimensioni. Leggendo la frase "lui era
molto bello", siamo noi a mettere insieme gli elementi che concorrono al concetto di bello.
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Ma quando è il produttore del film a scegliere l’attore, lo spettatore è privato di qualsiasi
possibilità di opzione. Di tutto ciò che fa parte dell’arte della scrittura – le parole, la
sintassi, il ritmo, lo schema narrativo, la punteggiatura – nel film non c’è più traccia,
poiché finisce con l’essere il parto dell’immaginazione di chi lo realizza, che nulla lascia
alla capacità immaginifica dello spettatore. Chi legge un romanzo può entrare nella testa
di qualcuno e seguirne il pensiero. Cosa impossibile per chi guarda un film. Il nostro
commento, quando leggiamo un buon romanzo, è sempre lo stesso: "È troppo intimista
per poterlo adattare al cinema". In un’epoca in cui il pubblico si è abituato a film di azione
con un ritmo serrato, l’eccessivo intimismo è qualcosa che preoccupa non poco gli addetti
ai lavori. Chi realizza un film tratto da un romanzo, in realtà si limita a prenderne in
prestito la sovrastruttura, la trama, come se si trattasse delle strutture di acciaio destinate a
sostenere un edificio. E questo è tutto. La bellezza della parola scritta va perduta. Ecco
perché è molto più difficile realizzare un buon film da un buon romanzo, che non un buon
film da un romanzo men che mediocre.
Shimon Peres Vuol dire che l’industria cinematografica americana è destinata a trarre film
solo da romanzi brutti? E che questo cattivo gusto deve essere inflitto al resto del mondo?
La censura non è una risposta, come ha già detto lei. Può darsi che la soluzione stia
nell’incoraggiare la cultura locale, ma ciò non toglie che la gente continuerà ad affollare i
cinema che danno pellicole americane.
Sydney Pollack È una questione, questa, che in un certo qual modo va dritta al nocciolo
del problema relativo alle democrazie consumiste. Qual è la cultura di una società che
celebra l’uomo comune, ma non ne apprezza i gusti? In una democrazia, alla fine della
giornata, tutte le opinioni si equivalgono. Allora, mi chiedo se sia davvero possibile dire:
"In questa società non ti diremo mai cosa tu – eroe proletario o borghese – debba vedere o
cosa tu debba essere... ma rimane il fatto che sei proprio un cretino privo di gusto: lasciato
da solo, sceglierai sempre un romanzetto o un filmaccio".
Chi lavora nel cinema deve convivere con questo vincolo. Ed è lui, in certo qual modo, a
plasmare ciò che Hollywood produce. Come industria, la Mecca del cinema tende a
scegliere per i suoi progetti ciò che attira di più e offende meno: il film meno provocatorio
ed offensivo è la scelta vincente.
Esistono, naturalmente, le eccezioni. Ritengo, ad esempio, che la serie di film del "Padrino"
fossero grandi sul piano della realizzazione artistica, culturalmente attendibili, ma anche
molto popolari. Succede, talora, che consenso popolare e vera arte coincidano.
Shimon Peres C’è la possibilità di elevare i livelli?
Sydney Pollack Oggi è difficile. Intendiamoci, fare film rispettabili che abbiano una loro
validità non è proprio impossibile. Come ha detto a suo tempo Costa-Gavras, siccome gli
incidenti possono sempre capitare, nella Hollywood di oggi è possibile che venga fatto un
buon film.E non è un’affermazione esagerata.
È vero, però, che non è sufficiente decidere di fare un gran film invece che un film
qualunque. Dire "adesso realizzerò una grande opera d’arte" è una presunzione bella e
buona. Le cose, purtroppo, non funzionano così. Tutti quelli che lavorano nel cinema si
propongono di realizzare opere importanti. E, certo, può accadere che, nel tentativo
d’intrattenere se stesso e gli altri, si riesca a realizzare un’opera d’arte straordinaria. E
questo è vero per un romanziere, un pittore o un regista. E, nel frattempo, si può anche
affrontare l’impresa di migliorare i gusti del pubblico. Temo, però, che si tratti di una
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battaglia persa in partenza, considerato che le dimensioni del mercato dello spettacolo
crescono a livello globale e che ad essere privilegiati sono i gusti del pubblico più giovane.
Quello che oggi Hollywood ci propina – mi sfugge addirittura il termine giusto per
definire il fenomeno – è "un mondo adolescenziale". Nel senso che i valori che ispirano
l’industria dell’intrattenimento sono quelli di un adolescente: sex appeal e azione. E,
grazie a film come quelli di Mtv, tutti tornano indietro nel tempo. Ci sono sherpa che, pur
vivendo ancora nelle capanne, conoscono Tom Cruise quasi quanto il loro paese. La
diffusione della cultura popolare è un fenomeno che, da una parte, pompa l’economia
americana, e, dall’altra, minaccia molte culture e la nostra stessa maturità.
Shimon Peres Diceva lo studioso Allan Bloom che le generazioni che ci hanno preceduto
sapevano ciò che volevano, ma non come ottenerlo. La generazione attuale, viceversa, non
sa ciò che vuole ma sa come arrivarci. E mentre la musica classica ci educava all’estetica e
ai sentimenti, oggi l’idea che ognuno ha dell’arte è valida quanto quella di chiunque altro.
Gli assoluti non esistono più.
Sydney Pollack Bloom descrive esattamente quel tipo di relativismo che rende così
difficile stabilire degli standard. Arrivare a un consenso su criteri assoluti è diventato
impossibile perché è in qualche modo considerato antidemocratico: com’è possibile, allora,
mettersi d’accordo su che cosa è l’eccellenza? La mentalità del film di grande successo ha,
ormai, preso piede. E i film americani di un tempo, quelli che proponevano ideali solidi e
moderati, sono ormai un ricordo. Erano prodotti validi e assicuravano altresì un successo
economico, ma non erano film di grande successo. Penso a film come "Casablanca" che un
tempo Hollywood produceva a getto continuo. Ma la moderazione ha fatto il suo tempo,
in una società sempre più caratterizzata da ricchi e poveri, in cui la via di mezzo non esiste
più. La cultura cinematografica americana produce attualmente due filoni: quello dei film
indipendenti, con costi contenuti e tematiche particolari, e quello dei film "ambiziosi", sul
tipo di "Jurassic Park" e "Titanic", i cui effetti speciali contribuiscono a dilatare bilanci che
vanno dai sessanta ai cento milioni di dollari. E i cui incassi lordi sono talvolta superiori al
PIL di molti Paesi.
Con questo risultato: che oggi a Hollywood è più facile realizzare un film da cento milioni
di dollari che uno da venticinque. Gli studios, infatti, pensano di avere maggiori
possibilità di successo affidandosi ad una star famosa (che pretende cachet miliardari) e a
film a effetti speciali come "Deep Impact" o "Godzilla". Naturalmente, non mancano le
eccezioni. Una è "Ragione e Sentimento" tratto dal romanzo di Jane Austen e interpretato
da Emma Thompson e Hugh Grant. La mia società, la Mirage, che tra l’altro è molto
piccola, lo ha realizzato con una spesa di quindici milioni ricavandone circa centotrenta.
Ma sono episodi che si verificano raramente. La televisione ha sostituito i vecchi film
tradizionali. E, contrariamente a quanto generalmente si pensa, trasmette parecchi
programmi validi, in particolare la serie dei "film della settimana" via cavo. È la
televisione, quindi, a realizzare quei film che per l’industria del cinema sono diventati un
vero e proprio rischio.
Shimon Peres Mi risulta che il 60 per cento degli incassi dei film americani oggi provenga
dai mercati esteri. Qual è l’impatto di questo fenomeno sul genere di film attualmente in
produzione?
Sydney Pollack La crescente dipendenza dai mercati esteri non fa che alimentare la
tendenza a fare film che incontrano il successo popolare, poiché per realizzare un film in
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altre lingue e distribuirlo in Paesi di cultura diversa, è necessario puntare su star famose e
su effetti speciali che non hanno bisogno di essere tradotti. "Titanic" è, in proposito, un
esempio emblematico. La storia d’amore era semplice e gli effetti speciali a dir poco
sofisticati. La sua popolarità è stata tale che la versione in video è stata riprodotta
illegalmente dalla Cina alla Russia. Anche gli attori godono del medesimo prestigio
all’estero. Harrison Ford, per esempio, in Giappone è una star di prima grandezza. È
naturale, quindi, che per garantire il successo di un film all’estero si sia disposti a pagare
cifre da capogiro a star di questo calibro. Il marchio di fabbrica sono loro, come per la
Coca-Cola. In questo sistema – ha detto bene Costa-Gavras – le star sono non di rado più
importanti della trama. L’importanza sempre maggiore dei mercati esteri influenza anche
la scelta delle storie da cui ricavare un film. Attualmente stiamo lavorando ad un progetto
che è una satira dei miliardari americani del software, come Bill Gates e Paul Allen di
Microsoft. Il copione è molto realistico e divertente, ma – mi chiedo io – siamo sicuri che
farà presa su un pubblico estraneo a questa sottocultura tipicamente americana e tutt’altro
che dilettevole? È la domanda che ci poniamo invariabilmente prima di realizzare un film
e che ci pongono anche i finanziatori, i quali si chiedono sempre se valga o meno la pena
di tirar fuori i soldi. E le cose andranno sempre di più in questo modo, se si considera che
fino a qualche tempo fa gli Stati Uniti contribuivano agli incassi di un film con una quota
pari al 70 per cento a fronte del 30 per cento dei mercati esteri. Rapporto che, nel corso
degli ultimi anni, si è virtualmente ribaltato.
Shimon Peres Un ultimo punto. Il mondo si è americanizzato ma, nel frattempo, anche
l’America si è internazionalizzata. Un tempo, il governo era internazionalista e la
comunità economica isolazionista. Oggi, invece, è la comunità economica ad essere
internazionalista mentre il governo – o quanto meno il Congresso – è più isolazionista.
Non diversamente da Hollywood, l’America che lavora è diventata, in linea di massima,
globale. Di qui l’interrogativo: sarà il mondo ad uniformarsi all’America o sarà
quest’ultima a uniformarsi al mondo? Personalmente, ritengo che sia impossibile arginare
il fascino esercitato dall’America. È l’unico Paese che come sua raison d’être spalanca le
porte al futuro. "La repubblica del futuro" l’ha definita il Nobel Octavio Paz.
Sydney Pollack Concordo pienamente con l’idea che è l’America stessa ad alimentare il
fascino della sua cultura popolare. Ma, come ho già accennato in precedenza, la tragedia è
che a farne le spese sono le culture locali che subiscono una graduale emarginazione.
L’idea che, soprattutto in Europa, si ricorra a qualche forma di protezionismo volta a
garantire la sopravvivenza culturale non è quindi tanto peregrina. Le sembra plausibile
che gli italiani, tanto per fare un esempio, permettano che migliaia di anni della loro
eredità culturale vengano consegnati al museo mentre la loro cultura attuale si
americanizza? Il paradosso è che, a differenza di quanto accade nel settore degli scambi
commerciali, l’America non ha una tradizione da tutelare nell’eventualità di una guerra
degli scambi culturali. La nostra cultura paga lo scotto della mancanza di tradizione. E non
può essere minacciata da influenze esterne. Che, anzi, accogliamo senza opporci, poiché ci
arricchiscono. La nostra è una cultura che non si oppone al cambiamento: il cambiamento
è la nostra cultura.