Aldo Gastaldi l`indimenticato e l`indimenticabile Bisagno

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Aldo Gastaldi l`indimenticato e l`indimenticabile Bisagno
Il Tempietto
Aldo Gastaldi
l’indimenticato
e l’indimenticabile
Bisagno
I due pilastri di “Bisagno”:
Patria e cristianesimo.
Danilo Veneruso
L
a casa nella quale Aldo Gastaldi
trascorre la sua infanzia e la sua
breve giovinezza1 si trova a
pochi passi dal santuario – parrocchia
di Nostra Signora di Loreto in Oregina,
tempio caro ai genovesi non soltanto
perché vi si adora Dio e si pregano la
Madonna e i santi, ma anche perché
costituisce la memoria in pietra di due
momenti decisivi di identità religiosa e
storica della città. Si tratta da un lato
della rivolta del 1746 contro gli
austriaci, considerati non più come
garanti e protettori della religione, ma
come usurpatori e invasori e, dall’altro,
del grande pellegrinaggio compiuto da
oltre trentamila genovesi il 10
dicembre 1847 in occasione del primo
centenario della rivolta non soltanto
per memoria di grazia lontana ricevuta
ma anche e soprattutto per inaugurare
l’età del Risorgimento italiano già in
atto nella regione ligure. Nel
capoluogo ligure, a partire
dall’elezione di Pio IX al trono
pontificio, stava infatti evidenziandosi,
con moto progressivamente accelerato,
l’emergere di un processo
rivoluzionario così fortemente radicato
da trasformarsi da patrimonio liberale,
vale a dire di un’élite, a patrimonio di
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popolo, ovvero in democrazia
nazionale. In essa, anche dopo i
tumulti antigesuitici, la crisi del
neoguelfismo, la secolarizzazione
deistica della posizione religiosa del
Mazzini, l’adesione della stessa
monarchia sabauda alla rivoluzione
nazionale, non si era spezzato il filo di
collegamento con il patrimonio
teologico e spirituale del cristianesimo,
tanto da alimentare ancora, alla fine
dell’Ottocento, le prese di posizione
dell’arcivescovo Tommaso Reggio e del
barnabita padre Giovanni Semeria2 e
da influenzare attivamente la società
genovese e, più in generale, ligure
anche lungo il Novecento inoltrato3,
come mostrano le prese di posizione di
posizione di personalità come Antonio
Boggiano Pico4, Paolo Cappa5, Filippo
Guerrieri6, Franco Costa7.
Come i due moti che abbiamo citato, il
movimento nazionale non si ferma alla
patria italiana. Il messaggio che esce
da Genova in occasione del Congresso
eucaristico nazionale del 1923 è un
messaggio di pace che ammonisce il
governo Mussolini da poco entrato in
carica che i diritti e i doveri si
promuovono non con le guerre, bensì
con la fratellanza e la solidarietà di
tutti i popoli. A Genova e, in generale,
in Liguria, già si profilano precise
diffidenze nei confronti di Mussolini,
tanto è vero che nelle elezioni generali
dell’anno seguente i partiti antifascisti
o non fascisti, benché sconfitti in
ambito nazionale, riportano in regione
una lusinghiera affermazione che
condanna i metodi che continuano ad
essere terroristici della fazione al
governo.8
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Il Tempietto
La diffidenza già manifestata dal popolo
genovese verso i primi, anche se non
ancora ben definiti tratti di quello che
sarà poi il regime fascista, sarà
convalidata da vent’anni di dittatura e di
totalitarismo, sempre di più
caratterizzati nel modo peggiore, vale a
dire dal dilettantismo, dal
pressapochismo, dalla presunzione, in
una parola dall’irresponsabilità. Al di là
delle piccole glorie che ammanisce di
tanto in tanto il regime alla ricerca di
guerre contro i piccoli popoli indifesi
come i greci o gli etiopi, si accresce
sempre di più nella società genovese
l’inquietudine nei confronti del tasso di
irresponsabilità di Mussolini: essa
raggiunge il suo culmine quando
aggioga il debole carro della nazione
italiana a quello certo militarmente,
organizzativamente, tecnicamente
poderoso ma nello stesso tempo isolato
in termini globali, della nazione
germanica tesa, con Hitler, a fare del
resto del mondo, ivi ben compresa
l’Italia, un’immensa colonia.
A questa evoluzione, che poi non è altro
che un’involuzione, o per meglio dire,
una corsa verso l’abisso, diventa
progressivamente sempre più estraneo
al messaggio che viene dal capo di una
patria tradita Aldo Gastaldi. Nato nel
rione genovese di Granarolo il 17
settembre 1921 da Paolo e Maria
Lunetti che lo educano ai valori della
religione cristiana e di una società civile
seriamente impostata, mostra già da
ragazzo di essere singolarmente
provveduto di doti intellettuali, morali,
fisiche. Non ha che tredici anni quando,
in un episodio che rivelerà solo più
molto più tardi ai suoi genitori, Aldo,
dopo aver compreso che nella vita non
può sempre credere alle promesse
altrui, compie in solitudine, con
sicurezza ed autonomia sorprendente
per la sua età una lunga gita notturna
tra le montagne genovesi con epicentro
il monte Antola che vede per la prima
volta. Non smarrimento o senso di
sopravvalutazione delle proprie forze
trae da quell’episodio che altri
giudicherebbero una vera e propria
avventura, bensì la prima, precisa
rivelazione di una fisionomia propria,
autonoma, responsabile, già in qualche
modo virile. Nella sua confessione per
così dire a scoppio ritardato, che unisce
il presente di giovane ventenne al
passato di ragazzo, rivela a coloro che
gli hanno dato la vita che, tutte le volte
che si trova “nella solitudine dei monti,
pensa alla vita”. È per questo che “alla
città preferisce la montagna, al cinema e
al teatro preferisce lo spettacolo
dell’alba e del tramonto”: il suo “amore
verso la montagna è tanto grande” che
forse i suoi stessi genitori stenterebbero
comprendere. Nella memoria di questa
incancellabile esperienza capace di
segnare profondamente la sua vita, egli
capisce che questa “felicità” ha un
prezzo: la diversità con gli altri ragazzi:
“trovai di essere diverso dagli altri
giovani della mia età, constatai di
non avere mai trovato uno che
avesse le mie stesse idee: quasi tutti
amano città, cinema, teatri e
chiassose compagnie”9.
La verità della vita di Aldo Gastaldi
corrisponde alla introspezione di un
tale esame di coscienza. Tutti coloro
Il Tempietto
che hanno avuto a che fare sono
concordi nel sottolineare la singolarità
delle sue doti. Lio Rubini il suo
insegnante di materie letterarie
all’Istituto professionale “Galileo
Galilei” sottolinea con ammirazione la
sua capacità di restare casto nel
mondo fondata nel conservare intatta
la “potenza di credere”10. Aurelio
Ferrando, lo “Scrivia” della guerra
partigiana, forse colui che al di fuori
della propria famiglia ha avuto più
familiarità con Aldo come compagno
d’armi nella guerra e nelle Resistenza,
afferma che lo aveva colpito
l’apprendere che si alzava molto presto
al mattino per raggiungere la scuola
con una lunga camminata nelle alture
di Genova” e commenta che “forse già
in quelle fresche solitarie ore stava
cominciando le sue prime profonde
motivazioni”11. Destinato al servizio
militare di Casale Monferrato in un
reggimento del Genio il 2 febbraio
1941, rivela “un tale accumulo di
energie” che “avrebbe avuto due
aspetti complementari e quasi di
routine, ed una eccezionalità
stupefacente, ma sempre come
occultata, diminuita, fatta passare per
normalità, il che lo rendeva ancora più
affascinante, di quel fascino
irresistibile, quasi leggendario”.12
Il servizio militare
come scuola di vita
Eppure come una personalità come la
sua che sembra destinata a diventare
solitaria e poco adatta alla
comunicazione, riesce poi a rivelare e
a dare il meglio di se stesso quando ha
a che fare con gli altri per un motivo
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molto semplice: è talmento ricco
dentro da traboccare al di fuori, per gli
altri. Se fosse rimasto solo con se
stesso avrebbe probabilmente dato
l’impressione di un eterno primo della
classe. Se non fosse stato per la sua
ricchezza interiore, i numeri per
questa impressione ci sarebbero tutti.
Quando da Casale si trasferisce a
Pavia per frequentare la Scuola Allievi
Ufficiali, riesce terzo in graduatoria su
settecento candidati; quando si deve
spiegare con chiarezza mentale ed
efficacia pratica qualche cosa che
potrebbe essere difficile come la
radiotelegrafia, si ricorre a lui: si
arriva al punto, veramente eccezionale
in quel tempo e non soltanto formale
ma anche sostanziale, che non di rado
gli stessi ufficiali si confidino con lui.
Quando ha a che fare con gli altri
rivela anche di non essere e di non
voler essere un carrierista. Il giudizio
sulla sua cristallina onestà sono
unanimi, ed altrettanto quelli sul suo
senso della giustizia. I suoi soldati
notano che, quando lui è ufficiale di
picchetto il rancio è migliore e
abbondante, le razioni non fanno
privilegi, e il caffè del mattino è meno
amaro.13 Egli è tanto severo nel
pretendere l’obbedienza e il buon
servizio quanto umano e compensivo
verso i soldati. Ogni volta che una
tradotta parte dalla stazione di
Chiavari egli, unico degli ufficiali, è
sempre presente: quando torna da
questa incombenza è sempre taciturno,
quasi sia turbato da pensieri che lo
straziano14. La guerra non va bene, ed
egli comincia a capirne il motivo: il
regime, al di fuori della storia,
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Il Tempietto
annaspa e sprofonda. In quelle
condizioni inseguire sogni di vittoria è
impossibile perché non soltanto quel
tipo di guerra, ma anche tutto quanto
la circonda è insensato. La mancanza
di serietà che inevitabilmente ne
deriva significa per lui mancanza di
umanità che comporta in primo luogo
mancanza di doveri verso il prossimo,
vale a dire mancanza di amore. Allora
concezione cristiana e concezione
civile del mondo si danno la mano:
non ci può essere l’una senza che ci
sia l’altra.
L’armistizio e la scelta
immediata della Resistenza.
Quando l’armistizio dell’8 settembre
1943 rivela le contraddizione in cui è
caduto il fascismo, il sottotenente del
genio di stanza a Chiavari non ha
esitazione: alla sua coscienza sarebbe
imperdonabile colpa lasciare che le
cose vadano per il meno peggio: come
ha sempre ha fatto quando si è assunto
le sue responsabilità verso Dio, se
stesso, verso gli altri, verso la natura,
anche ora egli non esita, a ragion
veduta, di assumere le sue
responsabilità. Di tutto il reggimento,
Gastaldi è il solo a vestire la divisa
militare e, con il suo plotone, a non
consegnare le armi ai tedeschi. Quattro
giorni dopo, il 12 settembre, sempre in
divisa, tenta di scavalcare il muro
della caserma per recuperare una
radio trasmittente15. Va a cercare, ed è
da esse ricercato, altre persone
desiderose di riparare a tanto smacco,
le trova anche in suoi compagni di
idee religiose, politiche e sociali, ma
soprattutto di altre idee, in genere di
sinistra, che concordano nella lotta per
riscattare tanti errori e crimini e per
un costruire un avvenire diverso. Così,
ai primi di ottobre 1943, incontra a
Lavagna, nell’abitazione di un exufficiale dell’esercito, Giovanni
Serbandini, di tendenza comunista,
Franco Antolini e Umberto Lazagna,
liberali che tendono ad un azioniamo
spostato a sinistra. Aldo, che aveva già
rivelato nel servizio militare di
Chiavari le sue doti di capo, mostra
ora anche doti di organizzatore. Nel
corso della riunione, viene
preliminarmente decisa l’adesione che
direttive del Comitato di Liberazione
costituito a Roma il 9 settembre 1943
al momento dello scioglimento del
Comitato dei partiti antifascista. Esse
prevede dal lato politico la lotta
armata contro il tedesco invasore e
contro i complici che esso possa
trovare in Italia e, dal lato militare, la
lotta clandestina per bande, che ha
come base territoriale la macchia,
l’area montagnosa che in Liguria è a
ridosso delle città. Particolarmente
importante riveste per Gastaldi l’avallo
della condotta della guerra secondo il
progetto della liberazione nazionale
che, per evitare la prevaricazione di
questa o quella formazione politica,
contempla l’unanimità delle
deliberazioni tanto politiche quanto
militari: è proprio su questo punto che
ruotano la sua concezione del
partigianato, e di conseguenza, i
contrasti futuri con coloro che dalla
linea della liberazione nazionale
intendono scostarsi.
Nella riunione viene decisa come base
per il primo nucleo di ribelli il
Il Tempietto
villaggio di Cichero alle falde del
monte Ramaceto. Nell’occasione è
soprattutto lui ad essere informato, ad
informare ed a prendere l’iniziativa.
Nella prima quindicina di novembre,
avviene la partenza: è lui che capeggia
una delle due colonne, quella piò
occidentale, che partono per Cichero16.
Aldo, ormai conosciuto con il nome di
battaglia di Bisagno, è anche il capo
naturale di quel pugno di uomini che
sono saliti in montagna; prima di
attaccare battaglie, intende però
educare, istruire ancora prima che
organizzare uomini. Egli non è un
pragmatista: uomo di cultura
poliedrica, ha bene in mente il
binomio mazziniano di pensiero e di
azione che cristianamente lo integra
con quello di spiritualità ed azione.
Perciò l’organizzazione per lui è
sinonimo di educazione integrale
dell’uomo in rapporto con la società.
Perciò da lui, prima che ordini o
bollettini di guerra, proviene il “codice
di Cichero che, ben più di un testo
giuridico, è un testo morale per fare di
coloro che dovranno combattere degli
uomini che hanno a che fare con altri
uomini. Alcuni non condividono del
tutto il suo procedimento, che
ritengono moralismo non adatto alla
durezza spietato di una lotta senza
esclusioni di colpi, ma Bisagno sa che
protagonista della storia non è la morte
bensì la vita, pertanto vuole che gli
uomini muoiano il meno possibile
affinché i più vivano per convertire
alla vita gli altri uomini. Contro i
nemici bisogna certamente combattere
per il meglio ma sempre con la
prospettiva che essi possano
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convertirsi e vivere. Pertanto l’arma
che può uccidere è in lui associata alla
parola che convince.17
Dalla preparazione
all’iniziativa dopo la strage
alla “Benedicta”.
Segnano una cesura nella storia della
Resistenza in Liguria i gravi fatti della
“Benedicta” avvenuti nella settimana
di Pasqua 1944 (3 – 7 aprile) quando
146 giovani, sorpresi nei dintorni di un
antico monastero in rovine tra Genova
ed Alessandria, sono fucilati ed altre
centinaia deportati in Germania senza
ritorno (salvo un pugno di
sopravvissuti). C’è da notare che le
vittime non sono neppure partigiani
attivi, bensì refrattari ai bandi di
reclutamento di Graziani, i quali
cercano di far passare il tempo in
attesa dell’arrivo degli alleati che non
possono tardare. È dall’aprile, infatti,
anche in concomitanza della notizia
dello sfondamento del fronte di
Cassino in Italia meridionale (11
aprile), le forze della Resistenza si
accrescono in modo esponenziale. Il
piccolo gruppo di Cichero, formato nel
novembre 1943 alla buona, ma anche
con grande spirito di fraternità da
uomini di ogni tendenza ma uniti nella
volontà di cacciare il tedesco invasore
e il suo complice fascista, oltre a
Bisagno, riuniva i comunisti Giovanni
Serbandini (Bini), Giovanni Battista
Canepa (Marzo), Severino Bianchini
(Dente), i liberali di sinistra,
simpatizzanti dei comunisti Umberto
Lazagna (Canevari) e Franco Antolini
(Furlini), poi Giovanni Bianchi
(Cilletto), Emilio Roncagliolo (Lesta)
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Il Tempietto
Cesare Passano (Formaggetta), Renato
Dersaglio, Giovanni Vignale, Augusto
Sanguineti e tre siciliani sbandati,
conosciuti come Severino, Michele e
Razza18. Nel maggio 1944 il gruppo
iniziale si è talmente ingrossato da
imporre la costituzione di tre
distaccamenti, Cichero, del quale
assume il comando lo stesso Bisagno,
Pannesi, comandato dall’ormai
inseparabile Scrivia, e Antola. Nel
luglio le forze partigiane della
provincia di Genova sono talmente
aumentate da indurre il Comando
generale di stanza a Milano di
trasformare la banda in Divisione che
conserva il nome di Cichero e si
ripartisce in quattro brigate (Arzani,
Berto, Oreste e Jori), e due
“distaccamenti volanti”, Severino e
Balilla. A sua volta ogni brigata viene
divisa in dodici distaccamenti, ognuno
dei quali comprende venticinquetrenta uomini.19
Nello stesso tempo l’intero territorio
della provincia di Genova si organizza
secondo il criterio della
centralizzazione del comando, che
assume la denominazione di VI Zona:
il comando, per designazione del
Comando Militare di Milano, viene
assunto dall’jugoslavo Uckmar (Mirko),
comunista, “rivoluzionario di
professione”, reduce dalla guerra
civile spagnola. La Resistenza, passata
dalla fase passiva a quella attiva, a
partire dal maggio 1944 organizza
sabotaggi e colpi di mano. In queste
operazioni Bisagno passa alla leggenda
per la sua spericolatezza, come nel
caso dell’attacco avvenuto del giugno
alla caserma fascista di Ferriere di
Lumarzo, ma ancora di più sarebbe da
lodare per la scelta e la condotta degli
uomini, per la perizia organizzativa e
tecnica nel far saltare tralicci. La
pressione degli uomini di Bisagno è
tale che nel luglio 1944 vengono
occupate la media ed alta Valle Scrivia
e, con la collaborazione dei gruppi
partigiani parmensi, la Val d’Aveto. Si
tratta di un autentico dilagare che
minaccia di tagliar fuori Genova dal
suo retroterra20. I nazifascisti prendono
allora le misure con frequenti e
massicci rastrellamenti che si
susseguono senza respiro dall’agosto
1944 al febbraio 1945. In queste
circostanze Bisagno rivela autentiche
doti di capo che spaziano dal campo
militare a quello politico, da quello
psicologico a quello organizzativo. Tra
le sue caratteristiche di comandante
militare c’è quella di apparire nelle
zone in pericolo di accerchiamento per
rincuorare e dare istruzioni: fatto è
che, in questo continuo assedio le
perdite dei suoi partigiani sono
minime.21
Guerra partigiana come
guerra di liberazione nazionale
Se con le armi Bisagno può ancora
rinsaldare la sua leggenda, nella fase
del rastrellamento svela notevoli doti
politiche. Con la clemenza e con la
persuasione egli può ottenere il 4
novembre 1944 l’inglobamento del
reggimento “Vestone” della Monterosa
prima risparmiando una strage all’intera
divisione alpina in transito e poi
suggellando in nome della patria
comune il patto di inglobamento. La
data non è scelta a caso. Il 4 novembre
Il Tempietto
è l’anniversario della vittoria italiana
nella prima guerra mondiale: come
allora gli italiani si erano riconosciuti
senza distinzioni di partito, così ora essi
possono ancora riconoscersi in una
guerra nazionale per la cacciata del
“tedesco”, lo stesso nemico di allora,
nonché degli inetti e dei disonesti che
dell’invasore hanno tenuto il bordone22.
Il messaggio di Bisagno è ormai chiaro:
si, e con tutta la forza e tutta
l’unanimità, alla guerra di liberazione
nazionale contro lo straniero, no a
quella che già sta definendosi
apertamente come una guerra più
ampia per mutare radicalmente non
soltanto la struttura, ma anche la
cultura della società. Per legittimare
culturalmente e storicamente la guerra
di liberazione nazionale, il messaggio di
Bisagno si riferisce da una parte alla
tradizione dell’interventismo
democratico della prima guerra
mondiale, veicolato nella sua mente
dall’esempio del padre che ne era stato
un esponente, e, dall’altra, alla lettera
del patto di costituzione del Comitato di
Liberazione Nazionale al momento della
sua formazione (9 settembre 1943).
La sua presa di posizione, ancorché
implicita, è chiara: è un ammonimento
rivolto alle forze della Resistenza,
soprattutto ai comunisti che ne sono i
maggiori esponenti, di non oltrepassare
i limiti ideologici segnati dal patto di
costituzione del Comitato di
Liberazione Nazionale. Con
l’“operazione Monterosa” vengono così
allo scoperto vecchi nodi mai sciolti,
culminanti nell’affidamento verticistico
del comando della VI zona a chi, come
Mirko, non solo era stato fuori dal
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lavoro di preparazione della vita
partigiana di quella zona ma, una volta
subentrato nel comando, aveva
adottato principi e criteri che, a
giudizio di Bisagno, avrebbero portato
a quella guerra civile tra italiani che
rifiutava e che, in ogni caso, non erano
nei patti. Dopo lunghi ed animati
colloqui con le altre forze della
Resistenza, in modo particolare con i
comunisti, il 30 dicembre 1944 invia
ai comandanti di brigata e di
distaccamenti della Divisione Cichero
una circolare dai toni decisi e quasi
perentori, impostata sull’avversione di
tutte le tendenze che vadano oltre i
limiti della liberazione nazionale23. Le
tendenze che vanno oltre i limiti
concordati nella riunione istitutiva del
Comutato di Liberazione Nazionale del
9 settembre 1943 sono facilmente
riconoscibili: si tratta dei partiti,
talmente invadenti da voler
contrapporsi alla patria. Certo, Bisagno
è consapevole che con la seconda
guerra mondiale e con la sconfitta del
fascismo la storia è passata all’area
della democrazia dall’area di quel
liberalismo che aveva avuto quale sua
funzione istituzionale la patria, di cui i
partiti erano considerati quali elementi
sussidiari e subalterni.
Si capisce come il documento di
Bisagno sia rivolto in modo particolare
ai comunisti sia per il loro
radicamento sociale che si riflette
nella Resistenza, sia per la loro
ideologia internazionalistica che
produce istintiva ripugnanza ad agitare
in modo quasi esclusivo il motivo
patriottico. Tuttavia si comprendono
anche i motivi per cui la sua presa di
70
Il Tempietto
posizione rimanga isolata: una
motivazione esclusivamente
liberalnazionale è infatti ritenuta
insufficiente non solo dagli azionisti
del gruppo partigiano di “Giustizia e
Libertà”, molti dei quali conoscono il
progetto di federazione europea
presentato fin dal 1941 con il
Manifesto di Ventotene da Altiero
Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto
Rossi, ma anche da molti cattolici
reduci dall’esperienza del partito
popolare o comunque vicini
all’Internazionale bianca di Luigi
Sturzo, non escluso lo stesso Ferrando
il quale tende sempre a stemperare la
tensione al calor bianco che sta
portando sempre più lontano Bisagno
dal Comando della VI Zona, in cui i
comunisti, a cominciare dal suo
comandante Uckmar (Mirko), e gli
azionisti sono ormai in netta
prevalenza. Nel momento in cui sta
formandosi un sistema democratico
che supera il liberalismo prefascista,
la sua posizione non collima neppure
quella democratico-cristiana, che pure,
per il suo sentire religioso, dovrebbe
essergli la più vicina.
La sua condizione di isolamento dal
punto di vista politico è del resto
comprovata dal fatto che, nella lettera
del 30 dicembre, Bisagno esprima le
sue prese di posizione a titolo
personale. Comunque Mirko, per non
compromettere l’unità della Resistenza
nel punto sensibilissimo di un capo
come Bisagno dotato del fascino e di
grande seguito, controfirma di mala
voglia, ma il problema sollevato in
termini storicamente così radicali non
può placarsi così facilmente.
Ad alleggerire l’isolamento politico che
incombe sempre di più dal fondatore e
capo della Cichero non giova certo
l’incidente alla gamba che, mettendolo
fuori dal gioco per più di un mese,
consente che si prendano
provvedimenti contro di lui. Ai primi di
marzo egli riceve infatti due notizie che
lo riguardano in senso negativo: la
decisione dello smembramento della
divisione Cichero, dalla quale rampolla
la divisione Pinan Cichero e la sua
destituzione da vice comandante della
VI Zona. I provvedimenti presi
sembrano talmente gravi che, il 7
marzo, si decide un incontro di
chiarificazione a Fascia, presso cui si
reca anche il battaglione Vestone per
sostenerlo nel caso che la situazione
degeneri. In effetti gli alti ed esasperati
toni iniziali della discussione fanno
temere il peggio, ma poi Bisagno che, al
pari di Mirko è ben lungi dal voler
rompere l’unità della Resistenza,
accetta disciplinatamente e lealmente
quello che egli considera un fatto
compiuto ai suoi danni.24
Anche se è tanto consapevole di aver
subito una sconfitta da isolamento da
non farne mistero, le lettere rivolte ai
suoi amici testimoniano la sua volontà
di servire e di far servire con lealtà e
spirito di collaborazione la causa della
Resistenza. Così in tono molto
confidenziale, affettuoso e quasi
supplichevole invita Gech, un
comandante di distaccamento della sua
divisione, non solo a non distaccarsi
mai dagli insegnamenti appresi dal
“codice di Cichero” ma anche a fare
autocritica quando è necessario25. La
lettera senza data ma in quel torno di
Il Tempietto
tempo rivolge ai suoi uomini è ancora
più importante in quanto rappresenta la
svolta del passaggio dall’area del
liberalismo all’area della democrazia
fatta di partiti: pur rimanendo intatta la
pregiudiziale di non parlare d’altro
finché “lo straniero non sarà uscito dai
confini” e pur essendo forte il timore di
una possibile degenerazione non
considera più i partiti quali elementi
dell’antipolitica: anche per lui si apre la
strada della moderna democrazia
“occidentale”: “io mi impegnerò più
che mai al fine di rimediare
radicalmente ad ogni screzio – assicura
– Badate che, come è giusto impedire
l’inganno degli uomini nostri fatto da un
partito, è pur giusto che non si faccia
dell’antipartito: dobbiamo agire con la
massima giustizia e liberi da
prevenzioni”26. La sua insistenza sulla
guerra partigiana come guerra nazionale
si fonda soprattutto sul timore che la
guerra di liberazione nazionale si
trasformi in guerra civile a pro di quel
partito che non esita ad impiegare la
forza per raggiungere i propri fini.
Dei suoi uomini riuscì a fare
dei cristiani, dei partigiani
e degli italiani
In Bisagno resta però più che mai ferma
la convinzione che l’area della vita
politica, a meno che non voglia
commettere l’errore di volersi
autolegittimare, debba essere
legittimata da un fattore di integrazione
e di legittimazione dal quale assumere i
valori. Per lui, credente, tale fattore di
integrazione e di legittimazione è il
cristianesimo, che raggiunge il massimo
(l’infinito) della concretezza dell’amore
71
senza cadere nel contingente che
qualsiasi istituzione terrena, sia pure la
patria, può mai raggiungere. È allora
che la giovane vita di Bisagno giunge al
suo compimento. Nella memoria che ha
fatto di lui nella rievocazione tenuta qui
a Rovegno il 24 maggio 1998, il medico
Attilio Mistura Bisturi, l’amico ebreo
della famiglia Gastaldi, ha rivelato
episodi da lui stesso definiti “poco
noti”, sicuramente avvenuti nell’ultima
fase della sua vita. Ricorda Mistura:
“Verso il gennaio del ’45 lo
incontrai a Torriglia: avevamo
sempre tante cose da dirci:
progetti, speranze, delusioni. Ci
passò vicino un gruppo di bambini.
Bisagno si ammutolì, sul viso si
disegnò un sorriso, poi, chinando
il capo, a bassa voce, mi confidò:
“quante cose mi ricordano quei
bambini!”.
I bambini sono la vita che, come tale
richiede pace. Si deve lavorare per
restituire la pace che
irresponsabilmente è stata rotta da
coloro che vogliono potere, tanto
potere, per dominare con il terrore
sugli uomini per renderli schiavi.
Nei suoi ricordi Mistura va ancora
oltre:
“Nell’assistere alla ricomposizione
della salma di un nostro
compagno caduto, lo vidi indurirsi
nel volto, guardarsi intorno alla
ricerca di consensi e poi, rompendo
la tensione chiedere: “cosa
sapremo dire quando sarà finita ai
genitori di questi ragazzi? La
gente capirà che cosa è avvenuto
sui monti?”
72
Il Tempietto
Nulla della retorica guerresca che si
congratula per il privilegio della morte
in guerra appare in questo discorso: la
morte di un giovane è sempre la fine di
una vita che altro non chiedeva che di
vivere27.
Il significato più profondo di questo
grido di dolore viene chiarito da
un’altra manifestazione che non solo
ad esso direttamente e compiutamente
si collega ma, per le circostanze in cui
essa avviene, acquista il significato di
testamento spirituale. Il 17 maggio
1945, alla vigilia della partenza per
Desenzano dove il 21 maggio troverà
la morte in un incidente stradale, in
una delle ultime lettere da lui scritte,
certamente l’ultima che è pervenuta
fino a noi, Bisagno si rivolge ai genitori
di Luciano Galfetti, giovane capo
distaccamento deceduto per
mitragliamento il 24 aprile 1945,
proprio alla fine della guerra. Il capo
in primo luogo si premura di riferire
che “il giovane “è morto serenamente
come è vissuto, munito dei conforti
religiosi”. Riprendendo il discorso che
ha colpito il dottor Mistura, Bisagno
ancora una volta tiene a dire che “la
sua morte ha colpito profondamente
me e tutti i partigiani della nostra
formazione e sicuramente Luciano non
sarà da noi dimenticato mai”. Ricorda
che, da comandante di un
distaccamento partigiano, “aveva fatto
dei suoi uomini dei modelli di vita per
onestà, coraggio e sincerità. Col suo
comportamento era stato così di
esempio ai suoi uomini che era
riuscito ad infondere in essi il timore
di Dio ed a farne dei cristiani, dei
partigiani e degli italiani, che le
popolazioni di questi luoghi stimavano
profondamente”28.
Nel momento che precede di poco la
morte il cerchio terreno del giovane
eroe si chiude. Aldo Gastaldi, che già
da ragazzo di era rivelato tanto diverso
dai suoi coetanei, non si sarebbe forse
trovato a suo agio nel quotidiano
spesso squallido della democrazia del
dopoguerra29. Riflettendo su tanti
contrasti e soprattutto sul significato
della sua esperienza politico-militare,
nell’ultima fase della sua vita ha
recepito chiaramente il rischio che
anche le formule politiche che
sembrano migliori possono diventare
gusci vuoti che si riempiono di sabbia
del mare se mancano del Pensiero che
fa nascere, dello Spirito che fa vivere
secondo la dimensione
dell’universalità e dell’Amore che dà
lo scopo, il significato, il senso, il
compimento di tutto quanto si fa e si
pensa. Sotto questo aspetto non si può
infatti trascurare il fatto che nella
storia contemporanea, che pure nella
sua universalità riesce a coprire tutte
le coordinate spazio-temporali, si è
impiantato, sul modello della
tradizione teologica e spirituale del
cristianesimo, il complesso
rivoluzionario delle tre moderne
rivoluzioni che si è mostrato
impeccabile come formula ma sterile
di risultati per aver scisso il pensare
dal fare e il corpo dallo spirito.
Il Tempietto
Note
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4
Cfr. D. VENERUSO, Il partigiano genovese
Aldo Gastaldi (“Bisagno”). Una lezione di
democrazia, in Studium, a. 93 (1997), pp.
753-766.
Cfr. D. VENERUSO, Monsignor Tommaso
Reggio arcivescovo di Genova nella svolta di
fine secolo: la speranza di un metodo
liberale che apra la via all’affermazione di
una democrazia alimentata dal
cristianesimo, in Tommaso Reggio e la
“questione sociale” a Genova e in Liguria
nella seconda metà dell’Ottocento. Atti del
convegno tenuto a Genova il 7 ottobre 2000
dalla Federazione Operaia Ligure di Genova
(FOCL), Genova, 2002, pp. 33-42.
A questo proposito, don Attilio Fontana,
parroco di Cichero nel tempo della
Resistenza nonché della divisione Cichero
una volta costituita, “confrontando
idealmente il primo risorgimento italiano con
il nostro movimento partigiano”, nota che “il
primo è costituito, in gran parte, da una
“élite” spiritualmente colta e preparata,
mentre il secondo è formato da elementi più
popolari, e animati da un impulso più
immediato e spontaneo che è alle base delle
loro azioni” (cfr. testimonianza scritta redatta
il 31 maggio 1964 da don Attilio Fontana
parroco di Cichero nel 1943 e che divenne
poi, con il nome di don Cichero, cappellano
della divisione garibaldina “Cichero” di
Bisagno).
Anche don Luca Celle, parroco di Brignole
di Rezzoaglio nel periodo della Resistenza,
nella sua relazione sull’attività a favore dei
partigiani da lui svolta, a tanti anni di
distanza paragona con emozione lo spirito
cospirativo di Otto (Ottorino Balduzzi) “alle
pagine di storia del glorioso Risorgimento –
Carboneria – Giovane Italia”.
Cfr. S. CAVAZZA, Antonio Boggiano Pico,
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Tortona, Società Tiopografica San Giuseppe,
1975; A. BOGGIANO PICO, Vent’anno di
vita politica 1945 – 1965. Lettere al figlio
Valdemaro, presentate da R. MANZINI,
prefaz. di D. VENERUSO, Roma, AVE,
1980; Ricordo di Antonio Boggiano Pico
(Savona 1873 Genova 1965). Atti del
convegno tenuto a Genova e a Santa
Margherita Ligure il 27 giugno 2006,
Genova, Algraphy, 2006.
Paolo Cappa nel centenario della nascita.
Convegno di studi tenuto a Finale Ligure il
15 ottobre 1988, a cura della Democrazia
Cristiana, Sezione Provinciale di Savona,
Dipartimento Cultura, Savona, Priamar,
1988; S. ORAZI, Paolo Cappa (1888 – 1956:
dal movimento cattolico genovese alla
Democrazia Cristiana, Fabriano, Centro Studi
don Riganelli, 1995; P. CAPPA, Il pontificato
di Benedetto XV: dal “non expedit” al
presidente De Gasperi. Conferenz tenuta a
Genova il 21 dicembre 1952 ed a Bologna il
23 febbraio 1953, con il saggio introduttivo
di S. FONTANA, Nel nome di Benedetto.
Savona, Sabbatelli, 2006.
Cfr. D. VENERUSO, Filippo Guerrieri, in
L’Operaio Ligure, a. 2006, n. 4, p. 8.
Cfr.C. TORTORA, Franco Costa (1904 –
1977): la gioia di credere, presentazione di
G.B. SCAGLIA, Roma, Sudium, 1983; I.
BOZZINI, Don Costa: una speranza amica,
testimonianza di amici, Roma, AVE, 1983;
F. COSTA, Insieme nella via della libertà, a
cura di I. DE CURTIS, presentazione di L.
ELIA, Roma, Studium, 1983; Don Franco
Costa per la storia di un sacerdote attivo
nel laicato cattolico: studi e testimonianze.
Colloquio storico, Roma, AVE, 1992.
Cfr. D. VENERUSO, Riflessioni sul
Convegno Eucaristico di Genova del 1923,
tra teologia, spiritualità, e vita civile, in Un
popolo che vuole la pace, lavora per la pace.
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Il Tempietto
Atti del convegno relativo al VII Congresso
Eucaristico Nazionale svoltosi a Genova nel
1923, Genova, Federazione Operaia Cattolica
Ligure, 2006, pp. 15 – 42.
Cfr. E. BONO, Per Aldo Gastaldi
“Bisagno”. Documenti, testimonianze,
lettere e altro materiale utile ad una
sistemazione storica del personaggio, a cura
del Comitato Regionale peer il
cinquantesimo anniversario della lotta di
liberazione nazionale, con la collaborazione
dell’Istituto Storico della Resistenza in
Liguria, Recco – Genova, Le Mani,
Microart’s Edizioni, 1995, pp. 19 – 21.
Ibidem, p. 23.
Ibidem, pp. 18 – 19.
Ibidem, p. 23.
Ibidem, p. 24.
Ibidem, pp. 24 – 25.
Ibidem, p. 26.
Ibidem, pp. 27 – 28.
Cfr. A. M. MANARATTI, Bisagno: la
scuola di Cichero, e la Terza Divisione
Garibaldina, im Civitas, 1973. nn. 3 – 4.
Cfr. E. BONO, op. cit., p. 28.
Ibidem, p. 32.
Ibidem, pp. 35 – 43 (Mese per mese con
Bisagno (febbraio 1944 – aprile 1945), p.
37 (mese di luglio 1944).
Ibidem, pp. 38 – 40 (Mese di agosto e di
ottobre 1944).
“Stamane, nell’anniversario dell’armistizio
che l’Italia ha imposto all’esercito
austroungarico e tedesco nella Grande
Guerra, il Battaglione Alpino “Vestone” è
passato al completo nelle file della Terza
Divisione Garibaldina “Cichero”. Gli
Alpini hanno così ritrovato la vera Italia.
quella Italia nostra e onesta che combatte
sui monti per la sua libertà”. (Ibidem, p.
52: cfr. anche U. V. CAVASSA,
Commemorazione di “Bisagno” tenuta il 12
aprile 1964 a Cichero inaugurando la
scuola ricreativa per la gioventù dedicata
alla medaglia d’oro Aldo Gastaldi, a cura
del Comune di Chiavari, p. 8).
23 “In una riunione alla quale ha preso parte
il Comando Zona, il Comando di Divisione
e tre comandanti di Bbrigata, si è discusso,
tra l’altro, la questione politica dei
distaccamenti. Si è stabilito quanto segue:
È dovere dei Commissari politici fare la
propaganda del Comitato di Liberazione
Nazionale, ma è assolutamente proibito che
i commissari facciano la propaganda di
partito. I componenti del distaccamento
potranno decidere con una votazione la
destituzione del commissario che non si
attiene a quanto sopra.
È permesso (in via di prova) la costituzione
di qualunque nucleo di partito nei
distaccamenti.
Gli apolitici sono liberi di non far parte del
nucleo di partito e nel caso che questo non
funzioni a dovere devono prospettarne e
votarne la cessione e annullarlo..
Io, Bisagno, tengo a far noto ai partigiani
che prima di entrare a far parte di un
partito bisogna essere fermamente convinti
del passo che si fa. È stupido, secondo me,
entrare a far parte di un partito senza
conoscere i programmi di tutti i partiti. Non
è possibile fare un confronto fra un partito
e l’altro per accettarne il migliore quando
se ne conosce uno solo. Da parte mia non
mi par giusto che uno prenda un
orientamento di partito anche se conosce i
programmi di tutti i partiti; solamente
vedendo come il partito applica i suoi
princìpi si potrà giudicare ed
eventualmente abbracciare. Secondo il mio
punto di vista occorrono almeno quattro
anni di osservazione prima di conoscere a
primordi un partito. È soprattutto
Il Tempietto
necessario cje i partigiano sappiano
ragionare con la loro testa e criticare
qualunque principio prima di accettarlo.
È soprattutto necessario che chi accetta un
partito ne sia pienamente convinto. È
assurdo dire di aver accettato un’idea così
per aver sentito dire senza esserne affatto
convinti. I comandanti e i commissari di
distaccamento devono denunciare
immediatamente qualunque dissidio che
nascesse nel Distaccamento per motivi
politici. La riunione di nucleo non deve
essere affatto segreta ma pubblica. Se il
nucleo di partito crea nel distaccamento
uno spirito di scissione è permesso di
denunciarlo e di annullarlo. È
assolutamente proibito fregiarsi di distintivi
di partito così come è proibito cantare ogni
inno di partito.
Il commissario è direttamente responsabile
dell’attuazione delle predette norme. La
nomina di qualunque comandante e
commissario viene fatta dietro proposta del
comando e conseguene approvazione del
distaccamento” (cfr. G. GIMELLI,
Cronache militari della Resistenza, II,
Genova, Cassa di Risparmio di Genova e
ìImperia, 1969, p. 475).
24 Per tutta la questione, si veda, oltre a G.
GIMELLI, op. cit,, pp. 477 e 671 - 679, E.
MASSAI (“Santo”), I Ribelli dell’Alpino,
Recco. Microart’s. 1966, pp. 151-155.
25 “Carissimo amico Gech, non potendo venire
a parlare direttamente con te voglio farti
pervenire la mia voce con questa lettera. Tu
sai Gech, quanto grande sia la mia amicizia
verso di te. Tu sai che voglio il tuo bene,
che è nostro bene, che è il bene della
nostra patria. Ci siamo accorti Gech che il
metodo fascista nelle nostre file non è
morto, ci siamo accorti che il fascismo
rivive sotto altri nomi, ci siamo impegnati
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di condurre a fondo la nostra lotta contro
tutto ciò che è falso, che è sgradevole,
disonesto, ingiusto. Tu Gech, insieme a
Dedo hai compreso che per combattere il
falso, lo sgradevole, il disonesto l’ingiusto è
necessario essere leali, onesti e giusti. Tu
sai Gech quale colpo sarebbe per me il
vederti togliere il comando del
distaccamento, tu comprendi Gech quanto
sia duro il sentirmi dire che tu hai
sbagliato. Ti prego, per la nostra amicizia
fraterna, per quella giustizia per la quale ci
siamo impegnati di combattere di rivedere i
tuoi atti, e di badare bene a non sbagliare.
Stai vicino, più vicino ai tuoi uomini che ti
adorano, non lasciare mai il distaccamento,
non cercare di guadagnarti la simpatia dei
tuoi uomini dando loro tutta la libertà: non
è questa virtù di comandante. Devi essere
energico con loro, ubbidito, amato e nello
stesso tempo temuto. Sappi Gech che c’è
gente che vuole la tua minima mancanza
per creare contro di te una larga critica.
Non facciamo Gech il gioco di coloro che
abbiamo conosciuti falsi e bugiardi e che ci
siamo impegnati di correggere col nostro
esempio. Ricorda Gech il nostro Berto, il
caro Beppe e pensa che ti direbbero se ti
vedessero ballare oppure peccare di
leggerezza tanto da poter essere criticato da
coloro che noi abbiamo criticato per il loro
falso modo di agire. Non dire Gech di non
avere mai sbagliato e, ti prego, pensa a
correggerti. Riunisci il tuodistaccamento,
digli che hai ricevuto una mia lettera, digli
che hai riconosciuto di aver commesso
degli errori, digli che d’ora in poi vuoi
essere più vicino a loro, vuoi essere
veramente il loro fratello maggiore, così
come loro ti considerano. Eppoi Gech segui
la stra diritta, anche se ti costa sacrificio,
non far sì che tu possa essere più attaccato
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Il Tempietto
da alcuno, fai questo Gech, fallo per Berto
e per Beppe. Eppoi Gech quando in
coscienza ti senti a posto parla al tuo amico
Kappa e vedi di scuoterlo un poco. Verrò da
te e ti parlerò, Gech, ma ti prego sii
cosciente di ogni tuo pensiero, di ogni tuo
atto, non tradire me e i tuoi migliori amici”
(dall’archivio Bisagno, ora in E. BONO, op.
cit., pp. 61 – 62).
26 Ibidem.
27 La documentazione al riguardo si trova
nell’archivio familiare Gastaldi.
28 Cfr. E. BONO, op. cit., pp. 63 – 64.
29 “Vedete voi Bisagno in un ufficio a riverire
cavalieri e commendatori? Riuscite a
vederlo, costretto dalla necessità a cercare
guadagno, a farsi furbo, a far vedere le sue
benemerenze e le sue medaglie?” – così
conclude la sua commemorazione U.
CAVASSA