Prefazione alla ristampa di Massimo Oldoni
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Prefazione alla ristampa di Massimo Oldoni
OVIDIO CAPITANI STUDI SU BERENGARIO DI TOURS Prefazione alla ristampa di MASSIMO OLDONI FONDAZIONE CENTR O ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOE VO SPOLETO 2013 Prefazione alla ristampa Nel maelström berengariano di Ovidio Capitani “ Un libro funziona solo se inquieta...” Antonio Tabucchi Esistono molti modi per capire e/o giustificare l’esistenza di un libro, ma dietro ogni libro c’è una ragione che suggerisce il percorso più giusto per capirlo e/o giustificarlo. E dietro ogni libro ci sono le ragioni del suo autore. Ma dietro questi ormai introvabili Studi su Berengario di Tours c’è anche una scheggia di memoria, appena una scheggia, che racconta la storia d’un mondo. Tralasciando la storia dello Studium Urbis, l’Università di Roma dal dopoguerra agli anni Ottanta del Novecento è stata solo “La Sapienza”. E in quell’Università degli anni Sessanta, soprattutto dei miei secondi anni Sessanta, erano davvero molti i grandi personaggi della cultura italiana che abitavano la Facoltà di Lettere e che sono stati autentici maestri in un irripetuto brusio di voci, d’insegnamenti e indicazioni tuttora essenziali. Presso la Facoltà di Lettere nell’anno 1965-66 il corso istituzionale di Storia Medievale era tenuto da Arsenio Frugoni e da Raffaello Morghen, che aveva Ovidio Capitani fra gli assistenti. E Morghen decise di attivare un corso comparato (o pareggiato, non ricordo…) di Storia Medievale affidandolo proprio alle cure di Capitani. Il tema di quelle lezioni fu Berengario di Tours (9981088) e la sua eresia. Tutto sta ancora qui, in quattro quaderni e due blocchi fitti di appunti. Erano i tempi di Medioevo cristiano di Morghen, lettura obbligata dal programma insieme ad un manuale, ad un’antologia di critica storica, all’Huizinga dell’Autunno del Medioevo, al Falco de La Santa Romana Repubblica, al Volpe di Medioevo italiano, al Lopez de La nascita dell’Europa. A quei volumi VI* MASSIMO OLDONI s’aggiungeva inevitabilmente questo piccolo e intensissimo libro Studi su Berengario di Tours, dove l’autore raccoglie, nel 1966, i saggi usciti tra 1956 e 1961 su “Studi Gregoriani” e sul “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo”. I ‘volontari’ che decisero non so perché di frequentare le lezioni di Capitani nel corso comparato si sottoposero, tre volte alla settimana, ad un orario ingrato: le lezioni cominciavano alle 8 precise e duravano fino alle 10. Se poi i volontari avessero dimostrato di conoscere il tedesco, l’inglese e il francese allora la cosa si sarebbe fatta più interessante… Furono in otto i coraggiosi, e coraggio davvero occorreva anche perché la tradizione diceva che gli esami con Capitani erano lunghi e difficili, resi impegnativi dalla mole del programma e, ma lo scoprimmo dopo!, dalla complessità del corso berengariano: al punto che la commissione prevedeva anche la presenza di un paleografo perché, affrontando i temi di Berengario, venne dedicato molto tempo ad interpretazioni paleografiche. Su tutte, la questione intorno ad un vestram/nostram in una lettera scritta fra 1049 e 1051 dal vescovo di Angers Eusebio Brunone e dal conte Goffredo II Martello d’Angiò e indirizzata a… E qui nasce il problema: a chi è indirizzata la lettera, all’arcivescovo di Tours Arnolfo o a Guido, arcivescovo di Reims? E quell’expertus est/experti sumus o expertus est/expertus es, letto nel modo giusto, facilita davvero un’ipotesi da opporre allo Erdmann? Un’indimenticabile full immersion nel Medioevo che sarebbe parsa ancor più convincente se si fosse discesi nel maelström dei minimi dettagli d’ogni contenzioso ecclesiologico, nel fervido tema della transustanziazione, così come viene affrontato nell’opera berengariana De sacra coena. A questo si affiancavano nelle lezioni, e si affiancano nel libro, profonde analisi ecclesiologiche e teologiche che Capitani dipanava e dipana con una impressionante ed inesauribile capacità esegetica di testi, situazioni e personaggi… Dalla lettura di questi Studi affiora intatto il coinvolgimento della società dell’XI secolo e si scompagina in tutta la sua veemenza un’età di mezzo fatta di contrapposizioni e rotture, diplomazie e tranelli dove viene attuato uno scambio continuo tra due conce- PREFAZIONE ALLA RISTAMPA VII* zioni del mondo: «Berengario ha trovato degli storici che erano dei teologi: e i teologi, talvolta, si configurano una dottrina, senza troppo badare al suo sviluppo storico, come se essa sia sempre stata identica. Questo è appunto il caso dell’Eucarestia e, di conseguenza, il caso di Berengario…». In questo crashing fra teologia e storia Capitani si muove a proprio agio e i suoi interlocutori preferiti sono Lanfranco di Bec e la Scuola di Chartres, nell’XI secolo, e Henri De Lubac, nel XX secolo. Capitani non fa alcuna concessione al fascino del Medioevo, è completamente coinvolto in un XI secolo denso come una foresta, brulicante di voci e contrasti come in un’immensa aula di Concilio o di congresso, un Medioevo febbrile e nemico come sono febbrili e nemiche le dispute che nell’età di mezzo caratterizzano gli scontri sulle accuse di eresia. Di quell’XI secolo egli ricostruisce le eredità carolingie lasciate da Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie, e grazie alla sua vivissima intelligenza delle cose, sempre acuta e incessante per ogni curiosità, non esita ad entrare all’interno di scontri ideologici frontali, d’inimicizie durature e convinzioni irrinunciabili. Perché di eresia si tratta, e proprio negli oltre quarant’anni fa di questo volume la tradizione italiana degli studi medievistici dava risultati determinanti anche grazie al contributo di quelli cui Gustavo Vinay, nel 1967, aveva dedicato il suo Pretesti della memoria per un maestro: “Questi tuoi giovani…” li aveva definiti Giorgio Falco rivolgendosi al suo alunno Vinay: e i giovani erano ormai cresciuti… Si chiamavano Ovidio Capitani, Giovanni Miccoli, Claudio Leonardi, ma molti altri partecipavano con grande sapienza al dibattito sulle eresie nel Medioevo, e tra loro Zelina Zafarana lasciò un segno non più cancellato. La frequenza del corso tenuto da Capitani sarebbe rimasta a lungo nella psicologia degli otto studenti ed avrebbe avuto conseguenze significative: non a caso alcuni di loro sono rimasti ad occuparsi di Medioevo per tutta la vita. Fu per questa ragione che più volte ho ricordato a Capitani che il mio incontro con il Medioevo era prima di tutto merito suo o colpa di quel formidabile VIII* MASSIMO OLDONI corso su Berengario di Tours. Così, in un certo senso, rimasi a Tours, e il Gregorio di Vinay m’indicò poi la strada. Quale il segreto del magistero di Capitani e di queste pagine così urgenti? Pagine urgenti perfino nella presenza degli Errata Corrige dove si sistemano alcune sviste nate forse dall’impazienza dello scrittore… Il magistero di Capitani sta nell’esperienza inquietante di una discesa in un maelström medievale del quale non si vede il fondo ma che nessuno ha paura di affrontare sotto la guida d’un indagatore imperdonabile per qualità. La qualità è data dalla dimostrazione di saper esercitare con assoluta padronanza l’uso di ogni metodo storico: interpretazioni dell’epistolografia, esegesi testuale di documenti e di testi, ricostruzione delle situazioni politiche, attenzione ai comportamenti dei singoli protagonisti, analisi funzionale delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche, rilievo delle contrapposizioni ideologiche nelle dispute e sensibilità agli aspetti più effimeri del carattere dei singoli attori. Qui si ribadisce la supremazia di un’esegesi equilibrata e prudente: «È necessario costringere l’interpretazione delle fonti ad una forzatura del testo, con il ricorso ad ipotesi suggerite da acutezza di ingegno, non da concreti spunti offerti dai documenti? Io non credo…». Questi Studi sono un thriller: c’è un solo cadavere, un corpo ‘mistico’ (la situazione d’una Ecclesia creduta erronea), moltissimi sono i sospettati, molti sono gli assassini, ma uno solo è il colpevole. Sulla scena dei fatti agiscono figure che cercano di ricomporre i quadri d’un devastante malessere (papi, teologi e trattatisti). Il movente di tutto dovrebbe essere la ricerca della verità e l’applicazione dell’ortodossia ma, si sa!, verità e ortodossie ciascuno le persegue a proprio modo e, come in questo caso, secondo i propri interessi. Infatti «l’esigenza della Chiesa di far tacere, in tutti i campi, gli oppositori, anche più isolati, come nel caso di Berengario» diventa l’assunto di un teorema storico da dimostrare. Dall’età carolingia di Pascasio Radberto, Ratramno di Corbie, Rabano Mauro e Gotescalco di Orbais fino a tutto l’XI secolo di Adelmanno di Liegi, Fulberto di Chartres, Gezone da Tortona, Oddone di Cluny, Ugo di Langres, Ugo di Die e Durando di Tro- PREFAZIONE ALLA RISTAMPA IX* arn si avvicendano protagonisti pronti a tutto e ‘altezze’ instabili ma ostinate (Umberto di Silva Candida, Leone IX, Alessandro II, Ildebrando di Soana poi Gregorio VII, Lanfranco di Bec) messe in dubbio da interventi ambigui di qualche maître-à-penser (Erigerio di Lobbes, Guitmondo di Aversa, Reginaldo di Liegi, Ugo di Nantes, Adelmanno di Brescia). Nella galleria degli anni, intanto, il lettore partecipa ad almeno tredici Concilî fondamentali sul tema: sei a Roma (1050, 1051, 1053, 1058, 1059, 1078/79), uno a Reims (1049), uno a Magonza (1049), uno a Vercelli (1050), uno a Parigi (1051), uno a Tours (1054), uno a Poitiers (1075), uno a Bordeaux (1080). Viene ripercorsa e analizzata la struttura di opere quali il Liber de corpore et sanguine Domini di Pascasio, il De corpore et sanguine Domini e il De Praedestinatione di Ratramno, l’Epistola ad Berengarium di Adelmanno, il Liber de corpore di Gezone, l’Adversus Simoniacos di Umberto da Silvacandida, il De corpore et sanguine Domini di Ugo di Langres, il Liber de Spe et Amore di Fulberto. Il tutto in una frenetica circolazione di epistole fra i personaggi che hanno parte nel dibattito europeo. Non si tratta, tuttavia, di valutare questo dibattito in relazione alla religiosità del centrale Medioevo, perché l’autore intende ricostruire dalle origini la scena del delitto, perfino ricorrendo agli storiografi dell’epoca (Elgaldo di Fleury, Arnolfo di Milano, Guglielmo di Malmesbury). Eppure a Capitani non basta rifare, attraverso tre secoli, il percorso che conduce al colpevole finale. Egli è anche attentissimo ad entrare nel gioco delle parti discutendo in modo febbrile con gli storici che fra XIX e XX secolo hanno studiato l’argomento: così i nomi di Erdmann, Sudendorf, Beekekamp, Halphen, Cappuyns, Clerval, Leclercq, Erdmann e, su tutti, De Lubac e Macdonald punteggiano un altro scenario, quello del laboratorio dove un’équipe diacronica e internazionale di ricercatori si confronta. Questo apre un secondo livello del libro, costituisce anzi un altro libro che si svolge tutto nelle discussioni in nota, secondo il costume tipico di Capitani di scegliere proprio le note per sviluppare temi di dissenso o di concordia. Molte verità e molte definitive con- X* MASSIMO OLDONI clusioni dell’autore sono esplicitate nelle note più che nel testo: per non interrompere la narrazione senza dover rinunciare all’analisi dei differenti punti di vista. Da questo atteggiamento si precisa il doppio livello del libro dedicato a qualcosa che, attraverso il tempo, nasce nel Medioevo ma si pone anche fuori del tempo: la presenza del corpo di Cristo nell’Eucarestia dove campeggia l’opera ‘eretica’ di Berengario, il De sacra coena. Il simbolo: se il corpo storico di Cristo è quello che si riceve attraverso il sacramento eucaristico questo vuol dire che la Grazia operante in quell’atto non è disgiunta dalla persona, anzi è proprio nella presenza della persona cristica che si attuano i modi di questa presenza: la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, cioè nella transustanziazione. Per Berengario, però, non avviene così: non c’è alcuna trasformazione, perché il pane e il vino restano soltanto simboli del corpo e del sangue di Cristo. Contro questa tesi si scaglia Lanfranco di Bec. Erigerio di Lobbes provò a tracciare un’uscita di sicurezza alla questione definendo tutto questo come un rapporto tra ‘sostanza’ e ‘accidente’, ma la tesi non trovò seguito, e poi il Liber de corpore Domini non si sa nemmeno se sia opera davvero sua, di Gerberto d’Aurillac o di nessuno dei due. La grande lezione di metodo offerta da Capitani sta nell’accettare ogni registro espresso dai protagonisti. Una vera vocalità dei testi. Nel frattempo le affermazioni eretiche di Berengario gli costano la condanna nei Concilî di Vercelli, Parigi e Poitiers. Qualche ritrattazione interviene nei Concilî di Tours, Roma (1058 e 1059), ma nelle successive assemblee conciliari di Roma (1078/79) e Bordeaux (1080) il filosofo allievo di Fulberto di Chartres sottoscrisse che «dopo la consacrazione il pane diventa il vero Corpo di Cristo, nato da Maria Vergine, e che, grazie al mistero della preghiera e delle parole del nostro Salvatore, il pane ed il vino vengono sull’altare convertiti in sostanza (in substantiam) nel Corpo e nel Sangue del Signore Gesù Cristo». Quando Berengario si ravvede ha ottantadue anni e forse nemmeno più le certezze d’un tempo. Forse nel nome di tale ravvedimento agisce il misurato giudizio di Guglielmo di Malmesbury (1080-1142) che nei Gesta PREFAZIONE ALLA RISTAMPA XI* Regum Anglorum (III 284) traccia di Berengario un profilo assolutamente imparziale: «L’eresiarca Berengario di Tours... negava che il pane e il vino, posti sull’altare, dopo la consacrazione del sacerdote, fossero vero e sostanziale corpo del Signore, come invece afferma la santa Chiesa. Ormai in tutta la Gallia c’erano luoghi che diffondevano questa sua dottrina, seminata da studenti poveri che egli sosteneva con un sussidio quotidiano… L’arcivescovo Lanfranco e, principalmente, Guitmondo, vescovo di Aversa in Apulia, controbatterono le posizioni di Berengario con i loro libri… Sebbene Berengario avesse in un primo tempo infangato l’irruenza della sua gioventù sostenendo queste posizioni eretiche, in età più matura diventò così saggio che da alcuni è senza esitazione considerato santo, riconosciuto tale per i suoi innumerevoli buoni atti, e massimamente per l’umiltà e le elemosine; fu padrone di grandi possedimenti ma li distribuì, senza essere servo di quelli nascondendoli e adorandoli… Non disprezzava il povero, non adulava il ricco, viveva secondo natura avendo vitto e vestiti come l’apostolo, e di questo restava contento.» Guglielmo capisce che le giovanili certezze sono vane e irruenti («l’irruenza della gioventù», calor iuventutis). S’inserisce qui un altro piccolo thriller: Capitani non cita il lungo ritratto di Guglielmo di Malmesbury. Perché? Eppure lui conosce i Gesta Regum Anglorum: se ne serve per ricordare l’episodio di Fulberto di Chartres che, morente, vede dietro Berengario un demone «ed ebbe così la sensazione di quanto male avrebbe recato alla Chiesa il suo discepolo, che egli fece allontanare dalla camera.» Ne discute con Clerval, Schnitzer,Vernet e Macdonald, ma sul ritratto nessun cenno se non questa frase: «Le vicende di Berengario sono esposte sulla base di testimonianze ben poco attendibili (Guglielmo di Malmesbury, Guitmondo di Aversa) con intenti scopertamente polemici verso gli scrittori protestanti che avrebbero fatto dell’arcidiacono di Angers [Berengario] un martire della sopraffazione papale.» Nelle «testimonianze ben poco attendibili» Capitani comprende anche il ritratto fornito da Guglielmo o soltanto la storia dell’episodio del demone presente al XII* MASSIMO OLDONI trapasso di Fulberto? Credo si riferisca ad entrambe le cose, e mi chiedo se la ragione non stia nel voler evitare che Berengario diventi davvero una vittima. Convinto della necessità di giocare tutte le partite ideologiche ed ecclesiologiche da pari a pari, l’autore degli Studi preferisce vedere all’opera Berengario in un confronto tra lui e Lanfranco di Bec, tra lui e Umberto da Silva Candida, tra lui e Gregorio VII. Senza creare vincitori e vinti, mettendo invece a confronto personaggi che esaltino il valore del simbolo, l’impegno ortodosso e le occorrenze politiche. Molti anni dopo, proprio a Spoleto, chiesi a Capitani quale fosse il motivo di quell’omissione e Ovidio mi rispose: “Hai ragione, ho voluto tralasciare quel ritratto… Perché Guglielmo era in mala fede, gli interessava soltanto salvare l’immagine dell’agnello ritrovato, di un uomo buono nonostante tutto…”. Forse era sincero, ma io ancora credo che in lui abbia agito una scelta di prudente valutazione storica verificata d’altronde su tutti gli scritti e gli aspetti della contesa. E capii allora che il calor iuventutis del giovane Ovidio Capitani era racchiuso in quel suo corso comparato, e davvero incomparabile!, come in questo libro: non insegue certezze, né emette condanne o assoluzioni, ma imposta domande, sempre duttile a delineare i singoli e dispari convincimenti di tutti i protagonisti di quel Medioevo che per lui è sempre stato un autentico reticolo d’incertezze, un’inesausta discussione sul senso della fede, sul ruolo delle dottrine misurato con il regolo del potere e con le attese di una età migliore. Non è un caso che Ovidio ritenesse Il sogno di una vita più bella il capitolo più convincente dell’Autunno del Medioevo di Huizinga. Studiando l’eresia berengariana Capitani studia la condizione umana così dubitosa e fragile, e mette se stesso in quel disagio eretico dato al valore del simbolo o all’importanza della substantia. Questo è il lascito metodologico del libro. Questi Studi sono la sua opera più bella e più inquieta. Era Berengario «deciso a sconvolgere la Chiesa»? Capitani non lo crede: «Che così non fosse ha poca importanza, in fondo, pur essendosi notato che in certi ambienti la dottrina berengariana fosse configurata come completa rivoluzione dell’insegnamento PREFAZIONE ALLA RISTAMPA XIII* della Chiesa, come dubbio sulla validità di tutto il suo magistero. E sulle ragioni profonde di questa reazione ci si dovrebbe forse fermare di più…». Si scopre così che il maelström di Capitani non riguarda solo Berengario, ma è più profondo, più inabissato verso ulteriori ragioni: è il primo tratto di un’autobiografia, e dietro ogni tratto si delinea un nuovo orlo di quel maelström. Massimo Oldoni