Qui comincia il declino del Poletti ministrino

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Qui comincia il declino del Poletti ministrino
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direttore
simone siliani
redazione
gianni biagi, sara chiarello, aldo
frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico
emiliano bacci
N° 1
Con la cultura
non si mangia
17
“Parliamo di un milione di contratti nuovi o convertiti, quindi credo che sarebbe
un grandissimo successo se si ottenesse questo obiettivo”
Qui comincia il declino
del Poletti ministrino
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non
saltare
di John
C
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Stammer e Aldo Frangioni
laudio Nardi, architetto fiorentino, diplomato
all’Istituto d’Arte di Porta
Romana, si laurea in architettura
a Firenze, dopo aver lavorato con
Puccio Duni (Compasso d’Oro
alla carriera 2014) all’International
design e aver collaborato per molti
anni con Carlo Scarpa. Questa la
seconda parte dell’intervista iniziata
nello scorso numero di Cultura
Commestibile.
Stammer Tu parli spesso della tua
formazione. C’è un continuo intreccio fra le tue opere e il tuo percorso di
crescita professionale. E’ fondamentale il tuo rapporto con il committente
e con il mondo esterno. Un racconto
della tua vita che si intreccia con
le tue opere. Non hai mai parlato
della tua formazione universitaria.
Come ha inciso l’università nella tua
formazione professionale?
Se dovessimo collocare in una scala
di valori da 0 a 10 la mia formazione universitaria confrontata con la
mia formazione sul campo, dove
in questa scala si misura la capacità
del contesto formativo di mettere
in movimento le competenze che
sono latenti in ognuno di noi, o
comunque in particolare le mie
competenze e le mie capacità, devo
dire che 10 è l’esperienza di lavoro
diretto, di confronto con i commitenti, con le persone che credevano
in me come Puccio Duni e come
altri e con gli artigiani. In particolare nel settore dell’interior design
il rapporto con gli artigiani è stato
fondamentale e mi ha permesso di
stabilire un rapporto fecondo che
ha spesso portato a che loro facessero un parte del progetto.
Vorrei sviluppare questo aspetto
perchè ha avuto delle conseguenze
con il mio modo di progettare. Il
mio rapporto con la produzione
artigianale degli oggetti dell’interior design mi ha portato a capire
la differenza fra fare bene le cose,
prendendo la strada maestra anche
se più lunga, e farle male. Mi
ha costretto a vedere gli oggetti
come sono fatti e non solo come
appaiono alla fine del processo di
lavorazione, a vedere cosa c’è sotto
il tavolo e non solo come appare
sopra. E ancora oggi quando mi
propongo di partecipare ad un concorso internazionale, dove talvolta
sei quasi costretto a forzare il progetto con il “gesto architettonico”
per poter magari essere competitivo, io sono sempre “frenato” (ma
Verso
la
riarchittettura
Foto di Savorelli
Foto di Adam Kozak
non è detto che sia un male anzi)
da questa mia necessità di vedere
come si potranno fare le cose che si
disegnano, come funziona l’oggetto
che stai progettando.
Stammer Una elegante polemica
sui “gesti architettonici” che poi in
cantiere si rilevano diversi da come
sono stati presentati e disegnati, e
costringono ad infinite e complesse
modifiche progettuali.
Io sono contrario ai gesti architettonici fini a se stessi. Anzi devo
dire che non riesco a pensare un
edificio senza sapere fino in fondo,
fino nei minimi dettagli, come fare
per costruirlo con quelle specifiche carateristiche con le quali l’ho
pensato.
Frangioni E’ questa forse una
sorta di “tradizione” della scuola
fiorentina. Giovanni Michelucci
aveva anch’egli un rapporto molto
significativo con la “costruzione”, con
il cantiere, con i materiali, con gli
artigiani che dovevano realizzare le
sue opere. La costruzione della chiesa
di San Giovanni Battista (la chiesa
dell’Autostrada) sta li a dimostrarlo.
Ma in questo contesto quanto ha
valso la formazione universitaria?
Nella scala da 0 a 10, a cui mi
riferivo prima, ampiamente al
di sotto della sufficienza. Anche
perché, come ho spiegato all’inizio,
la mia formazione universitaria è
coincisa con l’inizio della mia collaborazione con Puccio Duni, con la
produzione della Poltronova, con i
miei incontri con Scarpa, e capisci
che non c’era confronto fra quanto
fosse attraente il mondo esterno in
rapporto a quello universitario.
Frangioni Mi interessa anche capire
un altro aspetto riguardo alla tua
formazione. In quel periodo, alla fine
degli anni ‘70, si era affermato il movimento dell’architettura radicale che
poi ha prodotto, a sua insaputa direi,
una sorta di post-avanguardia che ha
teso ad esaltare il gesto architettonico.
Che rapporto hai, e hai avuto, con
questo mondo?
L’incrocio del mio percorso con
il movimento “radical” è stato un
incrocio di vita vissuta. All’inizio
della mia attività ho conosciuto
tutti i componenti del Superstudio
e per me erano naturalmente dei
“miti”. Mi ricordo, per esempio,
una piccola intervista che mi fece
Maria Luisa Frisa, dopo che avevo
fatto Luisa Via Roma, per l’house
organ di Luisa Via Roma che era
“West Staff”, dove mi chiedeva dei
miei maestri e io che parlavo di
Adolfo Natalini. Io in realtà non ho
un maestro riconosciuto, ma lui per
me era “una mente da seguire”, più
che un progettista di architetture.
Queste erano le sensazioni e le
emozioni, ecco emozioni è forse la
parola giusta, che producevano in
me queste avanguardie. Ma segni
leggibili nel mio modo di progettare direi che non ce ne sono.
Stammer C’è un “fil rouge” però che
lega i tuoi progetti. E’ quello che tu
chiami “riarchitettura”. Il progetto
modifica l’edificio facendolo diventare
un altro edificio, anche con pochi,
ma significativi interventi, come per
l’intervento di ristrutturazione delle
sede della BP Studio. L’architettura
deve introdurre elementi di novità
per costruire una nuova identità agli
edifici sui quali opera. E’ questo in
sostanza quello che cerchi di fare con
i tuoi progetti?
Effettivamente l’intervento del BP
Studio è stata l’occasione (anche se
non era il mio primo progetto perché nel passato avevo anche cercato
di seguire una strada per una architettura più “esibita” più disegnata,
strada che poi ho abbandonato)
per sperimentare questa idea della
riarchitettura. Per capire quanti incredibili, enormi risorse ci potevano
essere nell’elaborare un progetto
che avesse come obbiettivo quello
di “manipolare”, e conseguentemente trasformare, un edificio
esistente. E in quell’occasione ho
capito quale era la mia strada, una
strada che percorre uno dei terreni
più fertili che ci possano essere in
Italia, ma anche in Europa, forse
meno in altre parti del mondo.
Il mio impegno da allora è stato
quello di sperimentare, e di cercare
di maneggiare nel migliore dei
modi questo nuovo linguaggio,
questo approccio con il contesto
esistente che chiamo “riarchitettura”. E per farlo era necessario mettere insieme tutti gli strumenti per
lavorare su un organismo esistente.
Quindi non solo sulla “pelle”,
sulle facciate, ma anche su “pezzi
di organi” da sottrarre, sostituire,
ricostruire. L’obiettivo è costruire,
far nascere nuovi “individui”, nuovi
organismi che si portano dentro, in
modo visibile, il DNA del vecchio
organismo. E questo approccio è
in Italia particolarmente coerente
poiché il nostro paese è costituito
da edifici, quartieri, città che si
portano dentro stratificazioni,
storie, trasformazioni. Questo vale
in particolare per i grandi edifici
dismessi. In questi casi la pratica
della demolizione e ricostruzione,
estesa a tutto e senza attenzione, è
un errore grandissimo. Al riguardo sono molto curioso di vedere
come sarà valutato il concorso per
l’intervento nell’area Flaminio a
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Roma (di fronte al MAXXI di Zaha
Hadid ndr) dove ci sono tutte le
condizioni possibili. Ci sono edifici
che hanno ancora da raccontare,
anche se in parte, la loro storia,
ci sono funzioni da insediare che
richiedono la realizzazione di nuovi
organismi. Sarà una sorta di cartina
di tornasole per verificare il grado
di attenzione che esiste in Italia sul
tema della “riarchitettura”.
Frangioni Credo che il tema in
Italia, ma anche in Europa, sia molto
pertinente. In Italia, dove il territorio
è stato occupato fino all’inoccupabile,
dove esiste un patrimonio di edifici
non più utilizzati vastissimo, il tema
è centrale. E mi sembra che questa
consapevolezza, almeno in una parte
degli addetti ai lavori, vi sia. Si tratta
di capire quanto questo sia compreso
anche dalla politica.
Stammer Io credo che si debbano
fare ancora molti passi in questa direzione, soprattutto da parte della classe
imprenditoriale. Ormai le parole ci
sono tutte, anche gli slogan “volumi
zero” o, come qualcuno ha detto,
migliorando lo slogan, “occupazione
di suolo zero e volumi quanto basta
per la riarchitettura”. Ma ancora
credo che buona parte degli imprenditori pensi che sia meglio demolire e
ricostruire, più facile e più economico.
Questo è in effetti un tema da sviluppare per far crescere la consapevolezza che non bisogna perdere la
ricchezza che è insita in un edificio
dismesso, che è conveniente anche
per gli imprenditori non perdere
quel poco di storia che gli edifici
sanno raccontare. Io ho uno studio
a Cracovia, che è una città dove vi
sono molti edifici che sono inutilizzati, a cominciare dai semplici
e banali edifici dell’era comunista,
che potrebbero essere oggetto di
semi-trasformazioni fertilissime.
Certo per un imprenditore la semplice demolizione e ricostruzione
presenta minori problemi. Ma io
cerco di fare riflettere coloro che si
rivolgono a me sul fatto che in questo modo, nella stragrande maggioranza dei casi, si mette sul mercato
un prodotto edilizio banale, senza
un reale mercato, perché il mercato
per questo tipo di prodotti è saturo.
E anche nel caso di demolizione e
ricostruzione non credo ai progetti
“griffati”, all’oggetto edilizio come
un grande soprammobile. Il progetto non deve essere riconosciuto
dal gesto ma dall’intelligenza che si
porta dietro. Nel progetto si deve
percepire che il progettista si è
posto dei problemi che il progetto
ha voluto, e saputo, risolvere. E
Intervista all’architetto Claudio Nardi
seconda parte
Foto di Claudio Nardi architects
l’importante è che alla fine in quel
luogo progettato si stia bene. Che le
persone che lo usano ci stiano bene.
Io ho progettato a Cracovia il Museo d’Arte Contemporanea nella ex
fabbrica di Schindler e i commenti
più belli sono stati di quelle persone che entrando nel grande edificio
si sono sentiti, hanno vissuto quel
luogo, come se quel luogo, quasi
inaspettatamente, non potesse che
essere così come era stato progettato. E tu però sai che quel risultato è
frutto di pensieri, confronti, sensibilità per qualche particolare, passi
avanti, passi indietro, istinto ma
anche ragionamento. E sapere che
le persone si sentono bene è il raggiungimento di un risultato. Una
sensazione bellissima. L’intervento
sulla ex fabbrica di Schindler è un
intervento che nasce sul principio
della trasformazione dell’esistente e
che fa delle difficoltà i suoi punti
di forza. L’area destinata al museo
era come nascosta alla città. Un
edificio circondato da altri edifici,
e con una piccola “bretella” che
permetteva di raggiungere la strada
principale. I temi principali del
progetto sono sostanzialmente
tre. Il primo è, come detto, la
trasformazione, la metamorfosi
del vecchio edificio (architettura
come inclusione e trasformazione), il secondo la creazione di un
elemento di raccordo fra l’edificio e
la strada che assicurasse la visibilità,
e quindi anche la comunicazione
(architettura come comunicazione), il terzo è la creazione non di
un solo edificio ma di un sistema,
di un’area, che fosse percorribile,
attraversabile, che mettesse insieme
vari elementi (architettura come
relazione). Creare non un museo
ma un’area urbana in un contesto
urbano in crescita e in sviluppo. Per
questo il progetto prevede percorsi,
piazze, spazi urbani e naturalmente
il museo ben visibile e fruibile. Ma
il progetto è più ampio del museo
vero e proprio, perchè vuole creare
un pezzo di città.
E’ in qualche modo l’opposto di
quello che è stato fatto a Bilbao con
il museo di Frank Gehry. In quel
caso il museo accentra l’attenzione,
è un monumento che attira l’attenzione su di sé. In questo caso invece
si è costituita una rete, una trama,
che accoglie e ricostituisce rapporti
fra il museo e il resto della città. Il
potere di attrazione non è dato dal
monumento ma dal sistema di relazioni che si sono costruite. Il lavoro
dell’architetto è questo, cercare
l’adeguatezza del gesto e sapere fare
sia un passo avanti come a Bilbao, o
un passo indietro come a Cracovia.
In sostanza sapere cogliere le diversità dei contesti. A Bilbao il “gesto”
di Gehry è stato “necessitato” dal
contesto. A Cracovia l’importante
era recuperare una rete di relazioni
per portare il nuovo museo in
rapporto con la città.
Stammer Il progetto è stato il
vincitore di un concorso di architettura bandito nel 2006 dalla città di
Cracovia.
Sì, l’edificio da riutilizzare era
un edificio abbastanza semplice,
anonimo, ma con un grande potere
evocativo. Quel concorso è stato
vinto perchè nel progetto ho potuto trasfondere quelle esperienze di
riarchitettura, di maneggiamento
di edifici esistenti che avevo potuto
fare negli anni passati. Mi sono
trovato un progetto, un concorso che aspettava me. E mi sono
trovato in competizione con altri
colleghi che invece hanno pensato
al grande gesto. E c’era un committente che, forse anche non del tutto
consapevolmente, cercava esattamente quello che io ho progettato.
E’ così che ho vinto.
Stammer Tu a Firenze hai recentemente realizzato un grande edificio
per residenze a Novoli. Un progetto
che ha vissuto molte versioni. Il
progetto realizzato è un edificio “tranquillo”. Un approccio “anticlassico”
rispetto alla classicità degli edifici
contermini progettati da Aimaro
Oreglia D’Isola.
L’area dove è stato realizzato
l’intervento era un’area particolare.
Un’area fortemente caratterizzata dagli edifici preesistenti, che
presentavano una varietà, a volte
agli antipodi, di linguaggi architettonici, di materiali, di proporzioni.
E’ partita da questa consapevolezza
l’idea del progetto. In un contesto
diverso avrei agito diversamente. In
questo contesto serviva un progetto
“semplice” perchè da un lato si
trova l’edificio multifunzionale di
Isola, dall’altra la biblioteca di Natalini, dall’altro ancora le residenze,
sempre di Isola. Cromatismi e forme dissimili. Ho sentito la necessità
di fare un paio di passi indietro, sia
da un punto vista cromatico – ho
voluto fare un edifico assolutamente neutro e bianco- sia dal punto di
vista della forma, facendo rientrare
quel progetto, che è completamente diverso dagli altri, nelle norme
del piano di Leon Krier.
Volevo un edificio che non avesse
la sequenza ritmata delle finestre, come si prevede negli edifici
residenziali, ma che fosse una
“scatola astratta”. E per questo
motivo, per avere un unico edificio
“astratto”, ho collegato con una
grande fascia, un grande portale, i
due edifici previsti dal piano Krier
in modo che, almeno dal viale
Forlanini, si percepissero come un
unico edificio, con l’obbiettivo di
avere la “massima astrazione”. Un
progetto che si è evoluto in questa
direzione perché il primo progetto
era molto più “nervoso” e articolato
e devo dire che sono contento che
le circostanze mi abbiano permesso
di ripensarlo, di rimetterci le mani.
Ho lavorato come se avessi davanti
un foglio bianco e ho cominciato
a scavarlo, a sottrarre dei pezzi,
cercando la tranquillità, la calma.
Questo serviva in quel contesto a
Novoli a mio parere.
riunione
di
famiglia
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Le Sorelle Marx
Santa
Valeria
Povera Valeria Marini, l’hanno
turlupinata, di fronte a Dio e agli
uomini! Aveva organizzato un
matrimonio, tutto intimo e morigerato, con il suo principe azzurro,
Giovanni Cottone, con pochi invitati, giusto gli amici più intimi, ma
poi le hanno rovinato tutto. Passi
la diretta TV a “Domenica In”: la
sposa arriva in chiesa e ci trova le
telecamere del servizio pubblico; è
stato un brutto scherzo, ma lei, si sa,
è una signora e ci è passata sopra.
Poi si è trovata davanti un muro di
giornalisti, paparazzi e “imbucati”
dell’ultim’ora (dall’Alba Parietti a
Pippo Franco, dalla Marina Ripa
Di Meana a Vladimir Luxuria), e lì
si era un po’ inquietata (soprattutto
pensando al conto del ristorante). Il
bodyguard aveva inveito all’Altissimo in diretta TV contro un paparazzo e lì lei era proprio trasalita, lei
così devota e pia. La Valeria voleva
Lo Zio di Trotzky
un abitino semplice, quasi povero;
ma quel mattacchione di Scervino
le aveva fatto trovare un abito “in
delicato pizzo bianco avorio con
ramage che sfumano nell’oro leggero,
scintillante di ricami, accollatissimo
e corredato da un velo regale lungo
otto metri”... insomma non passava
inosservato. Ma il colmo è successo
due anni dopo quando ha scoperto
che il Cottone era già sposato… a
sua insaputa. Beh, a quel punto non
ci ha visto più. Siccome è donna pia
e timorata di Dio, si è rivolta alla
Sacra Rota, ottenendo l’annullamento. Ora si attende una indagine
sul funzionario pubblico che aveva
attestato nel 2013 che il Cottone era
libero da legami matrimoniali. Ma
alla nostra amica Valeria Marini
chi la ripaga: “sono stata ferita nel
profondo dei miei valori di donna
credente cattolica. La fede, nella
mia vita è sempre stata un punto
fondamentale. Ora finalmente ho
avuto giustizia e sono serena, sono
pronta a ricominciare. Dopo tante
ingiustizie e falsità ho ritrovato la
serenità e la gioia di vivere con il
sorriso”.
La virilità è un cruccio dell’uomo.
La potenza si rappresenta con qualcosa che svetta, che esce dal quadro,
che si innalza: un simbolo fallico. E
più grosso è, più potere rappresenta.
Con queste chiavi bisogna leggere
le critiche che il sindaco di Pisa
Filippeschi ha mosso sul logo che rappresenta la Toscana all’Expo: “Con
quella trombetta lì, al massimo si
sulla sua poltrona di Proust è un
grande classico della collezione Ponzio Pilato in voga dall’anno 33 (circa): “Me l’hanno chiesto così”. E in
fondo il committente, la Regione, ha
sede a Firenze e si sa quel che si dice
sui fiorentini e le loro inclinazioni
sessuali da parte degli altri toscani… Bisognerebbe imparare invece
dalla laboriosa Lombardia che non
sta tanto a perdersi sulle culle del
Rinascimento, estetica e bellezza. C’è
da fare un logo per i lavori pubblici?
Presto fatto. Ecco gli occhiali (serietà
e precisione), la cazzuola (manualità
e forza fisica), il progetto (visione e
futuro), gli stivali (voglia di sporcarsi e velocità - dice niente il gatto con
può essere un Abruzzo, un Molise.
Noi toscani siamo di più, ci vuole
più ‘ciccia’. La torre pendente è la
dimensione giusta”. La difesa del
designer-architetto Mendini seduto
gli stivali?). Completa il quadro un
sorriso e un’aria cartonesca, perché
lo Stato deve essere bonario e non
vessante. Fine, niente falli o simboli
appuntiti. Qui si lavora, mica seghe.
La gara
a chi ce l’ha
più grosso
I Cugini Engels
Le Nipotini di Bakunin
Eugenio
e il dover
scegliere
Roma
barzotta
by Rutelli
“La via che porta al tavolo del
rinfresco è lastricata di lodevoli
iniziative”. E’ secondo questa antica
massima che pare muoversi il nostro
amato Eugenio Giani che già in
corsa per le prossime regionali qui
a Firenze ha superato a Roma un
primo scoglio verso la Presidenza
del Credito Sportivo; la famosa contropartita che Renzi ebbe a offrirgli
per non candidarsi alla primarie
contro il delfino designato Nardella.
Naturalmente le due cariche sono
incompatibili (parola da sussurrare
piano a Giani che se gliela dite
troppo forte sviene) e quindi prima
o poi (meglio poi fa sapere Eugenio)
dovrà scegliere da che parte stare.
Però la tempistica di queste due
operazioni pare fatta apposta per il
nostro. Nel percorso romano Eugenio
dovrà ancora superare due passaggi
dopo il sì della commissione finanze
del Senato: la registrazione in Corte
di Conti e la firma del decreto di
nomina da parte del Presidente del
Consiglio. Due o tre mesi, all’incirca, che consentiranno a Giani di
candidarsi al consiglio Regionale,
presenziare a decine (forse centinaia) di lodevoli iniziative, spuntare
magari la presidenza del Consiglio
regionale e poi decidere se restare qui
o trasferirsi nella capitale. Anche se,
in cuor suo, alberga la speranza che
Matteo possa sempre limare quel
comma sull’incompatibilità e fargli
gustare il tavolo del rinfresco anche
a bordo del freccia rossa Firenze
Roma.
Non più pane e cicoria per Francesco Rutelli “er piacione”! Mo’
bbasta! E allora dispensa consigli
a destra e a manca (meglio se a
manca); impartisce bacchettate ai
successori; scrive ponderosi piani di
sviluppo. Il nuovo iperattivismo di
Rutelli prelude a qualcosa? Ad un
suo ritorno in pista? Non ce lo auguriamo, in verità. Ma, intanto,
dalla pista cerca di far deragliare
Marino. Eccolo, dunque, a presentare un libro al Cineland di Ostia
e ad assestare un colpo mancino al
sindaco Marino: “Il sindaco deve
girare, constatare, guardare e difficilmente lo si può fare in bicicletta,
mi concedo solo questa battuta; lo
devi fare in macchina perché vedi
più cose, fai più chilometri. Il raccordo anulare di Roma è di 100
km, e io lo facevo per intero 5-6
volte a settimana, e non lo puoi
fare in bicicletta”. E lui la ricetta
per Roma ce l’ha: “Roma però non
potrà rimanere barzotta a vita.
Non possiamo usare il viagra,
dobbiamo quindi applicarci per
capire come Roma possa tornare
ad essere una città con un futuro.
Debarzottiamò la nostra città”.
Un intellettuale europeo, di grande
levatura linguistica e filosofica,
non c’è che dire!
E d’altra parte, proprio per
queste sue qualità intellettuali è
stato chiamato dalla Fondazione Sicilia a redigere il Piano di
sviluppo turistico del comprensorio
Aidone-Piazza Armerina. Trenta
pagine di pane e cicoria, appunto,
con una ciliegina finale: per lo sviluppo del comprensorio “visite notturne, che tra l’altro favorirebbero
i pernottamenti nelle vicinanze del
sito”. Anvedi forte, ‘sto Rutelli?!
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Laura Monaldi
[email protected]
di
L
a concettualità artistica è
una categoria ambigua e
difficilmente descrivibile,
la cui realizzazione formale è in
grado di operare coniugando
le molteplici logiche di significazione alle libere associazioni
del pensiero, secondo stilemi
originali che variano da autore
ad autore. È proprio nel vasto
campo estetico che il concetto si tramuta in segno grafico
esaltando le proprie antinomie
e mettendo in luce l’aporie del
linguaggio contemporaneo, dotato di una complessità imprevedibile. Fra forme antitetiche,
ossimori, metafore, paradossi e
metonimie Vincenzo Agnetti ha
operato in nome di una precisa
avversione alla produzione oggettuale, tendendo a realizzare
il grado zero della comunicazione semiotica. Rinunciare agli
schemi prestabiliti, vanificare le
coppie combinatorie, imporre
un nuovo ethos e una nuova
concezione del linguaggio per
un’estetica ambigua e tecnologica - caratterizzata dall’identificazione e dalla contrapposizione
della molteplicità degli elementi
che compongono il mondo sono state le linee guida della
sperimentazione di un artista
teorico e portavoce di una netta
rottura con la tradizione, ponendo le basi per l’affermazione
di un nuovo canone e di un
nuovo atteggiamento in quanto
recupero critico della storia e
delle convezioni linguistiche dei
vari campi di espressione: una
riflessione – spesso in chiave parodica - sulle forme e sui codici
ereditati dal passato, attraverso
cui sperimentare, verificando e
ricostruendo in modo critico le
effettive funzioni del linguag-
Il grado zero
della
comunicazione
Vincenzo Agnetti
In alto Progetto per un Amleto politico, 1973, Trittico - serigrafia su lastra metallica
cm 29,5x118,5
Sopra Il principio è solo e solo un centro spostato verso il centro, 1970
Bachelite incisa a mano trattata con colore alla nitro bianca, cm 70x70
Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
gio artistico all’interno della
civiltà contemporanea. La prassi
artistica di Vincenzo Agnetti è
divenuta lo stile attraverso cui la
cultura stessa si stava esprimendo, unita a uno sforzo di consapevolezza teso a comprendere e
a manifestare il nuovo rapporto
instauratosi fra arte e realtà: un
rapporto di interpretazione e
non più di rappresentazione.
L’Arte è fabbrica e prodotto del
reale, da qui la presa di coscienza dell’artista dell’illeggibilità,
nel senso tradizionale, dell’opera
d’arte moderna, che ora come
ora non offre più la possibilità
di infiniti discorsi sul mondo,
ma semplici esempi di realtà,
elaborati allo stato neutro.
La mostra, a cura di Andrea
Alibrandi e Giangaleazzo Visconti di Madrone, con testi di
Bruno Corà e Ilaria Bernardi,
alla Galleria Il Ponte di Firenze
(visibile fino al 10 maggio, in
collaborazione con lo Studio
Visconti di Milano e con il patrocinio dell’Archivio Vincenzo
Agnetti di Milano), offre uno
spaccato della produzione artistica dell’intellettuale, coprendo
l’arco cronologico che va dal
1967 al 1981, date significative
che corrispondono alla prima e
all’ultima esposizione personale
di Vincenzo Agnetti. Il percorso
espositivo coglie perfettamente
l’essenza di una personalissima
ricerca estetica, con l’intento
di individuare i fili conduttori
delle analogie e degli sviluppi
formali di un artista che ha fatto
della proposizione linguistica
e dell’ “Arte no” un diktat di
sperimentalismo e analisi dal
denso sapore concettuale e neoavanguardista. Dal 19 maggio
l’esposizione sarà visibile anche
presso lo Studio Visconti di Milano fino al 28 ottobre 2015.
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pag. 6
Danilo Cecchi
[email protected]
di
R
epubblica sudafricana, anni
1990-1994. Nel periodo di
transizione fra l’apartheid
e le prime votazioni generali
multirazziali, il paese è dominato
da una tensione altissima, non
tanto fra bianchi e neri, quanto fra il partito ANC (African
National Congress) di Mandela e
lo IFC (Inkatha Freedom Party)
a dominante zulù. La tensione
viene subdolamente alimentata
dal governo in carica, nel tentativo di indebolire e neutralizzare
lo ANC, e sfocia in numerosi
episodi di violenza, tanto da essere
considerata da molti come una
vera e propria “guerra nascosta”.
Gli scontri, spesso estremamente
crudi e caratterizzati da veri e
propri massacri, compiuti sotto lo
sguardo indifferente e complice di
polizia ed esercito, vengono documentati da quattro fotoreporter
free-lance non ancora trentenni,
diversi per formazione ed interessi, uniti dalla comune volontà di
registrare, documentare e diffondere le immagini di un conflitto
che rischia di rimanere nascosto
agli occhi del mondo. I quattro
fotoreporter sono Kevin Carter
(1960-1994), Ken Oosterbroeck
(1963-1994), Greg Marinovitch
(1962 - ) e Joao Silva (1966 - ),
un gruppo di coraggiosi fotografi
che, per essere sempre presenti di
fronte ai numerosi conflitti a fuoco fra le diverse fazioni, passa alla
storia come il “Bang Bang Club”.
Le immagini scattate da questi
uomini, spesso rifiutate dalla
stampa sudafricana a causa della
loro contenuto crudo e diretto,
ma anche per motivi di opportunità politica, fanno il giro del
mondo e vengono diffuse da
numerose testate internazionali.
A causa delle sue immagini Marinovitch è costretto ad allontanarsi
temporaneamente dal Sudafrica,
per non incorrere nelle ire della
giustizia, ed anche Carter si rifugia in Sudan per un certo periodo
di tempo. Una delle immagini
scattate da Marinovitch, una
presunta spia zulù massacrata ed
arsa viva dagli avversari, riceve
nel 1991 un premio Pulitzer e
porta il “Bang Bang Club” alla
notorietà. I quattro fotografi
hanno in comune un principio
etico fondamentale, quello di
documentare i fatti senza lasciarsi
coinvolgere né politicamente né
sentimentalmente, senza interfe-
Bang Bang Club
rire o intervenire neppure davanti
alle tragedie più spaventose,
facendosi forza per essere presenti
ed oggettivi, di fronte alla morte,
alle violenze, alla crudeltà, alla
sofferenza ed al dolore. Ma
la corazza che questi uomini
costruiscono fra sé ed il mondo
non è priva di falle, ed anche se
continuano a scattare le loro foto,
apparentemente incuranti di tutto, essi rimangono profondamente scossi e feriti dall’orrore a cui
assistono quasi quotidianamente.
Oosterbroeck, l’unico dei quattro
che lavora per la rivista “The Star”
di Johannesburg, viene colpito
a morte nel 1994 durante uno
degli ultimi scontri che precedono le elezioni generali, scontro
in cui viene gravemente ferito
anche Marinovitch. Nel 1994
Carter, il più emotivo del gruppo,
non riuscendo più a sopportare
l’angoscia di quanto ha visto ed
ha fotografato, e non riuscendo
a convivere con i propri ricordi e
rimorsi, si uccide tre mesi dopo
avere ricevuto un Pulitzer per una
foto scattata l’anno precedente
durante la carestia in Sudan,
in cui un avvoltoio attacca un
bambino stremato dalla fame.
Il “Bang Bang Club” si scioglie
così, all’alba delle elezioni che
cambieranno il volto del Sudafrica, mentre Marinovitch e Silva
continuano nel loro lavoro anche
al di fuori del Sudafrica, pubblicando insieme numerosi fotolibri.
Silva nel 2010 perde una gamba
a causa di una mina durante un
suo servizio in Afghanistan. Dalla
vicenda del “Club Bang Bang”
viene tratto un film che riceve
un premio a Toronto nel 2010
e che solo di recente è stato reso
disponibile con il doppiaggio in
lingua italiana.
“I’m really, really sorry. The pain
of life overrides the joy to the point
that joy does not exist. Depressed,
without phone, money for rent,
money for child support, money
for debts, money! I am haunted by
the vivid memories of killings &
corpses & anger & pain, of starving or wounded children, of trigger-happy madmen, often police, of
killer executioners… I have gone to
join Ken if I am that lucky”.
“Sono davvero, davvero dispiaciuto. Il dolore della vita prevale sulla
gioia, al punto che la gioia non
esiste. Sono depresso, senza telefono,
i soldi per l’affitto, i soldi per il
sostentamento dei figli, i soldi per i
debiti, i soldi! Sono ossessionato dai
ricordi vividi di omicidi e cadaveri
e rabbia e dolore, di bambini affamati o feriti, di pazzi dal grilletto
facile, spesso la polizia, di carnefici
assassini. Sono andato ad unirmi a
Ken se sono così fortunato”.
Dalla lettera di addio di Kevin
Carter
V
olendo tracciare un breve percorso della camelia
in letteratura, potremmo
partire da due immagini di
Marcel Proust: la prima è una
fotografia, scattata nel 1905 a
casa di Reynaldo Hahn; la seconda è invece il celebre dipinto
di Émile Blanche. In entrambi
i casi, lo scrittore ha sempre
quella corolla bianca appuntata
all’occhiello: il fiore inodore per
antonomasia, prediletto da Marcel che, in quando asmatico,
mal tollerava i profumi. Per certi
aspetti, la camelia è un hapax
nel variopinto regno dei petali,
quasi alla stregua di un ‘lapis
crepuscolare’: è forse l’emblema
dell’afasia floreale, di un’anosmia pronta a tradursi anche a
livello della scrittura. Si pensi a
Marguerite Gautier – protagonista del romanzo di Alexandre
Dumas figlio – che porta una
camelia bianca per venticinque
giorni al mese e una rossa in
quelli restanti (unico fiore, questo, a non farla tossire).
E se, sul versante italiano, un
autore come Enrico Nencioni
– nel suo “Inno ai fiori” – aveva
deprecato quei bianchi petali
proprio per via del loro essere
inodori (“Te sola./ Sol te, priva
d’ odor, fredda bellezza,/ marmorea, preziosa, e alle superbe/
figlie del lusso prediletta, io taccio./ Insipida Camelia, e quasi
escludo/ dei Fior dall’ adorabile
famiglia), nelle “Riviere” di Eugenio Montale “bastano pochi
stocchi d’erbaspada/ penduli
da un ciglione/ sul delirio del
mare;/ o due camelie pallide/ nei giardini deserti,/ e un
eucalipto biondo che si tuffi/ tra
sfrusci e pazzi voli/ nella luce”.
Un fiore, quindi, che ben
rappresenta la condizione del
regno vegetale o – per dirlo con
le parole di Luigi Meneghello –
“inframondo verdastro”: le piante, in fondo, non sono degne
di soffrire, in quanto estranee
alle proiezioni empatiche che, al
contrario, investono il rapporto
tra l’uomo e il regno animale.
Ed è perciò in ambito letterario
che i fiori mirano al proprio
riscatto, in un tragitto che – in
senso biblico – conduce dall’Eden a Giosafat, dal supero all’infero. Basteranno due esempi a
illustrare questo lungo viaggio
Cristina Pucci
[email protected]
Le camelie di Proust
e le rose di Palazzeschi
Diego Salvadori
[email protected]
di
Aldo Frangioni – Il Canocchiale di Proust (2014) – Coll.ne Claudio Cosma
4
aprile
2015
pag. 7
(recentemente preso in esame
da Gino Tellini in “Natura e
arte nella letteratura italiana”,
uscito per i tipi di Le Monnier)
: la “candida rosa” del Paradiso
dantesco, in cui il fiore si fa
immagine di verecondia celeste;
e, quasi in violento contrasto,
“I fiori” di Aldo Palazzeschi,
dove le creature vegetali non
solo si macchiano degli stessi
peccati dell’uomo ma, quasi a
voler reclamare il loro posto nel
mondo, parlano e scoprono il
proprio linguaggio (“-Ma tu
chi sei? Che fai?/ -Bella, sono
una rosa,/ non m’hai ancora
veduta?/ Sono una rosa e faccio
la prostituta”).
La camelia, tuttavia, pare esulare
da questo corteggio, forse per
il suo essere simbolo di vita
stroncata, che ben si addiceva
all’eroina di Dumas. Nello sfiorire immediato, la sua è un’immagine di forza e al contempo
di debolezza: un canto a solo,
forse intonato per pochi.
a cura di
Sorbettiera per il trasporto dei gelati, in legno, rivestita di lamiera
zincata, si apre dall’alto, ai lati ha
le piccole maniglie da cui passava
una robusta tracolla. La ditta che
l’ha prodotta si chiamava Asteria e
la marca di gelati che l’ha adottata
Eldorado. Molti ricorderanno un
tipo con una cassetta del genere sul groppone che passava in
spiaggia o sugli spalti gridando
Gelati! Molte le cose collegate a
questa cassetta proveniente dagli
anni 30/40, epoca di massimo
fulgore della Asteria, “produzione di ghiaccio secco, trasporto
e conservazione gelati e derrate
alimentari”. “Il ghiaccio secco è
purissimo acido carbonico solidificato.....raffredda senza bagnare
nè lasciare residui. Gassificandosi
forma una atmosfera speciale cui
sono attribuite eminenti proprietà battericide, preziosissime
per la conservazione di derrate
deperibili.” Così si legge nel suo
catalogo del 1933 scovato da
Rossano. Eldorado era una ditta
di gelati, italiana, di solida fama,
inglobata nel 1967 dalla Uniliver,
multinazionale anglo-olandese
potentissima che possiede miriadi
di marchi alimentari in tutto il
mondo, accusata spesso di crimini
contro l’ecologia, tipo deforestazione, scarico di residui tossici...
Dalla collezione di Rossano respinta Oisusanna Ailoviù e
Bizzarria
degli oggetti
Eldorado si giovava di mitiche ed
efficacissime pubblicità. Famoso
il Carosello interpretato da un
cowboy sui generis, Cocco Bill
con l’inseparabile cavallo Trottalemme, l’eterna innamorata
l’inevitabile camomilla quale
poco virile drink. Il personaggio
fu ideato da Jacovitti, geniale
disegnatore degli anni 60/70.
Un altro delizioso tormentone
televisivo, precedente però, vede
protagonista un sereno Giorgio
Gaber-Chitarra Joe, mini storie di
sconfitte di pericolosi furfanti...
magari bambini, filatrocche in
musica, rimate e divertenti. “...
La sua vita ora non vale mezzo
dollaro bucato, Joe Chitarra ha
sistemato il feroce Little Cod...”
“uomini del West che vivevano
nel pericolo e percorrevano miglia
e miglia per raggiungere un sogno
favoloso, l’Eldorado.”El (Nino)
Dorado era l’Eden che nel ‘500
gli spagnoli, conquistatori delle
Americhe, vagheggiavano; Nino
sarebbe stato un Re il cui corpo
era coperto dalla polvere d’oro
che scorreva con l’acqua del fiume dove faceva il bagno. Il fascino
dei nomi e dei miti mi accalappia,
Asteria (stella) era una Ninfa che
per sfuggire alle molestie di Zeus
diventa una quaglia, poi, precipitata in mare, venne trasformata da
lui pentito in un’ isola “Ortigia”
(delle quaglie). Sua sorella Leto vi
partorì Artemide ed Apollo, Dio
del Sole, che inondandola della
sua luce la rese Luminosa, Delo.
4
aprile
2015
pag. 8
Angela Rosi
[email protected]
di
sono fatte in solitudine e alcune
volte senza essere capiti. In galleria
a fatica possiamo camminare
intorno all’opera perché EGO ci
spinge verso la parete e ci schiaccia
costringendoci quasi ad annullarci
per far posto a lui, non abbiamo la
possibilità di interagire con l’opera
ma possiamo solo constatare che
è talmente gonfio di se che non si
accorge di noi, del nostro corpo
e ancor meno dei nostri pensieri.
Eppure è un EGO non rigido,
quasi giocoso, ricorda una mongolfiera ma non vola e sicuramente
si gonfia anche per difesa per
farsi forza di fronte alla critica e
al pubblico, perché l’artista è pur
sempre la persona che attraverso
la sua opera si mette a nudo con il
coraggio di far vedere debolezze,
paure, dolori convertendo tutto
in oggetto artistico. Dentro o
dietro questo enorme EGO forse
c’è anche tanta fragilità e paura di
non riuscire, di non essere capito,
di essere rifiutato, di non essere
all’altezza di... L’artista è Atlante
dalla mitologia greca, il Titano
condannato a reggere sulle sue
spalle la volta celeste, esso è colui
che sopporta/porta il peso mondo,
Atlante è anche la prima vertebra
cervicale che regge il peso statico
e dinamico della nostra testa cioè
sostiene anche i nostri pensieri e le
nostre idee creative. L’artista è colui che si fa carico del mondo inteso come umanità come se portasse
su di se la possibilità di esplorare
la creatività umana e di renderla
manifesta con un EGO smisurato
perché l’opera di Simone Gori non
è solo l’EGO dell’artista ma anche
la rappresentazione dell’arte stessa.
Chiuso alla fine della II Guerra
mondiale il Central venne riaperto nel 1975 in occasione della
ristrutturazione di Palazzo Ferstel
non più nella corte interna, ma
in quello che era stato il salone di
una banca.
Il locale divenne uno dei punti di
riferimento della vita intellettuale
viennese e fra i suoi frequentatori
assidui si trovano illustri personaggi: Arthur Schnitzler, Franz
Werfel, Stefan Zweig, Robert
Musil, Theodor Herzl, Alfred
Adler, Hugo Von Hoffmansthal,
Adolf Loos.
Ancora oggi una statua di cera
rappresenta il poeta Peter Altenberg seduto ad uno dei tavolini.
Nel solo gennaio 1913 Josip
Broz (Tito), Sigmund Freud,
Adolf Hitler, Vladimir Lenin e
Leone Trotsky si sedettero ai suoi
tavolini.
Un famoso episodio legato al
Cafè Central ha come protagonisti Victor Adler, politico
austriaco, e il conte Leopold von
Berchtold, Ministro degli Esteri
dell’Austria-Ungheria dal 1912
al 1915.
Adler sosteneva che la guerra
avrebbe provocato la rivoluzione
in Russia ed il ministro rispose:
“E chi la farebbe la rivoluzione?
Forse il signor Bronstein che
siede al Café Central?” riferendosi col suo vero nome a Leone
Trotsky esule dal 1917 a Vienna
e giocatore abituale di scacchi al
Café.
N
el buio lo spazio vitale ci è
sottratto e siamo costretti
quasi a abbandonare la sala
che è piena di una grande camera
d’aria di tessuto sintetico che, fuoriuscendo da una piccola scatola
(contenitore - corpo individuale),
si espande gonfiandosi e sottraendoci aria e spazio. E’ EGO opera
del giovane artista pratese Simone
Gori ospite alla Galleria La Corte
di Firenze fino al 13 aprile 2015.
L’installazione è composta da una
camera d’aria in fibra poliammide
poggiata su bancali ai quali sono
incollate alcune fotografie di
grande formato. Le foto ritraggono l’artista di schiena nell’atto di
sorreggere il grande peso del suo
stesso EGO che si gonfia sempre
più nella forte concentrazione su
se stesso, tipica di chi fa arte e,
in generale, dell’autopromozione
che oggi con i media sembra alla
portata di tutti per esprimere e
pubblicizzare la propria creatività.
L’EGO artistico si gonfia e prende
spazio, forse troppo, fino a far
uscire gli altri dalla propria vita
creando solitudine e peso, il peso
che Gori sostiene sulle sue spalle.
Fare arte è anche prendersi carico
di questo EGO artistico che vuole
farsi notare attraverso la creatività
rischiando che quasi tutta la vita
dell’individuo ruoti intorno a lui,
tutto ciò può diventare molto
pesante perché spesso le scelte
Stefano Vannucchi
[email protected]
L’Ego artistico
si gonfia
di
“Dio ci diede il tempo ma della
fretta non ha parlato” recita il
motto degli habitués dei caffè di
Vienna 117 . Parole che sintetizzano bene la passione dei viennesi
per la bevanda scura che nel corso
del tempo divenne oggetto di un
vero e proprio culto.
Tutto ebbe origine nel 1683
quando i Turchi sconfitti abbandonarono alle porte della città
molti sacchi contenenti grani
scuri il cui impiego era sconosciuto ai viennesi.
Si narra che a svelare il mistero sia
stato un uomo di origine polacca
chiamato Kolschitzky che, conoscendo lingua e usanze turche,
spiegò come con la polvere
ricavata dai chicchi si preparasse
una bevanda che gli ottomani
gustavano più volte al giorno. Al
polacco la città offrì uno spazio
dietro la cattedrale di S. Stefano
Caffè Letterario
Elogio
della lentezza
dove nel 1685 aprì la prima Kaffeehaus (Bottega del caffè) seguita
nel corso degli anni da numerosi
altri locali dove ci si recava per
bere caffè, leggere i giornali o
commentare i fatti del giorno.
Il Café Central divenne uno dei
templi di questo particolare rito.
Venne aperto nel 1876 dai fratelli Pach nei locali dello storico
Palazzo della Borsa austriaca oggi
chiamato Palais Ferstel, nome
dell’architetto che lo progettò in
stile neorinascimentale toscano.
Fino al 1938 il Café era chiamato
anche Die Schachhochschule
(“l’università degli scacchi”) a
causa dei molti giocatori che lo
frequentavano.
4
aprile
2015
pag. 9
di
Maria Mannelli Goggioli
P
remetto che non sapevo
granché dell’autore se non,
vagamente, che passava per
uno scrittore di destra, né avevo
letto altri suoi libri; confesso di
aver comprato questo sull’onda
del coinvolgimento emotivo legato alla sfortunata (o fortunata,
quanto a pubblicità imprevista)
coincidenza dell’uscita del libro,
che, come si sapeva, trattava
dell’avanzata dell’Islam in Europa, e la strage di Charlie Hebdo.
Comunque, contrariamente a
quanto mi aspettavo, l’ho divorato. Un po’ perché lo stile è scorrevole, facilissimo, senza fronzoli
né lunghe descrizioni, con in più
quel tocco di cinico decadente
realismo che a me piace; e molto
perché l’ho trovato subito parecchio interessante, e strano, nel
senso che non si capisce che tipo
di libro sia: pamphlet fantapolitico (e in questo caso, pro o contro
l’Islam?), romanzo visionario e
apocalittico, paradosso politicamente scorretto. Questa difficoltà
di interpretazione ci accompagna
fino alla fine, e chiudiamo il libro
con ancora questo interrogativo:
cosa vuole dirci l’autore, aldilà
delle vicende umane e professionali del protagonista e io narrante, un professore di letteratura
francese alla Sorbona (specialista
di Huysmans, di cui tenta di
seguire il percorso intellettuale
alla ricerca di una salvezza dalla
propria depressione), personaggio
di squallida normalità, emblematico della società agonizzante e
disperata (nel senso che non ha
speranze né passioni né ideali) in
cui vive l’uomo occidentale nel
prossimo 2022. E’ una Francia,
anzi è un’Europa sempre più islamizzata (fanno parte dell’UE Turchia, Marocco, Tunisia, stanno
per entrarci Egitto e Libano…),
in cui musulmani sono del tutto
integrati, occupano posti di potere, e anche la cultura e la civiltà
magrebina (a partire dai ristoranti, al cibo, alla musica…) è diffusa ed apprezzata. E’ una Parigi
plumbea, sconvolta da scontri
precedenti le elezioni politiche,
che consegneranno la Francia al
Partito islamico moderato dei
Fratelli musulmani, guidato da
un capo carismatico e abilissimo,
Mohammed Ben Abbes.
Intendiamoci, sono libere e
democratiche elezioni, in cui i
contendenti risultano Il Fronte
La Sottomissione
di Houellebecq
Nazionale e i Fratelli musulmani,
poiché i partiti storici di governo,
il socialista e la destra, sono ormai esauriti, catatonici, superati
dai vitali opposti estremismi.
Per non far prevalere Marine Le
Pen, il Partito socialista si allea
al ballottaggio con Ben Abbes,
in cambio di qualche ministero, facendolo così prevalere. La
Francia rimane certo stupefatta,
basita, ma l’accettazione dello
stato di fatto avviene rapidamente e senza troppe scosse, grazie
all’abilità di rassicurare e blandire
l’opinione pubblica del leader
della Fratellanza e grazie al suo
ben chiaro progetto politico,
frutto di una visione mancante ai
suoi avversari: convertire gli infedeli e creare il sempre agognato
impero islamico conquistando
l’Occidente, senza violenze ma
anzi proteggendolo da esse.
In pratica, le cose sembrano
migliorare in Francia: i disordini
cessano, la legalità è ripristinata,
i fanatici della Jihad tenuti a
bada, la disoccupazione frenata
perché le donne lasciano il lavoro
per rientrare ad occuparsi della
famiglia, dei figli e degli anziani,
di conseguenza le spese per l’assistenza e i sussidi a carico dello
Stato diminuiscono sostanzialmente, gli stipendi e le pensioni
aumentano in maniera cospicua,
grazie anche ai petrodollari
generosamente versati dai sauditi;
contro il salariato industriale è
incoraggiata la piccola impresa
familiare, che garantisce il mantenersi e il rafforzarsi dei legami tra
consanguinei, la solidarietà familiare risolve la solitudine affettiva
che era una delle cause dell’infelicità dell’uomo occidentale; si
assiste al ritorno del patriarcato,
è consentita la poligamia; in
fondo, cosa può chiedere di più
un uomo (un maschio)? Del sano
cibo domestico, casa e figli accuditi, del buon sesso con spose
eterne bambine che vivono velate
durante il giorno per trasformarsi
la sera in uccelli del Paradiso
per l’esclusivo piacere del loro
signore e padrone, mentre le
donne occidentali sgambettano
tutto il giorno in tacchi e tailleurs
rincorrendo la loro affermazione
sociale per crollare esauste la sera
in tuta e ciabatte di fronte al partner (questa pagina, come altre,
è fulminante). Anche la burocrazia assume volto più umano, le
pratiche amministrative (immancabili e frustanti seccature sempre
e ovunque presenti nei paesi
civilizzati) si sbrigano facilmente!
Certo i cambiamenti si avvertono, c’è la piccola questione della
perdita della libertà intellettuale,
c’è l’adesione alla religione islamica (non imposta, ma necessaria se
si vuole accedere ad un impiego
nell’amministrazione statale,
soprattutto nell’insegnamento),
ma, a ben vedere, tutta questa
libertà non ha forse caricato l’uomo di maggiori responsabilità,
non lo ha messo di fronte a scelte
che non sa prendere, non lo ha
reso più chiuso nel suo egoismo? Senza un Dio che fornisca
risposte a domande che l’uomo,
in quanto essere pensante, non
può fare a meno di porsi, quanto
possiamo dirci protetti e rassicurati, in una parola, felici?
In fondo, le perplessità del nostro
protagonista ad abbracciare l’Islam durano poco: la sua vita era
talmente vuota di affetti, di passioni, di scopo, tante le domande
senza risposta, che il cambiamento può sembrare addirittura allettante; e la decisione è facilmente
presa, la sua come quella di tanti
altri. Per ragioni utilitaristiche,
ma non soltanto, egli si vende, aderisce, si sottomette (del
resto, anche Huysmans si era
convertito da ultimo al cattolicesimo). Solo nella sottomissione,
nell’abbandonarsi dolcemente ad
una guida superiore che ci dice
cosa fare, in cosa credere, può
trovare la pacificazione l’uomo
occidentale, che ha sperimentato
sulla sua pelle quanto l’individualismo liberale abbia fallito, ci dice
Michel Houellebecq.
Ma l’interrogativo iniziale rimane, e rende il libro complesso: è
una esaltazione dei valori della
spiritualità (in questo caso l’Islamismo è solo un pretesto, è solo
un esempio di religione che non
ha perso la sua spinta militante)
o piuttosto è il prospettarsi di un
incubo alla Orwell? E’ l’auspicio
di un ritorno alla tradizione, alla
religiosità pre-umanistica? Si può
discutere. Sicuramente è una
condanna, una presa d’atto della
sconfitta dell’Occidente; a volerne fare una lettura positiva, ci si
può leggere anche una sferzata,
una incitazione a reagire, a non
morire prima della morte, a uscire dall’abulia, dalla rassegnazione
cinica per cui niente ci stupisce o
ci indigna, a trovare delle energie
che possano confrontarsi ad armi
pari con altre forze emergenti e
più vitali, in una parola a non
sottomettersi senza combattere. Questa è la situazione in
cui potremo trovarci a breve,
sembra dire Houellebecq, se non
reagiamo.
Un’ultima perplessità: ma le
donne, le donne dove sono in
questo romanzo, cosa pensano,
si sottomettono anch’esse, dopo
esserlo state per secoli ed esserne
uscite da poco? Certo è un libro
declinato al maschile, in cui le
donne non sono protagoniste,
costituiscono un mondo misterioso, desiderato ed indispensabile ma tenuto fuori dai giochi dei
grandi.
4
aprile
2015
pag. 10
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
L
a musica dei gruppi più
stimolanti che si affermano
nella Germania Ovest fra la
fine degli anni Sessanta e la metà
del decennio successivo viene
etichettata krautrock o Kosmische
Musik. Si intitola appunto Krautrocksampler. Guida personale alla
Grande Musica Cosmica dal 1968
in poi (Lain, 2006) il libro dove
Julian Cope ricostruisce questo
fenomeno musicale.
Ciascun gruppo sviluppa una
propria fisionomia coniugando le
influenze anglosassoni con quelle
dell’elettronica tedesca. In questo
panorama affollato spiccano nomi
come Amon Düül, Can, Popol
Vuh e Tangerine Dream.
Col passare degli anni ogni gruppo perfeziona la propria ricerca
musicale, ma soltanto uno sente il
bisogno di accantonare i sintetizzatori e le chitarre elettriche
per adottare una strumentazione
prevalentemente acustica: i Popol
Vuh guidati dal tastierista Florian
Fricke (1944-2001). Questa scelta
segna un mutamento radicale,
perché le sonorità fredde e geometriche del Moog vengono sostituite da strumenti come piano,
Fabrizio Pettinelli
[email protected]
di
Narrano le istorie che nell’anno
del Signore 1099, addì 15 di luglio, il nobile fiorentino Pazzino
de’ Pazzi fu il primo cavaliere
crociato a scavalcare le mura
della Città Santa e, come scrive
Giuseppe Conti in “Firenze Vecchia” (senza però citare la fonte)
“con generoso ardire piantò a
viva forza et a dispetto de’ Saracini lo stendardo della fede sulle
mura di Jerusalem”.
Ora, indipendentemente dal
fatto che altre fonti revisioniste
attribuiscono a due cavalieri
fiamminghi, Lethalde ed Engelbert, la primogenitura dello
scavalcamento delle mura, non
è che il buon Pazzino facesse
un grande affare: infatti, scrive
sempre Conti, il comandante supremo dei Crociati Goffredo di
Buglione, a titolo di ricompensa
per la gloriosa impresa, gli concesse di modificare lo stemma di
famiglia sormontandolo con la
“corona murale”, fregio riservato
ai primi scalatori delle mura.
Soprattutto il capo-Crociato
lo autorizzò “a togliere alcuni
Armonia
celeste
clavicembalo, oboe e percussioni.
L’amore per certe culture asiatiche
-soprattutto quella indiana- viene
sottolineato dall’uso del sitar e
delle tabla. Le parti vocali vengono affidate a Djong Yun, figlia
di Isang Yun (1917-1995), un
importante compositore coreano
emigrato nella Germania Ovest.
Dotato di una solida formazione classica, Fricke opta per toni
contemplativi, proponendo una
sintesi originale fra la musica
sacra cristiana e il misticismo della
tradizione induista.
Questi interessi erano già presenti
allo stato embrionale nel nome
del gruppo, tratto dalla più grande
opera letteraria dell’America
precolombiana. Scritto attorno
alla metà del sedicesimo secolo, il
Popol Vuh è uno dei testi centrali
della cultura maya.
Attenzione però: la musica di
Florian Fricke non è un pastiche
speziato che anticipa la New Age,
ma possiede un nerbo e una personalità che stimolano emozioni
profonde. Il 33 giri che inaugura
questo nuovo corso è Hosianna
Mantra (Pilz, 1972). Nello stesso
anno la colonna sonora del film
Aguirre, il furore di Dio segna l’inizio della collaborazione fra i Popol
Vuh e il regista Werner Herzog.
Per quasi vent’anni il gruppo
prosegue su questi due binari: da
una parte i dischi propri, dall’altra
le colonne sonore.
Si tratta di due percorsi autonomi:
la musica che Fricke scrive per
il cinema non è una parafrasi di
quella composta per il gruppo,
ma recupera certi accenti elettronici fondendoli con le influenze
classiche. Queste ultime rimangono sempre presenti, tanto è vero
che alcuni anni dopo il pianista
registra Florian Fricke spielt Mozart (Bell, 1991), dove interpreta
vari brani del grande compositore
austriaco.
Morto d’infarto nel 2001, Fricke
torna in primo piano oggi grazie
a Kailash (Soul Jazz Records,
2015), una bella confezione che
comprende due CD e un DVD.
Situato nel Tibet, il monte Kailash è un luogo sacro per quattro
religioni, due delle quali diffuse in
India (induismo e gianismo) e due
nel Tibet (bön e buddhismo).
Secondo molte religioni, la salita
verso la vetta di una montagna è la
strada che conduce alla perfezione
e alla pace. La musica di Kailash
è impregnata di questa tensione
mistica.
Il primo CD contiene brani per
piano -cinque dei quali inediticomposti fra l’inizio degli anni
Settanta e la fine degli Ottanta.
Nel DVD troviamo il documentario Kailash: PIlgrimage to
the Throne of Gods, realizzato da
Frank Fiedler e dallo stesso Fricke,
mentre il secondo CD contiene
la sua colonna sonora. Kailash è
il migliore omaggio che si potesse
fare al compositore tedesco, perché coglie appieno l’essenza della
sua parabola artistica.
Fin dai tempi nei quali le pietre
dimoravano a casa Pazzi, era
uso, il Sabato Santo, utilizzarle
come pietre focaie per accendere
un fuoco al quale attingevano i
fiorentini per alimentare delle
lucerne che poi portavano a casa:
il pellegrinaggio a casa Pazzi
divenne in breve di tali dimensioni che i Pazzi, come detto,
furono costretti a spostare altrove
le pietre.
Una volta che le schegge furono
in Santa Maria sopra a porta,
spettò comunque ai Pazzi di
averle in custodia e di essere
incaricati di accendere, la vigilia
di Pasqua, il fuoco santo con il
quale venivano accese migliaia
di “facelline” (fiaccole). Nella
seconda metà del ‘300, per solennizzare ancor più la cerimonia, i Pazzi, una volta acceso il
fuoco, lo portavano in processione in Santa Maria del Fiore;
finalmente, a loro spese, i Pazzi
fecero costruire una “macchina”
che veniva incendiata davanti
al Duomo durante la messa del
Sabato Santo.
I Pazzi (nonostante la caduta
in disgrazia seguita alla sciagurata congiura) continuarono a
finanziare la cerimonia fino alla
scomparsa, nel 1858, dell’ultimo
erede maschio della famiglia,
quando l’onere passò al Comune
di Firenze che trasferì il “Brindellone” dalla vecchia “abitazione”
di Borgo Allegri nell’attuale
dimora al n.c. 48 del Prato.
Piazza del Limbo
Lo scoppio
di’ carro
pezzi di pietra viva, che toccava il
sepolcro di Gesù Cristo”: queste
tre schegge del Santo Sepolcro
(divenute poi quattro per la rottura di una delle pietre) furono
l’onore e l’onere di Pazzino e dei
suoi discendenti per molti secoli
a venire.
Il prode crociato tornò a Firenze
giusto due anni dopo l’impresa,
il 16 luglio 1101, accolto da
tutta la città in festa e, in un primo tempo, ricoverò le preziose
schegge nel palazzo di famiglia
per trasferirle poi nell’antichissima chiesa di Santa Maria sopra a
porta che, agli inizi del ‘500, fu
dedicata a San Biagio. Nel 1785
la chiesa di San Biagio, sconsacrata, diventò la caserma dei
Vigili del Fuoco e le pietre sacre
furono trasferite nella chiesa dei
Santissimi Apostoli, in Piazza del
Limbo, dove tuttora si trovano.
4
aprile
2015
pag. 11
Diego Valentini
[email protected]
di
tutto ritiene contrario a ogni
umana dignità e convenienza.
A parte lo sdegno di chi giudica
una congiura come un vero e
proprio sacrilegio (Dante pone
Bruto e Cassio – i congiurati per
eccellenza - nel fondo dell’Inferno), nulla è più pernicioso,
secondo il modo di guardare di
Niccolò, per la convivenza tra gli
uomini organizzata in ordini e
armi. Ma questo mezzo di lotta
politica esiste, inutile nasconderselo, e allora occorre conoscerne
logiche e modi realizzativi. Se
C
i siamo chiesti tre anni fa
se non era stata un’azione
combinata (la Merkel,
Napolitano, la Banca Centrale
Europea) a provocare la fuoriuscita di Berlusconi da Palazzo Chigi.
Di nuovo, nel febbraio del 2014,
si è pensato che dietro il velo di
quel tweet per Letta, “Enrico stai
sereno”, si celasse una macchinazione per liquidare il premier
pisano e sostituirlo con quello
fiorentino. Vero o no che sia (ma
pochi ne dubitano), la congiura,
l’operazione segreta e collettiva
mirante a sostituire un’autorità
con un’altra, per esempio Matteo
Renzi, si conferma nei tempi moderni una situazione ricorrente
della politica. Fresco fresco arriva
dal sud, dove il calabrese Rubbettino riesce a fare editoria umanistica di qualità, una raccolta di
scritti di Machiavelli (chi se non
lui, quando si pensa in termini
politici?) centrati sul tema della
cospirazione, nello spazio e nel
tempo. Il libro,Sulle congiure, è
introdotto e commentato, con
dottrina ma senza annoiare, da
Alessandro Campi, storico del
pensiero politico, esperto del
segretario fiorentino, bibliofilo e
collezionista, tra l’altro già curatore della mostra sui cinquecento
anni del Principe, che ha portato
messer Niccolò al Vittoriano, e
dell’altra più recente esposizione
perugina Machiavelli e il mestiere
delle armi. I testi raccolti sono
tratti dalle opere maggiori del
segretario: il Principe, i Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio,
le Istorie e altre. A capo di questa
raccolta sta il singolare capitolo
sesto del terzo libro dei Discorsi,
ovvero Delle congiure: un capitolo
esteso (quasi un trattato-nel-trattato) nel quale Machiavelli
analizza, con una lucidità impressionante, le cause, i pericoli, le
conseguenze e i possibili rimedi
delle azioni cospirative. L’argomento è delicato per l’autore,
anche in termini personali: nel
travagliato corso della sua vita egli
si trovò due volte a fronteggiare
le conseguenze di operazioni di
gruppo proibite. Nel 1513 fu
arrestato e torturato, sebbene
estraneo ai fatti, dopo la scoperta
di una congiura antimedicea (se
tale davvero essa fu, come Campi
si chiede); poi nel 1522 i suoi più
stretti amici, Zanobi Buondel-
Un Segretario
per le congiure
monti e Luigi Alemanni, tentano
di assassinare il futuro papa
Clemente VII, ossia Giuliano de’
Medici: e di Niccolò si sospettò.
Le congiure, ormai, sembrano a
noi uno spettro del passato, un
residuo di un’altra epoca, mentre
l’oggi è minacciato da nuovi
pericoli: il terrorismo, la crisi
economica, i disastri ambientali, ecc. Sebbene gli uomini di
potere non temano più i pugnali
di Bruto e Cassio, le congiure
appaiono però esistere ancora,
sotto nuove forme: al posto dei
coltelli la denigrazione, invece
del veleno il ritiro della fiducia
promessa in parlamento. Dunque un’analisi dei fenomeni di
antagonismo segreto e improvviso
che da ogni parte in politica si
verificano s’impone. La lezione di
Machiavelli appare attualissima
nello spiegarci il mondo come è,
non come dovrebbe essere: senza
vani moralismi.
Il rigore, la consequenzialità dei
pensieri di Niccolò in tema –pur
non senza alcune oscillazioni e
proposizioni contraddittorie- dimostra come al Segretario fiorentino non interessi giustificare o
condannare le cospirazioni da un
punto di vista morale. É il meccanismo del fatto che si vuole capire
e spiegare. Stringersi in un patto
e attentare al capo di uno stato
significa per Machiavelli, talvolta
turbato per la drammaticità di
episodi e problemi considerati,
mettere a rischio l’integrità e
l’esistenza stessa di un regno, o di
una repubblica: questo soprat-
ne concluderà che le congiure,
troppo concedendo al caso, non
funzionano. Non si dovrebbe
cospirare perché è peccato, ma
perché è inutile, anzi controproducente, e in quanto tale svilisce
le modalità del conflitto politico. La cospirazione assomiglia
a un’arma a doppio taglio: lo
statista è il bersaglio designato,
ma questo, se dotato di abilità
politica e di una buona dose di
fortuna, può volgere l’attentato
alla sua vita a proprio vantaggio. Come la storia ci insegna
spesso il potere si è servito di false
minacce e nemici immaginari per
difendersi e rigenerarsi; e questo
Machiavelli lo aveva capito: nel
Tradimento del duca Valentino
(rievocazione in data indefinita di
eventi del 1503) si mostra come a
una congiura scoperta la vittima
designata può opporsi, con un
misto di ingegnosa prudenza e
fortunata arditezza: deve ordire
una contro-congiura. L’eroe della
doppiezza, non a caso, è Cesare
Borgia, maestro di simulazione
quando non di spietata crudeltà:
oltre che abilissimo nel non suscitare odio e disprezzo nel popolo
più minuto, come raccomanda il
cap. XIX del Principe.
Saper leggere le congiure significa
però, per un pensatore che è
anche un grande scrittore, saperle
narrare in modo avvincente:
come vediamo in quel piccolo
capolavoro di novella storico-tragica che è il Tradimento del duca
Valentino e in generale nell’opera
machiavelliana più imponente:
le Istorie fiorentine. Naturalmente
la costante attenzione per i fatti
del mondo non allontana mai
dal narratore il teorico: in questi
episodi letteratura e politologia si
sovrappongo. La storia di Firenze
(e di tutta la penisola italiana) è
ricostruita da Machiavelli non
solo con un intento conoscitivo
ma con interesse pratico e pedagogico. Tuttavia i casi storici più
interessanti tendono a diventare
novelle (non diciamo forse oggi
“narrazioni”?), in esse i congiurati e la loro vittima mostrano il
loro lato più umano e segreto:
come il tirannico Galeazzo Maria
Sforza, signore di Milano, il quale
mentre cade sotto i colpi dei suoi
attentatori invoca pietosamente il
cielo in aiuto; oppure il famigerato Jacopo de’ Pazzi, ritratto da
Machiavelli tra luci e ombre.
Il patetismo non appartiene,
comunque, a un politologo
consapevole che un’aggressione
violenta e coordinata suscita la
ripulsa dei cittadini più sensibili,
ma anche che è quasi sempre
inefficace: troppi sono i pericoli e
le insicurezze affinché la congiura
possa essere considerata un mezzo
davvero efficace nella lotta politica. Questa, invece, va praticata
contando su forze solide. Ecco il
succo di un’antologia che mentre
ricostruisce con attenzione il
passato, porta gli echi di fatti a
noi familiari. Campi, del resto,
si è mosso per anni tra studi e
azione nel mondo, fungendo da
consigliere personale di Gianfranco Fini.
Oggi, si accennava, la congiura è
poco riconoscibile, evoluta come
è nel moderno complotto, ossia
l’iniziativa di una forza oscura e
nebulosa (un “potere forte”) che
controlla il mondo da dietro le
quinte. Sono tenebre diverse,
ma non più paurose di quelle
classiche. Rileggendo Machiavelli
possiamo comunque avere meno
paura del lato oscuro della lotta
politica. Quello che nasconde i
come e i perché di Cesare e Giuliano de’ Medici, di Kennedy e
Moro. Quello che, insieme, c’interroga sul senso ultimo dell’eliminazione di un potente, quando
non si tratta più di riforme,
d’economia o di welfare state. Un
atto spregevole di assassini, o una
necessità estrema avvertita da santi laici della libertà? Dipende dai
punti di vista: ma non chiedete a
Niccolò il suo.
4
aprile
2015
pag. 12
Simonetta Zanuccoli
[email protected]
di
P
arigi, nel Marais. Seduta
al tavolino di un bistrot in
un pomeriggio solatio di
inizio aprile leggo il profumo di
Suskind e ogni tanto, infastidita,
mi guardo intorno. Un fiume di
persone, parigini affrettati, turisti
spensierati, euforiche comitive
studentesche, lambisce i bei palazzi e le mille vetrine disperdendosi in rivoli nelle stradine laterali. Ogni tanto un intoppo, poi
la corrente riprende la sua corsa
per andarsi a gettare e disperdersi tra i prati e le arcate della
bellissima piazza des Vosges.
Suggestionata dalla mia lettura
ho cercato di immaginare di trovarmi nello stesso posto agli inizi
del 1700 quando Illuminismo e
Rivoluzione non avevano ancora
cambiato il mondo occidentale.
La caratteristica della città era
innanzitutto il puzzo. Scrive Suskind: un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade
puzzavano di letame, i cortili
interni di orina, le trombe delle
scale di legno marcio e di sterco di
ratti...dai camini veniva puzzo di
zolfo, dalle concerie veniva puzzo
di solventi, dai macelli puzzo di
sangue rappreso. La gente puzzava
di sudore e di vestiti non lavati...
Nelle strade si accumulavano
i rifiuti. Solo quelle principali
erano pavimentate. Avevano
un canale di scolo al centro nel
quale confluiva l’acqua sporca di
tutte le case appestando l’aria. Le
persone erano obbligate a camminare il più possibile rasente
i muri. Il giovane Rousseau in
visita alla città scriveva: il fango
di Parigi che invade le strade è
una complessa mistura di sabbia,
di nauseabonde immondizie, di
acqua stagnante di sterco. Le ruote
dei veicoli spruzzano le lordure sui
muri e sui passanti. Le case non
avevano latrine e, al mattino, il
contenuto dei vasi si gettava dalle
case popolari, alte anche sette
piani e affollatissime (ogni famiglia viveva in una, due stanze),
per strada gridando garde l’eau
(attenti all’acqua). Dai maestosi
portoni dei palazzi usciva la
servetta portando, in equilibrio
precario, i vasi dei padroni che
svuotava nel canale di scolo. In
seguito fu organizzato un servizio di carretti, i tombarelli, che si
fermavano ogni mattina davanti
alle case per poi scaricare il
Paris, la Ville malodorant
fetido carico fuori città. I nobili
usavano la carrozza che li isolava
dallo sporco, ma non dal puzzo;
per questo serviva un fazzolettino profumato da pressare sul
naso. Artigiani e commercianti
preferivano svolgere i propri lavori all’aperto piuttosto che nella
penombra di anguste botteghe.
Le loro enormi e pesanti insegne
di legno pendevano pericolosamente sul traffico di carrette
piene di mercanzie trainate da
enormi cavalli di campagna, di
Lido Contemori
[email protected]
di
Il migliore
dei Lidi
possibili
Amore mediatico
Disegno di Lido Contemori
Didascalia di Aldo Frangioni
carrozze di tutte le dimensioni, da quelle più prestigiose a
doppio fondo e a sei cavalli a
quelle piccole, per dame, a due
ruote tirate da un uomo e a volte
da un bambino. C’erano pozzi
nei cortili dei palazzi gentilizi e
fontane pubbliche nelle strade
per la gente comune. La maggior parte dell’acqua, arrivata
dall’acquedotto della collina
di Belleville, era destinata alle
comunità religiose. Il popolo minuto dovevano accontentarsi di
quella che rimaneva. Davanti alle
fontane c’era sempre una grande
ressa e si era creato il mestiere di
portatore d’acqua che riforniva
chi si arrendeva . E poi c’erano
gli animali. Dal 1667 la legge
vietava ai parigini di allevare in
casa maiali, polli e conigli, ma le
famiglie che abitavano al piano
terra spesso disattendevano
questa regola trovando comodo
far razzolare le loro bestie tra i
rifiuti della strada. Passavano
poi buoi e pecore condotti ad
abbeverarsi nella Senna o al
mattatoio. Nelle strade vicino al
mercato di Les Halles il traffico
e il rumore durava quasi tutta
la notte. Così Suskind descrive
il luogo prima che fosse edificato: Per ottocento anni si erano
portati qui i morti dell’ospedale
Hotel-Dieu...ogni giorno dozzine
di cadaveri portati con i carri e
rovesciati in lunghe fosse...quando
alcune di queste smottarono pericolosamente e il puzzo del cimitero
straripante indusse i vicini a vere
e proprie insurrezioni, il cimitero
fu definitivamente chiuso e milioni
di ossa furono gettate a palate nelle
catacombe di Montmartre, e al
suo posto sorse una piazza con un
mercato alimentare...
Il raggio di sole che scaldava il
mio tavolino si è allontanato,
chiudo il libro, pago il conto e
con un certo sollievo mi immergo nel fiume umano che scorre,
tumultuoso ma pulito, davanti
a me.
4
aprile
2015
pag. 13
Paolo Marini
[email protected]
di
G
iovedì mattina faccio
un salto in libreria
per acquistare la dose
periodica, nella quale stavolta
rientra - poiché faccio sempre
quel po’ di programmazione
di titoli – anche “Nordici e
Sudici” di Riccardo Scarpa
(Diana Edizioni, pp. 268,
€ 15,00). Di questa recente pubblicazione ho letto la
recensione sul Domenicale del
“Sole 24Ore” dell’11 gennaio
scorso e ne ho tratto curiosità.
L’argomento ha a che fare con
le cause del ritardo storico del
Mezzogiorno, dunque non
è davvero nuovo; senonché
- dichiarava il recensore, tal
Brusadelli – il lavoro di Scarpa
“si segnala per l’ampiezza di
documentazione e per la nettezza con la quale, scartando
senza esitazione ogni banale
interpretazione culturale o
peggio ancora antropologica,
si individua la causa della
penalizzazione in una precisa
scelta di politica economica
compiuta dai savoiardi all’indomani dell’impresa di Garibaldi”. Quando il commesso
mi porge il libro, la copertina
mi dà come un cazzotto:
“Prefazione Stefano Folli /
Introduzione Matteo Salvini”.
Ho letto bene? Salvini introduce il libro? La curiosità ha
immediatamente ceduto il
passo allo sconforto. Il quale,
per essere esatti, è sbocciato
Nordici, sudici
Contaminature
Una non recensione
dalla percezione quasi irriflessa
di almeno tre contraddizioni
o stonature: 1) perché l’autore
di un (preteso) buon libro
deve sentire il bisogno di
farlo introdurre da un leader
politico? Per vendere qualche
copia in più? Quanta fiducia
o considerazione ha dunque,
l’autore, del proprio stesso
lavoro e perché un potenziale
lettore dovrebbe averne più di
lui? 2) Se il libro in questione
ha l’ambizione di avere un
qualche carattere ‘scientifico’,
l’introduzione del politico non
rischia di vanificare lo sforzo conferendogli una patina
micidiale di ‘antiscientificità’?
3) In fine che c’entra Salvini
con una trattazione che pare
preludere ad un ragionamento
alternativo alla dominante (e
talora insostenibile) retorica
filo-risorgimentale? Non ha il
suo partito ormai sposato una
logica ‘nazionalista’, definitivamente abiurando dal proprio
(già ampiamente tradìto)
codice politico originario che
vantava vessilli/idee-guida
(liberamente discutibili ma di
per sé certamente nobili) quali
il federalismo e la secessione-indipendenza?
Davide Virdis
[email protected]
di
Rimboschimento frangivento con popolazione di Pinus Pinea esposta al maestrale.
4
aprile
2015
pag. 14
Loretta Galli
[email protected]
di
R
oberta Barsotti, quando si
innamorò della professione
di Counselor?
La prima volta che sentii
parlare del counseling me ne
innamorai subito, apprezzai
enormemente i principi etici
che stanno alla base di questa
professione e soprattutto il
fatto che questo approccio
è fondato su un concetto di
salute invece che sulla malattia,
sull’empowerment piuttosto
che sul curare.
Carl Rogers, padre e fondatore del counseling, sosteneva
che nell’essere umano ci sono
tutte le condizioni necessarie e
sufficienti affinché la persona
possa guarire dalla sofferenza
psichica e sviluppare in pieno
il proprio potenziale, attraverso
un processo di autorealizzazione, che è molto di più di
un adattamento alla realtà, ma
è l’esplicazione della propria essenza che spinge sempre verso
l’autorealizzazione.
La relazione di aiuto che si
instaura tra counselor e cliente
assume così una particolare
connotazione: un rapporto
tra professionista e colui che
chiede aiuto, caratterizzato da
un approccio paritario dove
la dignità della persona e i
suoi poteri decisionali sono
rispettati e sostenuti. Al fine di
sottolineare questa eguaglianza
Rogers si rifiuta di utilizzare il
termine paziente sostituendolo
con cliente con lo scopo di evidenziare ancora di più questo
bilanciamento di potere.
Solo da queste semplici parole
possiamo subito comprendere
come il lavoro del counselor
escluda ogni possibile processo
di manipolazione, in quanto
si lavora in una condizione di
parità, non c’è un up e down
nella relazione. Infatti - aspetto
importante - non si lavora sul
cliente ma con il cliente.
Cosa significa “tendenza attualizzante”?
“Quando ero piccolo – racconta Rogers – le patate venivano
conservate in cantina. L’ambiente non era favorevole, al
contrario. Vedevo però che le
patate germogliavano ed i germogli tendevano verso la luce.
Se esiste nel mondo vegetale,
anche nell’essere umano deve
Il Counseling e Renato Zero
Intervista
alla psicanalista
Roberta
Barsotti
esistere la tendenza attualizzante, cioè la tendenza a favorire
la crescita delle parti positive di
sé”. Tutti gli esseri umani hanno innate queste capacità che si
esplicano in quella che Rogers
chiama tendenza attualizzante.
Roberta, chi avrebbe avuto
volentieri come cliente fra i
“grandi” del passato?
Marco Aurelio diceva “E’
difficile per l’uomo sopportare
se stesso”. Probabilmente dopo
un percorso di counseling
avrebbe avuto una diversa
“Il vero viaggio di scoperta non
consiste nel cercare nuove terre,
ma nell’avere nuovi occhi”?
Questo aforisma si lega benissimo al counseling: infatti
quando un cliente inizia un
percorso solitamente i suoi
occhi sono offuscati,
appannati e non
permettono una
visione chiara della
situazione. Per continuare in metafora
mi viene in mente
una vecchia canzone
che diceva: “ti darei gli
occhi miei per vedere ciò
che non vedi…” [Renato Zero]
e questo è a parer mio una
delle peculiarità del lavoro in
counseling: permettere al cliente di vedere le sue potenzialità
al di là delle difficoltà che sta
attraversando nello specifico
momento, permettere ai suoi
occhi di essere nuovamente
lungimiranti per arrivare a
cogliere le parti positive di sé.
visione di se stesso.
Un’opera d’arte che
rappresenta al meglio il
counseling?
Penso a “La Danza” di Matisse.
Mentre il counselor è con il
cliente, in forza della relazione
che si instaura, l’immagine può
corrispondere a quella di una
danza dove, affinché il ballo sia
fluido e armonico, è importante avere lo stesso tempo,
una forte alleanza ed essere in
sintonia.
Il famoso aforisma di Proust
Scavezzacollo
Massimo cavezzali
[email protected]
di
4
aprile
2015
pag. 15
Scottex
Aldo Frangioni presenta
L’arte del riciclo di Paolo della Bella
L’attività plastica del nostro artista, che ci
permettiamo di definire “Arte brancicata”,
non nasce né casualmente e neppure con
velocità, non è un gesto, ma è il frutto di
una lunga ricerca e l’opera finale è preceduta da numerosissimi schizzi preparatori
e prove in materiali diversi dalla carta,
come il granito o il porfido. Tutti questi
lavori vengono però distrutti una volta
realizzata l’opera in scottex: il vero punto
di arrivo di un lungo, tortuoso e sofferto
cammino.
14
Scultura
leggera
Michele Rescio
[email protected]
di
Il Coccoi sardo pasquale. Il Coccoi, com’è chiamato nel Campidanese o “pane di tricu ruiu” (pane
di grano duro) com’è chiamato
in Gallura, è un tradizionale pane
sardo preparato con semola di
grano duro e decorato con tagli di
forbici, rotelle e lame affilate. Un
tempo era il pane delle feste, oggi
si trova facilmente. Riguardo alle
caratteristiche, essendo fatto di
sola semola, il Coccoi è un pane
che non lievita molto, presenta la
crosta dura, ma all’interno è molto
morbido e dalla mollica compatta
e bianca.
Ingredienti: 1 kg di semola rimacinata, 700 ml d’acqua ½ cucchiaio
di sale, 1 cucchiaio di zucchero, 2
bustine di Lievito per torte salate
disidratato (16 gr), 5 uova.
Preparazione: L’impasto può essere
preparato con macchina del pane
o con un’impastatrice - in tal caso
usare il gancio - oppure, per chi
lo preferisse, l’impasto potrà esser
preparato anche a mano e in tal
caso andrà lavorato a lungo. Nel
cestello versare l’acqua, unire
prima il lievito, lo zucchero e
amalgamare; unire quindi la semola rimacinata, il sale e impastare
il tutto. Ottenuto un impasto
omogeneo, lasciarlo lievitare in
ambiente tiepido per circa 1,5 ore.
Sgonfiare l’impasto, rilavorarlo un
po’ con le mani o con le macchine
Pane
sardo
per Pasqua
e lasciarlo lievitare nuovamente
per almeno 1,5 ore. Preparare con
l’impasto delle forme, tagliarle e
sforbiciarle a gusto personale e trasferirle in una teglia foderata con
carta forno. Al centro di ciascuna
forma, poi, inserire un nuovo crudo e far lievitare il pane per circa
60-90 minuti, secondo la temperatura. Preriscaldare il forno a 250
gradi, infornare il Coccoi e farlo
cuocere per 10 minuti, abbassare
quindi la temperatura a 180 gradi
e farlo cuocere fin quando non si
sentirà un buon profumo di pane
(usare il grill per dorare un po’ la
superficie). Comunque la cottura
dovrebbe durare circa 30-45 minuti, dipende dalla grandezza dei
pezzi di pane, e dal tipo di forno.
Barbara Setti
twitter @Barbara_Setti
di
Leggendo un libro, guardando
uno spettacolo teatrale, ascoltando
un brano musicale, ogni tanto
mi è capitato di pensare quanto
crudele possa essere il pubblico.
Quanto crudele possa essere
anch’io. Con un mi piace, non mi
piace, deciderne il destino. Un giudizio spesso dato superficialmente,
senza pensare quanto enorme
sforzo ci sia, singolo o collettivo,
nel produrre o almeno tentare di
produrre un lavoro artistico.
Domenica pomeriggio, tra una
pausa e l’altra, osservavo questi
ragazzi. Mentre ripreparavano “la
loro porzione di sito” per la visita
successiva. La cura, l’amore, la
passione con cui badavano al dettaglio, il tocco delicato, rispettoso
ma anche confidente con cui maneggiavano le strutture e i reperti
archeologici. Il gesto di protezione
e cura del loro allestimento. In
quei dettagli era condensato il loro
percorso, la loro esperienza fino a
oggi.
Domenica sera Michael Marmarinos, a conclusione di questa
esperienza italiana, ha passato il
testimone a Kays Rostom, il direttore artistico del cantiere tunisino.
E nel ringraziare i ragazzi dal volto
rosso di sole, vento, emozione,
commozione e lacrime, ha parlato
proprio di questi dettagli, come
del loro patrimonio. Non ha usato
Passaggio
di testimone
Foto di Marina Arienzale e Serena Gallorini
esattamente questa parola, ma a
questa ho pensato. E ho pensato al
pacchetto e alla tazza da barba del
nonno che il padre di Philip Roth
regala al figlio, il suo patrimonio.
Un frammento di scoria di ferro,
una barchetta di carta, l’imprecazione di una ghianda missile,
un’ombra proiettata sul fondo
della tomba, della carta su un pannello, un foglietto in una fessura
della pietra, un ombrello azzurro, dei numeri scritti per terra,
i piedi scoperti di un operaio, il
nastro bianco e rosso, un orecchino perso, un cappotto rosso. La
sintesi del loro patrimonio. Che si
porteranno a Cartagine. Insieme ai
loro dubbi e alle loro paure.
Questo testo è uscito sul sito di nostoi
www.nostoi.eu
in
giro
4
aprile
2015
pag. 16
Uno studio
sulle guerre
Teatro
Studio
Krypton
presenta
in prima
nazionale 15/45 Uno studio sulle guerre Tre
atti teatrali sul desiderio della libertà con
la regia Giancarlo Cauteruccio dal 10 al 18
aprile al Teatro Studio di Scandicci. Cauteruccio affronta il tema della guerra in una
forma che si allontana dalla cronaca ufficiale
e mette in evidenza l’assurdità dei conflitti
bellici attraverso le esperienze di tre eroi
“minori” di quelle vicende, diversi tra loro
ma accomunati da un’unica finalità, quella
della ricerca e del desiderio di liberta e di
pace. Il progetto si fonda su tre drammaturgie originali che si inoltrano tra la Prima e
la Seconda Guerra Mondiale. Protagoniste
saranno le vite dei tre testimoni e vittime: Maria Plozner Mentil, Bruno Neri e
Jacopino Vespignani. Il percorso si dipana
dal 1916 al 1945. I tre validi interpreti e
altrettanto validi autori concorrono a questo
particolare progetto che Cauteruccio vuole
restituire come un unico lavoro declinato
in tre puntate, in cui si dilata nel tempo il
processo narrativo.
Il territorio come discarica
Il lavoro proposto nello spazio C2 contemporanea è una riflessione su 30 anni di ricerca
- dal 1984 al 2014 - attraverso un percorso che
presenta opere di medio e piccolo formato:
disegni, progetti e foto, che prevalentemente
documentano la rapida trasformazione in atto
sul territorio, sia dal punto di vista ambientale
sia da quello antropologico. Si tratta di una
“visione” strettamente da occidentale - toscano, europeo - che osserva, valuta il costante
declino cui l’occidente, in particolare un’Eu-
Txt si presenta
Nasce Il buon vivere toscano.
Idee e progetti per l’Expo 2015,
il nuovo fascicolo della rivista
TXT interamente dedicato alle
proposte toscane per l’Expo.
La rivista verrà presentata in un
incontro che avrà luogo al Caffè
Letterario Le Murate a Firenze
martedì 7 aprile alle 18 in collaborazione con la Regione Toscana e l’Associazione culturale “La
Nottola di Minerva”. Il nuovo
fascicolo di TXT racconta l’arte
del “buon vivere” toscano che
si basa da sempre sull’equilibrio
dinamico tra l’ambiente naturale
e l’uomo che coltiva e produce e
sulla peculiare capacità del territorio di armonizzare economia e
socialità, arte e industria.
Con testi in italiano e in inglese,
la rivista, riccamente illustrata,
racconta le idee innovative, i progetti e le
buone pratiche scelte
dalla Regione Toscana
all’interno di call for
ideas e bandi rivolti
a enti, istituzioni formative, associazioni di
produttori, consorzi
di tutela e aziende
del territorio in vista
della partecipazione
toscana all’Expo.
“Sono soggetti
impegnati nell’innovazione e
nel miglioramento della propria
competitività per contribuire
alla conservazione degli ecosistemi naturali e allo sviluppo
economico e sociale dei territori”, come sottolinea l’assessore
regionale all’agricoltura Gianni
Salvadori.
La rivista getta uno sguardo anche sui progetti delle scuole toscane di ogni ordine e grado che
stanno lavorando sulle tematiche
dell’Expo attivando processi
sostenibili e scambi con le scuole
delle nazioni che parteciperanno
alla manifestazione milanese.
I percorsi attivati dalle scuole
riguardano la cittadinanza, il
rapporto tra letteratura, arte,
musica e cibo e la filiera corta.
ropa all’apice della maturità, è destinato.
Osservare e comprendere, forse, per proteggersi dal frenetico immobilismo al quale siamo
costretti. Osservatore di un territorio italiano
come “discarica”, un luogo dove si sedimentano i detriti del nostro consumo. Un nuovo
paesaggio, stravolto, contaminato da usi disinvolti del territorio, con i suoi nuovi abitanti
Mostra di Ronaldo Fiesoli da giovedì 9 aprile.
Inaugurazione alle ore 18.00 Via Ugo Foscolo
6 - Firenze
Il primo ciliegio in fiore del Giappone
I fiori sbocciano, i fiori manifestano la loro bellezza, i fiori cascano portati via dal vento, i fiori
coprono e colorano le strade, ecco
racchiuso in pochi giorni la vita
stessa.
Hanami 花見 letteralmente “ammirare i fiori” è una delle tradizioni più sentite in Giappone.
Chi arriva in vacanza in questo
periodo può ammirare la fioritura dei ciliegi, la quale regala dei
momenti veramente suggestivi,
giardini con alberi di ciliegio inseriti in un contesto ancora carico di
spiritualitità animistica, ma questo
per chi vuol vedere. Se dovessi parlare di una cosa tipica giapponese,
direi proprio Hanami; ancora
oggi la meraviglia e lo stupore che
le persone mostrano davanti alla
natura e a questi eventi è potente,
le esclamazioni e il silenzio che
si vede e si percepisce in questo
periodo vale la pena conoscerlo.
Se gli alberi di ciliegio sono belli di
giorno, la sera diventano mistici,
una cosa veramente spettacolare,
le piante si svegliano e parlano tra
di loro, la luce dei giardini e della
luna illumina i fiori rendendoli
irreali.
Un saluto dal Giappone
Antonio & Yukiko
horror
vacui
4
aprile
2015
pag. 17
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
Charlie Brown (a Lucy): Sicurezza...ecco di ciò di cui tutti abbiamo bisogno! Bisogna provare un “sentimento”
di sicurezza...Toglie a un uomo la sicurezza, e cosa gli rimane? L’insicurezza, ecco cosa gli rimane!
Lucy: Sei proprio un filosofo Charlie Brown.
L
immagine
ultima
4
aprile
2015
pag. 18
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
[email protected]
S
iamo all’interno di uno Shopping Mall, e la prima cosa che ho deciso di fare è stata quella di prendermi un momento di relax facendo uno stop
al “See’s Candies” una catena di pasticceria di gran classe molto famosa in questi luoghi. Questo brand ha ormai acquisito, e a ragione, una buona fama a livello mondiale. Per un goloso come me è sempre stato un punto di riferimento fisso durante i miei ripetuti soggiorni californiani e
lo consiglierei a tutti. Se fosse esistito ai tempi dell’Artusi sono certo che anche lui ne avrebbe certamente detto un gran bene. L’altra immagine è stata
scattata sempre nello stesso Shopping Mall, ovviamente in un altro dipartimento, e credo che non abbia bisogno di particolari commenti.
San Jose, California 1972