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Pubblicato il 15 Marzo 2016
La prima delle opere della Trilogia Romantica travisata dal regista Arnaud Bernard
Il Rigoletto nel bordello
servizio di Simone Tomei
VERONA - Voglio iniziare questo mio racconto di un pomeriggio nella città scaligera in compagnia di
Rigoletto, proprio con le parole di Giuseppe Verdi: «Le mie note o b elle o b rutte che sieno non le scrivo
a caso e (...) procuro sempre di darle un carattere». Questa frase mi è di stimolo per cercare di dare un
senso alla visione di una messinscena che la Fondazione Arena di Verona ha messo in
programmazione per la stagione invernale alla prima rappresentazione di domenica 13 marzo 2016.
Un titolo così popolare e altisonante ha trovato la sua esplicitazione per mezzo di un allestimento
datato, di Arnaud Bernard - che ha curato la regia e coordinato i costumi - con scene di Alessandro
Camera. In periodi di “vacche magre” e di grosse difficoltà finanziarie della Fondazione veronese, sul
piano economico sicuramente è stata una boccata d’ossigeno la possibilità di proporre al pubblico un
allestimento che non ha costituito dei grossi aggravi sul bilancio della Fondazione.
Però qui casca l’asino e la citazione iniziale non è messa a caso, ma trova una sua giustificazione nel mio giudizio che
seguirà. Voglio sottolineare la parola “carattere”; tutta la musica verdiana e non da meno quella del gobbo mantovano è
densa di sfumature, di colori, di significati; il tema della maledizione, che si affranca allo spartito sin dalle prime note del
preludio, ci trasporta in un mondo che Giuseppe Verdi ha ben delineato; dall’abbozzo, alle prime rappresentazioni, sino
all’edizione critica degli anni ’80 del Novecento, quest’opera è stata sezionata come un cadavere durante un’autopsia, in
modo da cercarne i più reconditi significati, tali da far rivivere appieno - con i dovuti limiti umani - le intenzioni originarie
dell’autore; si è cercato di ristabilire proprio quel “non scrivere a caso” e quel “carattere” che Verdi cita. Di fronte a queste
riflessioni personali, cerco di trovare quel “carattere” e quella mancanza di “caso” in tutto quello cui ho assistito domenica 13
marzo.
Il regista Bernard è riuscito ad annullare le caratteristiche peculiari del capolavoro verdiano, senza curarsi minimamente del
fatto che un’opera lirica innanzitutto è fatta di musica strumentale e di voci umane, così come sono delineate dallo spartito; i
costumi, le ambientazioni, i colori, le movenze e gli atteggiamenti, nascono da una sapiente lettura del libretto, dell’opera
letteraria a cui il libretto si rifà e ad un pizzico di tatto e creatività del “metteur en scène”; gli strumenti non mancano, come
dicevo prima, la letteratura su quest’opera è infinita e a questo punto sinceramente credo ci sia poco da aggiungere, se non
una dose di intelligenza e di acume che potrebbero essere una potenzialità in più e non un fattore deterrente; personalmente
non ho trovato né tatto, né acume nell'idea registica di questo Rigoletto, bensì la scelta precisa di non tenere in minima
considerazione lo scritto verdiano, sia dal punto di vista musicale che interpretativo, per lasciare spazio a idee discutibili,
dove al posto della parola “carattere” potremmo tranquillamente mettere altri sostantivi: “eccesso”, “volgarità”, “rozzezza”,
“inopportunità”.
Per dire che il Duca di Mantova è un libertino, mi sembra inutile far apparire la nobile reggia come un postribolo dove
ciascuno è autorizzato a trattare le donne come delle prostitute perverse, da strigliare per i capelli e trascinare per ogni dove,
sbattendole contro le pareti scenografiche a mo’ di spregio e riluttanza; così le povere derelitte, urlano e si dimenano con
mugolii misti tra dolore e orgasmo - quasi provassero piacere per il trattamento subito - mentre tutti i partecipanti ridono e
sghignazzano apertamente. Nel frattempo l’orchestra suona, la banda fuori scena suona, l’orchestrina d’archi - che per
indicazioni dell’autore dovrebbe essere sul palco - intona il suo “perigordino” alla dipartita della Contessa di Ceprano, ma le
note dei musicanti e le note dei cantanti sono distratte e messe in secondo piano rispetto ad urla, schiamazzi, goduriosi
amplessi e volgari gesti dei partecipanti alla festa nel “nobile palagio”; e qual è il risultato? La musica è relegata a mera
appendice, una sorta di colonna sonora, gli assiemi perdono corpo e consistenza, tutto è esasperato e l’incalzante incedere
dei ritmi orchestrali va a sommarsi a questa babilonia che è riuscita a suscitarmi un enorme fastidio, un senso di amarezza
ed un desiderio forte di alzarmi per andar via. Se anziché il critico he deve riferire ai propri lettori fossi stato un semplice
spettatore, me ne sarei andato. Si sono un po’ calmate le acque con lo scendere del sipario per il primo vero duetto
dell’opera, che si è svolto sul proscenio per dare modo ai tecnici di allestire il palco con l’abitazione di Rigoletto. Anche qui
non è andata meglio perché le suggestive e misteriose pagine musicali si sono intervallate a rumori da dietro il sipario che
facevano capire la presenza di lavori in corso. Tutto il primo atto è stato permeato da questo immane senso di confusione e
di nonsense, anche nei successivi duetti di Gilda con Rigoletto prima, e con il Duca poi; nel primo duetto l’aspetto scenico è
stato appannaggio di una separazione netta tra i due protagonisti, senza attimi di tenerezza paterna; mentre il secondo è
stato alla mercè di una puerilità assoluta. In sintesi un atto dove ho assistito alla morte della musica e allo snaturamento del
libretto per scelta del regista.
Ho la netta sensazione - ma questo è un film balenante nella mia testa, se non una mera consolazione - che il direttore
d'orchestra nell’intervallo tra il primo e secondo atto, abbia redarguito tutti tanto che il prosieguo dell’opera è stato meno
confusionario e più lineare, anche per effetto della partitura stessa, ma sta di fatto che con l’arrivo sulle sponde del fiume
Mincio nel terzo atto, dove la presenza di Maddalena e Sparafucile ha una funzione drammaturgica importante ma non
prevalente, ha riportato il livello dell’opera su toni volgari, rozzi e scurrili con tanto di sputi da parte della sorella al fratello,
rumorosi e fragorosi, degni dei peggiori esempi del Taccuino di un vecchio porco di Charles Bukowski.
Se leggessimo le parole che Nicola Marselli scrive, nella Ragione della musica moderna nel 1859 , ciò potrebbe portare ad
una sommossa nei confronti di questo allestimento: «La musica drammatica con lui venne all’altezza maggiore che in Italia
fosse mai. Allorquando il Verdi attende a scrivere un dramma musicale, egli s’inspira in esso, ovvero si compenetra colla
situazione che ne forma il nodo, coi caratteri e coll’azione che la determinano ed effettuano, e colle parole che esprimono
ogni moto della passione. (...) Per tanto in quel modo che si è divisato delle forme particolari si potr à di- scorrere della forma
generale della musica di Verdi. Il Verdi concepisce da prima l’opera come un tutto, al quale porge nella sua mente il colorito
che gli conviene: così il dramma acquista la propria forma genera- le. Per la qual cosa è notab ile come quasi tutte le
musiche del Verdi ab b iano una propria forma individuale che risponde esclusivamente al soggetto (...) Se prima di lui fuvvi
in Italia chi scrisse l’opera in musica rendendola in qualche modo espressione del dramma, egli fu il primo a dare una
forma scolpita a quel che dicesi comunemente musica drammatica». La musica drammatica è sempre quella, ma il
dramma scenico sovrastante no, a favore dell’eccesso e di una volgarità insoppportabili.
Un siffatto quadro non può sicuramente essere di aiuto allo spartito ed alla sua esecuzione, ma era necessario esplicitare
tutto questo prima di passare all’aspetto prettamente musicale dove ho potuto apprezzare un cast di buon livello, ma con
notevoli ostacoli talvolta mal superati.
Leo An si è dimostrato un valido baritono, affrontando il ruolo eponimo con il giusto piglio vocale e scenico. Nonostante un
primo atto piuttosto in affanno sia per movimentazioni piuttosto inconsulte, sia per un ensemble coreografico come sopra
delineato, è riuscito a portare a termine l’opera con grande dignità, impeto e giuste intenzioni. Molto convincente in Cortigiani
vil razza dannata, dove in tre pagine si concentrano tre stati d’animo molto distanti tra loro per i quali sono richiesti suoni,
fiati ed emissione completamente diversi; bella anche la pagina duettante con Gilda ed infine un grande impeto nel famoso
Un vindice avrai! finale del secondo atto, dove anche qui non è mancata sul versante scenico una marcata volgarità di
Rigoletto nei confronti della figlia.
Nel ruolo di Gilda il soprano Mihaela Marcu; vale anche per lei una ascesa ed un crescendo espressivo ed emozionale che
la vede partecipe nel primo atto con grande professionalità, ma con poco spessore interpretativo che pur non togliendo nulla
alla bravura e capacità vocali, ha poco delineato la peculiarità del personaggio che ha trovato il suo sfogo e la sua giusta
collocazione nel secondo atto e poi nel finale; ottima l’aria Tutte le feste al tempio , dove ogni nota è stata un capolavoro di
messa a fuoco e di proiezione; bellissime dinamiche, grande coinvolgimento e ottimo trasporto recitativo così pure come nel
duetto successivo e nel finale dove in Lassu ̀... in cielo!... vicina alla madre… in eterno per voi... pregherò . Si è proprio
percepito quel senso di richiesta di perdono e di amore filiale che mai era trasparito fino ad allora; qui le acque si sono
totalmente calmate e ad avvalorare la mia tesi, è venuto fuori il Verdi che avrei sperato di godere sin dall’inizio.
Il Duca di Mantova è stato interpretato dal tenore Alessando Scotto di Luzio; ma anche per lui la partenza non è stata felice;
troppo concentrato ad assecondare le sue voglie animalesche al motto metaforico di “basta che respiri”, ha perso in principio
d’opera una naturalezza nel porre le note con il dovuto fascino e giusta scaltrezza, appannaggio di un canto piuttosto forzato e
poco incline al fraseggio nel quale non sono mancati palesi scollamenti con la buca; anche il duetto con la fanciulla
innocente, su e giù per un’improba scalinata a chioccola, ha patito le conseguenze di una poca attenzione al cenno del
maestro che gli è valso qualche attacco piuttosto in ritardo soprattuto negli addii finali; meglio nel secondo atto nel quale una
più apparente calma e un venir meno della concitazione erotica, hanno permesso una concentrazione maggiore sul primario
impegno di cantante; sia Ella mi fu rapita che Possente amor mi chiama hanno fatto apprezzare in modo più cosciente la
tempra vocale; una voce in evoluzione che necessita a mio avviso ancora di un periodo di maturazione e di studio, soprattutto
in acuto dove ho notato una tendenza a stringere facendo indietreggiare un po’ il suono con conseguente necessità di
eccessiva spinta; credo vi sia spazio per migliorare, apprezzando nel contempo una bella presenza scenica e una disinvolta
verve caratteriale.
Di grande tempra Gianluca Breda nel ruolo di Sparafucile; bel timbro, grandi armonici, giusta intenzione hanno saputo
delineare un duetto del primo atto di grande levatura; qui il peggioramento è venuto nel finale dove nonostante le belle
caratteristiche vocali, ho assistito ad una necessità registica di eccedere scenicamente a scapito delle note e di una
emissione che ha sofferto di vistosi accenti troppo calcati, al limite dell’esagerazione.
Anche nel Monterone di Alessio Verna abbiamo assistito sin da subito ad un canto slegato e piuttosto frastagliato, che non
gli ha permesso di venire fuori né come personaggio, né come interprete, facendo comunque intendere un bel timbro ed un
grande volume che può agevolmente trovare la sua giusta collocazione in personaggi con ampie parti cantabili.
Clarissa Leonardi è stata una Maddalena piuttosto brava da un punto di vista scenico nonostante gli eccessi registici in
negativo, vocalmente ha dimostrato un'emissione salda nella zona più acuta, con un bel timbro brunito, ma ancora acerba e
piuttosto spoggiata nelle zone più basse del rigo.
Completavano il cast con dignitoso impegno Alice Marini (Giovanna), Tommaso Barea (Marullo), Antonello Ceron (Borsa),
Romano Dal Zovo (Il Conte di Ceprano ), Dario Giorgelè (Usciere di Corte ) e Francesca Micarelli (Contessa di Ceprano e
Paggio). Ottima la prestazione del coro preparato e diretto da Vito Lombardi sia sulla scena che negli interventi interni.
Fabrizio Maria Carminati alla guida dell’orchestra della Fondazione Arena di Verona, ha saputo dare le giuste dinamiche e
soprattutto un vivace ritmo incalzante, che ha reso musicalmente l’opera molto affine a quello che è il mio sentire ed il mio
apprezzare quel capolavoro del Cigno di Busseto; il problema è che una lettura così serrata richiede maggiore attenzione alla
musica allo spartito ed ai gesti, sempre puntuali e precisi, della bacchetta: venendo meno questi aspetti a favore di impegni
scenici anche il lavoro musicale viene vanificato e tanta bravura professionale soccombe a favore di un’idea di regia e di
teatro distanti dalla parola poetica e dalla predominanza della musica e del canto. Concludo come ho “prencipiato” con
queste poche righe dello stesso Verdi che penso possano riassumere appieno quello di cui ho sentito la mancanza in una
tiepida domenica di marzo a Verona: «Amo l’ arte quand ’è rappresentata degnamente. (...) Ah il mio cuore, il mio istinto se
volete, mi dice sempre la verità: nelle cose un po’ incerte lo interrogo, e mi risponde giusto. » - Lettera a Ricordi, 1868 -
Crediti fotografici: Foto Ennevi per la Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura in alto: il baritono Leo An (Rigoletto)