17 aprile 2007

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17 aprile 2007
Anno IX n. 8
17 aprile 2007
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CARLO FRUTTERO
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Stilos
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GIORGIO BOCCA
I libri che sta leggendo, gli autori preferiti, l’idea di letteratura. E il suo ultimo romanzo "Donne informate sui fatti". A Brescia il premio «A qualcuno piace giallo».
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MASSIMO RANIERI
L’autobiografia di un intellettuale che
scrivendo la sua vita ha composto un
romanzo. E con esso un affresco dell’Italia «provinciale» del nostro tempo.
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La vita in ascesa di Giovanni Calone,
«scugnizzo» napoletano che grazie alla
sua voce e al suo talento diventa uno dei
primi cantanti di musica leggera italiani.
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Turi Vasile
MORGANA
Il nuovo libro di racconti di un
grande scrittore siciliano. Racconti “veristi” eppure sognanti.
L’ossessione e il condizionamento di essere siciliani. Morgana,
in fondo, è il visibile delle cose
che non ci sono.
pp. 224 · euro 13,00
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)
SILVIA BALLESTRA
Un pamphlet sulla condizione della donna oggi, prima responsabile dei suoi ritardi rispetto al riemergente maschilismo. La
perduta eredità degli anni Settanta.
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P E T RO S
MARKARIS
Un giallista
contro
la pubblicità
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VINCENZO RABITO
TERRA MATTA
«Cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa. Un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso».
andrea camilleri
«Non capita tutti i giorni che un Rabito Vincenzo si metta a scrivere la
sua storia raccontando anche di traverso la storia del nostro paese e i suoi
oscuri mali. Davvero, un fiore nel deserto».
paolo mauri
Supercoralli, pp. 424, € 18,50
EINAUDI
1
euro
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S t los
narratori
italiani
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Nella foto i soccorsi dopo l’esplosione di un ordigno con sette chili
di tritolo nella Banca nazionale dell’agricoltura in Piazza Fontana
a Milano il 12 dicembre 1969. I morti furono 17, i feriti 87
Catone
PIAZZA FONTANA
Come è nata ed è stata realizzata la trasmissione
televisiva sulla madre di tutti gli attentati terroristici in
Italia. Un ritorno agli anni della strategia della tensione
La strage
delle cento
strategie
C o n f e r e n z e
ilano, 30 marzo. Libreria
Feltrinelli di Piazza Piemonte. Carlo Lucarelli
presenta Piazza Fontana libro + dvd (Einaudi-Rai
Trade), tratto dalla trasmissione "Blu Notte".
Questa è la trascrizione della sua conversazione, raccolta da Maddalena Bonaccorso.
M
Non è stato facile realizzare la trasmissione su
Piazza Fontana. Devo dire che quasi nessuna
delle nostre trasmissioni, dei nostri casi, sono
stati facili da rappresentare. Ma Piazza Fontana è stata particolarmente difficile. Noi ci siamo arrivati dopo un lungo percorso. "Blu Notte" è partito dai casi di cronaca, dagli omicidi
e dai delitti privati, chiamiamoli così. Raccontavamo, all’inizio, solo di crimini che riguardavano una persona e una città. Niente di politico, niente di misterioso, niente di segreto.
Poi, dopo tre o quattro anni di lavoro su delitti privati, cominciarono a venirci in mente casi un po’ più complicati. Tra questi, Piazza
Fontana. Diventava una specie di obiettivo,
che contemporaneamente ci spaventava molto. Ci chiedevamo. «Ma Piazza Fontana, riusciremo mai a raccontarla?» «No».
Troppo difficile, troppi processi, trent’anni di
misteri. Ci appariva, quindi, come un qualcosa di molto complicato. E non solo da un punto di vista storico e giudiziario (perché quando
dico Piazza Fontana, dico, oltre alla strage,
strategia della tensione, Ordine Nuovo, un
sacco di altre storie che si intersecano), ma anche da un punto di vista personale, umano. Come avremmo potuto entrare in una cosa così
straziante? Perché il nostro compito, quando
raccontavamo casi di cronaca, era dare voce a
una persona che non avrebbe avuto più modo
di parlare. Era cercare di spiegare qualcosa,
magari nel momento in cui un caso stava per
essere archiviato. Era mettere in fila i fatti in
maniera un po’ scientifica e un po’ narrativa.
Ma era soprattutto creare un’emozione riguardo a qualcosa che era successo. Quindi pensavamo che a indagare su casi come Piazza Fontana ci sarebbe stato da sentirsi malissimo.
Pensavamo di non essere in grado.
Adesso, a mente lucida, penso che fossimo vittime di luoghi comuni. Uno è questo strano
mito della complicazione. Perché attenzione:
è vero che queste storie sono complicate, ma
non è vero che il bandolo della matassa sia introvabile e che sia impossibile raccontarle in
maniera semplice. Sicuramente le si racconta
in maniera insufficiente, e questo vale per
Piazza Fontana così come vale per la puntata
sulla mafia. Non c’è tutto, è chiaro. È solo un
primissimo passo. Compiuto perché poi qualcuno si metta lì a riempire tutti i buchi che noi
abbiamo dovuto lasciare, perché non ci stava
nel tempo della trasmissione. O perché non ci
stavano nel tempo mentale che tutti noi abbiamo quando ci raccontano una storia; siamo
concentrati su una storia, ma se poi se ne aggiungono tante altre perdiamo la capacità di
seguirle.
Però si possono a un certo punto mettere i fatti in una fila ordinata. Perché in effetti, questa
idea che non si sa niente di questa storia, che
Piazza Fontana è un enorme mistero, non è vera. È vero che non abbiamo messo in galera
nessuno, e che la magistratura, in questo senso, ha fallito. Perché compito dei processi è dire chi è colpevole e innocente, ma compito
dell’indagine è di dire chi l’ha messa, quella
bomba lì. Il nome della persona che ha messo
la bomba non c’è e molto probabilmente non
ci sarà mai. Però è vero anche che i processi, e
tutta la riflessione della storiografia e dell’informazione su questi avvenimenti ha prodotto una mole enorme di documenti. Allora,
quello che è successo, e le motivazioni per le
quali certe cose sono successe, perlomeno con
la ragionevole certezza degli storici, le sappiamo. Attenzione: il lavoro degli storici non è
quello dei magistrati, che devono avere tante e
tali prove per mandare in galera le persone. Gli
CARLO LUCARELLI
VIVE A MORDANO (BOLOGNA). ULTIMI TITOLI "LA NERA" (MONDADORI) CON MASSIMO PICOZZI, "NIKITA" (EDIZIONI EL)
storici si basano su una logica dei fatti, che parte dalla lettura dei documenti. Esempio: io
non ho bisogno di un processo passato in giudicato per sapere che Napoleone ha perso a
Waterloo. Quindi a livello storico un sacco di
cose le sappiamo. E abbiamo cominciato ad
affrontarle. Naturalmente questo lavoro non lo
faccio da solo, ho molti collaboratori, consulenti, storici che abbiamo intervistato. Mettendoci al lavoro, le cose si mettono in fila. Abbiamo una tecnica che ci è servita molto, che è
quella della narrazione. Quando si scrive un
romanzo, anche se è pura invenzione, non si
scrive tutto quel che viene in mente. Se no verrebbe fuori un magma assurdo nel quale non si
capirebbe più nulla. Si scelgono i fatti che
servono a fare andare avanti la storia, che appartengono a una stessa linea logica, e si mettono in fila. E alla fine si ricostruisce il tutto.
Quindi, il primo luogo comune era superato.
Non è troppo complicato occuparci di cose
tanto più grandi di noi. Il secondo problema
che ci siamo trovati ad affrontare era personale: il nostro star male davanti alla morte di una
persona. Per noi era già difficile metter mano
a un caso di cronaca singolo, immaginiamo un
po’cosa poteva voler dire trovarsi davanti, come nel caso di Piazza Fontana, a 17 morti.
Invece siamo riusciti a capovolgere questa
cosa. Perché il grosso problema, di noi cittadini, è considerare questi drammi come un qualcosa di storico, di passato. Il rischio quindi non
è partecipare troppo. Il vero rischio è l’indifferenza. Non dobbiamo avere paura, quindi, di
affrontare tutto questo. Questo fatto di farci
coinvolgere emotivamente è un qualcosa di
positivo perché la narrazione, oltre a mettere in
fila i fatti, deve trasmettere emozioni. E se noi
le proviamo, queste passeranno al di là dello
schermo. Ecco che allora - dopo aver preso coscienza di tutto questo - abbiamo iniziato a occuparci di altri casi, che non fossero i semplici omicidi. Sempre avendo davanti a noi l’obiettivo di Piazza Fontana, in quanto evento
enorme per antonomasia. Perché enorme?
Non fu l’unica strage, non fu nemmeno la prima, nemmeno di un’idea di strategia della
tensione che venne sperimentata fin dai tempi
di Portella della Ginestra. Però divenne un
simbolo, perché fu colpita Milano, perché era
il 1969, per tanti motivi. Per questo divenne
davvero simbolo della perdita d’innocenza
dell’Italia.
Abbiamo cominciato con altre cose. Il caso
Sindona, per esempio. Dopo il quale cominciarono ad arrivare moltissime email di persone, anche molto giovani, che volevano saperne di più. Capimmo che eravamo sulla strada
giusta. Poi ci occupammo del caso Calvi. Le
email continuavano ad arrivare, sempre di
più, la gente voleva sapere, era interessata, si
indignava. Trovammo il coraggio di affrontare Piazza Fontana. Abbiamo consultato un
mare di documenti, abbiamo intervistato moltissime persone, abbiamo visto e rivisto tutto il
repertorio possibile, tutte le immagini di archivio. Abbiamo «rubato» moltissimo a Giorgio
Boatti, per esempio. Nonostante tutto il nostro
lavoro, il risultato finale è necessariamente
incompleto. Ci sono un sacco di buchi. Ci sono un sacco di punti dove io mi fermo e dico
«Ma questa è un’altra storia». Già, per forza
devo dire così. Perché se la piazzo lì, un’altra
S tilos
Una pubblicazione
Domenico Sanfilippo Editore
ANDREA CARRARO
L’ITALIA DI PICCA
storia, non posso andare avanti, il discorso si
sposta troppo.
Infatti, un altro dei problemi cui andiamo incontro sono i collegamenti. Non si può parlare di Piazza Fontana come parleresti del caso
della signora uccisa in tale via, in tale giorno…
quello è un crimine che inizia un giorno ben
preciso e finisce con la fine dell’indagine. Qui
parliamo di dinamiche storiche molto complesse, per cui parlare della strage e dire la famosa frase «strategia della tensione» significa
dover aprire un capitolo di storia praticamente infinito. Noi abbiamo cercato di spezzettarlo, con dei rimandi che siano evidenti. «Attenzione, non è finita qua. Questa spiegazione che
vi diamo è solo un primo gradino. Ma voi seguite questa scia, leggete, informatevi, noi
purtroppo qui ci dobbiamo fermare». Altrimenti, se avessimo raccontato tutto, legando
tutto con dei fili, avremmo corso quel rischio
che è quello della dietrologia, dell’unica mente. Che non voglio dire sia un qualcosa di sbagliato, ma se si riunisce tutto, anche un evento enorme come Piazza Fontana si scioglie in
questo mare. Come se fosse tutto un qualcosa
di così insormontabile che si finisce per metterlo da parte e rimuoverlo.
Tante cose le abbiamo potute solo sfiorare. Ecco quindi che col senno di poi, se avessimo dato retta al luogo comune che vuole che sia
troppo difficile ricostruire, cercare di ricostruire qualcosa, cosa avremmo ottenuto?
Avremmo ceduto alla tentazione di lasciar
perdere, di dimenticare. I brutti ricordi si dimenticano. E avremmo fatto il gioco di chi
queste cose le ha rese complicate. Perché non
è che i fatti siano complicati intrinsecamente.
Lo sono diventati perché qualcuno lo ha reso
possibile. Sappiamo benissimo che per Piazza
Fontana c’è chi ha fatto uscire i principali testimoni e imputati dal Paese, ci sono stati altri
che hanno coperto, nascosto, trafugato. Molti
documenti sono spariti, altri marciscono per
mancanza di fondi. Noi dobbiamo ricordare,
riflettere. E la nostra speranza è che questa trasmissione, ora in dvd e in libro, possa servire
a questo.
Per quanto riguarda la costruzione delle puntate, noi abbiamo un metodo ormai collaudato. Prima viene preparato, da uno dei nostri
giornalisti, una specie di dossier. Su questo
dossier ci mettiamo tutti assieme a studiare,
cominciamo a pensare su chi rivolgere l’attenzione. Dopodiché facciamo un elenco di persone da intervistare, le sentiamo una prima
volta e poi a volte anche una seconda. Contemporaneamente c’è la raccolta di tutti i materiali cartacei, che arrivano a me. Poi raccogliamo il materiale video. La Rai ha un archivio enorme, una vera e propria memoria storica. Per Piazza Fontana mi sono arrivate qualcosa come cinquanta videocassette. Poi ci sono i libri da leggere. Dopo questo lavoro enorme, facciamo un altro incontro tutti assieme. Si
media, tra come io vorrei raccontare la storia e
come invece i miei collaboratori ritengono
giusto che venga raccontata. Come tempi, i nostri casi storici mediamente richiedono un mese di lavoro; Piazza Fontana ne ha richiesti
due. Possono sembrare pochi, ma non lo sono.
Anche perché i tempi televisivi hanno le loro
leggi, così come i tempi editoriali. Non è che
puoi impiegare cinquant’anni a scrivere un
libro, arriva il momento in cui lo devi consegnare. E lo stesso vale per le trasmissioni.
Quando si comincia ad avere la data dello
studio, tutto quello che non è ancora stato fatto non si può più fare. Dopodichè, in occasione del libro e del dvd che siamo qui a presentare, io ho voluto rivedere il tutto, rivedere il te-
Direttore responsabile
Mario Ciancio Sanfilippo
Coordinatore
Gianni Bonina
Anno IX, n. 8
Martedì 17 aprile 2007
Registrazione Tribunale
di Catania n. 11/99 del 24/4/99
Spedizione in Abb. Post.
Art. 2 comma 20b legge 662/96
Stampa E.TI.S. 2000 S.p.A.
Catania
sto, aggiungere i materiali… parlo del cartaceo
naturalmente, perché ovviamente la puntata
non potevo rigirarla.
Un altro problema che riguarda queste puntate, è che ci sono un sacco di cose che non si
possono dire. È anche giusto, perché se non si
hanno le prove per dire qualcosa, non la si può
dire. Però, come dicevo prima, storicamente
potrebbero essere dette. E spesso veniamo
rimproverati dai nostri telespettatori, che ci
scrivono dicendo «Perché non avete detto
questa cosa? Si sa che è così». Certo, si sa, ma
in televisione non si può dire. Se no prenderemmo le querele; personalmente, mi scoccerebbe ma potrei anche essere così coraggioso
da prendermela, la querela. Ma è la televisione che non me lo lascerebbe fare; non le vogliono, le querele di un certo tipo. E allora il
problema dei misteri italiani è questo. Che
poi, qui devo aprire una parentesi. Ogni volta
che parlo in pubblico di «misteri» e c’è assieme a me Paolo Bolognesi, che è il presidente
dell’associazione «Vittime del 2 Agosto», ecco che lui mi sgrida. E ha ragione: questi non
sono misteri, sono segreti.
Mistero è una parola che vale per quelle cose
che non puoi conoscere se non con un atto di
fede. I segreti sono quelle cose che si potrebbero sapere, se solo si riuscisse a trovare quella carta in cui c’è scritto. Queste cose, c’è
qualcuno che le sa. Ma quando ci occupiamo
di tutto ciò, ci si trova davanti a un intrico tremendo. Quindi, un sacco di persone che politicamente considero cattive, moralmente considero cattive, non posso chiamarle «cattive»,
perché non sono mai state condannate. Questa
è un’altra difficoltà di cui tenere conto nel fare queste trasmissioni. Ci sono moltissime
persone che non ho nominato perché se l’avessi fatto avrei dovuto specificare eccessivamente il loro percorso giudiziario. Alcune cose però ci sono, le sappiamo. Ci furono, per
esempio, dei poliziotti che la videro giusta fin
dall’inizio. Il commissairo Iuliano, un bravo
poliziotto che stava a Padova e che intuisce fin
dall’inizio come sono andate le cose. Però poi
si scontra con un sistema che è molto più forte di lui ed è costretto ad arrendersi.
Vedete, è storicamente e giudiziariamente stabilito che i cattivi, in questo caso, sono parte
della cellula veneta di Ordine Nuovo. Sappiamo che tra i cattivi ci sono persone dei servizi
segreti italiani che hanno depistato. Sappiamo
che almeno a livello morale i cattivi sono anche parte dei servizi segreti americani che
hanno saputo - dopo che era successo - qualcosa che non ci hanno detto. Queste sono tutte cose che posso dire senza timore di querele,
perché appartengono a sentenze passate in
giudicato. Abbiamo anche alcuni nomi, perché
la sentenza dice che Freda e Ventura sono responsabili della strage, anche se non possono
essere processati. Quindi, c’è gente di cui io ho
potuto parlare; c’è gente alla quale ho potuto
solo fare accenno. C’è gente che non ho potuto nemmeno nominare. Giusto così, perché i
processi sono andati come sono andati; mi
sarebbe piaciuto parlarne di più, ma anche
questa, se vogliamo, è un’altra storia. Ci sono
poi delle altre cose da dire. I milanesi parteciparono in centomila ai funerali delle vittime
della strage. E io sono fermamente convinto
che quelle facce arrabbiate furono il primo
passo di una presa di coscienza da parte della
gente. Se dopo Piazza Fontana non sono avvenute altre cose tremende che le persone che
hanno messo la bomba si auguravano che succedessero, è stato anche merito di quelle facce.
Che hanno fatto capire a qualcuno che la popolazione non ci stava.
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Aurelio Picca è un bravo scrittore e poeta
di questi nostri anni. Lo seguo con interesse dai suoi esordi, che risalgono al 1990,
quando pubblicò in una collana di Gremese diretta da Enzo Siciliano denominata
Gli spilli". Quel suo primo libro - che si
chiamava La schiuma - era una raccolta di
racconti, ma erano racconti di un poeta. La
poesia e la prosa vi convivevano, sfumavano una nell’altra, sembravano combinarsi in un processo osmotico. Poi Picca
ha scritto romanzi, che però non erano mai
romanzi in senso classico.
Quest’ultimo libro che ho per le mani, L’Italia è morta, io sono l’Italia (Edizioni
L’Obliquo), consegnatomi personalmente dall’autore, è invece un poemetto che
va verso la prosa. Il libretto, assai ben
confezionato, è corredato da 14 immagini-istantanee di Giovanni Frangi che viene anche citato in un verso. Il poemetto di
Picca ha un contenuto civile. I primi nomi
che vengono a mente - leggiamo sul sito
della rivista "Omero" - sono il Pasolini
delle Ceneri di Gramsci e Malaparte. Il
tono del poeta è astioso, indignato, come
se sentisse su di sé il carico di un qualche
abissale tradimento (parola che ricorre
spesso nell’opera): «Io anni fa andavo in
gita a Salò/mentre il mondo se la spassava a Positano a cuccia nella canadese o a
New York/e poi sono tornato e ritornato
per mill’anni/a respirare il lutto dell’Italia». Un paio di versi ancora e Picca ci assicura: «Io che non sono fascista ho pianto amici e nemici». Ma il lettore, pur incantato dai versi, resta interdetto. Perché
scegliere proprio Salò per iniziare il suo
poema sull’Italia? Sfogliamo altre pagine
e troviamo versi pulitissimi che additano
allo sfacelo morale del Belpaese, dell’Italia «ingabbiata nel Maggioritario / o nel
prossimo rivitalizzato Proporzionale».
«Oggi che l’Italia è morta io mi sento
dio» pare tuonare la voce del poeta. Ancora oltre ci imbattiamo in agghiaccianti
«ventri sgualciti» di bambini. Ma quando
il poema civile sfuma nel libello anarchico: «intorno agli ospedali e ai carcerati / e
sputerò al volo sulle porte dei tribunali /
perché la legge è quella della libertà e
della rivolta», cominci a vederci più chiaro. L’anarchismo ribelle e vitalistico che
marca queste pagine potrebbe sconfinare
in qualche mito superomista, ma altrove
sono invece i bambini malati di cancro
dell’ospedale Bambin Gesù a ispirare il
poeta in una straziata sequenza, che si
conclude con un verso poco ispirato: «dinanzi ai tramonti scocciati come latta».
Ma è un caso isolato. Il poemetto civile di
Picca ha «ritmo» e «visione», incalza ancora con immagini virate a lutto: «o sono
le foto dell’Obelisco del Duce / che scende fino al Foro Italico per la gloria / delle
Ali soffocate nel piccolo sangue nostro…» Certo il mito fascista è dietro l’angolo, qualcuno potrà storcere il naso su
questi versi che prediligono di gran lunga
il lutto fascista rispetto a quello partigiano.
Ma è questione di stile, direbbe forse Picca, e avrebbe ragione. Altrove si indirizza
il fiele dell’indignazione sulla «prole di
veline sverginate nel Gran Galà di Miss
Italia» e qui ci trova più consentanei. Così come per «e i calendari di femmine
con ’e zinne fora, su cui nel tempo borgataro camionisti/e meccanici ci sborravano
santamente negli occhi/tra il grasso delle
officine o dentro i cessi…»
Altri luoghi simbolici di questo libro sono
il Sacrario militare di Redipuglia, la tomba di D’Annunzio, Venezia, Milano di
Testori, Roma, Napoli, Firenze… Insomma, un’autobiografia dell’Italia illuminata da una tensione ora epica ora lirica.
Nelle Ceneri Pasolini piangeva decisamente un’altra Italia, ma il sentimento di
nostalgia per un mondo premoderno e
«perduto» è simile.
Picca si definisce sacerdote antimodernista e guida macchine costose e sogna moto di grossa cilindrata sulle quali sfrecciare nei cimiteri e frattanto vede traditori in
agguato anche dietro la sagoma di Berlusconi: «Milano ha caseggiati tristissimi /
che chiamano loft, Milano costa cara / Milano ha Berlusconi che vede e provvede /
ma non è un uomo cattivo: / è uno di quegli italiani / che saranno epicamente traditi».
Piacerà senz’altro a Buttafuoco questo libriccino, che mostra come esistano poeti
e intellettuali di valore anche a destra. Ma
piace anche a noi, che pure siamo idealmente così distanti. Ci piace sentir parlare di patria e d’amore senza indulgere
mai alla retorica patriottica e sentimentale.
narratori
italiani
S C A F F A L E
PATRIZIADEBICKE VAN DER NOOT,
L’oro dei Medici, pp. 335, euro 16,60, Corbaccio, 2007
L’Italia è ormai in mano agli stranieri, ma la
sua splendida cultura si diffonde in tutta
l’Europa. Ma anche i banchieri italiani sono
tra i più potenti d’Europa e Firenze stessa è in
mano a una dinastia di banchieri, i Medici.
L’oro dei Medici fa gola a molti: ecco perché
corre pericolo di essere rapito il figlio del
granduca di Toscana Ferdinando I, vittima di
un complotto di spie, diplomatici e preti corrotti. Ma ne viene a conoscenza il fratellastro
di don Ferdinando, don Giovanni dei Medici, comandante della flotta granducale, nonché poeta, architetto e musicista. Dopo un’indagine personale sfiderà i mandanti affrontandoli in battaglia navale.
MARCELLO MONTALDO, Marietta,
pp. 98, euro 14, Chronos, 2006
Quasi una storia vera quella di Marietta, nel
senso che di donne come lei nei primi del
Novecento ce ne sono state tante e di storie
buie come la sua tantissime. Spinta dalla famiglia ad un matrimonio senza amore, Marietta trascina la sua vita, nello squallore della provincia del Nord; cerca di adattarsi ma
non ci riesce e così torna dai genitori, confidando in un futuro che non manterrà le sue
promesse. Storia minima di una donna che si
intreccia con gli avvenimenti a cavallo del
Novecento.
NANDO ROMANO, Himera, pp. 349,
Prohistoria, 2006
Scritto da Nando Romano, dialettologo foggiano che è stato dirigente scolastico in Argentina e opera per la diffusione della lingua
italiana presso il consolato generale di Rosario, questo romanzo racconta la storia di Salvo, nobile palermitano appassionato di antiquaria, che fa parte dell’Accademia dei Riaccesi e vive per due amori: la Wunderkammer
e la sua bella serva Luna. Siamo nella Sicilia
tra il 1672 e il 1676 e Salvo, consigliato da un
messinese, don Raimondo Marquett, si reca
a Buonfornello, sul sito di Himera, per incontrare un bandito e trovare, forse, la «truvatura».
RAFFAELLA BEDINI, Sei parte di me,
pp. 174, euro 8,90, Newton Compton, 2007
Protagonista di questo romanzo è una ragazza di una città del Nord. Giorni tutti uguali,
domeniche tutte uguali con la musica dello
stereo, serate al pub movimentate da qualche
rissa; un amore delicato per Deda, nato all’istante, che rompe l’apatia della provincia e
l’indifferenza per tutte le cose. Il linguaggio
è a volte diretto e colorato ma anche cupo
quando gioia e tristezza, amore ed odio, si
fondano insieme fino all’ultima pagina e tutto si spezza in un solo istante per il dolore.
L’autrice evidenzia il torpore dell’adolescenza, il malessere esistenziale tagliente che
rende il mondo circostante, così come è percepito, del tutto ostile.
MARCO BETTINI, Mai più la verità, pp.
393, euro 18,90, Piemme 2007
In una comunità di tossicodipendenti, chiamata «Mai Più», si suicida una ragazza davanti a molti testimoni mentre lo stesso responsabile della struttura, Ernesto Magnana,
provava a dissuaderla. Roberta Ceredi che lavora nella comunità informa il poliziotto
Mormino dei loschi metodi adottati nei confronti dei tossicodipendenti e con lui si trova
a intraprendere una storia d’amore. Mormino non ha prove e chiude il caso fino a quando si ha il ritrovamento di un cadavere nella
palude e ritorna a indagare sul caso e sulla
stessa comunità. Trova ostacoli nelle indagini per l’omertà opposta da tutti ma alla fine
riuscirà a giungere a una conclusione trovando le risposte proprio in quella palude.
S t los
VINCENZO RABITO . La sorprendente vicenda di un semianalfabeta che a
settant’anni ritiene di avere avuto una vita straordinaria e la scrive sin dall’inizio:
come può farlo un semianalfabeta. La sorprendente accoglienza di parte della critica
che grida al capolavoro e stabilisce di avere scoperto un autentico talento letterario
R e c e n s i o n i
N
FEDERICA DI LUCA
egli anni tra il 1969 e il
1975 un cantoniere siciliano si chiude nella propria stanza e, ingaggiando
una lotta contro il proprio
semianalfabetismo, digita su una vecchia Olivetti la propria autobiografia che è un fandango vertiginoso di errori di utte le specie: ortografici, grammaticali, sintattici. Vincenzo Rabito ha scritto 1027 pagine a interlinea zero
nel tentativo di riferire tutta la sua «molto maletratata e molto travagliata e molto desprezata» esistenza. Dopo la morte dell’autore l’opera è rimasta in un cassetto fino al 1999
quando il figlio Giovanni l’ha inviata all’Archivio diaristico nazionale del Pieve di Santo
Stefano. Nel 2000 ha vinto il «Premio PieveBanca Toscana» per memorie e epistolari
inediti. Pubblicato in volume dalla Einaudi il
testo di Rabito diviene presto un caso letterario, montato più da alcuni critici che dal pubblico: Terra matta desta l’attenzione di quella critica che si lascia entusiasmare più dal linguaggio che dalla letterarietà. Il linguaggio
aspro, denso di sicilianismi, esprime, infatti,
l’oralità propria di questa scrittura. Vincenzo
Consolo parla di «documento straordinario»,
giudizio incoraggiante da parte dello scrittore che definisce se stesso «un archeologo
della parola». Terra matta è la prova ulteriore del trionfo del vernacolo siciliano in ambito letterario: il vigore espressivo del dialetto
siciliano, patrimonio culturale dell’isola, sulla quale fiorì, presso la corte di Federico II, il
volgare illustre. Si badi che Vincenzo Rabito
non indulge in velleità letterarie: l’ex ragazzo
del ’99 asseconda il desiderio di raccontare,
con semplicità, le vicende di chi tutta la vita
ha dovuto lottare per emanciparsi dalla miseria, salvo poi trovarsi «come la tartaruca, che
stava arrevanto al traguardo e all’ ultimo scalone cascavo».
Le vicende del protagonista si intrecciano
dunque con i principali avvenimenti storici
del Novecento: molteplici le peripezie, gli
espedienti escogitati da Rabito per salvarsi
dal mattatoio della Prima e poi della Seconda
guerra mondiale. Sempre scettico, disincantato, dopo la vittoria contro gli Austriaci, anno-
L’uomo che scrisse
la vita contromano
ta: «Abbiamo vinto la guerra ma abbiamo
perso il manciare!» Con altrettanto cinismo
vivrà il fascismo e come molti, negli anni
Trenta, cercherà fortuna in Germania, sino a
quando, a causa delle atrocità del nazismo,
farà ritorno a Chiaromonte Gulfi come fatto-
IL LIBRO
VINCENZO RABITO
"Terra matta"
pp. 411, euro 18,50
Einaudi, 2007
Dalla Prima guerra
mondiale alla terza età
La vita di un contadino siciliano negli
anni dalla Prima guerra mondiale fino
alla terza età scritta come può farlo un
semianalfabeta.
re di un mulino districandosi fra «bricanti e carabinieri». Il protagonista prende parte alla corruzione politica del fascismo, fino a inseguire
«in uno miserabile diserto» il sogno del grande
impero coloniale, quindi «impriaco di nobiltà»
tenta la scalata sociale per mezzo di un matrimonio combinato, salvo poi trovarsi con la
«querra in casa». Infine godrà del benessere
economico degli anni Sessanta, «la bella ebica»
nella quale ha allevato i suoi tre figli.
Umanissimo, vitale, il libro di Rabito dipinge
un affresco denso della Sicilia. Nella prospettiva originale attraverso cui l’autore restituisce
mezzo secolo di storia d’Italia, è imprescindibile da un’analisi antropologica del Meridione. La
povertà cronica delle campagne del Mezzogiorno, la presenza di forze di lavoro eccedenti le povere risorse locali, si accompagnano a
una civiltà contadina che solo nell’esercizio
del ragionamento individua la risorsa necessaria alla sopravvivenza. Terra matta documenta
così lo spirito d’iniziativa, il coraggio quotidiano, la tenacia di molti siciliani che, attingendo
a una cultura contadina millenaria, credono
nella dignità del lavoro. I tentativi, certo, disperati adottati da Rabito per sollevarsi dalla povertà, i numerosi espedienti concepiti per avanzare socialmente, non sono estranei alla conflittualità di una terra, dove, fin dagli inizi del Novecento, le agitazioni sociali furono represse
con metodi di intervento brutale e l’immigrazione venne comunque favorita per ridurre la
pressione sociale e demografica. Il ricorso costante all’espediente scandisce dunque l’esistenza di una generazione che, vissuta fra le due
guerre, ha prima sacrificato la giovinezza «a
tuorno a tuorno del Piave» e poi ha avvilito la
ragione in favore di astratti miti nazionalistici.
Terra matta testimonia, in definitiva, l’irruzione della storia in un mondo ancora legato a una
visione della vita sostanzialmente tradizionale
e racconta gli effetti del progresso su esistenze
da sempre, scandite dal ritorno ciclico delle
stagioni.
SECONDA LETTURA
Ma questa smania di raccontare è la stessa della tradizione orale
Di pazzesco c’è solo il linguaggio, un dialetto contadino che vorrebbe italianizzarsi e che fa venire gli strizzoni per la pena di immaginare l’autore sforzarsi di esprimersi in una lingua che praticamente
sconosce. Per il resto Rabito nulla dice di nuovo rispetto alla tradizione orale siciliana. Chi ha mai ascoltato un cantastorie o un contastorie (da Busacca a Bella a Santangelo a Strano a Garofalo a Trincale...) altro non risente nel profluvio di Rabito che la pronuncia di
una genia, tutta siciliana, di cantori e cuntisti che si sono messi in
piazza per raccontare: con la differenza che Rabito non ha voluto
narrare fatti altrui, veri o inventati, ma i propri, non esitando a scrivere in un italiano di sua spregiudicata fattura che può piacere a chi
ami ancora il pittoresque siciliano ma che nasce in realtà dal chiaro
proposito di «parlare» in pubblico. Ogni siciliano ignorante che si rivolge infatti ad estranei lo fa sempre in italiano. Ancor più se deve
farlo per iscritto.
Il risultato è un faldone di memorie sostenuto adesso da un titolo dove l’aggettivo «matta», sconosciuto alla koiné siciliana, specifica un
sostantivo del tutto estraneo al contenuto del libro, il quale non tratta di una terra quanto di una vita, sicché il titolo corretto avrebbe dovuto essere "Vita pazza". Ma l’abbiamo detto: la vita di Rabito non
ha nulla di eccentrico o di straordinario perché è stata del tutto speculare a migliaia di altre in una Sicilia forziere di memoriali, tutti in
attesa di figli entusiasti disposti a farli pervenire a concorsi, Archi-
pagina
Nella foto Vincenzo Rabito, del quale Einaudi ha pubblicato
Terra matta
vi ed editori in cerca di bibelots nuovo conio: non c’è stato infatti un
reduce che non abbia in Sicilia scritto o raccontato de visu le sue memorie assecondando quella «smania di raccontare» che Calvino metteva in capo all’istanza neorealistica, una smania che proprio nella
provincia di Ragusa, quella di Rabito, ha avuto largo seguito ingegnandosi in autori come Raffaele Poidomani, Nunzio Di Giacomo,
Maria Occhipinti, Salvatore Fiume e - con ben diversi accenti - nello stesso Bufalino. Non è però la stessa smania che percorre come
una febbre l’Italia degli stessi decenni, perché in Sicilia si è andata
precisando in una voce tutta esterna, echeggiata nelle piazze, nei circoli, nei crocicchi e nei bar: quella degli anziani pronti e lesti a raccontarsi, con lo stesso stile, la stessa intonazione e gli stessi argomenti che Rabito ha utilizzato per scrivere anziché esibire oralmente. Uomo timido e schivo, Rabito frequentava poco la piazza di Chiaramonte e unica sua e rada meta pubblica era il circolo operaio, dove
però si teneva alquanto discosto. Se avesse avuto un altro carattere,
vantando il temperamento espansivo e gioviale di tanti altri reduci,
come lui protagonisti delle stesse res gestae, avrebbe versato il grumo del suo malanimo e la piena dei suoi settant’anni ritenuti traboccanti accrescendo a una cantoniera la farragine di cunti dei tanti altri nonni tornati dalla guerra con una vita narrabile; e non avrebbe
avuto motivo di placare la sua smania scrivendola.
Gianni Bonina
V
3
O
C
I
PREMIO DESSÌ
NARRATIVA E POESIA
XXII EDIZIONE
La Fondazione Dessì e il Comune di Villacidro, col patrocinio del Consiglio regionale della Sardegna, hanno promosso il concorso letterario «Giuseppe Dessì». Il Premio
si articola nelle sezioni di narrativa, poesia
e premio speciale della giuria. Il Premio è
dotato di 5 mila euro per ciascuna sezione.
Verrà inoltre assegnato un premio 1.500
euro netti a ciascun finalista delle sezioni
narrativa e poesia. I volumi di narrativa e di
poesia devono essere spediti, in numero di
14 copie, direttamente alla segreteria del
premio entro e non oltre il 31 maggio 2007:
Fondazione Giuseppe Dessì via Roma 65 09039 - Villacidro (Ca) tel. 070.9314387.
www.fondazionedessi.it
E-mail:
[email protected] ANONIMA SCRITTORI
RACCONTI IN PILLOLE
DI GENERE BELLICO
Nel quadro del progetto «Modica Quantità» dell’associazione Anonima Scrittori,
sono richiesti racconti di genere che non devono superare le 2500 battute. Per il prossimo appunatmento bimestrale è il turno dei
racconti di guerra: «Pillole Mimetiche» da
inviare alla casella [email protected] entro il 31 maggio 2007. Il bando su
http://www.anonimascrittori.it/modica/pros
sima.php. Chi vuole leggere le Pillole sui
generi già affrontati invece può iniziare da
questa pagina: http://www.anonimascrittori.it/modica/index.php
PREMIO GRINZANE
NASCE A NEW YORK
IL GRINZANE-MASTERS AWARD
Il Premio Grinzane Cavour istituisce un
nuovo premio, il "Grinzane-Masters
Award", dedicato di anno in anno a un maestro indiscusso della letteratura mondiale.
Per il 2007 il vincitore è Philip Roth, che ha
ricevuto il premio alla Italian Academy
presso la Columbia University di New York,
come riconoscimento per la carriera. A lui
spetta inoltre il merito di aver contribuito a
diffondere negli Stati Uniti l’opera di Primo
Levi. Proprio alla memoria dello scrittore
sopravvissuto ad Auschwitz, è stata dedicata la prima edizione del «Grinzane-Masters
Award».
FOGGIA
SEI AUTORI
PER SEI LIBRI
asdf asdf «Libri a trazione anteriore» è un
progetto di BoooksBrothers e della Biblioteca provinciale di Foggia «La Magna Capitana». Come per la prima edizione dell’anno scorso, la manifestazione si sostanzia in
un ciclo di incontri con autori italiani. Sei
autori e sei titoli. Gli autori e i sostenitori
della scorsa edizione saranno presenti ad
ogni incontro, accompagneranno e introdurranno i nuovi autori e ogni nuovo libro.
Gli autori di quest’anno sono Carlo D’Amicis (Escluso il cane, minimum fax), Ottavio
Cappellani (Sicilian Tragedi, Mondadori),
Mariolina Venezia (Mille anni che sto qui,
Einaudi), Sergio Claudio Perroni (Non muore nessuno, Bompiani) e Elisabetta Liguori
(Il correttore, peQuod). Il 20 aprile sarà
presentato D’Amicis da Nicola Lagioia, il
27 Ottaviani da Gaetano Cappelli e Enzo
Verrengia, il 4 maggio Venezia da Diego De
Silva, l’11 maggio Perroni da Oscar Iarussi,
il 18 maggio Liguori da Mario Desiati. La
serata finale di premazione è fissata per il 20
ottobre.
narratori
italiani
4
I n t e r v i s t e
E’
GIOVANNI CHOUKHADARIAN
forse curioso che sia un
editore del Triveneto, come Meridiano Zero, a pubblicare alcuni fra i più brillanti noiristi del ricco Meridione d’Italia; curioso e, al contempo, non
poi così rilevante. In ogni caso, l’anno scorso
toccò al giovanissimo Angelo Petrella, quest’anno è la volta dell’appena meno giovane
Salvio Formisano che, nell’Accordatore di
destini presenta una figura del tutto nuova
nel panorama letterario italiano recente. Qui si
narra infatti di un uomo all’apparenza dinsincantato fino al cinismo più bieco, che accetta
di lavorare per un’agenzia d’investigazioni
private nella quale subito eccelle per precisione e efficienza dei suoi risultati. Il fatto è che
l’uomo non è cinico per nulla e s’accorge
presto del potere che ha, annullando magari
una prova fra tante di un tradimento (ma quella decisiva!) di cambiare le vite di persone cui,
in corso d’indagine, s’è a vario titolo affezionato.
L’accordatore di destini di Formisano è in
realtà uomo di grandi e profondi sentimenti,
amante delle donne e dell’amore per esse.
Coprotagonista di quest’esordio, scritto con
lingua vivace e mai corriva, piena di raffinate citazioni musicali, è la città di Napoli. Formisano ama la sua città e la descrive fuori da
ogni convenzione o campanilismo. Costruito
con sapienza narrativa non comune, il romanzo ha un epilogo sommesso e a un tempo fragoroso. Sospeso fra arroganza e tenerezza,
questo Accordatore di destini ha il fascino di
una musica in parte nota, comunque sempre
nuova. Fosse una canzone, non sarebbe una
delle molte di Paolo Conte (ma non solo lui)
citate nel testo, sì piuttosto uno standard americano: cioè "All the things you are"; e se fosse uno sportivo, l’uomo di Formisano - e in
reltà Formisano stesso - sarebbe un Diego
Armando Maradona dei sentimenti, dotato di
quel tocco in più che contraddistingue i fuoriclasse. Del suo libro e di sé Salvio Formisano
ha parlato con Stilos.
Per accordare gli altrui destini, soprattutto sentimentali, ci vuole più cinismo, disincanto, bontà d’animo o sentimentalismo
d’antan? Di che si nutre il tuo accordatore?
Gli altrui destini non si possono accordare. Il
protagonista del mio libro si dà quest’incarico, perché perde un po’ per volta il senno, il
contatto con la realtà. Una condizione in cui
molti, sempre più spesso, vengono a trovarsi.
La cronaca ce ne dà continui esempi: vicini di
casa impazziti, senatori ottusi al punto da farci rischiare altri cinque o dieci anni di purghe
a base di estratti di biscione e via dicendo. In
tutti noi c’è un gap tra la realtà e la percezione che abbiamo di essa. In qualche caso il gap
diventa talmente grande che porta alla follia.
È il caso dell’investigatore che, senza rendersi conto dell’assurdità del suo intento, decide
di diventare un accordatore di destini. Da
sempre grande camminatore, osservatore, addirittura studioso dei comportamenti altrui,
continua a farlo in una veste nuova, quella di
investigatore privato, e viene sopraffatto dallo squallore, dal disfacimento di vite, da donne e uomini disgustosi. Rispondendo al primo
punto della domanda, dico che per mettersi in
testa di fare l’accordatore di destini bisogna
essere folli e buoni d’animo. Di cosa si nutre
il mio accordatore? Soprattutto di una incrollabile convinzione di essere nel giusto e di dover quindi smettere di riflettere, di assistere
passivamente, ma di agire, con coraggio e
coerenza. Le conclusioni cui è giunto dopo
anni di riflessioni, lui non lo può capire, come
non lo capiscono i folli, sono però viziate da
una evidente, ma ben dissimulata, perdita di
contatto con la realtà, che lo fa sentire vicino
a Dio e quindi in diritto di togliere la vita ad un
uomo e una donna «marciti», per salvarne un
altro, buono e quasi artista.
Come mai un personaggio del genere parla tanto con parole, nemmeno troppo note,
R e c e n s i o n i
N
SIMONE GAMBACORTA
S t los
Nella foto Salvo Formisano, autore per Meridiano Zero di
L’accordatore di destini
IL LIBRO
Ossigeno
pagina
SALVO FORMISANO
"L’accordatore di destini"
pp. 154, euro 9
Meridiano Zero, 2007
BENEDETTA CENTOVALLI
Investigatore privato
in veste di riparatore
LA LIBRERIA IDEALE
Un investigatore privato, incaricato di
spiare persone la cui vita tralignata interessa ai committenti, si interessa fin
troppo al loro destino fino a impietosirsene: e trova come correggerlo presentando rapporti in positivo e dunque salvando le persone nel mirino di
conseguenze tutte a loro danno. L’investigatore interviene nell’esistenza
del prossimo e la accorda a un ideale
di armonia. Ma così facendo si ritrova
a un punto che è ormai senza più ritorno.
SALVO FORMISANO . «Il mio accordatore si nutre di una incrollabile convinzione di essere
nel giusto e di dover quindi smettere di riflettere, di assistere passivamente, ma di agire, con
coraggio e coerenza. Le conclusioni cui è giunto dopo anni di riflessioni sono viziate da una
evidente, ma ben dissimulata, perdita di contatto con la realtà, che lo fa sentire vicino a Dio»
È arrivato un angelo a Napoli
che ripara le vite danneggiate
della canzone d’autore italiana? Cosa c’entra, per esempio, Paolo Conte con Napoli?
Perché l’accordatore è un uomo colto, che
ama quindi Paolo Conte, il quale, per me,
non è più solo un grande cantautore, un artista
immenso, è il depositario della verità. C’entra
con Napoli intanto perché c’entra con me,
che sono napoletano e ho passato in sua compagnia, anche se lui non lo sa, tantissimo tempo negli ultimi trent’anni. Poi ci sono almeno
un paio di canzoni in cui parla, anche se di
sfuggita, di Napoli, e ancora due o tre canzoni in cui si diverte e ci diverte a cantare con un
accento napoletano, quasi buono. L’idea comunque di far rispondere l’accordatore alla
fioraia con parole di Paolo Conte mi è venuta pensando ad un vecchio amico che anni fa
ad una festa, a Londra, rispose a tutti, per
l’intera serata, solo con parole e frasi di canzoni di Frank Sinatra. Le conosceva tutte.
Cosa pensa l’accordatore delle donne? E
che ne pensi tu?
Evito risposte banali e ti rispondo ancora con
Paolo Conte: «Le donne odiano il Jazz, non si
capisce il motivo. Le donne si sa, a volte sono
scontrose o forse han voglia di fare la pipì. Ne
abbiam viste tante di regine, passar sull’altro
marciapiede, al sole e noi all’ombra. Ombra e
sole, è sempre così». E poi ti rispondo con parole mie: le amo. Mi piace guardarle, tutto mi
attrae della femminilità. Non solo, ma anche,
quello che piace a tutti gli uomini. Mi piace
anche, quando è bello, il loro modo di camminare, di muoversi, la voce. Quando sono intelligenti, simpatiche e anche belle mi innamoro.
Non voglio, naturalmente, sproloquiare sul
nuovo ruolo delle donne nella società, dell’ex
sesso debole che ora è diventato forte e gli uomini, che, poverini, sono smarriti di fronte a
queste nuove compagne così cresciute, forti,
indipendenti. Si è già scritto e detto di tutto su
questo. Mi limito a dire che se è vero che ci
sono tanti uomini, che, poverini, fanno fatica
a confrontarsi con queste splendide creature
sempre più in crescita, tanto meglio per quelli come me che non hanno di questi problemi;
c’è meno concorrenza. No, veramente, è un
problema serio per le donne quello della mancanza di uomini interessanti. Ho molte amiche
in gamba, di tutte le età, che passano periodi
lunghissimi da sole, perché il mercato offre loro poco o niente di interessante.
Fai il soggettista per il cinema. Questo libro
è stato pensato anche in quella direzione o
no? In ambedue i casi, perché?
In realtà c’è stato un errore nella quarta di copertina. Io non ho firmato diversi soggetti e
sceneggiature, com’è scritto, ma un solo soggetto e una sceneggiatura: Vesuvio, che rileggendo adesso, dopo un paio d’anni mi pare abbia bisogno di molto lavoro per renderla compiuta. Quando feci notare all’editore l’errore,
mi disse che era troppo tardi, non si poteva
correggere perché il libro era già in stampa.
Mi arrabbiai e lui mi rispose: tutti dicono un
po’ di balle e proprio tu ma che napoletano
sei? Sono un napoletano un po’ atipico, a cui
non piace dire palle. Marco Vicentini, lo disse solo per fare una battuta, invece altri dicono troppe cazzate su Napoli e i napoletani. Al
telegiornale si parla solo di certi napoletani,
una minoranza, seppur molto numerosa. Una
realtà, una tragedia grande, grandissima, che
è sotto gli occhi di tutti e su cui non voglio assolutamente glissare, anzi dico che bisognerebbe combattere in tutti i modi, ma proprio
tutti. Ma non si può offendere, come ha fatto
indegnamente Giorgio Bocca da Fabio Fazio,
una cittadinanza intera, che è fatta, voglio ribadirlo, soprattutto di gente meravigliosa, che
non ha eguali in quanto a creatività, voglia di
lavorare, e bene, e generosità. Il libro non è
stato pensato per il cinema, anche se riconosco
c’è una bella idea per un film. Anzi più di un
idea, c’è già quasi un impianto, una struttura
su cui lavorare per una buona sceneggiatura.
Perché? Perché ho visto più film che letto libri, e ancora adesso amo più il cinema che la
letteratura. Nell’accordatore ho cercato di raccontare per immagini, avvantaggiandomi della possibilità di aggiungere molte notazioni
psicologiche che in sceneggiatura invece non
si scrivono.
A chi dei molti personaggi che metti in scena ti senti più vicino? E di quale delle molte donne citate t’inanmoreresti?
All’accordatore naturalmente. Non sono folle e soprattutto non ho mai ucciso nessuno, ne
pensato di farlo. Ma un po’ della mia megalomania, che con la maturità sono quasi riuscito a cancellare, è venuta fuori in questo breve
romanzo. Di Gina, la fioraia, potrei innamorarmi, o avere con lei almeno una storia. C’è
tanto bisogno di donne semplici, amorevoli,
premurose. Queste qualità non escludono necessariamente quelle di donna intelligente,
colta, di buon gusto, a me più affine.
Di che parlerà il tuo secondo romanzo?
L’ho già scritto. Sto aspettando la fine del
lancio de L’accordatore di destini per farlo
leggere al mio editore, Marco Vicentini e alla
editor Giulia Belloni. Parla di uno che suona
la tromba ed è ancora più autobiografico, anche se purtroppo, pur amando molto la musica, non so suonare nemmeno uno strumento.
Ci sono autori italiani - ma anche stranieri van bene - che ti siano piaciuti negli ultimi, diciamo, cinque anni?
Qualche buon libro, ma nessuno moltissimo
negli ultimi cinque anni, forse René Frégni de
La citta dell’oblio, anch’esso pubblicato da
Meridiano Zero. Mi nutro ancora, soprattutto
di Simenon.
Che cosa non sopporta un amante feroce
della vita come l’accordatore di destini? E
che cosa non tolleri tu?
Lui non sopporta l’infamia, la meschinità, la
mancanza di coraggio e di lealtà e nemmeno
io le tollero. Ma per dire quello che mi fa veramente paura, citerò un napoletano immenso,
Eduardo: a mme me fa paura sulamente ’o
fesso.
GIOVANNI D’ALESSANDRO. Come nasce uno stigma d’infamia
Un amore censurato dalla realtà
ei suoi precedenti romanzi Giovanni D’Alessandro si era mostrato incline ad esplorare il concetto di pietà. Il libro qualità che le consentono di andare avanti.
d’esordio s’intitolava Se un Dio pietoso, men- Tutto pare deciso e preordinato, senza possibitre il finale de I fuochi dei kelt conteneva uno lità di cambiamento. Fino a quando non arriva
struggimento lacerante, riassunto da una del- Helm, un austriaco venticinquenne in forza alle ultime frasi («Ti darà un solo colpo al cuo- la Wehrmacht, che dopo giochi di sguardi e
caute manovre riesce ad
re, perché tu non soffra»).
aprirle il cuore. Il loro rapLa puttana del tedesco
porto cresce piano, per acregistra un cambiamento
GIOVANNI
cumulo di gesti (parlano
di rotta più esplicitamenD’ALESSANDRO
te sentimentale. La prota"La puttana del tedesco" lingue diverse), di nascosto da tutti. È un amore
gonista del romanzo si
pp. 287, euro 17,50
impossibile, censurato in
chiama Ada, una giovane
Rizzoli, 2007
embrione dalla realtà. Epvedova madre di due fipure le cose proseguono,
gli. Siamo nel 1943
maturano e si dispongono
(D’Alessandro conferma
la propensione alla narrazione storica), in sino a creare un incastro irreversibile che porAbruzzo, nella Conca di Sulmona, con la guer- ta i due a nutrirsi l’una dell’altro.
ra ovunque. La vita di Ada procede tra mille Ada ed Helm si uniscono in una vicinanza che
difficoltà, a cominciare dalla paura di non po- è fuga e astrazione: dal contingente, dalla stoter sfamare i bambini: ma la donna ha una re- ria, dalla cronaca quotidiana di una guerra disistenza muta e pugnace e una grande dignità, ventata condizione esistenziale. Un corpo ne
riscatta un altro, reversibilità e reciprocità,
conquista di uno spazio ulteriore, di un’area
sospesa su una linea rigenerativa. I due si sottraggono al tempo storico e guadagnano un’esperienza totalizzante (l’osmosi e il cortocircuito) che li risarcisce dalla più cruda esperienza del mondo: il loro congiungimento elude
l’ordine palese delle cose e li situa in un altrove incantato, che acquisisce una sorta di venatura metafisica; o che, per altro verso, li rende
autori di un mondo possibile che innesca un
meccanismo narrativo grazie al quale raccontano se stessi e sviluppano quella che sarà la
loro storia.
Il congiungimento vuol però ribadire se stesso e si impone nella continuità di una relazione che è soprattutto scandalo: la piccola, stravolta comunità paesana non tarda infatti a
emettere una condanna; Ada, madre e vedova,
riceve lo stigma dell’infamia («la puttana del
tedesco») e affronta una guerra tutta privata,
dove la prepotenza dell’amore assorbe ogni
ipotesi di vergogna. Nel romanzo la psicologia
vive per affioramenti ed è rimessa principalmente alle domande che Ada rivolge a sé, e del
resto il campo dove si gioca la partita è quello
ambientale, dato dai contesti e dalle situazioni: La puttana del tedesco, allora, è soprattutto la storia di una ribellione alla colpa, a uno
stato di colpa indotto da un ambiente moralistico e ricattatorio. L’anatema, la lettera scarlatta fiaccano ma non vincono Ada, che rivendica il plurale che le appartiene con una personalissima forma di resistenza. La sincerità e la
consapevolezza del suo agire sono d’altronde
testimoniate dal rapporto ininterrotto con la figura del marito morto: Rino è un personaggio
invisibile, è il ricordo stratificato dai giorni e
dalle meditazioni; un’eco retroattiva alla quale Ada si rivolge di continuo, traendone una
forza motrice che rimette la vita in trazione e
che inocula il cromosoma della speranza.
Ho ritrovato un appunto in fondo all’agenda dell’anno scorso. Avevo deciso di prendere nota delle letture di un anno. Come
spesso accade mi sono fermata quasi subito. Forse mi sono distratta o come succede nei viaggi quando si parte con la valigia zeppa di libri per un soggiorno di pochi giorni, la lista non soddisfaceva appieno le mie aspettative di lettore esigente e
vorace.
Mi sognavo un’aliena ed ero semplicemente una lettrice. Bianciardi, La vita
agra (riletto), Vorpsi, Il paese dove non si
muore mai, Timm, Come mio fratello,
Murasaki, Storia di Genji, Katayama, Gridare amore dal centro del mondo, Osamu
Dazai, Il sole si spegne, Cancogni, Azorin
e Mirò…
Un tempo frequentavo le biblioteche, oggi il lavoro mi costringe a letture rubate, e
la reperibilità dei testi diventa un elemento decisivo. Manlio Cancogni ad esempio
in libreria non si trova più, negli scaffali è
difficile scovare un suo libro, Azorin e
Mirò, un suo piccolo capolavoro è assente da qualche anno. E stiamo parlando di
un autore importante del Novecento italiano. Ma anche i testi nuovi spesso diventano invisibili dopo pochi mesi, e non importa quale sia l’editore, il meccanismo
della rotazione non guarda in faccia nessuno, macina e va.
Eppure quando si pensa alla libreria si
immagina uno spazio-tempo regolato da
due opposti meccanismi: la persistenza
della memoria e l’inevitabile aleatorietà e
selettività veloce del presente.
Da una parte la nascita crescita e conservazione del catalogo e dall’altra la gestione delle novità. La qualità di una libreria misurata nella capacità di difendere un
«proprio» catalogo e di selezionare le novità, nella responsabilità di questa selezione, come la qualità di un editore è affidata alla responsabilità della strategia e delle scelte. Perché in bilico sulla lama del
mercato ai librai di oggi vorremmo chiedere di abitare il nostro tempo con un
esercizio della memoria più creativo e
con qualche azzardo personale.
Edicola libreria biblioteca sono postazioni successive del rapporto tra parola scritta e storia, e la libreria nella sua posizione
da mediana è il centro propulsivo della
formazione della memoria, laddove si cominciano a depositare i primi sedimenti.
Quando in una libreria l’assortimento diminuisce e aumenta la rotazione il catalogo rischia di estinguersi a favore delle
novità di successo e tutti i testi a lento assorbimento vengono rapidamente espulsi
dagli scaffali. Con la varietà e la ricchezza della proposta viene meno la libertà di
scelta, viene minato il valore e il significato della lettura. Non è più possibile affidarsi a percorsi singoli di ricerca ma si rischia di venire incanalati e stritolati nella
gigantesca macchina del consenso.
Nella libreria come spazio-tempo è decisiva anche l’utilizzazione dello spazio, la
collocazione dei libri. Oggi la categorizzazione è lo strumento più diffuso per ordinare i libri sugli scaffali. Categorizzazione e ordine alfabetico. Nella categorizzazione è fondamentale il tasso di flessibilità, di duttilità del sistema che viene usato. L’agilità delle categorie consente un
utilizzo ampio, mentre la rigidità rischia di
espellere tutti i generi intermedi, è un genocidio di ciò che non è facilmente identificabile, di tutto quello che esce dai formati riconoscibili.
Naturalmente l’ordine alfabetico nelle categorie penalizza le collane e la forte personalità di case editrici che lavorano sull’identità. La praticità della ricerca di un titolo e di un autore azzera la riconoscibilità
di una sigla editoriale. Esattamente il contrario di quello che ad esempio avviene
nel mondo della moda. Che cosa succederebbe se trovassimo gli abiti ordinati per
tipo e non per firma? Se il marchio non
fosse garanzia di una linea di una tendenza e di una certa qualità?
Così mi sono frullate in testa le parole di
Gina Lagorio pronunciate in un suo ultimo intervento pubblico, «Malgrado tutto
non smetterò dal canto mio di tessere l’elogio della memoria. Per una specifica
essenziale ragione: un uomo non è un
fungo né un gatto. Ciò che lo fa uomo è la
coscienza di sé nel tempo e nello spazio in
cui il suo destino lo ha immesso». Quella
«coscienza di sé nel tempo e nello spazio»
ha a che vedere anche con la libreria e con
il nostro modo di interrogarla nell’epoca
che ci è dato da vivere.
narratori
italiani
S t los
Nella foto sopra Laura Facchi, autrice per Mondadori di Dietro
il tuo silenzo. In basso Dacia Mariani che ha pubblicato da
Mondadori Il gioco dell’universo
LAURA FACCHI . «In Italia non ci si uccide per una causa
I n t e r v i s t e
MARINA TOROSSI TEVINI
ilano. Un pullman della linea 14 salta in aria e una
donna apprende che suo
marito era tra i passeggeri.
Poi con orrore viene informata che è stato lui a far saltare il pullman, suicidandosi e uccidendo otto persone. Perché
l’ha fatto? La verità, tanto banale quanto sconvolgente, emerge dal lungo colloquio che la
donna, Monica, ha col magistrato che conduce l’inchiesta. Ci passa davanti agli occhi la
storia di due vite che si lacerano, si offendono,
si distruggono: ma lo fanno in silenzio, ciascuno tormentandosi la sua parte, finché l’evento
drammatico non rivela quello che loro sapevano, che non si erano mai detto. Ne viene fuori
un quadro fortemente veridico di un interno familiare del nostro oggi, raccontato con notevole maestria e acuta percezione psicologica.
Stilos ha intervistato l’autrice.
Appare chiaro che la prospettiva terroristica del suo racconto è, per così dire, un pretesto, e che a lei interessavano altre cose, appunto cosa ci può essere «dietro il silenzio»
di un uomo. Le chiedo tuttavia perché ha
scelto proprio questa dimensione.
È stata proprio quella dimensione a darmi l’idea di questo romanzo. Mi trovavo in Palestina e feci un’intervista alla madre di una ragazza morta facendosi saltare in aria in una piazza di Gerusalemme. Mi colpì l’orgoglio di
quella donna, il dolore che riusciva a mitigarsi grazie alla consapevolezza che sua figlia era
morta compiendo un atto eroico. In seguito a
quella intervista passai ore a parlare con un
amico di ciò che avevamo ascoltato chiedendomi cosa sarebbe accaduto da noi, nella nostra società di fronte a una tale mostruosità.
Monica e Marco sono nati così, trasferendo
quel gesto e svuotandolo del significato ideologico perché in Italia non ci si uccide per una
causa politica, lo si fa per sedare un dolore o
I n t e r v i s t e
L
MARINA TOROSSI TEVINI
a figura di Fosco Maraini, antropologo ed etnologo, riceve una definizione più nitida ne Il gioco dell’universo, che
contiene taccuini e brevi abbozzi narrativi raccolti e commentati dalla figlia Dacia Maraini.
Questi appunti vengono a delineare con precisione il ritratto di un cittadino del mondo,
spinto a incuriosirsi di ogni cosa e a mettersi a
confronto con civiltà lontane come quelle dell’Estremo Oriente.
Il libro è anche un colloquio - l’ultimo - tra una
figlia e un padre particolare, affettuoso ma
capace di rivendicare il suo diritto a una libertà
estrema, amato forse perché sempre in un suo
mondo impenetrabile anche ai suoi familiari
più stretti. «Di sé parlava poco in famiglia»,
scrive la figlia e indubbiamente quest’uomo
capace di sancire un accordo con la moglie che
consentiva ad entrambi una libertà assoluta
quanto ad esperienze e amori, quest’uomo
che lasciò la figlia di pochi mesi e la moglie
per partecipare a una spedizione nel Tibet,
quest’uomo «dalle 33 case», è una figura particolare e non facile, forse in parte sconosciuta ai suoi stessi familiari. Il viaggio era per lui
il momento fondamentale della vita, viaggio
che lo portava a confronto con mondi che lui
voleva conoscere da dentro, apprendendo con
grande velocità lingue anche straordinariamente difficili. Ma il viaggio diventava anche
occasione per entrare in contatto con parti
sconosciute di sé, per arricchire o mettere alla
prova il suo spirito. Sarà stato un padre ingombrante o un padre capace di dare agli altri la libertà che concedeva a se stesso? La figlia parla di un padre dolcissimo e di una persona
profondamente libera nell’animo e quindi non
portata a imporre condizionamenti agli altri. Il
assecondando un momento di totale follia e
depressione. Io ero interessata a Monica, a
chi resta, a chi deve subire le conseguenze di
un gesto tanto orribile e la presenza di Marco
nel romanzo viene sempre filtrata dalla sua
narrazione e dal suo ricordo.
Vorrei insistere su questo punto. Lei pensa
che dietro la scelta del kamikaze ci possano
essere anche silenzi dell’anima comunque
vissuti; o che certi silenzi dell’anima possano anche portare a scelte di nichilismo distruttivo?
Faccio fatica ad immaginare una persona soddisfatta, amata, felice e piena di progetti che un
giorno decida di mandare tutto a quel paese
per uccidersi e uccidere. Dietro la scelta di un
kamikaze penso debba esserci sempre un silenzio dell’anima o un grido di dolore dell’anima, c’è il malessere di una condizione sociale vissuta dal singolo o da un popolo, ci sono
convinzioni religiose, l’incapacità di sopportare oltre una condizione, ci sono ricatti, dolori,
follie… Il silenzio dell’anima, come lo chiama
lei, può anche convivere con una vita ordinaria e pacifica, non porta necessariamente a
compiere massacri, ma ci capita di leggere notizie di cronaca nelle quali è riportato l’orrore
di una follia omicida e la cosa più difficile è
andare a ricostruire cosa ha portato a tanto.
Leggendo il suo libro pensavo al significato
della verità come alètheia, disvelamento. Si
può dire che la condizione umana è nascosta da più veli che non si creda, e che c’è da
aver paura a toglierli, questi veli?
Sotto i veli si nascondono le nostre paure, le
fragilità, le insicurezze che non vogliamo mostrare agli altri per apparire come questa società ci vuole: forti, invincibili, coraggiosi e sicuri. È un mondo nel quale non sembra esserci spazio per le debolezze e così ci buttiamo
sopra un velo perché nessuno si accorga di loro. C’è chi riesce a mantenere un contatto
sempre aperto con la sua struttura fragile e chi
ci butta sopra del cemento per chiudere per
sempre i conti con quella fastidiosa presenza.
In quei casi si crea un vuoto e sotto i veli cominciano a crescere piccole nevrosi che il più
LAURA FACCHI
"Dietro il tuo silenzio"
pp. 228, euro 17
Mondadori, 2007
La morte può essere
anche una vendetta
Al culmine di un matrimonio che ha
esaurito ogni energia, Marco si trasforma in kamikaze e compie una
strage. La moglie Monica si trova a
dover rimeditare le cause del gesto e
avviare, al tavolo del giudice cui parla
e cui si confida, un processo di analisi
che non riguarda soltanto suo marito
(che tradiva da tempo) ma anche la
trasformazione che ha riguardato se
stessa. La morte di Marco appare
sempre più una forma di vendetta per
punire la moglie messa di fronte a un
peso uguale a una condanna.
delle volte rimangono piccole, ma accade anche che crescano fino a esplodere, con tutto
quello che sta loro intorno.
Monica e Marco sono doppi tutti e due. Solo un trauma consente di discendere nela
loro interiorità. Lei ritiene sia possibile farlo anche senza che traumi travolgano la
normalità delle cose?
Quante coppie conosciamo che vivono insieme mantenendo mille segreti? E non si tratta di
enormità, è un segreto anche l’incapacità di
comunicare un disagio, un malessere legato allo stare insieme. Si sta zitti perché è più facile,
perché si ha paura di innescare discussioni o
semplicemente perché si è troppo stanchi per
dare un nome a quel disagio. Spesso sottovalutiamo l’impegno necessario per vivere insieme e lasciamo che il tempo, come un acido,
corrompa l’amore e la fiducia, ma io credo fortemente nella possibilità di evitare che questo
accada. Non è necessario un trauma, anche se
spesso è la molla che porta a una improvvisa
destabilizzazione con conseguente ricerca della stabilità perduta, basterebbe più attenzione
e la volontà di uscire dalle nostre certezze per
provare ad accogliere anche quelle di chi ci è
accanto.
Al primo incontro con Monica Marco dice
che saprebbe uccidere. Che vuol dire? Il kamikaze di poi era già in lui?
Quella frase torna alla mente di Monica dopo
molti anni e il ricordo non può non farla inorridire alla luce degli eventi del presente, ma la
follia di Marco è cresciuta e maturata negli anni, in silenzio. Il ragazzo che disse quella frase così ad effetto non era un potenziale kamikaze, ma un giovane già abitato da fantasmi
e frustrazioni che si sono ispessite con il passare del tempo. Monica rivive ogni istante del
suo matrimonio guardandolo sotto un’altra
luce, più analitica e attenta e anche quell’ammissione di Marco entra nel calderone del suo
bisogno di ritrovare in lui i semi della follia che
non era stata capace di individuare fino a quel
momento. Una frase che in qualsiasi altra relazione sarebbe passata nel dimenticatoio, in
quel caso si carica di significato e assume
un’importanza legata dalla contingenza. Ma io
non credo che il kamikaze fosse già in lui, c’erano tanti sentimenti contrastanti, c’era del
terreno fertile che aspettava di essere seminato, ma non era iscritto il suo tragico futuro in
quella prima sera.
Quell’aborto pesa nell’economia del racconto. Più del tradimento. Anche se nessuno pronuncia parole di biasimo, non sembra dubbio che Monica lo senta come una
colpa. Ha ucciso anche lei. È dunque anche
lei come Marco?
La colpa di Monica non è quella di aver ucciso, ma di essersi condannata alla solitudine
con quell’interruzione di gravidanza. Si accusa di non aver avuto il coraggio di scappar via
per crescere un figlio senza un padre, di aver
rinunciato alla sua maternità per paura di dover stravolgere la «serena» quotidiana certezza della sua vita. Quando tutto esplode e della sua vita rimane ben poco torna il pensiero
di quella rinuncia e la consapevolezza che
una scelta diversa avrebbe forse modificato il
corso della sua vita. Il massacro di Marco è
un’altra cosa.
Il tema di fondo del suo libro sembra essere la vergogna. Perché Monica prova vergogna? Per quello che ha fatto suo marito, per
quello che dovrà subire, o per quello che ha
fatto lei?
Monica si vergogna di non essere riuscita a capire. Si vergogna della sua cecità, dell’indifferenza con la quale guardava a suo marito, dell’egoismo che le impediva di interrompere un
matrimonio ormai distrutto e si vergogna del
senso di sollievo che le dà il suo essere sopravissuta. Una parte di lei si sente responsabile
per ciò che è accaduto ed essendo una donna
intelligente sa che tutto si sarebbe potuto evitare o per lo meno avrebbe potuto evitare lei di
trovarsi al centro di questa tragedia, andando
via e riconoscendo quel disamore che in lei
abitava da anni.
C’è un senso di attrazione in Monica nei
confronti di Angelo, il magistrato che la interroga. Perché?
È lo stesso magistrato a dare una risposta a
DACIA MARAINI. I dialoghi immaginari con Fosco
Padre e figlia a «tu per tu»
lettore incuriosito segue i percorsi che si snodano in questa sorta di colloquio post-mortem
che per la scrittrice, per sua esplicita confessione, fu un lavoro molto difficile e penoso: «Mi
sono incaponita a finire il lavoro, e forse è stata una violenza che ho fatto a me stessa. Forse il dolore al ginocchio non è un lutto ma una
risposta disperata alla volontà della scrittrice,
o alla cocciutaggine di una figlia che pensa di
onorare il genitore morto, non lo so. So che
quando ho finito mi sono sentita liberata».
Stilos l’ha intervistata.
I quaderni di Centerbe e Endo contengono
appunti brevi, annotazioni, elenchi, talvolta sintetici raccontini, fissati sul foglio forse per essere successivamente ampliati, e soprattutto diari di viaggio, anch’essi molto
stringati, che ci danno l’immagine di un uomo sempre attento a percepire il massimo di
ciò che gli è intorno e a reinventarsi attraverso l’esperienza. L’ordine, il legame con
le opere edite e il commento sono suoi. Ha
voluto attraverso questo suo lavoro mettere in luce qualche aspetto non ancora abbastanza evidenziato della figura di suo padre?
Quando mio padre era vivo, l’editore mi aveva chiesto di aiutarlo nel costruire questo libro
che raccoglie materiale inedito dai suoi quaderni e dai suoi taccuini. Abbiamo cominciato. Poi lui è morto. E l’editore mi ha chiesto di
proseguire e finire il lavoro da sola. Io non ne
avevo nessuna voglia. Avrei voluto prendermi
il tempo del lutto. Ma loro hanno insistito e poi
c’era il contratto da onorare e infine mi ci sono messa con quel senso del dovere che mi ha
5
IL LIBRO
politica, lo si fa per sedare un dolore o assecondando un
momento di totale follia e depressione. Io ero interessata
a Monica, a chi resta, a chi deve subire le conseguenze»
Un kamikaze
milanese
per la moglie
M
pagina
IL LIBRO
DACIA MARAINI
FOSCO MARAINI
"Il gioco dell’universo"
pp. 191, euro 17
Mondadori, 2007
Taccuini e appunti
come testimonianza
Firmato pure a nome del padre, il libro è frutto dell’iniziativa della Maraini tesa a stabilire con Fosco un dialogo che in vita è stato sempre precario per via delle lunghe assenze dell’imperterrito viaggiatore. Un dialogo
che si nutre dei taccuni ritrovati del
padre, pagine a quadretti fitte di una
grafia minutissima dove sono versati
impressioni estemporanee che spaziano da un sapere a una curiosità, appunti che testimoniano una vita.
sempre accompagnata. Perciò ho sofferto. Ma
ora è fatta e mi sento più leggera.
Il viaggio come dimensione di vita. Viaggiare per dilatare la propria esperienza e la
percezione del mondo, per abbattere confini mentali, per stupirsi: è questo, credo, il
filo rosso che percorre l’opera eppure c’è
anche - a sorpresa - in un uomo sostanzialmente così innamorato della vita una lunga
citazione da Cioran che parla della noia come esperienza fondamentale, noia nel senso di «percezione del vuoto che c’è in noi e
fuori di noi», «una vertigine tranquilla, monotona, la rivelazione dell’universale mancanza di senso». Riesce difficile collegare
questo passo all’entusiasmo e alla vitalità
che ci viene suggerita del testo nel suo complesso.
Come tutte le persone vitali ed energiche era
affascinato dal mistero della stasi, ovvero della morte. La noia lui l’ha vista come immobilità e quindi privazione di libertà. Questo credo lo inquietasse e nello stesso tempo lo incu-
questa domanda, Monica scappa dalla sua realtà
costruendo un’alternativa e una parentesi felice
laddove di felicità non ne esiste.
Nelle pagine finali, quando Monica in un certo senso si libera, reagisce, mi ha sorpreso una
certa insistenza sul tema del lavarsi (i capelli
sporchi, la pelle strofinata ecc.). Come mai?
Quando sto male sento il bisogno di lavarmi, di
pulire via tutto e forse ho appiccicato questa mia
necessità a Monica. .
Alla fine Monica si libera, uccide la donna
succube che è stata, colpevole anche lei, e riconquista la sua autonomia. Cos’ha operato
il miracolo? La volontà, o l’arte, la parola con
la sua capacità di catarsi?
Molto più semplicemente la pulsione verso la sopravvivenza e l’assoluzione per la sua colpa. Attraverso la scrittura Monica compie un percorso
a ritroso nel suo matrimonio, dentro la sua storia
d’amore con Marco, e comprende che le colpe di
cui si è macchiata sono gravi se considerate all’interno dell’economia di una coppia, ma non lo
sono agli occhi del mondo. Questa consapevolezza le permette di staccarsi da Marco, di separare la sua vita da quella di suo marito per provare a ricominciare da capo.
Si parla spesso di scrittura al femminile, e indubbiamente le angolature del suo racconto
evidenziano il suo essere donna. Ma lei ci crede alla scrittura al femminile?
Ci credo perché riconosco una differenza di
pensiero e sensibilità tra gli uomini e le donne
che ritrovo anche nella scrittura. Non ho mai
pensato di scrivere un romanzo «al femminile»,
ma sono una donna che scrive ed è inevitabile
che il mio essere donna emerga dalle mie pagine. Piuttosto a volte ritengo fastidioso questo
bollare la scrittura al femminile come una letteratura di seconda classe, di genere. Secoli di letteratura scritta da uomini non hanno mai fatto
nascere il genere «scrittura al maschile« e mi accorgo che sono molti gli uomini che prendono
una certa distanza dai libri firmati da autrici
donne, quasi ritenessero il loro contenuto un
qualcosa che a priori non li riguarda e questo fenomeno è conseguenza diretta di una cattiva interpretazione di quel marchio.
riosisse.
Nei suoi taccuini Fosco sottolinea spesso la
piccolezza dell’uomo.
Fosco aveva una mente speculativa. Gli piaceva
esplorare l’universo. Ma l’universo suggerisce
continuamente l’idea della piccolezza e finitezza dell’uomo.
Suo padre era innamorato del Giappone dove visse a lungo e che considerò affascinante
sotto molti aspetti (un paese che accetta l’innovazione senza abbandonare le sue tradizioni, profondamente rispettoso della natura, un
paese «maschile in apparenza ma in realtà
profondamente femminile» e via discorrendo)
Fosco ha amato il Giappone. E il suo amore
comprendeva tutto, sia i difetti che i pregi. Così
capita con i veri amori.
Fosco aveva ereditato dalla madre Yoi, pittrice inglese e viaggiatrice molto intraprendente, l’amore per la conoscenza e il rispetto della libertà femminile. I suoi rapporti con le
donne furono improntati in questo senso, con
esiti di reciproca libertà. Le donne però alla
fin fine - mi sembra di cogliere - rimasero un
po’ penalizzate perché il rapporto con Topazia, quando si fissò all’interno del matrimonio, privilegiò maggiormente l’indipendenza
maschile.
Certo Fosco aveva preso dalla madre il rispetto
verso le libertà femminili. Era l’epoca di Virginia Woolf e delle grandi suffragette quella che
aveva vissuto Yoi. Qualcosa di questo grande sogno di indipendenza era riuscito a comunicarlo
al figlio. Ma nello stesso tempo Fosco era un uomo d’avventura nel senso mozartiano della parola.
Di suo padre lei dice «libero, di una libertà
senza confini e senza ostacoli. Tanto libero da
risultare separato da ogni cosa e da ogni persona». Un pregio, un difetto?
La libertà era la sua compagna preferita. A volte un pregio, a volta un difetto. Erano le sue contraddizioni.
narratori
italiani
6
I n t e r v i s t e
R
PATRIZIA DANZÈ
acconta il mito che il fuoco, rubato dal cielo da Prometeo e dal titano donato
agli uomini, se divenne
strumento e simbolo dell’umano progresso, da allora portò con sé una
maledizione, quella di aver profanato, in quanto furto, la pura forza celeste. Forse per questo,
Girolamo Cardano, medico, matematico,
astrologo e alchimista vissuto nel Cinquecento, noto per la sua insofferenza verso i dogmi,
non accettava la teoria dei quattro elementi
empedoclei del macrocosmo, e cioè dell’aria,
dell’acqua, della terra e del fuoco. Dalle forze
presenti in natura, tra le quali, pure, riconosceva arcani nessi di simpatia ed antipatia, escludeva il fuoco, in quanto elemento distruttivo e
non componente i corpi.
Dunque, il fuoco, tra i «quattro elementi» del
nuovo bel romanzo di Cesare de Seta, è l’elemento devastante e distruttivo di persone e cose. Il fuoco dell’avidità, il fuoco della passione, il furor che strugge Irene (il personaggio
femminile più complesso del romanzo) così
come ha acceso di furore Medea, Didone, Fedra, ogni donna, ogni figlia, ogni madre che si
perde, menade impazzita, al grido orgiastico
dell’amore, di ogni genere d’amore fatale.
Quattro elementi, quattro variabili minacciose
che determinano l’evolversi tragico degli
eventi.
A Giovanna, il primo dei quattro personaggi
disposti in chiasmo nella storia di de Seta,
tutto scivola addosso come l’acqua, l’elemento in cui si trova più a suo agio. Sia pure nella
modesta dimensione di una doccia domestica,
Giovanna, senza progetti né interessi, studi e
rapporto sentimentale falliti, ama il fluire voluttuoso dell’acqua, gode della sua carezza
che le dà un senso di leggerezza e che nei sogni più trasgressivi, da «rivolo sottile» diventa di colpo un «fiotto violento come una frustata», trascinandola dall’alto di una cascata giù
in basso tra arbusti, fiori e cespugli. Le ore e i
giorni, le persone e gli eventi scorrono per
Giovanna lisci come l’acqua della doccia mattutina, ma l’acqua non ha forma, prende (a ricordare Camilleri) la forma che la contiene e
per lei assume l’aspetto di una tempesta da cui
può sempre scaturire qualcosa di inatteso,
quando un giorno con il bimbo della sua amica Irene, affidatole per qualche ora, prende,
quasi in uno stato di trance, un treno dove si assopisce sognando acque e scrosci d’acqua.
La marea la travolge al suo risveglio quando
non trova più il bambino, di cui non resta traccia, come inghiottito negli abissi marini. La
aiuta Giorgio, incontrato per caso sul treno, un
giovane insignificante, con un volto e un corpo cresciuti per loro conto senza assecondarlo
nelle sue inclinazioni. Ragioniere con un mediocre lavoro presso un commercialista, è rimasto sempre isolato da amici e coetanei, non
ha mai avuto stimoli, neppure di natura sessuale. Per questo si è «disposto a vivere senza far
resistenza a nulla, come fosse fatto d’aria e non
potesse che lasciarsi andare al corso del vento,
che soffia ora da un lato ora dall’altro». Giorgio accorre in aiuto di Giovanna perché in quel
momento si è accomodato pigramente su quello stato d’animo. E così la conduce prima in
commissariato, poi a casa sua, ma senza un secondo scopo; e mentre lei fa l’ennesima doccia scacciapensieri, lui, ripensando alla sua
vita senza consistenza, concepisce un piano
diabolico: fingere, con la complicità che si attende da Giovanna, inconsistente quanto lui, il
rapimento del bambino, perché «i venti bisogna saperli sfruttare se si dispongono le vele
nel modo giusto».
Un essere innocuo che diventa un mostro; l’aria sottile che si trasforma in uragano e con
l’acqua in piena provoca la catastrofe. Ed ecco Irene, amica di Giovanna e madre del bambino scomparso, giovane e bella imprenditrice, figlia di un industriale e moglie di un giovane avvocato. Una vita borghese, ordinata e
monotona, ma Irene è «come la cenere sotto
R e c e n s i o n i
U
ALFIO SIRACUSANO
S t los
Nella foto Cesare de Seta, autore per Avagliano
di Quattro elementi
IL LIBRO
Finisterre
pagina
CESARE DE SETA
"Quattro elementi"
pp. 170, euro 13,50
Avagliano, 2007
ARNALDO COLASANTI
Mettere quattro vite
dentro un tourbillon
LE BETULLE DI CECCHETTI
A Giovanna tutto scivola addosso come l’acqua; Giorgio è volubile e vacuo
come l’aria; la vita di Irene, sotto le
braci di una quotidianità borghese, cova un fuoco sempre acceso; Vojislav, lo
straniero, è duro come la terra, segnato nella sua scorza dalla violenza che
la storia ha voluto lasciare come stigma nella sua terra d’origine. Quattro
persone, quattro elementi di derivazione empdoclea le cui vite si incontrano e si agitano come in un potente
shaker che finisce per esplodere.
CESARE DE SETA . Quattro figure, quattro destini, che si incrociano e compenetrano
come i quattro elementi empedoclei che formano il mondo. E che non determinano
uno stato di perfezione e armonia ma sono causa di una derelizione generale. «Il nostro
è un tempo senza rimedio che ci assilla con i drammi umani e sociali che vediamo»
La nostra società, un insieme
di elementi poco rassicuranti
cui arde il fuoco», le cui braci sono state spente molto tempo prima per un morboso quanto
traumatico episodio adolescenziale che l’ha
fatta diventare quello che è: una ragazza quieta, chiusa e sensibile a ogni soffio di vento. Arde in lei una fiammella, solo apparentemente
spenta, capace di divampare d’un tratto con
una violenza incontrollata e distruggere tutto,
anche lo stesso senso comune. Una fiammella che si alimenta fino a diventare incendio divorante quando si ritrova a contatto con Vojislav, giovane serbo con un passato di soldato
senza scrupoli che ha mansioni di guardiano in
fabbrica.
È il solido e terragno corpo di lui, percorso dai
segni della violenza come la sua terra dilaniata dalla guerra, che accende in Irene la miccia
che proseguirà lentamente fino ad una tragica
esplosione. È davvero un orribile climax quel
che attende i personaggi di Quattro elementi.
Quell’acqua così piena da tracimare quasi
l’argine della storia, quel vento volubile che ci
soffia sopra, quel fuoco rinforzato dal vento
che brucia la terra selvaggia che, a sua volta,
sembra rivoltarsi dalle viscere con una forza
implacabile, contengono l’abominio della barbarie e della perdizione. Stilos ha intervistato
de Seta.
Come nasce Quattro elementi? Da quali suggestioni deriva?
La prima idea fu in un dipinto di Louis Finson
che si vendeva in un’asta di Sotheby’s e che mi
giunse sul computer: una splendida tela allegoria dei quattro elementi che è in copertina. Due
donne nude, un giovane e un vecchio drammaticamente avviluppati e dai volti contratti in un
conflitto irresolubile. È quello che dilania i
quattro personaggi della storia.
Non c’è qualche fatto di cronaca che lo ha
in qualche modo ispirato?
C’è stato un drammatico rapimento di un bambino in Italia, purtroppo, ma è successivo a
quando avevo imbastito la storia. Rimasi impressionato con me stesso perché in tal caso
avevo immaginato una storia che la drammaticità dei nostri tempi proponeva nella cruda
realtà della cronaca.
L’acqua, l’aria, il fuoco, la terra: quattro
elementi la cui combinazione è però distruttiva.
Nel caso del mio romanzo lo è, perché il mondo è un serto di veleni che mi angosciano
ogni giorno e incombono sulla vita di tutti noi
con violenza talvolta insopportabile.
Perché la scelta di ambientare la storia negli anni Novanta, segnati dalla dura guerra
nell’ex-Jugoslavia?
Perché quella guerra era dietro la nostra porta
di casa ed è stata una tragedia agghiacciante:
essa per anni è stata sugli schermi della televisione, sulle pagine dei giornali senza che nulla potessimo fare. La pulizia etnica, gli eccidi
più feroci che narra Vojislav, il serbo del mio
romanzo, io l’ho vissuta con sofferenza, tanto
più sentita perché ero impotente.
L’ambiente di riferimento è piccolo e medio-borghese, quasi come se i guasti del nostro tempo abbiano colpito soprattutto questo ceto.
Tutta la nostra società è un amalgama borghese: sia a livelli medio-bassi sia in quella dei
«ricchi». Un amalgama di elementi poco rassicuranti. A me premeva mettere a nudo la banalità del male e credo l’avesse già capito perfettamente Baudelaire.
Giovanna e Giorgio, l’acqua e l’aria, Irene
e Vojislav, il fuoco e la terra, sono tuttavia
tra di loro complementari.
Proprio come dice Lucrezio del De rerum natura…
I suoi sono personaggi che sembrano non
avere storia.
Francamente non condivido questa osservazione: ce l’hanno e come una loro storia. Giovanna è un’operaia figlia di un tabaccaio, Irene una borghese benestante figlia e nipote di
imprenditori che hanno fatto fortuna col miracolo economico, Vojislav ha una storia secola-
re alle spalle e invischiato in essa fin nelle midolla; Giorgio è un ragioniere di provincia, figlio di un contadino. Sono tutti aspetti banali
del nostro tempo, ma tutti i personaggi vivono
una promozione sociale: Giovanna è giunta all’università senza fortuna; Irene, badi al nome
che dal greco - come sa - vuol dire pace… si è
laureata ed è divenuta un manager; Vojislav è
sfuggito al dramma della guerra divenendo
guardiano in un’azienda dell’Occidente opulento. Se vuol dire che la storia è sottesa alla vicenda romanzesca, è vero: io non amo i romanzi storici scritti nel nostro tempo, mi sembrano delle caricature spesso poco credibili.
Facendo lo storico di mestiere ho una profonda diffidenza per gli storici dilettanti.
Sembra che abbiano il vuoto dietro di sé e
assomigliano in qualche modo ad alcuni
personaggi di Moravia.
Il vuoto non è una condizione permanente
della narrativa contemporanea. È una condizione del nostro vivere. Qualche lettore mi ha
detto piuttosto di aver pensato a Dostoevskij.
Lei mette tanti temi insieme: la mancanza
di valori, il fallimento della famiglia, il traffico degli organi umani, l’orrore della guerra. Ma, sopratutto, sembra esserci il disvalore della vita.
Un’amica intelligente, Carla Sacchi, mi disse
di titolare il romanzo "Senza rimedio": in effetti il nostro è un tempo senza rimedio che ci assilla con i drammi che lei elenca.
Anche il paesaggio, le bellezze di Roma,
sembrano svilirsi di fronte ad una storia di
estrema tristezza. Lo ha fatto intenzionalmente?
Naturalmente.
Una storia drammatica narrata con una
scrittura piana. Un modo di dare ordine al
disordine esistenziale dei personaggi?
La mia è un scrittura sobria, senza sbavature,
senza un aggettivazione superflua. Un lavoro
di sottrazione e di riduzione che mi costa molta fatica.
GIUSEPPE SOTTILE. Storia romanzata de "L’Ora" di Palermo
Giornalisti al tempo della mafia
n giornale che registra di Palermo
la morte della vita civile sopraffatta dalla mala pianta della mafia, ma che vive invece la fantasia è bellamente scacciata fuol’attesa della sua morte certificata per ragioni ri dalla porta. Dalla scelta di Sottile di raccondi bilancio e di insostenibilità politica. È que- tare da giornalista una storia vissuta da giornasto il fondale di Nostra Signora della Neces- listi? Può darsi. Ma più dal fatto che quella patsità di Giuseppe Sottile, giornalista de "L’ora" tuglia che allora presidiava le stanze del giornale, dove il giovane croniai tempi mitici di Vittosta, approdato quasi per cario Nisticò: un fondale
so, si sentiva crescere anche
di pochi anni, da quando
GIUSEPPE SOTTILE
come uomo, non aveva alvi approdò da giovane
"Nostra Signora della
cun bisogno di essere tra«biondino», nel 1968, a
Necessità"
sposta in una dimensione
quando, mentre si conpp. 108, euro 9
«inventiva» per recuperare
sumava il rapimento di
Einaudi, 2006
connotati che in certo qual
De Mauro, le sorti ecosenso la rendevano «mitinomiche del giornale si
ca»: era essa stessa un monfacevano incerte e se ne
paventava addirittura la chiusura. Lontana an- do compiuto, che da tempo ormai combatteva
una battaglia (si pensi alla storica inchiesta sulcora nel tempo, ma già «nelle cose».
Sono dunque "L’ora" e la sua redazione i pro- la mafia), si doveva acconciare ai suoi eroismi,
tagonisti di questo romanzo breve che in verità e viveva assediata dentro e fuori delle sue muromanzo non è. Perché un romanzo racconta ra. Ed era «scuola» di giornalismo, se mai
comunque una storia frutto della fantasia, e qui scuola di giornalismo c’è stata. Perché se fuo-
ri c’era la «notizia», da cercare sempre e comunque, va messo in evidenza che questa notizia era quasi sempre la notizia di mafia, i
morti ammazzati di cui non si capiva nulla.
Come non si capì, di primo acchito, quale
mafia ci fosse dietro il rapimento di Mauro De
Mauro, con cui si conclude il racconto di Sottile.
Ed è qui che il non-romanzo diventa forse romanzo. Perché i comprimari di Sottile, «biondino» di primo pelo in attesa del suo primo articolo importante, vi diventano personaggi,
con le sfumature dei personaggi: l’ostinata
onestà di Nisticò tormentato dall’ulcera che
non si lascia impressionare dalle minacce di
Sara Muscarà, moglie dell’avvocato Valguarnera, la perfetta calma professionale del maestro Enzo Perrone, l’aristocratica finezza intellettuale di Mario Farinella, quello di "Profonda Sicilia", la fede rivoluzionaria senza vacillamenti di Salvo Licata, la straordinaria capa-
cità di inventarsi lo scoop del fotografo Gigi
Labbruzzo, con le sue umane debolezze e i
suoi disordini sentimentali. E quindi il correre di qua e di là, nella cava in cui trovano uccisi i fratelli Juculano o a Mondello dove era
stato ucciso l’avvocato Valguarnera genero
del giudice di Corte d’appello Marcantonio
Muscarà, o nella Chiesa di Nostra Signora
della Necessità dove lo stesso giudice era stato segnato dal sospetto di essere anche lui organico alla mafia. Con sullo sfondo l’evoluzione della mafia, la comparsa della droga che
soppianta la speculazione edilizia, e l’ombra
truce dei corleonesi. E intorno, raccontata con
ironia, la città degli uomini che sanno e non
sanno, che vedono e non vedono, nel tumulto
dei giorni che scorrono tra un appostamento e
un servizio e una discussione e un panino consumato in fretta e un tentativo di farsi pagare
un po’ di arretrati mentre lo scorrere del tempo non fa mai mancare il morto quotidiano.
Vorrei abbracciare Maurizio Cecchetti che pure non conosco. Ha scritto un libro
commovente e dolce, che permette a chi
legge di ritrovare una virtù antica, ormai
esiliata: la lentezza della concentrazione.
I cerchi delle betulle (Medusa) è filosofia,
è discorso autobiografico, è l’auscultazione di un sangue sottile come lo spirito.
Le betulle stringono un etimo originario
racchiuso nel labirinto di Dio (sono il
Beth, il Bereshit Rabba, l’ebraico «in
principio»). Eppure continuano fin dentro
all’etimo escatologico della voce muta
del Signore (Birkenwald e cioè Birkenau,
il posto del massacro, il luogo del grande
grido silenzioso). Le betulle sono tutto
quello che abbiamo: quello che è possibile al pensiero e alla vita. E nella pagina
del libro appaiono alberi e candele del lutto, sono fanciulli con le vene esangui,
«hanno il volto canuto dei sepolcri». Resta appariscente la verità calma di Cecchetti. E all’improvviso si accende in un
dono di inestimabile povertà. Come non
amare chi dice che «soltanto la forza di
assumere in noi stessi l’incertezza del
vedere potrà dire l’essenza dell’uomo»?
Leggete I cerchi delle betulle. Vi perderete, vi lascerete andare. Sentirete, come
sempre, che la profondità ha un sapore
acre e incerto, sa di grano maturo e di veleno, sa di un corpo umano graffiato lungo il muro della terra. Non sarà certo una
lettura facile. E non perché sia una pagina ostica o astratta. Leggere è solo illusoriamente una forma di linearità, quel progresso di consumo pagina dopo pagina
verso la fine.
No, le letture sono sempre delle rivoluzioni attorno a noi stessi. Lo sguardo si
schiaccia oltre la luce e sopra l’ombra: si
congeda. Appunto, non è «una figura del
tempo immobile, ma è del tempo chiuso
in un labirinto». Sulla pagina di Maurizio
Cecchetti nevica lentamente, cade carezzevole la lacrima ghiacciata, come certe
albe quando ci sembra di capire la vita e,
allora, ci si scopre felici. Si impara molto. Tanti pensieri sulla pittura: Caravaggio, Raffaello, Klimt, Melozzo; soprattutto il bitume dorato di Géricault e lei, la
meteorite sopra il monte di ossa vive, gli
occhi di Atene negra, Marina Abramovic.
Così, altra poesia e filosofia: il mitico
Chadzi-Murat di Tolstoj o i paradossi
estremi di Hamann. Lo stile di Cecchetti
è una lingua fosforescente in filigrana:
mai dura, mai impositiva. La densità
emotiva è quella di stormi di parole che si
cercano e che a tratti si toccano. Ma quando si trovano si mettono in riga, oscurano
di luce lo schermo nudo della pagina:
conquistano quella che già dal primo sospiro della voce sembrava un sogno - era
l’utopia: ricostruire dalla radice l’aura ricolma di una citazione, la presenza vera
dei maestri, Baudelaire, Céline, Proust o
Testori.
Ho amato questo libro, che pure è un libro
di limiti e di difetti. Ma se fossi stato il suo
editor non avrei saputo dove tagliare né
dove correggere. Perché, alla fine, è tutto
chiaro. Per pensare abbiamo bisogno di
questi limiti: i difetti, le ansie, i pianerottoli ciechi della scrittura e dell’esistenza
non sono barriere, sono soltanto richiami.
Poi, un giorno, racconta Maurizio, «mio
padre morì. La luce azzurrina e morbida
del tramonto chiudeva il paesaggio in
una scatola di vetro: il chiarore lontano
della sera e i colori freddi dell’ospedale si
mischiavano in un’atmosfera fluida senza più interno ed esterno, vita e morte».
I cerchi delle betulle, questa storia inchiodata al dolore e alla felicità, è anch’essa una scatola di vetro, possiede
lampo e distanza, morbidezza e la nuda
assenza. Sì, le «betulle abitano la terra
quasi con rassegnazione» e questa rassegnazione sarà l’eternità di una miseria
che sarà eterna e sfinita quanto la più
lunga preghiera senza speranza. Tuttavia, al principio e alla fine di ogni cosa, il
«Giudizio sarà il momento dell’estrema
pietà». E non perché, scrive l’autore, si
tratta di cancellare i delitti e di svuotare
malinconicamente l’inferno. Invece, conta solo «liberare l’idea della giustizia dalle ipoteche che l’inferno, regno della
morte, insinua in un giudizio morale».
Occorre superare la rassegnazione. Conta vedere, per la prima volta, per un istante, il colore estraneo della promessa quella luce brunetta dello spirito che un
giorno ci narrarono all’inizio della creazione. Sì, è questa libertà non più rassegnata il grande insegnamento.
narratori
italiani
S t los
I quattro autori che compongono il gruppo Kai Zen, che ha pubblicato
da Mondadori La strategia dell’Ariete. Sotto Andrea Camilleri,
autore per Guida di Boccaccio. La novella di Antonello da Palermo
pagina
uattromila e cinquecento
anni di storia, quattro autori (Jadel Andreetto, Bruno
Fiorini, Guglielmo Pispisa
e Aldo Soliani) provenienti da quattro città diverse
con una passione in comune: la scrittura. Nasce così La strategia dell’Ariete, il nuovo romanzo dell’ensemble narrativo Kai Zen in cui si racconta di una sostanza
segreta chiamata «Al-Hàrith», custodita e temuta, attraverso i secoli da una moltitudine silenziosa e segreta. La storia prende il via dall’antico Egitto per poi attraversare la Cina degli anni Venti, il Paraguay degli anni Trenta
popolato da una singolare comunità ariana fino ad arrivare nell’america degli anni cinquanta. Una galoppata narrativa che Stilos ha
voluto farsi raccontare dagli autori.
Cosa vuol dire Kai Zen e qual è l’origine
del vostro nome?
In giapponese significa «in continuo miglioramento» ed è una tecnica di auto-motivazione,
molto usata in ambito aziendale. Schiere di
colletti bianchi che ripetono in coro slogan come «siamo i più forti, siamo i migliori», cose
così. Ma questo non ha nulla a che fare con
noi, in realtà Kai Zen era il nome di una fantomatica band di rock industriale citata in uno
dei capitoli del primo progetto di scrittura collettiva cui abbiamo partecipato, «Ti chiamerò
Russell». Ci è piaciuto e lo abbiamo scelto per
come suonava, la pigrizia ha fatto il resto.
Come vi è venuta l’idea di mettervi insieme
a scrivere? Da quanto lavorate insieme?
Uno di noi, Jadel, ha semplicemente mandato
alla mailing list di quel primo progetto un
paio di incipit, così tanto per giocare. Gli son
venuti dietro in tre, scrivendo dei possibili seguiti. Uno di quei tre ha mollato subito, ed è
stato sostituito da un altro che aveva sentito
parlare di questo nuovo abbozzo. Ed ecco i
quattro Kai Zen. Era il 2003. Mai avremmo
potuto pensare che quel mostro potesse venire pubblicato oggi.
In Italia, il più famoso ensemble narrativo
è quello dei Wu Ming. Vi siete ispirati a loro? So che la pubblicazione del vostro primo racconto è nata da un loro progetto.
I Wu Ming sono stati un po’ i sensali del matrimonio Kai Zen e sono senz’altro un punto di
riferimento, per quanto abbiamo metodi di lavoro molto diversi. Loro vivono nella stessa
città e si conoscono da molto tempo, noi abbiamo vite e storie personali diverse, viviamo in
città differenti e ci teniamo in contatto continuo perlopiù tramite internet. Per quanto riguarda l’approccio alla materia letteraria, lo
stile di scrittura e di narrazione, Kai Zen e Wu
Ming sono distanti come possono esserlo due
scrittori solisti. L’ispirazione poi è un discorso
a parte. Naturalmente Q è stato sul comodino
di ognuno di noi, ma assieme ad esso ci sono
stati molti altri libri. Ognuno di noi ha avuto il
suo percorso di letture, di fruizione musicale e
di altre espressioni artistiche, che ha contribuito a modellare il suo stile e di conseguenza
quello dell’ensemble in generale.
Come create il vostro stile? Ognuno si
uniforma a quello degli altri o adottate certi canoni in modo che la scrittura sia sempre
dello stesso tipo?
È una cosa che è venuta a poco a poco. Scrivendo insieme ci si influenza inevitabilmente,
ci si corregge a vicenda e ci si affina cercando
una direzione comune. Il quinto stile, lo stile
Kai Zen, è stato un parto lento e lungo, ma
molto piacevole e istruttivo. Forse un po’ come il fenomeno dei cani che finiscono con
l’assomigliare ai padroni e viceversa. Nella
Eccebombo
I n t e r v i s t e
Q
R e c e n s i o n i
C
GIANNI BONINA
7
AURELIO GRIMALDI
LE FAVELAS DI MEIRELLES
KAI ZEN
Il romanzo proteiforme di
un ensemble che ha voluto
percorrere la stessa strada
dei Wu Ming. «Sono stati
un po’ i sensali del nostro
matrimonio e sono
senz’altro un punto di
riferimento, per quanto
abbiamo metodi di lavoro
molto diversi»
IL LIBRO
KAI ZEN
"La strategia dell’Ariete"
pp. 452, euro 16,50
Mondadori, 2007
Un segreto diabolico
sul destino del mondo
Un complicato thriller storico che asseconda la nuova moda sapienziale e iniziatica e che ha il dispositivo di un congegno a orologeria dove la bomba di
cui si attende l’esplosione è la realizzazione di un pericolo che è stato tenuto
segreto per millenni. La trama si dipana dall’antico Egitto all’India degli
anni Venti alla Cina, poi alla Germania e avere epilogo negli Stati Uniti.
Einrich Hofstadter è uno scienziato
che giunge in Cina seguendo le tracce
di Respik di Seth, il cui vero nome è
quello di Ai-Hàrith, l’ariete, che è l’appellativo di Satana nel "Corano". Il
segreto dell’Ariete passerà nelle mani
del figlio dello scienziato che proverà a
ultizzarlo a fini distruttivi nella Germania nazista.
La suspense
in nome
collettivo
PAOLO ROVERSI
VIVE A MILANO. "BLUE TANGO"
(STAMPA ALTERNATIVA, 2006), "LA
MANO SINISTRA DEL DIAVOLO" (MURSIA, 2006)
fattispecie, per La strategia dell’Ariete il fatto
di avere quattro epoche storiche differenti ha
legittimato stili diversi, a volte, così come in
frangenti particolari abbiamo optato per linguaggi inusuali.
Come procedete nella stesura del romanzo? Ognuno di voi scrive un capitolo e poi lo
passa da correggere agli altri oppure ogni
paragrafo è scritto a otto mani?
Generalmente si divide la storia in piani narrativi e ognuno all’inizio ne cura uno. Ogni capitolo però viene subito inviato agli altri non
appena finito, in modo che ci possa essere un
riscontro immediato e continuo con le correzioni altrui. Un casino infernale, a tratti, ma divertente. In poco tempo ci siamo fatti spalle
molto larghe e abbiamo preso le misure giuste
tra noi.
Avete dei ruoli particolari all’interno della
storia: non so, uno fa le ricerche storiche,
l’altro si occupa solo dei dialoghi, un altro
scrive le descrizioni eccetera.
No, in genere no. Ognuno si occupa di tutto
nella parte che scrive direttamente, poi tocca
agli altri correggere ed eventualmente riscrivere. Certo, ognuno di noi è specializzato in
qualcosa e viene chiamato in causa in determinati frangenti. La cosa bella di Kai Zen è che
ognuno è quello che è e non deve assomigliare agli altri, apporta invece le sue caratteristiche specifiche al gruppo. Jadel per esempio ha
fantasia e propone in continuazione, Guglielmo cura molto il linguaggio, Aldo rende concreto ed efficace e Bruno dà uno spessore storico. Ognuno di noi è un po’egocentrico e crede di saperne di più degli altri, e la battaglia a
volta si fa estenuante, anche se sempre corretta. In sostanza siamo tutti gregari con un certa tendenza all’anarchismo.
Quanto impegno ha richiesto La strategia
dell’Ariete? Maggiore rispetto agli altri romanzi totali che avete scritto come La potenza di Eymerich e Spauracchi. oppure ormai
avete un metodo di lavoro collaudato?
Sicuramente. La strategia rispetto agli altri
progetti è più organico e articolato e ci ha impegnato di più, ma possiamo dire che ormai
abbiamo collaudato un sistema buono per affrontare sia gli impegni come questo che quelli più sperimentali e veloci come i romanzi totali. Il concetto chiave, essendo a distanza, è
quello di tenerci sempre in stato di allerta, attivi, reattivi. Altrimenti la vita quotidiana ti
seppellisce in un attimo, se non condividi uno
spazio fisico. Quindi il rimedio è il rilancio, lo
stress. Scriverci spesso, molto, mettere pressione uno sull’altro per le scadenze, gli obiettivi. Fino a quando non nasce una consapevolezza interiore, che Kai Zen non può essere lasciato in disparte. Poi, per riprenderci, non ci
sentiamo più per qualche giorno, purificandoci come fosse la catarsi della tragedia... E tutto ricomincia di nuovo.
ANDREA CAMILLERI. Un nuovo apocrifo per divertissement
Boccaccio riveduto e scorretto
hi conosce l’opera di Camilleri è
avvertito che si tratta di un falso sin
dalle prime due parole, «Giovanni Bovara», il azzardo tale che solo chi non teme sfide così
protagonista de La mossa del cavallo. Un’av- temerarie può concepire di tentare. Tentare,
vertenza necessaria, perché Camilleri tanto appunto: perché Camilleri, in sede di rendiconpiù fa opera di falsificazione quanto più rende to critico, con un virtuosistico gusto per i quainvece credibile la scoperta della novella ine- dri borgesiani che dà la misura del divertissedita di Boccaccio: della quale non solo forni- ment al quale si è ultimamente concesso, avansce notizie circa il ritrovamento ma offre anche za il sospetto che si tratti di una novella rifiuuna dotta ricerca filologica che dà conto del tata dallo stesso Boccaccio perché dissonante
perché non figuri nel Decamerone. Probabil- con il complesso del Decamerone: manca di
fluidità narrativa, di sciolmente il nome di Bovara
tezza e sa di ricerca, di
non è stato scelto a caso,
esperimento, con un pastrattandosi di una figura
ANDREA CAMILLERI
di falsario ideologico che
"Boccaccio. La novella di so ancora incerto anche
nell’«arricchire il racconpropina una infondata veAntonello da Palermo"
to con quelle sfumature
rità dei fatti per perseguipp. 66, euro 7,20
caratteriali dei personaggi
re un suo disegno di venGuida, 2007
che così accortamente
detta, una «mossa del caBoccaccio saprà in seguivallo» appunto. Qui la
mossa del cavallo è quella di Camilleri, che to usare». In più c’è un uso, anche se parco, del
dopo l’apocrifo su Caravaggio adesso si inte- dialetto che manca nel Decamerone. Tutto
sta un’azione portata ancora più in profondità uno scherzo. La verità è che Camilleri non se
perché l’apocrifo non è su un personaggio l’è sentita di levare a Boccaccio la penna di
storico ma addirittura di una figura storica, nel mano e ha preferito immaginare che la novelsenso che il testo falso è spacciato come ope- la faccia parte del periodo napoletano, quello
ra di lui. La differenza è in ciò, che mentre in- cioè «formativo». Ma nello stesso tempo reventando il ritrovamento di un diario di Cara- spinge la teoria secondo cui Boccaccio si devaggio bastava a Camilleri ricreare il linguag- dica alle novelle soltanto dopo il rientro a Figio del Seicento, qui - per contrabbandare un renze, adducendo che quella che nel Decametesto di Boccaccio - ha dovuto ricalcare lo sti- rone appare «un’inconfondibile impronta fiole non solo trecentesco ma anche boccaccesco rentina» può infatti essere stata data dall’autoe in particolare del Decamerone: impresa di un re anche fuori Firenze giacché «uno scrittore
non ha bisogno di essere fisicamente in un certo luogo per restituire sulla pagina l’inconfondibile impronta». Camilleri non lo fa, ma potrebbe presentarsi come testimone e dichiarare che nessuno dei suoi libri è stato scritto in
Sicilia benché della Sicilia abbiano tutti una
impronta assolutamente inconfondibile.
E anche in Sicilia è ambientata questa novella «napoletana» (tale per l’immaginaria data di
composizione) che ricrea l’asse tosco-siculo di
una scuola della licenza e dell’incontinenza
che in Boccaccio e Camilleri trova un rinnovellato principio di attuazione. Non c’è in
realtà autore classico che più di Boccaccio
possa essere avvicinato a Camilleri nel gusto
per il coribantismo, la satiriasi, il partouze e
l’alcova quale secreta di inganni e infedeltà.
Tant’è che la novella «palermitana» (tale per
l’ambientazione) bene potrebbe essere attribuita a Boccaccio anche per la bella riuscita
dello stile esemplato sul Decamerone, sciorinando trovate che sembrano addirittura parodistiche per la fine precisione del dettato. Camilleri si è specializzato in effetti nel talento di
rifare il linguaggio d’epoca e prova di sapere
come passare con identico risultato dall’Ottocento dei romanzi civili come La concessione
del telefono e Il birraio di Preston (dove più ricorrente è la fattura mimetica) al Settecento de
Il colore del sole al Seicento de Il re di Girgenti fino a risalire adesso al Trecento di cui restituisce una espressività linguistica speziata qui
e là di elementi della parlata siciliana, a creare un Boccaccio eterodosso e di una latitudine
infrequentata.
Basti l’esempio di Iancofiore, la giovane moglie del vecchio e geloso medico Losapio (due
cognomi che sottendono un significato antifrastico): un nomignolo posto a segnalare una
identitià equivoca entro un giro di fraintendimenti siciliani che nella società camilleriana
come in quella boccaccesca non cospirano a
un esito drammatico, anzi si sciolgono in un fine che è sempre lieto per i fedifraghi volgendo in commedia lo scorno del marito tradito,
lasciato contento ma soprattutto gabbato.
Il cinema offre incessantemente opere
sorprendenti. In questi ultimi tempi, due
film, purtroppo nessuno italiano, mi hanno profondamente colpito: I segreti di
Brokebake Mountain di Ang Lee, che del
resto ha avuto il meritato onore di vincere sia il massimo premio del cinema planetario-commerciale (l’oscar hollywoodiano) che uno dei più importanti per il cinema d’autore: il leone d’oro a Venezia. E
Cidade de Deus ("City of God", 2002),
della rivelazione brasiliana Fernando Meirelles. Il film è diventato un successo internazionale, ha vinto infiniti e meritati
premi, ha beccato persino quattro nomination all’Oscar 2003 (compresa la miglior
regia!); è disponibile in dvd, è passato
persino in televisione in chiaro: insomma,
se ve lo siete persi, non è difficile recuperarlo dovunque.
Un film importante: non solo e non tanto
perché ripropone (per l’ennesima volta,
sia chiaro) la questione tremendista delle
favelas di Rio de Janeiro (Cidade de Deus
è il nome di una di tali famigerate); ma
perché lo fa con un linguaggio nuovissimo sia di scrittura che di regia. Meirelles,
e non se ne possono più avere dubbi, è un
grande talento. Vedendo il suo film l’avevo scambiato per un giovanissimo ardente e frizzante di cinefilia da videoclip;
macché: Meirelles ha più di cinquant’anni e ha lavorato sodo nella televisione, ma
in modo anche autonomo e indipendente.
Ed è, in primo luogo, un ottimo sceneggiatore. Memore della destrutturalizzazione del romanzo in letteratura, e soprattutto della rivoluzionaria applicazione tarantiniana de Le iene e Pulp fiction, Meirelles prende un bel gruppo di ragazzini
canaglia della favela, ne sceglie un mite
narratore (Buscapè), e ad andate e ritorni
di storie, zeppe di volute e un po’furbe parentesi narrative con tanto di titolo «letterario», ci racconta un affresco lungo e
complesso. Rallentato, più che velocizzato, da uno stile modernissimo, ben noto,
da videoclip, ma perfettamente aderente a
questa ambiziosa messa in scena.
Ho avuto la fortuna di andare a girare un
film in Brasile e di aver ben visitato le favelas (come negare che il vostro redattore ne vorrebbe a sua volta girarvi un
film?!); e di aver visto diverse opere colà
girate. Tutte storie tremendiste di omicidi,
violenze, stupri, sangue. Meirelles non se
ne distacca: catastrofismo a gogò. Ma stavolta la trita sociologia resta ben distante.
I personaggi di Meirelles sono vivi e palpitanti. Non è tanto il fatto che il film sia
tratto da storie autentiche (e nei titoli di
coda vediamo persino uno dei veri protagonisti, con la sua faccia vera, davvero intervistato al telegiornale brasiliano al momento del suo arresto!). Verghianamente
parlando, Meirelles ci ricostruisce un
mondo desolato, reinventato, ma più vero
dell’immaginata realtà.
Il personaggio di Zè Pequeno, il «cattivo»
del gruppo, è una sentina di tutte le cattiverie dell’umanità. La scena della punizione dei «randagi» (i bambinetti di strada già orridi criminali; a sei, otto anni!) è
spaventosa, terribile, stupefacente, e Zè
Pequeno ci risulta odiabile quanto Hitler.
Ma quando lo stesso Zè viene respinto
dalla ragazzina che tenta di corteggiare, da
una parte ci prefiguriamo (con terrore!) la
sua vendetta, ma dall’altra proviamo per
lui una profonda e intimidita pietà.
Il narratore della storia, Buscapè, un nerissimo dalla faccia buona, passa attraverso
le più terribili esperienze; non riesce mai
a perder la verginità; diventa fotografo
professionista; scopa finalmente, e con
una donna bianca ben più grande di lui;
tocca a lui chiudere il film con una sorta di
lieto fine. Ma i nuovi randagi, che hanno
appena fatto fuori il terribilissimo Zè Pequeno, progettano nuove rapine ed omicidi. Lieto fine, ma dove sei finito?
Il film è pieno di disperatissima vita. Il
bruttino Cabeleira si innamora della bella
Angelica, pronto a lasciare il crimine per
lei. Ma finisce ammazzato, in una dolorosissima, poetica (scontata quanto si vuole,
ma piena d’amore!) sequenza. Anche
Benè viene ucciso proprio quando lascia il
crimine per l’amore. Verga e Pasolini sputati: non c’è redenzione, cazzo!, per questi ragazzi sfiniti. Meirelles, come quei
due sommi, ce li fa amare senza indulgere a nessuna tenerezza. Sono brutti, sporchi, cattivissimi; ci si ammazza per niente. Ma sono vitali, vulnerabili alle tenerezze, disperatamente bisognosi d’amore.
Cidade de Deus ("City of God", 2002),
un film di Fernando Meirelles
giornalisti
e testimoni
pagina
8
I n t e r v i s t e
o cominciato a scrivere sui
giornali mezzo secolo fa.
Ogni anno viaggi ed inchieste. E ad un certo punto mi sono detto che era
sprecato che questo lungo
lavoro venisse dimenticato». Senza troppi giri di parole ecco spiegata la
ragione per cui Giorgio Bocca ha deciso di ridare alle stampe Il provinciale, che non a caso
porta il sottotitolo significativo di "Settant’anni di vita italiana" e che uscì nel ’91 da Mondadori.
Rispetto a molte delle antologie di articoli e di
saggi pubblicate in anni recenti, questo libro
colpisce per coesione e ritmo narrativo. Si va
dalla Resistenza fino agli anni della «Milano
da bere», passando per la ricostruzione ed il
boom economico. Come al solito, lo stile di
Bocca è asciutto, non concede spazio alla retorica e ai luoghi comuni, anche se a volte la narrazione trascolora in pagine intimistiche. È
questo il caso ad esempio della descrizione
della Resistenza, ed in particolare del rapporto - scabroso e disumano come in ogni guerra
del resto - con i nemici: «E allora tocca a me.
Vado dietro a Hans alla prima curva del sentiero, quando non copre i partigiani sparo. Si
sente il clic del Thompson che fa cilecca. Lui
si volta sbiancato. Ha sentito, ha capito. Fa ancora due passi e questa volta la raffica parte. Si
arruota con il suo urlo, come se volesse sfuggire alla morte avvitandosi nella’ria. Ho i visceri attorcigliati ma un comandante è quello
che si aspettano i suoi uomini. "Seppelitelo"
dico con voce fredda».
Ma Il provinciale non è solo descrizione della
lotta armata. Bocca racconta della Fiat, dello
strano rapporto di amore-odio con il Pci (che
nel capoluogo lombardo fu per molti anni il
principale partito) e del suo deus ex machina
indiscusso ed incontrastato Vittorio Valletta:
«Il professore "bolla" l’ingresso nell’azienda
come gli impiegati, e come il piccolo re Vittorio Emanuele III fa le sue ispezioni alla truppa,
va tra i fanti di prima linea, dà cinquemila lire
di premio al guardiano che lo ha fermato perché aveva dimenticato la tessera di riconoscimento, la buona sentinella. La Fiat finanzia
tutti, gli avversari di classe come i concorrenti, se le conviene. Come il senatore Agnelli che
salvava la Lancia dal fallimento e poi diceva a
Vincenzo Lancia: "No, non mi ringrazi, se
non ci fosse la sua fabbrica dovrei inventarla,
se no i nostri tecnici si addormenterebbero".
La Torino del ’47 è la città più comunista d’Italia, ma il Partito comunista che grida e accusa sulle piazze, si sta arrendendo alla cultura
Fiat, per i torinesi la disciplinata fanteria Fiat
è meglio della cavalleria leggera della Olivetti, per i torinesi i tecnici inventivi di Ivrea "a
sun d’artista", bravi ma da non fidarsene».
Ma la Fiat è anche il simbolo (o l’ipostasi) delle relazioni umane e professionali, la cartina di
tornasole dell’incipiente emancipazione femminile italiana: «Nel maschilismo sicuro e
fuori discussione dell’azienda, le donne non
avevano posti dirigenti ufficiali, ma posti di fiducia e di prestigio, come proiezione del maschio di cui erano le segretarie. Devote ed onnipotenti, ma nel cono di luce del loro capo.
Reverenti, rispettose in pubblico, disponibili
per qualche celia erotica nel privato, come la
volta che, per rara combinazione, mi trovai in
«
H
I n t e r v i s t e
I
PATRIZIA DANZÈ
S t los
Nella foto sopra Giorgio Bocca, autore per Feltrinelli di Il
provinciale. Sotto Raffaele Masto, che da Sperling & Kupfer
ha pubblicato L’Africa del tesoro
IL LIBRO
GIORGIO BOCCA
"Il provinciale"
pp. 291, euro 17
Feltrinelli, 2007
La vita individuale
e quella collettiva
La vita di Bocca comincia quando finisce la Seconda guerra mondiale e trova il cuore battere in coincidenza con
la guerra partigiana. Raccontando i
suoi settant’anni di vita, fermandosi
dunque al 1991, il noto giornalista piemontese non distoglie mai lo sguardo
dalla stagione che ha segnato la sua
esistenza come quella di tutto il Paese,
tanto da scrivere una autobiografia
pensando non ai propri settant’anni
ma a quelli nei quali si è articolata la
vita italiana.
GIORGIO BOCCA . Esce di nuovo a distanza di sedici anni l’autobiografia di un
«provinciale» piemontese che si affaccia alla ribalta della scena nazionale: una
testimonianza vivissima di una larga parte della nostra storia collettiva, ma anche un
atto di denuncia delle storture e le imposture che hanno segnato questo tempo
La Milano da Eldorado di ieri
e quella da mangiare di oggi
FILIPPO MARIA BATTAGLIA
VIVE A MILANO DOVE DIRIGE LA RIVISTA
"GLI APOTI". COLLABORA A "IL GIORNALE", "IL FOGLIO", "IL DOMENICALE",
"L’INDIPENDENTE" E "L’INDICE"
una villa del Monferrato in casa di un dirigente che un po’ brillo abbracciava alle spalle la
sua tota segretaria e le diceva, in piemontese
"Ninin, lo senti l’acciaio?". E lei brancicava
nei suoi pantaloni con una mano, senza girarsi, e rispondeva: "Ingegnere, io sento solo l’ovatta"».
Il dopoguerra ed il successivo boom economico non è solo la Fiat. È anche (o forse è soprattutto) il boom economico, la rivoluzione sessuale ed il famoso (e famigerato) ’68. Bocca è
crtico, a tratti sarcastico: «I figli della borghesia che recitano la rivoluzione riconoscono
gli avversari politici che recitano la restaurazione da come sono vestiti. I fascisti di Milano, i sanbabilini li riconoscono dagli occhiali
affumicati Ray-ban, dalle scarpe a punta, dalle camicie con il collo alto. E i fascisti riconoscono i rossi dalle barbe, dagli eskimi, dalle camicie a scacchi fuori dai blue-jeans. È un costume antico, antichissimo, nelle loro guerre
civili gli italiani devono sempre indossare
un’uniforme, sempre fuori ordinanza, ma riconoscibile».
Seguono gli anni del terrorismo, i mea culpa
sulle proprie analisi e sulle quelle dell’opinione pubblica («alle prime manifestazioni non
capivo, non volevo capire»; «la faziosità tagliava il senno. Molti di noi giuravano sul Pinelli suicidato»), il sequestro Moro ed un breve ritratto di un giovane e rampante imprenditore, che di nome fa Silvio Berlusconi. Anche
in questa descrizione, Bocca dimostra la sua
diffidenza nei confronti di una pubblicistica
che ha ideologizzato il magnate italiano: «Eugenio Scalfari ha scritto del mio rapporto con
Berlusconi: "Non si riesce a capire perché, ma
con Berlusconi Bocca fa eccezione, non è
conflittuale, se ne è innamorato". L’amore
non c’entra, neppure l’affinità di interessi, di
modi di pensare. Semplicemente ho ritrovato
in Berlusconi il vecchio Angelo Rizzoli, la sua
vitalità contraddittoria e ottimista, il suo dispotismo democratico, un populismo tanto sincero quanto propizio ai buoni affari. Una specie
che si incontra solo a Milano, città pragmatica
e pacifica, policentrica e mediatrice, una specie dotata di una volontà di potenza e di intuito eccezionali, di uomini fatti da soli che po-
trebbero diventare quei rompicoglioni assatanati che seminano infelicità e morte e invece
conservano un amore per la loro città, la loro
gente e si contentano di moltiplicare i pani e i
pesci». Stilos ha intervistato il giornalista.
La prima parte de Il provinciale è dedicata
alla Resistenza. In una recente intervista,
lei ha dichiarato che quella di Fenoglio sulla lotta partigiana è una narrazione falsata.
Come mai?
La Resistenza di Fenoglio è piena di personaggi coloriti, picari ed avventurieri. Non è vero:
nella lotta partigiana tutto ciò non poteva esistere. Ed il tentativo di edulcorarla con fenomeni e descrizioni folcloristici è un tentativo
destinato a fallire, e comunque irrealistico. La
Resistenza è quella che è stata, e cioè una
guerra atroce e difficile, in cui il dolore e la
morte erano prevalenti. Non dimentichiamoci
che a farla erano formazioni militari organizzate, nelle quali non era possibile essere qualcosa di altro che un combattente.
Nelle sue pagine trova spazio anche Milano,
ed in particolare un ritratto della città ambrosiana durante gli anni del boom economico. Che differenza c’è tra quella metropoli ed il capoluogo lombardo di oggi?
Una diversità abissale. Nella Milano in cui so-
RAFFAELE MASTO. Un nuovo reportage pieno di entusiasmo
L’Africa è il continente d’oro
Il suo lavoro di reporter lo ha portato anche in Medio Oriente e in
America Latina, ma il continente che conosce mente lavorato. Se devo parlarne nell’immemeglio per essere stato sui suoi scenari di diatezza mi vengono alla mente immagini inguerra e di pace è l’Africa. Una terra che ha vi- dimenticabili, di un mondo ricco di tutto quel
sitato e percorso da giornalista ma soprattutto che ci può essere, di un mondo di bellezza e di
fascino. Se ci rifletto però, e penso a tanti altri
da testimone emozionato.
Raffaele Masto, reporter e scrittore, ha - verso suoi aspetti, viene fuori una fotografia al negaquello che definisce il «continente del tesoro» tivo, un’immagine forgiata e fuorviata, e accetma anche «il continente senza pace» - un amo- tata e voluta in un certo modo da un mondo più
re speciale. L’Africa, dice, è veramente l’im- ricco che ha forzato l’Africa come una sorta di
magine della ricchezza, naturale, paesaggisti- forziere ricco di gemme, avorio e schiavi.
ca, minerale, faunistica: uno scrigno meravi- Crede dunque che l’Africa ce l’avrebbe fatglioso saccheggiato a piene mani dall’avidità ta e sarebbe oggi diversa senza gli europei?
degli europei che primi di tutti l’hanno forza- Sì, ce l’avrebbe fatta. Certo, bisogna intendersi sul «ce l’avrebbe fatto e violato. Chissà, se
ta». Sicuramente, quando
non ci fossero stati gli eusono arrivati gli europei,
ropei l’Africa dove sarebRAFFAELE MASTO
l’Africa aveva la sua stobe andata!
"L’Africa del tesoro"
ria, le sue civiltà, le sue
Ma la storia non si fa con
pp. 303, euro 16
i «se» e le vicende odierSperling & Kupfer, 2006 culture. Non sono un ingenuo e so che la storia è
ne dell’Africa ci parlano
comunque sempre stata
del genocidio del Ruanuno scontro-incontro di
da, di donne offese nella
loro dignità umana, di conflitti e conflitti sen- civiltà. Ma anche senza gli europei l’Africa saza fine. All’Africa, alle storie dolenti di donne rebbe andata da qualche parte. Dove non si sa.
africane, Masto ha dedicato i suoi libri e cioè Chi può dirlo? Ma credo che il disagio degli
Libera, l’odissea di una donna eritrea in fuga africani di fronte alle altre civiltà sia anche il
dalla guerra e quindi L’Africa del tesoro. Dia- frutto del modo in cui è stata presa, del modo
manti, oro, petrolio: il saccheggio del conti- in cui è stata fraintesa e violata. E, ripeto, non
nente; e ancora Io, Safiya e In Africa, ritratto sono un ingenuo a credere che avrebbe potuto non essere toccata.
inedito di un continente senza pace.
A Masto che dirige "Radio popolare" e ha re- Da inviato nelle terre africane, di cui ha vicentemente partecipato al convegno «La cul- sto morte e rovine, cosa può dire in segno di
tura delle emergenze», svoltosi a Milano dal 3 speranza?
al 5 aprile per iniziativa del "Sole 24 Ore", Sti- Io penso che gli africani debbano essere ottimisti. C’è un dato oggettivo che gioca a loro
los ha rivolto alcune domande.
favore: è un continente in gran parte giovane,
Se si dice la parola Africa a cosa pensa?
L’Africa è il continente nel quale ho maggior- mentre l’Europa è in decadenza. C’è, in questa
giovane Africa una straripante gioia di vivere,
laddove noi europei abbiamo paura di vivere il
presente. Purtroppo, ancora non sta avvenendo quel ricambio che permetta l’autonomia, se
non in settori minimi. L’Africa, ancora oggi,
non è nemmeno un mercato, ma è un continente di ricchezze e di manodopera a basso costo.
Lei è stato testimone della tragedia del
Ruanda. È ritornato in quei luoghi?
Sono tornato e ho trovato purtroppo un paese
in cui si parla di una riconciliazione che è ben
lontana dall’esserci veramente. Non è possibile che avvenga un genocidio come quello del
1994 e che tutto passi o sparisca nel giro di
qualche anno. Non c’è una casa dove non ci sia
un massacratore o un massacrato. E dunque
non è facile che tutto passi come se niente fosse stato. La pace si costruisce e i governanti
non hanno contribuito a rendere pacifica la situazione. Prima c’erano gli hutu e ora ci sono
i tutsi a comandare. La realtà è questa.
Nell’ultimo suo libro, Libera, lei racconta
l’odissea di una donna eritrea. Ma non è la
sola donna cui ha dedicato un libro. C’è Io,
Safiya, la testimonianza di una donna nigeriana. Ancora la donna per parlare dell’Africa?
Sì, ancora la donna. Per me scegliere una donna per raccontare l’Africa è come dire: guardate che l’oppressione di una guerra riguarda tutti, non solo gli uomini. Su Safiya la scelta era
obbligata, non l’ho fatta io, ma era la stessa situazione a richiederlo, e cioè la legge coranica che l’ha condannata. Io mi sono trovato nel
suo villaggio, a nord della Nigeria, dove dal
’99 vige la legge islamica integralista e dove la
donna è veramente l’ultima ruota del carro. A
no arrivato negli anni ’50 c’era una borghesia
che aveva ancora determinati valori: l’intenzione di fare soldi, certo, ma anche quella di
essere produttiva nel senso migliore del termine. Provenendo dal Piemonte, avevo tutta
un’altra idea, rappresentata da Torino, che rispetto a Milano era una città molto avara,
molto chiusa. Arrivato nel capoluogo lombardo, sono stato accolto da una società aperta,
che dava ospitalità a tutti coloro che avevano
un certo talento, e che soprattutto li aiutava. La
Milano di oggi sembra invece esclusivamente ossessionata e governata da pulsioni lucrative di ogni sorta, anche illecita.
Nella sua carriera giornalistica - che lei
traccia per sommicapi nel suo libro - qual è
stata l’esperienza più formativa?
Di certo quella de "Il Giorno", un quotidiano
nuovo che rompeva completamente con il
giornalismo borghese di quegli anni, rappresentato dal "Corriere della Sera" e da "La
Stampa". Ho ancora oggi la convinzione che in
quegli anni abbiamo inventato un nuovo modo di raccontare la quotidianità. Il direttore di
quella innovazione dirompente era Italo Petra,
che scriveva solo tre articoli - e sempre quelli: uno sull’agricoltura, uno sulla provincia e
uno sullo Stato -, ma che è stato uno dei più
importanti direttori del secolo scorso. Ed il binomio con il suo editore, Enrico Mattei, era
composto e incardinato dal reciproco ingegno e da un fortissimo carattere.
Siamo al ’68. In quegli anni lei fu molto critico nei confronti del movimento studentesco. Nel libro scrive che «l’aspetto più triste
delle faccende è che gli anziani e i parenti sono diposti a riconoscere la recita come reale conflitto di classe».
In quel periodo una specie di febbre diffusiva
visitò tutto il mondo, perché anche nelle università americane e francesi accadde qualcosa
di simile a ciò che successe da noi. Evidentemente, era un periodo di transizione ed i giovani comprendevano che il vecchio sistema ed
i suoi valori stavano tramontando, compreso la
Resistenza, che era stato un fenomeno prettamente borghese. Stava cambiando il mondo e
ne arrivava uno nuovo, in cui il capitalismo ed
il valore del denaro sarebbero stati preminenti. Tutte queste agitazioni e queste insofferenze nascevano dalla presa d’atto del fallimento
del socialismo. La sinistra cercava di opporsi
e di resistere, riproponendo alcuni miti che non
era più in grado di sopravvivere. Di qui la reazione, forte e violenta.
Il movimento studentesco rappresentò anche l’incubatrice dell’eversione che scuoterà l’Italia un decennio dopo. Come mai
gran parte dell’opinione pubblica non riuscì a mettere a fuoco il fenomeno del terrorismo sin dalla sua nascita?
Il terrorismo era un fenomeno irrazionale. Di
sicuro era autentico, perché a un certo punto
mobilitò circa trecentomila persone. Però non
aveva la minima possibilità di avere successo
perché era completamente fuori dalla ragione.
Uno dei momenti più critici di quegli anni
fu il sequestro Moro. Lei è a tutt’oggi convinto che la determinazione a non trattare
fu la scelta più corretta?
Anch’io fui tra quelli - come Pertini che in quei
giorni concitati mi chiamava spesso - decisi ad
essere duri: avevamo capito che lo Stato borghese si difendeva solo con la durezza. Se noi
fossimo scesi in trattative con i terroristi la crisi dello Stato borghese sarebbe arrivata molto,
molto prima.
me interessava molto Safiya, che tutti credevano passiva e poco reattiva, mentre a me sembrava che avesse una forte personalità. Per Libera, in cui ho parlato di Feven, scappata da
una caserma, la scelta è stata mia. È una delle
tante donne che vanno via e affrontano i viaggi della speranza per dare da vivere alla propria
famiglia lavorando in Europa.
Sembra quasi che lei voglia rappresentare
un continente come l’Africa con la figura
femminile.
La parola Africa è femminile in tutte le lingue. Le donne in Africa rappresentano il continente, e non solo per le banalità e i luoghi
comuni che tutti conosciamo. La mia è una
questione di genere: le donne africane sono
belle e riescono a mantenere la loro bellezza
anche in mezzo al degrado, anche nelle difficoltà della miseria. A noi giornalisti capita
spesso di scattare foto a montagne di rifiuti
accanto ai quali magari c’è una donna dal
portamento regale.
Lei ha recentemente dibattuto in un convegno sulla «cultura delle emergenze». Cosa
pensa di una delle tematiche trattate nel
convegno e cioè la violenza dell’immagine
e l’emergenza indotta dai media?
Sul mito dell’emergenza c’è tanto da dire. E
sopra tutto è necessario dire che bisogna demitizzare l’emergenza. Credo che i media
vadano cercando la violenza dell’immagine
per fare audience, perché la spettacolarizzazione dell’immagine cruda e violenta vende
bene. Ma non serve a niente. Si può parlare
della fame e della guerra, senza che sia necessario far vedere il solito bambino con la pancia gonfia o la donna con i seni avvizziti; non
c’è bisogno di mostrare il ragazzo senza le
gambe per colpa dei campi minati. Le guerre in Africa sono guerre povere e le conseguenze di un campo minato non sono la gamba squarciata, sono i campi stessi minati che
non possono essere coltivati e significano la
povertà per tutti.
S t los
narratori
stranieri
I n t e r v i s t e
D
IL LIBRO
PETROS MARKARIS
"La lunga estate calda del
commissario Charitos"
Trad. Andrea Di Gregorio
pp. 375, euro 17,50
Bompiani, 2007
MARILIA PICCONE
eve essere la qualità della
luce, o forse la brillantezza
dei colori, o il profumo
dell’aria del luogo in cui
vivono. Ci deve essere
qualcosa che fa sì che i commissari dei romanzi di indagine poliziesca scritti da autori dell’area mediterranea siano così diversi dai loro
colleghi scandinavi o dell’Europa centrale.
La prima differenza è che, tranne l’eterno fidanzato Montalbano, sono tutti felicemente
sposati e con figli: l’ateniese Kostas Charitos
di Markaris, il triestino di adozione Proteo
Laurenti di Veit Heinichen, il veneziano Guido Brunetti di Donna Leon. Mentre sono divorziati il Wallander di Mankell e il Van Veeteren di Nesser o il cupo ispettore Rebus di Ian
Rankin. E poi, per quanto si tratti sempre di
morti e di assassini, l’atmosfera è meno buia,
meno sinistra, sempre in qualche modo alleviata dalla serenità dell’ambiente famigliare,
addolcita dai pranzi cucinati dalle mogli, diversificata dalle preoccupazioni offerte dai figli. Quasi che il clima e la natura antropologica di un luogo possano influenzare non solo la
condotta umana ma anche l’humus in cui il tralignamento di quella condotta matura e gli investigotori si trovino a scavare.
E tuttavia nel nuovo e atteso romanzo di Petros
Markaris, uno dei più celebrati giallisti europei
viventi, tipico autore di area mediterranea, è
proprio l’ansia divoratrice per la sorte della figlia Caterina, tenuta in ostaggio dai terroristi
che si sono impadroniti del traghetto El Greco,
che spacca in due la coscienza dell’ispettore
Kostas Charitos, diviso tra il desiderio, che è
una necessità quasi fisica, di essere là, al porto di Creta, a seguire magari impotente da
lontano quello che accade a bordo della nave
dove si trova la figlia, e il dovere che gli impone di restare ad Atene dove agisce uno strano
assassino che sembra sdoppiarsi: un corpo da
body-building vestito di nero, che si muove su
una Harley Davidson e uccide con una Luger
del 1942, e una voce da vecchio con dentiera
che usa parole desuete come «pederasta»,
«gagà» e «deretano», e che dice di essere l’assassino dell’«azionista di riferimento». Un
mistero da risolvere contro l’emegernza personale da affrontare. Puntano sul ricatto i terroristi sul traghetto, un morto al giorno se non
verranno accolte le loro richieste, e sono ricattatorie pure le lettere che riceve la testata di un
giornale, lettere che impongono la sospensione di ogni pubblicità.
Come abbiamo già visto nei precedenti romanzi, Petros Markaris ha la capacità di stimolare
il lettore proponendo retroscena insoliti per i
crimini su cui indaga, in questo caso le guerre
vecchie e recenti dell’area balcanica e l’ipnotizzante pubblicità, diventata così invasiva e
costante da passare inosservata e che però è assolutamente indispensabile per far girare il
mondo dei soldi. Ma è attraverso il personaggio di Kostas Charitos che le tematiche vengono filtrate, è in lui - l’uomo medio che ha fatto sacrifici per far studiare l’unica figlia, che
guida una scassatissima Mirafiori, che ha scelto di entrare in polizia perché l’alternativa era
zappare la terra - che il lettore riconosce se
stesso e quelle che potrebbero essere le sue
reazioni. Perché, dietro al sequestro della nave e agli ostaggi freddati, dietro ai due omosessuali e alla giornalista morti con un colpo in testa perché facevano pubblicità, c’è il problema
della violenza contro cui Caterina, la figlia di
Kostas, si scontra per la prima volta con una
consapevolezza diversa mentre viene trattenuta come ostaggio perché figlia di un poliziotto: c’è differenza tra la violenza della polizia e
quella dei terroristi, o degli assassini? Che
sua figlia possa solo dubitare di lui è un pensiero che sconvolge Kostas, e lo porta a riandare
al passato nero della giunta militare, per far sapere in qualche modo a Caterina che no, suo
padre non ha mai usato violenza, anzi, che ha
cercato di fare del suo meglio laddove il Bene
non esisteva.
Leggere un libro di Petros Markaris è sempre
Nella foto Petros Markaris, autore per Bompiani di
La lunga estate del commissario Charitos
Tra la figlia rapita
e delitti misteriosi
Un commando di terroristi si è impossessato di una nave-traghetto per Creta e tra i passeggeri c’è la figlia del
commissario Kostas Charitos inn
viaggio con il fidanzato. Mentre tutta
la Grecia segue con ansia la vicenda
sugli schermi televisivi, Charitos deve
però occuparsi di una serie di omicidi
che avvengono ad Atene, omicidi che
sembrano opera di un maniaco. Le
vittime appartengono tutte al mondo
della pubblicità. Finché iniziano ad arrivare i messaggi dell’assassino e, parallelamente, le richieste dei terroristi.
Un finale che prova come il passato
non muoia mai.
PETROS MARKARIS . Un giallo di idee più che di azione. «Il vero controllo dei media
non è nelle mani di chi ha l’1 o il 2%, ma in quelle delle compagnie di pubblicità. Sono
loro a decidere tutto, che hanno il coltello per il manico e davanti ad un rifiuto delle
loro richieste non fanno pubblicità. I media dipendono dalle compagnie di pubblicità»
Un commando terroristico
con serial killer e pubblicità
un piacere: si girano le pagine perché si è incuriositi dalla trama, ci si sorprende a ridere delle battute di Kostas, si sorride dei continui
battibecchi con la moglie Adriana, ci si affaccia sulle acque blu del Pireo, si impreca con
Kostas per il traffico congestionato di Atene.
Aspettando il prossimo romanzo. Stilos ha intervistato lo scrittore che è nato a Istanbul nel
1937, figlio di padre armeno e madre greca.
Lo spunto dei suoi romanzi è sempre sorprendente ed originale. In questo nuovo romanzo gli spunti sono due: quale dei due le
è venuto per primo in mente? Quello dei
terroristi o quello delle stelle della pubblicità?
Lo spunto iniziale è stato quello della pubblicità, anche se non immediatamente con la figura dell’assassino. Mi è venuto in mente come conseguenza di un grosso scandalo politico: era il 2004, il partito di centrodestra aveva
vinto le elezioni e aveva dovuto fronteggiare la
situazione per cui tutti i media televisivi e i
giornali erano alleati del precedente governo.
Per cercare di rovesciare la situazione avevano pensato di varare una legge per cui chiunque detenesse una quota anche dell’1% di un
canale televisivo sarebbe stato considerato come azionista di riferimento e non poteva accettare commesse pubbliche. Ora i canali televisivi appartengono perlopiù ad aziende di opere pubbliche; l’idea era di costringere queste
aziende a cedere sul mercato la loro quota di
partecipazione, così sarebbe stata comperata
da quelli al governo. Ma l’Unione Europea ha
messo il veto per mesi e si è andati avanti all’infinito con la questione. Allora ho pensato
che, dopo tutto, il vero controllo dei media non
è nelle mani di chi ha l’1 o il 2%, ma in quelle delle compagnie di pubblicità. Sono loro a
decidere tutto, che hanno il coltello per il manico e davanti ad un rifiuto delle loro richieste
non mettono la pubblicità. I media dipendono
dalle compagnie di pubblicità. Per quello che
riguarda il secondo filone, dei terroristi sul traghetto, il romanzo inizia con un grande evento, doppiamente grande per Kostas, perché ha
la soddisfazione che sua figlia si laurea e lui ha
anche finito di mantenerla agli studi. E ho
pensato che era necessario che succedesse
qualcosa di tragico per bilanciare questo evento felice. Era il periodo in cui ci fu l’attentato
dell’11 marzo 2004 a Madrid, e così ho avuto
l’idea del terrorismo. Poi ci furono gli attentati di Londra, e io mi sono detto: «Non ho più
niente di cui scrivere», e continuavo a parlarne con mia figlia e con il mio editore… E mi
è venuta l’idea del traghetto. Senza dire nulla
della trama e senza svelare che cosa ci sia dietro, mi preme dire che i riferimenti politici sono veri, è vera la figura del vecchio, è vera la
lettera dell’arcivescovo e così pure la decisione del corpo di polizia di cui si parla nel libro.
Senso vietato
di Massimo Onofri
FRANCO ZEFFIRELLI
Il Visconte dimezzato
Il libro inizia con la domanda che il professore rivolge a Caterina che sta discutendo la
tesi, se la privazione della vita come risultato di un attacco terroristico sia giuridicamente uguale alla privazione della vita come risultato di un crimine che abbia per
scopo un furto, ad esempio. Domanda perfetta per una storia di delitti: tutte le morti
hanno lo stesso valore?
Per me è lo stesso, nel senso che uccidere è
sempre un male, non importa per quale motivo si uccida. Non esiste alcuna scusa, non c’è
alcuna giustificazione. Sono contro ogni tipo
di terrorismo - sia italiano o tedesco, sia sotto
la forma delle Brigate Rosse o del terrorismo
islamico. Uccidere non è la soluzione, non si
arriva a nulla uccidendo. Nel romanzo ci sono
due tipi di terrorismo, uno moderno ed uno antico che ha un obiettivo più specifico. E il
vecchio che incarna questo secondo tipo di terrorismo disprezza gli altri che agiscono sul traghetto.
C’è un’altra domanda importante nel romanzo e riguarda la violenza: la violenza è
sempre la stessa, da qualunque parte venga?
Sì, la violenza è uguale, non si può combattere la violenza con altra violenza, non combatti contro la violenza creando la violenza. Ci deve essere una linea tra la violenza e la tortura
organizzata e l’istituzione che protegge l’integrità della gente: quando il governo tollera la
violenza, anche chi governa si mette sullo
stesso piano. Succede dove la violenza è istituzionalizzata o tollerata: è la differenza tra il
vivere in una democrazia o tra i talebani.
C’è poi il tema ricorrente del ricatto: pensa che il ricatto- ad ogni livello, politico o
affettivo- sia un segno di vigliaccheria e di
debolezza?
Penso che il ricatto sia la via più breve per raggiungere cose che non sono raggiungibili. Per
pagina
9
i terroristi è la cosa più facile, minacciare di uccidere un ostaggio al giorno se le loro richieste
non vengono soddisfatte. La stessa cosa avviene per la polizia, per costringere qualcuno a testimoniare. È la via più breve e illegale per raggiungere quello che si vuole.
Kostas si lamenta spesso dello strascico dei
giochi olimpici: i vantaggi dell’essere il paese ospitante sono finiti insieme ai giochi? O
ci sono stati anche dei veri svantaggi come
conseguenza?
Il vantaggio è stato che la Grecia ha avuto successo per la brillantezza dell’organizzazione.
Dobbiamo considerare che in Grecia tutto è
sempre un miracolo. La Grecia è molto male
organizzata, non ha solide strutture, non ha una
pianificazione efficace. Allora tutta questa debolezza dipende in qualche modo dal miracolo, nel caso si riesca a concludere qualcosa.
Quando alla fine tutto funziona, gli stranieri dicono: «È un miracolo». Il male dei miracoli è
che finiscono presto. Sono stati spesi un mucchio di soldi per costruire delle arene enormi
perché si voleva impressionare i visitatori, è
vero, ma anche perché gli appalti erano maggiori per costruzioni maggiori. Ora nessuno
vuole queste strutture gigantesche, nessuno
le vuole comperare, i costi di mantenimento
sono alti, cadono a pezzi, sono abbandonate.
Nel romanzo si parla di una zona che si è trasformata in alloggi economici di albanesi e
zingari, sì, potrebbe essere una soluzione- ma
noi paghiamo ancora il debito.
Un’altra cosa di cui Kostas si lamenta sono
le «eurette»: quali sono state le conseguenze dell’introduzione dell’euro in Grecia?
C’è stato un aumento dei prezzi come in Italia?
In Grecia con l’euro è successo come ovunque, i prezzi sono aumentati in maniera spropositata. Però se non fossimo entrati in Eurolandia, la dracma sarebbe crollata. L’euro è
molto più stabile e anche più costoso. Per tutti i greci è diventata abitudine cambiare mentalmente il prezzo in euro in quello corrispondente nelle vecchie dracme per rendersi conto
di quanto costi qualcosa. Il vantaggio è che i
greci non hanno alcun senso del denaro e così i politici se la sono cavata. Ma i greci fanno
fatica a mantenere il livello di vita che avevano prima, nelle famiglie si deve lavorare in due
e poi c’è il problema degli interessi di credito,
dei prestiti e dei mutui.
Di recente, in Italia, ci sono state delle discussioni sui giornali sul termine politicamente corretto da usare per gli omosessuali. Le parole usate nel romanzo sono divertenti e non proprio corrette, c’è persino l’adattamento del vocabolo «finocchio» in «finocchicidio». Non c’è in Grecia l’ossessione
per il politicamente corretto?
Come scrittore vivo in un ambiente in cui gli
omosessuali - o i gay che dir si voglia - sono
molto numerosi. Ho molti amici gay. Ma, fuori della cerchia degli artisti o dei letterati, le parole usate per gli omosessuali sono offensive e
per questo ho messo nel romanzo delle vittime
omosessuali, per questo ho usato volutamente un certo linguaggio «scorretto», per mostrare il pregiudizio su queste persone.
Il passato riaffiora in molti suoi romanzi:
quale consapevolezza hanno i giovani di come fosse la vita in Grecia anche solo
trent’anni fa?
Nessuna, definitivamente nessuna. Da noi non
è successo come è successo in Germania o altrove, dove si è chiesto a quelli della passata
generazione che cosa avessero fatto durante la
guerra. Noi greci non abbiamo elaborato il
passato, per quello insisto su questo tema nei
miei romanzi e in questo in particolare. Dobbiamo affrontare il passato, e invece nessuno
lo fa, neppure gli scrittori lo fanno ed è ancora peggio. È necessario un lavoro storico organizzato per affrontare il passato, della guerra
civile, della giunta. Adesso forse questo lavoro sta iniziando, ma molto lentamente.
Caterina ha terminato gli studi, la Mirafiori pare fermarsi definitivamente da un momento all’altro. Andrà in pensione il commissario Charitos?
Ah, la Mirafiori! Non so proprio che cosa fare con la Mirafiori! Ma no, Kostas Charitos
non andrà ancora in pensione.
MICHELE GIANNONE
MARCO INNOCENTI
LAURA CAMPIGLIO
IL SEGRETO DI KRUNE
DIARIO
DI UN ACCALAPPIACANI
INVECE LINDA
In un’oscura metropoli, la corsa dei cani e degli uomini
verso la libertà.
“Invece Linda è una storia d’amore e di rigurgito, è una mela
avvelenata, un flipper in tilt per i troppi scossoni".
Andrea G. Pinketts
496 pp - 18 euro - leggi l’incipit su www.darioflaccovio.it
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Dario Flaccovio Editore
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Dalla Sicilia, una nuova voce del fantasy
che trascinerà i lettori in un viaggio affascinante.
10
I n t e r v i s t e
la festa di Ognissanti del
1975, la vigilia della ricorrenza dei Morti: c’è aria di
morte in Spagna, non solo
perché sta morendo il Caudillo, ma perché insieme a
lui - si sa, si avverte nell’aria, si coglie in qualche parola, si teme, si auspica - scompare un’epoca contrassegnata dall’oscurantismo e da regole ferree, dal bigottismo e dalla morale ipocrita. Per i fedelissimi è
la fine della grande Spagna (ed è una strana
coincidenza che proprio gli ultimi giorni di vita di Franco siano anche gli ultimi giorni del
dominio spagnolo nel Sahara), per la Chiesa è
il trionfo della «città del diavolo» che è poi la
temuta Spagna rossa e atea. E forse l’immagine che meglio rappresenta il vecchio e il nuovo nel romanzo di Ángela Vallvey è quella della nera tonaca svolazzante del curato in bicicletta, un’ala di pipistrello che lascia intravedere i jeans che Don Alberto - che rinuncia volentieri al Don invitando Ricardo a chiamarlo
solo per nome - indossa sotto.
Per Don Dionisio (che i ragazzi chiamano irrispettosamente «la Reliquia», perché è vecchio, perché, anche se loro non lo sanno, è un
sopravvissuto) questo prete appena arrivato è
troppo giovane, troppo bello, troppo con l’aria
da ragazzone sportivo. Tocca proprio a Don
Alberto trovare la donna morta, uccisa con 29
coltellate. Ed è un bene perché la reazione di
Don Alberto è quella giusta e spontanea, di orrore e di pena non guastati dai pregiudizi. Perché fa forse differenze la morte? Si può dire
che Clara, bella e piena di vita (e i compaesani naturalmente mormoravano che «la dava a
tutti»), meritava di morire mentre anche «il Timoniere sorridente» sta morendo? Come se
anche lui se lo meritasse.
L’assassinio di Clara è un espediente narrativo
necessario, perché mette in moto le due inchieste, della Guardia Civil e del curato con il ragazzino. E il decenne Ricardo diventa il personaggio più importante, osservatore innocente
che può guardare il mondo della sua famiglia,
origliando parole non destinate alle sue orecchie e sollecitato dal nonno irriverente ad una
visione diversa, quello della scuola (che è, in
piccolo, uguale a quello degli adulti, già terribilmente crudele con la bambina figlia di Clara), quello del paese che trabocca di pettegolezzi e di voci più o meno fondate. A volte ci si
dimentica che Ricardo è solo un bambino, le
cose che dice, le parole che usa, le osservazioni che fa, sarebbero più adeguate in bocca ad
un ragazzo più grande. Più indovinata ci pare
la voce della sorellina Macarena, bambina
precoce che deve rivaleggiare con i fratelli più
grandi, deliziosamente ambiziosa e curiosa, il
che le assegna un ruolo importante nella trama.
Venti giorni dura l’inchiesta per la morte di
Clara, scanditi ossessivamente con i bollettini
medici e le notizie di politica estera, e se alla fine resta qualche dubbio su chi sia il colpevole, è perché molti sono i responsabili anche se
uno solo ha impugnato il coltello. Ed intanto è
un bene che la figlia di Clara vada a studiare
altrove - i tempi dei cambiamenti sono lunghi
ovunque, ma ancora di più lo sono nei paesi,
dove anche la memoria è lunga. Giusta e sbagliata, nel bene e nel male, nel vero e nel falso. Stilos ha intervistato la Vallvey.
La città del diavolo è un romanzo molto diverso dai suoi precedenti, A caccia dell’ultimo uomo selvaggio e Lezioni di felicità. Che
cosa l’ha spinta a cambiare genere? E come
definirebbe il suo romanzo? Un noir, un romanzo di indagine poliziesca, un romanzo
socio-storico con un’indagine?
È vero che è un libro molto diverso dai precedenti, ma non sono certo una scrittrice che scrive sempre lo stesso libro. Ho molti scrupoli nei
riguardi della foresta amazzonica e non voglio
che venga sprecata della carta per storie sempre uguali. La città del diavolo è un romanzo
di intrigo che non segue i soliti canoni, è soprattutto un romanzo di emozioni in un contesto storico di terribili cambiamenti nella società spagnola, visti attraverso gli occhi di un
bambino che non sa che cosa stia succedendo.
È un romanzo su un residuo di Spagna che
scompare, un romanzo nero ma prima di tutto
un romanzo di emozioni violente.
Lei aveva più o meno l’età del chierichetto
Ricardo nel 1975, quando è morto Franco:
che cosa ricorda di quei giorni?
Non ricordo molto, ricordo che erano cambiati i programmi televisivi, che suonavano sempre musica classica e questo significava che
era successo qualcosa. Ma, d’altronde, Franco
non esisteva nella vita quotidiana della maggior parte degli spagnoli, a meno che non ci
fosse una coscienza politica nelle famiglie. E
questo romanzo è un po’un’archeologia della
memoria, un ricordare la storia che ho studiato, perché ho una formazione storica universitaria. All’università era faticoso studiare questo periodo, non risvegliava alcuna curiosità.
Adesso, con Zapatero, c’è un revisionismo
furioso per fare una giustizia anacronistica. Il
romanzo è come un esercizio di memoria per
parlare del senso di vergogna che si è provato
a lungo verso questo periodo.
La Spagna di oggi, la Spagna di Zapatero,
è lontana anni luce dalla Spagna di Franco,
in effetti più dei 30 anni che sono passati da
allora, oppure i cambiamenti si sono susseguiti molto velocemente. Non così all’inizio,
naturalmente: c’è un momento, una data
E’
S t los
ÁNGELA VALLVEY. «Clara rappresenta la Spagna come
poteva essere, metafora di una Spagna meno schiava della
sua ideologia. La domanda da farci oggi è se non sia morta
davvero questa Spagna libera, se forse non sia mai nata»
Il romanzo in nero
della Spagna morta
IL LIBRO
MARILIA PICCONE
VIVE A MILANO. SCRIVE SU UNA RIVISTA
WEB. HA SVOLTO ATTIVITÀ DI TRADUTTRICE DALL’INGLESE
particolare a partire dalla quale c’è stata
come una rincorsa di novità?
Sì, c’è un momento in cui c’è stata un’accelerazione. Nel modo in cui è stata vissuta la
transizione c’è stata una volontà di conciliazione e di dimenticare, un desiderio di perdono
per tutto quello di terribile che era accaduto
durante la guerra civile, una guerra più crudele di quanto lo siano state altre guerre civili in
Europa, in Finlandia o in Grecia, ad esempio.
C’era la volontà di girare la pagina. Questo
sforzo di conciliazione diede i suoi frutti, in
molte cose è stato un bene e in molte altre un
male, la frammentazione della società spagnola non era così evidente. Le due Spagne,
della destra e della sinistra, del Fronte nazionale azzurro e del Fronte Popolare rosso, non erano così nettamente marcate in questi 30 anni
come lo sono ora. Poi il terrorismo, gli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid e quello più
recente del 31 dicembre 2006, hanno aperto un
ciclo sospinto dal governo di Zapatero e la memoria storica si è trasformata in un fronte
aperto. È una cosa che mi fa paura, che mi dà
i brividi, perché la Spagna è un paese feroce.
La volta scorsa che sono stata in Italia, per la
presentazione del mio romanzo precedente,
era stato poco dopo l’attentato del marzo 2004,
c’erano stati 192 morti, un massacro, la Spagna era tremendamente scossa. Poteva servire
per unire la società spagnola e invece si è
creata in Spagna una frattura tremenda e continuiamo con questa divisione. Ci siamo rivolti verso il passato in una maniera poco piacevole. Il guaio è che in Spagna manca un’idea
di socialdemocrazia, la destra e la sinistra hanno tinte molto forti e nette, come in passato.
Dopo secoli di storia di tradizione fortemente e rigidamente cattolica - pensiamo ai re
cattolici, all’Inquisizione - qual è la presa
che ha oggi la Chiesa in Spagna?
La Chiesa non ha più alcun potere in Spagna
oggi, d’altra parte neppure con Franco fu il
braccio politico o sociale del governo. Anzi,
nel 1952 la Chiesa si è separata nettamente da
Franco, chiedendo perdono per essersi schierata con Franco durante la guerra civile. Inten-
In tre
C nella terra
A d’oriente
T
A
L
O
G
O
ÁNGELA VALLVEY
"La città del diavolo"
Trad. Roberto Bovaia
pp. 325, euro 16
Guanda, 2007
Una ragazza assassinata
quando muore Franco
Novembre 1975, Spagna. Il Generalissimo sta agonizzando, nel paese di San
Esteban viene trovata morta Clara,
ventinovenne ragazza madre sospettata di far parte del Partito comunista
clandestino. Mentre la Guardia Civil
indaga sul delitto, anche il giovane curato Don Alberto e il chierichetto Ricardo, compagno di scuola della figlia
di Clara, svolgono una ricerca parallela. La radio trasmette bollettini sulla
salute di Franco e sul procedere della
Marcia Verde in Africa, e mentre dall’estero giungono notizie della morte
di Pasolini, nel paese vengono alla luce
meschinità, ottusità e colpe segrete nascoste dalle mura domestiche. L’omicidio di Clara apare sempre più un sacrificio rituale.
deva con quello salvaguardare la sua indipendenza e non essere il braccio politico di Franco. Per Franco fu un trauma. Oggi la Chiesa è
«disattivata»: siamo tutti cattolici ma i praticanti sono ogni giorno di meno e il potere della Chiesa è inesistente. Riaffiora però una
campagna anticlericale che riporta ai tempi di
una volta, anche se ormai non si ammazzano
più preti e monache. Pochi giorni fa c’è stato
uno scandalo: in Estremadura con il denaro
pubblico è stata finanziata la pubblicazione di
un catalogo di foto pornografiche a soggetto
religioso, qualcosa di vergognoso sia per i
credenti sia per i non credenti come me - io sono, come dice Buñuel, «atea per grazia di
Dio». È inconcepibile che delle autorità politiche che si pongono al fianco degli islamici
quando vengono pubblicate delle vignette ol-
KIEN NGUYEN
"Il coloniale"
Trad. Laura Noulian
pp. 413, euro 16,50
Garzanti, 2007
Oriente e Occidente agli albori del colonialismo in un romanzo di grandi passioni e ambizioni. È il 1773, il porto di Marsiglia è affollato di viaggiatori, marinai e commercianti, monaci e sacerdoti. Tre uomini, Monsignor Pierre de Béhaine, gesuita, François Gervaise, un giovane pittore, Henri Monange,
sedicenne e nullafacente, si imbarcano sulle navi della Compagnia di Gesù; sono diretti verso l’Annam, la terra a sud
della Cina, l’odierno Vietnam. Sperano in una nuova vita.
Doppio
delitto
a Leeds
Nella foto Ángela Vallvey, che da Guanda ha pubblicato
La città del diavolo
traggiose per la loro religione, finanzino poi un
catalogo del genere che istiga a comportamenti immorali e criminosi.
Una nota iniziale dice che La città del diavolo
era, in termini cardinalizi, «l’altra Spagna»:
era una connotazione soltanto religiosa, come la dimora del peccato, o anche politica?
Sia politica sia religiosa, in opposizione alla
«città di Dio» di Sant’Agostino. La gente che
appartiene alla città del diavolo è la Spagna
rossa e anticlericale, la Spagna non ufficiale
del franchismo, quella che non era d’accordo
con il regime, al margine della legge divina.
All’inizio del romanzo avvertiamo chiaramente che la morte di Clara serve da contrappunto a quella, attesa, del Generalissimo: era dunque necessario che fosse proprio Clara a morire?
Forse no, ma è il motivo letterario perché funzioni il romanzo, contrapposto alla morte del
Generalissimo. Clara rappresenta la Spagna
come poteva essere, la Spagna più libera, lei è
una donna «libera». Credo che Clara sia una
metafora di una Spagna meno schiava della
sua ideologia. La domanda da farci oggi è se
non sia morta davvero questa Spagna libera, se
forse non sia mai nata, se forse non siamo sempre tutti schiavi di una qualche ideologia.
C’è un gioco di doppi nel romanzo, il più
evidente è quello dei due sacerdoti, ci sono
poi due padri, due bambine…
La figura del doppio ha la sua importanza nel
romanzo, anche se non funziona come nel
motivo classico: è un riferimento alla duplicità
che c’è in Spagna, alle due Spagne opposte,
una contro l’altra, una diversa dall’altra.
Le figure femminili, invece, sono quattro: la
povera Clara che ha osato trasgredire, la
goffa sorella, la madre di Ricardo che potremmo chiamare «la moglie», e la zia zitella. Si ha quasi l’impressione che, per la
morale dell’epoca, fosse quasi una fortuna,
o un merito, non essere attraenti.
Il franchismo fu un regime che produsse questi personaggi: la zia zitella è un prodotto
quanto mai tipico del franchismo, bianco e sterile, un tipo di donna molto utile per le famiglie, per occuparsi dei bambini, dare una mano in casa. È una sterilità che è un prodotto del
franchismo, del suo controllo sociale. La madre di Ricardo è la donna innocente e fiduciosa, è il modello maggioritario per le donne degli anni ’70, che badano alla casa e ai figli, sono il pilastro della società ma senza una chiara coscienza di sé - mia madre era una donna
così. C’è una serie di tipi che sono gli archetipi dell’epoca e funzionano sempre nei romanzi, come un abito che chiunque si può mettere.
La scelta di un piccolo centro per la vicenda: è perché in un paese la rigidità della morale viene esasperata? San Esteban è un
paese che non esiste, aveva in mente un luogo che lei conosce, come riferimento?
San Esteban è un miscuglio di paesi diversi
che conosco, avrebbe potuto essere qualunque
società rurale del franchismo: erano tutti uguali, soprattutto in Castiglia e in Andalusia. Non
potevo scegliere un luogo vero per una storia
tremenda, perché poi gli abitanti se la sarebbero presa con me. Ed era necessario un paese
perché nella città tutto è diverso, l’informazione era differente, i meccanismi sociali delle
città, che accolgono l’emigrazione dai paesi,
sono diversi. E sono diversi anche i crimini rurali da quelli cittadini: questo tipo di storia poteva svolgersi solo in un paese.
Il giovane Don Alberto è amico di un gruppo di «preti rossi»: come venivano considerati, che libertà operativa avevano questi
sacerdoti di sinistra?
C’è un gioco di parole in Spagna per indicare
l’ultima quindicina di anni della dittatura di
Franco: si dice che non era una «dictadura» ma
una «dictablanda», una dittatura morbida. C’erano parecchi gruppi di sacerdoti operai che fecero un grande lavoro sociale fra gli operai,
erano tollerati e ben accolti sia dalla Chiesa sia
dal regime. Franco non credette mai che la
Chiesa potesse essergli nemica, i suoi nemici
erano altri.
La Guerra Civile è una delle ombre che si
allungano nel romanzo, eppure la generazione dei giovanissimi - Ricardo e i suoi
compagni di scuola - non ne sa molto, addirittura chiede di quale guerra si tratti. È
stato un bene o un male che ci sia stato un
lungo silenzio sulla guerra civile? Era un
silenzio, per così dire, «fisiologico»?
È stato proprio come dice lei, un silenzio fisiologico; non so se sia stato un bene o un male,
è servito in questi trent’anni, adesso sembra
non servire più. Forse, allora, era meglio portare i cadaveri alla luce subito e dargli sepoltura, perché ora stanno resuscitando.
PETER ROBINSON
"Black dog"
Trad. Roberta Maresca
pp. 499, euro 19
Rizzoli, 2007
Due indagini parallele che si intrecciano in questo thriller di
Robinson. La prima storia si svolge nel settembre 1969, a
Leeds, durante il primo festival all’aperto dello Yorkshire,
con migliaia di giovani che si scatenano al ritmo dei Mad
Hatters e l’omicidio di una diciassettenne. E sempre a Leeds,
nel 2005, un altro omicidio, quello di un giovane giornalista
musicale, su cui indaga l’ispettore Alan Banks. Banks scopre
che il giornalista stava scrivendo un pezzo sui Mad Hatters.
Capoverso
pagina
narratori
stranieri
IDOLINA LANDOLFI
LA TORINO CREPUSCOLARE
Curato da Roberto Rossi Precerutti e con
scritti di Giovanna Ioli e Dario Capello (e
bell’inserto fotografico sulla Torino liberty firmato da Nino Lucchesi), la silloge Torino Art Nouveau e Crepuscolare.
Poeti e luoghi della poesia (Crocetti Editore, pp. 136, euro 25) presenta diciassette poeti torinesi, o che a Torino si trasferirono, attivi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; accomunati da vite
perlopiù brevi, insidiate dalla malattia (soprattutto la tisi: così per Gozzano e altri) o
falciate dalla Grande Guerra (così per Nino Oxilia).
La Torino liberty è sovente il palcoscenico per la recita dei loro versi sussurrati, i
loro abbandoni ad antiche malinconie, alla «dolcezza delle cose a fine volte», agli
amori non vissuti e forse per questo i soli
felici; o per le loro risate amare, talvolta sinistre, nell’elogio dell’ironia come unico
approccio ad una realtà grottesca (è la
«scuola dell’ironia» di Guido Gozzano, di
Carlo Chiaves, autore della raccolta Sogno e ironia, 1910; di Carlo Vallini nel suo
poemetto Un giorno: «Pper me la scuola
migliore / è la scuola dell’ironia. / È più
saggia, se tu sapessi, / della saggezza tua
calva: / è quella che ancora ci salva / dal ridicolo verso noi stessi»). Una città che ci
appare come minata da una segreta tabe, e
suscita in loro sentimenti contrastanti, li
affligge con la monotonia di giorni uguali; luogo da fuggire e da agognare quando
si è lontani, come per Giovanni Croce,
«malato di Torino», morto a ventidue anni e autore di un solo libro, L’anima di Torino, appunto.
Il curatore del volume opportunamente inquadra, da un punto di vista biografico e
critico, ciascun poeta di questo «crepuscolo», evidenziandone le caratteristiche comuni (prima tra tutte il senso della fine) e
le peculiarità; e ne riporta alcune liriche
esemplari di quella temperie culturale. I
nomi sono noti e meno noti, da Arturo
Graf, padre putativo di molti di essi, a
Gozzano, da Amalia Guglielminetti, unica donna, a Giovanni Camerana, Enrico
Thovez, Giulio Gianelli, Antonio Rubino
ecc.
Il «verso minore» di Graf, l’ottonario
adottato nella raccolta Le rime della selva
(1906) rappresenta per una generazione di
poeti l’esortazione a ripiegare su un tono
colloquiale, sommesso, cantori essi stessi
degli aspetti più dimessi dell’esistenza,
le tristezze domenicali, i luoghi che il
tempo ha coperto della sua polvere, i salotti della buona borghesia fatti di ricordo
e nostalgia: «Ho caro il picciolo verso /
Che guizzi come saetta, / […] // Leggere
vuoi? Non cercare / Nel disadorno volume
/ Il superesteticume, / Le preziosaggini rare».
In molti raccolgono l’invito ideale. Di
Giovanni Camerana sono qui proposte
alcune liriche dedicate alla Madonna del
Santuario di Oropa, cui il poeta chiede invano conforto quando «la gran notte interior dispiega / le immonde ali d’upùpa orribilmente». Un ossianesimo che ritorna
in taluni altri, come Antonio Rubino, che
nella raccolta Versi e disegni, dell’1911,
indulge in macabre visioni, paesaggi lunari pervasi da un intimo orrore: «Passa la
luna fredda sui macigni / senza che il volto dell’orrore muti: / la gran ruina è piena
di sogghigni / come un ammasso di teschi
caduti» (Insidie lunari).
Da Il poema dell’adolescenza (1901) di
Enrico Thovez, «personalità tra le più
complesse e contraddittorie dell’ambiente culturale subalpino del primo Novecento», sono tratti alcuni componimenti in cui
compare una Torino osservata come attraverso un velo di lacrime e abitata da fantasmi inquieti, dove una «lunga agonia»,
un presagio di morte s’intravede tra le familiari parvenze. I ritmi cantabili di Ernesto Ragazzoni, il suo divertito sberleffo,
ebbero al tempo, e fino ad oggi, una certa
fortuna: l’Elegia del verme solitario, con
le sue strofe tutte concluse in maniera
identica («perch’io solo sono il verme /
lungo verme / cupo verme / cieco verme /
bieco verme / triste verme / solitario») resta un piccolo classico nel suo genere.
Seminatore di tematiche che avranno poi
larga diffusione è Cosimo Giorgieri-Contri, il cui Convegno dei cipressi (1894) è
opera paradigmatica, con il vasto armamentario crepuscolare cui abbiamo accennato, e una Torino che si offre ad una
mesta «recita del congedo», come scrive
il curatore: così in Sul corso re Umberto e
In piazza della Gran Madre di Dio, qui
antologizzate.
S t los
narratori
stranieri
I n t e r v i s t e
I
EMILIA PAGLIANO
l giovanissimo scrittore
spagnolo Juan Gómez-Jurado sovverte le regole del
giallo nel suo primo romanzo intitolato La spia di
Dio, un nuovo titolo della serie clericale oggi
di voga. Perché la domanda tipica, «chi è l’assassino?», viene sostituita da un’altra, «dove
è? dove si nasconde?», non appena l’americano padre Anthony Fowler arriva sulla scena
del delitto (una Roma congestionata da milioni di fedeli accorsi da ogni dove per un ultimo
saluto al capo della cristianità appena deceduto: il quadro di riferimenti a Papa Wojtyla è tenuto sotto stretto cotnrollo storico) e fa il nome
di Viktor Karoski, sacerdote di origine polacca recidivo per abusi sessuali e pedofilia, già
internato per riabilitazione nell’Istituto Saint
Matthew da cui era poi fuggito, volatizzandosi, nel 2000.
Juan Gómez-Jurado intreccia un thriller con
materiale scottante, portando ad estreme conseguenze una colpa a lungo taciuta, la propensione di parecchi sacerdoti ad intrattenersi con
i ragazzini delle cui anime sono responsabili.
Con il silenzio acquiescente, altrettanto scellerato e ancora più colpevole dei superiori che
provvedono, al più, a spostarli di parrocchia in
un itinerante sentiero della pedofilia. Viktor
Karoski è il colpevole, ma chi altro lo è, assieme a lui? Viktor Karoski è l’assassino, ma come, che cosa, chi lo ha fatto diventare un serial
killer che mutila le sue vittime?
Ogni capitolo de La spia di Dio è intitolato con
un luogo, un indirizzo e una data, e i capitoli si
alternano, con un ritmo diverso, con una differente discesa nell’inferno dentro e fuori i personaggi. La vicenda si svolge a Roma - nei dolenti giorni del lutto per Viktor Karoski, il
prete astuto dalle molte maschere - nell’arco di
cinque giorni, tra il 5 e il 10 aprile 2005, mentre il passato di Karoski è esplorato attraverso
le conversazioni tra lui e il direttore dell’Istituto Saint Matthew, durante sedute normali o di
ipnosi, registrate dal 1994 al 1998, con aggiunte esplicative da parte di padre Fowler.
Ne esce un quadro agghiacciante, di un Karoski bambino molestato sia dal padre sia dalla
madre, punito con la reclusione dentro un armadio per un mese intero per qualcosa che non
ha fatto, un Karoski che è passato dall’essere
vittima nell’ambito familiare ad esercitare lui
stesso un ugual tipo di violenza sui minori per
tornare ad essere vittima. Ma non vogliamo
aggiungere altro.
E tuttavia il destino dell’uomo non è predeterminato, la grandezza del cattolicesimo sta nel
riconoscere all’uomo il libero arbitrio e padre
Anthony Fowler, «la spia di Dio», è il personaggio antitetico a Viktor Karoski. Di Anthony
Fowler sappiamo e non sappiamo, il sovrastante della Gendarmeria vaticana lo accusa di
essere addirittura un assassino in quanto agente della Cia ed esibisce foto di Fowler in Nicaragua in mezzo a cumuli di morti. Ma perché
mai si era arruolato volontario per il Vietnam
dopo una laurea con lode in psicologia? E
perché aveva rifiutato di beneficiare dell’ingente eredità paterna? Personaggio enigmatico e affascinante, a lui spettano le parole luminose che fanno sperare nel trionfo della Chiesa che risorge dalle ceneri.
In risposta al profiler Paola Dicanti che dice
«Dio, che schifo. Meno male che mi sono allontanata dalla Chiesa», padre Fowler ribatte
«Dottoressa, non cada in questo errore. Dietro
questa Chiesa di fango e di sangue che lei vede ce n’è un’altra, infinita e invisibile i cui
stendardi si levano dritti fino al Cielo. Quella
Chiesa vive nei milioni di anime che amano
Cristo e il suo messaggio».
Stilos ha intervistato Juan Gómez-Jurado, che
vive con la moglie e la figlia a Madrid, dove è
nato nel 1977.
Ad una prima lettura il romanzo La spia di
Dio sembra essere un thriller in cui il nodo
centrale della colpa è la pedofilia dei sacerdoti. Una lettura più approfondita rivela
però che anche l’ambizione dei sacerdoti è
JUAN
GÓMEZ-JURADO
IL LIBRO
JUAN GÓMEZ-JURADO
"La spia di Dio"
Trad. Patrizia Spinato
pp. 348, euro 16,60
Longanesi, 2007
«Facevo ricerche
per un noir
quando una notte,
sul cesto della
roba sporca, ho
visto una camicia
nera con dentro
una maglietta
bianca. Nel buio
sembrava una
veste di
sacerdote. Da lì
l’idea: e se il serial
killer fosse un
prete?»
L’ultimo conclave
macchiato di sangue
Roma, aprile 2005. È morto papa Giovanni Paolo II, i fedeli si affollano per
l’ultimo tributo al Pontefice, i cardinali attendono l’inizio del conclave. Uno
di questi viene trovato morto in una
chiesa, un altro era già stato ucciso con
modalità analoghe: i delitti sembrano
opera di un serial killer. Paola Dicanti,
unico profiler in Italia, viene chiamata
a risolvere il caso. Sarà affiancata dal
sovrastante della Gendarmeria vaticana e da un prete americano, già al servizio della Cia, in una corsa per impedire altre vittime. Autore dei delitti si
rivela un sacerdote dal fosco passato e
preda di turpi turbe.
C’è un sacerdote serial killer
nella Chiesa delle deviazioni
sotto accusa. Quali sono stati gli spunti che
hanno dato origine a questo romanzo?
Già dal gennaio del 2003 avevo in mente di
scrivere un romanzo con un serial killer e ho
iniziato a fare delle ricerche. Nel periodo in cui
ero occupato con queste ricerche preliminari,
una notte mi sono svegliato per andare a prendere un bicchiere d’acqua e ho visto, sul cesto
della roba sporca, una camicia nera con dentro
una maglietta bianca. Nel buio della cucina
sembrava una veste di sacerdote. Da lì è esplosa l’idea: e se il serial killer fosse un sacerdote? Sono stato sveglio tutta la notte a buttare
giù delle idee su quel primo spunto e da lì ho
iniziato ad investigare sul tema, a dirigere le
mie ricerche per vedere se era possibile fare di
un sacerdote un serial killer. Ho parlato con
psichiatri criminologi, con medici legali specializzati in psichiatria e attraverso loro sono
venuto a sapere del luogo di cui si parla nel libro, l’Istituto di Saint Matthew che esiste veramente con altro nome, incontrando così
qualcosa che è difficile da digerire per un cattolico praticante. Non ci si aspetta che l’alta
gerarchia ecclesiastica mandi lì un sacerdote
invece di fargli affrontare la giustizia. La situazione di fondo è reale: il personaggio di Viktor
Karoski si basa su due serial killer veri e un sacerdote pederasta che visse a Boston e ha abusato di 90 bambini.
Quando si sentono queste cose, ci si chiede
come si possano mandare i bambini all’oratorio a giocare, come si faceva un tempo.
È vero, la domanda è come possiamo affrontare un’educazione cattolica per i nostri figli
adesso che sappiamo che queste cose avvengono e sono sempre avvenute. C’è però da dire una cosa: io ho uno zio prete, da anni è missionario, fa un lavoro meraviglioso, vive in
Perù e ogni giorno si assicura che 300 bambini abbiano da mangiare. È difficile far combaciare una situazione con l’altra. Credo che sia
necessario tener sempre presente la considerazione che i sacerdoti sono esseri umani. Non si
tratta di essere cattivi di per sé ma capaci di
azioni cattive. È un argomento importante nel
romanzo, che nessuno è al di sopra della legge, di Dio o degli uomini.
È un segno dei tempi che certe turpitudini
vengano alla luce, che sia stata infranta la
barriera del silenzio in tutti i casi di violenza, sui bambini o sulle donne? C’è adesso
una maggiore protezione garantita alle vittime che accusano il colpevole?
No a entrambe le domande: gli indifesi sono
sempre stati e saranno sempre tali. Al massimo
nel mondo di oggi si viene a sapere quello che
succede, quando succede, e può servire da
deterrente per il futuro. Quello che si verifica
nel romanzo, e che accade molto spesso quando le vittime di abusi sessuali sono bambini, è
che questi tacciono. Se parlano, se i genitori
sono cattolici, molto spesso la loro prima reazione è di non credere a quello che i bambini
dicono. Perché per loro la figura del sacerdote è importante e, nel caso in cui il bambino
non dice nulla, si crea una barriera mentale e
poi è un trauma tremendo quando questa barriera cade, quando il bambino cresce. Per quello che riguarda l’ambientazione del romanzo,
negli Stati Uniti negli anni ’60-’70-’80 ci fu
una crisi di vocazioni nella Chiesa e il risultato fu che i criteri di ammissione nei sacerdozi
si abbassarono. Vennero ammesse persone
che non erano neppure capaci di badare a se
stesse o con gravi problemi mentali. Gli scandali di cinque anni fa sono stati la conseguenza logica di questo, si sono venuti a sapere dei
casi delle vittime degli abusi di questa ondata
seminaristica.
Che cosa pensa dell’obbligo del celibato per
i preti cattolici? Nel romanzo, parlando della vita di padre Karoski, si accenna che la
sua scelta di entrare nella Chiesa sia stata
dovuta anche alle sue tendenze sessuali, forse con la speranza di soffocarle. Se la scelta
del sacerdozio, anche a livello inconscio, è
fatta per reprimere un’omosessualità latente, può servire a qualcosa abolire il celibato?
Il sacerdozio non è certamente il luogo dove
mettere fine ai nostri problemi, e lo dico da cattolico. È una vocazione di servizio agli altri e
presuppone la negazione di se stessi. Non so se
potrebbe servire abolire il celibato. Vorrei dire però che le norme sono quelle che sono e se
uno vuole diventare sacerdote cattolico sa che
cosa lo aspetta.
Avrebbe potuto scegliere un personaggio
maschile per il profiler italiano. Ha attribuito questo ruolo a Paola Dicanti per bi-
pagina
Nella foto lo spagnolo Juan Gómez-Jurado, autore
per Longanesi di La spia di Dio
lanciare la forte presenza maschile nel libro?
Sì e no: alla fine la giornalista Andrea e Paola
Dicanti sono i veri protagonisti e il ruolo della donna è molto importante. D’altronde vivo
circondato da donne forti, mia moglie, mia figlia che ha un carattere tremendo… In genere
nei thriller, soprattutto se di genere poliziesco,
il protagonista è un uomo. Qualunque donna è
in grado di fare il lavoro di un uomo, ma quello che è specialmente interessante in un caso
così, in cui Paola deve affrontare il serial killer, è che non solo l’ambiente della polizia italiana in cui lavora è dominato da uomini, ma
deve anche interagire con il Vaticano che non
è molto liberale e amico delle donne. Si verifica così una grande tensione nel romanzo.
Il personaggio di Paola Dicanti serve da catalizzatore per le energie delle altre due figure maschili, padre Fowler e il sovrastante Fabio Dante: due uomini che agiscono
entrambi entro la Chiesa, hanno molto in
comune ma sono molto diversi: è padre
Fowler il più libero dei due?
Sì, padre Fowler risponde di più al suo cuore
e alla sua coscienza, anche se non è sempre
stato così in passato, perché ha fatto delle cose seguendo gli ordini delle istituzioni, e non
ne è affatto orgoglioso. Padre Fowler è un
personaggio in evoluzione, si trova in un momento di crisi, non tanto di fede ma dell’equilibrio tra quello che crede sia giusto e il voto di
obbedienza. La sua è una situazione di sospensione di ambiguità. Fabio Dante è un uomo diretto, uno che crede che la distanza più breve
tra due punti sia la linea retta. Qualunque cosa si interponga tra i due punti… non vogliamo dire che cosa succede.
Dal suo libro appare chiaro che la Chiesa,
rappresentata come è dalla Città del Vaticano, ha più a che fare con la politica che con
la religione, eppure c’è sempre questa ambiguità per cui a rivelare le mancanze della Chiesa pare sempre di essere antireligiosi o atei: come è vissuta la religione in Spagna oggigiorno, uno dei paesi cattolici per
eccellenza?
Prima di tutto vorrei dire che sono certo che
nessuno possa comprendere questo romanzo
meglio del pubblico italiano perché in Italia si
è sempre capito che una cosa è la Chiesa cattolica e una cosa è il suo potere politico. Il lettore italiano conosce la storia della Chiesa
cattolica. Sa che negli ultimi sei secoli i Papi
furono principi d’Europa con un esercito…
non intendo insegnare agli italiani una storia
che sanno. Questa distinzione non è stata così
immediata negli altri paesi: in Spagna il romanzo ha suscitato grandi controversie sui
media, forse perché non sono consapevoli di
un fatto che è così chiaro per gli italiani. Nel
romanzo si parla di Chiese diverse, Fowler distingue tra la Chiesa visibile e quella invisibile, tra Chiesa e Stato del Vaticano. Io cerco di
spiegare al pubblico, per capire Dante e Fowler, che lo Stato del Vaticano è importante perché, benché solo tremila persone abbiano il
passaporto vaticano, l’influenza del capo di
Stato del Vaticano agisce su un miliardo di persone. Il Papa come capo di Stato vive sotto la
costante minaccia dei terroristi, come abbiamo
visto in passato. Un fatto poco conosciuto è
che, quando Golda Meir visitò il Vaticano, ci
fu una cellula terrorista islamica che aveva pianificato un attentato al suo aereo e fu il servizio segreto del Vaticano, in collaborazione col
Mossad, che lo sventò. È anche la prova sottile dell’esistenza della Santa Alleanza, il servizio segreto del Vaticano che è anche il più antico del mondo: se non vado errato fu fondato
da uno spagnolo nel 1566.
Lei ricorre a parecchie note esplicative a piè
pagina, il che non è usuale in un romanzo
giallo. Come mai lo ha ritenuto necessario?
Quando ho iniziato a scrivere, le note erano solo delle mie riflessioni su quello che scrivevo
e non pensavo di lasciarle nel testo. Per errore
furono inviate nel primo manoscritto al mio
editore, sono piaciute e sono rimaste lì. In
Spagna sono piaciute, sono un filo conduttore
della realtà, una guida per chi sta calpestando
un terreno pericoloso.
In una di queste note si dice che l’Istituto di
Saint Matthew per la riabilitazione dei preti
cattolici esiste veramente: come ne è venuto a
conoscenza?
Sono venuto a sapere dell’istituto tramite le
vittime di abusi negli Stati Uniti. Ho iniziato a
fare ricerche e ho scoperto che è uno di quei
luoghi che «si nascondono in piena vista»,
che sono sotto gli occhi di tutti quelli che sanno vedere. Ce ne sono cinque in totale, due negli Stati Uniti, uno in Canada, uno in Argentina e uno in Italia che è discretamente definito
come casa di ritiro.
Un dettaglio mi è parso poco credibile: si
dice che il vice di Paola Dicanti è un uomo
che va a messa tutte le domeniche. Come è
possibile che non capisca subito che Mt 16
indichi un passaggio del Vangelo di Matteo?
Eppure succede anche se sembra strano a chi
individua subito il riferimento. A volte le cose
più ovvie sono le più difficili da riconoscereun esempio molto vicino a me: mia moglie va
a messa tutte le domeniche eppure non ha capito il riferimento.
È già al lavoro su un secondo romanzo? Pensa di continuare con il genere giallo? Se sì, perché questa scelta?
Inizio a rispondere dalla fine: perché il thriller
è la metafora perfetta per il secolo XXI, perché
le regole del thriller parlano di come una persona normale, come possiamo essere lei ed io,
si trovi davanti a pericoli fisici e sociali che si
sovrappongono e deve affrontarli lottando
contro il tempo. È una metafora della vita, soprattutto come la viviamo oggi. Oltre ad andare verso la morte in un conto alla rovescia, basta accendere la tv o sfogliare un giornale per
capire che viviamo in un mondo in agitazione
per molti pericoli sociali: e il terrorismo, il crimine, la corruzione sono gli argomenti tipici
degli scrittori gialli. Credo che sia per questo
che i romanzi gialli abbiano tanto successo in
contrasto con il romanzo intimista degli anni
’70-’80-’90. La colpa è di uno scrittore italiano, Umberto Eco che ci ha insegnato che il
noir - il ramo da cui si diparte il thriller - può
avere molto a che fare con la nostra storia. È
suo il merito di aver dato il via al noir intrecciato al romanzo storico. E sì, sto scrivendo un
secondo romanzo e sarà ambientato in Medio
Oriente.
Visita il nostro sito!
Edizioni Dedalo
11
www.edizionidedalo.it
Jean-Paul Besset
Étienne Klein
Roland Lehoucq
Roland Lehoucq
La scelta difficile
Piccolo viaggio
nel mondo dei quanti
La luce…
vista da vicino
Il Sole
la nostra stella
Partendo dal suo personale percorso di allontanamento
dalla sinistra radicale, Besset descrive il senso di lacerazione provocato dalla crisi dell’ideale progressista.
Un secolo dopo la sua nascita, la fisica
quantistica continua a sconcertare e affascinare. Un libro
per indagare i princìpi e le leggi che stanno alla base delle
sue importanti applicazioni tecnologiche.
Cos’è la luce? Perché riscalda? Da quanti colori è composta? Un astrofisico in pensione risponde alle mille domande dei tre nipotini impazienti di capire meglio quello che
vedono ogni giorno.
Cos’è il Sole? Perché brilla? Come fa a scaldarci, se è così
lontano? Un simpatico astronomo risponde alle domande
di quattro piccoli amici, guidandoli in un viaggio alla scoperta della stella a noi più vicina.
Ivan Cavicchi
John e Mary Gribbin
Jeremy Bentham
Marcello Vigli
Autonomia
e responsabilità
Oltre la Via Lattea
Libertà di gusto
e d’opinione
Contaminazioni
Come salvarsi dal progresso
senza essere reazionari
prefazione di Pietro Barcellona
Un libro verde per medici
e operatori della sanità pubblica
Il libro esamina il cambiamento in positivo della figura del «paziente» in tutte le sue numerose sfaccettature e, parallelamente, il cambiamento in negativo della figura del dipendente sanitario.
Gli scienziati
che hanno misurato l’Universo
Un altro liberalismo per la vita quotidiana
a cura di Gianfranco Pellegrino
Cosa si nasconde dietro un cielo stellato? Hubble,
Wilson, Hale, Humason, sono solo alcuni degli scienziati
che hanno dedicato la vita a misurare l’Universo.
Quattro pamphlet liberali, quattro proposte di libertà
nella nostra vita quotidiana.
Un percorso di laicità fuori
dai templi delle ideologie e delle religioni
prefazione di Sergio Lariccia
Incombe sul mondo la minaccia di una guerra di religione? Come vivere in pace in società diventate multietniche
e multiculturali? In Italia conta più la CEI o il governo?
S t los
pagina
12
R a c c o n t o
ell’intervista-dialogo con
Italo Calvino (Stilos n. 11
dello scorso maggio) - repechage parziale dell’unico incontro televisivo accettato dallo scrittore nel
1979 - Calvino dichiarava
la sua nostalgia di lettore per il feuilleton, il
romanzo popolare. Nella suggestione perdurante (ed altrettanto nostalgica di quell’incontro) più che venti anni dopo (per citare Dumas) esattamente 28, ho scritto per Stilos, immaginandolo debitamente a puntate il racconto Delphine. Un pescecane per monsignore dedicato alla scrittrice Carolina Invernizio che
Carducci dispregiò tacciandola di gallina della letteratura ed a cui Calvino rivolse invece
un omaggio riguardoso e riconoscente.
N
VANNI RONSISVALLE
Non vi era alcuna ragione per cui io quella
mattina mi imbattessi nelle segrete vicende di Vive a Roma. Narratore, autore di testi teatraMonsignore. E tanto meno in ciò che metteva li, documentarista, ha scritto tra l’altro "Le notin relazione quelle vicende con un pescecane ti giganti" (Rizzoli), "Una signora a tre gambe"
dello Stretto di Messina. Quella mattina io (Sciascia), "Tour Montparnasse" (Editori Riuniero uscito essenzialmente per soddisfare un ca- ti, Premio Bancarella), "La grande Mummia"
priccio di Delphine. Naturalmente un capric- (Rusconi), "Gli Astronomi" (Sellerio), "Venerina"
cio intellettuale come era nello stile di questa (Camunia), "Il meridiano della solitudine" (Noamica che portava quel nome per via di sua vecento), "Un amore di Gide" (Aragno), "Storia
madre, appassionata traduttrice nella nostra della nave Artiglio" (Giunti), i versi di "Attuale
estensione di Messina" (Sciascia), "Porto Bralingua di tutte le opere di Madame de Staël.
Era una bella mattina di sole ma io mi immer- dao" (Rai-Eri). Ha collaborato a "Il Mondo" di
si senza rimpianto nella silenziosa penombra - Pannunzio, "Il Giorno", "La Stampa", "Il Mescomune ad alcuni sottoboschi ed a certe chie- saggero", "Corriere della Sera". Tiene una rubrise del centro storico di Roma poco frequenta- ca su "Stilos"
te dai fedeli - la penombra appunto della Bigli intellettuali, a meno che i componenti non
blioteca M.
Perchè lì, secondo il mio fiuto, avrei trovato la contraggano tutti le deformità del caso - talvolsoluzione di quel mistero marino o rarità degli ta anche fisiche (ma nessuno di casa Leopardi
abissi, per cui Delphine sospirava. E le mie fu afflitto da gibbosi, una sola delle sorelle
azioni, nella scala infiocchettata dei valori Bronte aveva il gozzo) - ossia dell’astro che
sentimentali che ci univano in quei giorni, sa- brilla tra loro, sono per sempre dannate.
rebbero certamente salite. E la studiosa di Ma- Delphine, a parte la giovanile capricciosità,
dame de Staël, madre normalmente distratta da aveva colto in tutto i caratteri della sua mamalti pensieri ma qua e là capace di sospetti ba- ma, come una goccia d’acqua deriva limpideznali come una madre qualunque, avrebbe za, peso specifico, salinità o alcalinità dall’acguardato con più simpatia alla nostra acerba qua più in generale da cui si è staccata, poniamo una fontana che gorgogliando in un giardirelazione.
Su ogni tavolo di lettura brillava dolcemente no, con o senza ninfee, ne spruzzi intorno miun lume verde che proiettava la luce sui libri, lioni, così uguali, così parenti l’una e le altre.
sulle carte, sulle mani dei lettori lasciandone Il commesso, servizievole, accese anche il lume alla mia destra - io occupavo la parte siniinconoscibile il viso.
Commessi scivolavano elegantemente nelle stra del tavolo - così potei allargare a mio piacorsie tra i tavoli e gli scaffali deponendo o cere quei bei volumi rilegati con il dorso in
scodellando volumi - dipendeva dal tempera- pelle, i titoli con caratteri in oro, i piatti di belmento e dalla quantità - davanti a quella gen- la carta marezzata; e poi il bloc-notes, il mio
te senza volto in famelica attesa. Lettori. Una dizionarietto dei termini scientifici latini. Un
modo anche questo per garantirmi di essere socondizione umana ancora tutta da esplorare.
Era una biblioteca sublime. Con uno stile, di- lo a quel tavolo. Soltanto chi ha dimestichezrei, di gran lusso. I frequentatori non doveva- za con libri e biblioteche capisce quale specie
no rompersi la testa a consultare scomodi o di sibaritico piacere esso sia; al riparo sopratpolverosi schedari. Niente cartellini ingialliti, tutto da quelle inspiegabili correnti di odio, fadalle collocazioni illeggibili e gli angoli untuo- tali tra lettori che se ne stanno per un puro
si o deperiti. Ne vi erano (e non vi sarebbero scherzo del destino faccia a faccia, gomito a
mai stati) modernissimi computer da interro- gomito, tentati soltanto di chiudere in un cergare come sibille, nel loro affabile abisso elet- chio magico se stessi ed il testo squadernato
tronico di milioni di bit. Ma erano invitati a de- sotto il naso, inerme, pronto a farsi possedere.
porre le loro richieste, scritte su appositi bi- Come una sposa non recalcitrante, la seconda
gliettini, in un vassoio d’argento davanti alla notte di nozze.
Caposala. La Caposala era un artigliere petto- Presto mi resi conto di non avere bisogno del
ruto che non avevo mai visto tutta intera al- dizionarietto. La prosa dell’abate era limpida,
tutta in volgal’impiedi. Per
re, e raramenme era soltanI naturalisti dissero
te faceva rito un busto. E
corso all’eruche busto...
«forse». Soltanto uno
dizione classiMa disponeva
ca. Brevissidi braccia lundisse: «L’unico che
me nomenclaghissime, dita
ture infiociperprensili,
abbia parlato di un
chettavano il
più tentacoli
suo testo, ma
che dita, con
corallo di
di una tale elecui smistava i
gante umiltà
nostri desideincomparabile
da non allarrata a quei
marmi e dover
commessi sobellezza nello Stretto
ricorrere
a
lerti, eleganti e
quel sussidiasilenziosi.
di Messina fu
rio della per«Signor Cilla,
duta memoria
la Trilogia di
Spallanzani in un testo
di un liceo,
Durrell al nuormai introvabile»
benché ben
mero 20 barra
fatto.
C… La Vita
L’abate Spalnei campi di
Terenzio Varrone al 31 L…Signor Malangon, lanzani sapeva che un giorno avrebbe reso feprego, il quarto volume della raccolta "Gazzet- lice Delphine? Questo è improbabile, anche se
ta di Parma, 1712, anno 13° al tavolo centrale negli ultimi tempi, incuriosito dal mesmerismo
dove c’è quella rossa rompiballe… Prima che che confuse in qualche modo con le pratiche
mi scappi la pazienza, signor Malangon, cac- esoteriche, prese ad interrogare il futuro; ma
ciò che certo non sapeva (e quand’anche non
chio!»
Vi era stato un tempo, ma io non li avevo visti, gli sarebbe importato un fico secco) è come da
che quei commessi furono tenuti ad indossare quel momento, da quel preciso momento in
il tight, come quelli dei negozi Liberty a Lon- cui io aprii non il primo ma il terzo dei cinque
dra. Chissà come vestiva allora la maitresse tomi dei Viaggi la mia vita cambiò radicalmendispensatrice di cartacei favori con dita esten- te.
Nel giardino del palazzo dove aveva sede
sibili a piacere?
Poi era arrivata la democrazia e con essa gli l’austera biblioteca una fontanella riversava
perennemente un rivolo d’acqua su sottili foabiti da pomeriggio.
glie di papiro. Quando il silenzio nelle sale di
***
Nel giro né lungo né breve di una mezzora, du- lettura era totale ed il vento cambiava direziorante la quale ebbi il tempo di appisolarmi in ne, da oriente ad occidente, allora anche attratutto quel silenzio protettivo, ottenni i miei li- verso le sigillate finestre (contro improbabili
bri. Cinque volumi dei Viaggi alle Due Sicilie ladri - di libri? - rumori della strada, polvere,
dell’abate Lazzaro Spallanzani, edito in Pavia uova di termite portate dal vento) penetrava
per i tipi di Baldassare Comini stampatore, quel sommesso ruscellare. Ipnotico. Ma che
nell’anno 1793, Essendo Regnante in Lom- non induceva al sonno più di quanto non lo
provocassero, con effetto immediato, certe
bardia...
Delphine poteva essere contenta, da lì a poco pagine di quei volumi appena dissepolti dall’oavrei saputo esaudire la sua perentoria curio- blio. Federico II, il Grande Federico di Prussia,
sità. Astrusa per chiunque non abbia avuto di- Voltaire e la zarina Caterina erano morti, tutti
mestichezza con gli intellettuali o i componen- i grandi estimatori dell’abate emiliano erano
ti delle loro tribolate famiglie. Le famiglie de- morti, tutti gli assidui corrispondenti di ogni
“
Un capriccio di madame:
accertare se una spilla di
corallo comprata nella
costa sullo Stretto di
Messina è di grande valore
per il pregiatissimo corallo
che si trova in quelle acque
oppure un oggetto
qualsiasi perché nello
Stretto non c’è mai stato il
corallo. Un incarico ad
accertare la verità e un
viaggio dunque tra luoghi
e libri, biblioteche e archivi
in compagnia di due abati
che nel Settecento sono
stati sulle tracce del corallo
messinese
Alla ricerca
dei libri
sul mistero
del corallo
a Messina
punto d’Europa dell’esimio scienziato, botanico, biologo e naturalista erano morti. A chi interessavano più i suoi sapienti volumi, (quello, ad esempio, inarrivabile sulla Rigenerazione del Lombrico) anche se nello stile di eleganti divagazioni di viaggio o Reisebuch?
L’acqua della fontana nel cortile suonava, cantava e - forse - nella notte danzava; anche il capriccio di Delphine aveva a che fare con l’acqua. Non di ingenue fontanelle di un giardino
della capitale, ma quella ora ribollente ora
semplicemente vorticosa dello Stretto di Messina.
Una volta Delphine e sua madre, in viaggio di
piacere nell’isola, acquistarono in un mercatino lungo la costa orientale una spilla di corallo. Un corallo rosso cupo, venato di bianco,
bellissimo. Questo corallo, disse il venditore
dagli occhi ridenti alle due signore, è unico al
mondo. Non se ne raccoglie più da due secoli. Perché soltanto fino a due secoli addietro si
trovava il corallo nello Stretto di Messina. Vi
portate via un tesoro.
«Vi hanno preso in giro» le mortificò la sera un
signore del luogo, che si era improvvisato
loro chaperon, irritato per essere stato tagliato fuori dalle trattative e comunque dall’intero episodio, un diversivo nella sua noia mortale. «Non vi è stato mai corallo nello Stretto di
Messina».
Le signore, non rassegnandosi all’idea di essere state truffate, dissimularono con eleganza il
disappunto, abbagliarono con sorrisetti di immotivata gratitudine quel cavalier servente di
provincia, geloso di un incarico che nessuno
gli aveva mai conferito. Ma tornando a casa,
rimuginando in aeroplano, una volta nella capitale sguinzagliarono incaricati di fiducia, allacciarono provvisori rapporti con intenditori,
si giurarono - madre e figlia - di sapere con
certezza se avevano acquistato una vera rarità
o un corallaccio qualunque pescato in Sardegna, nelle acque di Trapani, a Sciacca o nel
Mar Rosso...
Io me ne stetti per un poco sul ramo dell’albero, come dicono i tedeschi che hanno letto Jean
Paul. La maggior parte delle risposte furono
fumose. I naturalisti e i talassologi esperti delle acque siciliane dissero «forse» oppure «bisogna distinguere» oppure «lo escludo» oppure «come si può escludere?» a proposito della
lontana presenza del corallo in quel tratto di
mare. Soltanto uno fornì un’indicazione passabile: «L’unico a mia memoria che abbia parlato di un corallo di incomparabile bellezza nello Stretto di Messina fu Spallanzani. Ma in un
testo ormai introvabile. Quella prima edizione
che uscita senza il permesso dei Superiori fu
subito ritirata. Nelle successive ogni riferimento al corallo fu espunto e cancellato, o comunque così abbreviato da risultare irrilevante».
Perché? Quale fu la ragione del pentimento
dell’abate Spallanzani? Mi resi conto come soprattutto in questo ansioso interrogativo, più
che nell’episodio che l’aveva scatenato, consisteva il capriccio tutto intellettuale della mia
amica Delphine; comunque sempre fiera della sua spilla acquistata a Messina. Quel fiore
rosso spiccava come un semaforo tra le delizie
del suo decolleté. Talvolta anche tra quelle meno acerbe della studiosa di Madame de Staël.
Allora entrai in azione. O scesi in campo. Insomma venni giù dall’albero, come il personaggio di Jean Paul.
Trascorsi un’intera mattinata alla Biblioteca
M. Sono imbattibile in questa dedizione alla
vecchia carta stampata; provo una specie di
frusciante follia a sfogliare pagine annose; e
quelle lo erano; stampate nel 1793; e senza «il
permesso dei superiori». I commessi mi passavano vicino, spostando appena l’aria intorno a
loro, esprimendo silenziosa e premurosa benché, appunto, muta - sollecitudine per le
mie necessità supponibilmente capziose... Non
ne ebbi che una (la richiesta supplementare di
un opuscolo, che lessi in dieci minuti, annotandone passi succulenti) e forse li delusi un poco. Ma ne sapevo abbastanza. Abbastanza da
accontentare la stramba curiosità di Delphine
e quella rivendicativa della studiosa di madame de Staël. Del resto observer le coeur humain, c’est montrer l’influence de la morale
sur la destinée. Non asseriva così quest’ultima
in "Delphine", a pagina tre della prefazione? In
quei giorni era disperatamente innamorata di
Benjamin Constant, mi dette maliziosamente
di gomito la madre di Delphine.
A questo punto riemersi nel cortile della fontana, che non degnai di uno sguardo; inforcai
la mia motocicletta - una Harley Davidson con
sidecar - e riparandomi con uno sciarpone dal
freddo pungente di un mezzogiorno decembrile (incurante degli sberleffi di certi giovani con
occhiali scuri ed orecchino, certo invidiosi del
mio sidecar più che della Harley Davidson)
sfrecciai verso l’amore. Portavo con me ottime
notizie. Per il momento.
***
Il mio uomo non era Spallanzani. L’evanescente figura, finora dai contorni appena precisati, a cui cominciai subito a dare la caccia
era tutt’altra persona. Un religioso, un abate
anche lui (dell’ordine cistercense, che sfornava solo sapientoni) ma proprio l’opposto del
girovago, universalmente illustre amico di regnanti e dei migliori talenti del secolo, il viaggiatore instancabile di fronte a cui si spalancavano le frontiere di tutti gli Stati, insomma dell’illustrissimo monsignore Lazzaro Spallanzani Grande Accademico della sapiente Pavia,
sede di molteplici scibili.
Il mio uomo, in quella tornata del 1789, aveva
quarantun’anni. Era il terzultimo rampollo di
una aristocratica famiglia di Messina. Era abate della Santissima Basilica di Terra Santa, titolo puramente nominale ma in quella chiesa,
ammesso che esistesse ancora, dovevano averlo visto pochissimo, l’anno prima era stato nominato consigliere del Re (il Re di Napoli) e
magistrato della scienza, aveva scritto un libro
sui pittori siciliani, a cominciare da Antonello a finire a
tal Zurlo (17011768), quindi
dalla A alla Z,
che avrebbe fatto testo ancora
per due secoli,
ma per pubblicarlo - tardando
anche per lui il
permesso dei
superiori - aveva dovuto affidarlo al tedesco
Hackert, pittore
ufficiale alla
corte di Napoli,
di passaggio a
Messina... Insomma un prete inquieto che si era laureato in
medicina, ma anche in diritto internazionale;
nel palazzo di famiglia, gioiello di Calamech,
aveva raccolto un’immensa collezione di conchiglie ed altri reperti della storia del mare, doveva essere vagamente sospinto dall’ambizione; un’ambizione innocente tutta concentrata all’interno dei suoi studi. Per via di essa
non esitò a iscriversi, nonostante lo «status servus Ecclesiae», alla Loggia di Messina e Malta... Sicché quando Goethe arrivò a Messina,
prima di incontrarsi con quell’isterico governatore Hosea, che lo trattò malissimo, consegnò le sue credenziali massoniche al nostro
uomo. Ed erano queste le occasioni che l’abate messinese attendeva notte e giorno, spiando
il porto dalle finestre del suo bel palazzo. An-
DUE ABATI E UN POLIPO
che se i tempi erano diversi, aveva capito che
soltanto le buone amicizie (come accade ancora oggi) l’avrebbero aiutato a trarsi dal solitario anonimato di quella sponda remota del regno borbonico in cui gli era capitato in sorte di
nascere. Amen.
Perché mi interessai a lui? (ricavando tali notizie dal giallastro opuscolo da due soldi schedato in Miscellanea - prontamente recatomi da uno di quei commessi, previo inoltro
del mio biglietto alla piovra tettazzuta: una
specie di libello dove, ho già detto, si lasciava
trapelare il sospetto di una vita a doppio - e forse - triplo fondo...) Perché all’abate Gaetano
Grano di Messina, Lazzaro Spallanzani, licenziando i suoi cinque tomi dei Viaggi al regno delle Due Sicilie, quasi in apertura del terzo tomo aveva dedicato in nota un panegirico
riconoscente. Quindici righe vibranti di ammirazione e di rimpianto. Perché in vita i due non
si sarebbero più rivisti.
Ma si scrissero; e come se si scrissero...
****
«Non avrei potuto scrivere nulla di sensato sulle piante, la qualità dei terreni, dall’arenaria al
granito ed ai silicii, sui monti detti Peloritani
intorno a Messina che contengono filoni d’oro e d’argento; sui fossili, i piccoli animali, i reperti marini, i testacei e le madrepore; sui terremoti e sulle correnti dello Stretto, su questa
città con monumenti unici al mondo come il
Teatro Marittimo, detto anche Palazzata, ottava meraviglia del mondo, senza l’ausilio del
reverendissimo, eruditissimo monsignor Gaetano Grano... Fu lui che mi giovò quasi prendendomi per la mano come cieco per un giro in
questa magica terra, per secondar le mie brame, aprendomi
le porte dell’intera Sicilia ed in
mancanza, nulla capendo, me
ne sarei ito del
tutto ignorante».
Il trabocchetto
era tutto lì, la
verità era tutta
consegnata a
quella nota. Camuffata tra rigo
e rigo, tra parola
e parola. Bisognava leggerla
controluce, come si guardano
le cartemonete
in odore di essere il capolavoro di un falsario.
****
Partii all’indomani a bordo della mia Harley
Davidson, il sidecar stipato delle mie carte da
cui non mi separo se non con grande sofferenza, un cambio di biancheria (contavo di fare un
viaggio breve) e pochi altri effetti personali.
Un ritratto di Delphine, nella sua apposita custodia acquistata per questo genere di assenze
(un grazioso oggetto di cuoio che si apriva come un libro, da una parte il viso ed il busto florido di Delphine, dall’altra una piccola sveglia). «Per scandire i minuti della nostra separazione», disse la figlia della studiosa votata
soltanto alla Primadonna del Romanticismo. E
mi strinse attorno al collo lo sciarpone, non tessuto certo dalle sue manine, ma acquistato a
pagina
Nella foto grande acquarello di ignoto intitolato "Visione della bella e
grande città di Messina» (1783). Nelle foto piccole l’abate Gaetano
Grano di Messina (a sinistra) e l’abate Lazzaro Spallanzani di Pavia
Londra ai saldi di Harrod’s in una di quelle
scorribande delle due instancabili viaggiatrici
nel paese del dottor Johnson. Il dottor Samuel
Johnson autore, tra gli altri suoi meriti, del romanzo filosofico "Rasselas". Due donne, insomma, dotate di trasporti entusiasti per la
cultura e l’arte ma non sprovviste di senso pratico.
«Torna vincitore» mi disse la bella.
Volai attraverso mezza Italia, fermandomi soltanto per nutrire di benzina la mia cavalcatura,
togliermi la polvere dagli occhialoni e, ormai
non visto, liberarmi dello sciarpone in quel caldo torrido di un dicembre che ora somigliava
ad un luglio; un caldo che si avvertiva anche
alle più alte velocità. Ed essendo la mia motocicletta, un poco per via dell’anno di costruzione - il 1941, ancora non vi era stato Pearl Harbor per gli Usa, ma gli inglesi si accingevano
a vincere la battaglia d’Inghilterra sulla Manica, - un poco per quel contrappeso del sidecar,
alquanto in ritardo sulle risorse di qualunque
altro mezzo di locomozione dei nostri tempi,
gli Anni Novanta, quelle alte velocità me le sognavo. La sera alle otto desinavo a Reggio
Emilia. Alle nove e mezzo dormivo della grossa, dopo dieci minuti di costose effusioni telefoniche con Delphine. La chiamai io per
impedire che, dopo aver rivoltato il mondo
tempestando alberghi e locande (e talvolta denunciando senza ragione una mia improbabile sparizione alle forze di polizia, nelle loro sedi istituzionali) mi sorprendesse nel primo
sonno.
****
Albeggiava quando uscii per le vie di Reggio
Emilia, tanto che il portiere di notte dormiva
ancora profondamente dietro
il suo banco, in
attesa che forze
fresche venissero a dargli il
cambio. Ma
non avrei in
ogni modo potuto eluderne la
sorveglianza,
qualora fossi
stato sopraffatto dalla tentazione di tagliare la corda non
pagando
il
conto, perché
sbarrò subito
un occhio, il sinistro, arpionandomi come
un basilisco. Pagai, anche per il parcheggio anticipato del mio distinto mezzo di locomozione (che sarei passato a ritirare in serata) e mi
avviai troppo precocemente verso la mia meta.
Dovetti attendere tre ore, che passai contemplando le vetrate di certe finestrone della Biblioteca (Biblioteca e autografoteca comunale di Reggio Emilia) prima di potervi accedere. Mi confortava, dopo avermi procurato una
comprensibile emozione, una freccia blu sull’angolo che indicava inequivocabilmente, fatalmente una direzione: «Scandiano Km 8».
Scandiano, come ognuno sa, è il luogo di nascita di Lazzaro Spallanzani. E vi è pure un bel
museo, si legge nelle Guide, che lo ricorda con
preziosi, commoventi cimeli. Ciò che si salvò
dopo la dispersione di ogni sua suppellettile e
soprattutto delle sue carte private, da parte
dell’unico affezionato fratello, che aveva vissuto alle sue spalle tutta la vita. Spudorato,
pensai, al corrente della cosa. I pettegolezzi intorno agli artisti ed agli scienziati sono sempre
succulenti. Parenti, vedove... Dio, le vedove
degli scrittori!
Mi distraevo in tali svagatezze quando finalmente suonò una campanella e si aprirono i
battenti della Biblioteca. Filai dentro con quell’autentico, passionale brivido di piacere che
sempre mi procura penetrare in questo genere
di ricoveri per materiali assai fragili e così suscettibili di deperire a causa di: incendi, alluvioni, parassiti, muffe, incurie, fanatismi, guerre di religione, guerre tout court... E i lettori disonesti che scribacchiano sui margini, ne strappano le pagine? Soprattutto lo scaffale sormontato da un cartiglio, «Volumi non in prestito ma di sola consultazione» li istiga a voluttuose mutilazioni. Cosa vi è mai di inverecondo nel chiedere di fotocopiarli? Anche se
Benjamin, lo sfortunato Benjamin (mia passione), si impensieriva per il concetto di riproducibilità. Ma si trattava di opere d’arte, non
della manipolazione genetica - fotoclonazione
- della carta stampata. È per questo che spesso un libro, anche un libro intonso, mai aperto mi commuove sino alle lacrime. Intanto
per la precarietà del suo destino. Forse io sono
qualcosa di più di un bibliofilo. O anche di un
bibliomane fissato...
****
La Biblioteca Comunale di Reggio Emilia è
quanto di meglio si possa desiderare da un’istituzione di questo genere allo svoltare nel terzo millennio. Diciamo la quintessenza della
modernità. Racchiusa però in un
guscio di altisonante bellezza
architettonica
d’altri tempi, un
prodigio di restyling, dove ad
una facciata di
sublime decoro
falso rinascimentale, come
non se ne vedono più (se non
negli Stati Uniti
e qualcosina in
Inghilterra, per
colpa di Flaxmann)
corrispondono ambienti super-razionali alla Alvar
Aalto, per intenderci. Dovetti schiacciarmi
contro la parete in vinile (quel materiale dei
vecchi, nostalgici dischi!) del corridoio per
non essere travolto da ragazzi e ragazze velocissimi che scivolavano con pattini a rotelle sul
pavimento di linoleum color polmone. Essi
avevano tutti un viso ridente ed ispirato.
Altri sospingevano carrelli d’acciaio dall’apparenza sterilizzata come uscissero da una sala operatoria. Invece di ferri chirurgici, flaconi di sangue o alcol, siringhe e bende, vi si trasportavano libri e libri. Essi emergevano dalle viscere della terra, dai sotterranei dell’ex palazzo dal finto passato cinquecentesco, per
mezzo di elevatori a vista. Quando mi passò
vicino uno di quei carrelli, appiattito com’ero
contro il muro, terrorizzato dall’incurante velocità a cui si abbandonavano anche questi addetti, mi accorsi che ognuno di quei volumi era
foderato con una curiosa protezione di lattice,
la stessa materia di cui sono fatti i profilattici
ed i guanti da cucina. Ognuno di quei commessi aveva le tempie serrate da una cuffia da
walk-man; dopo seppi che non lavoravano a
suon di musica ma raccoglievano istruzioni
provenienti da chissà dove...
E poi vi era un’altra gaia stranezza: tutta quella gente indossava camici di un azzurro celestiale su tute variopinte. Nell’insieme sembravano usciti da un musical di Broodway, genere ottimistico da Secondo dopoguerra. Attrassi l’attenzione di uno di questi indaffarati
arcobaleni, un’esile arcangiolessa che per poco non si ruppe la testa per la mia intempestiva azione di bloccaggio (in pratica si tuffò senza volerlo sul mio petto - oh, il potente erotismo che circola nei boschi estivi, nelle biblioteche e nelle chiese dove si celebra un funerale! - ed insieme oscillammo in una danza
ridicola, ma i libri che imprigionava sotto le
ascelle vi rimasero saldamente).
«Dove posso trovare...».
Non mi dette il tempo di completare la circostanziata richiesta che fece cenno ad un altro
giovanotto il quale, sempre oscillando su quei
pattini, accolse l’altra metà della mia petizione. Fu costui, praticamente agganciato alle
mie spalle, a sospingermi in una sala affollata
da pianisti.
***
Figure ispirate arpeggiavano con perizia sulle
tastiere di piccoli computer, il viso illuminato
dalla luce azzurrognola degli schermi, la musica silenziosa delle idee - ogni titolo di libro in
qualche modo ne identifica almeno una - era
per loro assolutamente percettibile. Benché
non tutti avessero volti sensibili, anzi alcuni
avevano un’aria completamente stupida. Il
terzo da destra, nella seconda fila era l’addetto alla Autografoteca e dieci minuti dopo, benché la sua espressione appartenesse al secondo genere di quei pianisti, ci mettemmo d’accordo; sicché scivolai anch’io, ma su un comodo tapit-roulant, verso la sala di lettura di quel
reparto speciale. Ancora cinque minuti, che
impiegai a riprendermi da una certa umana inquietitudine, e su uno dei luccicanti carrelli arrivarono gioiosamente (dentro quei tutori di
lattice morbidissimo che, come assicurano
certe pubblicità, è perfettamente ingannevole
quanto a somigliare alle pelli e mucose umane)
alcune custodie rettangolari. Per l’esattezza
dieci.
Una conteneva undici lettere indirizzate a Lazzaro Spallanzani. Le altre nove il manoscritto
originale e definitivo del suo Viaggi al Regno
delle Due Sicilie; l’originale dei cinque volumi pubblicati senza il permesso dei superiori.
Sedetti ed appena toccai con le natiche l’anatomico sgabello che le contenne piacevolmente - il sedere comodi è importante per il lettore di razza - una luce piovve sul tavolo, sui raccoglitori, sulle trasparenti protezioni di lattice,
sulle mie mani tremanti. Senza che si generassero ombre. Era una luce da tavolo operatorio.
Si chiama «scialitica», ricordai. «Magnifico»,
lo presi per un buon auspicio. Vocabolo magico, di musicalità orientale. Anche se sapeva di
cloroformio. Me lo rigirai un poco in bocca.
Scia-li-ti-ca...
Al tavolo era assicurata, in cima ad un braccio
mobile, una gigantesca lente d’ingrandimento;
vedendomi riflesso un momento sulla levigatezza del tavolo, il mio occhio destro dietro
quella lente risultava enorme, spaventoso. Ma
ve n’era bisogno, i caratteri del manoscritto di
Spallanzani erano minuscoli e nervosi; le pagine tormentatissime ed i margini stipati di note richiamate da una ragnatela di linee, leggere ma frastornanti.
Quelli dell’autore delle lettere che Spallanza-
13
vi fu bisogno di alcuna acrobazia immaginativa. L’abate Grano chiamava le cose - non soltanto le vie, i palazzi, i monumenti, e poi... e
Come lo studio porta
poi...- con il loro nome. Sia se si trattava di
soggetti scientifici, relativi alle scienze naturaal delitto perfetto
listiche, sia che fossero personaggi e congreUn bibliomane innamorato indaga
ghe eminenti della sua città. Passarono così tra
sull’imbroglio ai danni di Delphine,
di loro fossili marini e piccole lucertole solo
che ha acquistato una spilla di antico
colà esistenti, minerali e fenomeni come il
corallo raccolto nello Stretto di Messigiuoco delle correnti dello Stretto o le tipicità
na. Ma quando mai fu possibile racco- sussultorie, ondulatorie - dei ricorrenti terregliere coralli nei fondali precipiti dello
moti (ve n’era stato uno quasi sei anni prima,
Stretto? Di biblioteca in biblioteca rinel 1783, e con suo imbarazzo l’abate Grano
salendo l’Italia lo spasimante di
dovette convenire, aggirandosi i due fra tristisDelphine confronta manoscritti e testi
sime macerie di illustri monumenti, che si era
stampati di Lazzaro Spallanzani. Infatto ben poco per ricostruire la città riportanfatti, giusto sul finire del ’700, il celedola all’antica imponente bellezza; anzi con il
berrimo abate si era fermato a Messimasochismo sottopelle dell’intellettuale che,
na per studiarvi i fenomeni naturali e
pur di raccontare un aneddoto saporito non nabiologici dello Stretto. Lo aiutava
sconderebbe il passato burrascoso della madre,
monsignor Grano, un erudito locale,
l’abate siciliano ricordò come in occasione di
uomo di chiesa anche lui; ma è un’auna visita del Re Carlo III furono approntate in
micizia accesa dall’ambizione che si
fretta e furia facciate di cartapesta per nasconconcluderà con una morte atroce. Un
dere le tracce immutate, le macerie spettrali di
delitto perfetto, studiato così bene che
quel disastro; trappole del sud, scherzò...).
nessuno ne sarebbe mai venuto a caGentilmente Spallanzani lodò l’idea di quegli
po. L’imbroglio del corallo, roseo fiore
artifici scenografici attribuendoli appunto ad
del mare, si trasforma sotto gli occhi
un tipo di geniale inventiva tutta meridionale...
dell’esterrefatto amante di Delphine
Trovai in proposito un riferimento nella lettenel noir che ha protagonista un mora terza, «la bontà dell’Eccellenza che assolve
stro marino, uno squalo. La cui carl’astuzia birbona dei miei concittadini». Ma
cassa imbalsamata è tuttora visibile al
nella lettera terza trovai anche tutto sul coralMuseo di Storia Naturale di Pavia: ollo nello Stretto di Messina. E rivolsi un occhio
tre le sue fauci pluridentate si intravepiù che mai innamorato a Delphine, un occhio
de ancora dopo duecento anni l’imimmenso come potete immaginarlo. Perché
percettibile chiave del delitto.
guardai anche lei attraverso la lente d’ingrandimento, un effetto curioso che le ingigantiva
il seno mostruosamente, mentre il capo divenni duecento anni addietro aveva ricevuto e tava piccolissimo. Un’involontaria metafora
gelosamente conservate (ma dubito che pen- del mio reale interesse per Delphine, per il suo
sasse dovessero giungere sino a noi, sarebbe corpo piuttosto che per la sua capricciosa intelstato una specie di suicidio) erano altrettanto ligenza? Ma ora l’avrei fatta felice, mentre la
minuti, una lettera prodigiosamente uguale studiosa di Madame de Staël, colei che aveva
all’altra, ma le righe millimetricamente sepa- generato e messo in circolazione nel mondo
rate da spazi uguali, nessuna che come accade così tante attrattive in una sola persona, sua finello scrivere a mano, «piombasse» sulla sot- glia, me ne sarebbe stata riconoscente; tre coltostante, come le falde dei tetti di certe case di petti con le punte delle dita sul petto, proprio
campagna; niente capilettera sbilenchi, enfati- all’altezza del cuore. Il cuore per la madre di
ci, pretenziosi o banali a seconda dell’umore Delphine non era un organo, ma la sede di sendello scrivente. Anche graficamente quelle timenti. E di pensieri. Il cervello era per lei una
lettere erano un capolavoro. Anche. Un capo- specie di intruso. E come sarebbe rimasta inlavoro di leggibilità. L’assenza di pentimenti e differente alla meravigliosa coincidenza che
correzioni testimoniava il fatto che il corri- quei due, Grano e Spallanzani, fossero conspondente di Spallanzani aveva tenuto per sé temporanei della Divina Madame?
la «bruttacopia» inviando all’abate di Pavia Il granduomo scortato dal piccolo uomo. In
quei merletti di gran gusto calligrafico.
una città friabile dove tuttora si staccavano sasE la firma in calce ad ogni lettera - dopo alme- si, innocue frane da chissà dove con rumori di
no due righe di convenevoli generosi e che ina- sgretolamento, non esattamente localizzabili.
nellavano almeno dieci aggettivi in cui il mit- Piccolo, il monsignore indigeno, ma a suo
tente esaltava il destinatario (sempre illustris- modo importante. Eppure precedendo l’altro,
simo, colendissimo sapiente, eccellentissimo e come paggio... Tra dissestate vie. «Venga,
venerabile) mentre con altri cinque si umilia- venga avanti, eccellenza monsignore». Tra lova dicendosi servo, debitore inottemperante, ro monsignori, avrebbe sorriso un passante.
devoto e manchevole... - era ugualmente accu- «Non si periti dall’avanzare, ogni rischio è firata e senza svolazzi. Ma chiara, come di uno nito». Uomini di libri. Un soffio d’aria unica
che si assume tutte le responsabilità di ciò che gonfiava le loro sorti come vele. Ma i porti sula precede. La firma era la sua. Dell’abate di blimi dove era lecito calare l’ancora a ciascuMessina, Monsignor Gaetano Grano.
no dei due erano così diversi.
****
****
Avevo collocato accanto a me, sull’angolo Le cose dovevano essere andate così. Partendestro del tavolo, in un piccolo sicuro spazio dosi da Messina, dopo un sicuro, virile abbracricavato tra le carte di Grano e Spallanzani, la cio, il Viaggiatore chiese al Nuovo Amico che
sveglietta portatile che si apriva in forma di li- rimaneva nell’isola natia di fornirgli per via
bro. Dall’altra
epistolare altre
faccia del picnotizie, altri
Il mio uomo era il
colo conteniapprofonditore di cuoio
menti dei temi
terzultimo rampollo
Delphine mi
che avevano
sorrideva dietoccato
in
di una aristocratica
tro il rigoglio
quelle esploradi quel seno
zioni. Scripta
famiglia di Messina.
generoso. La
verosimilia
sveglietta non
sunt. Felice
Un prete inquieto
infastidiva con
per tanto onoossessivi ticre l’abate Grache
aveva
raccolto
chettii. Al mono spergiurò
mento giusto
che
non
un’immensa
si sarebbe fatavrebbe manta viva con un
cato di acconcollezione di
segnale lumitentare l’Illunoso. Avevo
stre.
conchiglie ed altri
opportunaMessina, 18
mente spostareperti marini
dicembre
to la levetta
1789
che consente
Ven.mo Sig.re
di scegliere tra light e sound. Almeno così Ab.e e P.ne mio Osserv.mo... (Veneratissimo
credevo. Cominciai dalle lettere. In ogni in- Signore Abate e Padrone mio Osservatissimo.)
treccio romanzesco ben fatto le lettere sono un Quelle contrazioni interpuntate dovevano esespediente importante. Per dire e per non di- sere il massimo di una «modernità» di dubbio
re, affidandosi alla sagacia del lettore. Quelle gusto; comunque un presagio del futuro stile
che il mio fiuto aveva rintracciato erano reali, telegrafico messo in cima a capolavori di proaltroché. La mia intuizione, che i due avesse- lissità.
ro dato luogo ad un nutrito carteggio, si era ri- La terza lettera, estrapolato all’inizio ed alla fivelata esatta.
ne un profluvio di chiacchiere cerimoniose,
La prima lettera esprimeva pura, amichevole ammiccamenti alle tristi condizioni di un intelnostalgia per i momenti passati in compagnia lettuale in quelle estreme regioni entrava in
dell’autorevole scienziato del continente a media res con grande dispiego di erudizione e
passeggio per Messina e contorni. Cominciai rigore scientifici. Ciò che l’abate Spallanzani
a godere come suppongo godano quegli ap- si ebbe squadernato sullo scrittoio, mentre anpassionati di letteratura nera, genere che mi è dava elaborando il magnifico testo della più
indifferente. Allo stesso modo però la mia popolare delle sue opere, fu un vero e proprio
fantasia innestò la quinta marcia ed immaginai trattatello. Sul corallo in genere, sul corallo
subito quei due a spasso per la città dello Stret- dello Stretto in particolare, su come si formato con i suoi scenari magici, (il miraggio ri- va in quel giuocare imperterrito delle correnspecchiante della Fata Morgana sull’altra ti, di quali agenti microscopici interagissero
sponda, e tanti altri mirages e mirages, carova- per renderne così pregiata, unica la qualità;
ne, palmizi e camellieri, dame dal viso velato quali fossero i metodi per raccoglierlo, con sia metà) conversando tra loro come si vede nel- stemi meccanici pericolosi che scendevano a
le pitture del Settecento; e mi pareva di co- profondità terrorizzanti (allora) di mille o milglierne il colto bisbigliare.
lecinquecento metri, ma le misure erano natuConosco Messina e credo di sapere quale fu ralmente espresse in piedi e braccia.
l’itinerario che l’abate Grano fece seguire al
(1 - segue)
suo eminente Visitatore. Nelle altre lettere non
© Ronsisvalle, Stilos 2007
IL RACCONTO
“
“
narrazioni
inedite
“
pagina
14
I n t e r v i s t e
ra il 1970 quando un ragazzo dalla voce potente e
melodiosa, prendendo in
mano il microfono di
"Canzonissima", intonava
una canzone che iniziava
con queste parole: «La mia
vita cominciò come l’erba come il fiore…».
Questo ragazzo era Massimo Ranieri. Che ancora oggi è sulla breccia della musica leggera.
Forse a mo’di riepilogo di una carriera diventata lunga e di una vita vissuta sulle corde di
una chitarra ha scritto un libro per raccontarsi
senza riserve, parlare di sé, della sua infanzia,
dei suoi primi passi nel mondo dello spettacolo e della sua vita da artista affermato. Un primo abbozzo, un’idea seminale di questa autobiografia la si può ritrovare in un libro di qualche anno fa, quattro per l’esattezza, di Catena
Fiorello, Nati senza camicia, nel quale in
un’intervista Massimo Ranieri che raccontava
le esperienze dei suoi primi passi nel mondo
dello spettacolo.
Mia madre non voleva è un libro sincero e divertente, cosa che del resto è suggerita dallo
stesso titolo: infatti la mamma di Giovanni Calone (questo è il vero nome di Massimo Ranieri) non voleva che il figlio intraprendesse la
carriera del cantante, perché non la vedeva come una professione sulla quale contare giorno
per giorno. Il papà di Massimo Ranieri invece
ha sempre creduto nel talento e nel successo di
suo figlio: «Se mia madre ha messo al mondo
Giovanni Calone, mio padre ha fatto nascere
Massimo Ranieri: mia madre mi ha fatto crescere, mio padre mi ha permesso di diventare
l’uomo che sono. Perché lui non ha mai smesso di sognare accanto a me». E così, inseguendo un sogno e coltivando la passione,
Massimo Ranieri, dopo aver intrapreso i mestieri più vari, inizia a cantare e ad avere successo: vince un "Cantagiro" con "Rose rosse",
due edizioni di "Canzonissima" con "Vent’anni" e "Erba di casa mia" e partecipa a due Festival di Sanremo. Nonostante questo successo ad un certo punto Ranieri decide di interrompere la sua carriera di cantante ed inizia a
fare l’attore: «Dentro di me si era spezzato
qualcosa, come quando un amore sta per finire. Eppure ero all’apice del successo, avevo ormai la strada spianata. Ma vedevo lo spettro di
un cantante che passa tutta la vita davanti al
microfono. Non ero più così sicuro di quello
che volevo. E soprattutto non volevo più essere sottoposto alla legge spietata di quel mestiere: il mio destino era legato ogni volta a una
canzone e a una competizione… No, non era
quella la mia strada». Non si trattò di un addio
ma solo di un arrivederci, un arrivederci che
però gli ha permesso da una parte di imparare
un nuovo mestiere dello spettacolo e dall’altra
di entrare in contatto con quelli che Ranieri
considera, giustamente e meritatamente, i suoi
maestri: Giorgio Strehler, Maurizio Scaparro,
Garinei e Giovannini, Giuseppe Patroni Griffi, Vittorio De Sica, Anna Magnani e Franco
Zeffirelli.
Mia madre non voleva ripercorre la varie tappe della carriera artistica di Ranieri; ma una
biografia non la si scrive solo per fare il bilancio di quello che si è fatto nel corso della propria vita. Con questo libro Massimo Ranieri
tiene a mettere in scena l’uomo che si cela al di
là di un sipario: un uomo curioso, desideroso
di percorrere strade diverse per soddisfare una
propria necessità di ricerca intellettuale e umana. Un uomo che non ha mai dimenticato le
sue origini e che ha sempre fatto prevalere nel
suo lavoro il lato umano. È proprio grazie a
questa particolarità, e naturalmente alla sua
bravura, che Ranieri oggi continua ad avere
consenso. Stilos lo ha intervistato.
Non è la prima volta che un artista, quale è
lei, sente l’esigenza di raccontare la sua vita. Da cosa è dettata questa esigenza da parte di un artista di raccontarsi?
Il motivo è molto semplice: perché si invecchia, e allora vuoi che il pubblico che ti ha seguito per tanti anni sia al corrente un po’ più
dettagliatamente delle tue cose; vuoi che sap-
Salvatore Salemi
PHIL
MASSIMO
RANIERI
IL LIBRO
MASSIMO RANIERI
"Mia madre non voleva. Autobiografia di Giovanni Calone. Che sarei io"
pp. 191, euro 16
Rizzoli, 2006
Gli esordi nella
musica leggera e i
primi folgoranti
successi. Una
versatilità
inappagata che ha
aperto le strade al
cinema, alla tv e al
teatro. E il grande
amore e la
riconoscenza per
Strehler in un libro
che riepiloga una
vita
La partenza da Napoli
il ritono alla napoletanità
La vita di uno «scugnizzo» napoletano
che scopre di avere una bella voce solo
perché il fratello vuole che scelga tra
cantare in pubblico o essere gettato in
acqua; e che scala tutte le tappe del
successo, approdando al teatro, al cinema, alla regia, alla televisione, per
poi ritornare a riscoprire la canzone
napoletana e ritrovarsi dunque alle
origini del suo percorso artistico: con
la differenza che stavolta vuole studiare la canzone partenopea per trarne la
cultura più pura e originale. La vita di
Ranieri raccontata da lui stesso come
una esperienza irripetibile.
La mia vita cominciò cantando
ma oggi mi piace fare il regista
PIERLUIGI PIETRICOLA
VIVE AD ALBANO LAZIALE (ROMA). SI
OCCUPA DI STORIA DEL TEATRO E SCRIVE
SU DIVERSE RIVISTE WEB
pia attraverso la tua bocca, anzi la tua penna in
questo caso, come stanno le cose. E questo
perché io il pubblico non lo reputo «pubblico»
nel senso comune del termine, ma lo considero una grandissima famiglia, una famiglia mia
che ho il piacere e la fortuna di avere da quarantadue anni. Indi poscia, come direbbe Totò,
per evitare che le persone apprendano dai rotocalchi e dai vari giornali notizie enfatizzate,
nel bene e nel male naturalmente, decidi di far
sapere alla gente delle cose che alla stampa o
non sono mai interessate, o non l’hanno interessata più di tanto. Tipo: la mia storia con
Strehler, la mia storia con Patroni Griffi, il mio
periodo con Scaparro, i miei contatti con la
Magnani, con Visconti, con Zeffirelli, con De
Sica… Tutte cose che al pubblico sono sfuggite o che alla stampa in quel momento non interessavano più di tanto. E allora ho voluto
scendere nei dettagli per raccontare del mio
rapporto personale che si è creato con queste
grandi persone al di là di quello lavorativo.
Nel libro lei scrive che ha iniziato a cantare
per paura di essere buttato in acqua da suo
fratello e suo cugino. La passione per il canto è venuta cantando oppure c’è sempre stata?
Io già da allora ero dotato di questo dono datomi da Nostro Signore, perché di questo si
tratta, non ho mai fatto nulla per perfezionarlo se non lavorare tutti i giorni: questa è stata
la mia scuola, perché tra feste di piazza, matrimoni, battesimi e serate avevo la possibilità di
lavorare con questo dono del Padreterno. La
passione per il canto già c’era, e quella gran
massa di fetenti dei miei amici, conoscendo sia
questa mia passione che il mio handicap di non
saper nuotare, mi ricattavano dicendomi:
«Gianni canta altrimenti ti buttiamo in mare!».
E io disperato stavo lì, mentre loro si buttavano in acqua a fare, come si suol dire, le foche
ammaestrate. Perché a Napoli esistevano gli
scugnizzi che stavano al mare sotto i ristoran-
ti, e che chiedevano ai clienti cinque o dieci lire per far vedere come erano capaci di recuperarle sotto l’acqua. E mentre io cantavo loro
prendevano i soldi.
Ma le davano la percentuale sul guadagno
oppure no?
Come no: mio fratello mi faceva da manager.
Alla fine della giornata dividevamo in parti
uguali. Si guadagnavano duecento lire da dividere in cinque o sei persone.
Lei usa parole molto dolci parlando di suo
padre, che fu il suo primissimo fan. Sua madre invece era un po’più scettica su una sua
futura professione di cantante, voleva restare il più possibile con i piedi per terra.
Tra i suoi fratelli invece chi fu il primo a
credere in lei?
Veramente non gliel’ho mai chiesto, anche
perché non c’era mai tempo di chiedersi le cose: ognuno si alzava alle sei o alle sette del
mattino per andare a lavorare, si tornava a casa la sera per mangiare, si cenava molto spesso con la zuppa di latte e si andava a letto di
nuovo. Per cui non c’era l’occasione e nemmeno il tempo di chiedere che cosa avrei desiderato fare da grande o per dirmi che avevo cantato bene. Ognuno andava per la sua strada a
fare il suo mestiere: chi lo spazzino, chi il barista come nel mio caso, chi la sarta come
mia sorella… Cantare per loro non doveva e
non poteva essere un futuro per me, un futuro
immediato, giornaliero.
E invece lei ha iniziato ad avere successo fin
da subito. Aveva, come dice nel libro, quindici anni o giù di lì. Cosa provava allora prima di entrare in scena?
La cosa bella dell’adolescenza è che si è incoscienti, quindi quando entravo in scena non
provavo assolutamente nulla, perché quando
sei in quell’età non sai che è un pericolo. Poi
col tempo quando cominci a pensare, a ragionare, allora ecco che te la fai addosso.
Quindi lei ha più paura di entrare in scena
oggi rispetto a quando aveva quindici anni?
Assolutamente sì!
Ad un certo punto della sua carriera ha deciso di troncare di netto con il mondo della
canzone e, come racconta nel libro, ha smesso di cantare ma ha iniziato a fare teatro.
Quali furono le sue impressioni, le sue sug-
mesogea
Mouloud Feraoun
TERRA E SANGUE
Un vecchio sapiente riappare dall’antichità «Le sembrava che lei e Amer
al giorno d’oggi.
formassero una
Profugo dell’esistenza,
strana coppia,
non ricorda quasi
ridicola, che,
niente della sua vita e
accanto a lei,
nulla sa del nostro
lui perdesse
mondo. Il vagare
la personalità
drammatico, visionario
di cabilo
e poetico nella terra
e lei non avesse più
di nessuno dell’essere
quella di francese».
umano «in corsa fra
gli steli dell’erba rossa».
pp. 128 – € 9,50
Nella foto Massimo Ranieri, autore per Rizzoli di Mia madre non voleva
pp. 304 – € 16,00
gestioni quando iniziò a recitare?
Con il teatro ho trovato un contatto intellettivo
con le persone. Ho trovato una famiglia con la
quale sedersi intorno a un tavolo per parlare,
per conoscersi. Come ho sempre detto il teatro
è una cosa meravigliosa perché in otto mesi
che si sta insieme si creano amori e odii, simpatie e antipatie; e che ben venga tutto questo.
Perché poi quando nasce un’amicizia all’interno di una tournee è un’amicizia che non finisce mai.
Lei dedica molte pagine a Strehler. Con lui
ha interpretato L’anima buona di Sezuan di
Brecht e L’isola degli schiavi di Marivaux.
Oggi, a parte il ricordo affettivo, cosa ricorda con più piacere di Strehler?
Giorgio Strehler. Il resto è silenzio. Ma detto
così sembra che io non abbia stima e fiducia di
quello che è stato fatto dopo la sua morte. La
verità è che morto lui si è spenta la luce. Non
perché io sia napoletano, ma quando giocava
Maradona, per esempio, ci si divertiva a vedere una partita di calcio. Lui avrebbe potuto anche giocare nel Palermo, nel Padova o da
qualsiasi altra parte: era sempre Maradona:
quando ha smesso di giocare si è spenta la luce nel pallone. Maradona giocava a calcio così come faceva da bambino in un campo di terriccio, e Strehler dirigeva gli attori come li dirigeva nel lontano 1948 quando scoprì il Piccolo Teatro.
Oltre che con Strehler lei ha lavorato anche
con Maurizio Scaparro. Che differenze ci
sono, da un punto di vista di metodo di lavoro, tra loro due, a parte la diversa opinione che avevano sul copione? Lei racconta
che Scaparro le strappò il copione di "Varietà" davanti ai suoi occhi.
Maurizio ha un pregio che Giorgio, il mio
maestro, benevolmente non aveva. Giorgio
era molto severo, soprattutto con se stesso.
Maurizio invece ha quella leggerezza, quell’indolenza un po’ romanesca che gli permette di sorridere nella tragedia. Giorgio era severissimo, lui era il teatro, per cui non si poteva
scherzare. Maurizio invece è un uomo scanzonato: un grande intellettuale, un grande regista
che riesce anche divertirsi davanti a un bel
piatto di bucatini all’amatriciana.
Qualche anno fa lei ha esordito da regista:
L’isola che scrive
Francesco Russo
Elio Carreca
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Il Mediterraneo
è un ponte prezioso
e praticabile fra
Europa, Africa e
Asia che una rete
efficace di trasporti
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sviluppo. E il ruolo
dell’Italia?
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LA CARNAGIONE DELLE BIONDE
N A R R AT I V A
E
S t los
musica
e parole
si sente più vicino a Strehler o a Scaparro in
questo ruolo?
Io quando faccio il regista penso a Giorgio. E
lo sa anche Maurizio: fu proprio lui a dirmi che
dovevo lavorare con Strehler.
Oltre ad essere attore di teatro lei è anche attore cinematografico. Si sente di più a suo
agio sotto la macchina da presa oppure su
un palcoscenico con il pubblico presente in
sala?
Sicuramente con il cinema perché richiede un
po’più di lavoro sul personaggio, molto di più
di una fiction. Basta pensare che per una fiction si girano otto o nove minuti al giorno; per
il cinema invece se ne girano tre di minuti, e
già sono tanti. Questo vuol dire che nel cinema
i tempi sono più dilatati, si può fare più ricerca sul personaggio che si interpreta, in altre parole si lavora di più sul particolare.
Nel 1988 lei fece ritorno, e in grande, nel
mondo della canzone con "Perdere l’amore" che vinse il festival di Sanremo di quell’anno. Cosa le è rimasto più impresso di
quei momenti?
La cosa che più mi è rimasta impressa è l’incredulità di avere vinto. Perché andai lì con
l’intento di divertirmi, di cantare una bella
canzone e di andarmene. E invece il mio produttore mi fermò per strada - perché la mattina successiva alla prima serata volevo ripartire - dicendomi che avrei dovuto ricantare anche la seconda serata. E del resto io fui l’unico a non partecipare alla puntata di "Domenica In" dopo il festival di Sanremo, perché io la
domenica mattina ero già partito. Il lunedì ero
a Napoli per debuttare con "Rinaldo in campo."
Come mai non ha più partecipato a Sanremo? La sua ultima partecipazione risale al
1997 con "Ti parlerò d’amore".
Perché non ce n’è stata l’occasione, non ne ho
avuto il tempo. Tra i miei impegni in teatro con
"Il grande campione", in televisione con "Siete tutti invitati citofonare Calone", nel gennaio
del 2002 poi ho iniziato la mia grande tournée
e fino a ieri non mi sono mai fermato. A tutto
questo poi aggiungiamo quattro regie teatrali,
quattro fiction, cinquecento serate, duemila
partecipazione televisive… In questo grande
turbine generale non ho proprio avuto il tempo reale di cercare la canzone per Sanremo.
Per farlo è necessario fermarsi qualche mese e
cercare la canzone adatta. Tutto sommato non
c’era nemmeno questo grande entusiasmo perché erano anni e anni che non facevo più concerti e sinceramente mi piaceva troppo e mi
piace tanto il contatto giornaliero con il pubblico. Ma io devo tutto a Sanremo così come tutti: da Adriano Celentano, a Mina, a chiunque.
Tutti dobbiamo il nostro successo a Sanremo.
Lei e la canzone napoletana: un connubio
che in questi ultimi anni ha partorito ben
tre dischi, ed ora, come anticipa nel libro, ce
n’è un altro in preparazione. Da un punto
di vista esecutivo che differenza c’è tra cantare in italiano e cantare in napoletano?
Il quarto disco è già pronto e deve solo uscire.
La differenza che c’è tra cantare in italiano e
cantare in napoletano è la differenza che c’è tra
mangiare e stare a guardare. Io quando canto
in napoletano mangio e guardo allo stesso
tempo; in italiano invece guardo e mangio
poco. Io parlo in napoletano, la mia lingua è il
napoletano.
A conclusione del libro lei dice che nei prossimi anni le piacerebbe fermarsi un po’ e di
mettersi dalla parte del pubblico, del suo pubblico. Che progetti ha, dunque, per il futuro?
Adesso ho in preparazione due Traviate una
dietro l’altra, poi per la fine del 2008 ho un
Macbeth, per gennaio del 2009 ho un altro Elisir d’amore e forse un Don Pasquale. Diciamo
che in questo momento, con un occhio proprio
disincantato, direi che è ora che io dia ai giovani quello che ho imparato. Se mi si chiedesse: «Preferisci una vacanza di un mese o una
regia di tre giorni?» io risponderei la regia di
tre giorni perché è la cosa che più mi affascina adesso, perché sento che è un mestiere che
mi è sempre piaciuto, che mi sono sempre portato dentro e non appena me ne hanno dato la
possibilità l’ho fatto. Quindi fino al 2010 mi
faccio le mie regie teatrali.
CAMMEI
IL DOLORE CONDIVISO
a cura di Gianpiero Chirico
Una spy story
ambientata a Palermo.
Un omicidio eccellente
su cui indaga un agente
ormai ‘dismesso’
dei Servizi segreti.
Lo spaccato di una
società travagliata
dalle ipocrisie di potere
e mentalità mafiosa.
Una selezione tra i più
importanti messaggi di
solidarietà inviati da
intellettuali, artisti e
scienziati per le vittime
del terremoto del 1908.
Da Marconi a d’Annunzio,
da Hesse a Debussy,
da Capuana a Deledda.
pp. 168 – € 12,50
pp. 160 – € 29,00
GEM s.r.l. – via Catania, 62 – 98124 Messina – Tel. 0902936373 – Fax 0902932461 – www.gem.me.it – [email protected] – www.mesogea.it – [email protected] – www.gbm.me.it – Distribuzione: PDE s.c. a r.l.
versi
poeti
I n t e r v i s t e
«
A
ENZO VERRENGIA
nche le cose muoiono, come tutti / invecchiano e
perdono la loro consistenza, / deperiscono». È il monito in versi che stabilisce
meglio il canone espressivo di Fiori in pericolo, di Mauro Fabi.
Una sortita nella poesia mai scevra di quegli
assoluti necessari alla lingua essenziale e sincopata di ogni silloge. Quelle cose che muoiono come tutti sono infatti i segnali di una fragilità immanente non solo nella condizione
umana, ma anche nella realtà percettiva che ne
scaturisce. Eppure le cose, gli oggetti, fanno
parte del nostro mondo e integrano la nostra
natura portandosi nello stato di non poterne fare a meno.
Fiori in pericolo parte dunque da una ricognizione privata dell’universo di riferimento dell’autore per poi aprirsi al resto. Che è la scansione dell’automatismo conferito alla contemporaneità dalle macchine. Per approdare infine all’incombere del nulla. Sembra un percorso lineare, invece la poesia - e la poesia di Fabi in particolare - procede per elisioni, elusioni o, al contrario, indugi che scoprono la verità
uno strato dopo l’altro, con impietosa determinazione.
"I bambini" s’intitola il gruppo di liriche che
esplorano il privato. Dal rapportarsi con i figli
alla condivisione coniugale, approdando all’esistenza ordinaria della città. Tre sfaccettature
che appartengono a chiunque, ma che il poeta
trafigge di luce prismatica. Un interrogativo
nudo, per esempio: «Come spiegare ai nostri
bambini / lo sfinito mondo degli adulti, / mentre ci sforziamo di preservarli / nella speranza
di non vederli crescere». Nessuno potrebbe
meglio sintetizzare il paradosso e l’impotenza
che la biologia e l’antropologia assegnano al
ruolo dei genitori.
Certo, oggi trionfa l’illusione di vivere nel
migliore dei mondi possibili, o almeno in un
surrogato efficace di quel futuro che sfugge di
continuo ed è sempre destinato ai posteri.
La scienza, cioè la tecnologia, che ne è la controfigura semplificata e cialtrona, promette e
talvolta mantiene in fatto di agio, sicurezza, distanza dalle miserie della carne. Non nelle visioni di Fabi, dove le macchine dimenticano
un poco alla volta la loro natura inanimata per
confluire in un’entità senziente, la megamacchina, e sostituirsi all’uomo non per apocalittica previsione avvenirista, bensì per un corso
inevitabile degli eventi, un asse evolutivo.
Più diretto e toccante di quel saggio ormai storico, e mai tradotto in italiano, L’età delle
macchine spirituali, di Ray Kurzweil, basato
sulla certezza che gli elaboratori elettronici acquisiranno inesorabilmente lo status senziente. Fabi, tuttavia, non sembra seguire questo
processo né con entusiasmo da terzo millennio, né con lo spavento del profeta di sventura, né con l’ironia di Calvino e Levi.
Lui semplicemente verseggia sulla transustanziazione. Semmai, con fatalismo: «Le cose /
resteranno terribilmente sole / nell’arido mondo finalmente / scevro di parole». È il punto
fermo a qualsiasi aspettativa di trascendenza,
laica o spirituale che sia. Fabri non concede
spazi di dubbio al prevalere finale del nulla.
Fiori in pericolo rappresenta un passaggio ulteriore verso lo scavo filosofico già molto riconoscibile in Il motore di vetro, la precedente
antologia poetica di Mauro Fabi.
L’autore utilizza il verso per una scomposizione anche visiva dei concetti in una partitura ritmica di linguaggio e appello alle corde interiori. Senza mai piegare la sua voce alle conces-
R e c e n s i o n i
Sopra Mauro Fabi, autore per Avagliano di Fiori in
pericolo. Sotto Rainer M. Rilke di cui L’Ancora del
Mediterraneo ha pubblicato Vento e destino
MAURO
FABI
IL LIBRO
MAURO FABI
"Fiori in pericolo"
pp. 120, euro 10
Avagliano, 2007
«Nel romanzo
entra in ballo
l’artificio, una
specie di
compiacimento.
In poesia non è
possibile. La
poesia reclama il
vero, bandisce la
vanità, pena
l’autoinganno»
Oggetti e macchine
sguardo sulla modernità
Una silloge poetica che si concentra sul
valore degli oggetti di cui gli uomini si
circondano, anch’essi destinati alla perenzione eppure così centrali e vitali
nella circostanza delle persone. Le cose inanimate, così come le «macchine»
e quanto è artificiale e meccanico in
una visione poetica che libera lo
sguardo nella modernità.
Il mondo reificato da prendere
nel giusto verso: quello poetico
sioni più attese: quelle dell’emotività smaccata. Fiori in pericolo dimostra che si possono ricostruire, ricreare, o soltanto evocare, eventi,
persone e poi squarci di assoluto che hanno bisogno di spazi dell’anima sviscerata con una
sofferta ma elaborata mediazione di stile e di
lessico. Senza scrittori rock, adolescenti con
turbe ormonali, ipermercati e quarantenni precari che vogliono guadagnare di più per comprare di più.
Nel cosmo liricamente disperato di Mauro
Fabi la precarietà è l’esistenza medesima, sotto cui si aprono gli abissi della casualità. L’unica è tentare la salvezza legandosi ai solidi cavi di una cultura costruita con i mattoni dell’interiorità e riconoscibile, non dispersa fra zone
di risulta, non-luoghi dove nessuno ha una
storia. Il che non significa rifugiarsi nell’altrove del cosiddetto «sublime».
La realtà, quella che accomuna tutti, qui è fin
troppo riconoscibile. I versi di Fabi poeta somigliano al periodare del Fabi narratore. Sono
misure di un discorso sui contenuti dell’anima-
le uomo e della sua inadeguatezza di fondo.
L’inadeguatezza che consiste nel seguire a
ruota il ciclo usa e getta delle carabattole che
affollano cantine e armadi. Stilos ha intervistato Mauro Fabi.
Essere narratori e poeti oggi significa trovare due accenti diversi per esprimere il mondo, oppure si tratta soltanto di due predilezioni espressive che convivono?
Nel mio caso non c’è molta differenza. C’è
una visione del mondo da comunicare in qualche modo e io cerco di farlo sia con il romanzo che con la poesia. Per qualche motivo, che
non riesco chiaramente a mettere a fuoco, rimango più legato ai miei libri poetici, li sento
più importanti, anche se impiego infinitamente meno tempo a scriverli.
Lei, come romanziere, ha raccontato il tema
della ricerca in La meta di Luan, e l’intrecciarsi dei destini in Il pontile. Due temi che
sanno di grande spazio dell’anima. Crede
che la poesia possa andare oltre le compressioni e le convenzioni di una storia dai pas-
saggi, per così dire, canonici?
Forse in quello che dirò adesso c’è la risposta
alla domanda precedente. Nel romanzo entra
in ballo l’artificio, il gioco linguistico e, inutile negarlo, una specie di autocompiacimento
alla fine di una bella pagina. In poesia tutto
questo non è possibile. La poesia reclama il vero, bandisce la vanità, pena l’autoinganno.
Nell’altro suo volume di poesia, Il motore di
vetro, emergeva una versificazione parecchio conversata, un ripudio della lirica fine
a se stessa, che persiste in molto materiale
che si pubblica anche all’estero, dove comunque la letteratura in versi riceve più attenzione e frequentazione che da noi. Si riconosce in questa prospettiva di lettura?
In parte sì. D’altronde basta aprire Finestre alte di Larkin, o i racconti-poesie di Carver, per
rendersi conto che la nostra poesia è un giochino fine a se stesso, almeno da Sanguineti in
poi. Da noi i poeti non hanno lettori, quindi si
autoacclamano, vivono nelle serate di letture
per pochi adepti, alimentano così il loro angu-
SECONDA LETTURA
La forza vitale che ci viene dal mondo inanimato, l’unico miracolo
È la nuova Musa. Corteggiata, come nel caso di Franco Arminio, o
subita, come nel caso di Andrea Di Consoli, l’ipocondria come stato clinico è la convitata più assidua al tavolino del poeta. In questo
Fiori in pericolo, come nel precedente Il motore di vetro, Mauro Fabi (che l’ospedale, «occhio feroce spalancato sul buio» lo ha frequentato davvero) soggiace invece all’ipocondria nel suo significato
estensivo, quello di profonda malinconia. Ma profonda di brutto, priva di quel tanto di sognante e consolatorio insito nel termine: Fabi
percorre i sentieri del Nulla, «un Nulla calvo, posticcio, disturbato»
che aggredisce l’individuo, le famiglie, in una lotta casa per casa. E
oltre al desiderio di annullare se stessi si afferma quello di «vedere
negli altri il Nulla che si compie». L’estate, ormai, non è più quella
di Cardarelli: «un’urbanità sciatta e molle si muove ciecamente…
tutto è malato e inane è il passo e simulato... le ragazze in ciabatte
hanno i talloni sporchi / emanano un erotismo da diporto / qualcosa di mutilo e auspicabile, un desiderio di vendetta». Nella sezione
che dà il titolo alla raccolta Fabi consacra le case, che «contengono
il mondo degli uomini / più di quanto faccia il cielo o una religione»,
e benedice gli oggetti, che sono ormai rimasti da soli a sprigionare
forza vitale (consolatorio è il tepore che emanano, anche se artificiale). C’è una radura e al centro una bambina, intorno alla cui anima
di alito e di vento «le cose riposano e sono rinfrancate». L’unico miracolo quotidiano, l’unica distrazione possibile, è il modo in cui una
figlia, leggera e silenziosa, s’impossessa di una stanza. Poeti come
questi (Fabi è autore piano e prosastico come e più degli altri due)
corrono un rischio evitato dagli iscritti all’Albo dei verseggiatori:
spogli di artifizi, caparbi nell’aderenza al senso comune, costeggiano il precipizio dell’ovvietà, evitandolo grazie a un guizzo finale, a
un accento sincero e commosso e, soprattutto, al sentimento del
mondo - una postura, un emozione di fondo, un mood costante, palpabile - che sostiene le loro narrazioni.
Elio Paoloni
RAINER M. RILKE. Il lungo soggiorno caprese del poeta
Da solo, con sé e il paesaggio
l quattro dicembre 1906, giorno del
suo trentunesimo compleanno,
Rilke giunge a Capri per un soggiorno destinato a protrarsi alcuni
mesi. Lo attendono, e lo ospitano sull’isola ROBERTO DEIDIER
carica di suggestioni naturali come di reminiscenze storiche e mitiche - tre nobildonne teVIVE A PALERMO E INSEGNA ALL’UNIVERSITÀ.
desche che la sua presenza induce al ruolo di
DIRIGE IL SEMESTRALE DI POESIA "TRAME".
compagne discrete.
"LE FORME DEL TEMPO" (SELLERIO, 2004)
Niente di meglio poteva offrirsi al poeta per lasciarsi alle spalle una vita artistica e sentimentale condotta tra due grandi centri europei, dal basso verso l’alto, la vecchiaia «senza specome Berlino e Parigi: il primo con le sue au- ranza» di un gruppo di volti); e sempre un misterità fin de siècle, il secondo (ben rappresen- nimo particolare è quello che gli ispira, tra l’altato nei Quaderni di Malte Laurids Brigge) tro, una delle liriche più alte dell’intero Novecon le sue fascinazioni sensuali, le sue contrad- cento europeo, Orfeo. Euridice. Hermes, ogdizioni e doppiezze còlte in un insieme di fer- getto di una folgorante lettura critica da parte
di Josif Brodskij. La visione di un frammento
vore e vivacità.
A Capri, finalmente Rilke è solo con se stesso presso il Museo archeologico, infatti, dove i tre
personaggi sono ritratti in
e con il paesaggio. Certo,
una variante del mito, didavanti a lui si apre il
RAINER MARIA RILKE
viene per Rilke e per i suoi
golfo partenopeo e la pre"Vento
e
destino"
lettori una vera e propria
senza della città, visitata
a cura di C. Groff,
indicazione ermeneutica,
quando sarà raggiunto dalE. Potthoff
che non può non essere stala moglie, lascia delle tracpp. 90, euro 12,50
ta suggerita, insufflata, proce sensibili e visibilissime
L’ancora del
prio dallo speciale contatto
sul tracciato dei suoi versi.
Mediterraneo, 2007
con la natura durante il sogBasterebbe seguire il suo
giorno caprese. Come Orsguardo, puntato sul minimo particolare (si pensi al banco del pesce, feo compie la sua discesa agli inferi, così il
o alla poesia intitolata Il balcone, forse un poeta compie, posto davanti all’infinità del
cauto omaggio a Baudelaire, ma anche un suo mare, la propria discesa dentro di sé.
rovesciamento: alla grazia del ricordo mater- Chiunque cerchi di ricostruire, dalla geografia
no qui Rilke sostituisce, spostando la visione delle poesie qui raccolte per la cura di Claudio
I
S t los
Groff e di Elisabetta Ponthoff, un micro-universo pienamente riconoscibile, identificabile,
resterà deluso. Questi versi parlano il linguaggio della suggestione, dell’allusione e soprattutto dell’introspezione. L’isola non è soltanto
un luogo fisico, ma diviene inevitabilmente la
condizione per la quale Rilke, nella solitudine
e nel silenzio che accompagnano tutta la scrittura di queste poesie, può decidersi a compiere quella singolare operazione di attraversamento di sé e di proiezione nel mito orfico che
rappresenterà la vera via d’accesso verso la
stagione delle Nuove poesie.
È la luce a disegnare il paesaggio, l’alterno
succedersi di luce e di ombra, ai raggi del sole o sotto la luna. Un procedere impressionistico scandisce i passi e la contemplazione assorta del paesaggio isolano, dalle marine ai picchi
di collina; dove, spingendosi fino ai ruderi
della chiesetta di Santa Maria a Cetrella, e con
l’incedere di una vera e propria litania, il poeta sigilla l’unione del ritmo poetico, della memoria collettiva e del sentimento individuale,
che lo portano al riconoscimento del proprio
isolamento, sovrapposto a quello della divinità
vanamente invocata e cercata.
Una discesa agli inferi è, inevitabilmente, un
incontro con la morte e con il destino. Infatti
l’assenza di suoni, in queste pagine, permette
al vento di farsi portatore del solo senso acces-
pagina
15
sto mondo. Francamente, a parte Carlo Bordini, non trovo nessuna affinità con gli altri poeti italiani, anzi faccio anche fatica a considerarli tali.
Fiori in pericolo è un apologo di quanto sta
intorno a chiunque e che pure stenta ad essere riconosciuto? Con riferimento ad un
ciclo votato inesorabilmente alla chiusura?
Fiori in pericolo è un poema sulla modernità,
come lo era La terra desolata. Sul declino di
una civiltà. È un percorso lineare e drammatico. Il titolo è preso da un’opera di Alberto Giacometti: c’è un fiore la cui corolla di gesso si
trova sulla traiettoria di un’asta tesa ad arco da
una corda sottile. Si capisce che la corda è destinata a spezzarsi, che l’asta andrà a colpire la
corolla di gesso, che il fiore andrà in frantumi…
Le pagine più viscerali di un libro per altri,
o tutti, i versi concettuale, sono quelle dedicate all’impotenza del genitore. È da qui
che parte l’itinerario diretto al nulla?
Noi siamo responsabili dei nostri figli per il
tempo da loro impiegato a capire con chi hanno a che fare, cioè molto poco. Una volta capito il nostro mondo, i figli si regoleranno di
conseguenza, ci avranno preso le misure e si
guarderanno bene dal volere essere come noi.
D’altra parte, basta guardarsi allo specchio
per rendersi conto dell’assurdità di questa locuzione: «essere responsabili». Pre-occuparci
di loro fino a che non diventino autonomi non
significa essere responsabili, significa interpretare un ruolo. Il Nulla con i figli non ha niente a che vedere. I figli esistono e si amano
(com’è ovvio) più di noi stessi; il Nulla (lo dice la parola stessa) è l’inesistente. Ora, se è vero che, come diceva un grande filosofo un
po’ matto, di quello di cui non si può parlare
occorre tacere, ebbene cosa c’è di più innominabile dell’inesistente? Può, ciò che non esiste
essere posto al termine di un percorso, di un itinerario?
Secondo lei perché ormai quasi nessuno, fra
quanti scrivono, ha più dimestichezza con
l’incombere del Grande Ignoto? Perché, in
altre parole, tutto sembra riconducibile al
minimale quando anche la quotidianità, così come si dà, è spesso una sconfitta dell’intelligenza che merita di venire scandagliata? Perché si è così restii ad ammettere la disperazione cosmica?
Perché l’Italia è un paese culturalmente degradato. Io considero ormai pubblicare un mio libro un atto di degradazione nei suoi confronti… Non voglio fare nomi, conosco quasi tutti i nostri scrittori contemporanei, non li frequento però e non li leggo più perché non ho
tempo da perdere, con qualche rarissima eccezione. Non siamo un paese che produce talenti, non facciamo letteratura ormai da tanto
tempo, inutile ingannarsi. Lei parla di disperazione cosmica, io limiterei il campo al nostro
paese, che vive di un provincialismo letterario
spaventoso.
Dopo i cosiddetti «giovani autori», cosa attendersi di ancor più tragico nel percorso
agli inferi della letteratura italiana contemporanea?
Andrà sempre peggio, ne sono sicuro. L’industria editoriale non rischia niente, il che può
anche essere giusto dal momento che gli italiani leggono molto poco e quel poco è veicolato a dovere da media. C’è il cosiddetto passaparola è vero, ma anche qui smettiamola con
questa retorica romantica: accade una volta
ogni vent’anni che un libro s’impone grazie al
tam tam dei lettori. I libri (la maggior parte delle migliaia di libri che mensilmente escono)
non si trovano nemmeno in libreria, di quale
passa-parola parliamo? E poi andrà peggio
perché non siamo bravi a raccontare storie, come sanno fare invece gli americani. E c’è ancora chi da noi predica l’antiromanzo.
sibile, quello che riguarda il futuro; nell’umile ros-marino (trascritto così, proprio per evidenziarne il legame con i luoghi), offerto a
Maria, la tradizione si fa viva riaccendendo
proprio il legame antico con il culto dei morti
e rappresentando, agli occhi e alla mente di
Rilke, una piccola ma importante epifania. E al
lettore di poesia non sfuggiranno i rinvii impliciti al Mediterraneo di Montale, quasi vent’anni dopo, con analogie evidenti e comunanza di
suggestioni, a cominciare dall’aggettivo rivoltogli: «antichissimo», come il mito e la
memoria che di continuo agiscono in entrambe queste officine, e come, infine, la paternità
di cui il mare, serbatoio di vita e di morte, veicolo di sopravvivenza e tragedia, si fa portatore, divenendo per sempre emblema dell’ignoto, della fatica della conoscenza.
Rilke intitola o raggruppa molti di questi componimenti sotto un’etichetta anch’essa densa
di significato: «improvvisazioni». C’è qualcosa del genio musicale, in questi versi; c’è l’energia centripeta dell’impromptu, che è al
tempo stesso energia visiva e sensitiva, percezione già carica di pensiero al momento del
suo stesso accadere. È come se, posto di fronte al paesaggio, questo autore abbia avvertito
la necessità di coniugarne il panorama con un
percorso di reinvenzione interna; e infatti l’isola sta, piuttosto che davanti allo sguardo,
«davanti al cuore», come recita il verso di
apertura. «Mia oscurità, ecco, sono qui con
te», intona la strofa, e attraverso la poesia cresce il «grido» - panico, esistenziale, viscerale
- che affiderà per sempre il sentore del nostro
destino alle ombre, ed Euridice al mondo dei
morti.
pagina
16
S t los
saggistica
italiana
Nella foto Silvia Ballestra, autrice per Il Saggiatore
di Contro le donne nei secoli dei secoli
I n t e r v i s t e
hiuso il libro, ce ne vuole
del tempo prima di cancellare dalla testa l’urlo finale
di Silvia Ballestra, cacciato fuori con tutta la rabbia
che le avvelena i pensieri.
Una reazione, la sua, necessaria per rompere la spessa nebbia d’indifferenza che tiene ben nascosto l’inesorabile
processo di svilimento attualmente subìto dalle donne. Sempre più vittime di un maschilismo arrogante e prevaricatore, sono costrette a
vivere sulla loro pelle le conseguenze di scelte politiche decisamente punitive - in grado di
ridurne al minimo la libertà decisionale - che
si adeguano pedissequamente all’aspro irrigidimento della Chiesa, intenta com’è a mettere
in campo tutte le forze a disposizione per ridurle a innocue creature da manipolare in nome
della famiglia. L’autrice punta il dito contro i
colpevoli di questa situazione, donne comprese. Per approfondire tali temi, Silos ha intervistato l’autrice.
Nella sua "Piccola premessa" lei definisce il
suo libro una scenata. A chi è diretta?
Alle ragazze e ai ragazzi della mia età e ai più
giovani. Le donne degli anni Settanta certe cose le conoscono molto bene e le hanno combattute all’epoca, continuando a lavorarci negli anni. Sono le giovani generazioni ad aver
bisogno di riflettere su ciò che è stato e ciò che
è al momento il trattamento riservato alle donne in questo paese.
Già dalle prime pagine lei definisce le peculiarità dell’Italia in fatto di discriminazione delle donne. Nello specifico, quali sono?
Il dato più clamoroso riguarda la rappresentanza politica e la possibilità di accesso delle
donne a ruoli di peso e potere nelle aziende,
nella cultura e nell’informazione, a questo di
deve unire il fatto che le donne sono svantaggiate rispetto agli uomini per quanto riguarda
salari e possibilità di carriera. In un Paese che
parla tanto di maternità, alle donne che vogliono fare figli viene richiesto spesso di rimandare - se lavoratrici - la nascita dei figli, e comunque i datori di lavoro non le vedono di buon
occhio, le considerano «a rischio», come se la
maternità potesse essere un problema e non
una risorsa per tutti.
Dalla sua analisi, sempre spietatamente lucida, emerge anche che l’Italia proprio non
riesce ad essere uno Stato laico. Perché?
Per il piccolo dettaglio che in questo Paese c’è
il Vaticano, c’è il Papa. Perché tanti politici, da
destra a sinistra, nella rincorsa all’elettorato
cosiddetto moderato, vogliono essere più clericali dei cattolici, perchè siamo in un momento di rabbiosa debolezza della Chiesa che risponde ai suoi problemi interni arroccandosi e
chiudendosi.
C’è spazio anche per prendersela con le
donne, che in maniera più o meno consapevole sposano il modello maschilista imperante. Quali sono le loro colpe?
Quelle di prendere la scorciatoia, magari con
la scusa che così, anzi, sono progressiste e liberate, mentre non fanno altro che reiterare il
C
R e c e n s i o n i
SILVIA BALLESTRA . Una scenata alle donne che non si sono più voltate indietro: «Le donne
degli anni Settanta certe cose le conoscono molto bene e le hanno combattute all’epoca,
continuando a lavorarci negli anni. Sono le giovani generazioni ad aver bisogno di riflettere
su ciò che è stato e ciò che è al momento il trattamento riservato alle donne in questo paese»
E le donne ritornarono
nel teatrino maschilista
IL LIBRO
GIUSEPPE RONCIONI
VIVE AD AFRAGOLA. INSEGNA MATERIE
LETTERARIE NELLE SCUOLE MEDIE. COL-
"IL DIARIO", "PULP"
"CONQUISTE DEL LAVORO"
LABORA CON
E
teatrino maschilista che le vuole nude e disponibili. D’altronde una sottocultura che premia
le Paris Hilton e le Gregoraci reimettendole
continuamente nel circuito della comunicazione e trasformandole in icone per i giovanissimi non fa che riconfermare che la strada giusta per arricchirsi senza saper fare niente è
quella. Però siccome oggi le donne studiano e
sono più consapevoli e, appunto, più libere di
prima, potrebbero pure fare altre scelte. Se una
ragazza decide di adattarsi al modello della
donna oggetto, più sessuato che mai, oggi non
ci sono più scusanti: c’è della malafede e del
collaborazionismo. Così si fa danno alle donne tutte e anche alla sessualità di tutti, che diventa caricaturale, mercantile e incredibilmente povera, ridotta a merce nemmeno tan-
SILVIA BALLESTRA
"Contro le donne nei
secoli dei secoli"
pp. 96, euro 7
Il Saggiatore, 2006
Così la lotta femminile
degli anni Settanta
ha perso la sua spinta
Un duro pamphlet contro l’interruzione improvvisa del processo di liberazione della donna, arresto di cui anche la donna è colpevole e consapevole. Ma è la donna di
oggi, che ha trenta e quarant’anni a trovarsi in questa condizione di distacco e di
rinuncia. Perché? Perché i modelli invalsi negli anni Sessanta e Settanta, gli anni
della lotta per l’emancipazione femminile che affermarono insieme con gli slogan
anche un linguaggio, non sono oggi neppure recepiti: si sono persi per strada e sono
stati lasciati indietro dalle donne di oggi, tornae succubi del maschilismo, sensibili
alle pressione della Chiesa, nuovamente rinchiuse e rinserrate denro logiche tengono conto di nuove forze di assoggettamento quali i media, la pubblicità, il mercato
del lavoro. Sicché il movimento nato l’anno scorso, che ha riunito moltissime donne
attorno all’appello «Usciamo dal silenzio», è formato da ex militanti degli anni di
lotta oppure da giovanissime attente alle nuove istanze. È rimasta tagliata la generazione che non ha vissuto il Sessantotto e i suoi retaggi.
CARLO M. CIPOLLA. Il grado di intelligenza nella storia umana
Fenomenologia dello stupidario
uesto libro è la testimonianza di
come non siano necessarie centinaia di pagine per scrivere un testo
godibile ed ironico. Nella premesal1351, causando la morte di circa un terzo le mi sembra il caso di analizzare il caso del re
sa, ("Tanto per incominciare"), Cipolla delinea
MARCO LIMITI
della popolazione europea. Così nella prima d’Inghilterra Edoardo. In primo istanza, come
la differenza fra umorismo ed ironia, distinzione più utile di quanto possa sembrare, sopratVIVE A ROMA. DIRIGE LE EDIZIONI metà del secolo XIV la situazione degli stati lo stesso libro ci spiega, l’essere re, e quindi
tutto per comprendere completamente il senPROGETTO CULTURA. COLLABORA CON europei non era così rosea, soprattutto per il re una figura istituzionale fra le più importanti,
d’Inghilterra Edorado che, indebitatosi pesan- non esime nessuno dal rischio di comportarsi
so del libro.
SITI DI LETTERATURA E SPETTACOLO
temente con i mercanti fiorentini, dichiarò come uno stupido: nella fattispecie, il comporSecondo la giustissima analisi dell’autore,
guerra alla Francia, sicuro di una rapida resa tamento del re è stato stupido in quanto la sua
quando si fa ironia si ride degli altri, mentre atazione non ha portato beneficio a nessuno, antraverso l’umorismo si riesce a ridere con gli agli amanti smaniosi. Prima di partire per il dei francesi.
altri. Quindi l’ironia può generare tensioni e lungo viaggio i crociati, prendendo spunto dal Si sbagliò a tal punto che la guerra, da lui di- zi ha procurato un danno a tutti gli altri (a preconflitti che potrebbero essere sciolti attra- proverbio «fidarsi della propria moglie e bene chiarata ed alla quale non riuscì a sopravvive- scindere dal fatto che non sapeva che la sua
verso un uso corretto e tempestivo dell’umo- non fidarsi è meglio» si procurarono una cin- re per vecchiaia, durò 116 anni e causò, fra azione ha dato vita al Rinascimento).
l’altro, la bancarotta delle finanze inglesi. I fio- Nello spiegare come le nostre azioni ci qualitura di castità.
rismo. In poche parole l’iVinta la battaglia il pepe rentini, demoralizzati e disillusi dal gentle- ficano, il saggio di Cipolla è istruttivo. Per
ronia è privata, segreta
CARLO M. CIPOLLA
tornò nei mercati euro- man inglese si diedero alla pittura ed alla poe- esempio se Tizio compie un’azione e ne ricamentre l’umorismo è con"Allegro ma non troppo" pei, generando una gran- sia, facendo fiorire così il Rinascimento!
va una perdita causando un vantaggio a Caio,
diviso e pubblico. È con
pp. 83, euro 10
de espansione demogra- Il comportamento del re Edorado è esemplare Tizio si sarà comportato da sprovveduto. Se
questo spirito di condiviIl Mulino, 2006
fica ed il proliferare del per introdurre il secondo saggio del libro di Tizio compie un’azione dalla quale traggono
sione che Cipolla congeda
commercio di altri beni, Carlo Cipolla, "Le leggi fondamentali della vantaggio sua lui che Caio, Tizio si sarà comqueste pagine.
stupidità umana". Questo breve scritto spiega, portato da persona intelligente. Se invece Tizio
quali il vino e la lana.
Il libro contiene due saggi
Come conseguenza e pu- con grafici matematici, come le nostre azioni trae vantaggio da un’azione causando un danumoristici. Il primo è intitolato "Il ruolo delle spezie (e del pepe in par- nizione di un tale ed eccessivo consumo di be- manifestino il nostro grado di intelligenza o no a Caio si sarà comportato da bandito. Una
persona stupida è quella che causa un danno ad
ticolare) nello sviluppo economico del Me- ni di lusso, prolungato per circa tre secoli, ar- stupidità.
dioevo". In un primo momento la mancanza di rivò la peste che sconvolse l’Europa dal 1347 Prima di riportare le varie leggi e commentar- una persona senza ottenere dalle sue azioni alpepe, potente afrodisiaco, è vista come causa
del calo demografico e della perdita di speranza nella vita terrena in favore di un grande ferRITA LEVI MONTALCINI
ALDO DELLA MALVINA
vore religioso. È per questo che Pietro l’EreGIUSEPPINA TRIPODI
"Un pezzo di niente"
mita cerca di procurarsi il pepe dall’Oriente
"Tempo di revisione"
pp. 377, euro 15
tramite una guerra che avrebbe anche avuto il
pp. 161, euro 16,50
Pendragon, 2006
merito di liberare la Terrasanta dall’oppressioBaldini Castaldi Dalai, 2006
ne musulmana. Generalmente la Chiesa non C
approvava il comportamento violento dei ba- A
roni ma in questo caso fu felice di aggiungere
Suddiviso in sei parti per complessivi venticinque capitoli, Un
la qualificazione di «santa» al termine «guer- T Nel corso dei secoli, l’evoluzione biologica e quella culturale
sono sempre state oggetto di revisione. E se la prima si è veri- pezzo di niente è il poema di fine millennio di Aldo della Malra».
A
vina, pseudonimo di Aldo Lacchini, poeta di Cesena. Un poeficata in modo uguale per tutti, la seconda, basata sulle scoIl mercato metallurgico crebbe a dismisura come si può desumere anche dalla crescente L perte scientifiche, ha potuto verificarsi solo in favorevoli con- ma che è un viaggio, come quello dantesco, che l’autore prende ad esempio per un itinerarium alla ricerca della Verità. Se
dizioni ambientali. Dunque non tutte le popolazioni hanno
frequenza di cognomi derivanti dalla parola
fabbro (Smith in Inghilterra; Schmidt in Ger- O potuto usufruire dei benefici apportati dall’evoluzione cultu- non una discesa agli inferi, un girovagare terreno, tra scenari
reali e paesaggi ideali o luoghi dell’anima, con tanti persomania; Lefevre in Francia) - e non solo a cau- G rale; cosa che mette in evidenza l’importanza fondamentale
naggi comuni, ma anche nuvole, pioggia e vento.
del ruolo esplicato dai fattori epigenetici e non genetici.
sa della fabbricazione delle armi ma anche
grazie ai mariti dubbiosi, agli mogli infedeli ed O
Q
Dove
arriva
la cultura
Un
terreno
girovago
to bella.
Perché i media sono allergici alla violenza
sulle donne, che diventa interessante solo
quando ci sono dei forti elementi di spettacolarizzazione?
Perché sono conformisti e appiattiti sulla monocultura maschilista. La violenza domestica
è un problema complicato ma assolutamente
trasversale a luoghi e culture, basti pensare che
la prima causa di morte delle donne nel mondo non sono malattie, incidenti stradali o altro,
ma l’omicidio per mano di partner o fratelli o
padri violenti. Magari prima di scagliarsi a denunciare l’arretratezza di tante parti del mondo - sto parlando del velo - potremmo soffermarci a guardare cosa succede di qua, aprire
un dibattito - fra uomini - su cosa sta succedendo ai maschi, sul perché siano così spesso
inadeguati, su cosa sia stata per loro questa
meravigliosa rivoluzione - incruenta - delle
donne e di come sia invece sanguinosa la reazione, o, se vogliamo, il tentativo di restaurazione.
Sfogliando i giornali femminili, l’immagine
della donna proposta sembra assai lontana
da quella reale, innescando, come lei tende
a sottolineare, negli uomini un perverso
meccanismo di frustrazione delle aspettative. Perché non si ha il coraggio di tentare
delle strade editoriali alternative, in cui si
dia veramente spazio all’universo femminile, liberandosi dalle stritolanti leggi del
mercato?
Sfogliando i giornali femminili, ma anche
quelli maschili, ma anche guardando la pubblicità in strada, tanta televisione, e la rete, e il
porno che ormai arriva in casa con un clic e offre il catalogo più disparato e disperante di specializzazioni... Sembra che la donna ridotta a
carnazza faccia vendere di più, tutto passerà
quando si capirà che l’industria culturale non
può essere considerata alla stregua di qualsiasi altra industria, quindi mai.
Di certo non si può liquidare il problema,
rinvenendo nella perdita di voce del femminismo la causa principale dell’attuale
peggioramento della condizione delle donne. Ci sono delle efficaci voci femminili, in
questo momento, in grado di difendere le
donne?
Ma certo, forse non sono voci che si sentono,
ma sono gesti quotidiani di milioni di donne
che lavorano, di ragazze che studiano, insomma delle donne vere che mandano avanti questo paese magari dannandosi fra lavoro e famiglia, delle tante donne straniere che nelle nostre case fanno le tate, colf, badanti, distantissime dalle pupe di carta ritoccate al silicone o
scontornate dal fotoshop. E ci sono anche voci di uomini, comunque, molto interessanti.
Cosa potrebbe, nel concreto, attutire il retrogusto di amarezza che le è rimasto alla fine della sua scenata?
Mah, vedo che in questi mesi alcune cose si
stanno muovendo e non solo sul piano simbolico. La manifestazione delle donne a Milano
dell’anno scorso, la protesta contro l’orrenda
pubblicità di D&G, il lavoro buono di alcune
nostre ministre, le Segoléne e le Hillary all’estero... Di sicuro c’è una consapevolezza nuova, l’amara constatazione che le donne sono
ancora sottotiro da più parti.
cun vantaggio.
Detto questo è facile, nonché divertente, catalogare le azioni dei nostri amici e conoscenti
secondo questi gruppi. Lo stupido è pericoloso perché le sue azioni non sono prevedibili,
mentre dietro alla mentalità di un bandito si
può rintracciare una logica, seppur bieca e
corrotta; dietro alle azioni di uno stupido c’è la
sua irrazionalità, aggiungo che lo stupido non
sa di essere stupido e si comporta in tal maniera con naturalezza e senza nessun rimorso.
Passiamo ora alle leggi fondamentali: la prima
legge recita: «Sempre ed inevitabilmente
ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». La seconda legge
afferma che «la probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona». Ciò
che Cipolla vuole spiegare è che la stupidità
pervade tutte le persone del tessuto sociale a
prescindere dal loro ruolo e dalla loro importanza nella società.
Si può aggiungere che la percentuale di stupidi è la medesima all’interno di ogni classe sociale. La democrazia è il valore che regola tale legge: esistono tanti stupidi fra uomini e
donne come fra paesi sviluppati e non. La
quarta legge dice che «le persone non stupide
sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide». Uno stupido non si può
controllare né rendere inoffensivo.
L’ultima legge investe il campo della macronalisi ed è molto interessante. Partendo dal
presupposto che il benessere della società è la
somma algebrica delle condizioni di benessere individuale, la persona stupida è pericolosissima, molto più di un bandito. L’azione di tale individuo, a livello macro, non porta nessun
cambiamento nell’equilibrio della società in
quanto rappresenta puramente un trasferimento di benessere o ricchezza da una persona a
un’altra. D’altro canto le persone stupide causano perdite senza generare ricchezza e da
questo consegue un impoverimento della società.
Non si può che concludere consigliando Cipolla, sperando che riusciate ad individuare
tutti gli stupidi della Terra e difendervi dalle loro azioni.
saggistica
italiana
ederico Bertoni affronta
uno degli aspetti più affascinanti e nello stesso tempo sfuggenti della scrittura
letteraria: il suo possibile
realismo. Il termine non
risulta, all’attenta disamina diacronica condotta dall’autore, in nessun modo riconducibile a una definizione
unitaria: di realismo, come già di mimesis a
partire da Platone e Aristotele, si è parlato con
accenti diversi e a volte contrastanti. Sul tappeto è però sempre rimasto il problema del
ruolo della letteratura nelle società e nei tempi storici che ha attraversato: se si è arrivati,
alla metà del Novecento, a voler negare qualunque rapporto fra la letteratura e la realtà, la
ragione sta probabilmente nel rifiuto del legame troppo stretto, uno a uno o biunivoco,
che tra scrittura (in particolare romanzesca) e
referenti esterni (vicende di esseri umani comuni, plausibili secondo norme più o meno
condivise) si era creato nel secolo precedente.
Su questa base, il libro di Bertoni risulta indispensabile a chiunque voglia conoscere le riflessioni degli autori, specialmente dei romanzieri, sulla loro «missione» e sui limiti
della loro possibilità di rappresentare il reale.
Sono molto interessanti alcuni interludi sul
realismo di singole opere, dalle Città invisibili
al Don Chisciotte e al Rosso e il nero, sino al
provocatorio Sebastian Knight di Nabokov.
Molto interessanti sono poi le osservazioni su
uno snodo messo a fuoco dal massimo esponente del realismo canonico e insieme primo
trasgressore dei suoi stessi vincoli, ossia il
Balzac del Capolavoro sconosciuto, che presenta, è stato detto, una parabola o un’allegoria sul realismo stesso, ovvero sul come si
possa ottenere una rappresentazione della
realtà sui generis persino mirando a tutt’altro,
magari facendo emergere, quasi si trattasse di
un’opera di Rauschenberg anticipata agli anni Trenta dell’Ottocento, la «punta di un piede nudo» da un caos di forme e colori.
Bertoni ovviamente esamina in dettaglio le
interpretazioni critiche che in ogni epoca sono emerse riguardo al rapporto
letteratura/realtà. Nell’impossibilità di trovare un accordo, una linea comune condivisibile, formula una sua proposta di «realismo
plurale», nella quale confluiscono spunti ricavabili da grandi scrutatori dei confini del realismo - Auerbach, Jakobson, Lukács o il nostro Debenedetti -, e inseriti in una classificazione di piani latamente semiotica. Il realismo
letterario si potrebbe dividere in quattro livelli fondamentali: tematico-referenziale, stilistico-formale, semiotico e cognitivo, ossia, nei
termini di Ricoeur, quello che collega «ciò
che sta a monte e a valle della configurazione
poetica». Questi quattro livelli sono presenti
e attivi in una delle ultime grandi opere realistiche, Underworld di Don DeLillo, alla quale è dedicata un’ampia analisi conclusiva.
Il libro di Bertoni termina quindi con una
pars construens, sia pur circoscritta, ma tale
da non lasciare il lettore nel relativismo assoluto del concetto di realismo. Perché in effetti, benché si debba necessariamente considerare il realismo come un rapporto, una tensio-
F
R e c e n s i o n i
I
IDOLINA LANDOLFI
Nella foto sopra Federico Bertoni, autore per Einaudi di Realismo
e letteratura. Sotto Maurizio Bettini e Luigi Spina (foto piccola) che
hanno pubblicato da Einaudi Il mito delle sirene
IL LIBRO
pagina
17
Trovarobe
R e c e n s i o n i
S t los
FEDERICO BERTONI
"Realismo e letteratura. Una
storia possibile"
pp. 402, euro 20
Einaudi, 2007
GIULIO MOZZI
La natura e il grado
della letteratura realista
IL QUOTIDIANO DE CERTAU
Tra testo letterario e realtà si estende
una terra di mezzo che è l’esperienza,
l’esistenza, il mondo. È il terreno decisivo per decidere le sorti della letteratura nel senso di mimesis o invenzione.
Ma anche quanto ripete la realtà e la
esegue, la letteratura fa leva sulla forza di rivelazione che hanno le storie inventate. Ma cos’è il realismo e come si
configura? Bertoni, nell’intento di stabilirne la natura e il grado, va alla ricerca delle stazioni di posta nelle quali
il realismo letterario si è fermato e ha
lasciato segni: da Don Chisciotte a Le
città invisibili fino a Underworld di DeLillo.
FEDERICO BERTONI . Il canone del realismo sembra oggi fissato su una interpretazione
dei nessi fra scrittura, visività cinematografico-televisiva e fruizione delle vicende viste
come parte di un flusso comunicativo continuo e insieme privo di coerenza generale. E la
letteratura dell’Ottocento compresa come grande realismo diventa genere di consumo
Ogni grande opera letteraria
aspira a una validità perenne
ALBERTO CASADEI
VIVE A PISA E INSEGNA ALL’UNIVERSITÀ.
"ROMANZI DI FINISTERRE" (CAROCCI, 2000),
"IL NOVECENTO" (IL MULINO, 2005)
ne di tipo conoscitivo che varia al variare dei
parametri epistemologici vigenti, non è negabile che qualunque grande opera letteraria
aspiri a una sua validità perenne, raggiungibile trasformando i dati storici contingenti in un
materiale da formalizzare e in qualche misura rendere assoluto, ossia riusabile in epoche
diverse. In questo senso, potevano essere impiegate maggiormente le osservazioni di Peter Brooks nel suo recente "The realist vision"
(2005) sul valore «modellizzante» che le opere artistiche tendono ad assumere in generale, e in particolare, negli ultimi due secoli,
quelle narrative e quelle pittoriche: ma, aggiungiamo, il canone del realismo oggi sembra fissato su un’interpretazione dei nessi fra
scrittura, visività cinematografico-televisiva
e fruizione delle vicende viste come parte di
un flusso comunicativo continuo e insieme
privo di coerenza generale.
Se il modello lineare della narrazione ottocentesca è ormai relegato alla letteratura di consumo, ciò dipende in gran parte da una percezione degli eventi che è intrinsecamente franta, oltre che mediata: e internet rappresenta
una sorta di espansione all’ennesima potenza
di questa situazione, con potenzialità e rischi
ancora poco chiari.
Insomma, il fondamento di ogni realismo letterario sta in una percezione se vogliamo biologico-culturale dell’esterno (usiamo il termine in senso fisico-sperimentale), che si sostanzia in forme di lunga durata, in genere dotate di una loro narratività (ma qui occorrerebbe affrontare anche il problema della manifestazione lirica di un rapporto io-mondo: perché una lirica di Baudelaire non potrebbe essere più «realistica» di un romanzo d’appendice di quart’ordine?).
Proprio su questi fondamenti occorre riflettere ancora, perché è chiaro che solo con una
metodologia che coniughi analisi tematicostilistica e snodi filosofici-epistemologici potremo costruire un modello di realismo che
non si limiti alle consapevolezze, a volte ingenue, degli autori. Il grande Auerbach aveva
individuato un principio euristico nella separazione degli stili e un punto di arrivo nella
rappresentazione seria del quotidiano: e aveva così delineato i tratti distintivi del novel
moderno. Ora che le distinzioni poste dalla fisica classica e dal modello informativo del
giornalismo mostrano limiti evidenti, ora che
nel campo del «reale» entriamo con strumenti euristici che rimandano alla genetica, ai
fondamenti antropologici dell’Erlebnis, alla
densità delle elaborazioni cerebrali, sembra
sempre più necessario dotarci di una teoria
del realismo che, partendo dagli assunti focalizzati da Bertoni, possa dar conto anche del
perché il visionario Balzac o il paranoico DeLillo sono consanguinei dell’epico Omero.
MAURIZIO BETTINI - LUIGI SPINA. Rivisitazione del mito
Il lungo viaggio delle sirene
nteressantissimo volume, corredato di ricco apparato iconografico e
formidabile bibliografia ed elenco delle fonti ascoltare il canto divino, evitando però di es(tutto ciò che vorreste sapere su), che presen- serne annientato) e, secondo alcuni autori, si
ta le enigmatiche creature dal loro primo appa- suicidano in mare.
rire sulla scena del mondo, figlie, a seconda Della loro natura alata molte sono le spiegaziodelle tradizioni riportate da vari scrittori anti- ni: in origine ninfe che hanno scelto la vergichi, del fiume Acheloo e di una delle Muse, nità, e perciò bersaglio della collera di AfrodiMelpomene a detta di Apollodoro, Tersicore te, che le trasforma in uccelli; o compagne di
per Apollonio Rodio (che le cita nelle sue Ar- Proserpina, ci dice Ovidio: dopo il ratto ad
gonautiche) e Nonno di Panopoli; o di Ache- opera di Ade, si diedero a cercarla per ogni doloo e Sterope; o della stessa Terra, Gea, che le ve e, per perlustrare anche i mari, chiesero agli
genera dalle gocce di sangue cadute su di lei da dei di essere trasformate in uccelli.
un bellicoso Acheloo. O ancora «figlie di For- Ma ben prima che con Odisseo le Sirene eserco», come le chiama Sofocle, padre peraltro di citarono il loro potere canoro: intanto ebbero la
tutta una serie di ibridi che spesso con le Sire- sfrontatezza di sfidare nel canto nientemeno
ne si confondono: le Graie, le Gorgoni, la che le Muse e, avendo perduto, si strapparono
di dosso le penne e si butdonna-serpente Echidna;
tarono in mare, trasfore la stessa Scilla, che insimandosi in rocce bianche
dia i naviganti nello StretMAURIZIO BETTINI
(di queste vicende resta
to di Messina.
LUIGI SPINA
traccia nella toponomaLuigi Spina segue le mol"Il mito delle sirene"
stica: le Isole Bianche,
te ramificazioni del mito,
pp. 261, euro 22
Leukaì, si collocano al
basandosi su una perfetta
Einaudi, 2007
largo di Creta, di fronte
conoscenza delle fonti; e
alla città di Aptera, che
dispiega sotto i nostri occhi la vita, la biografia di questi esseri alati (ma significa letteralmente «Senza ali»).
che molto hanno a che vedere con l’elemen- E poi si ritrovarono loro malgrado a sostenere
to acqueo, data la loro genealogia), dalla testa una gara canora con Orfeo: già gli Argonauti,
e busto di donna e corpo di uccello - perché ta- infatti, erano riusciti a superare indenni la
le era il loro aspetto originario, così le vediamo trappola delle Sirene, grazie ad Orfeo appunnei vasi attici del V e IV secolo a. C., essenzial- to, che avevano a bordo, e che col suono delmente raffigurate nella scena dell’Odissea che la cetra e il magnifico canto sovrastò la loro
più di ogni altra le ha rese famose: quella del voce. Non importa ciò che dicessero: era la
passaggio di Ulisse presso le loro rocce calci- qualità sublime e irresistibile delle loro armonate, durante il ritorno verso Itaca. Un mito ini- nie a condurre a perdita. Platone, nella Repubzialmente negativo, dunque, le cui protagoni- blica, fa narrare ad Er della configurazione
ste subiscono una sconfitta (con lo stratagem- dell’aldilà: otto cerchi concentrici, ciascuno
ma della cera a tappare le orecchie dei compa- dei quali presieduto da una Sirena, i cui suoni
gni, e Odisseo stesso legato all’albero maestro, rappresentano nella loro summa «la perfetta
perché solo all’eroe spetta il privilegio di armonia delle sfere».
In un capitolo dedicato a "Il nome, i
nomi, i luoghi delle Sirene", Spina,
dopo alcune ipotesi sul termine Sirena e la sua discussa etimologia
(seirá significa legare, ma seirén è
anche in greco l’ape, produttrice di
cera, ecc.), fornisce i nomi delle Sirene (da due
a quattro), che mutano nelle varie fonti: ad
esempio «Aglaophéme» (colei che ha «splendida fama»), «Thelxiépeia» (usa «parole che
incantano»), «Peisinóe» (che ha nel nome la
radice di peítho, persuado) e Lígeia (quest’ultima sarà, molti e molti secoli dopo, la protagonista dell’omonimo racconto di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa).
E non dimentichiamo che Sirena era Partenope, «vergine dal bel canto», sepolta a Neapo-
lis, e sul mare di Napoli, o un po’più in là lungo le coste campane (nelle isole sorrentine
delle Sirenusse, le attuali li Galli), sono alcune delle loro sedi. Laddove altri autori le spostano più a sud, in Sicilia, presso il promontorio del Peloro.
Il volume è insomma una miniera di preziosi
collegamenti e raffronti tra autori e storie, rassegna delle presenze di Sirene nei luoghi più
impensati, dalle finte Sirene fatte porre da
Alessandro Magno sul mausoleo del fedele
compagno Efestione (statue cave da cui alcuni uomini diffondevano il lamento funebre) fino a quelle che Colombo sosteneva nel suo
diario di bordo di aver incontrato (lo riporta
Bartolomé de Las Casas) il 9 gennaio del
1493.
Creature metamorfiche per eccellenza, è in
epoca relativamente recente (inizio VIII secolo) che divengono come ora le conosciamo,
donne fino alla vita e il resto corpo squamoso
e iridescente di pesce. Nella seconda parte del
volume, "L’eco delle Sirene", il saggista dimostra con una serie di esempi la forza straordinaria del mito: la sua sopravvivenza e continuo
utilizzo simbolico lo hanno trasformato da
mito di sconfitta in mito vincente.
Ed ecco allora la Sirena nei bestiari medioevali moralizzanti, nelle opere dei Padri della
Chiesa (in accezione negativa: la donna adescatrice, la lusinga dei piaceri terreni cui resistere in nome della purezza della fede), nelle
saghe nordiche, e fino a Boccaccio, Montaigne, Kafka (Il silenzio delle Sirene), Melville,
Hans Christian Andersen (la cui Sirenetta, ormai benevola fautrice di approdi sicuri, campeggia nel porto di Copenhagen), Brecht
(Dubbi sul mito) o Mario Camerini e il suo
Ulisse.
Da un po’ di tempo sto leggendo e rileggendo (perché sono belli e difficili, e io
sono duro di comprendonio) alcuni libri
di Michel de Certau. Michel de Certau
(nato nel 1925, morto nel 1986) è uno studioso fuori dal comune. Si è occupato di
mistici del Quattrocento e di antropologia
della vita quotidiana. Ha scritto libri sul
contemptus mundi nella tradizione spirituale dell’Occidente e su Che Guevara
come personaggio leggendario.
Padroneggiava, oltre che - da gesuita qual
era - le lingue antiche, anche una mezza
dozzina di lingue moderne. In somma:
una sorta di genio universale, di quelli che
nei tempi moderni solo la tradizione
ebraica e la Compagnia di Gesù sembrano capaci di portare al mondo.
Confesso che, un anno fa, ignoravo fin
l’esistenza di quest’uomo; e mi sono accorto che molte «persone di cultura» che
frequento non ne hanno mai sentito parlare. «Persone di cultura», intendo, che
hanno letto tutti i libri di Foucault o di
Baudrillard o di Lévi-Strauss, e magari
qualcuno di Bourdieu (che peraltro, in
Italia, non è mai stato veramente di moda).
Effettivamente, i libri di de Certau in Italia sono stati pubblicati in ordine sparso,
sparpagliati tra le Edizioni Lavoro, Olschki, il Mulino, il Pensiero Scientifico e
altri ancora.
Eppure è strano che un tale autore, un protagonista di quella stagione della nuova
cultura umanistica francese che incrociava storiografia e letteratura, etnografia e
politica, sociologia e linguistica - e che è
stata importata in Italia con grande successo - abbia nella nostra lingua un’esistenza così marginale.
Io l’ho incontrato, de Certeau, nel modo
più banale: cercando, di bibliografia in bibliografia, opere che tentassero la descrizione, se non lo studio scientifico, della
vita quotidiana: così mi sono trovato a
leggere l’Invenzione del quotidiano (pubblicato in Italia da Edizioni Lavoro), e a
restare sbalordito difronte a una delle intelligenze più astute che mi sia mai capitato di incontrare. Di solito alla parola
«astuzia» si dà una connotazione diminutiva, se non negativa: dove non c’è intelligenza, diceva il mio professore di filosofia del liceo, c’è l’astuzia.
Ma esiste anche un’intelligenza astuta,
un’intelligenza che affronta il suo oggetto non frontalmente, non militarmente - la
vita quotidiana è un oggetto così delicato
che basta poco per frantumarlo - ma, diciamo così, seduttivamente.
De Certau era, prima di tutto, veramente
innamorato della vita quotidiana e delle
invenzioni di cui essa è ricca. Se innumerevoli sociologi hanno spesa la loro vita a
spiegarci che siamo tutti massificati, de
Certau - con mossa quasi eversiva - si
mette a caccia della creatività del consumatore, dei mille modi in cui il popolo dei
consumatori si appropria di ciò che gli
viene fornito e ne fa un uso imprevisto attraverso delle arti quasi invisibili, e scarsamente esplorate dalla comunità scientifica, ma non per questo meno vitali.
Oggi (scrivo questo articolo il 31 marzo
2007) sono a un convegno. Il luogo è
Reggio Calabria. Gli organizzatori sono
l’associazione reggina «Le pietre di scarto» e la «Federazione Bombacarta», nata
attorno al laboratorio di scrittura «Bombacarta» fondato (nel 1998, se non ricordo male) da Antonio Spadaro, gesuita.
L’altro ieri, sul volo da Venezia a Reggio,
il mio vicino - un giovanotto francese - ha
tranquillamente sfoderato un libro di de
Certau ("La faiblesse de croire", Seuil).
Ieri, al convegno, tre relatori su quattro
hanno citato, esplicitamente o implicitamente, de Certau. Stamattina, nella mia
camera d’albergo, accendo la televisione
e becco (su Rai3) una persona che parla di
Michel de Certau.
Ho pensato: qui sta succedendo qualcosa.
Ci sono dei libri, degli autori, che scompaiono per anni e anni (o magari non
compaiono mai), e poi, senza una ragione
visibile, pian piano o all’improvviso, appaiono o riappaiono, e magari diventano
di moda. Non parlo di quei casi in cui un
editore, magari grande e grosso, decide di
"«ipescare» un autore e di provare a farne un suo punto di forza. Parlo di «emersioni» e «riemersioni» che sembrano avvenire per caso, per passaparola, slegate
da specifiche iniziative editoriali o culturali, per forza autonoma delle opere scritte da questi autori. Spero proprio che sarà
questo il caso di Michel de Certau.
saggistica
italiana
18
I n t e r v i s t e
e c’è una cosa che non pretendo è quella di aver scritto un libro pieno di affermazioni originali». Non si
può dargli torto: di laicismi e laicità si discute ormai da anni e pare proprio
che siano il tema preferito da moltissimi saggisti ed opinionisti, cattolici o atei non importa. Anche di Gian Enrico Rusconi, politologo
dell’università di Torino ed editorialista de
"La Stampa", che ha deciso di occuparsene
scrivendo un breve saggio per Rizzoli, Non
abusare di Dio. Per un’etica laica. Rispetto ai
molti pamphlet pubblicati di recente, quello
del germanista non si può dire certo che abbia
il passo affrettato o che sia poco argomentato.
Strutturato in due parti - la prima dedicata ai temi che animano il dibattito politico italiano, la
seconda, più corposa ed inedita, incentrata sul
discorso sulla natura umana - è un tentativo ragionato di dialogo con il laicato cattolico.
A partire proprio dal significato della parola
laicità: «Tutti in Italia si dichiarano laici. Contemporaneamente, però, nel linguaggio pubblico corrente continua a valere la distinzione,
se non la separazione, tra laici e credenti, tra
laici e cattolici, con il sottinteso che i laici siano non-credenti e viceversa. In realtà i due termini non sono affatto sinonimi. Ma allora: da
noi ci sono laici e/o credenti oppure siamo tutti laici?». Stilos ha approfondito l’argomento.
Un tema già trattato infinite volte dalla pubblicistica.
È vero: la definizione di laicità è la parte meno originale di questo libro perché ribadisce il
concetto di autonomia intellettuale ed individuale. L’idea che l’unico criterio sia la ragionevolezza è un’affermazione per niente inedita.
Allora, perchè scriverlo?
Perché la prima parte del libro è funzionale alla seconda, dedicata al concetto di natura umana. Credo che debba essere questo il reale tema di confronto. A tal proposito, metto sotto
obiezione l’ambiguità del discorso ufficiale
che per un verso depreca l’esclusione della religione dalla vita pubblica e per l’altro sostiene che il proprio argomentare non è religioso,
ma razionale. Questa è una evidente contraddizione. Anche perché, così facendo la Chiesa
corre un grosso rischio.
Quale?
In un momento in cui la Chiesa è così esposta
nel discorso pubblico e però al tempo stesso
continua a protestare di non essere ascoltata
come vuole, c’è il serio pericolo che metta in
gioco Dio su temi che possono esser affrontati in modo totalmente diverso. Mi pare assolutamente fuori luogo ad esempio che si debba
ricorrere al Vangelo per rifiutare i Pacs. È un
uso sproporzionato di strumenti ideologici.
Non è contraddittorio invitare la Chiesa cattolica ad essere più pragmatica proprio su
questi temi?
Il mio è un semplice invito a discutere del merito. Una delle affermazioni che faccio è che la
dottrina della Chiesa rischia di concentrarsi
«
S
R e c e n s i o n i
A
ALFIO SIRACUSANO
S t los
Nella foto sopra Gian Enrico Rusconi, autore per Rizzoli di
Non abusare di Dio. In basso Angelo Scola, che da Marsilio ha
pubblicato Una nuova laicità
GIAN ENRICO RUSCONI . «Se la Chiesa è così esposta nel discorso pubblico e però al tempo
stesso continua a protestare di non essere ascoltata come vuole, c’è il serio pericolo che
metta in gioco Dio su temi che possono esser affrontati in modo totalmente diverso. Mi pare
assolutamente fuori luogo ad esempio che si debba ricorrere al Vangelo per rifiutare i Pacs»
Così la Chiesa
mette Dio
in discussione
FILIPPO MARIA BATTAGLIA
VIVE A MILANO DOVE DIRIGE LA RIVISTA
"GLI APOTI". COLLABORA A "IL FOGLIO",
"IL GIORNALE", "L’INDIPENDENTE"
tutta su problematiche morali, che poi sono familiari e sessuali, dimenticando del tutto la dimensione teologica alta. Non è un caso che nel
libro parlo di impoverimento teologico.
Questa difficoltà nasce anche dalla debolezza della classe politica.
C’è un passo intermedio. La Chiesa cattolica è
tentata di offrire una religione civile agli italiani che non l’hanno. Ma il vero problema è che
il laicato cattolico è totalmente appiattito. Trovo incredibile che a parlare di queste cose siano prevalentemente monsignori e cardinali. Invece di essere protagonisti, i laici credenti delegano costantemente il loro pensiero all’autorità ecclesiastica. Di qui, il difetto della politica, ma non si può sottovalutare questo passaggio intermedio.
Più che della Chiesa il problema allora riguarda l’opinione pubblica.
È evidente che riguarda l’opinione pubblica
italiana. E questo è da collegare alla fine delle grandi ideologie. Per molti decenni, in questo Paese il discorso laico è stato prevalentemente una componente della cultura democratico-socialista. Impoveritasi quest’ultima, sono venuti fuori problemi di fondo a cui si sono aggiunti nuovi temi, come quello delle biotecnologie. In questa situazione di estrema
problematicità culturale, la Chiesa si avanza
con la sua dottrina che offre certezze, mentre
il laico ha dei problemi molto più complessi,
anche perché non esiste un sistema laico orto-
IL LIBRO
GIAN ENRICO RUSCONI
"Non abusare di Dio"
pp. 189, euro 12,50
Rizzoli, 2007
L’impulso a partecipare
al dibattito politico
La spinta della Chiesa cattolica a dirigere la condotta non solo dei credenti
ma anche dei laici e quindi dello Stato.
ma questa vocazione a partecipare al
dibattito politico mette in crisi il valore
di laicità intesa come fondamento della libertà individuale di giudizio.
dosso od omologo. In poche parole, c’è una
forma di supplenza della Chiesa che non nasce
da arroganza ma da una particolare congiuntura storica. L’anomalia italiana è il ruolo monopolistico della gerarchia.
Un dato storico, più che una considerazione legata a questi ultimi anni.
Ovviamente. Se vogliamo proprio trovare una
data, io la trovo circa un secolo fa con lo
schiacciamento da parte della Chiesa del movimento modernista, composto di sacerdoti
ma anche di laici che auspicavano una certa
modernizzazione del pensiero. La Chiesa lo ha
soffocato con la ovvia conseguenza che è soltanto la gerarchia a parlare e a dire la verità. Il
WALTER PEDULLÀ
LA RESISTENZA DI FENOGLIO
risultato nei suoi effetti più tangibili è che oggi il Pontefice commenti i Pacs.
Lei nel libro fa menzione della Costituzione
tedesca che, così come quella americana, cita esplicitamente Dio. Questi due Paesi non
sono di certo teocratici. Da dove nascono
allora i timori circa il riferimento delle radici cristiane nella costituzione europea?
Che l’Europa abbia radici cristiane, anzi per
essere più corretti greco-giudaico-cristiane, è
fuori discussione. Ma il problema a me pare
più complesso. Lei ha accennato alla Germania. Ebbene, nella costituzione si nomina Dio
in modo molto generico, ma nonostante questo sono sorte diverse controversie giuridiche. Un episodio è avvenuto nel 1995. La Baviera, che è uno Stato federale autonomo, ha
nella sua carta frasi molto simili a queste che
si vorrebbero inserire in quella europea. Ne
consegue che il crocefisso diventi parte obbligatoria dell’arredamento della scuola. Questa
decisione è stata contestata e portata avanti fino alla Corte costituzionale centrale che ha sostenuto che la croce è un simbolo altamente religioso, ma non comunitario. E siccome il
principio laico considera l’individuo più forte
di una confessione, ad esse deve prevalere la
coscienza individuale. Il crocefisso va quindi
tolto. Tutto questo non comporta evidentemente una dichiarazione di incompatibilità
della religione con la costituzione, ma la semplice osservazione che il principio della libertà individuale fa aggio su quella del gruppo. I bavaresi hanno protestato, ma alla fine
hanno dovuto accettare questo principio. Ciò
ci fa capire come il vero problema non risieda
nel riconoscimento storico della matrice culturale, ma nelle inevitabili conseguenze politiche
e giuridiche che ne derivano.
ANGELO SCOLA. Una riflessione sul significato di laicità
Questa è l’età del sacro selvaggio
pparentemente i temi trattati dal
cardinale Scola in Una nuova laicità discendono da una, per così dire, casualità ve», e che siamo dunque, in un’età di «esplopratica (e lo diciamo perché lo stesso autore sione di un sacro quasi selvaggio», dentro una
avverte che il libro è nato dalla raccolta di mol- situazione di post-secolarizzazione.
teplici interventi, beninteso tutti comunque Potremmo continuare sulle intense aperture di
riconducibili alla funzione pastorale che ac- principio presenti in queste pagine. Che al di là
compagna naturalmente l’azione di un cardi- della casualità della raccolta disegnano una venale), ma c’è in essi una linea unica che parte ra e propria «summa« dell’essere cristiano nel
da affermazioni salde, di principio, che ose- tempo delle sfide supreme che l’oggi pone al
remmo chiamare «politiche» se la parola po- mondo occidentale (e più al mondo cattolico).
tesse essere intesa nel senso nobile che essa ha: E tuttavia non si può ignorare il fatto che querelative alla polis e all’uomo che vive in essa. sta «summa» ha anche una dimensione miliChe è poi lo sforzo dell’autore: coniugare la tante, nel senso che, se anche compie uno
missione del pastore che esercita una funzione sforzo di fortissima intensità quanto ad apertura nei confronti del mondo
e utilizza gli strumenti
contemporaneo, talora andella funzione (i testi sache accettandone i linguagcri, ovviamente, le Encigi, non arretra poi di un milcliche, ma anche testi di
ANGELO SCOLA
limetro quando giungono al
filosofi contemporanei,
"Una nuova laicità"
pettine i nodi su cui è oggi
come Habermas) con
pp. 186, euro 15
aperto lo scontro di «visiouna comprensione del
Marsilio, 2007
ni»: dove l’idea di laicità,
mondo di oggi visto nelpiù o meno nuova, esce
la sua globalità e letto
fuori dalle secche delle afcon occhio intriso di laicità. Beninteso «nuova». Dove per laicità si fermazioni di principio e si misura con la cordeve intendere, usiamo le parole di Scola, un posità delle questioni reali.
quadro che consente «a me credente di opera- Perché si ha un bel dire, con Foucault, che il
re nella convinzione che Dio regge ultima- potere, considerato in termini antropologici e
mente la storia, con decisive implicazioni sul visto nell’ottica della democrazia (la cui prima
vivere civile, ma deve riconoscere pari diritti e regola è il «raccontarsi per riconoscersi») non
doveri a chi nega questa ipotesi con tutte le fi- è altro, «in ultima analisi... se non il potere di
bre del suo essere». Che sono, sia detto senza riconoscimento dall’uno dato all’altro, sulla
ironia, parole sante. E forse anche nuove, det- base del reciproco bisogno», ma come si concilia il «riconoscimento» con la «verità»? Che
te da un ecclesiastico e di questi tempi.
Come sono parole sante quelle relative al rico- per definizione ammette solo di essere ricononoscimento esplicito del meticciato di culture sciuta, dal momento che la contraddizione
che connota il mondo contemporaneo, alla non consente che una verità riconosca un’altra
presa d’atto della dimensione globale dei pro- verità?
blemi, non solo quelli economici, alla neces- Non ci può essere più di una verità, o si deve
sità che il mondo riconosca l’esigenza di un bi- ammettere che non ci sia nessuna verità. Dal
sogno di «vita buona» che elimini quante più che discende che la traduzione del potere destorture da un presente che ne abbonda. Nella mocratico in prassi politica, ove non voglia richiara percezione che è finito il tempo delle dursi a pratica di prevalenza del potere dell’uutopie, «di fatto... religioni politiche sostituti- no sul potere dell’altro, non può sottrarsi al-
L’ A U T O R E
Teologia e dottrina
un impegno costante
Nato nel 1941 in provincia di Lecco è
stato vescovo di Grosseto e patriarca
di Venezia. Dal 2003 è cardinale. È
membro della Congregazione per il
clero e dei Comitati di presidenza dei
pontifici consigli per i laici e per la famiglia. Ha scritto numerosissimi libri
di teologia e dottrina cattolica. Tra gli
ultimi, concepiti per un pubblico non
di specialisti, Gesù destino dell’uomo,
Uomo-donna: il "caso serio" dell’amore (Premio Capri 2003), L’esperienza
elementare, Morte e libertà.
Altro
pagina
l’obbligo di riconoscere «le verità» piuttosto
che «la verità», con la conseguente necessità di
adottare il principio del «vietato vietare»: che
invece Scola assimila al detestato relativismo
etico e considera dunque deleterio per l’umana convivenza.
Per fare un solo esempio, prendiamo la polemica che il cardinale fa col concetto di gender,
che, come è noto, sottolinea il fatto che il nostro essere donna o uomo è socialmente e culturalmente costruito e che i ruoli e le relazioni fra i sessi sono dettati dalla società e definiti dalle condizioni economiche, sociali, politiche e culturali in un dato momento.
Per lui, in linea con tutto l’insegnamento della Chiesa, non si può uscire dall’unità duale
uomo-donna, e dunque ogni comportamento
sessuale che non si inscriva dentro questa dualità si colloca necessariamente contro la natura, che ha reso, dice, insuperabile la differenza sessuale.
Solo che l’empirìa più usuale, più laica, mostra
che non è propriamente così. Che è bensì vero che «differenza, amore, fecondità "sono" i
tre fattori inscindibili del mistero nuziale "e
quindi" proprietà intrinseca di ogni manifestazione d’amore»; ma dove sta scritto che «se
colti nella loro verità essi intercettano ancora
oggi il desiderio profondo dell’uomo, per
quanto confuso dalle ferite che ogni esperienza d’amore presenta e distorto dai tentativi, più
o meno scoperti, messi in moto dalla cultura
dominante di cancellare "la strana necessità
del sacrificio" che ogni affetto umano autentico comporta»?
Può un potere democratico, che agisca in nome di una concezione laica della vita, imporre la necessità del sacrificio (perché poi strana?) a chi ritiene «con tutte le fibre del suo essere» che la sua natura meriti il diritto di un riconoscimento? O che una sua scelta di vita che
non danneggi gli altri abbia anch’essa il diritto di essere rispettata?
Beppe Fenoglio era lentamente ma sempre più irresistibilmente diventato uno
dei quattro o cinque più grandi romanzieri degli ultimi cinquant’anni quando è
arrivato addosso alla sua fama, con l’intenzione di stroncarla, un giudizio violento come una schioppettata o una pugnalata. Il tiratore scelto - un celebre giornalista che ha fatto e «scritto» la guerra partigiana e che è noto per il radicalismo delle opinioni e per la virulenza delle provocazioni - ha mirato al cuore: la Resistenza raccontata dall’autore del Partigiano
Johnny è falsa.
Tanto rumore per nulla? Ebbene no, per
l’eterogenesi dei fini quella stroncatura
ha risvegliato l’interesse per il narratore
di Alba, quella pugnalata «assassina» lo
ha resuscitato. E quindi sia benedetta
questa «maligna» polemica giornalistica
dalla quale risulta per ulteriori prove che
Fenoglio è non solo il maggiore scrittore
della Resistenza ma è anche uno dei narratori massimi del Novecento.
De malo bonum? Ebbene sì, purché si
convenga che non c’è niente di male nel
negare il consenso a un autore. Non si
può obiettare nulla a chi dice con un’espressione divenuta più celebre di una
qualsiasi citazione dalla Poetica di Aristotele: «A me u presepiu nun mi piace!»
A ognuno piace il proprio presepe, ma se
tutto fosse rimasto nell’ambito del gusto
personale non ci sarebbe stata disputa, secondo un plurimillenario precetto latino.
I conti non tornano invece quando da
una impressione privata, cui ovviamente
ogni lettore ha diritto, si passa alla motivazione culturale che regge la risentita interpretazione. Se la Resistenza diventa
falsa perché i partigiani di Fenoglio sono
degli straccioni e dei poco di buono, l’attacco, più che fazioso, è paradossale,
nonché falso (oltre che anacronistico per
veterocontenutismo «elitario»).
Essi erano numerosi nella realtà e non ci
sono solo loro nella «fantasia» di Fenoglio: l’hanno incontrati in montagna e
nei paesi Calvino, Meneghello e cento altri narratori che hanno combattuto la
guerra partigiana. Gli uomini di azione
saliti sui monti non erano solo eleganti e
indottrinati «azionisti».
E tuttavia non è questo il problema. Il noto giornalista, della cui onestà intellettuale nessuno dubita, potrebbe avere avuto
come compagni di lotta solo degli intellettuali, della gente perbene, agiata e colta, se contasse solo ciò che lui ha visto coi
propri occhi. Questo è ciò che distingue il
documento - questo vedo, questo è reale
- dal romanzo.
Si tratta della banale differenza che passa tra un eccellente giornalista - il «visto
cogli occhi» degli empirici - e un grande
narratore. Il suo «visto cogli occhi della
mente» mette a fuoco cento Resistenze
diverse e le riassume sollevandole a una
visione dove la Resistenza, che inizia come «questione privata», si trasforma in
una questione collettiva. Che non è la collettivazione trombona della Resistenza
come fabbrica di eroi.
La Resistenza di Fenoglio non è solo un
grande tema ma è anche una struttura di
racconto in cui c’entra un modo diverso
di vedere tutta la vita sotto l’aspetto di
guerra combattuta su ogni palmo di terra,
su ogni fatto, frase e parola. I suoi «straccioni» strozzano ogni agiografia, ogni
«epica pallonara», per dirla con Gadda.
Quegli straccioni non solo esistono nella
realtà, ma senza di essi la Resistenza sarebbe stavolta sì falsa, ma in quanto retorica, evento augusto da parata per le celebrazioni annuali.
La grandezza di Fenoglio è legata al tema
della Resistenza come le due facciate
dello stesso foglio con cui De Saussure
spiegò il rapporto fra significato e significante in una parola. L’autore di Una
questione privata è il più grande narratore della Resistenza («l’avessi scritto io
questo romanzo», confessò Calvino) in
virtù di uno stile singolare dove il documento è solo materiale di costruzione
per un edificio in cui un mattone risponde di sé a ogni altra cosa, alla calce e alla terra.
Una scrittura molto terrestre, con uomini
che muoiono masticando il fango in cui
hanno affondato il volto quando cadono
o si buttano per nascondersi. Una prosa
narrativa dove ogni parola è come se fosse l’ultima. La Resistenza come stile di
vita e di morte, come il toreare di Leiris,
dove ogni scontro ti può essere
narrazioni
anteprime
S t los
Nella foto una scena di La mosca, film di David Cronenberg
del 1986
mente al suo migliore amico) e intorno alle cinque Pigi scopre
di avere un nuovo stomaco (con la porta degli addominali scolpita come mai ha avuto prima) e nuovi polpacci. Le proporziosce il 3 maggio da Sironi La mania per
ni sono tutte sballate e lo rendono ancora di un aspetto mostruol’alfabeto (pp.320, euro 14) di Michele
so: le braccia sono troppo gonfie rispetto al torace, un piede è
Candida. Ne anticipiamo un brano.
più lungo e più largo dell’altro, i polpacci sono troppo grossi rispetto alle cosce e hanno una carnagione e un colore tutto diquarantatreesimo post it
verso, un occhio è azzurro e l’altro è marrone, un orecchio è a
…e qualche ora fa in cucina mentre prepapunta e l’altro arrotondato, alcuni ciuffi di capelli sono biondi
ravano due panini tonno e maionese? (Mie altri sono castano scuro e via così, Emi; ma adesso Pigi sa che
la trasformazione prima o poi si completerà e che deve soltanchele e Savemi hanno cenato a casa di Michele: due panini con
to aspettare. Ragionando riesce anche a stabilire in base a quatonno e maionese, insalata di pomodori con origano e basilico
le logica la trasformazione si stia attuando. Se ricordi, Pigi ha
e una scatoletta a testa di salmone sott’olio con tanto sale).
mangiato prima la mano sinistra del suo migliore amico, poi il
Savemi stava maneggiando un coltello per affettare il pomodogluteo destro, poi…».
ro quando Michele le ha detto: «Lo sai, Emi, che il nome pre«Un minuto! Un minuto! Basta! Basta!».
ciso di questo coltello è "coltello per disossare"?».
«…poi ha mangiato i deltoidi, i bicipiti e i tricipiti, cioè, Emi,
«Ah». Savemi ha affettato un pomodoro (sei fette).
le parti del suo migliore amico che Pigi ha mangiato per prime
«Lo so perché l’ho fatto maneggiare a Pigi».
escono per prime…».
«L’hai fatto maneggiare a Pigi… cosa significa? E questo Pi«Basta! È una follia! È una storia… cretina».
gi chi è? E quando hai fatto maneggiare coltelli a qualcuno? Al
Michele si è interrotto. ha guardato Savemi. Savemi ha guarlavoro? E che cosa avete fatto al lavoro, avete squartato un
dato Michele. «È solo una carabattola, Emi» Michele ha detto
bue?» Savemi ha affettato un altro pomodoro (cinque fette).
«una carabattola che ho scritto a ventun anni».
«No, non proprio» Michele ha ignorato lo spirito di Savemi.
«D’accordo, Michele» Savemi ha detto «ma non possiamo par«Pigi è soltanto un giovane uomo di ventiquattro anni - un anlare di un argomento serio?».
no in più di te, Emi - che un giorno ha invitato a casa sua il suo
«Non vuoi sapere come va a finire la storia, Emi?».
migliore amico e se lo è mangiato».
«No, no che non lo voglio sapere! Basta! Basta così! Mi basta
Savemi ha smesso di affettare il terzo pomodoro. Si è fermata
così!».
alla seconda fetta. «Che storia è?» ha chiesto.
«Emi, e io te lo dico lo stesso…».
«È la storia di Pigi. Pigi invita a casa il suo migliore amico, che,
«No!» Savemi stava schiacciando il tubetto di maionese sulle
oltre a essere migliore come amico è anche migliore come perfette di pane (due ciabattine); poi avrebbe messo il tonno.
sona, come fascino, come benessere, come… come tutto quan«Alla fine della carabattola Pigi è diventato
to, Emi; e se lo fa a fette come tu stai facendo
completamente il suo migliore amico: stesso
a fette i nostri pomodori, e poi se lo mangia».
MICHELE CANDIDA . L’esordio narrativo di uno dei più fisico, stessi occhi azzurri, stessi capelli bion«Ah» (nove fette).
di, tutto uguale, ogni particolare. Pigi, però, co«Con il coltello per disossare e un trinciante».
noti blogger italiani della nuova generazione. Un
me ti ho detto agli inizi, non ha mangiato il cer«Ah».
vello del suo migliore amico…».
«Eh. Con precisione chirurgica - Pigi è molto
«…oh, mamma…».
bravo a cucinare, Emi; una volta ha vinto an- racconto extrasplatter sulle possibilità teratologiche
«… il cervello è l’unica parte che non ha manche un premio - Pigi divide i fasci muscolari
dell’immaginazione creativa di un aspirante scrittore
giato del suo migliore amico. Gli ha mangiadell’amico mettendoli in recipienti pieni di
to il cuore, gli ha mangiato il fegato, gli ha
ghiaccio: i deltoidi nella pentola per far scaldamangiato gli intestini, gli ha mangiato la milre la pasta, i pettorali nella pentola per far
za, ma non gli ha mangiato il cervello e…».
scaldare le pietanze, i glutei nel vassoio della
«…oh, mamma…».
frutta, i bicipiti femorali nell’insalatiera…».
«…e allora, seguendo la logica della trasfor«Che schifo…» quarto pomodoro (sette fette).
mazione, Pigi è rimasto se stesso, con i suoi
«Poi pulisce tutto, butta nel fuoco del camino
pensieri, con la sua coscienza, con la sua perlo scheletro disossato e la scatola cranica (Pisonalità dentro il corpo del suo migliore amigi ha lasciato stare il cervello) e si dedica a cuco… e quando incontra qualcuno per strada,
cinare i quaranta chili di carne del suo amico
quando va con la ragazza del suo migliore
arrivando a impiegare interi set di coperti e a
amico, quando saluta i genitori del suo migliooccupare due intere tavolate. Poi si pappa tutre amico, Pigi non è più Pigi ma il suo miglioto».
re amico…».
«È un’idea disgustosa, poco originale e senza
«Michele, sembra quel film…».
credibilità. È una delle tue carabattole, eh?»
«Cioè, Emi, Pigi non è il suo migliore amico
quinto pomodoro (quindici fette: quindici mima lo sembra, anzi, fisicamente lo è proprio, lo
crofette). Ormai Savemi sembrava una karaè esteriormente e questo fa sì che lo sia a tutti
teka impazzita.
gli effetti. Noi, Emi, siamo quello che siamo
«Per chi sono tutti quei pomodori, Emi?»:
nei fatti e non nei pensieri o negli intenti: siaMichele osservava l’insalatiera piena di fette
mo in tutto quello che possiamo documentare,
rosse di pomodoro.
provare effettivamente agli occhi degli altri.
«Sono per te; io non mangio» altro pomodoro:
Siamo quello che gli altri dicono di noi, e di un
il sesto.
nostro pensiero, Emi, importa quello che riu«Vuoi farmi mangiare o vuoi farmi nuotare?»
sciamo a rendere evidente agli altri. Una volta, molti anni fa,
ha chiesto Michele «e poi perché non mangi?».
MICHELE CANDIDA
frequentavo una persona che non faceva che dichiarare il suo
«Linea. Devo mantenerla. Per farlo non devo mangiare. La
pancia è soltanto la somma di colazioni, pranzi, cene e aperelVIVE A TORTONA. SUOI RACCONTI SONO USCITI IN ANTOLO- amore per me, però per me non aveva mai un gesto d’amore:
non mi baciava, non mi accarezzava, non mi abbracciava. Ci
li con amici e colleghi d’università. Insomma: meno mangi,
GIE. IL SUO BLOG (WWW.VIBRISSEBOLLETTINO.NET/MARCOtelefonavamo, ci incontravamo, ci frequentavamo, dicevamo
meno sommi, meno pancia» diciassette microfette: un record.
CANDIDA) HA AVUTO NEL 2006 QUARANTAMILA VISITE
di amarci, ma lei non lo dimostrava mai con un gesto. Se io le
sempre che l’ultima microfetta si potesse considerare una mimostravo di desiderare una cosa - una qualunque cosa, Emi…
crofetta. sembrava più il mignolino sanguinolento di un piede
fare un viaggio con lei, vedersi in un certo giorno anziché un
mozzato.
IL LIBRO
altro, mangiare in un posto anziché in un altro… - lei mi dice«Pigi trasforma il suo migliore amico in bistecchine, nodini,
va sempre no. Ero arrivato al punto di credere che questa perfettine, spiedini e si pappa tutto: prima le mani, poi i glutei, poi
MICHELE CANDIDA
sona mi negasse il suo consenso per il solo fatto che io mostrasdeltoidi bicipiti tricipiti, lo stomaco, i polpacci, tutto. Si pappa
"La mania per l’alfabeto"
si un desiderio. Alla fine ho smesso di frequentare questa percosì tutto che poi finisce con lo stare male; e, nella carabattopp. 320, euro 14
sona. Sono sparito. Non ho più risposto alle sue telefonate, non
la - una carabattola che nemmeno il peggiore degli acchiappaSironi, 2007
ho più risposto alle lettere, per lei non ho risposto più: mi semtopi avrebbe potuto concepire, Emi -, succedono tutta una sein libreria dal 3 maggio
brava che rispondere sarebbe stato come cadere in un tranello.
rie di cose… te le dico?».
Ora, Emi, dopo molti anni, ancora mi domando se abbia visto
«E dille!».
giusto: se cioè quella persona fosse stata dominata da un gusto
«Con quaranta chilogrammi di carne nello stomaco, Pigi cosadico nei miei confronti - magari potevo starle antipatico per
mincia a sentirsi male, così male che si chiude in bagno e…»
qualche motivo, ma al tempo stesso attrarla per qualche altro
Michele ha guardato Savemi.
L’ossessione per un libro da scrivere
motivo -, se mi avesse frequentato come si frequenta una ser«Vomita?».
pe dietro al vetro di uno zoo… oppure no: che la sua fosse so«Caga».
raccogliendo note di vita vera e finta
lo una strategia per sedurmi; tuttavia il suo comportamento con
«Che schifo!».
Michele, venticinquenne, lavoratore precario, è preme ha prodotto questa impressione e io ho smesso di frequenSavemi aveva finito di affettare pomodori e adesso stava metda della mania per la scrittura. La sua camera e il suo
tarla.
tendo olio e origano.
ufficio sono invasi da una distesa di foglietti: su cia«Comunque: Pigi può dichiarare quanto vuole a parole di non
«Poi vomita. Sul lavabo in cucina. Ma la cosa particolare, Emi,
scuno sta scritto qualcosa che Michele immagina di
essere il suo migliore amico, e, infatti, nella carabattola che ho
è che quello che esce dalla bocca di Pigi e dal…».
potere un giorno inserire in un suo libro. A causa delscritto, Emi, se non ricordo male, fa proprio questo: quando i
«…ho capito, ho capito…».
la sua mania, Michele sarà licenziato dal lavoro, mal
carabinieri lo portano via, continua a sostenere di non essere il
«…sono tocchetti del suo migliore amico. Pigi sta cagando e
tollerato in famiglia e perderà l’amore di Savemi, la
suo migliore amico; ma agli occhi dei carabinieri e poi degli
vomitando il suo migliore amico…».
sua ragazza. Finirà per rintanarsi nel mondo illusopsichiatri che lo visitano Pigi è solo vittima di un fenomeno di
«Dai!».
rio del libro che ossessivamente cerca di comporre.
transfert o qualcosa di molto simile. Perché, Emi, come un fi«…poi, il giorno dopo…».
losofo ha detto, noi siamo un corpo e non abbiamo un corpo:
«Cosa succede? Altre schifezze?».
cioè siamo solo quello che è possibile vedere e constatare di noi
«Il giorno dopo Pigi si sveglia, va in bagno, si lava per bene e
e niente di più. Questo vale anche quando compiamo delle
mentre si insapona e si sciacqua le mani, scopre che la sua ma- è molto più cascante e molliccio…».
azioni. Per me, Emi, non esiste una divaricazione tra intenziono sinistra non è più sua. La osserva bene; la confronta con la «Ancora schifezze?».
mano destra. La mano sinistra ha le dita più lunghe della ma- «…Pigi si accorge, cioè, che quello è il gluteo del suo miglio- ne e azione: la forma della nostra intenzione equivale sempre
no destra, il palmo un po’ più grosso e un po’ più chiaro, il co- re amico, inequivocabilmente il gluteo del suo migliore amico, alla forma della nostra azione. Se la forma della mia azione sarà
lore più olivastro e, a differenza della mano destra che le ha lun- perché quel singolo gluteo è stato inequivocabilmente sottopo- buona e allora produrrà effetti benefici, la mia intenzione sarà
ghe e irregolari, le unghie della mano sinistra sono tagliate e ar- sto al trattamento di raggi ultravioletti in qualche solarium di stata buona, altrimenti sarà stata un’intenzione cattiva. Poco
rotondate e la pellicina a lato del pollice non è mangiucchiata. fiducia… e Pigi ricorda bene tutte le teorie del suo migliore importa la mia opinione intorno alle mie intenzioni: molto spesPer di più la linea della vita sul palmo sinistro è molto più bre- amico a proposito dei raggi ultravioletti e dei raggi infrarossi… so più che non sentire noi non vogliamo vedere. Accettiamo
ve di quella che Pigi credeva di ricordare e, infine, particolare secondo queste teorie, Emi, il sole estivo delle nove del matti- che una persona ci dica parole consolatorie e, intanto, compia
decisivo, Emi, Pigi si accorge che le punte dei polpastrelli del- no o delle sei di sera contiene molti più raggi ultravioletti che proprio davanti ai nostri occhi azioni che smentiscono quelle
la mano sinistra hanno i calli, come quelli che vengono a chi si infrarossi del sole estivo delle due o delle quattro del pomerig- stesse parole. Spesso non accettiamo una persona che ci dica
esercita con la chitarra; il che lo porta a concludere che non so- gio e, comunque, anche il miglior sole possibile contiene sem- parole dure, tutt’altro che consolatorie, e, intanto, compia prolo quella non sia più la sua mano sinistra, ma che sia la mano pre più raggi infrarossi di una qualsiasi lampada in un solarium prio davanti ai nostri occhi azioni che ci sono effettivamente
di fiducia, che, invece, di solito contiene solo raggi ultraviolet- d’aiuto. Le parole hanno un strano effetto narcotico che va tesinistra del suo migliore amico».
muto: e questo effetto narcotico, ottundente spesso viene chiaSavemi è rimasta in silenzio. Ha tirato fuori le scatolette di sal- ti…».
«Ma come si chiama questo migliore amico di Pigi?» Savemi mato consolazione».
mone e ha cominciato ad aprirle.
«Infatti il suo migliore amico suonava la chitarra; infatti il suo aveva svuotato le scatolette di salmone nei piatti e adesso ag- «Amen» ha detto Savemi, mentre allungava a Michele il panino tonno e maionese.
migliore amico non si mangiava le unghie e si curava moltis- giungeva un po’ di olio e del pepe.
simo il corpo; infatti il suo migliore amico aveva la stessa car- «Non ha nome, Emi. il migliore amico di Pigi è senza nome… «Cosa?».
nagione della mano che adesso Pigi osserva collegata al suo o meglio lo ha, forse, ma nella carabattola che ho scritto il suo «Dico: amen» ha ripetuto Emi e si è seduta anche lei. «E tu, poi,
a che categoria appartieni, Michele?».
nome viene sempre taciuto».
polso; e tante altre cose, Emi».
«Io?» Michele ha acchiappato il suo panino. «Persona che di«Che bottiglione di vino hai bevuto per scrivere questa cosa?». «Ah».
«A Pigi viene un presentimento. Cerca uno specchio molto «Diciamo intorno alle tre del pomeriggio Pigi scopre di avere chiara cose dure e offensive e compie azioni crudeli e meschigrande, si spoglia e comincia a esaminarsi tutto il corpo. Si ac- la mano sinistra e il gluteo destro di forma, dimensioni, carna- ne».
corge di avere il gluteo destro della stesso colore olivastro e del- gione e colore diversi. Intorno alle quattro scopre di avere nuo- Michele ha dato un morso riempiendosi la bocca di un quarto
la stessa carnagione della sua nuova mano sinistra, e che il glu- vi deltoidi, bicipiti e tricipiti (sul deltoide destro c’è pure il ta- di panino…
teo destro è molto più tonico e sodo del suo gluteo sinistro che tuaggio blu a forma di farfalla che appartiene inequivocabil- © Candida, Sironi
E
Se mangio
un amico
lo assimilo
19
Morgue
R a c c o n t o
pagina
SERGIO PENT
LA LEGGEREZZA DEL DOLORE
Alcune volte è impalpabile e indefinibile,
ma determinante, il confine tra la finzione artificiosa del noir e la nebbiosa perversione psicologica della routine quotidiana. Un gesto, una lite, una scomparsa,
una confessione. Le sottili incoerenze
delle abitudini umane diventano delitto o
peccato, entrano in scena, per il tempo di
un trafiletto in cronaca o per una - più
adatta ai giorni nostri - remunerativa strumentalizzazione mediatica, con i confini
sempre meno marcati tra vittime e colpevoli.
La lama del disagio percorre come un brivido perfetto, senza interruzioni, l’opera
narrativa di Georges Simenon. I suoi peccati di provincia sono diventati il preambolo profetico di tutte le degenerazioni
dei nostri recenti decenni. La provincia
odia e uccide, rende atroci i distacchi,
crea le barriere dell’indifferenza collettiva, giudica e condanna e spesso assiste
senza intervenire alle cadute fatali senza
risalita.
Non c’è niente di nuovo sotto il sole opaco delle atmosfere provinciali, se non gli
altoparlanti del consesso mediatico che
amplificano a misura d’audience delitti e
castighi, valutando anche la capacità di
certi personaggi - colpevoli, vittime, sospetti, non importa - di «bucare» il teleschermo o reggere al fuoco di fila del presenzialismo forzato.
Un caso come quello descritto con amara lucidità nel romanzo Il piccolo libraio
di Archangelsk, egregiamente tradotto
per Adelphi da Massimo Romano, sarebbe sicuramente finito - oggi - tra le
grinfie di una trasmissione come "Chi
l’ha visto?". Ma nel 1956, anno di pubblicazione e ambientazione del libro, la tv
era quasi un’utopia nei borghi di provincia racchiusi attorno alla piazza del mercato, in quelle serate estive in cui tutti sedevano al fresco davanti agli usci a spettegolare, captando le notizie dal mondo
attraverso le onde della radio o l’inchiostro dei giornali.
Nel paese del Berry, nel cuore della Francia, in cui Simenon ambienta questo romanzo amaro e infelice, tutti si conoscono e si salutano, bevono insieme e seguono le stesse abitudini minimaliste, quasi
idilliache, attorno alla piazza del VieuxMarché sulla quale fervono le attività
della gente.
Anche l’oscuro e miope Jonas Milk, piccolo libraio antiquario di origine russa, è
ormai da tempo «uno di casa», amico
del macellaio e del barista, integrato nel
contesto sociale. Individuo anonimo e
imbelle, più che modesto, ha avuto la
sorte di sposare la bella e ancheggiante
Gina, sedici anni più giovane dei suoi
afflitti quarant’anni e determinata soprattutto a sfruttare la bonomia del consorte
per spassarsela con gli altri uomini. Una
vita semplice e disadorna, a cui il buon
Jonas, che ha smarrito in maniera assurda l’intera famiglia nell’uragano della
Rivoluzione Russa, si adegua per abitudine, o per amore.
Così non bada più di tanto alle proprie parole istintive, quando afferma che la moglie è partita per recarsi a trovare un’amica, al fine di giustificare l’ennesima scappatella. Ma, come in un preciso incubo
kafkiano, l’alito cattivo della disgrazia e
delle circostanze inappellabili incombe
sul povero Jonas, quando l’assenza di
Gina si protrae per troppi giorni e l’alibi
del presunto viaggio cessa a suon di testimonianze. Il lettore non verrà mai a sapere cosa sia accaduto a Gina, ne intuisce la
fuga forse definitiva dettata dal fatto che
è scappata sottraendo alcuni francobolli
preziosi alla collezione del marito, ma a
nessuno importa, dopotutto, conoscere
la sua sorte di ragazza frivola e disinibita.
La capacità psicologica di Simenon è mirata essenzialmente a togliere ogni sicurezza al suo piccolo personaggio, che da
amico della collettività diventa gradualmente il possibile mostro da cui bisogna
guardarsi. La leggerezza del dolore è alla base di un romanzo che appartiene al
noir con lo steso diritto di una disgrazia
individuale amplificata dall’eco feroce e
perfida dell’opinione pubblica. La malinconia insita in queste pagine non toglie
nulla alla tensione psicologica dell’insieme, ma ci lascia attoniti a seguire la china inesorabile su cui si incammina inconsapevole Jonas Milk, ben sapendo che
nessuno è intenzionato e fermarlo. Nemmeno noi avidi lettori, come forse aveva
perfidamente - umanamente - previsto il
grande Georges.
20
I n t e r v i s t e
olazione da Truman di
Lawrence Grobe non è solo una raccolta di conversazioni con Capote. È anche e soprattutto un «manuale per l’uso della cattiveria». Grobel domanda, e
di tanto in tanto provoca; Capote sta al gioco e sparla. Gide, tanto per fare un nome tra cento, viene liquidato dal piccolo Truman come
«una vecchia, grossa checca francese dalla
faccia rugosa». Ma c’è di peggio. Da Hemingway a Bellow, da Sartre a Bernardo Bertolucci, nessuno viene risparmiato dall’acida
canzonatura, dallo strale caustico.
Romanziere, intervistatore, giornalista e
pettegolo. Ma quanti Truman Capote esistono?
Distinguerei anzitutto: c’è un Capote scrittore
quasi grande-grande, autore del racconto Miriam, capolavoro ricavato rielaborando con la
scaltrezza d’un adolescente diabolico la ricetta del gotico americano (nel pedale di James
più che di Poe), ma anche capostipite con A
sangue freddo d’un nuovo genere di romanzoverità apparentemente praticabilissimo e in
realtà impraticabile. Chi lo ha tentato dopo Capote (la cronologia non è un’opinione), come
Norman Mailer, non è arrivato lontano. C’è
poi un Capote mascotte dell’ultima vague di
mostri sacri della cultura occidentale. Quella
che va da Proust a Isherwood passando per Gide e Cocteau. Questo secondo Capote è appunto il protagonista del «libro-chiacchiera» di
Lawrence Grobel, definito forse imprudentemente nel risvolto di copertina «il Mozart dell’intervista». Capote vomita qui vituperi velenosi sugli ultimi monumenti di defunti, già
quasi defunti o in procinto di morire, dell’estetismo, del simbolismo, del surrealismo così
come generosamente sono stati interpretati,
fraintesi e rielaborati negli Stati Uniti. Grobel,
affascinato da Capote, cerca di dare a ogni battuta, anche la più acidula e pigra, il suono di un
gossip iperrealista. In realtà, spesso la malignità rimane tale e non vola.
Qualche esempio?
Quando Capote parla di Hemingway come di
un omosessuale non dichiarato. Oppure, quando afferma che c’è un buon motivo se, a parità
di lavoro, «un uomo guadagna un dollaro, una
donna cinquantanove centesimi»: «Gli uomini lavorano più duramente», dice. Chissà cosa
avrebbero pensato di questa risposta Virginia
Woolf o Greta Garbo! E ancora: si possono
criticare, come il nostro Truman fa, due grandi scrittori come Bellow e Roth. Non è lecito
però parlare di «mafia ebraica». Capote non
era antisemita. Le sue battute sono spesso le
battute di chi vuol sorprendere conquistando
l’attenzione d’un salotto a tutti i costi elegante e al di sopra dei pregiudizi della «povera
gente» che pensa come si deve.
Dalle nostre parti, chi si accorse del talento
di Capote?
Credo che tra i primi ci fu Emilio Cecchi. Ritrattista perfetto, in un intramontabile stile
rondista, Cecchi ha così descritto il «piccolo
(statura 1.60, all’incirca la stessa di Faulkner)
Capote»: «Con i suoi capelli rigonfi sulla fronte mi ricorda i paffuti angiolotti che frequentano le nere tombe del Seicento, dove lo scheletro in marmo giallo tiene bene in mostra la
clessidra e vibra la falce, a sgomentare noi peccatori». E poi, nella qualità della fantasia di
Capote, Cecchi vede «qualcosa insieme di infantile e mortuario, la luce oltrepassata d’un
sorriso innocente e terribile come il sorriso di
certi feti». Di qui, da questo macabro ritratto,
si può partire per leggere la vita di Capote e la
sua opera.
E lei, quali libri ha amato di Capote? Altre
voci altre stanze? Colazione da Tiffany?
Se penso a Joel, il protagonista di Altre voci altre stanze, penso che è un Pinocchio negli acquitrini d’un Sud visto attraverso i filtri della
marijuana e d’un gusto neogotico speziato
con aromi prelevati dalla dispensa simbolista.
In sé e per sé potrebbe essere robaccia, ma l’istinto d’un vero scrittore, sostenuto dal dono
d’una giovinezza magicamente consapevole
dei propri doni (sensibilità spasmodica, gusto
dell’estremo, imprudenza), rendono il tutto
davvero potente come solo le autentiche rivelazioni lo sono. Quanto a Colazione da Tiffany,
le dirò che fa pensare alle ricette dell’Artusi.
C’è dentro tutto, e quel tutto è cucinato benissimo. Ma mentre leggi - come mentre mangi
una leccornia in stile Artusi - sei preso da un irresistibile senso di colpa. L’eccesso di abilità
diventa come l’eccesso di condimenti ricchi di
C
Guatemala
C indagine
A intricata
Nella foto sopra Truman Capote. In
quella sotto Antonio Debenedetti
Occidente
pagina
T
A
L
O
G
O
S t los
recensioni
orali
IL LIBRO
LAWRENCE GROBEL
"Colazione da Truman"
Trad. Lucio Carbonelli
pp. 266, euro 11,50
minimum fax, 2007
VANNI RONSISVALLE
Scala di personaggi
ambienti e società
DEI NOSTRI PADRI
Due anni di conversazioni scambiate
tra un intervistatore ritenuto un maestro del genere e uno scrittore che come intervistatore ha dato parte del
meglio di sé. Il gusto per il gossip assume qui i toni alti di una dissacrante
polemica che oltre ai personaggi implica pure un ambiente e una società:
personaggi come Tennessee Williams,
Marilyn Monroe, Hemingway; società
come New York e ambienti quale Hollywood.
I LIBRI DI ANTONIO DEBENEDETTI
«Ha vissuto una continua acrobazia. Se il mondo fosse fatto solo
da uomini come lui, tutte le teorie dei sociologi andrebbero
riscritte. È un caso». Il libro-intervista dove fa il pettegolo
TRUMAN CAPOTE
Ucciso da Narciso
grassi. Eccesso di estetismo, eccesso di colesterolo.
I miracoli forse più straordinari Capote li
compie nelle interviste. A rileggere quella
fatta a Marilyn si resta ogni volta stupefatti.
Concordo. L’estrema astuzia di Capote è quel-
PAOLO DI PAOLO
VIVE A ROMA. HA PUBBLICATO "NUOVI CIELI, NUOVE CARTE", "UN PICCOLO
GRANDE NOVECENTO", "HO SOGNATO
UNA STAZIONE", "COME UN’ISOLA"
SECONDA LETTURA
Una vita come quintessenza del radical chic
Si può parlare di Capote Renaissance’s ad
osservare la consistente mole di pubblicazioni che, in tempi assai recenti, è stata dedicata a questa originale figura di intellettuale e dandy tanto controversa e famosa. Tanto per citare gli ultimi arrivati, la pubblicazione da Archinto delle sue lettere, la riedizione della celebre biografia di Gerald Clark
per Frassinelli, e, a periodicità ormai regolare, la ripubblicazione dei suoi più famosi
capolavori, da Musica per camaleonti ad Altre voci, altre stanze, da Colazione da Tiffany a A sangue freddo.
Ad aumentare lo spessore di questa meritata fama postuma, anche la recentissima
uscita al cinema di due ottime biopic : Capote e Infamous, che curiosamente estrapolano dalla tormentata biografia capotiana la
stessa vicenda, la «strana relazione» che
Capote intrattenne con i due pluriomicidi,
poi condannati a morte, protagonisti di A
sangue freddo. Esce adesso da minimum
fax Colazione da Truman, viatico indispensabile per coloro che ancora non conoscono
lo charme raffinato ed elegante di questo énfant terrible della letteratura americana. Ad
essi, consiglierei anche la lettura, magari in
parallelo con questo libro intervista, di alcune straordinarie pagine di Underworld di
Don DeLillo, quelle in particolare dedicate
alla leggendaria festa in maschera al Plaza,
organizzata da Truman Capote nel 1966 all’apice della sua gloria letteraria: è una vera e propria scena madre, una cerimonia laica e mondanissima, che consacra però riti,
perversioni e manie della high-society la
conseguente assunzione capotiana nel
Gotha delle celebrità. Le interviste che compongono il libro sono state fatte, invece,
nella fase calante dell’astro Capote, tra il
1982 ed il 1984, quando l’autore era stato
«ostracizzato» da quella stessa società di cui
aveva così fedelmente riprodotto vizi e ma-
RODRIGO REY ROSA
"Giungla di pietra"
Trad. Sara Della Corte
pp. 111, euro 12
Cargo, 2006
Dietro un fatto apparentemente casuale, un incidente d’auto che coinvolge un
bambino, si dipana una trama oscura e intricatissima, cui è chiamato a far luce
Emilio Rastelli, investigatore privato. La narrazione, molto abilmente condotta,
integra il quadro sociale e morale della Guatemala dell’autore: «Bellissimo paese.
Brutta gente. (…) La piccola repubblica dove la pena di morte non è mai stata
abolita, dove il linciaggio è stato l’unica manifestazione duratura di organizzazione sociale». Toni forti e accesi, tensione sempre sulle corde, il thriller di Rey Rosa
rivela soprattutto mestiere. (mda)
nie e la vita di Capote si trascinava ormai in
una ininterrotta sequenza di alcolismo; ricoveri in ospedali, crisi depressive…
Ad intervistarlo quello che, con qualche eccesso di benevolenza, Joyce Carol Oates
aveva definito il «Mozart delle interviste»,
cioè Lawrence Grobel. L’intelligenza sulfurea e caustica di Capote, il suo gusto irrefrenabile per il mot d’ésprit, la perfidia gettata
con enorme nonchalance fungono, in queste pagine, come suo biglietto da visita.
Quasi ad ogni battuta si trasalisce per il
concentrato di mefistofelica genialità che
anima l’intervistato. Anche conoscendo lo
smisurato egotismo che lo possedeva («Ho
sempre saputo che ero in grado di prendere
un qualsiasi grappolo di parole e di lanciarlo in aria per poi vederlo ricadere nel mondo giusto. Sono il Paganini della semantica»), sorprende la sua capacità di distruggere reputazioni e carriere con poche battute
intinte nel curaro: «Quello di Kerouac non
è scrivere, è battere a macchina» oppure
«Saul Bellow è una nullità come scrittore»
per non parlare della demolizione costante
e massiva di Gore Vidal, a cui lo legava un
odio incontenibile.
Alla fine, paradossalmente, dopo tante pagine di nomi celebri, dopo tanti aneddoti di
una vita che pare la quintessenza del radicalchic, l’immagine che rimane non è quella
del causeur senza posa, dell’intellettuale
che sa coniugare cultura e glamour, ma
semmai quella dell’uomo che vive in una
condizione di sconfinata solitudine e tristezza, che dopo un’intervista, si fa accompagnare a casa. «Aspettai a motore acceso,
con i fari che formavano un sentiero di luce
fino alla sua porta. Guardai questo signore
pingue con una bottiglia di wodka sottobraccio entrare in casa, e poi lo vidi posare
la bottiglia e aprire il frigorifero.»
Linnio Accorroni
Una donna
sfida
l’impero
la di avere intervistato attraverso Marilyn
Monroe non i più bei fianchi d’America ma
un’idea della fama in senso cinematografico
come l’aveva la sua generazione. Marilyn presta la sua faccia, il suo corpo, la sua voce all’angoscia che Capote ha pensando alla fama,
al successo. A quel mito cui ha asservito tutta
la propria vita. Successo, successo, successo.
Vivere in mezzo ai mostri sacri lo ha portato
probabilmente a una estremizzazione del proprio Narciso che lo ha lentamente ucciso. Queste verità sono talmente drammatiche che, facendosi racconto, trasformano questa intervista in uno strano monologo a due voci di qualità inarrivabile. Quanto in genere alle interviste-ritratto cucite col filo dell’egotismo e però
della grande professionalità, credo che in Italia ci abbia dato uno straordinario esempio Alberto Arbasino nelle sue Sessanta posizioni.
Bisognerebbe ricordare ai giornalisti italiani
che il vero gossip non nasce dal pettegolezzo,
dalla fotografia rubata, dalla chiacchiera intercettata, ma è figlio dell’interpretazione. I veri
pettegolezzi vanno inventati e non devono
aspirare a essere cattivi ma a essere il più possibile intelligenti, se non perfino geniali.
E Capote come ci riusciva, a essere un pettegolo geniale?
Mettendo insieme un grande scrittore e qualcos’altro. Il «qualcos’altro», il personaggio
che dava del tu a tutti i Vip e poteva permettersi di quasi snobbare Marlon Brando, era però
sempre al servizio dello scrittore. Truman uomo si buttava via, Capote scrittore era un guardiano gelosissimo di sé e del proprio talento.
Si riaffaccia sempre il Capote «personaggio». Da libri come quello di Grobel, ma anche da film recenti. Forse si esagera, ma viene da pensare a lui come a un esemplare irripetibile.
Raccontano che Capote avesse una voce stranissima, così acuta che quasi non si poteva coglierla. Bene, questa voce che sembra nascere
al di fuori di una creatura, è l’espressione d’una vita vissuta al di là d’un preciso contesto sociale. A quale classe apparteneva, in fondo,
Capote? Il jet-set, come l’ha definito lui, non è
una classe. Truman ha vissuto una continua
acrobazia. Se il mondo fosse fatto solo da uomini come lui, tutte le teorie dei sociologi andrebbero riscritte. È un caso. Non ci si chiede
mai se sia di sinistra o di destra, se sia fascista
o progressista: sono domande che non lo riguardano. Capote sconta il successo come si
sconta l’inferno. E non gli si può chiedere altro.
MORGAN LLYWELYN
"Grania, la regina dei pirati d’Irlanda"
Trad. Gianluigi Zuddas
pp. 482, euro 18,60
Nord, 2007
Un nuovo romanzo dell’irlandese Llywelyn, appassionata della storia e del folclore
irlandesi e delle antiche tradizioni celtiche alle quali risale la sua stessa famiglia. Stavolta la storia è ambientata nel XVI secolo, con Grania che a tredici anni si imbarca di nascosto sul vascello del padre, il capo degli O’Malley, mostrando già un’innata passione per il comando. E così quando dieci anni dopo Grania sposa l’erede del
potente clan degli O’Flaherty, diventa padrona di tre vascelli e duecento uomini e costretta a combattere contro la regina Elisabetta che tenta di stroncare l’orgoglio irlandese.
«Con Freud - disse Moravia - abbiamo
imparato a colpevolizzare il padre; con
Marx il padrone». Ora, lasciando da parte Marx ed i padroni, è vero che frequentemente in letteratura l’immagine del genitore di sesso maschile ne esce a pezzi.
Forse perché il padre capofamiglia è più
esposto in società e deve assumerne i trucchi, la grinta per le battaglie che lo aspettano là fuori, sicché trucchi (ipocrisia) e
faccia feroce spesso si rispecchiavano in
famiglia dove la madre, protetta da quell’alveo retoricamente affettivo, non aveva
bisogno del truci armamentari fisionomici ma dispensava, irradiava amore tenerezza simpatia… Al padre si attribuivano
con Freud - ma anche prima in tanti «altrove», vedi ad esempio alla voce «mitologia» - la responsabilità di nevrosi, afflizioni, forme depressive e di incapacità
generale; perché autoritario, perché assente, perché troppo presente con invasioni calcolate o distratte, brutali o raffinate,
nel sociale o nel subconscio dei figli. Questo è l’aspetto risaputo. Questo è ciò che
accade alla gente normale. I letterati, i romanzieri, i poeti sono normali? I figli di
Monaldo Leopardi o di Hermann Kafka e
di John Stanislaus Joyce erano normali?
Per grazia di Dio, e senza offesa, no… Il
risultato si vede e dobbiamo comunque
esserne debitori a quei padri forse inconsapevoli delle tracce scavate nell’anima e
nelle viscere dei figli.
«Quanto più la colomba trova resistenza
nell’aria tanto più tende a salire in alto» è
l’apologo kantiano citato nella prefazione
al libro di cui qui scrivo: esce da Newton
Compton una bella ed inquietante, ghiottissima antologia a cura di Luciano Luisi,
A mio padre, che non è soltanto l’organico assemblaggio di testi altrui da parte di
un poeta egli stesso di straordinaria sensibilità e potenza di rappresentazione nei
suoi testi; ma l’impressionante inventario
di sentimenti che l’attraversano nei versi
di 162 autori italiani: dall’inevitabile Giovanni Pascoli di X Agosto alla Aleramo (di
cui forse il padre è la sola figura maschile per la quale Sibilla possa aver scritto
versi come «Sempre che un giardino mi
accolga, io ti riveggo Padre / fra aiuole»)
a Bonaviri, a Cattafi e Raboni, Quasimodo e Saba, Nelo Risi e Patrizia Valduga.
Le donne sono soltanto 19. Poesia alta,
poesia come di quinta, sussurrata, schiva
e pure rabbiosa: amore sì, rimpianto sì, riconoscenza sì, ma anche odio, rimorso, rispecchiamento del sé nella figura di lui,
come dire chiamata di correo (vedi
Freud). Insomma l’intuizione di Luisi non
è soltanto l’aver voluto colmare il vuoto di
un’assenza: agli affollati e numerosi florilegi di liriche con la madre figura centrale - mamma, mammina o semplicemente
tu - corrisponde l’assenza o rarità di analoghe iniziative editoriali dedicate alla
«metà del cielo» che resta.
«Ora sei calmo, finalmente, hai pace. / So
che sei morto, non ho più paura / che tu
debba morire, non ho più». È l’incipit
della lirica (tratta da una sua bellissima e
ben nota silloge) che Luisi include nella
prefazione all’antologia; nulla di più esplicito e funzionale questo intessere i suoi
versi tra quelle righe tecniche come chiave di lettura di quanto ci attende nelle pagine seguenti; è implicito invece il suggerimento che solo la poesia può trasmettere: un nastro serico, fluttuante ed al contempo robusto, tiene insieme autori così
disparati, prossimi e lontani, remiganti
nell’etere o tenutisi sottotraccia come volessero non esserci: la messinscena più
frequente è il padre morto, morente, condannato a sparire. Queste morti non hanno solennità nelle parole dei figli; certo vi
sono delle compresenze scontate, tanto
scontate che un comune pudore quasi
sempre le sottace, come la mestizia fisica;
ma la domanda è questa: il poeta piange il
padre o piange se stesso che si vede «anticipato» in quella cerimonia dell’addio?
Ora ne ha la certezza: lui anello di congiunzione che assicura l’immortalità all’umanità che muore in piccolissimi atomi
che si disperdono nell’universo perché
altri sopraggiungano. All’infinito?
«Ora sei calmo, finalmente, hai pace. / So
che sei morto, non ho più paura». Così
Luciano… Mi viene in mente una frase,
un’epigrafe incisa in una piccola lapide
che scorsi per caso allo Smithsonian Museum di Washington vicino ad un pezzetto di luna, reperto del primo sbarco dell’uomo su quel pianeta: Ogni volta che
guardi le stelle pensa che siamo fatti della stessa polvere».
S t los
schede
libri
MARIO BRUNO, Trapezio d’amore, pp. 125, euro 12, Boemi 2006
C’è anche una letteratura senza pretese, che finisce coll’averne in ragione
della lucidità con cui viene perseguita. Appartiene a questo genere l’opera narrativa di Mario Bruno, giornalista, che in questo suo secondo romanzo fa tornare di scena il commissario
Valenti (ispettore nel primo Caro assassino) che risolve alla sua maniera
un intricato caso di omicidio in una
Catania media cristallizzata nel piccolo cosmo di un condominio dove coesistono frustuli di umana miseria: il
pianista con l’amante che prende in
giro la fidanzata e intanto recita la
parte della persona perbene che non
vuole dar nulla a vedere, la vicina di
casa che vive della curiosità di sapere
quello che avviene al piano di sopra e
ne descrive con precisione le tracce ricavate dai rumori, le gelosie e i legami del posto di lavoro filtrati nell’umanità vera di uomini reali, le patologie sociali (la droga) o fisiche (la depressione che sfocia nella violenza)
che si annidano dietro la facciata della normalità. Il tutto dentro la dimensione catanese delle cose: le vie, le
piazze, i sapori, gli odori, le musiche
visive del barocco, ma anche dentro
l’identificazione non nascosta del protagonista col suo autore. Che ne condivide gusti e pensieri: il garbo dell’ironia di chi si sforza di guardare alle
cose dall’alto di una saggezza ricavata dalla vita, l’amore per certa musica
di anni passati che affiora in un continuo ma non fastidioso recupero di nomi di gruppi e autori e titoli di canzoni, il gusto per la buona tavola che si
esprime in una ostentata competenza
per i vini e per il loro accoppiamento
con le più varie pietanze. Piccole cose per piccole storie. (Alfio Siracusano)
PIERRE HADOT
La libertà dell’anima porta il singolo a non temere la morte. Parola di Epitteto
ome è possibile evitare il dolore? Come si può essere realmente liberi? Qual è il modo
per raggiungere la vera e piena felicità?
Da sempre la ricerca della libertà e
della felicità a discapito del dolore hanno tormentato gli uomini: alchimisti e
filosofi hanno inseguito un utopico
mondo in cui il dolore lasciasse il posto
alla concordia comune e felicità interiore. La risposta a questi enigmi è risultata la filosofia.
L’unica strada per poter raggiungere la
felicità è la pratica di quella che notoriamente è indicata come la madre di
tutte le scienze. Infatti solo l’attività logica e morale può concedere all’individuo il privilegio di raggiungere l’indipendenza spirituale. L’essere liberi non
è solo una condizione sociale, ma in
primis uno stato dell’anima e del pensiero. La libertà permette ad ogni singolo essere vivente di agire in modo da
non avere mai rimpianti, poiché solo
l’agire in conformità con la propria
moralità è ciò che permette all’uomo di
vivere felicemente.
Lo scopo di questa libertà di azione e di
pensiero lo si ritrova nel vivere bene
con se stessi, in quella che, a dirla con
Seneca, potrebbe essere definita «tranquillitas animi». Ciò che in realtà tormenta l’uomo non sono dolori e dispiaceri che ci attaccano quotidianamente
C
dal mondo esterno, ma i tormenti e i
rimpianti che noi stessi ci causiamo
agendo contro il bene universale. Questa libertà dell’anima porta il singolo a
non temere la morte, né le torture o i
fallimenti… Finché ognuno godrà del
libero arbitrio non potrà mai essere
sottomesso.
Nulla può costringere la mia libertà
tranne lei stessa. Siate libri e neppure i
potenti potranno intimidirvi. È questo,
in breve, il messaggio di libertà e autonomia che intende veicolare Epitteto,
filosofo stoico, ai suoi discepoli sotto il
grande impero dispotico di Nerone e
Domiziano. Oggi l’insegnamento di
Epitteto, la sua ammonizione a renderci uomini liberi, giunge a noi tramite il suo testo, Manuale di Epitteto,
pubblicato di recente dalla Einaudi a
cura del filosofo francese Pierre Hadot.
Carosello
di giornalisti
d’epoca
GIORGIO FONTANA
"Buoni propositi per l’anno nuovo"
pp. 200, euro 15
Mondadori, 2007
BORIS VIAN
Ritratti dal vivo del secondo dopoguerra
BORIS VIAN
"Il prete bagnante e altri
racconti inediti"
pp. 125, euro 10
Stampa alternativa,
2006
per ben otto volte. Il dongiovannismo
e l’eccessiva disponibilità femminili
sono tra i bersagli preferiti da Vian,
come dimostrano, ad esempio, i racconti "Un test" e "Le fanciulle di aprile". Sorprendentemente attuale è "Maternità", in cui due omosessuali adottano una ragazza di diciassette anni. Il
finale è leggero e piacevole, in quanto uno dei due si fidanza con la figlia
adottiva. Nella raccolta c’è posto anche per un racconto breve ma complesso psicologicamente come
"Marthe e Jean", in cui la moglie si assume la responsabilità di un incidente
automobilistico perché al marito non
venga ritirata la patente, divenuta per
lui fonte di sicurezza in ufficio e a casa.
Dopo questa rapida carrellata, è possibile evidenziare come tali racconti
siano in grado di rappresentare, pur attraverso il filtro dell’ironia, il mondo
degli anni ’40 e ’50, il che dimostra
come siano molto più che un semplice campionario di trovate umoristiche. Vian si pone in posizione polemica nei confronti dell’establishment
culturale dell’epoca, puntando l’attenzione sulle aberrazioni che possono nascere da certe ideologie. Egli è
un intellettuale interessato alle nuove
forme d’arte del cinema e del jazz,
verso le quali, comunque, non risparmia le sue frecciate ironiche. Il suo stile frizzante, pieno di giochi di parole,
si accorda perfettamente ad una curiosità intellettuale che lo spinge ad indagare su tematiche delicate come quella del sesso, senza ricorrere alle interpretazioni altrui, ma servendosi semplicemente della sua ironia nei confronti di tutto ciò che degenera in affettazione, posa, vanagloria.
Federico Bianca
PIERRE HADOT (cura)
"Manuale di Epitteto"
pp. 217, euro 17
Einaudi, 2006
Questo scritto è un’interessante raccolta di appunti di lezioni messe insieme da un suo allievo Arriano e rispecchia quello che lui volesse che i giovani apprendessero per divenire filosofi,
liberi da qualsiasi condizionamento
esterno. Con un’attenta analisi contenutistica e storica, Hadot ripercorre le
avversità in cui Epitteto dovette imbattersi per poter predicare la sua filosofia
di libertà sotto un regime dispotico e
quasi dittatoriale della dinastia dei giulio-claudi.
DAVID RANDALL
"Tredici giornalisti quasi
perfetti"
Trad. Nazzareno Mataldi
pp. XXIV-307, euro 12
Garzanti, 2007
eguito ideale del prontuario Il giornalista quasi perfetto (Garzanti, 2004),
arriva in libreria Tredici giornalisti quasi perfetti, pubblicato sempre da
Garzanti, con l’ottima traduzione di Nazzareno Mataldi. Un prontuario
quello, un manuale questo.
L’autore è naturalmente ancora David Randall, tra i migliori giornalisti inglesi, cronista sempre on the road e in prima linea, oggi senior editor del settimanale "Independent on Sunday" di Londra e prestigiosa firma del settimanale "Internazionale" (periodico italiano che pubblica articoli provenienti dalla stampa mondiale).
Se Il giornalista quasi perfetto era una sorta di manuale per il provetto reporter, che attraverso aneddoti e riflessioni rintracciava i doveri e le caratteristiche
fondamentali per ogni cronista che si rispetti, Tredici giornalisti quasi perfetti
è invece la parte dedicate ai cosiddetti case studies dell’ideale corso preparatorio alla professione tenuto da Randall: quella in cui si passa agli esempi, all’attuazione dei principi teorici espressi in precedenza.
Così Randall ricerca, scava e seleziona e alla fine mette in piedi una vera e propria redazione olimpica che incarni tutte le virtù del suo reporter d’elezione e
ne racconta le vicende personali, che spesso s’intrecciano con i maggiori e più
drammatici eventi della storia mondiale.
I tredici giornalisti di Randall sono dieci uomini e tre donne, tutti occidentali,
perlopiù statunitensi (Randall comunque tiene a sottolineare nell’introduzione
che «in questo libro ognuno rappresenta solo il proprio talento e il proprio lavoro.
Il sesso, l’aspetto, le preferenze sessuali e i precedenti culturali non hanno giocato alcun ruolo nella selezione»), tutti esponenti della carta stampata, attivi tra
l’800 e la fine del ’900 e che hanno sempre lavorato da soli per cui non deve stupire più di tanto l’esclusione di Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti
del «Watergate», che produssero sì una straordinaria inchiesta destinata a
cambiare il volto della politica statunitense, ma operarono in coppia.
I tredici campioni dell’informazione vengono presentati in ordine di preferenza secondo la personale graduatoria dell’autore, che assicura: «Nei cronisti che
reputo meritevoli di stare nel mio libro io cercavo alcune qualità […] e possederle tutte, a un livello alto, è il criterio che mi ha consentito, in questa ricerca,
di separare il grano dal loglio».
Da William Howard Russell (1820-1907) a Ernie Pyle (1900-1945), da Januarius Aloysius MacGahan (1844-1878) ad Ann Leslie (1941-), tutti questi cronisti secondo Randall hanno (avuto) intensa curiosità nel condurre ricerche, ferma volontà di superare qualunque ostacolo nella ricerca della notizia, una notevole capacità di interpretare il materiale a disposizione e una scrittura brillante e fresca, che non pretende mai di diventare letteraria (scrive Randall in proposito: «Il giornalismo non è letteratura ma, in fondo, neanche gran parte della letteratura lo è»).
Scelti i magnifici tredici, Randall passa a raccontare la storia di ciascuno. Tra
viaggi avventurosi, articoli spediti per posta che arrivano anche settimane dopo l’invio o dettati per telefono, minacce della malavita, inseguimenti, inchieste sotto copertura, pressioni politiche e direttori d’assalto, scopriamo uomini
e donne che hanno scritto la storia del giornalismo, che senza l’aiuto della tecnologia ma con massicce dosi di coraggio e intraprendenza hanno rivoluzionato il modo di fare informazione.
Insieme alle tre donne (Edna Buchanan, «il miglior cronista di nera mai esistito»; Nellie Bly «il miglior cronista infiltrato nella storia»; e Ann Leslie, «il cronista in assoluto più versatile»), una menzione campanilistica - tra tutti questi
giganti della cronaca estera - va a Camillo Cianfarra, un giornalista italiano che
ha svolto un ruolo fondamentale nell’inchiesta di Georges Seldes («l’uomo che
diede fastidio ai potenti») sull’omicidio Matteotti, in seguito alla quale fu provata la responsabilità diretta di Mussolini - che anni prima era stato collaboratore free lance dello stesso Seldes - nell’omicidio.
Una volta che l’articolo venne pubblicato, Seldes fu costretto a lasciare l’Italia
e in seguito ottenne una promozione, mentre Cianfarra fu quasi ridotto in fin di
vita da uno squadrone di camicie nere e non si riprese mai più.
Pieno di aneddoti godibili, episodi degni dei migliori film d’azione, citazioni dagli articoli più significativi di ogni reporter (molto bravo Mataldi a rendere perfettamente lo stile e il linguaggio dei pezzi più datati), intelligenti riflessioni sul
ruolo dell’informazione e della libertà di stampa nel corso degli eventi mondiali, Tredici giornalisti quasi perfetti è un inno privo di retorica all’onestà e all’indipendenza del giornalismo d’inchiesta, che oltre a riportare i fatti deve cercare sempre di smuovere le coscienze per richiamare tutti all’assunzione delle proprie responsabilità.
Chi volesse poi intraprendere la carriera pericolosa del cronista d’assalto alla
vecchia maniera, tenga bene a mente le regole auree stabilite da Randall: «Primo: essere onesti. Secondo: non smettere mai di fare ricerche. Terzo: rendersi
conto che, per quanto si sappia su un tema specifico, non si saprà mai tutto»; e
ancora: «Chiedere, chiedere, chiedere. Anche a costo di passare per stupidi».
E chissà che, seguendo queste supreme norme, non ottenga di essere inserito nel
prossimo "dream team".
Seia Montanelli
S
Due ragazzi perfettamente sconosciuti
Questa breve silloge di racconti è
ideale per chi si avvicinasse per la prima volta all’opera del francese Boris
Vian (1920-1959). Artista poliedrico,
cantante, musicista, poeta, novelliere,
drammaturgo, traduttore, romanziere, egli seppe rappresentare una cultura aperta all’influenza statunitense,
insofferente nei confronti dell’esistenzialismo e di scrittori come Gide e
Claudel. I quindici racconti esemplificano tutti gli interessi di Vian ed il suo
stile ironico e giocoso. I primi tre, ad
esempio, hanno per protagoniste bizzarre figure di attori e registi cinematografici. In particolare, i personaggi
sono alle prese con affollatissime rassegne culturali, per assistere alle quali bisogna aspettare ore ed ore e durante le quali muoiono, per la calca, diverse persone, senza contare che gli
unici posti liberi sono sui lampadari.
Inoltre, uno dei protagonisti è un cane
parlante.
Il racconto che dà il titolo alla raccolta, invece, è un ironico ritratto di un
mite parroco di campagna, e delle istituzioni ecclesiastiche, il quale evapora per lasciare le sue mansioni proprio
a Boris Vian. Il mondo del jazz, molto amato dall’autore, è protagonista
della garbata ironia di alcuni racconti,
come "Diffida dell’orchestra!". Non
mancano riferimenti alla difficile situazione del secondo dopoguerra,
sempre uniti ad elementi umoristici ed
anche surreali, come in "Francofortesotto-il-Meno". L’erotismo è un tema
assai importante, trattato con malizia
ma mai con volgarità. Vian, infatti,
satireggia gli anormali costumi sessuali dei suoi personaggi, in particolare di Aurèle, protagonista de "L’impotente", forse il racconto più feroce nei
confronti di Claudel, Gide e Sartre.
Aurèle, intellettuale esistenzialista, ritiene che la miglior forma di amore
per un uomo sia l’impotenza.
Quando si corica con l’amata Miranda, per raffreddare i suoi istinti, recita
mentalmente passi di opere di Gide e
Claudel, salvo poi scoprire che, una
notte, aveva soddisfatto la sua donna
21
ALMANACCO
GIORGIO FONTANA
Due giovani non hanno nulla in comune, non si conoscono, vivono in
città diverse con diversi interessi.
S’incontrano a Bologna e scoprono
di essere entrambi fuori dal mondo
vivendo ai margini. Ciascuno cercherà il proprio modo d’essere e una
nuova consapevolezza.
pagina
Sappiamo infatti che fu perseguitato e
successivamente esiliato da Roma per
insegnamenti sovversivi. In definitiva
come sotto ogni regime anche all’epoca esisteva la censura, una censura che
limitava la libertà di coloro che volevano insegnare ad essere liberi. I potenti
hanno da sempre temuto gli ideali che
potessero dare alle masse la possibilità
di pensare con la propria testa e di distinguere il bene dal male. Il singolo in
sé ha la grande forza della libertà di
pensiero che può divenire arma di interi popoli.
Sarebbe errato pensare che questi siano problemi obsoleti:basti citare un recente studio di alcuni organi Onu che
hanno stilato una classifica dei paesi
dei cinque continenti in base alla «libertà di parola». Con grande sorpresa
scopriamo che l’Italia si trova al settantasettesimo posto dopo il Burkinafaso!
Oggi crediamo di essere liberi ma è solo un’illusione mediatica. La filosofia,
la cultura sono le uniche che possono
renderci liberi… forse se Epitteto vivesse oggi sarebbe indignato della
schiavitù che incatena le nostre menti.
Oggi Epitteto non è qui presente tra di
noi ma ci ha lasciato come eredità il
suo scritto. Ed è forse giunto il momento che il suo messaggio di libertà sia
colto.
Lidia Cuccurullo
LUCA MUSELLA, Tre disubbidienti, pp. 104, euro 10, Gaffi 2006
Luca Musella, alla sua seconda pubblicazione con Gaffi, descrive tre ritratti di donne che compongono un
mosaico sulla ribellione in Italia dagli
anni Settanta a oggi. La prima è una
ex terrorista pentita, misteriosa sessuomane e assassina, che ha pagato
con la galera la sua militanza. Una
donna che di quella stagione racconta
le «sedute sessuali» alla ricerca di un
piacere che per tutta la vita non proverà mai (è frigida), e le «sedute rivoluzionarie» all’insegna del fosco ideologismo che voleva cambiare il mondo con le pistole e che ovviamente
non riuscì a cambiarlo. La seconda
donna è una libraia di provincia che
raccoglie le «confessioni» dei tanti
scrittori-non lettori dei nostri tempi e
che si imbatterà nelle lettere della ex
terrorista e nei racconti della terza
donna, una ragazza ribelle che fa la
cassiera e sogna di abbandonare la
mediocrità che la circonda.
Traspare un intento simbolico, che la
letteratura cioè possa fungere da ponte tra le generazioni. Indicare una o
più vie e soprattutto avvicinarci nel
buio desolato delle nostre coscienze.
E sebbene nel descriverci queste tre
solitudini, lo sforzo mimetico di Luca
Musella (eccesso di zelo?) abbia prodotto alcuni passaggi troppo diaristici,
e in altri ancora questo sforzo faccia
pensare che il romanzo sia una collezione di racconti, lettere e confessioni
prestate all’autore e da lui strutturate,
Tre disubbidienti si presta tutto sommato a una lettura felice, e ci permette di ritornare alla stagione del terrorismo senza vaniloqui ideologici. Così
come di mettere alla berlina i potenti
che da quella stagione si trassero in
salvo con poco. (Angelo Orlando Meloni)
CARLA FARCOLIN
Le difficili strade dell’affidamento
La difficoltà dell’affidamento familiare di due gemellini di tre anni nigeriani che, staccati dalla madre detenuta, vengono affidati a una donna
single. Il loro futuro è incerto tra la
temuta Nigeria e la confortevole rassicurante Italia. Le difficili scelte su
affidamento e immigrazione.
CARLA FARCOLIN
"Mamma non mamma"
pp. 122, euro 11
Marsilio, 2007
LUCIANO SALERA
Garibaldi, un’epopea da revisionare
A dimostrazione che nessun mito può
dirsi del tutto indenne dalle istanze di
revisionismo storico, proprio nell’anno del bicentenario della nascita di
Garibaldi fioriscono biografie che lo
additano all’esecrazione pubblica come ladro di bestiame e negriero in
Sud America, al soldo dei gruppi economici europei che favorirono l’annessione del regno delle Due Sicilie. È
il caso di Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud di Luciano Salera. Che prende le mosse dall’acquisizione dei vapori «Lombardo» e
«Piemonte» che portarono i Mille fino
in Sicilia. A raccontarle è proprio un
oscuro protagonista di quel periodo,
Fauché, procuratore ed amministratore della società marittima Rubattino.
Salera riprende le Memorie documentate di Giambattista Fauché e la spedizione dei Mille, date alle stampe ai
primi del 900 dal figlio. Nel 1858 la
compagnia di navigazione Rubattino
& C. versa in condizioni economiche
e si affida a un esperto di contabilità ed
economia aziendale, Giambattista
Fauché che ne diviene di fatto l’amministratore unico e che si mette d’accordo con Garibaldi concedendo le due
navi. Nella ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla conquista del
Sud, Salera individua ed analizza attraverso un attento scavo archivistico di documenti poco noti di parte
borbonica n possesso dell’Ufficio Storico dell’Esercito - quattro episodi
che ritiene «alla base della cosiddetta
epopea dei Mille»: la messa a disposizione dei vapori Lombardo e Piemonte, la partenza della spedizione da
Quarto, lo sbarco a Marsala ed infine
il fatto d’armi di Calatafimi.
Del primo già si è detto, del secondo è
interessante registrare le modalità di
presa materiale di possesso dei vapori: i due legni, ancorati nel porto di Genova, furono assaliti la notte le 5 maggio 1860 da un manipolo di uomini
comandati dal Bixio che finsero di ridurre all’impotenza il ridotto personale presente (e già d’accordo) e intrapresero il viaggio. Sebbene tutto fos-
LUCIANO SALERA
"Garibaldi, Fauché e i
Predatori del Regno del
Sud"
pp. 540, euro 30
Controcorrente, 2007
se stato preparato puntigliosamente,
accadde l’imprevisto tra il comico e il
tragico: il Lombardo non volle saperne di mettersi in moto e dovette essere trainato fuori dal porto dal Piemonte.
Il terzo episodio che Salera ritiene
fondamentale nella lettura revisionistica della spedizione dei Mille è quello
relativo allo sbarco a Marsala: qui in
verità l’autore ribadisce e rafforza con
nuovi documenti ciò che già si sapeva,
la presenza cioè di navi inglesi che
protessero in qualche modo l’avventuroso sbarco dei Mille con la loro presenza, impedendo alla roccaforte borbonica di cannoneggiare i vapori di
Rubattino. Viene fuori dalla ricostruzione del Salera - ed è questo l’aspetto più interessante della sua analisi tutta una serie di connivenze locali,
frutto evidente di operazioni di intelligence predisposte nel tempo: la prova
- se pure ve ne fosse ancora bisogno che la spedizione era stata meticolosamente preparata nei minimi dettagli
dalle potenze europee interessate e
che gran parte dei comandi borbonici
fosse ormai abbondantemente collusa
con il nemico.
L’ultimo episodio conferma quanto
detto innanzi: Calatafimi è la dimostrazione della viltà o del tradimento
degli ufficiali borbonici: una sconfitta
preparata a tavolino; se il generale
Landi, invece di dare un inspiegabile
ordine di ripiegamento alle sue truppe,
le avesse fatte avanzare, forse le truppe garibaldine - già in difficoltà - sarebbero state ricacciate indietro.
Il libro di Salera ha il merito di contribuire a far discutere su come si realizzò l’Unità d’Italia aggiungendo una
voce non stonata ma in controcanto.
Valentino Romano
pagina
22
Il punto
debole?
La famiglia
IRÈNE NÉMIROVSKY
"David Golder"
Trad. M. Belardetti
pp. 180, euro 16
Adelphi, 2006
ome si capisce facilmente dal titolo, questo romanzo (1929) di Irène Némirovsky (1903-1942) è costruito su un unico, grande personaggio. David Golder è un petroliere ebreo di origine ucraina che vive tra Parigi,
Londra, Berlino e gli altri grandi centri economici europei. La vicenda è ambientata alla fine degli anni Venti. Il vecchio Golder deve affrontare un grave tracollo economico. Inoltre si rifiuta di aiutare il suo socio Marcus che, disperato, si
toglie la vita. Golder capisce di essere, almeno in parte, responsabile, ma una
delle sue caratteristiche più importanti è il suo desiderio di lottare, il che spiega la sua assenza di rimorsi. Il suo è un vitalismo tenace che lo spinge ad impegnarsi negli affari ricominciando dopo ogni fallimento. Egli, infatti, non dimentica il suo passato di miseria, l’emigrazione negli Usa in cerca di fortuna,
le continue tribolazioni prima del successo e della ricchezza.
La sua salute è messa a dura prova da problemi di cuore, aggravati dal continuo
stress, ma egli è sempre pronto a progettare nuovi viaggi ed affari per risollevarsi. Tuttavia, egli ha un punto debole: la propria famiglia. Sposato con Gloria, conosciuta sin dai tempi dell’Ucraina, ha una figlia di diciotto anni, Joyce.
Golder, infatti, sa molto bene che le due pretendono il suo denaro, indifferenti
alle sue fatiche. Tuttavia, egli è profondamente legato alla figlia, una ragazza
vivace e dolce, anche se profondamente attaccata al denaro e disinteressata ai
sentimenti del padre. Inoltre, il petroliere è disgustato dalla folla di ospiti invitati dalla moglie, una turba di mantenuti. Gloria, in particolare, è un personaggio negativo: dopo un attacco di cuore del marito, per timore che egli possa ritirarsi dagli affari dopo il dissesto, gli nasconde la gravità del responso medico, desiderosa di non perdere le sue comodità.
La figura di Golder acquista progressivamente spessore e complessità: egli comprende l’atteggiamento della famiglia e dei suoi
ospiti, ma non ha interesse a cambiare la situazione, totalmente interessato ai suoi affari, tanto da tollerare persino gli amanti di Gloria e il fatto che Joyce mantenga il proprio fidanzato. Egli riceve
però un enorme dolore: la moglie, in un alterco, gli rivela che Joyce è figlia del suo amante. È un duro colpo, che sembra porre fine alla sua carriera: già provato dall’attacco di cuore, egli si ritira
in un appartamento di Parigi, lontano dalla famiglia, dedito a giocare a carte con un suo vecchio amico ebreo.
È l’occasione per ripensare alle proprie origini, grazie a passeggiate nel quartiere ebreo e i pranzi in tipici antichi ristoranti. Golder
ed il suo amico, in particolare, riflettono sulle proprie origini, ritenendo di essere condannati a dover accumulare ricchezze per gli
altri, senza poterne mai godere personalmente. Il leone indomabile delle prime
pagine sembra lasciare il posto ad un uomo senza desideri ed aspirazioni che
non siano le piccole attività quotidiane. In realtà, la sua vitalità è soltanto assopita. Joyce, infatti, gli rivela di essere sul punto di sposare un vecchio e losco
uomo d’affari, disponibile a soddisfare tutti i suoi capricci. L’orgoglio e la rabbia di Golder esplodono, non certo il suo amore paterno, non può permettere che
una persona con il suo cognome finisca nelle mani di un uomo che egli detesta.
Sprezzante delle sue condizioni di salute, si rituffa negli affari, conseguendo un
successo milionario. Il romanzo si chiude sulla nave che riporta Golder in Francia dopo un viaggio per lavoro in Ucraina. L’uomo ha potuto rivedere la terra
in cui era nato e dalla quale era partito più di cinquant’anni prima. Ormai logorato, prima di sprofondare nella morte, gli rivengono alla mente i luoghi della
sua infanzia. Opera tanto scorrevole quanto bella e profonda, David Golder è
un altro capolavoro di una scrittrice sempre più da riscoprire.
Federico Bianca
C
«un saluto attraverso le stelle»
rivolto da tre sorelle degli anni
Quaranta alle ragazze di oggi.
Un dialogo tra le ragazze che scovavano scampoli di vita fra le macerie della guerra, e quelle che affogano nell’odierna opulenza del consumismo. In
un’epoca in cui la tragedia sembra
un’eco lontana, ma in realtà si insinua
nella placida quotidianità a risvegliare paure sepolte da cumuli di storia.
Ed esplode poi d’improvviso insieme
agli aerei, ai grattacieli, a scuoterci
dal torpore anestetizzante. La tragedia
stria anche le pagine di questo romanzo d’ambientazione storica, squarciato da lampi d’attualità, su cui aleggia
l’ombra della guerra e la sua immutata miope crudeltà, che non riesce però
a distruggere l’essenza dei sogni.
Quelli di cui Isabella, Regina, Lucia
intessono le loro giornate sulla riva del
lago di Como durante i terribili giorni
della guerra civile. Intorno a loro gravitano, ammaliati come Ulisse dalle
sirene, uomini invasi da quel brivido
che muta la guerra in un ideale estetico-esistenziale: il foscoliano Jacopo,
Giuliano, Libero, e anche quelli ormai
scomparsi, come il bisnonno garibaldino, il nonno pacifista, il padre inebriato dall’ideale bellico futurista.
A dominare questo romanzo corale
sono le tre sorelle e la loro madre.
Novelle Penelope immerse in un’attesa che «non è fare, ma disfare, interferire, scardinare: per rifare»: Marianna,
la madre, senza il cui controcanto «la
guerra sarebbe stata solo un virile frastuono e la pace una pausa opaca, e
non un silenzio vibrante di parole»;
Regina, che racconta «le sue storie
esorbitanti, trapunte di eccessi, di fili
d’oro e pagliuzze di gazza ladra»; Lucia, che «fin da bambina aveva percepito con silenziosa premonizione l’angoscia della vita adulta». E Isabella,
«guerrigliera dell’intelletto», investita dal desiderio per Giuliano «come
vento che, attraversate città e pianure,
erompa in turbini fin dentro le case
scoperchiate». Tutte legate da un tarlo: «che cos’altro li lega se non una fame d’amore? Perché questo gioco sfibrante che li avvicina e li allontana in
avide cadenze?».
È Isa che rinsalda il legame col passato, ricompone i pezzi di un’identità
sparsi in ogni angolo di mondo in cui
la sua irrequietezza la spingerà dopo la
guerra. È Isabella a intrecciare i filamenti della memoria, a fare e disfare il
ricamo della narrazione, che si snoda
ora in terza persona, ora in prima, in
rovelli appartiene alla categoria
di viaggiatori che fanno del
viaggio una sorta di centralità
della loro vita. Ma per conciliare il desiderio di viaggiare con le possibilità
economiche Brodelli deve rivolgersi a
dei finanziatori, ricorrere a delle sponsorizzazioni e così, assieme a un amico, ottiene una sponsorizzazione dalla Piaggio e, nel 1998, per i cinquant’anni dalla nascita dell’Ape, i
due attrezzano il piccolissimo veicolo
per compiere un viaggio di sette mesi
e di 25.000 km che li porta dall’estremità dell’Europa Occidentale - Lisbona - fino a Pechino attraverso l’intero continente dell’Eurasia.
Turisti intelligenti e colti raccontano
con dovizia di particolari i loro incontri e le loro impressioni. Trascorrono il tempo occupati negli spostamenti e nella quotidiana manutenzione del
mezzo o chiacchierano con viaggiatori atipici come loro o con abitanti del
posto, annotano minuziosamente gli
incontri e si addentrano nella storia dei
luoghi, nelle recenti tragiche vicende
che li hanno attraversati, dato che si
tratta di regioni che hanno visto negli
anni Novanta conflitti feroci (le regioni dell’ex Yugoslavia) o regioni ancora infide come la Geogia o vastissime
e inquietanti come la Cina. Ci ritroviamo all’interno di una narrazione a
metà strada tra gli straordinari resoconti di cronisti di guerra come Paolo
Rumiz o Terzani o Ryszard Kapucinski e una narrazione privata, in qualche punto picaresca, sempre molto
concreta.
Sulle ali di un’ape è un libro molto godibile, merito anche della socievolezza di protagonisti che nei più disparati luoghi trovano amici disposti a ospitarli e vengono così ad essere introdotti negli interni delle case, nella vita
stessa della popolazione. ATeheran ad
esempio, mentre sono alla ricerca di
una musaferkhuné (una sorta d’ostello) compare miracolosamente un mu-
È
B
S t los
schede
libri
ALMANACCO
Paolo Brovelli / Marisa Buglheroni /
Irène Némirovsky / Pia Pera /
Antonio Perazzi
Se una signora
è considerata
una martire
IRÈNE NÉMIROVSKY
"La moglie di don Giovanni"
Trad. L. Guarino Frausin
pp. 63, euro 5,50
Adelphi, 2006, 63 p. , 5,50 £
ome avviene per Cechov e Maupassant, autori molto amati dalla Némirovsky, anche un racconto di poche pagine evidenzia l’abilità narrativa ed
i temi prediletti del suo autore. La moglie di don Giovanni, infatti, pur nella sua brevità, avvince per la maestria con cui la scrittrice spiazza il lettore dopo
avergli presentato un’altra versione degli avvenimenti. Inoltre, la profondità dei
problemi affrontati rendono il racconto un classico nel suo genere. La vecchia cameriera Clemence, in punto di morte, scrive alla sua vecchia padroncina Monique, volendole rivelare la verità sulle reali motivazioni che spinsero sua madre
all’uxoricidio. Tutto sembrerebbe nascere dal desiderio del padre, famoso dongiovanni, di separarsi dalla moglie e dai tre figli. Questi ha acconsentito a sposarsi per la ricca dote della moglie, una donna priva di
fascino e di bellezza, timida ed impacciata. La moglie, dopo anni
di tradimenti sopportati in silenzio per amore del marito e dei figli,
non avrebbe retto ad una separazione definitiva. Il processo dichiara la donna innocente, comprendendo le umiliazioni patite.
Anche l’alta società, della quale fanno parte le amanti del marito,
considera la donna una martire. In realtà, la madre di Monique nasconde un terribile segreto. Il suo vero carattere nasce dal contrasto irrisolvibile tra il bisogno d’essere amata dal marito e l’orgoglio
che le impedisce di modificare il legame col coniuge, tra l’affetto
sincero per i figli ed il considerarli una insoddisfacente alternativa
all’amore coniugale, tra gli slanci genuini del suo cuore e la timidezza e la paura d’essere derisa.
La protagonista è insicura, teme di mostrare la propria femminilità, anche a causa di una madre, la Contessa, sempre critica nei suoi confronti. La sua reazione
a tutto questo è stata concedersi al primo venuto. Del resto, l’ambiente che la circonda, compresa la servitù, è al corrente delle avventure del marito, non si interroga più sulle sue prolungate assenze, ben conoscendone l’indole passionale,
mentre la donna può approfittare liberamente dell’immagine di moglie infelice
che tollera con sofferenza la situazione. Le sue assenze, quindi, non destano curiosità. Il racconto, quindi, è una riflessione sul rapporto tra verità apparenti e i
segreti e complessi moti del cuore umano. Il lettore rimane colpito dalla nitidezza con cui l’autrice delinea un personaggio così complesso. A tal proposito, va
sottolineato il ruolo svolto dalla narratrice Clemence. Questa afferma con sicurezza le proprie qualifiche di cameriera specializzata, di avere studiato, di non essersi lasciata mai sedurre, come le sue colleghe, da fantasie come un matrimonio con un uomo ricco.
F. B.
C
La storia
è un insieme
di sogni
un gioco di specchi in cui i tre volti di
Isabella (la protagonista, la narratrice
e l’alter ego romanzato dell’autrice) si
scrutano l’un l’altro.
Se alla terza persona è affidata la parte corale, quella degli eventi del ’43,
che si staglia con tutta l’immediatezza
del tempo presente, la prima persona
immette nel racconto l’urgenza dell’attualità che custodisce echi del passato. Un intreccio di voci e tempi incastonato in un impianto narrativo moderno, se non postmoderno, che si avvale dello sgretolamento dei piani
temporali e narrativi: la narratrice medita, anticipa gli eventi, in un alternarsi sapiente di flashback e flashforward. «Io, Isabella» scandisce il
ritmo del racconto come un refrain
ipnotico, a smentire sogni e illusioni,
a smorzare i toni con fare profetico. È
la Cassandra che prevede. È il coro
che commenta, nell’altalena tra passato, presente e futuro suggerita anche
Fino a Pechino
attraverso
l’Eurasia
sicista gentile e molto occidentalizzato che li introduce nella sua casa. Dall’interno la realtà appare meno rigida
e più complessa e variegata di come ci
risulti dai mass media anche se molti
aspetti sembrano effettivamente inquietanti.
Spesso i due viaggiatori hanno occasione di incontrare italiani che hanno
lasciato la loro vita per indossarne
un’altra e, tagliati i ponti con il passato, si sono insediati in zone remotissime. In Pakistan ad esempio vengono a
conoscere «un sopravvissuto. Sopravvissuto al dopo Sessantotto, all’anticonformismo tutti i costi, alle occupazioni. Sopravvissuto ai Figli dei fiori,
MARISA BULGHERONI
"Un saluto attraverso le stelle"
pp. 247, euro 17
Mondadori, 2007
dalla veste grafica, che alterna tondo e
corsivo.
Grazie a Isabella, anche lo scenario
svela diverse fattezze: dalla placida
monotonia del lago di Como (in quella città che «bombardata ancora una
volta, ardeva come un immenso braPAOLO BROVELLI
"Sulle ali di un’ape
pp. 488, euro 19,80
Corbaccio, 2007
sparpagliati per il mondo a cercare
qualcosa che forse si farà trovare. Un
rifugiato. Rifugiatosi lontano dalla
realtà di casa, fatta di perbenismo e
lotte. Via dalla provincia, via dalla
routine. Forse perché lontano l’emotività se ne va a farsi fottere e i fatti si
analizzano meglio». E anche in India
hanno modo di conoscere uno strano
personaggio, Rashid, un americano
proveniente da Oklahoma city, che ha
deciso di lasciare tutto e di stabilirsi in
India. Sguardo tranquillo, serenità a
tutto tondo, kirpan alla cintola, capelli fissati da un kangha, è diventato ormai un cittadino di Amritsar.
La parte più inquietante è forse l’attra-
La forza
sovrumana
delle piante
PIA PERA
ANTONIO PERAZZI
"Contro il giardino. Dalla
parte delle piante"
pp. 168, euro, euro 13,50
Ponte alle Grazie, 2007
ontro la quotidiana mortificazione della natura, quella natura «scempiata che ovunque ci avvolge e non ci permette più di fare caso al ridicolo
che ci circonda» si alzano le voci di Pia Pera e Antonio Perazzi nel loro
carteggio raccolto nel libro Contro il giardino. Dalla parte delle piante. Scrittrice-giardiniera, come affettuosamente la definisce il suo corrispondente, Pia
Pera ha già affrontato il tema della riscoperta della natura nel precedente L’orto del perdigiorno, dove racconta, tra bucolico e realistico, la nascita del suo rapporto con il podere che è orto-giardino-uliveto-bosco, alle falde dei monti pisani. Ed ora non esclude che in dieci anni di vita tra le piante, in un fervore di
attività di memoria esiodea, «le sia perfino spuntato un cuore». Lui, botanico
e paesaggista, simpaticamente scambiato per giardiniere dai vicini, è architetto di giardini e paesaggio. Il loro carteggio è stata un’occasione di riflessione
sulle piante spontanee, quelle solitamente definite erbacce, che vengono strappate via, e vi si sostiene l’idea di lasciarle inserite in progetti più ampi e compositi, dove la loro essenziale bellezza di forme, colori e volumi completi il paesaggio modificato dall’uomo.
È un recupero di piante pioniere, colonizzatrici, quelle che si impossessano degli spazi abbandonati e martoriati dall’uomo, quelle che avanzano a nascondere anche i relitti di capannoni industriali, che riescono a scoppiare tra le pietre
o a fianco di un marciapiede, per raccontare la forza della natura che riesce a rigenerarsi sempre, nonostante la cementificazione e la distruzione quotidiana.
Perché «la forza delle piante è sovrumana, incredibile… e alla lunga riesce perfino a sopraffare gli interventi maldestri di coloro che pensano che la Terra sia
un parcheggio e non un organismo vivente». Allora si può davvero esultare di
meraviglia se su una rotonda spartitraffico si scopre che è cresciuto un giardino spontaneo, pur nella consapevolezza che sarà effimero, ma si rimane turbati se si vedono abbattere pini centenari su un’altra rotonda, per lasciare spazio
al cemento, come si rimane affascinati di fronte alla bellezza dei giardini umili, che non si comprano, anche se sono realizzati in vaso.
Si legge la gioia di chi ama le piante nella capacità di ricrearle da talee, da frammenti, da foglie scambiate tra amici che nutrono la stessa passione, in una forma di continuità e in una rete di rapporti umani che si allarga di continuo. Qui
tutte le specie vegetali riacquistano la propria dignità, abbattuta ogni distinzione sociale e ogni forma di pregiudizio. E si racconta la tenerezza provata di fronte alle foglioline di prezzemolo che spuntano dalla terra, nel momento in cui si
partecipa a «quel primo moto di vita, tanto delicato, vulnerabile: l’inizio di ogni
altra più visibile forza». E si recupera il gesto materno di versare dalle mani a
coppa l’acqua sulle piantine trapiantate, perché sia loro più leggera. In questa
ottica non si guardano con simpatia i pratini all’inglese, che provocano lo stesso disagio che si prova di fronte ad «una donna che non ha un capello fuori posto». Prati pettinati che non conosceranno mai «la corsa del vento nel fieno» e
quel pullulare di vita animale che si cela nel verde. Contro i giardini progettati con mentalità di architetti, con piante irreggimentate, costrette, decontestualizzate, pensati a fini puramente decorativi, si propongono giardini progettati per
le persone, che tornino a integrarsi in un paesaggio spontaneo, creatosi secondo un gioco evolutivo di forme, «in cui perfino le ortiche vanno mantenute». Un
ritorno alla natura prima che essa scompaia, quello che raccontano Pera e Perazzi, in un momento storico in cui si accavallano e si mescolano continuamente «impressioni di prossima fine, nel disordine climatico, e di risorse inesauribili», con l’esigenza di recuperare il legame uomo-natura, con la scoperta della sacralità di gesti antichi: «sacro… è piantare alberi che non vedremo mai nel
pieno della loro bellezza» ma che rimarranno «una proiezione del nostro amore in un futuro da cui saremo assenti».
Marisa Cecchetti
C
ciere tra le brume celesti della lontananza») ad Alessandria d’Egitto, fino
all’Etna solcata dalla «colata ardente,
inarrestabile come il tempo scandito
da un rintocco luttuoso di campane».
Scenari evocati attraverso una scrittura che diventa raffinato esercizio di catarsi letteraria e personale. Arma che
scava nei cumuli della memoria e riporta a galla schegge di passato, ricomposte nella trasposizione letteraria
per diventare affresco di un’intera generazione. L’autrice infatti non trasferisce sulla pagina il materiale inerte
del ricordo. Piuttosto lo plasma, lo
scompone, lo (ri)compone. Lo tesse in
una trama in cui la rievocazione storica non è asettica e neutrale trasmissione di fatti, ma è percorsa da echi autobiografici e letterari. Perché la storia
«non è la somma degli eventi soltanto» ma «un insieme di sogni, di illusioni, di progetti mancati. È una messa in scena in cui tutti a ugual diritto
siamo attori. Ma è anche un teatro
dell’anima di cui niente rimane se
qualcuno non ha la forza e la pazienza
di raccontare»: la forza di inalare il
tanfo di morte che la guerra diffonde,
e la pazienza di aspettare che si dissolva. Che il tempo muti la tragedia in
parola.
Quella della Bulgheroni, parola, nomina, (ri)evoca, incanta, grazie a un
minuzioso cesello lessicale, alla precisione semantica che schiude scorci
più poetici che narrativi. Le frasi si
susseguono come in un poème en prose, in una danza tra arcaismi e neologismi, metafore e similitudini. Il ritmo
è talvolta fluido, talvolta spezzato come in un susseguirsi di versi. Come se
per rievocare quel passato eroico fosse necessario un registro poetico, lontano dalla bieca prosaicità odierna.
Il sogno di Isabella non era che «una
casa fatta di vento dove la paura non
potesse entrare perché non c’erano
porte». Isabella sognerà ancora. Senza crederci più. «Ancor oggi, più di
mezzo secolo dopo, io, Isabella, sogno, come l’Isabella di allora, case e
città fatte di vento: che non crollino.
Come sono crollate sotto il mio sguardo - l’11 settembre 2001 - le due torri
gemelle di Manhattan quando l’ago
rovente di uno, poi di un altro, jet suicida, infilandosi nel duro tessuto di vetro e acciaio, le ha trapassate, con le
loro migliaia di prigionieri chiusi in
gabbia. E nel cielo fumoso di ceneri
plumbee ha ricamato un enorme papavero di fiamma».
Teresa Graziano
versamento del «continente» Cina,
mondo in velocissima evoluzione.
«Ora che sono qui mi rendo conto di
quanto poco rimanga delle antiche
città, - osserva Brovelli - quelle che
immaginavamo dei film storici patinati. Il rinnovamento, specie negli ultimi
decenni è costante, e ogni giorno nuovi edifici soppiantano quelli vecchi
nel tentativo di rimanere al passo col
mondo, in una corsa smodata al nuovo, più apparente che reale. Come se
bastassero questi edifici candidi e i
lavori forzati alle infrastrutture per far
dimenticare le migliaia di esecuzioni
capitali». La Cina, di questi tempi, è
corteggiatissima, per motivi squisitamente economici, dal mondo occidentale, «tutti cercano il dialogo e tutti si illudono di poter controllare il gigante. Ammiccano e corteggiano; ma
nessuno, nei millenni, ci è mai riuscito, e il gigante ha sempre inghiottito
chi l’ha voluto inghiottire. Si fanno
concessioni, si tolgono embarghi, si
stipulano accordi, si sorvola su mille
questioni aperte col mondo, specie le
metodiche violazioni dei diritti umani.
E tutto per ottenere una bancarella
nell’immenso mercato di Pechino».
In Cina più che altrove ci si rende
conto che «pretendere di penetrare un
mondo estraneo in pochi giorni è una
follia». E, osserva Brodelli, «il senso
di impotenza e soprattutto di "alienità" che provo mescolandomi a questa agente è qualcosa di unico. Mai mi
era capitato in nessun’altra realtà, dal
più intransigente mondo arabo all’Africa più nera, dalle plaghe amazzoniche all’India più profonda». Non è
solo la diversità profonda di vita e di
mentalità che turba l’autore, ma anche
il modo assai diverso da quello occidentale che hanno i cinesi di risolvere
i problemi, senza tenere in nessun
conto l’individuo e considerando il
bene comune l’unico fine a cui subordinare il resto.
Marina Torossi Tevini
S t los
schede
libri
La Sicilia
affatturata
di Vasile
23
TURI VASILE
"Morgana"
pp. 214, euro 13
Avagliano, 2007
n Sicilia, fra le acque dello Stretto, Morgana, la fata del romanzo bretone, è
marittima illusione, inganno ammaliante. Un luminescente effetto ottico, dovuto al frangersi dei raggi solari fra i flutti dello Ionio, proietta la bella città
di Messina, accanto la costa calabra. Luce e acqua irretiscono i sensi: in Sicilia
come a Trozeaur, perché Morgana rappresenta, in fondo, il visibile delle cose che
non ci sono. Turi Vasile, scrittore e drammaturgo siciliano, autore di Giòn, La
valigia di fibra, pubblica Morgana, sorta di monologo interiore con il quale l’autore, riannodando i fili della memoria, percorre in punta di penna i luoghi dell’infanzia, le persone della formazione, le emozioni della prima giovinezza.
Un viaggio a ritroso nel tempo dunque, e una riflessione sul presente, sulla vita che placidamente scorre, sulle passioni che non cambiano, le amicizie che rimangono. Turi Vasile dichiara un legame ininterrotto con la terra d’origine: un
viaggio in un paesino dei Nebrodi consente di cogliere la Sicilia sommersa, terra di artisti e filosofi, spesso destinati a rimanere sconosciuti ai più, ma fatalmente presenti nell’animo di molti siciliani. Il viaggio di Vasile in terra di Sicilia, allora, non è semplice sosta nei luoghi più suggestivi dell’isola. Morgana è piuttosto un pellegrinaggio interiore, che, giocato nei luoghi della Sicilia,
arretra sulla percezione «che dietro ogni realtà apparente si celi una verità sostanziale» l’intuizione che i
segreti nascosti dell’isola
sommersa sono immediatamente consustanziali alla condizione/condizionamento dell’essere siciliani.
Le radici della propria genitura acquistano per Vasile il carattere di una tenera ossessione, che quanto più tende a rivelare una realtà che ha carattere di nascondimento,cede
alla malia di miti e ricordi,
sorta di luoghi dell’anima
che, fissati nel paesaggio siciliano, sono modello di ogni
accadere. Così Vasile riferisce l’incanto esercitato da una chiesa di stile barocco, Santa Maria dell’Annunciazione di Tortorici, dove l’insieme del sacro arredo figura quale «misteriosa contaminazione» di statue e santi sbiaditi nel tempo.
L’autore racconta l’incanto della macchia mediterranea dell’oasi di Vendicari,
il fascino rupestre di Caltabellotta, faro di riferimento per i naviganti del Mar
d’Africa. La rievocazione della Sicilia si intreccia dunque con i ricordi della giovinezza: i luoghi, le presenze di allora, spesso consunte e soprattutto lontane,
si ammantano, staccate dal tempo, di un alone mitico e popolare. Racconti quali "Il meravigliato della grotta", o "Il nespolo", confermano certo come in tutte le narrazioni di Vasile si renda riviviscente la presenza dei buoni sentimenti, quanto la ricerca della parola melodiosa e suggestiva dietro la quale sempre
si cela l’attrazione per una realtà avita, mitologica, naturalmente risorta, come
avviene per gran parte degli scrittori siciliani.
Federica Di Luca
I
ALMANACCO
Franca Angelini / Yehoshua Kenaz /
Livio Romano / Turi Vasile
Un palazzo
popolato
di fantasmi
A
suo abbandono, psicologicamente più
sottile rispetto a quello fisico di Filottete, consiste nel non riuscire a sentirsi adeguato a un mondo che va troppo
in fretta e che gli richiede un’attenzione spropositata, salvo poi non ricambiarlo e accusarlo reiteratamente di
egocentrismo e immaturità.
Si trova preso in un gorgo di speranze
deluse perfettamente incarnato dalla
vita politica locale: individuato in lui
il candidato ideale, il partito dei Verdi
dapprima lo seduce e quasi lo forza ad
impegnarsi in prima persona; salvo
poi, passate le elezioni, lasciarlo andare alla deriva e voltargli le spalle tradendone la fiducia.
Di fronte al progressivo abbandono, o
meglio di fronte al progredire della distanza fra sé e chi lo circonda, più di
una volta a Gregorio Parigino pare di
non essere più lo stesso. Esistono, infatti, due protagonisti: il Gregorio Parigino reale, per così dire, e il Gregorio Parigino percepito.
Per fare un esempio pratico, al momento di farsi fotografare per la campagna elettorale, il Parigino pubblico
si sente dire che è affascinante come
In un gorgo
di speranze
e delusioni
er fortuna che i libri non sono la
vita, perché se dovessimo stare
ai romanzi dei nostri scrittori
(più o meno giovani che siano) il ritratto dell’uomo italiano dei giorni nostri
sarebbe dei più desolanti: immaturo,
irresponsabile, precario per indole e
vocazione, infantile, egoista (non che
le donne trovino più comprensione
nelle patrie lettere, beninteso). E così,
per distinguersi, la campagna stampa
di Niente da ridere - ultimo romanzo
di Livio Romano pubblicato da Marsilio nella collana "X" - recita: «[siete]
stufi di leggere storie di trentenni dimissionari, precari?. […] Credete che
la narrativa italiana […] dovrebbe raccontare anche le vite dei trentenni che
hanno messo su famiglia, la famiglia
media italiana, della gente (la stragrande maggioranza) che vive in piccoli centri? […] Ecco il romanzo che
fa per voi».
In effetti il trentacinquenne Gregorio
Parigino, protagonista di Niente da ridere, non è un single: ha messo su famiglia, ha un lavoro fisso, possiede più
di una casa, un paio di automobili,
persino un conto in banca a cui attingere e sicuramente non soffre di solitudine. E poi è un tipo con vari interessi e
mille impegni. Eppure anche Grego-
rio, alter ego del suo autore - come lui
insegnante d’inglese presso una scuola elementare, salentino e giornalista non fa eccezione e non sfugge al luogo comune di una generazione in fuga
costante. All’inizio del libro lo troviamo incastrato nelle lamiere della sua
auto dopo una carambola quasi mortale dovuta alla fretta di tornare a casa
dal buen retiro in cui si nasconde per
poter scrivere in pace.
Quando non scappa in campagna, cerca sollievo in una tana meno ingombrante e bucolica: una pillola di Alzaprolam, un ansiolitico cui ricorre di
continuo «contro il logorio della vita
moderna». E ancora, non sono forse
goffi tentativi di evadere quei continui
approcci con una bella venditrice di
torrone più giovane (e forse ancora
più inguaiata) di lui con cui non riesce
però ad andare oltre a numerose prove
tecniche di tradimento?
Gregorio è un uomo in fuga da una vita che ha scelto ma gli sta stretta, da responsabilità di cui si bea ma non riesce
a gestire, da un ruolo che gli piace ma
che in fondo non si sente tagliato a ricoprire: e allora la ricerca di anodini
per sopportare il male di vivere, chimici o naturali che siano, diventa la soluzione per non doversi sottrarre del tut-
SECONDA LETTURA
P
YEHOSHUA KENAZ
"Cortocircuito"
Trad. Elena Loewenthal
pp. 251, euro 18
Nottetempo, 2007
ncora una volta l’israeliano Yehoshua Kenaz racconta le vite di quelli che
la storia non ricorda, delle persone che non hanno nulla di speciale. E, ancora una volta, un condominio fa da sfondo alle vicende narrate. Come
luogo moderno dell’aggregazione alienante e coatta di persone che, spesso, non
scelgono di essere vicini, si fa metafora dello stato di salute dell’umanità: «Tutti hanno paura solo per se stessi e scappano in posti lontani o si nascondono nella stanza sigillata, è tutto capovolto». In questa Babele di voci, nonostante la molteplicità dei punti di vista, tutti parlano della stessa cosa: dell’incapacità di stabilire rapporti significativi con gli altri, «guardandosi in giro si vede solo gente che vuole rovinarsi a vicenda. Ognuno pensa solo a se stesso». Gli altri sono
fantasmi e non esistono, almeno fino a quando non si incrociano sul pianerottolo, o quando si disturbano l’un l’altro. Nel palazzo di cui Kenaz ha scelto di
narrare le vicende, vivono Sofi, «la donnina minuta come un passerotto con una
lana candida in testa», che trascorre le giornate nel suo appartamento con la sola compagnia della radio e delle rare visite di una vicina, Eti, prigioniera di una
violenza subita che le impedisce di condurre una vita serena.
C’è la signora Mashiach, donnone prepotente e arrogante, Zachi e Ghili coppia che adotta un gatto rosso per poi abbandonarlo quando cambiano casa. C’è
Rachmani e c’è il responsabile del condominio che gli ha affidato l’incarico di
pulire le scale e il giardino, almeno fino alla fine della Guerra del Golfo, quando sarà presa la decisione di lasciare a lui il posto o riprendere il ragazzo arabo, Ismail, che lavorava per loro prima di lui. Poi, due avvenimenti che forse
non hanno alcun legame fra loro, offrono allo scrittore la possibilità di sondare le reazioni dei personaggi di fronte alla morte: un cortocircuito scatena un incendio nel palazzo, provocando la morte di Sofi, e al ritorno di un diverso che
è anche il Nemico: il ragazzo arabo torna per riavere il suo lavoro. Non dimentichiamo che siamo a Tel Aviv. Eppure, la problematicità della realtà israeliana tocca la materia narrata solo in maniera trasversale; infatti «Yehoshua Kenaz» dice anche Shulim Vogelman «non si "aiuta" né con l’attualità, né con la
famiglia, né con le radici». Tutto rimane soffuso, non si arriva all’ultima pagina con la sensazione che una tesi forte sia stata dimostrata e, nonostante la coralità, la presunta diversità di voci, ci si trova esplicitamente a fare i conti con
un omogeneo corpus di sensazioni sulle cose della vita.
Silvia Santirosi
on la sua ferita alla gamba, a
seguito dell’incidente stradale
sul quale si apre il romanzo, il
protagonista di Niente da ridere sembra subito una riedizione postmoderna
della figura tragica di Filottete.
L’eroe classico, per via di una piaga
purulenta, veniva abbandonato dai
suoi amici sull’isola di Lemno, dalla
quale cercavano poi di riscattarlo
blandendolo per farsi perdonare coi
più vari sotterfugi.
Gregorio Parigino, l’io-narrante cui
Livio Romano dà voce, a prima vista
non sembrerebbe essere abbandonato,
vista la pletora di persone che gli si affanna attorno dalla convalescenza in
poi; la sua vita anzi si direbbe sovraffollata, fra una moglie, due figlie,
un labrador obeso, una mamma scimunita, una nonna combattiva, un’amica invadente, uno zio scialacquatore e, per non farsi mancar niente, anche un’amante imprevista.
Eppure Gregorio Parigino, insegnante salentino e corsivista saltuario, vede progressivamente frapporsi una distanza incolmabile fra sé e tutte le
persone che lo pressano d’intorno. Il
C
pagina
pochi; al momento dello sviluppo delle foto, ingrandendone i dettagli digitali, al contrario il Parigino privato si
vede triste, ripugnante, improponibile:
e questo è, ai suoi stessi occhi, il Gregorio Parigino reale.
Se la sua amante lo ritiene somigliante a Nicholas Cage, sua moglie non fa
altro che rimproverargli il progressivo
decadimento psicofisico; se dopo l’incidente sente bisogno di una lunga
convalescenza, parenti e amici fanno
a gara a sovrapporre le proprie esigenze alle sue. Di fronte a uno specchio,
prima ancora della propria immagine
riflessa Parigino vedrebbe la crepatura sulla superficie.
Livio Romano si è abilmente infilato
in questa crepatura, in questa distanza
che per tutti i personaggi è impercettibile ma che al protagonista appare in-
LIVIO ROMANO
"Niente da ridere"
pp. 359, euro 17
Marsilio, 2007
sormontabile. Chi ha letto le sue opere precedenti si renderà facilmente
conto che Niente da ridere riesce a miscelare brillantemente gli spericolati
esperimenti linguistici di Mistandivò
(Einaudi 2001) con la satira e l’impegno sociale di Porto di mare (Sironi,
2002).
Questi ultimi cinque anni non sono
passati invano: oltre a dare notevole
spessore - anche quantitativo - alla
trama di Niente da ridere, Livio Romano ha così potuto riconsiderare alcune convinzioni, tanto formali quanto contenutistiche, che nelle sue due
Come fuggire
dalle
responsabilità
to ai suoi doveri. Ma pur sempre di una
fuga si tratta. E dopotutto: come dargli
contro? Gregorio ha una famiglia
scombinata in cui i parenti, acquisiti e
non, si aspettano dedizione e abnegazione; ha amici squinternati incapaci di
vivere la propria vita e che cercano una
guida e un appiglio a cui aggrapparsi;
e poi ulteriori amici, ancor più dissennati, che vogliono cambiare il mondo
e che hanno tutta l’intenzione di servirsi di lui come un ariete per aprirsi dei
varchi nei centri del potere.
E le bambine da cambiare, il cane da
portare a spasso, il mutuo da pagare,
gli articoli da scrivere, gli studenti da
istruire, una moglie a cui rendere conto, così diversa da lui e così piena di
mute richieste: Gregorio quindi deve
essere all’altezza, deve essere pronto,
deve essere presente.
Niente da ridere non è poi così diverso in fondo, dai romanzi di vita precaria degli ultimi anni, ma a distinguere
il libro di Romano dagli altri c’è una
buona dose di ironia che alleggerisce
ogni cosa, un sense of humor vulcanico e travolgente attraverso cui l’autore filtra le contraddizioni della società
civile, della famiglia moderna, della
politica.
E anche se a volte si cade nel qualunquismo: «come se non sapessi che
chiunque vincerà saprà ben farsi gli affari propri prima ancora che quelli della civitas dice Gregorio commentando
la sua discesa in politica nelle comunali del suo paese per i Verdi, le vicende
tragicomiche di questa quotidianità
eroica tengono il lettore incollato alla
pagina, curioso di sapere come Gregorio riuscirà a mettere ordine al caos che
L’attor comico?
Un virtuoso
e un infame
FRANCA ANGELINI
"Petrolini e le peripezie della
macchietta"
pp. 152, euro12
Bulzoni, 2006
ella conclusione del suo volume, Franca Angelini, riflettendo sulle peripezie della macchietta, esplicita il senso del lungo percorso dei suoi
studi su Ettore Petrolini ma anche, al contempo, per il suo tramite, sulla macchietta, sul varietà in rapporto alla modernità, al Novecento e all’avanguardia, e sull’attore. Il ricordo conclusivo di Carmelo Bene «un attore testimone e rappresentante della "chute ancienne" dell’angelo di cui parla Baudelaire»,
testimonia, a diversi livelli, di alcune delle fondamentali tematiche e prospettive del libro. Tra queste, innanzi tutto, quella di una tradizione - che da Ruzante, passando per Viviani, Scarpetta, Eduardo arriva a Dario Fo - al cui proposito viene richiamata l’antica distinzione tra comici virtuosi e infami, appartenenti cioè, rispettivamente, a una tradizione alta, colta, letteraria o, viceversa,
bassa, popolare, esclusivamente teatrale.
Ma l’attor comico, scrive l’Angelini, «è sempre insieme virtuoso e infame». Alto e basso s’intrecciano nella comicità, sulla scena del varietà, nel teatro della
modernità e delle avanguardie del Novecento e si esprimono, mediante il corpo e la voce, nella performance di un attore solo in scena che rappresenta, nella macchietta, l’eccentricità, caricaturalmente esagerata, di un «tipo» distinto
dalla cultura della massa metropolitana. Questa raccolta di saggi, su una materia che è acquisizione solo relativamente recente in ambito accademico, può essere considerata anche un omaggio, pur non deliberato, alla «drammaturgia del
frammento» che definisce un’altra fondamentale prospettiva del volume.
Quella drammaturgia che costituisce la rivoluzione tardo ottocentesca della scena nella quale si può leggere la «profonda vicinanza tra avanguardia e teatro minimo del Varietà, del circo, delle piazze» che l’Angelini ricostruisce con richiami, ai futuristi, a Cocteau e al suo théâtre de poche, al «virtuosismo dell’attore-acrobata delle emozioni come mostra il limite che disgiunge e la sintesi che
unisce i contrari», al «minimalismo come totalità», all’attore che Artaud chiama «atleta del cuore».
Il grande amore degli intellettuali per il varietà raramente finisce in matrimonio, forse per lo spirito di vagabondaggio che Colette attribuiva al varietà, forse per l’impossibile e solo miracolosa convivenza tra due contrari che pur si attraggono: l’intelligenza della scrittura e la pura presenza scenica che raggiunge talora punte sublimi di intelligenza critica, decostruttrice di poetiche, mitologie, idoli e ideologie, ma che tocca altrettanto sublimi vette di abissale stupidità. Petrolini fu amato dai futuristi ma anche, diversamente da loro, dal grande pubblico, perché attore e artefice, tra naturalismo e avanguardia, di vecchie
macchiette di tipi eccentrici alla maniera originaria del café chantant, nell’ humus dialettale, specificamente italiano, del varietà (Giggi er bullo, Sor Capanna), e di nuove macchiette dissacranti la retorica, la cultura letteraria, pseudoromantica, scolastica (Ma l’amor mio non muore, La canzone delle cose
morte). Petrolini fu il miracoloso matrimonio di sopraffina intelligenza criticoparodica, sconsacratrice e di pura, assoluta demenzialità in chiave naturalistica (I salamini) o antilogica avanguardistica (Fortunello) in un itinerario che da
Piazza Pepe, dal teatro di don Peppe Jovinelli, arrivò alla Comédie Française,
al teatro alto nel quale, anche da drammaturgo, si cimentò a partire dagli anni
venti. Il volume è anche e soprattutto, ovviamente, un volume su Petrolini, sulla storia del suo teatro (diversi testi sono anche riprodotti in appendice), sulla
sua figura, sugli elementi della sua recitazione di cui anche l’apparato iconografico restituisce ulteriori testimonianze.
Pietro Milone
N
opere precedenti talvolta apparivano
tagliate troppo di netto.
Da un lato infatti Romano viene incontro al lettore moderando i suoi primi ardimenti semantici che non di rado rendevano necessaria una rilettura
più concentrata. Dall’altro canto, la
tragica distanza che Parigino interpone fra sé e un mondo che sembra crollargli addosso consente a Romano di
temperare le (per quanto giustificate)
arrabbiature impegnate che avrebbero
altrimenti rischiato di mettere in ombra la trama.
Il raggiungimento di questo saggio
equilibrio permette a noi lettori di avere per le mani un romanzo ben costruito, che si legge piacevolmente e che fa
pensare senza essere mai stucchevole;
mentre all’autore permette di riverberare la propria indubbia crescita sulla precipitosa maturazione alla quale
Parigino è costretto dagli eventi.
Il ritmo forsennato di Niente da ridere,
che si sviluppa in lunghi capoversi
paratattici, di tanto in tanto si interrompe e si distende: accade quando,
travolto dalla propria stessa vita, Parigino si affida all’Alprazolam, un an-
siolitico fenomenale nel tamponare
immediatamente gli attacchi di panico
ma che a lungo andare crea dipendenza e inevitabili sbalzi d’umore.
Il maggior pregio tecnico di Niente da
ridere consiste proprio nella prosa di
Romano, che riesce a rendere perfettamente l’idea di quest’alternanza fra
consolazione e angoscia, finché non
arriva il momento in cui (poco dopo la
metà del romanzo) Parigino deve riuscire a sbrigarsela da solo.
In quel momento, recluso nella casetta di campagna come Filottete sull’isola, capisce che la pasticchetta quotidiana è un supporto inutile se non viene accompagnato da uno sforzo interiore, e che la propria vita consiste, come quella di ogni uomo, nella continua ricerca di un Senso, con tanto di
esse maiuscola.
Per fortuna, tuttavia, Livio Romano è
un narratore troppo furbo, e troppo
divertente, da poter concludere la propria tragedia postmoderna su una morale precostituita: allora Parigino prende un’altra pillola e per la nostra gioia
il romanzo continua.
Antonio Gurrado
lo circonda.
Il merito è anche di uno stile personale e consapevole, non privo di intuizioni brillanti e immagini ben congegnate che confermano le promesse fatte
nei libri precedenti: Mistandivò (Einaudi Stile Libero, 2001) e Porto di
mare (Sironi 2002), in cui l’autore già
mostrava di saperci fare con le parole.
Niente da ridere però è un’opera molto diversa dalle precedenti, meno sperimentale, più tradizionale nell’impianto narrativo e nel linguaggio, più
matura anche per certi versi.
Qui Romano ricorre a una narrazione
in prima persona molto aderente ai
pensieri del protagonista, in cui ragionamento, sentimento e azione si alternano senza pause, e a tratti si sovrappongono: Gregorio Parigino passa da
un dialogo a una riflessione estemporanea, dal resoconto delle proprie attività quotidiane - qui elevate al rango di
«epica domestica» - al dialogo interiore col padre (figura con la quale egli
costantemente si confronta, col risultato di farne un modello, pur con tutti i
limiti del caso dovuti alle oggettive
colpe del genitore, e ai risentimenti
che ogni figlio inevitabilmente prova).
Ciò che viene fuori è un ritmo serrato,
a tratti convulso, della prosa; una sovrabbondanza di dettagli descritti uno
di seguito all’altro, quasi a voler togliere il fiato al lettore e il risultato è l’affresco di un ambiente in cui ogni cosa
appare iperreale, eccessiva per troppa
intensità, e inequivocabilmente barocca.
Contrariamente a quanto sostenuto da
più parti, è modesto invece il ruolo
dello scorcio d’Italia meridionale su
cui si staglia la vicenda: diversamente
da quanto succede nei suoi libri precedenti, in Niente da ridere il Sud è una
quinta scenografica, un puro sfondo, al
punto che l’ambientazione e il feeling
del libro di Romano hanno un sapore
che ci riporta, più che alle narrazioni
storicizzate a cui di solito di pensa
quando si parla di «scrittori del Sud»
(dalle Terre del Sacramento a Cristo si
è fermato a Eboli e via discorrendo),
all’Inghilterra sgangherata e autoironica del Nick Hornby di Come diventare buoni: non a caso, forse, il libro termina sulla conclusiva fuga in terra
d’Albione del protagonista in compagnia di moglie e figlie, quasi una sorta di cortocircuito narrativo che riporta il romanzo a una terra di cui ha preso in prestito le atmosfere.
Seia Montanelli
pagina
24
l festival «A qualcuno piace giallo» di Brescia Carlo
Fruttero ha ritirato il Premio Carriera Gialla, riconoscimento per una vita
dedicata alla letteratura,
non solo di genere. Una
lunga carriera. Nato a Torino nel 1926, è stato
per decenni indissolubilmente legato a Franco
Lucentini. I due si conoscono a Parigi nel
1953 e finiscono per lavorare entrambi, come
redattori, alla Einaudi. Insieme curano due
volumi di fantascienza: Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza (1959) e Il
secondo libro della fantascienza (1960). I rapporti con Mondadori iniziano proprio con la
direzione della rivista di fantascienza "Urania", che cureranno fino al 1986. Nel frattempo, però, iniziano a scrivere assieme un giallo
che diventerà un cult, La donna della domenica (1972). Un libro nato da una richiesta di
Montanelli (allora direttore de "Il Giornale") di
scrivere un romanzo di appendice e maturato
con le lunghe discussioni su come strutturarlo.
«Il pasticciaccio di Gadda, ad esempio, a me
piaceva, a Lucentini proprio no» confessa lo
scrittore. E infatti finirono per ispirarsi ai romanzieri inglesi. Nonostante la critica avesse
liquidato il romanzo con una certa superficialità, il successo di pubblico fu immediato e gli
stessi detrattori, negli anni successivi, dovettero ricredersi. Soprattutto quando, otto anni
dopo, «Umberto Eco dimostrò come si potesse scrivere un giallo e, al tempo stesso, fare letteratura».
Al romanzo d’esordio seguiranno, fra gli altri,
Il palio delle contrade morte, A che punto è la
notte (con lo stesso protagonista de La donna
della domenica, il commissario Santamaria),
Enigma in luogo di mare. Il sodalizio si interrompe solo a seguito del suicidio di Franco
Lucentini, nel 2002. Fruttero, dopo aver dichiarato di non voler più pubblicare, è tornato
in libreria quattro anni dopo con Donne informate sui fatti (Mondadori, 2006). Che riprende un elemento già presente in la donna della
domenica: la Torino borghese, piena di chiaroscuri, i cui abitanti si svelano attraverso porte
socchiuse e frasi rivelatrici. Al centro della storia, ovviamente, c’è un omicidio. La morte di
Milena, rumena, forse prostituta, forse redenta, è lo spunto per dar voce a otto donne molto diverse tra loro: la bidella, la barista, la carabiniera, la figlia, la migliore amica, la giornalista, la volontaria e la vecchia contessa.
Ognuna parla con toni e registri differenti,
ognuna conosce una parte della verità e la rivela inconsapevolmente. Ognuna confessa, involontariamente, le proprie miserie e debolezze,
vanità e fragilità. «Le donne di cui si parla nel
libro sono le donne che piacciono a me. La
vecchia contessa, poi, è proprio il mio autori-
Il passato
vissuto
C nell’incubo
A
T
A
L
O
G
O
Nella foto Carlo Fruttero, autore per Mondadori di Donne
informate sui fatti, premiato a Brescia con il premio alla
carriera "A qualcuno piace giallo"
CARLO FRUTTERO
I n t e r v i s t e
A
S t los
incontri
ravvicinati
IL LIBRO
«Nessuno si
sognerebbe di dire
che "I promessi
sposi" sono un
romanzo
di genere, eppure
Manzoni non fece
che cedere al gusto
del romanzo
storico». Lo
sguardo di un
profeta della
nostra letteratura
CARLO FRUTTERO
"Donne informate sui fatti"
pp. 196, euro 16,50
Mondadori, 2006
Il primo romanzo
senza più Lucentini
L’ultimo romanzo, il primo dopo la
scomparsa di Lucentini. Aveva detto
che non avrebbe più scritto, ma la passione per l’invenzione letteraria lo ha
riconquistato dando un giallo dal meccanismo perfetto, che non risente della
mancanza del coautore con il quale ha
scritto tutti i gialli portati al successo.
Qui il delitto di una ragazza rumena si
dipana tra le testimonianze delle donne che l’hanno conosciuta alla ricerca
soprattutto del perché.
I generi letterari non esistono
ci sono solo libri belli e brutti
ALESSANDRA BUCCHERI
VIVE A ROMA. COLLABORA DA DUE ANNI CON "IL FALCONE MALTESE" E CURA
IL BLOG "L’ANGOLO NERO"
tratto» ammette Fruttero.
Circa i suoi progetti, Fruttero rivela che Mondadori gli ha proposto da tempo un Meridiano
che raccolga le opere del duo Fruttero-Lucentini, ma lui li sta ostacolando perché quel
tomo dall’aspetto «enorme e lugubre, pesante
come una lapide» gli sembra di pessimo auspicio. Si entusiasma invece al pensiero della
riedizione di un vecchio racconto, scritto anni
fa senza Lucentini. Si tratta di Ti vedo un po’
pallida, una storia di fantasmi che verrà ripubblicata da Mondadori con l’aggiunta di una
prefazione, «una sorta di backstage su come
nasce il romanzo che conterrà anche rivelazioni su un personaggio famoso». Stilos lo ha intervistato.
Si ritiene uno scrittore di genere o uno scrittore tout court?
ELIE WIESEL
"Dopo la notte"
Trad. Piero Pagliano
pp. 270, euro 9
Garzanti, 2007
Gamaliele, dopo una vita tribolata, diventa adulto grazie ad Ilonka
che lo ha protetto dalle persecuzioni naziste e lo ha messo in salvo. La
sua vita da rifugiato è stata fatta di continue fughe dal fascismo e
stressanti procedure burocratiche. Trova l’amicizia di altra gente
nelle sue stesse condizioni. Quando viene ricoverata una straniera, si
cerca un traduttore e Gamaliele pensa possa trattarsi della sua benefattrice mai più rivista. In quell’istante ricompare il suo passato vissuto nell’incubo: la ricerca di una patria, la lotta tra l’oblio e la memoria e la ricerca della fede. L’autore, oltre ad avere scritto numerose opere, racconta della sua prigionia nel libro La notte.
I generi non esistono. Ci pensi: a suo tempo
Manzoni cedette alla moda del romanzo storico e scrisse I promessi sposi. Ma nessuno si sogna ora di dire che si tratta di letteratura di genere. Ci sono solo libri belli o libri brutti, non
mi stancherò mai di ripeterlo.
Una persona colta come lei, che ha letto per
tutta la vita, che libri ha sul comodino?
Attualmente leggo tutto ciò che mi mandano le
case editrici. Adesso sto leggendo Imperium di
Robert Harris (autore di Fatherland e Archangel), e lo apprezzo molto perché è ben documentato, è un libro pieno di dati e di notizie.
Leggo finalmente i racconti di Cassola, e li trovo tristissimi. Leggo Simenon, ma non Maigret: sto leggendo Il piccolo libraio di Archangelsk e lo trovo meraviglioso, con quelle
sue descrizioni... Simenon è l’ultimo grande
realista. Ho letto un romanzo di Carofiglio e
l’ho trovato interessante, gradevole. Ogni tanto leggo una tragedia di Eschilo. Faccio zapping, insomma. Vado dall’alto al basso.
Mi sembra di capire che anche lei fa parte
di coloro che ritengono che ci sia una distinzione tra letteratura alta e letteratura bassa.
La forza
della
telepatia
No, niente affatto: dico piuttosto che ci sono libri che ti impegnano di più e altri che leggi con
minor fatica. La stessa cosa che accade per i
film o gli spettacoli teatrali. Io non disapprovo
chi guarda "Beautiful"; lo capisco. La disapprovazione che circonda gli spettacoli facili è
una sciocchezza. È un intrattenimento leggero, che non richiede impegno. L’importante è
sapere che c’è anche altro, che si può scegliere. Al limite, che si può spegnere la televisione e leggere un libro.
Come nasce Donne informate sui fatti?
Lo spunto iniziale, quello della «vendetta galante», l’avevo in mente da tanto tempo. Però
non riuscivo a ideare una storia nella quale
questo spunto si inserisse in modo naturale.
Vede, nella Torino degli inizi del Novecento
era plausibile che un ricco industriale sposasse una ballerina - era uno scandalo, certo, ma
non era infrequente. Al giorno d’oggi, e nella
Torino attuale, non è verosimile che un ricco
industriale sposi una prostituta. Poi però sono
arrivate le badanti, e i giornali si sono nuovamente riempiti di storie in cui il ricco borghese sposa la badante extracomunitaria. Tenga
MARY HIGGINS CLARK
"Due bambine in blu"
Trad. Maria Barbara Piccioli
pp. 400, euro 18
Sperling & Kupfer, 2007
Un mistero si cela dietro al rapimento di due gemelline di tre anni avvenuto nel giorno del loro compleanno. Durante le trattative per il riscatto qualcosa va storto. Una delle bimbe, Kelly, viene ritrovata
morta insieme con l’autista che confessa, in un biglietto, di avere ucciso anche l’altra bimba, Kathy, buttandola poi nell’oceano. La madre intuisce che la bimba è ancora viva, pensa agli abitini blu che le
due figliolette indossavano quel giorno finché le appare Kelly per dirle che Kathy chiede aiuto. Seguendo il suo istinto combatterà contro
lo scetticismo generale. Un racconto pieno di suspence incentrato sul
fenomeno della telepatia tra gemelli.
Suicidio
di una
scrittrice
presente che gli extracomunitari hanno portato un notevole rimescolìo nel tessuto urbano,
non solo sul piano criminale, ma anche nell’ambito sociale. E così la mia idea iniziale è
tornata a essere verosimile. Il banchiere che
sposa la babysitter dei nipoti era un’idea perfettamente realistica. E da lì sono andato avanti.
Se Lucentini avesse scritto questo libro con
lei, cosa ci sarebbe stato di diverso?
Beh, tante cose. Ad esempio nel libro c’è Milena, la morta, che è una giovane rumena. Se
Lucentini fosse stato vivo, avrebbe studiato il
rumeno per capire esattamente che tipo di errori fanno i rumeni che parlano l’italiano. E poi
avrebbe scritto tre pagine e mezzo perfette,
ineccepibili. Io non l’ho fatto. La ragazza rumena del libro è morta, dunque semplicemente non parla.
Però ha scritto delle perfette simulazioni
del linguaggio degli Sms: la barista manda
al suo fidanzato dei messaggini che sembrano davvero scritti da una adolescente.
In questo mi ha aiutato mia figlia. È stata lei a
dirmi come i ragazzi di oggi comunicano tra
loro. Io non sono esperto di nuove tecnologie.
Anche con i computer non è che abbia un
gran rapporto, io uso ancora la penna, si figuri.
Nel libro compare anche una figura molto
nuova, quella della carabiniera.
Sì, mi sono molto documentato per essere
certo che fosse realistica. Le carabiniere oggi
esistono, ma ancora non si occupano di investigativa. Però mi sono informato con amici
che lavorano nell’ambiente e mi hanno assicurato che a breve anche le carabiniere saranno
inserite nelle strutture che si occupano di indagini.
Come mai l’ha voluta, allora, anche se precorre i tempi?
Perché non volevo usare dei cliché. Non volevo assolutamente ricorrere a parole come
«commissario», «Dna», «sei sospeso dal servizio» e giù pistola e distintivo... Sono molto
attento a questi dettagli. Vede, ormai si può dire che tutto è già stato scritto e che la difficoltà
maggiore, oggi, è quella di evitare di essere ripetitivi. Quindi quando leggo un libro o guardo un film controllo sempre in che modo l’autore o lo sceneggiatore sono riusciti a ingentilire i cliché, come li hanno evitati, quali strategie o acrobazie hanno sperimentato. E, ovviamente, quando scrivo sto attento a evitare le
banalità.
Lei aveva detto che avrebbe smesso di scrivere. Invece ci ha regalato un nuovo libro.
Cosa l’ha spinta ad andare avanti?
Per raccontare ci vuole passione. La figura del
narratore è molto risalente - pensi ad Omero, il
primo narratore della storia. La passione è un
dono, un istinto. Vedi qualcosa, un dettaglio, ti
resta in mente un’immagine che hai voglia di
raccontare. Poi la passione magari ce l’hanno
in molti, ma non tutti sono capaci... Però io
sentivo, e sento ancora, quella passione.
SYBIL OLDFIELD (cura)
"Lettere in morte di Virginia Woolf"
Trad. Marina Premoli
pp. 313, euro 18
Baldini Castoldi Dalai, 2007
Durante la Seconda guerra mondiale, Virginia Woolf si suicida. La
sua depressione non era un mistero per nessuno, ma la sua morte
sorprese tutti poiché la scrittrice era stimata da un foltissimo pubblico di appassionato lettori che erano all’oscuro degli abissi della sua
mente. Il gran successo letterario e la presenza affettuosa del marito
e della sorella non avevano scongiurato la sua spinta al suicidio. Virginia, con lucidità, scelse il momento giusto per la sua morte sentendo prossima la sua ennesima ricaduta nella terribile malattia. Per
questo libro, l’autrice ha trovato collaborazione in tutti coloro che
conobbero ed amarono la scrittrice.