17 aprile 2007
Transcript
17 aprile 2007
Anno IX n. 8 17 aprile 2007 ( I L Q CARLO FRUTTERO U I Stilos N D I C I N A GIORGIO BOCCA I libri che sta leggendo, gli autori preferiti, l’idea di letteratura. E il suo ultimo romanzo "Donne informate sui fatti". A Brescia il premio «A qualcuno piace giallo». 24 pagina E D E I MASSIMO RANIERI L’autobiografia di un intellettuale che scrivendo la sua vita ha composto un romanzo. E con esso un affresco dell’Italia «provinciale» del nostro tempo. pagina L La vita in ascesa di Giovanni Calone, «scugnizzo» napoletano che grazie alla sua voce e al suo talento diventa uno dei primi cantanti di musica leggera italiani. 8 pagina Turi Vasile MORGANA Il nuovo libro di racconti di un grande scrittore siciliano. Racconti “veristi” eppure sognanti. L’ossessione e il condizionamento di essere siciliani. Morgana, in fondo, è il visibile delle cose che non ci sono. pp. 224 · euro 13,00 L I B R I ) SILVIA BALLESTRA Un pamphlet sulla condizione della donna oggi, prima responsabile dei suoi ritardi rispetto al riemergente maschilismo. La perduta eredità degli anni Settanta. 14 pagina P E T RO S MARKARIS Un giallista contro la pubblicità pagina 9 VINCENZO RABITO TERRA MATTA «Cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa. Un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso». andrea camilleri «Non capita tutti i giorni che un Rabito Vincenzo si metta a scrivere la sua storia raccontando anche di traverso la storia del nostro paese e i suoi oscuri mali. Davvero, un fiore nel deserto». paolo mauri Supercoralli, pp. 424, € 18,50 EINAUDI 1 euro 16 S t los narratori italiani pagina 2 Nella foto i soccorsi dopo l’esplosione di un ordigno con sette chili di tritolo nella Banca nazionale dell’agricoltura in Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969. I morti furono 17, i feriti 87 Catone PIAZZA FONTANA Come è nata ed è stata realizzata la trasmissione televisiva sulla madre di tutti gli attentati terroristici in Italia. Un ritorno agli anni della strategia della tensione La strage delle cento strategie C o n f e r e n z e ilano, 30 marzo. Libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte. Carlo Lucarelli presenta Piazza Fontana libro + dvd (Einaudi-Rai Trade), tratto dalla trasmissione "Blu Notte". Questa è la trascrizione della sua conversazione, raccolta da Maddalena Bonaccorso. M Non è stato facile realizzare la trasmissione su Piazza Fontana. Devo dire che quasi nessuna delle nostre trasmissioni, dei nostri casi, sono stati facili da rappresentare. Ma Piazza Fontana è stata particolarmente difficile. Noi ci siamo arrivati dopo un lungo percorso. "Blu Notte" è partito dai casi di cronaca, dagli omicidi e dai delitti privati, chiamiamoli così. Raccontavamo, all’inizio, solo di crimini che riguardavano una persona e una città. Niente di politico, niente di misterioso, niente di segreto. Poi, dopo tre o quattro anni di lavoro su delitti privati, cominciarono a venirci in mente casi un po’ più complicati. Tra questi, Piazza Fontana. Diventava una specie di obiettivo, che contemporaneamente ci spaventava molto. Ci chiedevamo. «Ma Piazza Fontana, riusciremo mai a raccontarla?» «No». Troppo difficile, troppi processi, trent’anni di misteri. Ci appariva, quindi, come un qualcosa di molto complicato. E non solo da un punto di vista storico e giudiziario (perché quando dico Piazza Fontana, dico, oltre alla strage, strategia della tensione, Ordine Nuovo, un sacco di altre storie che si intersecano), ma anche da un punto di vista personale, umano. Come avremmo potuto entrare in una cosa così straziante? Perché il nostro compito, quando raccontavamo casi di cronaca, era dare voce a una persona che non avrebbe avuto più modo di parlare. Era cercare di spiegare qualcosa, magari nel momento in cui un caso stava per essere archiviato. Era mettere in fila i fatti in maniera un po’ scientifica e un po’ narrativa. Ma era soprattutto creare un’emozione riguardo a qualcosa che era successo. Quindi pensavamo che a indagare su casi come Piazza Fontana ci sarebbe stato da sentirsi malissimo. Pensavamo di non essere in grado. Adesso, a mente lucida, penso che fossimo vittime di luoghi comuni. Uno è questo strano mito della complicazione. Perché attenzione: è vero che queste storie sono complicate, ma non è vero che il bandolo della matassa sia introvabile e che sia impossibile raccontarle in maniera semplice. Sicuramente le si racconta in maniera insufficiente, e questo vale per Piazza Fontana così come vale per la puntata sulla mafia. Non c’è tutto, è chiaro. È solo un primissimo passo. Compiuto perché poi qualcuno si metta lì a riempire tutti i buchi che noi abbiamo dovuto lasciare, perché non ci stava nel tempo della trasmissione. O perché non ci stavano nel tempo mentale che tutti noi abbiamo quando ci raccontano una storia; siamo concentrati su una storia, ma se poi se ne aggiungono tante altre perdiamo la capacità di seguirle. Però si possono a un certo punto mettere i fatti in una fila ordinata. Perché in effetti, questa idea che non si sa niente di questa storia, che Piazza Fontana è un enorme mistero, non è vera. È vero che non abbiamo messo in galera nessuno, e che la magistratura, in questo senso, ha fallito. Perché compito dei processi è dire chi è colpevole e innocente, ma compito dell’indagine è di dire chi l’ha messa, quella bomba lì. Il nome della persona che ha messo la bomba non c’è e molto probabilmente non ci sarà mai. Però è vero anche che i processi, e tutta la riflessione della storiografia e dell’informazione su questi avvenimenti ha prodotto una mole enorme di documenti. Allora, quello che è successo, e le motivazioni per le quali certe cose sono successe, perlomeno con la ragionevole certezza degli storici, le sappiamo. Attenzione: il lavoro degli storici non è quello dei magistrati, che devono avere tante e tali prove per mandare in galera le persone. Gli CARLO LUCARELLI VIVE A MORDANO (BOLOGNA). ULTIMI TITOLI "LA NERA" (MONDADORI) CON MASSIMO PICOZZI, "NIKITA" (EDIZIONI EL) storici si basano su una logica dei fatti, che parte dalla lettura dei documenti. Esempio: io non ho bisogno di un processo passato in giudicato per sapere che Napoleone ha perso a Waterloo. Quindi a livello storico un sacco di cose le sappiamo. E abbiamo cominciato ad affrontarle. Naturalmente questo lavoro non lo faccio da solo, ho molti collaboratori, consulenti, storici che abbiamo intervistato. Mettendoci al lavoro, le cose si mettono in fila. Abbiamo una tecnica che ci è servita molto, che è quella della narrazione. Quando si scrive un romanzo, anche se è pura invenzione, non si scrive tutto quel che viene in mente. Se no verrebbe fuori un magma assurdo nel quale non si capirebbe più nulla. Si scelgono i fatti che servono a fare andare avanti la storia, che appartengono a una stessa linea logica, e si mettono in fila. E alla fine si ricostruisce il tutto. Quindi, il primo luogo comune era superato. Non è troppo complicato occuparci di cose tanto più grandi di noi. Il secondo problema che ci siamo trovati ad affrontare era personale: il nostro star male davanti alla morte di una persona. Per noi era già difficile metter mano a un caso di cronaca singolo, immaginiamo un po’cosa poteva voler dire trovarsi davanti, come nel caso di Piazza Fontana, a 17 morti. Invece siamo riusciti a capovolgere questa cosa. Perché il grosso problema, di noi cittadini, è considerare questi drammi come un qualcosa di storico, di passato. Il rischio quindi non è partecipare troppo. Il vero rischio è l’indifferenza. Non dobbiamo avere paura, quindi, di affrontare tutto questo. Questo fatto di farci coinvolgere emotivamente è un qualcosa di positivo perché la narrazione, oltre a mettere in fila i fatti, deve trasmettere emozioni. E se noi le proviamo, queste passeranno al di là dello schermo. Ecco che allora - dopo aver preso coscienza di tutto questo - abbiamo iniziato a occuparci di altri casi, che non fossero i semplici omicidi. Sempre avendo davanti a noi l’obiettivo di Piazza Fontana, in quanto evento enorme per antonomasia. Perché enorme? Non fu l’unica strage, non fu nemmeno la prima, nemmeno di un’idea di strategia della tensione che venne sperimentata fin dai tempi di Portella della Ginestra. Però divenne un simbolo, perché fu colpita Milano, perché era il 1969, per tanti motivi. Per questo divenne davvero simbolo della perdita d’innocenza dell’Italia. Abbiamo cominciato con altre cose. Il caso Sindona, per esempio. Dopo il quale cominciarono ad arrivare moltissime email di persone, anche molto giovani, che volevano saperne di più. Capimmo che eravamo sulla strada giusta. Poi ci occupammo del caso Calvi. Le email continuavano ad arrivare, sempre di più, la gente voleva sapere, era interessata, si indignava. Trovammo il coraggio di affrontare Piazza Fontana. Abbiamo consultato un mare di documenti, abbiamo intervistato moltissime persone, abbiamo visto e rivisto tutto il repertorio possibile, tutte le immagini di archivio. Abbiamo «rubato» moltissimo a Giorgio Boatti, per esempio. Nonostante tutto il nostro lavoro, il risultato finale è necessariamente incompleto. Ci sono un sacco di buchi. Ci sono un sacco di punti dove io mi fermo e dico «Ma questa è un’altra storia». Già, per forza devo dire così. Perché se la piazzo lì, un’altra S tilos Una pubblicazione Domenico Sanfilippo Editore ANDREA CARRARO L’ITALIA DI PICCA storia, non posso andare avanti, il discorso si sposta troppo. Infatti, un altro dei problemi cui andiamo incontro sono i collegamenti. Non si può parlare di Piazza Fontana come parleresti del caso della signora uccisa in tale via, in tale giorno… quello è un crimine che inizia un giorno ben preciso e finisce con la fine dell’indagine. Qui parliamo di dinamiche storiche molto complesse, per cui parlare della strage e dire la famosa frase «strategia della tensione» significa dover aprire un capitolo di storia praticamente infinito. Noi abbiamo cercato di spezzettarlo, con dei rimandi che siano evidenti. «Attenzione, non è finita qua. Questa spiegazione che vi diamo è solo un primo gradino. Ma voi seguite questa scia, leggete, informatevi, noi purtroppo qui ci dobbiamo fermare». Altrimenti, se avessimo raccontato tutto, legando tutto con dei fili, avremmo corso quel rischio che è quello della dietrologia, dell’unica mente. Che non voglio dire sia un qualcosa di sbagliato, ma se si riunisce tutto, anche un evento enorme come Piazza Fontana si scioglie in questo mare. Come se fosse tutto un qualcosa di così insormontabile che si finisce per metterlo da parte e rimuoverlo. Tante cose le abbiamo potute solo sfiorare. Ecco quindi che col senno di poi, se avessimo dato retta al luogo comune che vuole che sia troppo difficile ricostruire, cercare di ricostruire qualcosa, cosa avremmo ottenuto? Avremmo ceduto alla tentazione di lasciar perdere, di dimenticare. I brutti ricordi si dimenticano. E avremmo fatto il gioco di chi queste cose le ha rese complicate. Perché non è che i fatti siano complicati intrinsecamente. Lo sono diventati perché qualcuno lo ha reso possibile. Sappiamo benissimo che per Piazza Fontana c’è chi ha fatto uscire i principali testimoni e imputati dal Paese, ci sono stati altri che hanno coperto, nascosto, trafugato. Molti documenti sono spariti, altri marciscono per mancanza di fondi. Noi dobbiamo ricordare, riflettere. E la nostra speranza è che questa trasmissione, ora in dvd e in libro, possa servire a questo. Per quanto riguarda la costruzione delle puntate, noi abbiamo un metodo ormai collaudato. Prima viene preparato, da uno dei nostri giornalisti, una specie di dossier. Su questo dossier ci mettiamo tutti assieme a studiare, cominciamo a pensare su chi rivolgere l’attenzione. Dopodiché facciamo un elenco di persone da intervistare, le sentiamo una prima volta e poi a volte anche una seconda. Contemporaneamente c’è la raccolta di tutti i materiali cartacei, che arrivano a me. Poi raccogliamo il materiale video. La Rai ha un archivio enorme, una vera e propria memoria storica. Per Piazza Fontana mi sono arrivate qualcosa come cinquanta videocassette. Poi ci sono i libri da leggere. Dopo questo lavoro enorme, facciamo un altro incontro tutti assieme. Si media, tra come io vorrei raccontare la storia e come invece i miei collaboratori ritengono giusto che venga raccontata. Come tempi, i nostri casi storici mediamente richiedono un mese di lavoro; Piazza Fontana ne ha richiesti due. Possono sembrare pochi, ma non lo sono. Anche perché i tempi televisivi hanno le loro leggi, così come i tempi editoriali. Non è che puoi impiegare cinquant’anni a scrivere un libro, arriva il momento in cui lo devi consegnare. E lo stesso vale per le trasmissioni. Quando si comincia ad avere la data dello studio, tutto quello che non è ancora stato fatto non si può più fare. Dopodichè, in occasione del libro e del dvd che siamo qui a presentare, io ho voluto rivedere il tutto, rivedere il te- Direttore responsabile Mario Ciancio Sanfilippo Coordinatore Gianni Bonina Anno IX, n. 8 Martedì 17 aprile 2007 Registrazione Tribunale di Catania n. 11/99 del 24/4/99 Spedizione in Abb. Post. Art. 2 comma 20b legge 662/96 Stampa E.TI.S. 2000 S.p.A. Catania sto, aggiungere i materiali… parlo del cartaceo naturalmente, perché ovviamente la puntata non potevo rigirarla. Un altro problema che riguarda queste puntate, è che ci sono un sacco di cose che non si possono dire. È anche giusto, perché se non si hanno le prove per dire qualcosa, non la si può dire. Però, come dicevo prima, storicamente potrebbero essere dette. E spesso veniamo rimproverati dai nostri telespettatori, che ci scrivono dicendo «Perché non avete detto questa cosa? Si sa che è così». Certo, si sa, ma in televisione non si può dire. Se no prenderemmo le querele; personalmente, mi scoccerebbe ma potrei anche essere così coraggioso da prendermela, la querela. Ma è la televisione che non me lo lascerebbe fare; non le vogliono, le querele di un certo tipo. E allora il problema dei misteri italiani è questo. Che poi, qui devo aprire una parentesi. Ogni volta che parlo in pubblico di «misteri» e c’è assieme a me Paolo Bolognesi, che è il presidente dell’associazione «Vittime del 2 Agosto», ecco che lui mi sgrida. E ha ragione: questi non sono misteri, sono segreti. Mistero è una parola che vale per quelle cose che non puoi conoscere se non con un atto di fede. I segreti sono quelle cose che si potrebbero sapere, se solo si riuscisse a trovare quella carta in cui c’è scritto. Queste cose, c’è qualcuno che le sa. Ma quando ci occupiamo di tutto ciò, ci si trova davanti a un intrico tremendo. Quindi, un sacco di persone che politicamente considero cattive, moralmente considero cattive, non posso chiamarle «cattive», perché non sono mai state condannate. Questa è un’altra difficoltà di cui tenere conto nel fare queste trasmissioni. Ci sono moltissime persone che non ho nominato perché se l’avessi fatto avrei dovuto specificare eccessivamente il loro percorso giudiziario. Alcune cose però ci sono, le sappiamo. Ci furono, per esempio, dei poliziotti che la videro giusta fin dall’inizio. Il commissairo Iuliano, un bravo poliziotto che stava a Padova e che intuisce fin dall’inizio come sono andate le cose. Però poi si scontra con un sistema che è molto più forte di lui ed è costretto ad arrendersi. Vedete, è storicamente e giudiziariamente stabilito che i cattivi, in questo caso, sono parte della cellula veneta di Ordine Nuovo. Sappiamo che tra i cattivi ci sono persone dei servizi segreti italiani che hanno depistato. Sappiamo che almeno a livello morale i cattivi sono anche parte dei servizi segreti americani che hanno saputo - dopo che era successo - qualcosa che non ci hanno detto. Queste sono tutte cose che posso dire senza timore di querele, perché appartengono a sentenze passate in giudicato. Abbiamo anche alcuni nomi, perché la sentenza dice che Freda e Ventura sono responsabili della strage, anche se non possono essere processati. Quindi, c’è gente di cui io ho potuto parlare; c’è gente alla quale ho potuto solo fare accenno. C’è gente che non ho potuto nemmeno nominare. Giusto così, perché i processi sono andati come sono andati; mi sarebbe piaciuto parlarne di più, ma anche questa, se vogliamo, è un’altra storia. Ci sono poi delle altre cose da dire. I milanesi parteciparono in centomila ai funerali delle vittime della strage. E io sono fermamente convinto che quelle facce arrabbiate furono il primo passo di una presa di coscienza da parte della gente. Se dopo Piazza Fontana non sono avvenute altre cose tremende che le persone che hanno messo la bomba si auguravano che succedessero, è stato anche merito di quelle facce. Che hanno fatto capire a qualcuno che la popolazione non ci stava. Concessionaria pubblicità Pubblikompass tel.: 02.24424611 email: [email protected] REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE E TIPOGRAFIA Viale Odorico da Pordenone 50 - 95126 Catania email: [email protected] - tel: 095.330544 Abbonamenti Annuale 20 euro Conto corrente postale n. 218958 intestato a: Amministrazione Stilos Viale O. da Pordenone, 50 95126 Catania Distribuzione nazionale Parrini & C. S.p.a. Aurelio Picca è un bravo scrittore e poeta di questi nostri anni. Lo seguo con interesse dai suoi esordi, che risalgono al 1990, quando pubblicò in una collana di Gremese diretta da Enzo Siciliano denominata Gli spilli". Quel suo primo libro - che si chiamava La schiuma - era una raccolta di racconti, ma erano racconti di un poeta. La poesia e la prosa vi convivevano, sfumavano una nell’altra, sembravano combinarsi in un processo osmotico. Poi Picca ha scritto romanzi, che però non erano mai romanzi in senso classico. Quest’ultimo libro che ho per le mani, L’Italia è morta, io sono l’Italia (Edizioni L’Obliquo), consegnatomi personalmente dall’autore, è invece un poemetto che va verso la prosa. Il libretto, assai ben confezionato, è corredato da 14 immagini-istantanee di Giovanni Frangi che viene anche citato in un verso. Il poemetto di Picca ha un contenuto civile. I primi nomi che vengono a mente - leggiamo sul sito della rivista "Omero" - sono il Pasolini delle Ceneri di Gramsci e Malaparte. Il tono del poeta è astioso, indignato, come se sentisse su di sé il carico di un qualche abissale tradimento (parola che ricorre spesso nell’opera): «Io anni fa andavo in gita a Salò/mentre il mondo se la spassava a Positano a cuccia nella canadese o a New York/e poi sono tornato e ritornato per mill’anni/a respirare il lutto dell’Italia». Un paio di versi ancora e Picca ci assicura: «Io che non sono fascista ho pianto amici e nemici». Ma il lettore, pur incantato dai versi, resta interdetto. Perché scegliere proprio Salò per iniziare il suo poema sull’Italia? Sfogliamo altre pagine e troviamo versi pulitissimi che additano allo sfacelo morale del Belpaese, dell’Italia «ingabbiata nel Maggioritario / o nel prossimo rivitalizzato Proporzionale». «Oggi che l’Italia è morta io mi sento dio» pare tuonare la voce del poeta. Ancora oltre ci imbattiamo in agghiaccianti «ventri sgualciti» di bambini. Ma quando il poema civile sfuma nel libello anarchico: «intorno agli ospedali e ai carcerati / e sputerò al volo sulle porte dei tribunali / perché la legge è quella della libertà e della rivolta», cominci a vederci più chiaro. L’anarchismo ribelle e vitalistico che marca queste pagine potrebbe sconfinare in qualche mito superomista, ma altrove sono invece i bambini malati di cancro dell’ospedale Bambin Gesù a ispirare il poeta in una straziata sequenza, che si conclude con un verso poco ispirato: «dinanzi ai tramonti scocciati come latta». Ma è un caso isolato. Il poemetto civile di Picca ha «ritmo» e «visione», incalza ancora con immagini virate a lutto: «o sono le foto dell’Obelisco del Duce / che scende fino al Foro Italico per la gloria / delle Ali soffocate nel piccolo sangue nostro…» Certo il mito fascista è dietro l’angolo, qualcuno potrà storcere il naso su questi versi che prediligono di gran lunga il lutto fascista rispetto a quello partigiano. Ma è questione di stile, direbbe forse Picca, e avrebbe ragione. Altrove si indirizza il fiele dell’indignazione sulla «prole di veline sverginate nel Gran Galà di Miss Italia» e qui ci trova più consentanei. Così come per «e i calendari di femmine con ’e zinne fora, su cui nel tempo borgataro camionisti/e meccanici ci sborravano santamente negli occhi/tra il grasso delle officine o dentro i cessi…» Altri luoghi simbolici di questo libro sono il Sacrario militare di Redipuglia, la tomba di D’Annunzio, Venezia, Milano di Testori, Roma, Napoli, Firenze… Insomma, un’autobiografia dell’Italia illuminata da una tensione ora epica ora lirica. Nelle Ceneri Pasolini piangeva decisamente un’altra Italia, ma il sentimento di nostalgia per un mondo premoderno e «perduto» è simile. Picca si definisce sacerdote antimodernista e guida macchine costose e sogna moto di grossa cilindrata sulle quali sfrecciare nei cimiteri e frattanto vede traditori in agguato anche dietro la sagoma di Berlusconi: «Milano ha caseggiati tristissimi / che chiamano loft, Milano costa cara / Milano ha Berlusconi che vede e provvede / ma non è un uomo cattivo: / è uno di quegli italiani / che saranno epicamente traditi». Piacerà senz’altro a Buttafuoco questo libriccino, che mostra come esistano poeti e intellettuali di valore anche a destra. Ma piace anche a noi, che pure siamo idealmente così distanti. Ci piace sentir parlare di patria e d’amore senza indulgere mai alla retorica patriottica e sentimentale. narratori italiani S C A F F A L E PATRIZIADEBICKE VAN DER NOOT, L’oro dei Medici, pp. 335, euro 16,60, Corbaccio, 2007 L’Italia è ormai in mano agli stranieri, ma la sua splendida cultura si diffonde in tutta l’Europa. Ma anche i banchieri italiani sono tra i più potenti d’Europa e Firenze stessa è in mano a una dinastia di banchieri, i Medici. L’oro dei Medici fa gola a molti: ecco perché corre pericolo di essere rapito il figlio del granduca di Toscana Ferdinando I, vittima di un complotto di spie, diplomatici e preti corrotti. Ma ne viene a conoscenza il fratellastro di don Ferdinando, don Giovanni dei Medici, comandante della flotta granducale, nonché poeta, architetto e musicista. Dopo un’indagine personale sfiderà i mandanti affrontandoli in battaglia navale. MARCELLO MONTALDO, Marietta, pp. 98, euro 14, Chronos, 2006 Quasi una storia vera quella di Marietta, nel senso che di donne come lei nei primi del Novecento ce ne sono state tante e di storie buie come la sua tantissime. Spinta dalla famiglia ad un matrimonio senza amore, Marietta trascina la sua vita, nello squallore della provincia del Nord; cerca di adattarsi ma non ci riesce e così torna dai genitori, confidando in un futuro che non manterrà le sue promesse. Storia minima di una donna che si intreccia con gli avvenimenti a cavallo del Novecento. NANDO ROMANO, Himera, pp. 349, Prohistoria, 2006 Scritto da Nando Romano, dialettologo foggiano che è stato dirigente scolastico in Argentina e opera per la diffusione della lingua italiana presso il consolato generale di Rosario, questo romanzo racconta la storia di Salvo, nobile palermitano appassionato di antiquaria, che fa parte dell’Accademia dei Riaccesi e vive per due amori: la Wunderkammer e la sua bella serva Luna. Siamo nella Sicilia tra il 1672 e il 1676 e Salvo, consigliato da un messinese, don Raimondo Marquett, si reca a Buonfornello, sul sito di Himera, per incontrare un bandito e trovare, forse, la «truvatura». RAFFAELLA BEDINI, Sei parte di me, pp. 174, euro 8,90, Newton Compton, 2007 Protagonista di questo romanzo è una ragazza di una città del Nord. Giorni tutti uguali, domeniche tutte uguali con la musica dello stereo, serate al pub movimentate da qualche rissa; un amore delicato per Deda, nato all’istante, che rompe l’apatia della provincia e l’indifferenza per tutte le cose. Il linguaggio è a volte diretto e colorato ma anche cupo quando gioia e tristezza, amore ed odio, si fondano insieme fino all’ultima pagina e tutto si spezza in un solo istante per il dolore. L’autrice evidenzia il torpore dell’adolescenza, il malessere esistenziale tagliente che rende il mondo circostante, così come è percepito, del tutto ostile. MARCO BETTINI, Mai più la verità, pp. 393, euro 18,90, Piemme 2007 In una comunità di tossicodipendenti, chiamata «Mai Più», si suicida una ragazza davanti a molti testimoni mentre lo stesso responsabile della struttura, Ernesto Magnana, provava a dissuaderla. Roberta Ceredi che lavora nella comunità informa il poliziotto Mormino dei loschi metodi adottati nei confronti dei tossicodipendenti e con lui si trova a intraprendere una storia d’amore. Mormino non ha prove e chiude il caso fino a quando si ha il ritrovamento di un cadavere nella palude e ritorna a indagare sul caso e sulla stessa comunità. Trova ostacoli nelle indagini per l’omertà opposta da tutti ma alla fine riuscirà a giungere a una conclusione trovando le risposte proprio in quella palude. S t los VINCENZO RABITO . La sorprendente vicenda di un semianalfabeta che a settant’anni ritiene di avere avuto una vita straordinaria e la scrive sin dall’inizio: come può farlo un semianalfabeta. La sorprendente accoglienza di parte della critica che grida al capolavoro e stabilisce di avere scoperto un autentico talento letterario R e c e n s i o n i N FEDERICA DI LUCA egli anni tra il 1969 e il 1975 un cantoniere siciliano si chiude nella propria stanza e, ingaggiando una lotta contro il proprio semianalfabetismo, digita su una vecchia Olivetti la propria autobiografia che è un fandango vertiginoso di errori di utte le specie: ortografici, grammaticali, sintattici. Vincenzo Rabito ha scritto 1027 pagine a interlinea zero nel tentativo di riferire tutta la sua «molto maletratata e molto travagliata e molto desprezata» esistenza. Dopo la morte dell’autore l’opera è rimasta in un cassetto fino al 1999 quando il figlio Giovanni l’ha inviata all’Archivio diaristico nazionale del Pieve di Santo Stefano. Nel 2000 ha vinto il «Premio PieveBanca Toscana» per memorie e epistolari inediti. Pubblicato in volume dalla Einaudi il testo di Rabito diviene presto un caso letterario, montato più da alcuni critici che dal pubblico: Terra matta desta l’attenzione di quella critica che si lascia entusiasmare più dal linguaggio che dalla letterarietà. Il linguaggio aspro, denso di sicilianismi, esprime, infatti, l’oralità propria di questa scrittura. Vincenzo Consolo parla di «documento straordinario», giudizio incoraggiante da parte dello scrittore che definisce se stesso «un archeologo della parola». Terra matta è la prova ulteriore del trionfo del vernacolo siciliano in ambito letterario: il vigore espressivo del dialetto siciliano, patrimonio culturale dell’isola, sulla quale fiorì, presso la corte di Federico II, il volgare illustre. Si badi che Vincenzo Rabito non indulge in velleità letterarie: l’ex ragazzo del ’99 asseconda il desiderio di raccontare, con semplicità, le vicende di chi tutta la vita ha dovuto lottare per emanciparsi dalla miseria, salvo poi trovarsi «come la tartaruca, che stava arrevanto al traguardo e all’ ultimo scalone cascavo». Le vicende del protagonista si intrecciano dunque con i principali avvenimenti storici del Novecento: molteplici le peripezie, gli espedienti escogitati da Rabito per salvarsi dal mattatoio della Prima e poi della Seconda guerra mondiale. Sempre scettico, disincantato, dopo la vittoria contro gli Austriaci, anno- L’uomo che scrisse la vita contromano ta: «Abbiamo vinto la guerra ma abbiamo perso il manciare!» Con altrettanto cinismo vivrà il fascismo e come molti, negli anni Trenta, cercherà fortuna in Germania, sino a quando, a causa delle atrocità del nazismo, farà ritorno a Chiaromonte Gulfi come fatto- IL LIBRO VINCENZO RABITO "Terra matta" pp. 411, euro 18,50 Einaudi, 2007 Dalla Prima guerra mondiale alla terza età La vita di un contadino siciliano negli anni dalla Prima guerra mondiale fino alla terza età scritta come può farlo un semianalfabeta. re di un mulino districandosi fra «bricanti e carabinieri». Il protagonista prende parte alla corruzione politica del fascismo, fino a inseguire «in uno miserabile diserto» il sogno del grande impero coloniale, quindi «impriaco di nobiltà» tenta la scalata sociale per mezzo di un matrimonio combinato, salvo poi trovarsi con la «querra in casa». Infine godrà del benessere economico degli anni Sessanta, «la bella ebica» nella quale ha allevato i suoi tre figli. Umanissimo, vitale, il libro di Rabito dipinge un affresco denso della Sicilia. Nella prospettiva originale attraverso cui l’autore restituisce mezzo secolo di storia d’Italia, è imprescindibile da un’analisi antropologica del Meridione. La povertà cronica delle campagne del Mezzogiorno, la presenza di forze di lavoro eccedenti le povere risorse locali, si accompagnano a una civiltà contadina che solo nell’esercizio del ragionamento individua la risorsa necessaria alla sopravvivenza. Terra matta documenta così lo spirito d’iniziativa, il coraggio quotidiano, la tenacia di molti siciliani che, attingendo a una cultura contadina millenaria, credono nella dignità del lavoro. I tentativi, certo, disperati adottati da Rabito per sollevarsi dalla povertà, i numerosi espedienti concepiti per avanzare socialmente, non sono estranei alla conflittualità di una terra, dove, fin dagli inizi del Novecento, le agitazioni sociali furono represse con metodi di intervento brutale e l’immigrazione venne comunque favorita per ridurre la pressione sociale e demografica. Il ricorso costante all’espediente scandisce dunque l’esistenza di una generazione che, vissuta fra le due guerre, ha prima sacrificato la giovinezza «a tuorno a tuorno del Piave» e poi ha avvilito la ragione in favore di astratti miti nazionalistici. Terra matta testimonia, in definitiva, l’irruzione della storia in un mondo ancora legato a una visione della vita sostanzialmente tradizionale e racconta gli effetti del progresso su esistenze da sempre, scandite dal ritorno ciclico delle stagioni. SECONDA LETTURA Ma questa smania di raccontare è la stessa della tradizione orale Di pazzesco c’è solo il linguaggio, un dialetto contadino che vorrebbe italianizzarsi e che fa venire gli strizzoni per la pena di immaginare l’autore sforzarsi di esprimersi in una lingua che praticamente sconosce. Per il resto Rabito nulla dice di nuovo rispetto alla tradizione orale siciliana. Chi ha mai ascoltato un cantastorie o un contastorie (da Busacca a Bella a Santangelo a Strano a Garofalo a Trincale...) altro non risente nel profluvio di Rabito che la pronuncia di una genia, tutta siciliana, di cantori e cuntisti che si sono messi in piazza per raccontare: con la differenza che Rabito non ha voluto narrare fatti altrui, veri o inventati, ma i propri, non esitando a scrivere in un italiano di sua spregiudicata fattura che può piacere a chi ami ancora il pittoresque siciliano ma che nasce in realtà dal chiaro proposito di «parlare» in pubblico. Ogni siciliano ignorante che si rivolge infatti ad estranei lo fa sempre in italiano. Ancor più se deve farlo per iscritto. Il risultato è un faldone di memorie sostenuto adesso da un titolo dove l’aggettivo «matta», sconosciuto alla koiné siciliana, specifica un sostantivo del tutto estraneo al contenuto del libro, il quale non tratta di una terra quanto di una vita, sicché il titolo corretto avrebbe dovuto essere "Vita pazza". Ma l’abbiamo detto: la vita di Rabito non ha nulla di eccentrico o di straordinario perché è stata del tutto speculare a migliaia di altre in una Sicilia forziere di memoriali, tutti in attesa di figli entusiasti disposti a farli pervenire a concorsi, Archi- pagina Nella foto Vincenzo Rabito, del quale Einaudi ha pubblicato Terra matta vi ed editori in cerca di bibelots nuovo conio: non c’è stato infatti un reduce che non abbia in Sicilia scritto o raccontato de visu le sue memorie assecondando quella «smania di raccontare» che Calvino metteva in capo all’istanza neorealistica, una smania che proprio nella provincia di Ragusa, quella di Rabito, ha avuto largo seguito ingegnandosi in autori come Raffaele Poidomani, Nunzio Di Giacomo, Maria Occhipinti, Salvatore Fiume e - con ben diversi accenti - nello stesso Bufalino. Non è però la stessa smania che percorre come una febbre l’Italia degli stessi decenni, perché in Sicilia si è andata precisando in una voce tutta esterna, echeggiata nelle piazze, nei circoli, nei crocicchi e nei bar: quella degli anziani pronti e lesti a raccontarsi, con lo stesso stile, la stessa intonazione e gli stessi argomenti che Rabito ha utilizzato per scrivere anziché esibire oralmente. Uomo timido e schivo, Rabito frequentava poco la piazza di Chiaramonte e unica sua e rada meta pubblica era il circolo operaio, dove però si teneva alquanto discosto. Se avesse avuto un altro carattere, vantando il temperamento espansivo e gioviale di tanti altri reduci, come lui protagonisti delle stesse res gestae, avrebbe versato il grumo del suo malanimo e la piena dei suoi settant’anni ritenuti traboccanti accrescendo a una cantoniera la farragine di cunti dei tanti altri nonni tornati dalla guerra con una vita narrabile; e non avrebbe avuto motivo di placare la sua smania scrivendola. Gianni Bonina V 3 O C I PREMIO DESSÌ NARRATIVA E POESIA XXII EDIZIONE La Fondazione Dessì e il Comune di Villacidro, col patrocinio del Consiglio regionale della Sardegna, hanno promosso il concorso letterario «Giuseppe Dessì». Il Premio si articola nelle sezioni di narrativa, poesia e premio speciale della giuria. Il Premio è dotato di 5 mila euro per ciascuna sezione. Verrà inoltre assegnato un premio 1.500 euro netti a ciascun finalista delle sezioni narrativa e poesia. I volumi di narrativa e di poesia devono essere spediti, in numero di 14 copie, direttamente alla segreteria del premio entro e non oltre il 31 maggio 2007: Fondazione Giuseppe Dessì via Roma 65 09039 - Villacidro (Ca) tel. 070.9314387. www.fondazionedessi.it E-mail: [email protected] ANONIMA SCRITTORI RACCONTI IN PILLOLE DI GENERE BELLICO Nel quadro del progetto «Modica Quantità» dell’associazione Anonima Scrittori, sono richiesti racconti di genere che non devono superare le 2500 battute. Per il prossimo appunatmento bimestrale è il turno dei racconti di guerra: «Pillole Mimetiche» da inviare alla casella [email protected] entro il 31 maggio 2007. Il bando su http://www.anonimascrittori.it/modica/pros sima.php. Chi vuole leggere le Pillole sui generi già affrontati invece può iniziare da questa pagina: http://www.anonimascrittori.it/modica/index.php PREMIO GRINZANE NASCE A NEW YORK IL GRINZANE-MASTERS AWARD Il Premio Grinzane Cavour istituisce un nuovo premio, il "Grinzane-Masters Award", dedicato di anno in anno a un maestro indiscusso della letteratura mondiale. Per il 2007 il vincitore è Philip Roth, che ha ricevuto il premio alla Italian Academy presso la Columbia University di New York, come riconoscimento per la carriera. A lui spetta inoltre il merito di aver contribuito a diffondere negli Stati Uniti l’opera di Primo Levi. Proprio alla memoria dello scrittore sopravvissuto ad Auschwitz, è stata dedicata la prima edizione del «Grinzane-Masters Award». FOGGIA SEI AUTORI PER SEI LIBRI asdf asdf «Libri a trazione anteriore» è un progetto di BoooksBrothers e della Biblioteca provinciale di Foggia «La Magna Capitana». Come per la prima edizione dell’anno scorso, la manifestazione si sostanzia in un ciclo di incontri con autori italiani. Sei autori e sei titoli. Gli autori e i sostenitori della scorsa edizione saranno presenti ad ogni incontro, accompagneranno e introdurranno i nuovi autori e ogni nuovo libro. Gli autori di quest’anno sono Carlo D’Amicis (Escluso il cane, minimum fax), Ottavio Cappellani (Sicilian Tragedi, Mondadori), Mariolina Venezia (Mille anni che sto qui, Einaudi), Sergio Claudio Perroni (Non muore nessuno, Bompiani) e Elisabetta Liguori (Il correttore, peQuod). Il 20 aprile sarà presentato D’Amicis da Nicola Lagioia, il 27 Ottaviani da Gaetano Cappelli e Enzo Verrengia, il 4 maggio Venezia da Diego De Silva, l’11 maggio Perroni da Oscar Iarussi, il 18 maggio Liguori da Mario Desiati. La serata finale di premazione è fissata per il 20 ottobre. narratori italiani 4 I n t e r v i s t e E’ GIOVANNI CHOUKHADARIAN forse curioso che sia un editore del Triveneto, come Meridiano Zero, a pubblicare alcuni fra i più brillanti noiristi del ricco Meridione d’Italia; curioso e, al contempo, non poi così rilevante. In ogni caso, l’anno scorso toccò al giovanissimo Angelo Petrella, quest’anno è la volta dell’appena meno giovane Salvio Formisano che, nell’Accordatore di destini presenta una figura del tutto nuova nel panorama letterario italiano recente. Qui si narra infatti di un uomo all’apparenza dinsincantato fino al cinismo più bieco, che accetta di lavorare per un’agenzia d’investigazioni private nella quale subito eccelle per precisione e efficienza dei suoi risultati. Il fatto è che l’uomo non è cinico per nulla e s’accorge presto del potere che ha, annullando magari una prova fra tante di un tradimento (ma quella decisiva!) di cambiare le vite di persone cui, in corso d’indagine, s’è a vario titolo affezionato. L’accordatore di destini di Formisano è in realtà uomo di grandi e profondi sentimenti, amante delle donne e dell’amore per esse. Coprotagonista di quest’esordio, scritto con lingua vivace e mai corriva, piena di raffinate citazioni musicali, è la città di Napoli. Formisano ama la sua città e la descrive fuori da ogni convenzione o campanilismo. Costruito con sapienza narrativa non comune, il romanzo ha un epilogo sommesso e a un tempo fragoroso. Sospeso fra arroganza e tenerezza, questo Accordatore di destini ha il fascino di una musica in parte nota, comunque sempre nuova. Fosse una canzone, non sarebbe una delle molte di Paolo Conte (ma non solo lui) citate nel testo, sì piuttosto uno standard americano: cioè "All the things you are"; e se fosse uno sportivo, l’uomo di Formisano - e in reltà Formisano stesso - sarebbe un Diego Armando Maradona dei sentimenti, dotato di quel tocco in più che contraddistingue i fuoriclasse. Del suo libro e di sé Salvio Formisano ha parlato con Stilos. Per accordare gli altrui destini, soprattutto sentimentali, ci vuole più cinismo, disincanto, bontà d’animo o sentimentalismo d’antan? Di che si nutre il tuo accordatore? Gli altrui destini non si possono accordare. Il protagonista del mio libro si dà quest’incarico, perché perde un po’ per volta il senno, il contatto con la realtà. Una condizione in cui molti, sempre più spesso, vengono a trovarsi. La cronaca ce ne dà continui esempi: vicini di casa impazziti, senatori ottusi al punto da farci rischiare altri cinque o dieci anni di purghe a base di estratti di biscione e via dicendo. In tutti noi c’è un gap tra la realtà e la percezione che abbiamo di essa. In qualche caso il gap diventa talmente grande che porta alla follia. È il caso dell’investigatore che, senza rendersi conto dell’assurdità del suo intento, decide di diventare un accordatore di destini. Da sempre grande camminatore, osservatore, addirittura studioso dei comportamenti altrui, continua a farlo in una veste nuova, quella di investigatore privato, e viene sopraffatto dallo squallore, dal disfacimento di vite, da donne e uomini disgustosi. Rispondendo al primo punto della domanda, dico che per mettersi in testa di fare l’accordatore di destini bisogna essere folli e buoni d’animo. Di cosa si nutre il mio accordatore? Soprattutto di una incrollabile convinzione di essere nel giusto e di dover quindi smettere di riflettere, di assistere passivamente, ma di agire, con coraggio e coerenza. Le conclusioni cui è giunto dopo anni di riflessioni, lui non lo può capire, come non lo capiscono i folli, sono però viziate da una evidente, ma ben dissimulata, perdita di contatto con la realtà, che lo fa sentire vicino a Dio e quindi in diritto di togliere la vita ad un uomo e una donna «marciti», per salvarne un altro, buono e quasi artista. Come mai un personaggio del genere parla tanto con parole, nemmeno troppo note, R e c e n s i o n i N SIMONE GAMBACORTA S t los Nella foto Salvo Formisano, autore per Meridiano Zero di L’accordatore di destini IL LIBRO Ossigeno pagina SALVO FORMISANO "L’accordatore di destini" pp. 154, euro 9 Meridiano Zero, 2007 BENEDETTA CENTOVALLI Investigatore privato in veste di riparatore LA LIBRERIA IDEALE Un investigatore privato, incaricato di spiare persone la cui vita tralignata interessa ai committenti, si interessa fin troppo al loro destino fino a impietosirsene: e trova come correggerlo presentando rapporti in positivo e dunque salvando le persone nel mirino di conseguenze tutte a loro danno. L’investigatore interviene nell’esistenza del prossimo e la accorda a un ideale di armonia. Ma così facendo si ritrova a un punto che è ormai senza più ritorno. SALVO FORMISANO . «Il mio accordatore si nutre di una incrollabile convinzione di essere nel giusto e di dover quindi smettere di riflettere, di assistere passivamente, ma di agire, con coraggio e coerenza. Le conclusioni cui è giunto dopo anni di riflessioni sono viziate da una evidente, ma ben dissimulata, perdita di contatto con la realtà, che lo fa sentire vicino a Dio» È arrivato un angelo a Napoli che ripara le vite danneggiate della canzone d’autore italiana? Cosa c’entra, per esempio, Paolo Conte con Napoli? Perché l’accordatore è un uomo colto, che ama quindi Paolo Conte, il quale, per me, non è più solo un grande cantautore, un artista immenso, è il depositario della verità. C’entra con Napoli intanto perché c’entra con me, che sono napoletano e ho passato in sua compagnia, anche se lui non lo sa, tantissimo tempo negli ultimi trent’anni. Poi ci sono almeno un paio di canzoni in cui parla, anche se di sfuggita, di Napoli, e ancora due o tre canzoni in cui si diverte e ci diverte a cantare con un accento napoletano, quasi buono. L’idea comunque di far rispondere l’accordatore alla fioraia con parole di Paolo Conte mi è venuta pensando ad un vecchio amico che anni fa ad una festa, a Londra, rispose a tutti, per l’intera serata, solo con parole e frasi di canzoni di Frank Sinatra. Le conosceva tutte. Cosa pensa l’accordatore delle donne? E che ne pensi tu? Evito risposte banali e ti rispondo ancora con Paolo Conte: «Le donne odiano il Jazz, non si capisce il motivo. Le donne si sa, a volte sono scontrose o forse han voglia di fare la pipì. Ne abbiam viste tante di regine, passar sull’altro marciapiede, al sole e noi all’ombra. Ombra e sole, è sempre così». E poi ti rispondo con parole mie: le amo. Mi piace guardarle, tutto mi attrae della femminilità. Non solo, ma anche, quello che piace a tutti gli uomini. Mi piace anche, quando è bello, il loro modo di camminare, di muoversi, la voce. Quando sono intelligenti, simpatiche e anche belle mi innamoro. Non voglio, naturalmente, sproloquiare sul nuovo ruolo delle donne nella società, dell’ex sesso debole che ora è diventato forte e gli uomini, che, poverini, sono smarriti di fronte a queste nuove compagne così cresciute, forti, indipendenti. Si è già scritto e detto di tutto su questo. Mi limito a dire che se è vero che ci sono tanti uomini, che, poverini, fanno fatica a confrontarsi con queste splendide creature sempre più in crescita, tanto meglio per quelli come me che non hanno di questi problemi; c’è meno concorrenza. No, veramente, è un problema serio per le donne quello della mancanza di uomini interessanti. Ho molte amiche in gamba, di tutte le età, che passano periodi lunghissimi da sole, perché il mercato offre loro poco o niente di interessante. Fai il soggettista per il cinema. Questo libro è stato pensato anche in quella direzione o no? In ambedue i casi, perché? In realtà c’è stato un errore nella quarta di copertina. Io non ho firmato diversi soggetti e sceneggiature, com’è scritto, ma un solo soggetto e una sceneggiatura: Vesuvio, che rileggendo adesso, dopo un paio d’anni mi pare abbia bisogno di molto lavoro per renderla compiuta. Quando feci notare all’editore l’errore, mi disse che era troppo tardi, non si poteva correggere perché il libro era già in stampa. Mi arrabbiai e lui mi rispose: tutti dicono un po’ di balle e proprio tu ma che napoletano sei? Sono un napoletano un po’ atipico, a cui non piace dire palle. Marco Vicentini, lo disse solo per fare una battuta, invece altri dicono troppe cazzate su Napoli e i napoletani. Al telegiornale si parla solo di certi napoletani, una minoranza, seppur molto numerosa. Una realtà, una tragedia grande, grandissima, che è sotto gli occhi di tutti e su cui non voglio assolutamente glissare, anzi dico che bisognerebbe combattere in tutti i modi, ma proprio tutti. Ma non si può offendere, come ha fatto indegnamente Giorgio Bocca da Fabio Fazio, una cittadinanza intera, che è fatta, voglio ribadirlo, soprattutto di gente meravigliosa, che non ha eguali in quanto a creatività, voglia di lavorare, e bene, e generosità. Il libro non è stato pensato per il cinema, anche se riconosco c’è una bella idea per un film. Anzi più di un idea, c’è già quasi un impianto, una struttura su cui lavorare per una buona sceneggiatura. Perché? Perché ho visto più film che letto libri, e ancora adesso amo più il cinema che la letteratura. Nell’accordatore ho cercato di raccontare per immagini, avvantaggiandomi della possibilità di aggiungere molte notazioni psicologiche che in sceneggiatura invece non si scrivono. A chi dei molti personaggi che metti in scena ti senti più vicino? E di quale delle molte donne citate t’inanmoreresti? All’accordatore naturalmente. Non sono folle e soprattutto non ho mai ucciso nessuno, ne pensato di farlo. Ma un po’ della mia megalomania, che con la maturità sono quasi riuscito a cancellare, è venuta fuori in questo breve romanzo. Di Gina, la fioraia, potrei innamorarmi, o avere con lei almeno una storia. C’è tanto bisogno di donne semplici, amorevoli, premurose. Queste qualità non escludono necessariamente quelle di donna intelligente, colta, di buon gusto, a me più affine. Di che parlerà il tuo secondo romanzo? L’ho già scritto. Sto aspettando la fine del lancio de L’accordatore di destini per farlo leggere al mio editore, Marco Vicentini e alla editor Giulia Belloni. Parla di uno che suona la tromba ed è ancora più autobiografico, anche se purtroppo, pur amando molto la musica, non so suonare nemmeno uno strumento. Ci sono autori italiani - ma anche stranieri van bene - che ti siano piaciuti negli ultimi, diciamo, cinque anni? Qualche buon libro, ma nessuno moltissimo negli ultimi cinque anni, forse René Frégni de La citta dell’oblio, anch’esso pubblicato da Meridiano Zero. Mi nutro ancora, soprattutto di Simenon. Che cosa non sopporta un amante feroce della vita come l’accordatore di destini? E che cosa non tolleri tu? Lui non sopporta l’infamia, la meschinità, la mancanza di coraggio e di lealtà e nemmeno io le tollero. Ma per dire quello che mi fa veramente paura, citerò un napoletano immenso, Eduardo: a mme me fa paura sulamente ’o fesso. GIOVANNI D’ALESSANDRO. Come nasce uno stigma d’infamia Un amore censurato dalla realtà ei suoi precedenti romanzi Giovanni D’Alessandro si era mostrato incline ad esplorare il concetto di pietà. Il libro qualità che le consentono di andare avanti. d’esordio s’intitolava Se un Dio pietoso, men- Tutto pare deciso e preordinato, senza possibitre il finale de I fuochi dei kelt conteneva uno lità di cambiamento. Fino a quando non arriva struggimento lacerante, riassunto da una del- Helm, un austriaco venticinquenne in forza alle ultime frasi («Ti darà un solo colpo al cuo- la Wehrmacht, che dopo giochi di sguardi e caute manovre riesce ad re, perché tu non soffra»). aprirle il cuore. Il loro rapLa puttana del tedesco porto cresce piano, per acregistra un cambiamento GIOVANNI cumulo di gesti (parlano di rotta più esplicitamenD’ALESSANDRO te sentimentale. La prota"La puttana del tedesco" lingue diverse), di nascosto da tutti. È un amore gonista del romanzo si pp. 287, euro 17,50 impossibile, censurato in chiama Ada, una giovane Rizzoli, 2007 embrione dalla realtà. Epvedova madre di due fipure le cose proseguono, gli. Siamo nel 1943 maturano e si dispongono (D’Alessandro conferma la propensione alla narrazione storica), in sino a creare un incastro irreversibile che porAbruzzo, nella Conca di Sulmona, con la guer- ta i due a nutrirsi l’una dell’altro. ra ovunque. La vita di Ada procede tra mille Ada ed Helm si uniscono in una vicinanza che difficoltà, a cominciare dalla paura di non po- è fuga e astrazione: dal contingente, dalla stoter sfamare i bambini: ma la donna ha una re- ria, dalla cronaca quotidiana di una guerra disistenza muta e pugnace e una grande dignità, ventata condizione esistenziale. Un corpo ne riscatta un altro, reversibilità e reciprocità, conquista di uno spazio ulteriore, di un’area sospesa su una linea rigenerativa. I due si sottraggono al tempo storico e guadagnano un’esperienza totalizzante (l’osmosi e il cortocircuito) che li risarcisce dalla più cruda esperienza del mondo: il loro congiungimento elude l’ordine palese delle cose e li situa in un altrove incantato, che acquisisce una sorta di venatura metafisica; o che, per altro verso, li rende autori di un mondo possibile che innesca un meccanismo narrativo grazie al quale raccontano se stessi e sviluppano quella che sarà la loro storia. Il congiungimento vuol però ribadire se stesso e si impone nella continuità di una relazione che è soprattutto scandalo: la piccola, stravolta comunità paesana non tarda infatti a emettere una condanna; Ada, madre e vedova, riceve lo stigma dell’infamia («la puttana del tedesco») e affronta una guerra tutta privata, dove la prepotenza dell’amore assorbe ogni ipotesi di vergogna. Nel romanzo la psicologia vive per affioramenti ed è rimessa principalmente alle domande che Ada rivolge a sé, e del resto il campo dove si gioca la partita è quello ambientale, dato dai contesti e dalle situazioni: La puttana del tedesco, allora, è soprattutto la storia di una ribellione alla colpa, a uno stato di colpa indotto da un ambiente moralistico e ricattatorio. L’anatema, la lettera scarlatta fiaccano ma non vincono Ada, che rivendica il plurale che le appartiene con una personalissima forma di resistenza. La sincerità e la consapevolezza del suo agire sono d’altronde testimoniate dal rapporto ininterrotto con la figura del marito morto: Rino è un personaggio invisibile, è il ricordo stratificato dai giorni e dalle meditazioni; un’eco retroattiva alla quale Ada si rivolge di continuo, traendone una forza motrice che rimette la vita in trazione e che inocula il cromosoma della speranza. Ho ritrovato un appunto in fondo all’agenda dell’anno scorso. Avevo deciso di prendere nota delle letture di un anno. Come spesso accade mi sono fermata quasi subito. Forse mi sono distratta o come succede nei viaggi quando si parte con la valigia zeppa di libri per un soggiorno di pochi giorni, la lista non soddisfaceva appieno le mie aspettative di lettore esigente e vorace. Mi sognavo un’aliena ed ero semplicemente una lettrice. Bianciardi, La vita agra (riletto), Vorpsi, Il paese dove non si muore mai, Timm, Come mio fratello, Murasaki, Storia di Genji, Katayama, Gridare amore dal centro del mondo, Osamu Dazai, Il sole si spegne, Cancogni, Azorin e Mirò… Un tempo frequentavo le biblioteche, oggi il lavoro mi costringe a letture rubate, e la reperibilità dei testi diventa un elemento decisivo. Manlio Cancogni ad esempio in libreria non si trova più, negli scaffali è difficile scovare un suo libro, Azorin e Mirò, un suo piccolo capolavoro è assente da qualche anno. E stiamo parlando di un autore importante del Novecento italiano. Ma anche i testi nuovi spesso diventano invisibili dopo pochi mesi, e non importa quale sia l’editore, il meccanismo della rotazione non guarda in faccia nessuno, macina e va. Eppure quando si pensa alla libreria si immagina uno spazio-tempo regolato da due opposti meccanismi: la persistenza della memoria e l’inevitabile aleatorietà e selettività veloce del presente. Da una parte la nascita crescita e conservazione del catalogo e dall’altra la gestione delle novità. La qualità di una libreria misurata nella capacità di difendere un «proprio» catalogo e di selezionare le novità, nella responsabilità di questa selezione, come la qualità di un editore è affidata alla responsabilità della strategia e delle scelte. Perché in bilico sulla lama del mercato ai librai di oggi vorremmo chiedere di abitare il nostro tempo con un esercizio della memoria più creativo e con qualche azzardo personale. Edicola libreria biblioteca sono postazioni successive del rapporto tra parola scritta e storia, e la libreria nella sua posizione da mediana è il centro propulsivo della formazione della memoria, laddove si cominciano a depositare i primi sedimenti. Quando in una libreria l’assortimento diminuisce e aumenta la rotazione il catalogo rischia di estinguersi a favore delle novità di successo e tutti i testi a lento assorbimento vengono rapidamente espulsi dagli scaffali. Con la varietà e la ricchezza della proposta viene meno la libertà di scelta, viene minato il valore e il significato della lettura. Non è più possibile affidarsi a percorsi singoli di ricerca ma si rischia di venire incanalati e stritolati nella gigantesca macchina del consenso. Nella libreria come spazio-tempo è decisiva anche l’utilizzazione dello spazio, la collocazione dei libri. Oggi la categorizzazione è lo strumento più diffuso per ordinare i libri sugli scaffali. Categorizzazione e ordine alfabetico. Nella categorizzazione è fondamentale il tasso di flessibilità, di duttilità del sistema che viene usato. L’agilità delle categorie consente un utilizzo ampio, mentre la rigidità rischia di espellere tutti i generi intermedi, è un genocidio di ciò che non è facilmente identificabile, di tutto quello che esce dai formati riconoscibili. Naturalmente l’ordine alfabetico nelle categorie penalizza le collane e la forte personalità di case editrici che lavorano sull’identità. La praticità della ricerca di un titolo e di un autore azzera la riconoscibilità di una sigla editoriale. Esattamente il contrario di quello che ad esempio avviene nel mondo della moda. Che cosa succederebbe se trovassimo gli abiti ordinati per tipo e non per firma? Se il marchio non fosse garanzia di una linea di una tendenza e di una certa qualità? Così mi sono frullate in testa le parole di Gina Lagorio pronunciate in un suo ultimo intervento pubblico, «Malgrado tutto non smetterò dal canto mio di tessere l’elogio della memoria. Per una specifica essenziale ragione: un uomo non è un fungo né un gatto. Ciò che lo fa uomo è la coscienza di sé nel tempo e nello spazio in cui il suo destino lo ha immesso». Quella «coscienza di sé nel tempo e nello spazio» ha a che vedere anche con la libreria e con il nostro modo di interrogarla nell’epoca che ci è dato da vivere. narratori italiani S t los Nella foto sopra Laura Facchi, autrice per Mondadori di Dietro il tuo silenzo. In basso Dacia Mariani che ha pubblicato da Mondadori Il gioco dell’universo LAURA FACCHI . «In Italia non ci si uccide per una causa I n t e r v i s t e MARINA TOROSSI TEVINI ilano. Un pullman della linea 14 salta in aria e una donna apprende che suo marito era tra i passeggeri. Poi con orrore viene informata che è stato lui a far saltare il pullman, suicidandosi e uccidendo otto persone. Perché l’ha fatto? La verità, tanto banale quanto sconvolgente, emerge dal lungo colloquio che la donna, Monica, ha col magistrato che conduce l’inchiesta. Ci passa davanti agli occhi la storia di due vite che si lacerano, si offendono, si distruggono: ma lo fanno in silenzio, ciascuno tormentandosi la sua parte, finché l’evento drammatico non rivela quello che loro sapevano, che non si erano mai detto. Ne viene fuori un quadro fortemente veridico di un interno familiare del nostro oggi, raccontato con notevole maestria e acuta percezione psicologica. Stilos ha intervistato l’autrice. Appare chiaro che la prospettiva terroristica del suo racconto è, per così dire, un pretesto, e che a lei interessavano altre cose, appunto cosa ci può essere «dietro il silenzio» di un uomo. Le chiedo tuttavia perché ha scelto proprio questa dimensione. È stata proprio quella dimensione a darmi l’idea di questo romanzo. Mi trovavo in Palestina e feci un’intervista alla madre di una ragazza morta facendosi saltare in aria in una piazza di Gerusalemme. Mi colpì l’orgoglio di quella donna, il dolore che riusciva a mitigarsi grazie alla consapevolezza che sua figlia era morta compiendo un atto eroico. In seguito a quella intervista passai ore a parlare con un amico di ciò che avevamo ascoltato chiedendomi cosa sarebbe accaduto da noi, nella nostra società di fronte a una tale mostruosità. Monica e Marco sono nati così, trasferendo quel gesto e svuotandolo del significato ideologico perché in Italia non ci si uccide per una causa politica, lo si fa per sedare un dolore o I n t e r v i s t e L MARINA TOROSSI TEVINI a figura di Fosco Maraini, antropologo ed etnologo, riceve una definizione più nitida ne Il gioco dell’universo, che contiene taccuini e brevi abbozzi narrativi raccolti e commentati dalla figlia Dacia Maraini. Questi appunti vengono a delineare con precisione il ritratto di un cittadino del mondo, spinto a incuriosirsi di ogni cosa e a mettersi a confronto con civiltà lontane come quelle dell’Estremo Oriente. Il libro è anche un colloquio - l’ultimo - tra una figlia e un padre particolare, affettuoso ma capace di rivendicare il suo diritto a una libertà estrema, amato forse perché sempre in un suo mondo impenetrabile anche ai suoi familiari più stretti. «Di sé parlava poco in famiglia», scrive la figlia e indubbiamente quest’uomo capace di sancire un accordo con la moglie che consentiva ad entrambi una libertà assoluta quanto ad esperienze e amori, quest’uomo che lasciò la figlia di pochi mesi e la moglie per partecipare a una spedizione nel Tibet, quest’uomo «dalle 33 case», è una figura particolare e non facile, forse in parte sconosciuta ai suoi stessi familiari. Il viaggio era per lui il momento fondamentale della vita, viaggio che lo portava a confronto con mondi che lui voleva conoscere da dentro, apprendendo con grande velocità lingue anche straordinariamente difficili. Ma il viaggio diventava anche occasione per entrare in contatto con parti sconosciute di sé, per arricchire o mettere alla prova il suo spirito. Sarà stato un padre ingombrante o un padre capace di dare agli altri la libertà che concedeva a se stesso? La figlia parla di un padre dolcissimo e di una persona profondamente libera nell’animo e quindi non portata a imporre condizionamenti agli altri. Il assecondando un momento di totale follia e depressione. Io ero interessata a Monica, a chi resta, a chi deve subire le conseguenze di un gesto tanto orribile e la presenza di Marco nel romanzo viene sempre filtrata dalla sua narrazione e dal suo ricordo. Vorrei insistere su questo punto. Lei pensa che dietro la scelta del kamikaze ci possano essere anche silenzi dell’anima comunque vissuti; o che certi silenzi dell’anima possano anche portare a scelte di nichilismo distruttivo? Faccio fatica ad immaginare una persona soddisfatta, amata, felice e piena di progetti che un giorno decida di mandare tutto a quel paese per uccidersi e uccidere. Dietro la scelta di un kamikaze penso debba esserci sempre un silenzio dell’anima o un grido di dolore dell’anima, c’è il malessere di una condizione sociale vissuta dal singolo o da un popolo, ci sono convinzioni religiose, l’incapacità di sopportare oltre una condizione, ci sono ricatti, dolori, follie… Il silenzio dell’anima, come lo chiama lei, può anche convivere con una vita ordinaria e pacifica, non porta necessariamente a compiere massacri, ma ci capita di leggere notizie di cronaca nelle quali è riportato l’orrore di una follia omicida e la cosa più difficile è andare a ricostruire cosa ha portato a tanto. Leggendo il suo libro pensavo al significato della verità come alètheia, disvelamento. Si può dire che la condizione umana è nascosta da più veli che non si creda, e che c’è da aver paura a toglierli, questi veli? Sotto i veli si nascondono le nostre paure, le fragilità, le insicurezze che non vogliamo mostrare agli altri per apparire come questa società ci vuole: forti, invincibili, coraggiosi e sicuri. È un mondo nel quale non sembra esserci spazio per le debolezze e così ci buttiamo sopra un velo perché nessuno si accorga di loro. C’è chi riesce a mantenere un contatto sempre aperto con la sua struttura fragile e chi ci butta sopra del cemento per chiudere per sempre i conti con quella fastidiosa presenza. In quei casi si crea un vuoto e sotto i veli cominciano a crescere piccole nevrosi che il più LAURA FACCHI "Dietro il tuo silenzio" pp. 228, euro 17 Mondadori, 2007 La morte può essere anche una vendetta Al culmine di un matrimonio che ha esaurito ogni energia, Marco si trasforma in kamikaze e compie una strage. La moglie Monica si trova a dover rimeditare le cause del gesto e avviare, al tavolo del giudice cui parla e cui si confida, un processo di analisi che non riguarda soltanto suo marito (che tradiva da tempo) ma anche la trasformazione che ha riguardato se stessa. La morte di Marco appare sempre più una forma di vendetta per punire la moglie messa di fronte a un peso uguale a una condanna. delle volte rimangono piccole, ma accade anche che crescano fino a esplodere, con tutto quello che sta loro intorno. Monica e Marco sono doppi tutti e due. Solo un trauma consente di discendere nela loro interiorità. Lei ritiene sia possibile farlo anche senza che traumi travolgano la normalità delle cose? Quante coppie conosciamo che vivono insieme mantenendo mille segreti? E non si tratta di enormità, è un segreto anche l’incapacità di comunicare un disagio, un malessere legato allo stare insieme. Si sta zitti perché è più facile, perché si ha paura di innescare discussioni o semplicemente perché si è troppo stanchi per dare un nome a quel disagio. Spesso sottovalutiamo l’impegno necessario per vivere insieme e lasciamo che il tempo, come un acido, corrompa l’amore e la fiducia, ma io credo fortemente nella possibilità di evitare che questo accada. Non è necessario un trauma, anche se spesso è la molla che porta a una improvvisa destabilizzazione con conseguente ricerca della stabilità perduta, basterebbe più attenzione e la volontà di uscire dalle nostre certezze per provare ad accogliere anche quelle di chi ci è accanto. Al primo incontro con Monica Marco dice che saprebbe uccidere. Che vuol dire? Il kamikaze di poi era già in lui? Quella frase torna alla mente di Monica dopo molti anni e il ricordo non può non farla inorridire alla luce degli eventi del presente, ma la follia di Marco è cresciuta e maturata negli anni, in silenzio. Il ragazzo che disse quella frase così ad effetto non era un potenziale kamikaze, ma un giovane già abitato da fantasmi e frustrazioni che si sono ispessite con il passare del tempo. Monica rivive ogni istante del suo matrimonio guardandolo sotto un’altra luce, più analitica e attenta e anche quell’ammissione di Marco entra nel calderone del suo bisogno di ritrovare in lui i semi della follia che non era stata capace di individuare fino a quel momento. Una frase che in qualsiasi altra relazione sarebbe passata nel dimenticatoio, in quel caso si carica di significato e assume un’importanza legata dalla contingenza. Ma io non credo che il kamikaze fosse già in lui, c’erano tanti sentimenti contrastanti, c’era del terreno fertile che aspettava di essere seminato, ma non era iscritto il suo tragico futuro in quella prima sera. Quell’aborto pesa nell’economia del racconto. Più del tradimento. Anche se nessuno pronuncia parole di biasimo, non sembra dubbio che Monica lo senta come una colpa. Ha ucciso anche lei. È dunque anche lei come Marco? La colpa di Monica non è quella di aver ucciso, ma di essersi condannata alla solitudine con quell’interruzione di gravidanza. Si accusa di non aver avuto il coraggio di scappar via per crescere un figlio senza un padre, di aver rinunciato alla sua maternità per paura di dover stravolgere la «serena» quotidiana certezza della sua vita. Quando tutto esplode e della sua vita rimane ben poco torna il pensiero di quella rinuncia e la consapevolezza che una scelta diversa avrebbe forse modificato il corso della sua vita. Il massacro di Marco è un’altra cosa. Il tema di fondo del suo libro sembra essere la vergogna. Perché Monica prova vergogna? Per quello che ha fatto suo marito, per quello che dovrà subire, o per quello che ha fatto lei? Monica si vergogna di non essere riuscita a capire. Si vergogna della sua cecità, dell’indifferenza con la quale guardava a suo marito, dell’egoismo che le impediva di interrompere un matrimonio ormai distrutto e si vergogna del senso di sollievo che le dà il suo essere sopravissuta. Una parte di lei si sente responsabile per ciò che è accaduto ed essendo una donna intelligente sa che tutto si sarebbe potuto evitare o per lo meno avrebbe potuto evitare lei di trovarsi al centro di questa tragedia, andando via e riconoscendo quel disamore che in lei abitava da anni. C’è un senso di attrazione in Monica nei confronti di Angelo, il magistrato che la interroga. Perché? È lo stesso magistrato a dare una risposta a DACIA MARAINI. I dialoghi immaginari con Fosco Padre e figlia a «tu per tu» lettore incuriosito segue i percorsi che si snodano in questa sorta di colloquio post-mortem che per la scrittrice, per sua esplicita confessione, fu un lavoro molto difficile e penoso: «Mi sono incaponita a finire il lavoro, e forse è stata una violenza che ho fatto a me stessa. Forse il dolore al ginocchio non è un lutto ma una risposta disperata alla volontà della scrittrice, o alla cocciutaggine di una figlia che pensa di onorare il genitore morto, non lo so. So che quando ho finito mi sono sentita liberata». Stilos l’ha intervistata. I quaderni di Centerbe e Endo contengono appunti brevi, annotazioni, elenchi, talvolta sintetici raccontini, fissati sul foglio forse per essere successivamente ampliati, e soprattutto diari di viaggio, anch’essi molto stringati, che ci danno l’immagine di un uomo sempre attento a percepire il massimo di ciò che gli è intorno e a reinventarsi attraverso l’esperienza. L’ordine, il legame con le opere edite e il commento sono suoi. Ha voluto attraverso questo suo lavoro mettere in luce qualche aspetto non ancora abbastanza evidenziato della figura di suo padre? Quando mio padre era vivo, l’editore mi aveva chiesto di aiutarlo nel costruire questo libro che raccoglie materiale inedito dai suoi quaderni e dai suoi taccuini. Abbiamo cominciato. Poi lui è morto. E l’editore mi ha chiesto di proseguire e finire il lavoro da sola. Io non ne avevo nessuna voglia. Avrei voluto prendermi il tempo del lutto. Ma loro hanno insistito e poi c’era il contratto da onorare e infine mi ci sono messa con quel senso del dovere che mi ha 5 IL LIBRO politica, lo si fa per sedare un dolore o assecondando un momento di totale follia e depressione. Io ero interessata a Monica, a chi resta, a chi deve subire le conseguenze» Un kamikaze milanese per la moglie M pagina IL LIBRO DACIA MARAINI FOSCO MARAINI "Il gioco dell’universo" pp. 191, euro 17 Mondadori, 2007 Taccuini e appunti come testimonianza Firmato pure a nome del padre, il libro è frutto dell’iniziativa della Maraini tesa a stabilire con Fosco un dialogo che in vita è stato sempre precario per via delle lunghe assenze dell’imperterrito viaggiatore. Un dialogo che si nutre dei taccuni ritrovati del padre, pagine a quadretti fitte di una grafia minutissima dove sono versati impressioni estemporanee che spaziano da un sapere a una curiosità, appunti che testimoniano una vita. sempre accompagnata. Perciò ho sofferto. Ma ora è fatta e mi sento più leggera. Il viaggio come dimensione di vita. Viaggiare per dilatare la propria esperienza e la percezione del mondo, per abbattere confini mentali, per stupirsi: è questo, credo, il filo rosso che percorre l’opera eppure c’è anche - a sorpresa - in un uomo sostanzialmente così innamorato della vita una lunga citazione da Cioran che parla della noia come esperienza fondamentale, noia nel senso di «percezione del vuoto che c’è in noi e fuori di noi», «una vertigine tranquilla, monotona, la rivelazione dell’universale mancanza di senso». Riesce difficile collegare questo passo all’entusiasmo e alla vitalità che ci viene suggerita del testo nel suo complesso. Come tutte le persone vitali ed energiche era affascinato dal mistero della stasi, ovvero della morte. La noia lui l’ha vista come immobilità e quindi privazione di libertà. Questo credo lo inquietasse e nello stesso tempo lo incu- questa domanda, Monica scappa dalla sua realtà costruendo un’alternativa e una parentesi felice laddove di felicità non ne esiste. Nelle pagine finali, quando Monica in un certo senso si libera, reagisce, mi ha sorpreso una certa insistenza sul tema del lavarsi (i capelli sporchi, la pelle strofinata ecc.). Come mai? Quando sto male sento il bisogno di lavarmi, di pulire via tutto e forse ho appiccicato questa mia necessità a Monica. . Alla fine Monica si libera, uccide la donna succube che è stata, colpevole anche lei, e riconquista la sua autonomia. Cos’ha operato il miracolo? La volontà, o l’arte, la parola con la sua capacità di catarsi? Molto più semplicemente la pulsione verso la sopravvivenza e l’assoluzione per la sua colpa. Attraverso la scrittura Monica compie un percorso a ritroso nel suo matrimonio, dentro la sua storia d’amore con Marco, e comprende che le colpe di cui si è macchiata sono gravi se considerate all’interno dell’economia di una coppia, ma non lo sono agli occhi del mondo. Questa consapevolezza le permette di staccarsi da Marco, di separare la sua vita da quella di suo marito per provare a ricominciare da capo. Si parla spesso di scrittura al femminile, e indubbiamente le angolature del suo racconto evidenziano il suo essere donna. Ma lei ci crede alla scrittura al femminile? Ci credo perché riconosco una differenza di pensiero e sensibilità tra gli uomini e le donne che ritrovo anche nella scrittura. Non ho mai pensato di scrivere un romanzo «al femminile», ma sono una donna che scrive ed è inevitabile che il mio essere donna emerga dalle mie pagine. Piuttosto a volte ritengo fastidioso questo bollare la scrittura al femminile come una letteratura di seconda classe, di genere. Secoli di letteratura scritta da uomini non hanno mai fatto nascere il genere «scrittura al maschile« e mi accorgo che sono molti gli uomini che prendono una certa distanza dai libri firmati da autrici donne, quasi ritenessero il loro contenuto un qualcosa che a priori non li riguarda e questo fenomeno è conseguenza diretta di una cattiva interpretazione di quel marchio. riosisse. Nei suoi taccuini Fosco sottolinea spesso la piccolezza dell’uomo. Fosco aveva una mente speculativa. Gli piaceva esplorare l’universo. Ma l’universo suggerisce continuamente l’idea della piccolezza e finitezza dell’uomo. Suo padre era innamorato del Giappone dove visse a lungo e che considerò affascinante sotto molti aspetti (un paese che accetta l’innovazione senza abbandonare le sue tradizioni, profondamente rispettoso della natura, un paese «maschile in apparenza ma in realtà profondamente femminile» e via discorrendo) Fosco ha amato il Giappone. E il suo amore comprendeva tutto, sia i difetti che i pregi. Così capita con i veri amori. Fosco aveva ereditato dalla madre Yoi, pittrice inglese e viaggiatrice molto intraprendente, l’amore per la conoscenza e il rispetto della libertà femminile. I suoi rapporti con le donne furono improntati in questo senso, con esiti di reciproca libertà. Le donne però alla fin fine - mi sembra di cogliere - rimasero un po’ penalizzate perché il rapporto con Topazia, quando si fissò all’interno del matrimonio, privilegiò maggiormente l’indipendenza maschile. Certo Fosco aveva preso dalla madre il rispetto verso le libertà femminili. Era l’epoca di Virginia Woolf e delle grandi suffragette quella che aveva vissuto Yoi. Qualcosa di questo grande sogno di indipendenza era riuscito a comunicarlo al figlio. Ma nello stesso tempo Fosco era un uomo d’avventura nel senso mozartiano della parola. Di suo padre lei dice «libero, di una libertà senza confini e senza ostacoli. Tanto libero da risultare separato da ogni cosa e da ogni persona». Un pregio, un difetto? La libertà era la sua compagna preferita. A volte un pregio, a volta un difetto. Erano le sue contraddizioni. narratori italiani 6 I n t e r v i s t e R PATRIZIA DANZÈ acconta il mito che il fuoco, rubato dal cielo da Prometeo e dal titano donato agli uomini, se divenne strumento e simbolo dell’umano progresso, da allora portò con sé una maledizione, quella di aver profanato, in quanto furto, la pura forza celeste. Forse per questo, Girolamo Cardano, medico, matematico, astrologo e alchimista vissuto nel Cinquecento, noto per la sua insofferenza verso i dogmi, non accettava la teoria dei quattro elementi empedoclei del macrocosmo, e cioè dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco. Dalle forze presenti in natura, tra le quali, pure, riconosceva arcani nessi di simpatia ed antipatia, escludeva il fuoco, in quanto elemento distruttivo e non componente i corpi. Dunque, il fuoco, tra i «quattro elementi» del nuovo bel romanzo di Cesare de Seta, è l’elemento devastante e distruttivo di persone e cose. Il fuoco dell’avidità, il fuoco della passione, il furor che strugge Irene (il personaggio femminile più complesso del romanzo) così come ha acceso di furore Medea, Didone, Fedra, ogni donna, ogni figlia, ogni madre che si perde, menade impazzita, al grido orgiastico dell’amore, di ogni genere d’amore fatale. Quattro elementi, quattro variabili minacciose che determinano l’evolversi tragico degli eventi. A Giovanna, il primo dei quattro personaggi disposti in chiasmo nella storia di de Seta, tutto scivola addosso come l’acqua, l’elemento in cui si trova più a suo agio. Sia pure nella modesta dimensione di una doccia domestica, Giovanna, senza progetti né interessi, studi e rapporto sentimentale falliti, ama il fluire voluttuoso dell’acqua, gode della sua carezza che le dà un senso di leggerezza e che nei sogni più trasgressivi, da «rivolo sottile» diventa di colpo un «fiotto violento come una frustata», trascinandola dall’alto di una cascata giù in basso tra arbusti, fiori e cespugli. Le ore e i giorni, le persone e gli eventi scorrono per Giovanna lisci come l’acqua della doccia mattutina, ma l’acqua non ha forma, prende (a ricordare Camilleri) la forma che la contiene e per lei assume l’aspetto di una tempesta da cui può sempre scaturire qualcosa di inatteso, quando un giorno con il bimbo della sua amica Irene, affidatole per qualche ora, prende, quasi in uno stato di trance, un treno dove si assopisce sognando acque e scrosci d’acqua. La marea la travolge al suo risveglio quando non trova più il bambino, di cui non resta traccia, come inghiottito negli abissi marini. La aiuta Giorgio, incontrato per caso sul treno, un giovane insignificante, con un volto e un corpo cresciuti per loro conto senza assecondarlo nelle sue inclinazioni. Ragioniere con un mediocre lavoro presso un commercialista, è rimasto sempre isolato da amici e coetanei, non ha mai avuto stimoli, neppure di natura sessuale. Per questo si è «disposto a vivere senza far resistenza a nulla, come fosse fatto d’aria e non potesse che lasciarsi andare al corso del vento, che soffia ora da un lato ora dall’altro». Giorgio accorre in aiuto di Giovanna perché in quel momento si è accomodato pigramente su quello stato d’animo. E così la conduce prima in commissariato, poi a casa sua, ma senza un secondo scopo; e mentre lei fa l’ennesima doccia scacciapensieri, lui, ripensando alla sua vita senza consistenza, concepisce un piano diabolico: fingere, con la complicità che si attende da Giovanna, inconsistente quanto lui, il rapimento del bambino, perché «i venti bisogna saperli sfruttare se si dispongono le vele nel modo giusto». Un essere innocuo che diventa un mostro; l’aria sottile che si trasforma in uragano e con l’acqua in piena provoca la catastrofe. Ed ecco Irene, amica di Giovanna e madre del bambino scomparso, giovane e bella imprenditrice, figlia di un industriale e moglie di un giovane avvocato. Una vita borghese, ordinata e monotona, ma Irene è «come la cenere sotto R e c e n s i o n i U ALFIO SIRACUSANO S t los Nella foto Cesare de Seta, autore per Avagliano di Quattro elementi IL LIBRO Finisterre pagina CESARE DE SETA "Quattro elementi" pp. 170, euro 13,50 Avagliano, 2007 ARNALDO COLASANTI Mettere quattro vite dentro un tourbillon LE BETULLE DI CECCHETTI A Giovanna tutto scivola addosso come l’acqua; Giorgio è volubile e vacuo come l’aria; la vita di Irene, sotto le braci di una quotidianità borghese, cova un fuoco sempre acceso; Vojislav, lo straniero, è duro come la terra, segnato nella sua scorza dalla violenza che la storia ha voluto lasciare come stigma nella sua terra d’origine. Quattro persone, quattro elementi di derivazione empdoclea le cui vite si incontrano e si agitano come in un potente shaker che finisce per esplodere. CESARE DE SETA . Quattro figure, quattro destini, che si incrociano e compenetrano come i quattro elementi empedoclei che formano il mondo. E che non determinano uno stato di perfezione e armonia ma sono causa di una derelizione generale. «Il nostro è un tempo senza rimedio che ci assilla con i drammi umani e sociali che vediamo» La nostra società, un insieme di elementi poco rassicuranti cui arde il fuoco», le cui braci sono state spente molto tempo prima per un morboso quanto traumatico episodio adolescenziale che l’ha fatta diventare quello che è: una ragazza quieta, chiusa e sensibile a ogni soffio di vento. Arde in lei una fiammella, solo apparentemente spenta, capace di divampare d’un tratto con una violenza incontrollata e distruggere tutto, anche lo stesso senso comune. Una fiammella che si alimenta fino a diventare incendio divorante quando si ritrova a contatto con Vojislav, giovane serbo con un passato di soldato senza scrupoli che ha mansioni di guardiano in fabbrica. È il solido e terragno corpo di lui, percorso dai segni della violenza come la sua terra dilaniata dalla guerra, che accende in Irene la miccia che proseguirà lentamente fino ad una tragica esplosione. È davvero un orribile climax quel che attende i personaggi di Quattro elementi. Quell’acqua così piena da tracimare quasi l’argine della storia, quel vento volubile che ci soffia sopra, quel fuoco rinforzato dal vento che brucia la terra selvaggia che, a sua volta, sembra rivoltarsi dalle viscere con una forza implacabile, contengono l’abominio della barbarie e della perdizione. Stilos ha intervistato de Seta. Come nasce Quattro elementi? Da quali suggestioni deriva? La prima idea fu in un dipinto di Louis Finson che si vendeva in un’asta di Sotheby’s e che mi giunse sul computer: una splendida tela allegoria dei quattro elementi che è in copertina. Due donne nude, un giovane e un vecchio drammaticamente avviluppati e dai volti contratti in un conflitto irresolubile. È quello che dilania i quattro personaggi della storia. Non c’è qualche fatto di cronaca che lo ha in qualche modo ispirato? C’è stato un drammatico rapimento di un bambino in Italia, purtroppo, ma è successivo a quando avevo imbastito la storia. Rimasi impressionato con me stesso perché in tal caso avevo immaginato una storia che la drammaticità dei nostri tempi proponeva nella cruda realtà della cronaca. L’acqua, l’aria, il fuoco, la terra: quattro elementi la cui combinazione è però distruttiva. Nel caso del mio romanzo lo è, perché il mondo è un serto di veleni che mi angosciano ogni giorno e incombono sulla vita di tutti noi con violenza talvolta insopportabile. Perché la scelta di ambientare la storia negli anni Novanta, segnati dalla dura guerra nell’ex-Jugoslavia? Perché quella guerra era dietro la nostra porta di casa ed è stata una tragedia agghiacciante: essa per anni è stata sugli schermi della televisione, sulle pagine dei giornali senza che nulla potessimo fare. La pulizia etnica, gli eccidi più feroci che narra Vojislav, il serbo del mio romanzo, io l’ho vissuta con sofferenza, tanto più sentita perché ero impotente. L’ambiente di riferimento è piccolo e medio-borghese, quasi come se i guasti del nostro tempo abbiano colpito soprattutto questo ceto. Tutta la nostra società è un amalgama borghese: sia a livelli medio-bassi sia in quella dei «ricchi». Un amalgama di elementi poco rassicuranti. A me premeva mettere a nudo la banalità del male e credo l’avesse già capito perfettamente Baudelaire. Giovanna e Giorgio, l’acqua e l’aria, Irene e Vojislav, il fuoco e la terra, sono tuttavia tra di loro complementari. Proprio come dice Lucrezio del De rerum natura… I suoi sono personaggi che sembrano non avere storia. Francamente non condivido questa osservazione: ce l’hanno e come una loro storia. Giovanna è un’operaia figlia di un tabaccaio, Irene una borghese benestante figlia e nipote di imprenditori che hanno fatto fortuna col miracolo economico, Vojislav ha una storia secola- re alle spalle e invischiato in essa fin nelle midolla; Giorgio è un ragioniere di provincia, figlio di un contadino. Sono tutti aspetti banali del nostro tempo, ma tutti i personaggi vivono una promozione sociale: Giovanna è giunta all’università senza fortuna; Irene, badi al nome che dal greco - come sa - vuol dire pace… si è laureata ed è divenuta un manager; Vojislav è sfuggito al dramma della guerra divenendo guardiano in un’azienda dell’Occidente opulento. Se vuol dire che la storia è sottesa alla vicenda romanzesca, è vero: io non amo i romanzi storici scritti nel nostro tempo, mi sembrano delle caricature spesso poco credibili. Facendo lo storico di mestiere ho una profonda diffidenza per gli storici dilettanti. Sembra che abbiano il vuoto dietro di sé e assomigliano in qualche modo ad alcuni personaggi di Moravia. Il vuoto non è una condizione permanente della narrativa contemporanea. È una condizione del nostro vivere. Qualche lettore mi ha detto piuttosto di aver pensato a Dostoevskij. Lei mette tanti temi insieme: la mancanza di valori, il fallimento della famiglia, il traffico degli organi umani, l’orrore della guerra. Ma, sopratutto, sembra esserci il disvalore della vita. Un’amica intelligente, Carla Sacchi, mi disse di titolare il romanzo "Senza rimedio": in effetti il nostro è un tempo senza rimedio che ci assilla con i drammi che lei elenca. Anche il paesaggio, le bellezze di Roma, sembrano svilirsi di fronte ad una storia di estrema tristezza. Lo ha fatto intenzionalmente? Naturalmente. Una storia drammatica narrata con una scrittura piana. Un modo di dare ordine al disordine esistenziale dei personaggi? La mia è un scrittura sobria, senza sbavature, senza un aggettivazione superflua. Un lavoro di sottrazione e di riduzione che mi costa molta fatica. GIUSEPPE SOTTILE. Storia romanzata de "L’Ora" di Palermo Giornalisti al tempo della mafia n giornale che registra di Palermo la morte della vita civile sopraffatta dalla mala pianta della mafia, ma che vive invece la fantasia è bellamente scacciata fuol’attesa della sua morte certificata per ragioni ri dalla porta. Dalla scelta di Sottile di raccondi bilancio e di insostenibilità politica. È que- tare da giornalista una storia vissuta da giornasto il fondale di Nostra Signora della Neces- listi? Può darsi. Ma più dal fatto che quella patsità di Giuseppe Sottile, giornalista de "L’ora" tuglia che allora presidiava le stanze del giornale, dove il giovane croniai tempi mitici di Vittosta, approdato quasi per cario Nisticò: un fondale so, si sentiva crescere anche di pochi anni, da quando GIUSEPPE SOTTILE come uomo, non aveva alvi approdò da giovane "Nostra Signora della cun bisogno di essere tra«biondino», nel 1968, a Necessità" sposta in una dimensione quando, mentre si conpp. 108, euro 9 «inventiva» per recuperare sumava il rapimento di Einaudi, 2006 connotati che in certo qual De Mauro, le sorti ecosenso la rendevano «mitinomiche del giornale si ca»: era essa stessa un monfacevano incerte e se ne paventava addirittura la chiusura. Lontana an- do compiuto, che da tempo ormai combatteva una battaglia (si pensi alla storica inchiesta sulcora nel tempo, ma già «nelle cose». Sono dunque "L’ora" e la sua redazione i pro- la mafia), si doveva acconciare ai suoi eroismi, tagonisti di questo romanzo breve che in verità e viveva assediata dentro e fuori delle sue muromanzo non è. Perché un romanzo racconta ra. Ed era «scuola» di giornalismo, se mai comunque una storia frutto della fantasia, e qui scuola di giornalismo c’è stata. Perché se fuo- ri c’era la «notizia», da cercare sempre e comunque, va messo in evidenza che questa notizia era quasi sempre la notizia di mafia, i morti ammazzati di cui non si capiva nulla. Come non si capì, di primo acchito, quale mafia ci fosse dietro il rapimento di Mauro De Mauro, con cui si conclude il racconto di Sottile. Ed è qui che il non-romanzo diventa forse romanzo. Perché i comprimari di Sottile, «biondino» di primo pelo in attesa del suo primo articolo importante, vi diventano personaggi, con le sfumature dei personaggi: l’ostinata onestà di Nisticò tormentato dall’ulcera che non si lascia impressionare dalle minacce di Sara Muscarà, moglie dell’avvocato Valguarnera, la perfetta calma professionale del maestro Enzo Perrone, l’aristocratica finezza intellettuale di Mario Farinella, quello di "Profonda Sicilia", la fede rivoluzionaria senza vacillamenti di Salvo Licata, la straordinaria capa- cità di inventarsi lo scoop del fotografo Gigi Labbruzzo, con le sue umane debolezze e i suoi disordini sentimentali. E quindi il correre di qua e di là, nella cava in cui trovano uccisi i fratelli Juculano o a Mondello dove era stato ucciso l’avvocato Valguarnera genero del giudice di Corte d’appello Marcantonio Muscarà, o nella Chiesa di Nostra Signora della Necessità dove lo stesso giudice era stato segnato dal sospetto di essere anche lui organico alla mafia. Con sullo sfondo l’evoluzione della mafia, la comparsa della droga che soppianta la speculazione edilizia, e l’ombra truce dei corleonesi. E intorno, raccontata con ironia, la città degli uomini che sanno e non sanno, che vedono e non vedono, nel tumulto dei giorni che scorrono tra un appostamento e un servizio e una discussione e un panino consumato in fretta e un tentativo di farsi pagare un po’ di arretrati mentre lo scorrere del tempo non fa mai mancare il morto quotidiano. Vorrei abbracciare Maurizio Cecchetti che pure non conosco. Ha scritto un libro commovente e dolce, che permette a chi legge di ritrovare una virtù antica, ormai esiliata: la lentezza della concentrazione. I cerchi delle betulle (Medusa) è filosofia, è discorso autobiografico, è l’auscultazione di un sangue sottile come lo spirito. Le betulle stringono un etimo originario racchiuso nel labirinto di Dio (sono il Beth, il Bereshit Rabba, l’ebraico «in principio»). Eppure continuano fin dentro all’etimo escatologico della voce muta del Signore (Birkenwald e cioè Birkenau, il posto del massacro, il luogo del grande grido silenzioso). Le betulle sono tutto quello che abbiamo: quello che è possibile al pensiero e alla vita. E nella pagina del libro appaiono alberi e candele del lutto, sono fanciulli con le vene esangui, «hanno il volto canuto dei sepolcri». Resta appariscente la verità calma di Cecchetti. E all’improvviso si accende in un dono di inestimabile povertà. Come non amare chi dice che «soltanto la forza di assumere in noi stessi l’incertezza del vedere potrà dire l’essenza dell’uomo»? Leggete I cerchi delle betulle. Vi perderete, vi lascerete andare. Sentirete, come sempre, che la profondità ha un sapore acre e incerto, sa di grano maturo e di veleno, sa di un corpo umano graffiato lungo il muro della terra. Non sarà certo una lettura facile. E non perché sia una pagina ostica o astratta. Leggere è solo illusoriamente una forma di linearità, quel progresso di consumo pagina dopo pagina verso la fine. No, le letture sono sempre delle rivoluzioni attorno a noi stessi. Lo sguardo si schiaccia oltre la luce e sopra l’ombra: si congeda. Appunto, non è «una figura del tempo immobile, ma è del tempo chiuso in un labirinto». Sulla pagina di Maurizio Cecchetti nevica lentamente, cade carezzevole la lacrima ghiacciata, come certe albe quando ci sembra di capire la vita e, allora, ci si scopre felici. Si impara molto. Tanti pensieri sulla pittura: Caravaggio, Raffaello, Klimt, Melozzo; soprattutto il bitume dorato di Géricault e lei, la meteorite sopra il monte di ossa vive, gli occhi di Atene negra, Marina Abramovic. Così, altra poesia e filosofia: il mitico Chadzi-Murat di Tolstoj o i paradossi estremi di Hamann. Lo stile di Cecchetti è una lingua fosforescente in filigrana: mai dura, mai impositiva. La densità emotiva è quella di stormi di parole che si cercano e che a tratti si toccano. Ma quando si trovano si mettono in riga, oscurano di luce lo schermo nudo della pagina: conquistano quella che già dal primo sospiro della voce sembrava un sogno - era l’utopia: ricostruire dalla radice l’aura ricolma di una citazione, la presenza vera dei maestri, Baudelaire, Céline, Proust o Testori. Ho amato questo libro, che pure è un libro di limiti e di difetti. Ma se fossi stato il suo editor non avrei saputo dove tagliare né dove correggere. Perché, alla fine, è tutto chiaro. Per pensare abbiamo bisogno di questi limiti: i difetti, le ansie, i pianerottoli ciechi della scrittura e dell’esistenza non sono barriere, sono soltanto richiami. Poi, un giorno, racconta Maurizio, «mio padre morì. La luce azzurrina e morbida del tramonto chiudeva il paesaggio in una scatola di vetro: il chiarore lontano della sera e i colori freddi dell’ospedale si mischiavano in un’atmosfera fluida senza più interno ed esterno, vita e morte». I cerchi delle betulle, questa storia inchiodata al dolore e alla felicità, è anch’essa una scatola di vetro, possiede lampo e distanza, morbidezza e la nuda assenza. Sì, le «betulle abitano la terra quasi con rassegnazione» e questa rassegnazione sarà l’eternità di una miseria che sarà eterna e sfinita quanto la più lunga preghiera senza speranza. Tuttavia, al principio e alla fine di ogni cosa, il «Giudizio sarà il momento dell’estrema pietà». E non perché, scrive l’autore, si tratta di cancellare i delitti e di svuotare malinconicamente l’inferno. Invece, conta solo «liberare l’idea della giustizia dalle ipoteche che l’inferno, regno della morte, insinua in un giudizio morale». Occorre superare la rassegnazione. Conta vedere, per la prima volta, per un istante, il colore estraneo della promessa quella luce brunetta dello spirito che un giorno ci narrarono all’inizio della creazione. Sì, è questa libertà non più rassegnata il grande insegnamento. narratori italiani S t los I quattro autori che compongono il gruppo Kai Zen, che ha pubblicato da Mondadori La strategia dell’Ariete. Sotto Andrea Camilleri, autore per Guida di Boccaccio. La novella di Antonello da Palermo pagina uattromila e cinquecento anni di storia, quattro autori (Jadel Andreetto, Bruno Fiorini, Guglielmo Pispisa e Aldo Soliani) provenienti da quattro città diverse con una passione in comune: la scrittura. Nasce così La strategia dell’Ariete, il nuovo romanzo dell’ensemble narrativo Kai Zen in cui si racconta di una sostanza segreta chiamata «Al-Hàrith», custodita e temuta, attraverso i secoli da una moltitudine silenziosa e segreta. La storia prende il via dall’antico Egitto per poi attraversare la Cina degli anni Venti, il Paraguay degli anni Trenta popolato da una singolare comunità ariana fino ad arrivare nell’america degli anni cinquanta. Una galoppata narrativa che Stilos ha voluto farsi raccontare dagli autori. Cosa vuol dire Kai Zen e qual è l’origine del vostro nome? In giapponese significa «in continuo miglioramento» ed è una tecnica di auto-motivazione, molto usata in ambito aziendale. Schiere di colletti bianchi che ripetono in coro slogan come «siamo i più forti, siamo i migliori», cose così. Ma questo non ha nulla a che fare con noi, in realtà Kai Zen era il nome di una fantomatica band di rock industriale citata in uno dei capitoli del primo progetto di scrittura collettiva cui abbiamo partecipato, «Ti chiamerò Russell». Ci è piaciuto e lo abbiamo scelto per come suonava, la pigrizia ha fatto il resto. Come vi è venuta l’idea di mettervi insieme a scrivere? Da quanto lavorate insieme? Uno di noi, Jadel, ha semplicemente mandato alla mailing list di quel primo progetto un paio di incipit, così tanto per giocare. Gli son venuti dietro in tre, scrivendo dei possibili seguiti. Uno di quei tre ha mollato subito, ed è stato sostituito da un altro che aveva sentito parlare di questo nuovo abbozzo. Ed ecco i quattro Kai Zen. Era il 2003. Mai avremmo potuto pensare che quel mostro potesse venire pubblicato oggi. In Italia, il più famoso ensemble narrativo è quello dei Wu Ming. Vi siete ispirati a loro? So che la pubblicazione del vostro primo racconto è nata da un loro progetto. I Wu Ming sono stati un po’ i sensali del matrimonio Kai Zen e sono senz’altro un punto di riferimento, per quanto abbiamo metodi di lavoro molto diversi. Loro vivono nella stessa città e si conoscono da molto tempo, noi abbiamo vite e storie personali diverse, viviamo in città differenti e ci teniamo in contatto continuo perlopiù tramite internet. Per quanto riguarda l’approccio alla materia letteraria, lo stile di scrittura e di narrazione, Kai Zen e Wu Ming sono distanti come possono esserlo due scrittori solisti. L’ispirazione poi è un discorso a parte. Naturalmente Q è stato sul comodino di ognuno di noi, ma assieme ad esso ci sono stati molti altri libri. Ognuno di noi ha avuto il suo percorso di letture, di fruizione musicale e di altre espressioni artistiche, che ha contribuito a modellare il suo stile e di conseguenza quello dell’ensemble in generale. Come create il vostro stile? Ognuno si uniforma a quello degli altri o adottate certi canoni in modo che la scrittura sia sempre dello stesso tipo? È una cosa che è venuta a poco a poco. Scrivendo insieme ci si influenza inevitabilmente, ci si corregge a vicenda e ci si affina cercando una direzione comune. Il quinto stile, lo stile Kai Zen, è stato un parto lento e lungo, ma molto piacevole e istruttivo. Forse un po’ come il fenomeno dei cani che finiscono con l’assomigliare ai padroni e viceversa. Nella Eccebombo I n t e r v i s t e Q R e c e n s i o n i C GIANNI BONINA 7 AURELIO GRIMALDI LE FAVELAS DI MEIRELLES KAI ZEN Il romanzo proteiforme di un ensemble che ha voluto percorrere la stessa strada dei Wu Ming. «Sono stati un po’ i sensali del nostro matrimonio e sono senz’altro un punto di riferimento, per quanto abbiamo metodi di lavoro molto diversi» IL LIBRO KAI ZEN "La strategia dell’Ariete" pp. 452, euro 16,50 Mondadori, 2007 Un segreto diabolico sul destino del mondo Un complicato thriller storico che asseconda la nuova moda sapienziale e iniziatica e che ha il dispositivo di un congegno a orologeria dove la bomba di cui si attende l’esplosione è la realizzazione di un pericolo che è stato tenuto segreto per millenni. La trama si dipana dall’antico Egitto all’India degli anni Venti alla Cina, poi alla Germania e avere epilogo negli Stati Uniti. Einrich Hofstadter è uno scienziato che giunge in Cina seguendo le tracce di Respik di Seth, il cui vero nome è quello di Ai-Hàrith, l’ariete, che è l’appellativo di Satana nel "Corano". Il segreto dell’Ariete passerà nelle mani del figlio dello scienziato che proverà a ultizzarlo a fini distruttivi nella Germania nazista. La suspense in nome collettivo PAOLO ROVERSI VIVE A MILANO. "BLUE TANGO" (STAMPA ALTERNATIVA, 2006), "LA MANO SINISTRA DEL DIAVOLO" (MURSIA, 2006) fattispecie, per La strategia dell’Ariete il fatto di avere quattro epoche storiche differenti ha legittimato stili diversi, a volte, così come in frangenti particolari abbiamo optato per linguaggi inusuali. Come procedete nella stesura del romanzo? Ognuno di voi scrive un capitolo e poi lo passa da correggere agli altri oppure ogni paragrafo è scritto a otto mani? Generalmente si divide la storia in piani narrativi e ognuno all’inizio ne cura uno. Ogni capitolo però viene subito inviato agli altri non appena finito, in modo che ci possa essere un riscontro immediato e continuo con le correzioni altrui. Un casino infernale, a tratti, ma divertente. In poco tempo ci siamo fatti spalle molto larghe e abbiamo preso le misure giuste tra noi. Avete dei ruoli particolari all’interno della storia: non so, uno fa le ricerche storiche, l’altro si occupa solo dei dialoghi, un altro scrive le descrizioni eccetera. No, in genere no. Ognuno si occupa di tutto nella parte che scrive direttamente, poi tocca agli altri correggere ed eventualmente riscrivere. Certo, ognuno di noi è specializzato in qualcosa e viene chiamato in causa in determinati frangenti. La cosa bella di Kai Zen è che ognuno è quello che è e non deve assomigliare agli altri, apporta invece le sue caratteristiche specifiche al gruppo. Jadel per esempio ha fantasia e propone in continuazione, Guglielmo cura molto il linguaggio, Aldo rende concreto ed efficace e Bruno dà uno spessore storico. Ognuno di noi è un po’egocentrico e crede di saperne di più degli altri, e la battaglia a volta si fa estenuante, anche se sempre corretta. In sostanza siamo tutti gregari con un certa tendenza all’anarchismo. Quanto impegno ha richiesto La strategia dell’Ariete? Maggiore rispetto agli altri romanzi totali che avete scritto come La potenza di Eymerich e Spauracchi. oppure ormai avete un metodo di lavoro collaudato? Sicuramente. La strategia rispetto agli altri progetti è più organico e articolato e ci ha impegnato di più, ma possiamo dire che ormai abbiamo collaudato un sistema buono per affrontare sia gli impegni come questo che quelli più sperimentali e veloci come i romanzi totali. Il concetto chiave, essendo a distanza, è quello di tenerci sempre in stato di allerta, attivi, reattivi. Altrimenti la vita quotidiana ti seppellisce in un attimo, se non condividi uno spazio fisico. Quindi il rimedio è il rilancio, lo stress. Scriverci spesso, molto, mettere pressione uno sull’altro per le scadenze, gli obiettivi. Fino a quando non nasce una consapevolezza interiore, che Kai Zen non può essere lasciato in disparte. Poi, per riprenderci, non ci sentiamo più per qualche giorno, purificandoci come fosse la catarsi della tragedia... E tutto ricomincia di nuovo. ANDREA CAMILLERI. Un nuovo apocrifo per divertissement Boccaccio riveduto e scorretto hi conosce l’opera di Camilleri è avvertito che si tratta di un falso sin dalle prime due parole, «Giovanni Bovara», il azzardo tale che solo chi non teme sfide così protagonista de La mossa del cavallo. Un’av- temerarie può concepire di tentare. Tentare, vertenza necessaria, perché Camilleri tanto appunto: perché Camilleri, in sede di rendiconpiù fa opera di falsificazione quanto più rende to critico, con un virtuosistico gusto per i quainvece credibile la scoperta della novella ine- dri borgesiani che dà la misura del divertissedita di Boccaccio: della quale non solo forni- ment al quale si è ultimamente concesso, avansce notizie circa il ritrovamento ma offre anche za il sospetto che si tratti di una novella rifiuuna dotta ricerca filologica che dà conto del tata dallo stesso Boccaccio perché dissonante perché non figuri nel Decamerone. Probabil- con il complesso del Decamerone: manca di fluidità narrativa, di sciolmente il nome di Bovara tezza e sa di ricerca, di non è stato scelto a caso, esperimento, con un pastrattandosi di una figura ANDREA CAMILLERI di falsario ideologico che "Boccaccio. La novella di so ancora incerto anche nell’«arricchire il racconpropina una infondata veAntonello da Palermo" to con quelle sfumature rità dei fatti per perseguipp. 66, euro 7,20 caratteriali dei personaggi re un suo disegno di venGuida, 2007 che così accortamente detta, una «mossa del caBoccaccio saprà in seguivallo» appunto. Qui la mossa del cavallo è quella di Camilleri, che to usare». In più c’è un uso, anche se parco, del dopo l’apocrifo su Caravaggio adesso si inte- dialetto che manca nel Decamerone. Tutto sta un’azione portata ancora più in profondità uno scherzo. La verità è che Camilleri non se perché l’apocrifo non è su un personaggio l’è sentita di levare a Boccaccio la penna di storico ma addirittura di una figura storica, nel mano e ha preferito immaginare che la novelsenso che il testo falso è spacciato come ope- la faccia parte del periodo napoletano, quello ra di lui. La differenza è in ciò, che mentre in- cioè «formativo». Ma nello stesso tempo reventando il ritrovamento di un diario di Cara- spinge la teoria secondo cui Boccaccio si devaggio bastava a Camilleri ricreare il linguag- dica alle novelle soltanto dopo il rientro a Figio del Seicento, qui - per contrabbandare un renze, adducendo che quella che nel Decametesto di Boccaccio - ha dovuto ricalcare lo sti- rone appare «un’inconfondibile impronta fiole non solo trecentesco ma anche boccaccesco rentina» può infatti essere stata data dall’autoe in particolare del Decamerone: impresa di un re anche fuori Firenze giacché «uno scrittore non ha bisogno di essere fisicamente in un certo luogo per restituire sulla pagina l’inconfondibile impronta». Camilleri non lo fa, ma potrebbe presentarsi come testimone e dichiarare che nessuno dei suoi libri è stato scritto in Sicilia benché della Sicilia abbiano tutti una impronta assolutamente inconfondibile. E anche in Sicilia è ambientata questa novella «napoletana» (tale per l’immaginaria data di composizione) che ricrea l’asse tosco-siculo di una scuola della licenza e dell’incontinenza che in Boccaccio e Camilleri trova un rinnovellato principio di attuazione. Non c’è in realtà autore classico che più di Boccaccio possa essere avvicinato a Camilleri nel gusto per il coribantismo, la satiriasi, il partouze e l’alcova quale secreta di inganni e infedeltà. Tant’è che la novella «palermitana» (tale per l’ambientazione) bene potrebbe essere attribuita a Boccaccio anche per la bella riuscita dello stile esemplato sul Decamerone, sciorinando trovate che sembrano addirittura parodistiche per la fine precisione del dettato. Camilleri si è specializzato in effetti nel talento di rifare il linguaggio d’epoca e prova di sapere come passare con identico risultato dall’Ottocento dei romanzi civili come La concessione del telefono e Il birraio di Preston (dove più ricorrente è la fattura mimetica) al Settecento de Il colore del sole al Seicento de Il re di Girgenti fino a risalire adesso al Trecento di cui restituisce una espressività linguistica speziata qui e là di elementi della parlata siciliana, a creare un Boccaccio eterodosso e di una latitudine infrequentata. Basti l’esempio di Iancofiore, la giovane moglie del vecchio e geloso medico Losapio (due cognomi che sottendono un significato antifrastico): un nomignolo posto a segnalare una identitià equivoca entro un giro di fraintendimenti siciliani che nella società camilleriana come in quella boccaccesca non cospirano a un esito drammatico, anzi si sciolgono in un fine che è sempre lieto per i fedifraghi volgendo in commedia lo scorno del marito tradito, lasciato contento ma soprattutto gabbato. Il cinema offre incessantemente opere sorprendenti. In questi ultimi tempi, due film, purtroppo nessuno italiano, mi hanno profondamente colpito: I segreti di Brokebake Mountain di Ang Lee, che del resto ha avuto il meritato onore di vincere sia il massimo premio del cinema planetario-commerciale (l’oscar hollywoodiano) che uno dei più importanti per il cinema d’autore: il leone d’oro a Venezia. E Cidade de Deus ("City of God", 2002), della rivelazione brasiliana Fernando Meirelles. Il film è diventato un successo internazionale, ha vinto infiniti e meritati premi, ha beccato persino quattro nomination all’Oscar 2003 (compresa la miglior regia!); è disponibile in dvd, è passato persino in televisione in chiaro: insomma, se ve lo siete persi, non è difficile recuperarlo dovunque. Un film importante: non solo e non tanto perché ripropone (per l’ennesima volta, sia chiaro) la questione tremendista delle favelas di Rio de Janeiro (Cidade de Deus è il nome di una di tali famigerate); ma perché lo fa con un linguaggio nuovissimo sia di scrittura che di regia. Meirelles, e non se ne possono più avere dubbi, è un grande talento. Vedendo il suo film l’avevo scambiato per un giovanissimo ardente e frizzante di cinefilia da videoclip; macché: Meirelles ha più di cinquant’anni e ha lavorato sodo nella televisione, ma in modo anche autonomo e indipendente. Ed è, in primo luogo, un ottimo sceneggiatore. Memore della destrutturalizzazione del romanzo in letteratura, e soprattutto della rivoluzionaria applicazione tarantiniana de Le iene e Pulp fiction, Meirelles prende un bel gruppo di ragazzini canaglia della favela, ne sceglie un mite narratore (Buscapè), e ad andate e ritorni di storie, zeppe di volute e un po’furbe parentesi narrative con tanto di titolo «letterario», ci racconta un affresco lungo e complesso. Rallentato, più che velocizzato, da uno stile modernissimo, ben noto, da videoclip, ma perfettamente aderente a questa ambiziosa messa in scena. Ho avuto la fortuna di andare a girare un film in Brasile e di aver ben visitato le favelas (come negare che il vostro redattore ne vorrebbe a sua volta girarvi un film?!); e di aver visto diverse opere colà girate. Tutte storie tremendiste di omicidi, violenze, stupri, sangue. Meirelles non se ne distacca: catastrofismo a gogò. Ma stavolta la trita sociologia resta ben distante. I personaggi di Meirelles sono vivi e palpitanti. Non è tanto il fatto che il film sia tratto da storie autentiche (e nei titoli di coda vediamo persino uno dei veri protagonisti, con la sua faccia vera, davvero intervistato al telegiornale brasiliano al momento del suo arresto!). Verghianamente parlando, Meirelles ci ricostruisce un mondo desolato, reinventato, ma più vero dell’immaginata realtà. Il personaggio di Zè Pequeno, il «cattivo» del gruppo, è una sentina di tutte le cattiverie dell’umanità. La scena della punizione dei «randagi» (i bambinetti di strada già orridi criminali; a sei, otto anni!) è spaventosa, terribile, stupefacente, e Zè Pequeno ci risulta odiabile quanto Hitler. Ma quando lo stesso Zè viene respinto dalla ragazzina che tenta di corteggiare, da una parte ci prefiguriamo (con terrore!) la sua vendetta, ma dall’altra proviamo per lui una profonda e intimidita pietà. Il narratore della storia, Buscapè, un nerissimo dalla faccia buona, passa attraverso le più terribili esperienze; non riesce mai a perder la verginità; diventa fotografo professionista; scopa finalmente, e con una donna bianca ben più grande di lui; tocca a lui chiudere il film con una sorta di lieto fine. Ma i nuovi randagi, che hanno appena fatto fuori il terribilissimo Zè Pequeno, progettano nuove rapine ed omicidi. Lieto fine, ma dove sei finito? Il film è pieno di disperatissima vita. Il bruttino Cabeleira si innamora della bella Angelica, pronto a lasciare il crimine per lei. Ma finisce ammazzato, in una dolorosissima, poetica (scontata quanto si vuole, ma piena d’amore!) sequenza. Anche Benè viene ucciso proprio quando lascia il crimine per l’amore. Verga e Pasolini sputati: non c’è redenzione, cazzo!, per questi ragazzi sfiniti. Meirelles, come quei due sommi, ce li fa amare senza indulgere a nessuna tenerezza. Sono brutti, sporchi, cattivissimi; ci si ammazza per niente. Ma sono vitali, vulnerabili alle tenerezze, disperatamente bisognosi d’amore. Cidade de Deus ("City of God", 2002), un film di Fernando Meirelles giornalisti e testimoni pagina 8 I n t e r v i s t e o cominciato a scrivere sui giornali mezzo secolo fa. Ogni anno viaggi ed inchieste. E ad un certo punto mi sono detto che era sprecato che questo lungo lavoro venisse dimenticato». Senza troppi giri di parole ecco spiegata la ragione per cui Giorgio Bocca ha deciso di ridare alle stampe Il provinciale, che non a caso porta il sottotitolo significativo di "Settant’anni di vita italiana" e che uscì nel ’91 da Mondadori. Rispetto a molte delle antologie di articoli e di saggi pubblicate in anni recenti, questo libro colpisce per coesione e ritmo narrativo. Si va dalla Resistenza fino agli anni della «Milano da bere», passando per la ricostruzione ed il boom economico. Come al solito, lo stile di Bocca è asciutto, non concede spazio alla retorica e ai luoghi comuni, anche se a volte la narrazione trascolora in pagine intimistiche. È questo il caso ad esempio della descrizione della Resistenza, ed in particolare del rapporto - scabroso e disumano come in ogni guerra del resto - con i nemici: «E allora tocca a me. Vado dietro a Hans alla prima curva del sentiero, quando non copre i partigiani sparo. Si sente il clic del Thompson che fa cilecca. Lui si volta sbiancato. Ha sentito, ha capito. Fa ancora due passi e questa volta la raffica parte. Si arruota con il suo urlo, come se volesse sfuggire alla morte avvitandosi nella’ria. Ho i visceri attorcigliati ma un comandante è quello che si aspettano i suoi uomini. "Seppelitelo" dico con voce fredda». Ma Il provinciale non è solo descrizione della lotta armata. Bocca racconta della Fiat, dello strano rapporto di amore-odio con il Pci (che nel capoluogo lombardo fu per molti anni il principale partito) e del suo deus ex machina indiscusso ed incontrastato Vittorio Valletta: «Il professore "bolla" l’ingresso nell’azienda come gli impiegati, e come il piccolo re Vittorio Emanuele III fa le sue ispezioni alla truppa, va tra i fanti di prima linea, dà cinquemila lire di premio al guardiano che lo ha fermato perché aveva dimenticato la tessera di riconoscimento, la buona sentinella. La Fiat finanzia tutti, gli avversari di classe come i concorrenti, se le conviene. Come il senatore Agnelli che salvava la Lancia dal fallimento e poi diceva a Vincenzo Lancia: "No, non mi ringrazi, se non ci fosse la sua fabbrica dovrei inventarla, se no i nostri tecnici si addormenterebbero". La Torino del ’47 è la città più comunista d’Italia, ma il Partito comunista che grida e accusa sulle piazze, si sta arrendendo alla cultura Fiat, per i torinesi la disciplinata fanteria Fiat è meglio della cavalleria leggera della Olivetti, per i torinesi i tecnici inventivi di Ivrea "a sun d’artista", bravi ma da non fidarsene». Ma la Fiat è anche il simbolo (o l’ipostasi) delle relazioni umane e professionali, la cartina di tornasole dell’incipiente emancipazione femminile italiana: «Nel maschilismo sicuro e fuori discussione dell’azienda, le donne non avevano posti dirigenti ufficiali, ma posti di fiducia e di prestigio, come proiezione del maschio di cui erano le segretarie. Devote ed onnipotenti, ma nel cono di luce del loro capo. Reverenti, rispettose in pubblico, disponibili per qualche celia erotica nel privato, come la volta che, per rara combinazione, mi trovai in « H I n t e r v i s t e I PATRIZIA DANZÈ S t los Nella foto sopra Giorgio Bocca, autore per Feltrinelli di Il provinciale. Sotto Raffaele Masto, che da Sperling & Kupfer ha pubblicato L’Africa del tesoro IL LIBRO GIORGIO BOCCA "Il provinciale" pp. 291, euro 17 Feltrinelli, 2007 La vita individuale e quella collettiva La vita di Bocca comincia quando finisce la Seconda guerra mondiale e trova il cuore battere in coincidenza con la guerra partigiana. Raccontando i suoi settant’anni di vita, fermandosi dunque al 1991, il noto giornalista piemontese non distoglie mai lo sguardo dalla stagione che ha segnato la sua esistenza come quella di tutto il Paese, tanto da scrivere una autobiografia pensando non ai propri settant’anni ma a quelli nei quali si è articolata la vita italiana. GIORGIO BOCCA . Esce di nuovo a distanza di sedici anni l’autobiografia di un «provinciale» piemontese che si affaccia alla ribalta della scena nazionale: una testimonianza vivissima di una larga parte della nostra storia collettiva, ma anche un atto di denuncia delle storture e le imposture che hanno segnato questo tempo La Milano da Eldorado di ieri e quella da mangiare di oggi FILIPPO MARIA BATTAGLIA VIVE A MILANO DOVE DIRIGE LA RIVISTA "GLI APOTI". COLLABORA A "IL GIORNALE", "IL FOGLIO", "IL DOMENICALE", "L’INDIPENDENTE" E "L’INDICE" una villa del Monferrato in casa di un dirigente che un po’ brillo abbracciava alle spalle la sua tota segretaria e le diceva, in piemontese "Ninin, lo senti l’acciaio?". E lei brancicava nei suoi pantaloni con una mano, senza girarsi, e rispondeva: "Ingegnere, io sento solo l’ovatta"». Il dopoguerra ed il successivo boom economico non è solo la Fiat. È anche (o forse è soprattutto) il boom economico, la rivoluzione sessuale ed il famoso (e famigerato) ’68. Bocca è crtico, a tratti sarcastico: «I figli della borghesia che recitano la rivoluzione riconoscono gli avversari politici che recitano la restaurazione da come sono vestiti. I fascisti di Milano, i sanbabilini li riconoscono dagli occhiali affumicati Ray-ban, dalle scarpe a punta, dalle camicie con il collo alto. E i fascisti riconoscono i rossi dalle barbe, dagli eskimi, dalle camicie a scacchi fuori dai blue-jeans. È un costume antico, antichissimo, nelle loro guerre civili gli italiani devono sempre indossare un’uniforme, sempre fuori ordinanza, ma riconoscibile». Seguono gli anni del terrorismo, i mea culpa sulle proprie analisi e sulle quelle dell’opinione pubblica («alle prime manifestazioni non capivo, non volevo capire»; «la faziosità tagliava il senno. Molti di noi giuravano sul Pinelli suicidato»), il sequestro Moro ed un breve ritratto di un giovane e rampante imprenditore, che di nome fa Silvio Berlusconi. Anche in questa descrizione, Bocca dimostra la sua diffidenza nei confronti di una pubblicistica che ha ideologizzato il magnate italiano: «Eugenio Scalfari ha scritto del mio rapporto con Berlusconi: "Non si riesce a capire perché, ma con Berlusconi Bocca fa eccezione, non è conflittuale, se ne è innamorato". L’amore non c’entra, neppure l’affinità di interessi, di modi di pensare. Semplicemente ho ritrovato in Berlusconi il vecchio Angelo Rizzoli, la sua vitalità contraddittoria e ottimista, il suo dispotismo democratico, un populismo tanto sincero quanto propizio ai buoni affari. Una specie che si incontra solo a Milano, città pragmatica e pacifica, policentrica e mediatrice, una specie dotata di una volontà di potenza e di intuito eccezionali, di uomini fatti da soli che po- trebbero diventare quei rompicoglioni assatanati che seminano infelicità e morte e invece conservano un amore per la loro città, la loro gente e si contentano di moltiplicare i pani e i pesci». Stilos ha intervistato il giornalista. La prima parte de Il provinciale è dedicata alla Resistenza. In una recente intervista, lei ha dichiarato che quella di Fenoglio sulla lotta partigiana è una narrazione falsata. Come mai? La Resistenza di Fenoglio è piena di personaggi coloriti, picari ed avventurieri. Non è vero: nella lotta partigiana tutto ciò non poteva esistere. Ed il tentativo di edulcorarla con fenomeni e descrizioni folcloristici è un tentativo destinato a fallire, e comunque irrealistico. La Resistenza è quella che è stata, e cioè una guerra atroce e difficile, in cui il dolore e la morte erano prevalenti. Non dimentichiamoci che a farla erano formazioni militari organizzate, nelle quali non era possibile essere qualcosa di altro che un combattente. Nelle sue pagine trova spazio anche Milano, ed in particolare un ritratto della città ambrosiana durante gli anni del boom economico. Che differenza c’è tra quella metropoli ed il capoluogo lombardo di oggi? Una diversità abissale. Nella Milano in cui so- RAFFAELE MASTO. Un nuovo reportage pieno di entusiasmo L’Africa è il continente d’oro Il suo lavoro di reporter lo ha portato anche in Medio Oriente e in America Latina, ma il continente che conosce mente lavorato. Se devo parlarne nell’immemeglio per essere stato sui suoi scenari di diatezza mi vengono alla mente immagini inguerra e di pace è l’Africa. Una terra che ha vi- dimenticabili, di un mondo ricco di tutto quel sitato e percorso da giornalista ma soprattutto che ci può essere, di un mondo di bellezza e di fascino. Se ci rifletto però, e penso a tanti altri da testimone emozionato. Raffaele Masto, reporter e scrittore, ha - verso suoi aspetti, viene fuori una fotografia al negaquello che definisce il «continente del tesoro» tivo, un’immagine forgiata e fuorviata, e accetma anche «il continente senza pace» - un amo- tata e voluta in un certo modo da un mondo più re speciale. L’Africa, dice, è veramente l’im- ricco che ha forzato l’Africa come una sorta di magine della ricchezza, naturale, paesaggisti- forziere ricco di gemme, avorio e schiavi. ca, minerale, faunistica: uno scrigno meravi- Crede dunque che l’Africa ce l’avrebbe fatglioso saccheggiato a piene mani dall’avidità ta e sarebbe oggi diversa senza gli europei? degli europei che primi di tutti l’hanno forza- Sì, ce l’avrebbe fatta. Certo, bisogna intendersi sul «ce l’avrebbe fatto e violato. Chissà, se ta». Sicuramente, quando non ci fossero stati gli eusono arrivati gli europei, ropei l’Africa dove sarebRAFFAELE MASTO l’Africa aveva la sua stobe andata! "L’Africa del tesoro" ria, le sue civiltà, le sue Ma la storia non si fa con pp. 303, euro 16 i «se» e le vicende odierSperling & Kupfer, 2006 culture. Non sono un ingenuo e so che la storia è ne dell’Africa ci parlano comunque sempre stata del genocidio del Ruanuno scontro-incontro di da, di donne offese nella loro dignità umana, di conflitti e conflitti sen- civiltà. Ma anche senza gli europei l’Africa saza fine. All’Africa, alle storie dolenti di donne rebbe andata da qualche parte. Dove non si sa. africane, Masto ha dedicato i suoi libri e cioè Chi può dirlo? Ma credo che il disagio degli Libera, l’odissea di una donna eritrea in fuga africani di fronte alle altre civiltà sia anche il dalla guerra e quindi L’Africa del tesoro. Dia- frutto del modo in cui è stata presa, del modo manti, oro, petrolio: il saccheggio del conti- in cui è stata fraintesa e violata. E, ripeto, non nente; e ancora Io, Safiya e In Africa, ritratto sono un ingenuo a credere che avrebbe potuto non essere toccata. inedito di un continente senza pace. A Masto che dirige "Radio popolare" e ha re- Da inviato nelle terre africane, di cui ha vicentemente partecipato al convegno «La cul- sto morte e rovine, cosa può dire in segno di tura delle emergenze», svoltosi a Milano dal 3 speranza? al 5 aprile per iniziativa del "Sole 24 Ore", Sti- Io penso che gli africani debbano essere ottimisti. C’è un dato oggettivo che gioca a loro los ha rivolto alcune domande. favore: è un continente in gran parte giovane, Se si dice la parola Africa a cosa pensa? L’Africa è il continente nel quale ho maggior- mentre l’Europa è in decadenza. C’è, in questa giovane Africa una straripante gioia di vivere, laddove noi europei abbiamo paura di vivere il presente. Purtroppo, ancora non sta avvenendo quel ricambio che permetta l’autonomia, se non in settori minimi. L’Africa, ancora oggi, non è nemmeno un mercato, ma è un continente di ricchezze e di manodopera a basso costo. Lei è stato testimone della tragedia del Ruanda. È ritornato in quei luoghi? Sono tornato e ho trovato purtroppo un paese in cui si parla di una riconciliazione che è ben lontana dall’esserci veramente. Non è possibile che avvenga un genocidio come quello del 1994 e che tutto passi o sparisca nel giro di qualche anno. Non c’è una casa dove non ci sia un massacratore o un massacrato. E dunque non è facile che tutto passi come se niente fosse stato. La pace si costruisce e i governanti non hanno contribuito a rendere pacifica la situazione. Prima c’erano gli hutu e ora ci sono i tutsi a comandare. La realtà è questa. Nell’ultimo suo libro, Libera, lei racconta l’odissea di una donna eritrea. Ma non è la sola donna cui ha dedicato un libro. C’è Io, Safiya, la testimonianza di una donna nigeriana. Ancora la donna per parlare dell’Africa? Sì, ancora la donna. Per me scegliere una donna per raccontare l’Africa è come dire: guardate che l’oppressione di una guerra riguarda tutti, non solo gli uomini. Su Safiya la scelta era obbligata, non l’ho fatta io, ma era la stessa situazione a richiederlo, e cioè la legge coranica che l’ha condannata. Io mi sono trovato nel suo villaggio, a nord della Nigeria, dove dal ’99 vige la legge islamica integralista e dove la donna è veramente l’ultima ruota del carro. A no arrivato negli anni ’50 c’era una borghesia che aveva ancora determinati valori: l’intenzione di fare soldi, certo, ma anche quella di essere produttiva nel senso migliore del termine. Provenendo dal Piemonte, avevo tutta un’altra idea, rappresentata da Torino, che rispetto a Milano era una città molto avara, molto chiusa. Arrivato nel capoluogo lombardo, sono stato accolto da una società aperta, che dava ospitalità a tutti coloro che avevano un certo talento, e che soprattutto li aiutava. La Milano di oggi sembra invece esclusivamente ossessionata e governata da pulsioni lucrative di ogni sorta, anche illecita. Nella sua carriera giornalistica - che lei traccia per sommicapi nel suo libro - qual è stata l’esperienza più formativa? Di certo quella de "Il Giorno", un quotidiano nuovo che rompeva completamente con il giornalismo borghese di quegli anni, rappresentato dal "Corriere della Sera" e da "La Stampa". Ho ancora oggi la convinzione che in quegli anni abbiamo inventato un nuovo modo di raccontare la quotidianità. Il direttore di quella innovazione dirompente era Italo Petra, che scriveva solo tre articoli - e sempre quelli: uno sull’agricoltura, uno sulla provincia e uno sullo Stato -, ma che è stato uno dei più importanti direttori del secolo scorso. Ed il binomio con il suo editore, Enrico Mattei, era composto e incardinato dal reciproco ingegno e da un fortissimo carattere. Siamo al ’68. In quegli anni lei fu molto critico nei confronti del movimento studentesco. Nel libro scrive che «l’aspetto più triste delle faccende è che gli anziani e i parenti sono diposti a riconoscere la recita come reale conflitto di classe». In quel periodo una specie di febbre diffusiva visitò tutto il mondo, perché anche nelle università americane e francesi accadde qualcosa di simile a ciò che successe da noi. Evidentemente, era un periodo di transizione ed i giovani comprendevano che il vecchio sistema ed i suoi valori stavano tramontando, compreso la Resistenza, che era stato un fenomeno prettamente borghese. Stava cambiando il mondo e ne arrivava uno nuovo, in cui il capitalismo ed il valore del denaro sarebbero stati preminenti. Tutte queste agitazioni e queste insofferenze nascevano dalla presa d’atto del fallimento del socialismo. La sinistra cercava di opporsi e di resistere, riproponendo alcuni miti che non era più in grado di sopravvivere. Di qui la reazione, forte e violenta. Il movimento studentesco rappresentò anche l’incubatrice dell’eversione che scuoterà l’Italia un decennio dopo. Come mai gran parte dell’opinione pubblica non riuscì a mettere a fuoco il fenomeno del terrorismo sin dalla sua nascita? Il terrorismo era un fenomeno irrazionale. Di sicuro era autentico, perché a un certo punto mobilitò circa trecentomila persone. Però non aveva la minima possibilità di avere successo perché era completamente fuori dalla ragione. Uno dei momenti più critici di quegli anni fu il sequestro Moro. Lei è a tutt’oggi convinto che la determinazione a non trattare fu la scelta più corretta? Anch’io fui tra quelli - come Pertini che in quei giorni concitati mi chiamava spesso - decisi ad essere duri: avevamo capito che lo Stato borghese si difendeva solo con la durezza. Se noi fossimo scesi in trattative con i terroristi la crisi dello Stato borghese sarebbe arrivata molto, molto prima. me interessava molto Safiya, che tutti credevano passiva e poco reattiva, mentre a me sembrava che avesse una forte personalità. Per Libera, in cui ho parlato di Feven, scappata da una caserma, la scelta è stata mia. È una delle tante donne che vanno via e affrontano i viaggi della speranza per dare da vivere alla propria famiglia lavorando in Europa. Sembra quasi che lei voglia rappresentare un continente come l’Africa con la figura femminile. La parola Africa è femminile in tutte le lingue. Le donne in Africa rappresentano il continente, e non solo per le banalità e i luoghi comuni che tutti conosciamo. La mia è una questione di genere: le donne africane sono belle e riescono a mantenere la loro bellezza anche in mezzo al degrado, anche nelle difficoltà della miseria. A noi giornalisti capita spesso di scattare foto a montagne di rifiuti accanto ai quali magari c’è una donna dal portamento regale. Lei ha recentemente dibattuto in un convegno sulla «cultura delle emergenze». Cosa pensa di una delle tematiche trattate nel convegno e cioè la violenza dell’immagine e l’emergenza indotta dai media? Sul mito dell’emergenza c’è tanto da dire. E sopra tutto è necessario dire che bisogna demitizzare l’emergenza. Credo che i media vadano cercando la violenza dell’immagine per fare audience, perché la spettacolarizzazione dell’immagine cruda e violenta vende bene. Ma non serve a niente. Si può parlare della fame e della guerra, senza che sia necessario far vedere il solito bambino con la pancia gonfia o la donna con i seni avvizziti; non c’è bisogno di mostrare il ragazzo senza le gambe per colpa dei campi minati. Le guerre in Africa sono guerre povere e le conseguenze di un campo minato non sono la gamba squarciata, sono i campi stessi minati che non possono essere coltivati e significano la povertà per tutti. S t los narratori stranieri I n t e r v i s t e D IL LIBRO PETROS MARKARIS "La lunga estate calda del commissario Charitos" Trad. Andrea Di Gregorio pp. 375, euro 17,50 Bompiani, 2007 MARILIA PICCONE eve essere la qualità della luce, o forse la brillantezza dei colori, o il profumo dell’aria del luogo in cui vivono. Ci deve essere qualcosa che fa sì che i commissari dei romanzi di indagine poliziesca scritti da autori dell’area mediterranea siano così diversi dai loro colleghi scandinavi o dell’Europa centrale. La prima differenza è che, tranne l’eterno fidanzato Montalbano, sono tutti felicemente sposati e con figli: l’ateniese Kostas Charitos di Markaris, il triestino di adozione Proteo Laurenti di Veit Heinichen, il veneziano Guido Brunetti di Donna Leon. Mentre sono divorziati il Wallander di Mankell e il Van Veeteren di Nesser o il cupo ispettore Rebus di Ian Rankin. E poi, per quanto si tratti sempre di morti e di assassini, l’atmosfera è meno buia, meno sinistra, sempre in qualche modo alleviata dalla serenità dell’ambiente famigliare, addolcita dai pranzi cucinati dalle mogli, diversificata dalle preoccupazioni offerte dai figli. Quasi che il clima e la natura antropologica di un luogo possano influenzare non solo la condotta umana ma anche l’humus in cui il tralignamento di quella condotta matura e gli investigotori si trovino a scavare. E tuttavia nel nuovo e atteso romanzo di Petros Markaris, uno dei più celebrati giallisti europei viventi, tipico autore di area mediterranea, è proprio l’ansia divoratrice per la sorte della figlia Caterina, tenuta in ostaggio dai terroristi che si sono impadroniti del traghetto El Greco, che spacca in due la coscienza dell’ispettore Kostas Charitos, diviso tra il desiderio, che è una necessità quasi fisica, di essere là, al porto di Creta, a seguire magari impotente da lontano quello che accade a bordo della nave dove si trova la figlia, e il dovere che gli impone di restare ad Atene dove agisce uno strano assassino che sembra sdoppiarsi: un corpo da body-building vestito di nero, che si muove su una Harley Davidson e uccide con una Luger del 1942, e una voce da vecchio con dentiera che usa parole desuete come «pederasta», «gagà» e «deretano», e che dice di essere l’assassino dell’«azionista di riferimento». Un mistero da risolvere contro l’emegernza personale da affrontare. Puntano sul ricatto i terroristi sul traghetto, un morto al giorno se non verranno accolte le loro richieste, e sono ricattatorie pure le lettere che riceve la testata di un giornale, lettere che impongono la sospensione di ogni pubblicità. Come abbiamo già visto nei precedenti romanzi, Petros Markaris ha la capacità di stimolare il lettore proponendo retroscena insoliti per i crimini su cui indaga, in questo caso le guerre vecchie e recenti dell’area balcanica e l’ipnotizzante pubblicità, diventata così invasiva e costante da passare inosservata e che però è assolutamente indispensabile per far girare il mondo dei soldi. Ma è attraverso il personaggio di Kostas Charitos che le tematiche vengono filtrate, è in lui - l’uomo medio che ha fatto sacrifici per far studiare l’unica figlia, che guida una scassatissima Mirafiori, che ha scelto di entrare in polizia perché l’alternativa era zappare la terra - che il lettore riconosce se stesso e quelle che potrebbero essere le sue reazioni. Perché, dietro al sequestro della nave e agli ostaggi freddati, dietro ai due omosessuali e alla giornalista morti con un colpo in testa perché facevano pubblicità, c’è il problema della violenza contro cui Caterina, la figlia di Kostas, si scontra per la prima volta con una consapevolezza diversa mentre viene trattenuta come ostaggio perché figlia di un poliziotto: c’è differenza tra la violenza della polizia e quella dei terroristi, o degli assassini? Che sua figlia possa solo dubitare di lui è un pensiero che sconvolge Kostas, e lo porta a riandare al passato nero della giunta militare, per far sapere in qualche modo a Caterina che no, suo padre non ha mai usato violenza, anzi, che ha cercato di fare del suo meglio laddove il Bene non esisteva. Leggere un libro di Petros Markaris è sempre Nella foto Petros Markaris, autore per Bompiani di La lunga estate del commissario Charitos Tra la figlia rapita e delitti misteriosi Un commando di terroristi si è impossessato di una nave-traghetto per Creta e tra i passeggeri c’è la figlia del commissario Kostas Charitos inn viaggio con il fidanzato. Mentre tutta la Grecia segue con ansia la vicenda sugli schermi televisivi, Charitos deve però occuparsi di una serie di omicidi che avvengono ad Atene, omicidi che sembrano opera di un maniaco. Le vittime appartengono tutte al mondo della pubblicità. Finché iniziano ad arrivare i messaggi dell’assassino e, parallelamente, le richieste dei terroristi. Un finale che prova come il passato non muoia mai. PETROS MARKARIS . Un giallo di idee più che di azione. «Il vero controllo dei media non è nelle mani di chi ha l’1 o il 2%, ma in quelle delle compagnie di pubblicità. Sono loro a decidere tutto, che hanno il coltello per il manico e davanti ad un rifiuto delle loro richieste non fanno pubblicità. I media dipendono dalle compagnie di pubblicità» Un commando terroristico con serial killer e pubblicità un piacere: si girano le pagine perché si è incuriositi dalla trama, ci si sorprende a ridere delle battute di Kostas, si sorride dei continui battibecchi con la moglie Adriana, ci si affaccia sulle acque blu del Pireo, si impreca con Kostas per il traffico congestionato di Atene. Aspettando il prossimo romanzo. Stilos ha intervistato lo scrittore che è nato a Istanbul nel 1937, figlio di padre armeno e madre greca. Lo spunto dei suoi romanzi è sempre sorprendente ed originale. In questo nuovo romanzo gli spunti sono due: quale dei due le è venuto per primo in mente? Quello dei terroristi o quello delle stelle della pubblicità? Lo spunto iniziale è stato quello della pubblicità, anche se non immediatamente con la figura dell’assassino. Mi è venuto in mente come conseguenza di un grosso scandalo politico: era il 2004, il partito di centrodestra aveva vinto le elezioni e aveva dovuto fronteggiare la situazione per cui tutti i media televisivi e i giornali erano alleati del precedente governo. Per cercare di rovesciare la situazione avevano pensato di varare una legge per cui chiunque detenesse una quota anche dell’1% di un canale televisivo sarebbe stato considerato come azionista di riferimento e non poteva accettare commesse pubbliche. Ora i canali televisivi appartengono perlopiù ad aziende di opere pubbliche; l’idea era di costringere queste aziende a cedere sul mercato la loro quota di partecipazione, così sarebbe stata comperata da quelli al governo. Ma l’Unione Europea ha messo il veto per mesi e si è andati avanti all’infinito con la questione. Allora ho pensato che, dopo tutto, il vero controllo dei media non è nelle mani di chi ha l’1 o il 2%, ma in quelle delle compagnie di pubblicità. Sono loro a decidere tutto, che hanno il coltello per il manico e davanti ad un rifiuto delle loro richieste non mettono la pubblicità. I media dipendono dalle compagnie di pubblicità. Per quello che riguarda il secondo filone, dei terroristi sul traghetto, il romanzo inizia con un grande evento, doppiamente grande per Kostas, perché ha la soddisfazione che sua figlia si laurea e lui ha anche finito di mantenerla agli studi. E ho pensato che era necessario che succedesse qualcosa di tragico per bilanciare questo evento felice. Era il periodo in cui ci fu l’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid, e così ho avuto l’idea del terrorismo. Poi ci furono gli attentati di Londra, e io mi sono detto: «Non ho più niente di cui scrivere», e continuavo a parlarne con mia figlia e con il mio editore… E mi è venuta l’idea del traghetto. Senza dire nulla della trama e senza svelare che cosa ci sia dietro, mi preme dire che i riferimenti politici sono veri, è vera la figura del vecchio, è vera la lettera dell’arcivescovo e così pure la decisione del corpo di polizia di cui si parla nel libro. Senso vietato di Massimo Onofri FRANCO ZEFFIRELLI Il Visconte dimezzato Il libro inizia con la domanda che il professore rivolge a Caterina che sta discutendo la tesi, se la privazione della vita come risultato di un attacco terroristico sia giuridicamente uguale alla privazione della vita come risultato di un crimine che abbia per scopo un furto, ad esempio. Domanda perfetta per una storia di delitti: tutte le morti hanno lo stesso valore? Per me è lo stesso, nel senso che uccidere è sempre un male, non importa per quale motivo si uccida. Non esiste alcuna scusa, non c’è alcuna giustificazione. Sono contro ogni tipo di terrorismo - sia italiano o tedesco, sia sotto la forma delle Brigate Rosse o del terrorismo islamico. Uccidere non è la soluzione, non si arriva a nulla uccidendo. Nel romanzo ci sono due tipi di terrorismo, uno moderno ed uno antico che ha un obiettivo più specifico. E il vecchio che incarna questo secondo tipo di terrorismo disprezza gli altri che agiscono sul traghetto. C’è un’altra domanda importante nel romanzo e riguarda la violenza: la violenza è sempre la stessa, da qualunque parte venga? Sì, la violenza è uguale, non si può combattere la violenza con altra violenza, non combatti contro la violenza creando la violenza. Ci deve essere una linea tra la violenza e la tortura organizzata e l’istituzione che protegge l’integrità della gente: quando il governo tollera la violenza, anche chi governa si mette sullo stesso piano. Succede dove la violenza è istituzionalizzata o tollerata: è la differenza tra il vivere in una democrazia o tra i talebani. C’è poi il tema ricorrente del ricatto: pensa che il ricatto- ad ogni livello, politico o affettivo- sia un segno di vigliaccheria e di debolezza? Penso che il ricatto sia la via più breve per raggiungere cose che non sono raggiungibili. Per pagina 9 i terroristi è la cosa più facile, minacciare di uccidere un ostaggio al giorno se le loro richieste non vengono soddisfatte. La stessa cosa avviene per la polizia, per costringere qualcuno a testimoniare. È la via più breve e illegale per raggiungere quello che si vuole. Kostas si lamenta spesso dello strascico dei giochi olimpici: i vantaggi dell’essere il paese ospitante sono finiti insieme ai giochi? O ci sono stati anche dei veri svantaggi come conseguenza? Il vantaggio è stato che la Grecia ha avuto successo per la brillantezza dell’organizzazione. Dobbiamo considerare che in Grecia tutto è sempre un miracolo. La Grecia è molto male organizzata, non ha solide strutture, non ha una pianificazione efficace. Allora tutta questa debolezza dipende in qualche modo dal miracolo, nel caso si riesca a concludere qualcosa. Quando alla fine tutto funziona, gli stranieri dicono: «È un miracolo». Il male dei miracoli è che finiscono presto. Sono stati spesi un mucchio di soldi per costruire delle arene enormi perché si voleva impressionare i visitatori, è vero, ma anche perché gli appalti erano maggiori per costruzioni maggiori. Ora nessuno vuole queste strutture gigantesche, nessuno le vuole comperare, i costi di mantenimento sono alti, cadono a pezzi, sono abbandonate. Nel romanzo si parla di una zona che si è trasformata in alloggi economici di albanesi e zingari, sì, potrebbe essere una soluzione- ma noi paghiamo ancora il debito. Un’altra cosa di cui Kostas si lamenta sono le «eurette»: quali sono state le conseguenze dell’introduzione dell’euro in Grecia? C’è stato un aumento dei prezzi come in Italia? In Grecia con l’euro è successo come ovunque, i prezzi sono aumentati in maniera spropositata. Però se non fossimo entrati in Eurolandia, la dracma sarebbe crollata. L’euro è molto più stabile e anche più costoso. Per tutti i greci è diventata abitudine cambiare mentalmente il prezzo in euro in quello corrispondente nelle vecchie dracme per rendersi conto di quanto costi qualcosa. Il vantaggio è che i greci non hanno alcun senso del denaro e così i politici se la sono cavata. Ma i greci fanno fatica a mantenere il livello di vita che avevano prima, nelle famiglie si deve lavorare in due e poi c’è il problema degli interessi di credito, dei prestiti e dei mutui. Di recente, in Italia, ci sono state delle discussioni sui giornali sul termine politicamente corretto da usare per gli omosessuali. Le parole usate nel romanzo sono divertenti e non proprio corrette, c’è persino l’adattamento del vocabolo «finocchio» in «finocchicidio». Non c’è in Grecia l’ossessione per il politicamente corretto? Come scrittore vivo in un ambiente in cui gli omosessuali - o i gay che dir si voglia - sono molto numerosi. Ho molti amici gay. Ma, fuori della cerchia degli artisti o dei letterati, le parole usate per gli omosessuali sono offensive e per questo ho messo nel romanzo delle vittime omosessuali, per questo ho usato volutamente un certo linguaggio «scorretto», per mostrare il pregiudizio su queste persone. Il passato riaffiora in molti suoi romanzi: quale consapevolezza hanno i giovani di come fosse la vita in Grecia anche solo trent’anni fa? Nessuna, definitivamente nessuna. Da noi non è successo come è successo in Germania o altrove, dove si è chiesto a quelli della passata generazione che cosa avessero fatto durante la guerra. Noi greci non abbiamo elaborato il passato, per quello insisto su questo tema nei miei romanzi e in questo in particolare. Dobbiamo affrontare il passato, e invece nessuno lo fa, neppure gli scrittori lo fanno ed è ancora peggio. È necessario un lavoro storico organizzato per affrontare il passato, della guerra civile, della giunta. Adesso forse questo lavoro sta iniziando, ma molto lentamente. Caterina ha terminato gli studi, la Mirafiori pare fermarsi definitivamente da un momento all’altro. Andrà in pensione il commissario Charitos? Ah, la Mirafiori! Non so proprio che cosa fare con la Mirafiori! Ma no, Kostas Charitos non andrà ancora in pensione. MICHELE GIANNONE MARCO INNOCENTI LAURA CAMPIGLIO IL SEGRETO DI KRUNE DIARIO DI UN ACCALAPPIACANI INVECE LINDA In un’oscura metropoli, la corsa dei cani e degli uomini verso la libertà. “Invece Linda è una storia d’amore e di rigurgito, è una mela avvelenata, un flipper in tilt per i troppi scossoni". Andrea G. Pinketts 496 pp - 18 euro - leggi l’incipit su www.darioflaccovio.it 184 pp - 12,50 euro - leggi l’incipit su www.darioflaccovio.it 224 pp - 13 euro - leggi l’incipit su www.darioflaccovio.it Dario Flaccovio Editore Dario Flaccovio Editore Dario Flaccovio Editore Dalla Sicilia, una nuova voce del fantasy che trascinerà i lettori in un viaggio affascinante. 10 I n t e r v i s t e la festa di Ognissanti del 1975, la vigilia della ricorrenza dei Morti: c’è aria di morte in Spagna, non solo perché sta morendo il Caudillo, ma perché insieme a lui - si sa, si avverte nell’aria, si coglie in qualche parola, si teme, si auspica - scompare un’epoca contrassegnata dall’oscurantismo e da regole ferree, dal bigottismo e dalla morale ipocrita. Per i fedelissimi è la fine della grande Spagna (ed è una strana coincidenza che proprio gli ultimi giorni di vita di Franco siano anche gli ultimi giorni del dominio spagnolo nel Sahara), per la Chiesa è il trionfo della «città del diavolo» che è poi la temuta Spagna rossa e atea. E forse l’immagine che meglio rappresenta il vecchio e il nuovo nel romanzo di Ángela Vallvey è quella della nera tonaca svolazzante del curato in bicicletta, un’ala di pipistrello che lascia intravedere i jeans che Don Alberto - che rinuncia volentieri al Don invitando Ricardo a chiamarlo solo per nome - indossa sotto. Per Don Dionisio (che i ragazzi chiamano irrispettosamente «la Reliquia», perché è vecchio, perché, anche se loro non lo sanno, è un sopravvissuto) questo prete appena arrivato è troppo giovane, troppo bello, troppo con l’aria da ragazzone sportivo. Tocca proprio a Don Alberto trovare la donna morta, uccisa con 29 coltellate. Ed è un bene perché la reazione di Don Alberto è quella giusta e spontanea, di orrore e di pena non guastati dai pregiudizi. Perché fa forse differenze la morte? Si può dire che Clara, bella e piena di vita (e i compaesani naturalmente mormoravano che «la dava a tutti»), meritava di morire mentre anche «il Timoniere sorridente» sta morendo? Come se anche lui se lo meritasse. L’assassinio di Clara è un espediente narrativo necessario, perché mette in moto le due inchieste, della Guardia Civil e del curato con il ragazzino. E il decenne Ricardo diventa il personaggio più importante, osservatore innocente che può guardare il mondo della sua famiglia, origliando parole non destinate alle sue orecchie e sollecitato dal nonno irriverente ad una visione diversa, quello della scuola (che è, in piccolo, uguale a quello degli adulti, già terribilmente crudele con la bambina figlia di Clara), quello del paese che trabocca di pettegolezzi e di voci più o meno fondate. A volte ci si dimentica che Ricardo è solo un bambino, le cose che dice, le parole che usa, le osservazioni che fa, sarebbero più adeguate in bocca ad un ragazzo più grande. Più indovinata ci pare la voce della sorellina Macarena, bambina precoce che deve rivaleggiare con i fratelli più grandi, deliziosamente ambiziosa e curiosa, il che le assegna un ruolo importante nella trama. Venti giorni dura l’inchiesta per la morte di Clara, scanditi ossessivamente con i bollettini medici e le notizie di politica estera, e se alla fine resta qualche dubbio su chi sia il colpevole, è perché molti sono i responsabili anche se uno solo ha impugnato il coltello. Ed intanto è un bene che la figlia di Clara vada a studiare altrove - i tempi dei cambiamenti sono lunghi ovunque, ma ancora di più lo sono nei paesi, dove anche la memoria è lunga. Giusta e sbagliata, nel bene e nel male, nel vero e nel falso. Stilos ha intervistato la Vallvey. La città del diavolo è un romanzo molto diverso dai suoi precedenti, A caccia dell’ultimo uomo selvaggio e Lezioni di felicità. Che cosa l’ha spinta a cambiare genere? E come definirebbe il suo romanzo? Un noir, un romanzo di indagine poliziesca, un romanzo socio-storico con un’indagine? È vero che è un libro molto diverso dai precedenti, ma non sono certo una scrittrice che scrive sempre lo stesso libro. Ho molti scrupoli nei riguardi della foresta amazzonica e non voglio che venga sprecata della carta per storie sempre uguali. La città del diavolo è un romanzo di intrigo che non segue i soliti canoni, è soprattutto un romanzo di emozioni in un contesto storico di terribili cambiamenti nella società spagnola, visti attraverso gli occhi di un bambino che non sa che cosa stia succedendo. È un romanzo su un residuo di Spagna che scompare, un romanzo nero ma prima di tutto un romanzo di emozioni violente. Lei aveva più o meno l’età del chierichetto Ricardo nel 1975, quando è morto Franco: che cosa ricorda di quei giorni? Non ricordo molto, ricordo che erano cambiati i programmi televisivi, che suonavano sempre musica classica e questo significava che era successo qualcosa. Ma, d’altronde, Franco non esisteva nella vita quotidiana della maggior parte degli spagnoli, a meno che non ci fosse una coscienza politica nelle famiglie. E questo romanzo è un po’un’archeologia della memoria, un ricordare la storia che ho studiato, perché ho una formazione storica universitaria. All’università era faticoso studiare questo periodo, non risvegliava alcuna curiosità. Adesso, con Zapatero, c’è un revisionismo furioso per fare una giustizia anacronistica. Il romanzo è come un esercizio di memoria per parlare del senso di vergogna che si è provato a lungo verso questo periodo. La Spagna di oggi, la Spagna di Zapatero, è lontana anni luce dalla Spagna di Franco, in effetti più dei 30 anni che sono passati da allora, oppure i cambiamenti si sono susseguiti molto velocemente. Non così all’inizio, naturalmente: c’è un momento, una data E’ S t los ÁNGELA VALLVEY. «Clara rappresenta la Spagna come poteva essere, metafora di una Spagna meno schiava della sua ideologia. La domanda da farci oggi è se non sia morta davvero questa Spagna libera, se forse non sia mai nata» Il romanzo in nero della Spagna morta IL LIBRO MARILIA PICCONE VIVE A MILANO. SCRIVE SU UNA RIVISTA WEB. HA SVOLTO ATTIVITÀ DI TRADUTTRICE DALL’INGLESE particolare a partire dalla quale c’è stata come una rincorsa di novità? Sì, c’è un momento in cui c’è stata un’accelerazione. Nel modo in cui è stata vissuta la transizione c’è stata una volontà di conciliazione e di dimenticare, un desiderio di perdono per tutto quello di terribile che era accaduto durante la guerra civile, una guerra più crudele di quanto lo siano state altre guerre civili in Europa, in Finlandia o in Grecia, ad esempio. C’era la volontà di girare la pagina. Questo sforzo di conciliazione diede i suoi frutti, in molte cose è stato un bene e in molte altre un male, la frammentazione della società spagnola non era così evidente. Le due Spagne, della destra e della sinistra, del Fronte nazionale azzurro e del Fronte Popolare rosso, non erano così nettamente marcate in questi 30 anni come lo sono ora. Poi il terrorismo, gli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid e quello più recente del 31 dicembre 2006, hanno aperto un ciclo sospinto dal governo di Zapatero e la memoria storica si è trasformata in un fronte aperto. È una cosa che mi fa paura, che mi dà i brividi, perché la Spagna è un paese feroce. La volta scorsa che sono stata in Italia, per la presentazione del mio romanzo precedente, era stato poco dopo l’attentato del marzo 2004, c’erano stati 192 morti, un massacro, la Spagna era tremendamente scossa. Poteva servire per unire la società spagnola e invece si è creata in Spagna una frattura tremenda e continuiamo con questa divisione. Ci siamo rivolti verso il passato in una maniera poco piacevole. Il guaio è che in Spagna manca un’idea di socialdemocrazia, la destra e la sinistra hanno tinte molto forti e nette, come in passato. Dopo secoli di storia di tradizione fortemente e rigidamente cattolica - pensiamo ai re cattolici, all’Inquisizione - qual è la presa che ha oggi la Chiesa in Spagna? La Chiesa non ha più alcun potere in Spagna oggi, d’altra parte neppure con Franco fu il braccio politico o sociale del governo. Anzi, nel 1952 la Chiesa si è separata nettamente da Franco, chiedendo perdono per essersi schierata con Franco durante la guerra civile. Inten- In tre C nella terra A d’oriente T A L O G O ÁNGELA VALLVEY "La città del diavolo" Trad. Roberto Bovaia pp. 325, euro 16 Guanda, 2007 Una ragazza assassinata quando muore Franco Novembre 1975, Spagna. Il Generalissimo sta agonizzando, nel paese di San Esteban viene trovata morta Clara, ventinovenne ragazza madre sospettata di far parte del Partito comunista clandestino. Mentre la Guardia Civil indaga sul delitto, anche il giovane curato Don Alberto e il chierichetto Ricardo, compagno di scuola della figlia di Clara, svolgono una ricerca parallela. La radio trasmette bollettini sulla salute di Franco e sul procedere della Marcia Verde in Africa, e mentre dall’estero giungono notizie della morte di Pasolini, nel paese vengono alla luce meschinità, ottusità e colpe segrete nascoste dalle mura domestiche. L’omicidio di Clara apare sempre più un sacrificio rituale. deva con quello salvaguardare la sua indipendenza e non essere il braccio politico di Franco. Per Franco fu un trauma. Oggi la Chiesa è «disattivata»: siamo tutti cattolici ma i praticanti sono ogni giorno di meno e il potere della Chiesa è inesistente. Riaffiora però una campagna anticlericale che riporta ai tempi di una volta, anche se ormai non si ammazzano più preti e monache. Pochi giorni fa c’è stato uno scandalo: in Estremadura con il denaro pubblico è stata finanziata la pubblicazione di un catalogo di foto pornografiche a soggetto religioso, qualcosa di vergognoso sia per i credenti sia per i non credenti come me - io sono, come dice Buñuel, «atea per grazia di Dio». È inconcepibile che delle autorità politiche che si pongono al fianco degli islamici quando vengono pubblicate delle vignette ol- KIEN NGUYEN "Il coloniale" Trad. Laura Noulian pp. 413, euro 16,50 Garzanti, 2007 Oriente e Occidente agli albori del colonialismo in un romanzo di grandi passioni e ambizioni. È il 1773, il porto di Marsiglia è affollato di viaggiatori, marinai e commercianti, monaci e sacerdoti. Tre uomini, Monsignor Pierre de Béhaine, gesuita, François Gervaise, un giovane pittore, Henri Monange, sedicenne e nullafacente, si imbarcano sulle navi della Compagnia di Gesù; sono diretti verso l’Annam, la terra a sud della Cina, l’odierno Vietnam. Sperano in una nuova vita. Doppio delitto a Leeds Nella foto Ángela Vallvey, che da Guanda ha pubblicato La città del diavolo traggiose per la loro religione, finanzino poi un catalogo del genere che istiga a comportamenti immorali e criminosi. Una nota iniziale dice che La città del diavolo era, in termini cardinalizi, «l’altra Spagna»: era una connotazione soltanto religiosa, come la dimora del peccato, o anche politica? Sia politica sia religiosa, in opposizione alla «città di Dio» di Sant’Agostino. La gente che appartiene alla città del diavolo è la Spagna rossa e anticlericale, la Spagna non ufficiale del franchismo, quella che non era d’accordo con il regime, al margine della legge divina. All’inizio del romanzo avvertiamo chiaramente che la morte di Clara serve da contrappunto a quella, attesa, del Generalissimo: era dunque necessario che fosse proprio Clara a morire? Forse no, ma è il motivo letterario perché funzioni il romanzo, contrapposto alla morte del Generalissimo. Clara rappresenta la Spagna come poteva essere, la Spagna più libera, lei è una donna «libera». Credo che Clara sia una metafora di una Spagna meno schiava della sua ideologia. La domanda da farci oggi è se non sia morta davvero questa Spagna libera, se forse non sia mai nata, se forse non siamo sempre tutti schiavi di una qualche ideologia. C’è un gioco di doppi nel romanzo, il più evidente è quello dei due sacerdoti, ci sono poi due padri, due bambine… La figura del doppio ha la sua importanza nel romanzo, anche se non funziona come nel motivo classico: è un riferimento alla duplicità che c’è in Spagna, alle due Spagne opposte, una contro l’altra, una diversa dall’altra. Le figure femminili, invece, sono quattro: la povera Clara che ha osato trasgredire, la goffa sorella, la madre di Ricardo che potremmo chiamare «la moglie», e la zia zitella. Si ha quasi l’impressione che, per la morale dell’epoca, fosse quasi una fortuna, o un merito, non essere attraenti. Il franchismo fu un regime che produsse questi personaggi: la zia zitella è un prodotto quanto mai tipico del franchismo, bianco e sterile, un tipo di donna molto utile per le famiglie, per occuparsi dei bambini, dare una mano in casa. È una sterilità che è un prodotto del franchismo, del suo controllo sociale. La madre di Ricardo è la donna innocente e fiduciosa, è il modello maggioritario per le donne degli anni ’70, che badano alla casa e ai figli, sono il pilastro della società ma senza una chiara coscienza di sé - mia madre era una donna così. C’è una serie di tipi che sono gli archetipi dell’epoca e funzionano sempre nei romanzi, come un abito che chiunque si può mettere. La scelta di un piccolo centro per la vicenda: è perché in un paese la rigidità della morale viene esasperata? San Esteban è un paese che non esiste, aveva in mente un luogo che lei conosce, come riferimento? San Esteban è un miscuglio di paesi diversi che conosco, avrebbe potuto essere qualunque società rurale del franchismo: erano tutti uguali, soprattutto in Castiglia e in Andalusia. Non potevo scegliere un luogo vero per una storia tremenda, perché poi gli abitanti se la sarebbero presa con me. Ed era necessario un paese perché nella città tutto è diverso, l’informazione era differente, i meccanismi sociali delle città, che accolgono l’emigrazione dai paesi, sono diversi. E sono diversi anche i crimini rurali da quelli cittadini: questo tipo di storia poteva svolgersi solo in un paese. Il giovane Don Alberto è amico di un gruppo di «preti rossi»: come venivano considerati, che libertà operativa avevano questi sacerdoti di sinistra? C’è un gioco di parole in Spagna per indicare l’ultima quindicina di anni della dittatura di Franco: si dice che non era una «dictadura» ma una «dictablanda», una dittatura morbida. C’erano parecchi gruppi di sacerdoti operai che fecero un grande lavoro sociale fra gli operai, erano tollerati e ben accolti sia dalla Chiesa sia dal regime. Franco non credette mai che la Chiesa potesse essergli nemica, i suoi nemici erano altri. La Guerra Civile è una delle ombre che si allungano nel romanzo, eppure la generazione dei giovanissimi - Ricardo e i suoi compagni di scuola - non ne sa molto, addirittura chiede di quale guerra si tratti. È stato un bene o un male che ci sia stato un lungo silenzio sulla guerra civile? Era un silenzio, per così dire, «fisiologico»? È stato proprio come dice lei, un silenzio fisiologico; non so se sia stato un bene o un male, è servito in questi trent’anni, adesso sembra non servire più. Forse, allora, era meglio portare i cadaveri alla luce subito e dargli sepoltura, perché ora stanno resuscitando. PETER ROBINSON "Black dog" Trad. Roberta Maresca pp. 499, euro 19 Rizzoli, 2007 Due indagini parallele che si intrecciano in questo thriller di Robinson. La prima storia si svolge nel settembre 1969, a Leeds, durante il primo festival all’aperto dello Yorkshire, con migliaia di giovani che si scatenano al ritmo dei Mad Hatters e l’omicidio di una diciassettenne. E sempre a Leeds, nel 2005, un altro omicidio, quello di un giovane giornalista musicale, su cui indaga l’ispettore Alan Banks. Banks scopre che il giornalista stava scrivendo un pezzo sui Mad Hatters. Capoverso pagina narratori stranieri IDOLINA LANDOLFI LA TORINO CREPUSCOLARE Curato da Roberto Rossi Precerutti e con scritti di Giovanna Ioli e Dario Capello (e bell’inserto fotografico sulla Torino liberty firmato da Nino Lucchesi), la silloge Torino Art Nouveau e Crepuscolare. Poeti e luoghi della poesia (Crocetti Editore, pp. 136, euro 25) presenta diciassette poeti torinesi, o che a Torino si trasferirono, attivi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; accomunati da vite perlopiù brevi, insidiate dalla malattia (soprattutto la tisi: così per Gozzano e altri) o falciate dalla Grande Guerra (così per Nino Oxilia). La Torino liberty è sovente il palcoscenico per la recita dei loro versi sussurrati, i loro abbandoni ad antiche malinconie, alla «dolcezza delle cose a fine volte», agli amori non vissuti e forse per questo i soli felici; o per le loro risate amare, talvolta sinistre, nell’elogio dell’ironia come unico approccio ad una realtà grottesca (è la «scuola dell’ironia» di Guido Gozzano, di Carlo Chiaves, autore della raccolta Sogno e ironia, 1910; di Carlo Vallini nel suo poemetto Un giorno: «Pper me la scuola migliore / è la scuola dell’ironia. / È più saggia, se tu sapessi, / della saggezza tua calva: / è quella che ancora ci salva / dal ridicolo verso noi stessi»). Una città che ci appare come minata da una segreta tabe, e suscita in loro sentimenti contrastanti, li affligge con la monotonia di giorni uguali; luogo da fuggire e da agognare quando si è lontani, come per Giovanni Croce, «malato di Torino», morto a ventidue anni e autore di un solo libro, L’anima di Torino, appunto. Il curatore del volume opportunamente inquadra, da un punto di vista biografico e critico, ciascun poeta di questo «crepuscolo», evidenziandone le caratteristiche comuni (prima tra tutte il senso della fine) e le peculiarità; e ne riporta alcune liriche esemplari di quella temperie culturale. I nomi sono noti e meno noti, da Arturo Graf, padre putativo di molti di essi, a Gozzano, da Amalia Guglielminetti, unica donna, a Giovanni Camerana, Enrico Thovez, Giulio Gianelli, Antonio Rubino ecc. Il «verso minore» di Graf, l’ottonario adottato nella raccolta Le rime della selva (1906) rappresenta per una generazione di poeti l’esortazione a ripiegare su un tono colloquiale, sommesso, cantori essi stessi degli aspetti più dimessi dell’esistenza, le tristezze domenicali, i luoghi che il tempo ha coperto della sua polvere, i salotti della buona borghesia fatti di ricordo e nostalgia: «Ho caro il picciolo verso / Che guizzi come saetta, / […] // Leggere vuoi? Non cercare / Nel disadorno volume / Il superesteticume, / Le preziosaggini rare». In molti raccolgono l’invito ideale. Di Giovanni Camerana sono qui proposte alcune liriche dedicate alla Madonna del Santuario di Oropa, cui il poeta chiede invano conforto quando «la gran notte interior dispiega / le immonde ali d’upùpa orribilmente». Un ossianesimo che ritorna in taluni altri, come Antonio Rubino, che nella raccolta Versi e disegni, dell’1911, indulge in macabre visioni, paesaggi lunari pervasi da un intimo orrore: «Passa la luna fredda sui macigni / senza che il volto dell’orrore muti: / la gran ruina è piena di sogghigni / come un ammasso di teschi caduti» (Insidie lunari). Da Il poema dell’adolescenza (1901) di Enrico Thovez, «personalità tra le più complesse e contraddittorie dell’ambiente culturale subalpino del primo Novecento», sono tratti alcuni componimenti in cui compare una Torino osservata come attraverso un velo di lacrime e abitata da fantasmi inquieti, dove una «lunga agonia», un presagio di morte s’intravede tra le familiari parvenze. I ritmi cantabili di Ernesto Ragazzoni, il suo divertito sberleffo, ebbero al tempo, e fino ad oggi, una certa fortuna: l’Elegia del verme solitario, con le sue strofe tutte concluse in maniera identica («perch’io solo sono il verme / lungo verme / cupo verme / cieco verme / bieco verme / triste verme / solitario») resta un piccolo classico nel suo genere. Seminatore di tematiche che avranno poi larga diffusione è Cosimo Giorgieri-Contri, il cui Convegno dei cipressi (1894) è opera paradigmatica, con il vasto armamentario crepuscolare cui abbiamo accennato, e una Torino che si offre ad una mesta «recita del congedo», come scrive il curatore: così in Sul corso re Umberto e In piazza della Gran Madre di Dio, qui antologizzate. S t los narratori stranieri I n t e r v i s t e I EMILIA PAGLIANO l giovanissimo scrittore spagnolo Juan Gómez-Jurado sovverte le regole del giallo nel suo primo romanzo intitolato La spia di Dio, un nuovo titolo della serie clericale oggi di voga. Perché la domanda tipica, «chi è l’assassino?», viene sostituita da un’altra, «dove è? dove si nasconde?», non appena l’americano padre Anthony Fowler arriva sulla scena del delitto (una Roma congestionata da milioni di fedeli accorsi da ogni dove per un ultimo saluto al capo della cristianità appena deceduto: il quadro di riferimenti a Papa Wojtyla è tenuto sotto stretto cotnrollo storico) e fa il nome di Viktor Karoski, sacerdote di origine polacca recidivo per abusi sessuali e pedofilia, già internato per riabilitazione nell’Istituto Saint Matthew da cui era poi fuggito, volatizzandosi, nel 2000. Juan Gómez-Jurado intreccia un thriller con materiale scottante, portando ad estreme conseguenze una colpa a lungo taciuta, la propensione di parecchi sacerdoti ad intrattenersi con i ragazzini delle cui anime sono responsabili. Con il silenzio acquiescente, altrettanto scellerato e ancora più colpevole dei superiori che provvedono, al più, a spostarli di parrocchia in un itinerante sentiero della pedofilia. Viktor Karoski è il colpevole, ma chi altro lo è, assieme a lui? Viktor Karoski è l’assassino, ma come, che cosa, chi lo ha fatto diventare un serial killer che mutila le sue vittime? Ogni capitolo de La spia di Dio è intitolato con un luogo, un indirizzo e una data, e i capitoli si alternano, con un ritmo diverso, con una differente discesa nell’inferno dentro e fuori i personaggi. La vicenda si svolge a Roma - nei dolenti giorni del lutto per Viktor Karoski, il prete astuto dalle molte maschere - nell’arco di cinque giorni, tra il 5 e il 10 aprile 2005, mentre il passato di Karoski è esplorato attraverso le conversazioni tra lui e il direttore dell’Istituto Saint Matthew, durante sedute normali o di ipnosi, registrate dal 1994 al 1998, con aggiunte esplicative da parte di padre Fowler. Ne esce un quadro agghiacciante, di un Karoski bambino molestato sia dal padre sia dalla madre, punito con la reclusione dentro un armadio per un mese intero per qualcosa che non ha fatto, un Karoski che è passato dall’essere vittima nell’ambito familiare ad esercitare lui stesso un ugual tipo di violenza sui minori per tornare ad essere vittima. Ma non vogliamo aggiungere altro. E tuttavia il destino dell’uomo non è predeterminato, la grandezza del cattolicesimo sta nel riconoscere all’uomo il libero arbitrio e padre Anthony Fowler, «la spia di Dio», è il personaggio antitetico a Viktor Karoski. Di Anthony Fowler sappiamo e non sappiamo, il sovrastante della Gendarmeria vaticana lo accusa di essere addirittura un assassino in quanto agente della Cia ed esibisce foto di Fowler in Nicaragua in mezzo a cumuli di morti. Ma perché mai si era arruolato volontario per il Vietnam dopo una laurea con lode in psicologia? E perché aveva rifiutato di beneficiare dell’ingente eredità paterna? Personaggio enigmatico e affascinante, a lui spettano le parole luminose che fanno sperare nel trionfo della Chiesa che risorge dalle ceneri. In risposta al profiler Paola Dicanti che dice «Dio, che schifo. Meno male che mi sono allontanata dalla Chiesa», padre Fowler ribatte «Dottoressa, non cada in questo errore. Dietro questa Chiesa di fango e di sangue che lei vede ce n’è un’altra, infinita e invisibile i cui stendardi si levano dritti fino al Cielo. Quella Chiesa vive nei milioni di anime che amano Cristo e il suo messaggio». Stilos ha intervistato Juan Gómez-Jurado, che vive con la moglie e la figlia a Madrid, dove è nato nel 1977. Ad una prima lettura il romanzo La spia di Dio sembra essere un thriller in cui il nodo centrale della colpa è la pedofilia dei sacerdoti. Una lettura più approfondita rivela però che anche l’ambizione dei sacerdoti è JUAN GÓMEZ-JURADO IL LIBRO JUAN GÓMEZ-JURADO "La spia di Dio" Trad. Patrizia Spinato pp. 348, euro 16,60 Longanesi, 2007 «Facevo ricerche per un noir quando una notte, sul cesto della roba sporca, ho visto una camicia nera con dentro una maglietta bianca. Nel buio sembrava una veste di sacerdote. Da lì l’idea: e se il serial killer fosse un prete?» L’ultimo conclave macchiato di sangue Roma, aprile 2005. È morto papa Giovanni Paolo II, i fedeli si affollano per l’ultimo tributo al Pontefice, i cardinali attendono l’inizio del conclave. Uno di questi viene trovato morto in una chiesa, un altro era già stato ucciso con modalità analoghe: i delitti sembrano opera di un serial killer. Paola Dicanti, unico profiler in Italia, viene chiamata a risolvere il caso. Sarà affiancata dal sovrastante della Gendarmeria vaticana e da un prete americano, già al servizio della Cia, in una corsa per impedire altre vittime. Autore dei delitti si rivela un sacerdote dal fosco passato e preda di turpi turbe. C’è un sacerdote serial killer nella Chiesa delle deviazioni sotto accusa. Quali sono stati gli spunti che hanno dato origine a questo romanzo? Già dal gennaio del 2003 avevo in mente di scrivere un romanzo con un serial killer e ho iniziato a fare delle ricerche. Nel periodo in cui ero occupato con queste ricerche preliminari, una notte mi sono svegliato per andare a prendere un bicchiere d’acqua e ho visto, sul cesto della roba sporca, una camicia nera con dentro una maglietta bianca. Nel buio della cucina sembrava una veste di sacerdote. Da lì è esplosa l’idea: e se il serial killer fosse un sacerdote? Sono stato sveglio tutta la notte a buttare giù delle idee su quel primo spunto e da lì ho iniziato ad investigare sul tema, a dirigere le mie ricerche per vedere se era possibile fare di un sacerdote un serial killer. Ho parlato con psichiatri criminologi, con medici legali specializzati in psichiatria e attraverso loro sono venuto a sapere del luogo di cui si parla nel libro, l’Istituto di Saint Matthew che esiste veramente con altro nome, incontrando così qualcosa che è difficile da digerire per un cattolico praticante. Non ci si aspetta che l’alta gerarchia ecclesiastica mandi lì un sacerdote invece di fargli affrontare la giustizia. La situazione di fondo è reale: il personaggio di Viktor Karoski si basa su due serial killer veri e un sacerdote pederasta che visse a Boston e ha abusato di 90 bambini. Quando si sentono queste cose, ci si chiede come si possano mandare i bambini all’oratorio a giocare, come si faceva un tempo. È vero, la domanda è come possiamo affrontare un’educazione cattolica per i nostri figli adesso che sappiamo che queste cose avvengono e sono sempre avvenute. C’è però da dire una cosa: io ho uno zio prete, da anni è missionario, fa un lavoro meraviglioso, vive in Perù e ogni giorno si assicura che 300 bambini abbiano da mangiare. È difficile far combaciare una situazione con l’altra. Credo che sia necessario tener sempre presente la considerazione che i sacerdoti sono esseri umani. Non si tratta di essere cattivi di per sé ma capaci di azioni cattive. È un argomento importante nel romanzo, che nessuno è al di sopra della legge, di Dio o degli uomini. È un segno dei tempi che certe turpitudini vengano alla luce, che sia stata infranta la barriera del silenzio in tutti i casi di violenza, sui bambini o sulle donne? C’è adesso una maggiore protezione garantita alle vittime che accusano il colpevole? No a entrambe le domande: gli indifesi sono sempre stati e saranno sempre tali. Al massimo nel mondo di oggi si viene a sapere quello che succede, quando succede, e può servire da deterrente per il futuro. Quello che si verifica nel romanzo, e che accade molto spesso quando le vittime di abusi sessuali sono bambini, è che questi tacciono. Se parlano, se i genitori sono cattolici, molto spesso la loro prima reazione è di non credere a quello che i bambini dicono. Perché per loro la figura del sacerdote è importante e, nel caso in cui il bambino non dice nulla, si crea una barriera mentale e poi è un trauma tremendo quando questa barriera cade, quando il bambino cresce. Per quello che riguarda l’ambientazione del romanzo, negli Stati Uniti negli anni ’60-’70-’80 ci fu una crisi di vocazioni nella Chiesa e il risultato fu che i criteri di ammissione nei sacerdozi si abbassarono. Vennero ammesse persone che non erano neppure capaci di badare a se stesse o con gravi problemi mentali. Gli scandali di cinque anni fa sono stati la conseguenza logica di questo, si sono venuti a sapere dei casi delle vittime degli abusi di questa ondata seminaristica. Che cosa pensa dell’obbligo del celibato per i preti cattolici? Nel romanzo, parlando della vita di padre Karoski, si accenna che la sua scelta di entrare nella Chiesa sia stata dovuta anche alle sue tendenze sessuali, forse con la speranza di soffocarle. Se la scelta del sacerdozio, anche a livello inconscio, è fatta per reprimere un’omosessualità latente, può servire a qualcosa abolire il celibato? Il sacerdozio non è certamente il luogo dove mettere fine ai nostri problemi, e lo dico da cattolico. È una vocazione di servizio agli altri e presuppone la negazione di se stessi. Non so se potrebbe servire abolire il celibato. Vorrei dire però che le norme sono quelle che sono e se uno vuole diventare sacerdote cattolico sa che cosa lo aspetta. Avrebbe potuto scegliere un personaggio maschile per il profiler italiano. Ha attribuito questo ruolo a Paola Dicanti per bi- pagina Nella foto lo spagnolo Juan Gómez-Jurado, autore per Longanesi di La spia di Dio lanciare la forte presenza maschile nel libro? Sì e no: alla fine la giornalista Andrea e Paola Dicanti sono i veri protagonisti e il ruolo della donna è molto importante. D’altronde vivo circondato da donne forti, mia moglie, mia figlia che ha un carattere tremendo… In genere nei thriller, soprattutto se di genere poliziesco, il protagonista è un uomo. Qualunque donna è in grado di fare il lavoro di un uomo, ma quello che è specialmente interessante in un caso così, in cui Paola deve affrontare il serial killer, è che non solo l’ambiente della polizia italiana in cui lavora è dominato da uomini, ma deve anche interagire con il Vaticano che non è molto liberale e amico delle donne. Si verifica così una grande tensione nel romanzo. Il personaggio di Paola Dicanti serve da catalizzatore per le energie delle altre due figure maschili, padre Fowler e il sovrastante Fabio Dante: due uomini che agiscono entrambi entro la Chiesa, hanno molto in comune ma sono molto diversi: è padre Fowler il più libero dei due? Sì, padre Fowler risponde di più al suo cuore e alla sua coscienza, anche se non è sempre stato così in passato, perché ha fatto delle cose seguendo gli ordini delle istituzioni, e non ne è affatto orgoglioso. Padre Fowler è un personaggio in evoluzione, si trova in un momento di crisi, non tanto di fede ma dell’equilibrio tra quello che crede sia giusto e il voto di obbedienza. La sua è una situazione di sospensione di ambiguità. Fabio Dante è un uomo diretto, uno che crede che la distanza più breve tra due punti sia la linea retta. Qualunque cosa si interponga tra i due punti… non vogliamo dire che cosa succede. Dal suo libro appare chiaro che la Chiesa, rappresentata come è dalla Città del Vaticano, ha più a che fare con la politica che con la religione, eppure c’è sempre questa ambiguità per cui a rivelare le mancanze della Chiesa pare sempre di essere antireligiosi o atei: come è vissuta la religione in Spagna oggigiorno, uno dei paesi cattolici per eccellenza? Prima di tutto vorrei dire che sono certo che nessuno possa comprendere questo romanzo meglio del pubblico italiano perché in Italia si è sempre capito che una cosa è la Chiesa cattolica e una cosa è il suo potere politico. Il lettore italiano conosce la storia della Chiesa cattolica. Sa che negli ultimi sei secoli i Papi furono principi d’Europa con un esercito… non intendo insegnare agli italiani una storia che sanno. Questa distinzione non è stata così immediata negli altri paesi: in Spagna il romanzo ha suscitato grandi controversie sui media, forse perché non sono consapevoli di un fatto che è così chiaro per gli italiani. Nel romanzo si parla di Chiese diverse, Fowler distingue tra la Chiesa visibile e quella invisibile, tra Chiesa e Stato del Vaticano. Io cerco di spiegare al pubblico, per capire Dante e Fowler, che lo Stato del Vaticano è importante perché, benché solo tremila persone abbiano il passaporto vaticano, l’influenza del capo di Stato del Vaticano agisce su un miliardo di persone. Il Papa come capo di Stato vive sotto la costante minaccia dei terroristi, come abbiamo visto in passato. Un fatto poco conosciuto è che, quando Golda Meir visitò il Vaticano, ci fu una cellula terrorista islamica che aveva pianificato un attentato al suo aereo e fu il servizio segreto del Vaticano, in collaborazione col Mossad, che lo sventò. È anche la prova sottile dell’esistenza della Santa Alleanza, il servizio segreto del Vaticano che è anche il più antico del mondo: se non vado errato fu fondato da uno spagnolo nel 1566. Lei ricorre a parecchie note esplicative a piè pagina, il che non è usuale in un romanzo giallo. Come mai lo ha ritenuto necessario? Quando ho iniziato a scrivere, le note erano solo delle mie riflessioni su quello che scrivevo e non pensavo di lasciarle nel testo. Per errore furono inviate nel primo manoscritto al mio editore, sono piaciute e sono rimaste lì. In Spagna sono piaciute, sono un filo conduttore della realtà, una guida per chi sta calpestando un terreno pericoloso. In una di queste note si dice che l’Istituto di Saint Matthew per la riabilitazione dei preti cattolici esiste veramente: come ne è venuto a conoscenza? Sono venuto a sapere dell’istituto tramite le vittime di abusi negli Stati Uniti. Ho iniziato a fare ricerche e ho scoperto che è uno di quei luoghi che «si nascondono in piena vista», che sono sotto gli occhi di tutti quelli che sanno vedere. Ce ne sono cinque in totale, due negli Stati Uniti, uno in Canada, uno in Argentina e uno in Italia che è discretamente definito come casa di ritiro. Un dettaglio mi è parso poco credibile: si dice che il vice di Paola Dicanti è un uomo che va a messa tutte le domeniche. Come è possibile che non capisca subito che Mt 16 indichi un passaggio del Vangelo di Matteo? Eppure succede anche se sembra strano a chi individua subito il riferimento. A volte le cose più ovvie sono le più difficili da riconoscereun esempio molto vicino a me: mia moglie va a messa tutte le domeniche eppure non ha capito il riferimento. È già al lavoro su un secondo romanzo? Pensa di continuare con il genere giallo? Se sì, perché questa scelta? Inizio a rispondere dalla fine: perché il thriller è la metafora perfetta per il secolo XXI, perché le regole del thriller parlano di come una persona normale, come possiamo essere lei ed io, si trovi davanti a pericoli fisici e sociali che si sovrappongono e deve affrontarli lottando contro il tempo. È una metafora della vita, soprattutto come la viviamo oggi. Oltre ad andare verso la morte in un conto alla rovescia, basta accendere la tv o sfogliare un giornale per capire che viviamo in un mondo in agitazione per molti pericoli sociali: e il terrorismo, il crimine, la corruzione sono gli argomenti tipici degli scrittori gialli. Credo che sia per questo che i romanzi gialli abbiano tanto successo in contrasto con il romanzo intimista degli anni ’70-’80-’90. La colpa è di uno scrittore italiano, Umberto Eco che ci ha insegnato che il noir - il ramo da cui si diparte il thriller - può avere molto a che fare con la nostra storia. È suo il merito di aver dato il via al noir intrecciato al romanzo storico. E sì, sto scrivendo un secondo romanzo e sarà ambientato in Medio Oriente. Visita il nostro sito! Edizioni Dedalo 11 www.edizionidedalo.it Jean-Paul Besset Étienne Klein Roland Lehoucq Roland Lehoucq La scelta difficile Piccolo viaggio nel mondo dei quanti La luce… vista da vicino Il Sole la nostra stella Partendo dal suo personale percorso di allontanamento dalla sinistra radicale, Besset descrive il senso di lacerazione provocato dalla crisi dell’ideale progressista. Un secolo dopo la sua nascita, la fisica quantistica continua a sconcertare e affascinare. Un libro per indagare i princìpi e le leggi che stanno alla base delle sue importanti applicazioni tecnologiche. Cos’è la luce? Perché riscalda? Da quanti colori è composta? Un astrofisico in pensione risponde alle mille domande dei tre nipotini impazienti di capire meglio quello che vedono ogni giorno. Cos’è il Sole? Perché brilla? Come fa a scaldarci, se è così lontano? Un simpatico astronomo risponde alle domande di quattro piccoli amici, guidandoli in un viaggio alla scoperta della stella a noi più vicina. Ivan Cavicchi John e Mary Gribbin Jeremy Bentham Marcello Vigli Autonomia e responsabilità Oltre la Via Lattea Libertà di gusto e d’opinione Contaminazioni Come salvarsi dal progresso senza essere reazionari prefazione di Pietro Barcellona Un libro verde per medici e operatori della sanità pubblica Il libro esamina il cambiamento in positivo della figura del «paziente» in tutte le sue numerose sfaccettature e, parallelamente, il cambiamento in negativo della figura del dipendente sanitario. Gli scienziati che hanno misurato l’Universo Un altro liberalismo per la vita quotidiana a cura di Gianfranco Pellegrino Cosa si nasconde dietro un cielo stellato? Hubble, Wilson, Hale, Humason, sono solo alcuni degli scienziati che hanno dedicato la vita a misurare l’Universo. Quattro pamphlet liberali, quattro proposte di libertà nella nostra vita quotidiana. Un percorso di laicità fuori dai templi delle ideologie e delle religioni prefazione di Sergio Lariccia Incombe sul mondo la minaccia di una guerra di religione? Come vivere in pace in società diventate multietniche e multiculturali? In Italia conta più la CEI o il governo? S t los pagina 12 R a c c o n t o ell’intervista-dialogo con Italo Calvino (Stilos n. 11 dello scorso maggio) - repechage parziale dell’unico incontro televisivo accettato dallo scrittore nel 1979 - Calvino dichiarava la sua nostalgia di lettore per il feuilleton, il romanzo popolare. Nella suggestione perdurante (ed altrettanto nostalgica di quell’incontro) più che venti anni dopo (per citare Dumas) esattamente 28, ho scritto per Stilos, immaginandolo debitamente a puntate il racconto Delphine. Un pescecane per monsignore dedicato alla scrittrice Carolina Invernizio che Carducci dispregiò tacciandola di gallina della letteratura ed a cui Calvino rivolse invece un omaggio riguardoso e riconoscente. N VANNI RONSISVALLE Non vi era alcuna ragione per cui io quella mattina mi imbattessi nelle segrete vicende di Vive a Roma. Narratore, autore di testi teatraMonsignore. E tanto meno in ciò che metteva li, documentarista, ha scritto tra l’altro "Le notin relazione quelle vicende con un pescecane ti giganti" (Rizzoli), "Una signora a tre gambe" dello Stretto di Messina. Quella mattina io (Sciascia), "Tour Montparnasse" (Editori Riuniero uscito essenzialmente per soddisfare un ca- ti, Premio Bancarella), "La grande Mummia" priccio di Delphine. Naturalmente un capric- (Rusconi), "Gli Astronomi" (Sellerio), "Venerina" cio intellettuale come era nello stile di questa (Camunia), "Il meridiano della solitudine" (Noamica che portava quel nome per via di sua vecento), "Un amore di Gide" (Aragno), "Storia madre, appassionata traduttrice nella nostra della nave Artiglio" (Giunti), i versi di "Attuale estensione di Messina" (Sciascia), "Porto Bralingua di tutte le opere di Madame de Staël. Era una bella mattina di sole ma io mi immer- dao" (Rai-Eri). Ha collaborato a "Il Mondo" di si senza rimpianto nella silenziosa penombra - Pannunzio, "Il Giorno", "La Stampa", "Il Mescomune ad alcuni sottoboschi ed a certe chie- saggero", "Corriere della Sera". Tiene una rubrise del centro storico di Roma poco frequenta- ca su "Stilos" te dai fedeli - la penombra appunto della Bigli intellettuali, a meno che i componenti non blioteca M. Perchè lì, secondo il mio fiuto, avrei trovato la contraggano tutti le deformità del caso - talvolsoluzione di quel mistero marino o rarità degli ta anche fisiche (ma nessuno di casa Leopardi abissi, per cui Delphine sospirava. E le mie fu afflitto da gibbosi, una sola delle sorelle azioni, nella scala infiocchettata dei valori Bronte aveva il gozzo) - ossia dell’astro che sentimentali che ci univano in quei giorni, sa- brilla tra loro, sono per sempre dannate. rebbero certamente salite. E la studiosa di Ma- Delphine, a parte la giovanile capricciosità, dame de Staël, madre normalmente distratta da aveva colto in tutto i caratteri della sua mamalti pensieri ma qua e là capace di sospetti ba- ma, come una goccia d’acqua deriva limpideznali come una madre qualunque, avrebbe za, peso specifico, salinità o alcalinità dall’acguardato con più simpatia alla nostra acerba qua più in generale da cui si è staccata, poniamo una fontana che gorgogliando in un giardirelazione. Su ogni tavolo di lettura brillava dolcemente no, con o senza ninfee, ne spruzzi intorno miun lume verde che proiettava la luce sui libri, lioni, così uguali, così parenti l’una e le altre. sulle carte, sulle mani dei lettori lasciandone Il commesso, servizievole, accese anche il lume alla mia destra - io occupavo la parte siniinconoscibile il viso. Commessi scivolavano elegantemente nelle stra del tavolo - così potei allargare a mio piacorsie tra i tavoli e gli scaffali deponendo o cere quei bei volumi rilegati con il dorso in scodellando volumi - dipendeva dal tempera- pelle, i titoli con caratteri in oro, i piatti di belmento e dalla quantità - davanti a quella gen- la carta marezzata; e poi il bloc-notes, il mio te senza volto in famelica attesa. Lettori. Una dizionarietto dei termini scientifici latini. Un modo anche questo per garantirmi di essere socondizione umana ancora tutta da esplorare. Era una biblioteca sublime. Con uno stile, di- lo a quel tavolo. Soltanto chi ha dimestichezrei, di gran lusso. I frequentatori non doveva- za con libri e biblioteche capisce quale specie no rompersi la testa a consultare scomodi o di sibaritico piacere esso sia; al riparo sopratpolverosi schedari. Niente cartellini ingialliti, tutto da quelle inspiegabili correnti di odio, fadalle collocazioni illeggibili e gli angoli untuo- tali tra lettori che se ne stanno per un puro si o deperiti. Ne vi erano (e non vi sarebbero scherzo del destino faccia a faccia, gomito a mai stati) modernissimi computer da interro- gomito, tentati soltanto di chiudere in un cergare come sibille, nel loro affabile abisso elet- chio magico se stessi ed il testo squadernato tronico di milioni di bit. Ma erano invitati a de- sotto il naso, inerme, pronto a farsi possedere. porre le loro richieste, scritte su appositi bi- Come una sposa non recalcitrante, la seconda gliettini, in un vassoio d’argento davanti alla notte di nozze. Caposala. La Caposala era un artigliere petto- Presto mi resi conto di non avere bisogno del ruto che non avevo mai visto tutta intera al- dizionarietto. La prosa dell’abate era limpida, tutta in volgal’impiedi. Per re, e raramenme era soltanI naturalisti dissero te faceva rito un busto. E corso all’eruche busto... «forse». Soltanto uno dizione classiMa disponeva ca. Brevissidi braccia lundisse: «L’unico che me nomenclaghissime, dita ture infiociperprensili, abbia parlato di un chettavano il più tentacoli suo testo, ma che dita, con corallo di di una tale elecui smistava i gante umiltà nostri desideincomparabile da non allarrata a quei marmi e dover commessi sobellezza nello Stretto ricorrere a lerti, eleganti e quel sussidiasilenziosi. di Messina fu rio della per«Signor Cilla, duta memoria la Trilogia di Spallanzani in un testo di un liceo, Durrell al nuormai introvabile» benché ben mero 20 barra fatto. C… La Vita L’abate Spalnei campi di Terenzio Varrone al 31 L…Signor Malangon, lanzani sapeva che un giorno avrebbe reso feprego, il quarto volume della raccolta "Gazzet- lice Delphine? Questo è improbabile, anche se ta di Parma, 1712, anno 13° al tavolo centrale negli ultimi tempi, incuriosito dal mesmerismo dove c’è quella rossa rompiballe… Prima che che confuse in qualche modo con le pratiche mi scappi la pazienza, signor Malangon, cac- esoteriche, prese ad interrogare il futuro; ma ciò che certo non sapeva (e quand’anche non chio!» Vi era stato un tempo, ma io non li avevo visti, gli sarebbe importato un fico secco) è come da che quei commessi furono tenuti ad indossare quel momento, da quel preciso momento in il tight, come quelli dei negozi Liberty a Lon- cui io aprii non il primo ma il terzo dei cinque dra. Chissà come vestiva allora la maitresse tomi dei Viaggi la mia vita cambiò radicalmendispensatrice di cartacei favori con dita esten- te. Nel giardino del palazzo dove aveva sede sibili a piacere? Poi era arrivata la democrazia e con essa gli l’austera biblioteca una fontanella riversava perennemente un rivolo d’acqua su sottili foabiti da pomeriggio. glie di papiro. Quando il silenzio nelle sale di *** Nel giro né lungo né breve di una mezzora, du- lettura era totale ed il vento cambiava direziorante la quale ebbi il tempo di appisolarmi in ne, da oriente ad occidente, allora anche attratutto quel silenzio protettivo, ottenni i miei li- verso le sigillate finestre (contro improbabili bri. Cinque volumi dei Viaggi alle Due Sicilie ladri - di libri? - rumori della strada, polvere, dell’abate Lazzaro Spallanzani, edito in Pavia uova di termite portate dal vento) penetrava per i tipi di Baldassare Comini stampatore, quel sommesso ruscellare. Ipnotico. Ma che nell’anno 1793, Essendo Regnante in Lom- non induceva al sonno più di quanto non lo provocassero, con effetto immediato, certe bardia... Delphine poteva essere contenta, da lì a poco pagine di quei volumi appena dissepolti dall’oavrei saputo esaudire la sua perentoria curio- blio. Federico II, il Grande Federico di Prussia, sità. Astrusa per chiunque non abbia avuto di- Voltaire e la zarina Caterina erano morti, tutti mestichezza con gli intellettuali o i componen- i grandi estimatori dell’abate emiliano erano ti delle loro tribolate famiglie. Le famiglie de- morti, tutti gli assidui corrispondenti di ogni “ Un capriccio di madame: accertare se una spilla di corallo comprata nella costa sullo Stretto di Messina è di grande valore per il pregiatissimo corallo che si trova in quelle acque oppure un oggetto qualsiasi perché nello Stretto non c’è mai stato il corallo. Un incarico ad accertare la verità e un viaggio dunque tra luoghi e libri, biblioteche e archivi in compagnia di due abati che nel Settecento sono stati sulle tracce del corallo messinese Alla ricerca dei libri sul mistero del corallo a Messina punto d’Europa dell’esimio scienziato, botanico, biologo e naturalista erano morti. A chi interessavano più i suoi sapienti volumi, (quello, ad esempio, inarrivabile sulla Rigenerazione del Lombrico) anche se nello stile di eleganti divagazioni di viaggio o Reisebuch? L’acqua della fontana nel cortile suonava, cantava e - forse - nella notte danzava; anche il capriccio di Delphine aveva a che fare con l’acqua. Non di ingenue fontanelle di un giardino della capitale, ma quella ora ribollente ora semplicemente vorticosa dello Stretto di Messina. Una volta Delphine e sua madre, in viaggio di piacere nell’isola, acquistarono in un mercatino lungo la costa orientale una spilla di corallo. Un corallo rosso cupo, venato di bianco, bellissimo. Questo corallo, disse il venditore dagli occhi ridenti alle due signore, è unico al mondo. Non se ne raccoglie più da due secoli. Perché soltanto fino a due secoli addietro si trovava il corallo nello Stretto di Messina. Vi portate via un tesoro. «Vi hanno preso in giro» le mortificò la sera un signore del luogo, che si era improvvisato loro chaperon, irritato per essere stato tagliato fuori dalle trattative e comunque dall’intero episodio, un diversivo nella sua noia mortale. «Non vi è stato mai corallo nello Stretto di Messina». Le signore, non rassegnandosi all’idea di essere state truffate, dissimularono con eleganza il disappunto, abbagliarono con sorrisetti di immotivata gratitudine quel cavalier servente di provincia, geloso di un incarico che nessuno gli aveva mai conferito. Ma tornando a casa, rimuginando in aeroplano, una volta nella capitale sguinzagliarono incaricati di fiducia, allacciarono provvisori rapporti con intenditori, si giurarono - madre e figlia - di sapere con certezza se avevano acquistato una vera rarità o un corallaccio qualunque pescato in Sardegna, nelle acque di Trapani, a Sciacca o nel Mar Rosso... Io me ne stetti per un poco sul ramo dell’albero, come dicono i tedeschi che hanno letto Jean Paul. La maggior parte delle risposte furono fumose. I naturalisti e i talassologi esperti delle acque siciliane dissero «forse» oppure «bisogna distinguere» oppure «lo escludo» oppure «come si può escludere?» a proposito della lontana presenza del corallo in quel tratto di mare. Soltanto uno fornì un’indicazione passabile: «L’unico a mia memoria che abbia parlato di un corallo di incomparabile bellezza nello Stretto di Messina fu Spallanzani. Ma in un testo ormai introvabile. Quella prima edizione che uscita senza il permesso dei Superiori fu subito ritirata. Nelle successive ogni riferimento al corallo fu espunto e cancellato, o comunque così abbreviato da risultare irrilevante». Perché? Quale fu la ragione del pentimento dell’abate Spallanzani? Mi resi conto come soprattutto in questo ansioso interrogativo, più che nell’episodio che l’aveva scatenato, consisteva il capriccio tutto intellettuale della mia amica Delphine; comunque sempre fiera della sua spilla acquistata a Messina. Quel fiore rosso spiccava come un semaforo tra le delizie del suo decolleté. Talvolta anche tra quelle meno acerbe della studiosa di Madame de Staël. Allora entrai in azione. O scesi in campo. Insomma venni giù dall’albero, come il personaggio di Jean Paul. Trascorsi un’intera mattinata alla Biblioteca M. Sono imbattibile in questa dedizione alla vecchia carta stampata; provo una specie di frusciante follia a sfogliare pagine annose; e quelle lo erano; stampate nel 1793; e senza «il permesso dei superiori». I commessi mi passavano vicino, spostando appena l’aria intorno a loro, esprimendo silenziosa e premurosa benché, appunto, muta - sollecitudine per le mie necessità supponibilmente capziose... Non ne ebbi che una (la richiesta supplementare di un opuscolo, che lessi in dieci minuti, annotandone passi succulenti) e forse li delusi un poco. Ma ne sapevo abbastanza. Abbastanza da accontentare la stramba curiosità di Delphine e quella rivendicativa della studiosa di madame de Staël. Del resto observer le coeur humain, c’est montrer l’influence de la morale sur la destinée. Non asseriva così quest’ultima in "Delphine", a pagina tre della prefazione? In quei giorni era disperatamente innamorata di Benjamin Constant, mi dette maliziosamente di gomito la madre di Delphine. A questo punto riemersi nel cortile della fontana, che non degnai di uno sguardo; inforcai la mia motocicletta - una Harley Davidson con sidecar - e riparandomi con uno sciarpone dal freddo pungente di un mezzogiorno decembrile (incurante degli sberleffi di certi giovani con occhiali scuri ed orecchino, certo invidiosi del mio sidecar più che della Harley Davidson) sfrecciai verso l’amore. Portavo con me ottime notizie. Per il momento. *** Il mio uomo non era Spallanzani. L’evanescente figura, finora dai contorni appena precisati, a cui cominciai subito a dare la caccia era tutt’altra persona. Un religioso, un abate anche lui (dell’ordine cistercense, che sfornava solo sapientoni) ma proprio l’opposto del girovago, universalmente illustre amico di regnanti e dei migliori talenti del secolo, il viaggiatore instancabile di fronte a cui si spalancavano le frontiere di tutti gli Stati, insomma dell’illustrissimo monsignore Lazzaro Spallanzani Grande Accademico della sapiente Pavia, sede di molteplici scibili. Il mio uomo, in quella tornata del 1789, aveva quarantun’anni. Era il terzultimo rampollo di una aristocratica famiglia di Messina. Era abate della Santissima Basilica di Terra Santa, titolo puramente nominale ma in quella chiesa, ammesso che esistesse ancora, dovevano averlo visto pochissimo, l’anno prima era stato nominato consigliere del Re (il Re di Napoli) e magistrato della scienza, aveva scritto un libro sui pittori siciliani, a cominciare da Antonello a finire a tal Zurlo (17011768), quindi dalla A alla Z, che avrebbe fatto testo ancora per due secoli, ma per pubblicarlo - tardando anche per lui il permesso dei superiori - aveva dovuto affidarlo al tedesco Hackert, pittore ufficiale alla corte di Napoli, di passaggio a Messina... Insomma un prete inquieto che si era laureato in medicina, ma anche in diritto internazionale; nel palazzo di famiglia, gioiello di Calamech, aveva raccolto un’immensa collezione di conchiglie ed altri reperti della storia del mare, doveva essere vagamente sospinto dall’ambizione; un’ambizione innocente tutta concentrata all’interno dei suoi studi. Per via di essa non esitò a iscriversi, nonostante lo «status servus Ecclesiae», alla Loggia di Messina e Malta... Sicché quando Goethe arrivò a Messina, prima di incontrarsi con quell’isterico governatore Hosea, che lo trattò malissimo, consegnò le sue credenziali massoniche al nostro uomo. Ed erano queste le occasioni che l’abate messinese attendeva notte e giorno, spiando il porto dalle finestre del suo bel palazzo. An- DUE ABATI E UN POLIPO che se i tempi erano diversi, aveva capito che soltanto le buone amicizie (come accade ancora oggi) l’avrebbero aiutato a trarsi dal solitario anonimato di quella sponda remota del regno borbonico in cui gli era capitato in sorte di nascere. Amen. Perché mi interessai a lui? (ricavando tali notizie dal giallastro opuscolo da due soldi schedato in Miscellanea - prontamente recatomi da uno di quei commessi, previo inoltro del mio biglietto alla piovra tettazzuta: una specie di libello dove, ho già detto, si lasciava trapelare il sospetto di una vita a doppio - e forse - triplo fondo...) Perché all’abate Gaetano Grano di Messina, Lazzaro Spallanzani, licenziando i suoi cinque tomi dei Viaggi al regno delle Due Sicilie, quasi in apertura del terzo tomo aveva dedicato in nota un panegirico riconoscente. Quindici righe vibranti di ammirazione e di rimpianto. Perché in vita i due non si sarebbero più rivisti. Ma si scrissero; e come se si scrissero... **** «Non avrei potuto scrivere nulla di sensato sulle piante, la qualità dei terreni, dall’arenaria al granito ed ai silicii, sui monti detti Peloritani intorno a Messina che contengono filoni d’oro e d’argento; sui fossili, i piccoli animali, i reperti marini, i testacei e le madrepore; sui terremoti e sulle correnti dello Stretto, su questa città con monumenti unici al mondo come il Teatro Marittimo, detto anche Palazzata, ottava meraviglia del mondo, senza l’ausilio del reverendissimo, eruditissimo monsignor Gaetano Grano... Fu lui che mi giovò quasi prendendomi per la mano come cieco per un giro in questa magica terra, per secondar le mie brame, aprendomi le porte dell’intera Sicilia ed in mancanza, nulla capendo, me ne sarei ito del tutto ignorante». Il trabocchetto era tutto lì, la verità era tutta consegnata a quella nota. Camuffata tra rigo e rigo, tra parola e parola. Bisognava leggerla controluce, come si guardano le cartemonete in odore di essere il capolavoro di un falsario. **** Partii all’indomani a bordo della mia Harley Davidson, il sidecar stipato delle mie carte da cui non mi separo se non con grande sofferenza, un cambio di biancheria (contavo di fare un viaggio breve) e pochi altri effetti personali. Un ritratto di Delphine, nella sua apposita custodia acquistata per questo genere di assenze (un grazioso oggetto di cuoio che si apriva come un libro, da una parte il viso ed il busto florido di Delphine, dall’altra una piccola sveglia). «Per scandire i minuti della nostra separazione», disse la figlia della studiosa votata soltanto alla Primadonna del Romanticismo. E mi strinse attorno al collo lo sciarpone, non tessuto certo dalle sue manine, ma acquistato a pagina Nella foto grande acquarello di ignoto intitolato "Visione della bella e grande città di Messina» (1783). Nelle foto piccole l’abate Gaetano Grano di Messina (a sinistra) e l’abate Lazzaro Spallanzani di Pavia Londra ai saldi di Harrod’s in una di quelle scorribande delle due instancabili viaggiatrici nel paese del dottor Johnson. Il dottor Samuel Johnson autore, tra gli altri suoi meriti, del romanzo filosofico "Rasselas". Due donne, insomma, dotate di trasporti entusiasti per la cultura e l’arte ma non sprovviste di senso pratico. «Torna vincitore» mi disse la bella. Volai attraverso mezza Italia, fermandomi soltanto per nutrire di benzina la mia cavalcatura, togliermi la polvere dagli occhialoni e, ormai non visto, liberarmi dello sciarpone in quel caldo torrido di un dicembre che ora somigliava ad un luglio; un caldo che si avvertiva anche alle più alte velocità. Ed essendo la mia motocicletta, un poco per via dell’anno di costruzione - il 1941, ancora non vi era stato Pearl Harbor per gli Usa, ma gli inglesi si accingevano a vincere la battaglia d’Inghilterra sulla Manica, - un poco per quel contrappeso del sidecar, alquanto in ritardo sulle risorse di qualunque altro mezzo di locomozione dei nostri tempi, gli Anni Novanta, quelle alte velocità me le sognavo. La sera alle otto desinavo a Reggio Emilia. Alle nove e mezzo dormivo della grossa, dopo dieci minuti di costose effusioni telefoniche con Delphine. La chiamai io per impedire che, dopo aver rivoltato il mondo tempestando alberghi e locande (e talvolta denunciando senza ragione una mia improbabile sparizione alle forze di polizia, nelle loro sedi istituzionali) mi sorprendesse nel primo sonno. **** Albeggiava quando uscii per le vie di Reggio Emilia, tanto che il portiere di notte dormiva ancora profondamente dietro il suo banco, in attesa che forze fresche venissero a dargli il cambio. Ma non avrei in ogni modo potuto eluderne la sorveglianza, qualora fossi stato sopraffatto dalla tentazione di tagliare la corda non pagando il conto, perché sbarrò subito un occhio, il sinistro, arpionandomi come un basilisco. Pagai, anche per il parcheggio anticipato del mio distinto mezzo di locomozione (che sarei passato a ritirare in serata) e mi avviai troppo precocemente verso la mia meta. Dovetti attendere tre ore, che passai contemplando le vetrate di certe finestrone della Biblioteca (Biblioteca e autografoteca comunale di Reggio Emilia) prima di potervi accedere. Mi confortava, dopo avermi procurato una comprensibile emozione, una freccia blu sull’angolo che indicava inequivocabilmente, fatalmente una direzione: «Scandiano Km 8». Scandiano, come ognuno sa, è il luogo di nascita di Lazzaro Spallanzani. E vi è pure un bel museo, si legge nelle Guide, che lo ricorda con preziosi, commoventi cimeli. Ciò che si salvò dopo la dispersione di ogni sua suppellettile e soprattutto delle sue carte private, da parte dell’unico affezionato fratello, che aveva vissuto alle sue spalle tutta la vita. Spudorato, pensai, al corrente della cosa. I pettegolezzi intorno agli artisti ed agli scienziati sono sempre succulenti. Parenti, vedove... Dio, le vedove degli scrittori! Mi distraevo in tali svagatezze quando finalmente suonò una campanella e si aprirono i battenti della Biblioteca. Filai dentro con quell’autentico, passionale brivido di piacere che sempre mi procura penetrare in questo genere di ricoveri per materiali assai fragili e così suscettibili di deperire a causa di: incendi, alluvioni, parassiti, muffe, incurie, fanatismi, guerre di religione, guerre tout court... E i lettori disonesti che scribacchiano sui margini, ne strappano le pagine? Soprattutto lo scaffale sormontato da un cartiglio, «Volumi non in prestito ma di sola consultazione» li istiga a voluttuose mutilazioni. Cosa vi è mai di inverecondo nel chiedere di fotocopiarli? Anche se Benjamin, lo sfortunato Benjamin (mia passione), si impensieriva per il concetto di riproducibilità. Ma si trattava di opere d’arte, non della manipolazione genetica - fotoclonazione - della carta stampata. È per questo che spesso un libro, anche un libro intonso, mai aperto mi commuove sino alle lacrime. Intanto per la precarietà del suo destino. Forse io sono qualcosa di più di un bibliofilo. O anche di un bibliomane fissato... **** La Biblioteca Comunale di Reggio Emilia è quanto di meglio si possa desiderare da un’istituzione di questo genere allo svoltare nel terzo millennio. Diciamo la quintessenza della modernità. Racchiusa però in un guscio di altisonante bellezza architettonica d’altri tempi, un prodigio di restyling, dove ad una facciata di sublime decoro falso rinascimentale, come non se ne vedono più (se non negli Stati Uniti e qualcosina in Inghilterra, per colpa di Flaxmann) corrispondono ambienti super-razionali alla Alvar Aalto, per intenderci. Dovetti schiacciarmi contro la parete in vinile (quel materiale dei vecchi, nostalgici dischi!) del corridoio per non essere travolto da ragazzi e ragazze velocissimi che scivolavano con pattini a rotelle sul pavimento di linoleum color polmone. Essi avevano tutti un viso ridente ed ispirato. Altri sospingevano carrelli d’acciaio dall’apparenza sterilizzata come uscissero da una sala operatoria. Invece di ferri chirurgici, flaconi di sangue o alcol, siringhe e bende, vi si trasportavano libri e libri. Essi emergevano dalle viscere della terra, dai sotterranei dell’ex palazzo dal finto passato cinquecentesco, per mezzo di elevatori a vista. Quando mi passò vicino uno di quei carrelli, appiattito com’ero contro il muro, terrorizzato dall’incurante velocità a cui si abbandonavano anche questi addetti, mi accorsi che ognuno di quei volumi era foderato con una curiosa protezione di lattice, la stessa materia di cui sono fatti i profilattici ed i guanti da cucina. Ognuno di quei commessi aveva le tempie serrate da una cuffia da walk-man; dopo seppi che non lavoravano a suon di musica ma raccoglievano istruzioni provenienti da chissà dove... E poi vi era un’altra gaia stranezza: tutta quella gente indossava camici di un azzurro celestiale su tute variopinte. Nell’insieme sembravano usciti da un musical di Broodway, genere ottimistico da Secondo dopoguerra. Attrassi l’attenzione di uno di questi indaffarati arcobaleni, un’esile arcangiolessa che per poco non si ruppe la testa per la mia intempestiva azione di bloccaggio (in pratica si tuffò senza volerlo sul mio petto - oh, il potente erotismo che circola nei boschi estivi, nelle biblioteche e nelle chiese dove si celebra un funerale! - ed insieme oscillammo in una danza ridicola, ma i libri che imprigionava sotto le ascelle vi rimasero saldamente). «Dove posso trovare...». Non mi dette il tempo di completare la circostanziata richiesta che fece cenno ad un altro giovanotto il quale, sempre oscillando su quei pattini, accolse l’altra metà della mia petizione. Fu costui, praticamente agganciato alle mie spalle, a sospingermi in una sala affollata da pianisti. *** Figure ispirate arpeggiavano con perizia sulle tastiere di piccoli computer, il viso illuminato dalla luce azzurrognola degli schermi, la musica silenziosa delle idee - ogni titolo di libro in qualche modo ne identifica almeno una - era per loro assolutamente percettibile. Benché non tutti avessero volti sensibili, anzi alcuni avevano un’aria completamente stupida. Il terzo da destra, nella seconda fila era l’addetto alla Autografoteca e dieci minuti dopo, benché la sua espressione appartenesse al secondo genere di quei pianisti, ci mettemmo d’accordo; sicché scivolai anch’io, ma su un comodo tapit-roulant, verso la sala di lettura di quel reparto speciale. Ancora cinque minuti, che impiegai a riprendermi da una certa umana inquietitudine, e su uno dei luccicanti carrelli arrivarono gioiosamente (dentro quei tutori di lattice morbidissimo che, come assicurano certe pubblicità, è perfettamente ingannevole quanto a somigliare alle pelli e mucose umane) alcune custodie rettangolari. Per l’esattezza dieci. Una conteneva undici lettere indirizzate a Lazzaro Spallanzani. Le altre nove il manoscritto originale e definitivo del suo Viaggi al Regno delle Due Sicilie; l’originale dei cinque volumi pubblicati senza il permesso dei superiori. Sedetti ed appena toccai con le natiche l’anatomico sgabello che le contenne piacevolmente - il sedere comodi è importante per il lettore di razza - una luce piovve sul tavolo, sui raccoglitori, sulle trasparenti protezioni di lattice, sulle mie mani tremanti. Senza che si generassero ombre. Era una luce da tavolo operatorio. Si chiama «scialitica», ricordai. «Magnifico», lo presi per un buon auspicio. Vocabolo magico, di musicalità orientale. Anche se sapeva di cloroformio. Me lo rigirai un poco in bocca. Scia-li-ti-ca... Al tavolo era assicurata, in cima ad un braccio mobile, una gigantesca lente d’ingrandimento; vedendomi riflesso un momento sulla levigatezza del tavolo, il mio occhio destro dietro quella lente risultava enorme, spaventoso. Ma ve n’era bisogno, i caratteri del manoscritto di Spallanzani erano minuscoli e nervosi; le pagine tormentatissime ed i margini stipati di note richiamate da una ragnatela di linee, leggere ma frastornanti. Quelli dell’autore delle lettere che Spallanza- 13 vi fu bisogno di alcuna acrobazia immaginativa. L’abate Grano chiamava le cose - non soltanto le vie, i palazzi, i monumenti, e poi... e Come lo studio porta poi...- con il loro nome. Sia se si trattava di soggetti scientifici, relativi alle scienze naturaal delitto perfetto listiche, sia che fossero personaggi e congreUn bibliomane innamorato indaga ghe eminenti della sua città. Passarono così tra sull’imbroglio ai danni di Delphine, di loro fossili marini e piccole lucertole solo che ha acquistato una spilla di antico colà esistenti, minerali e fenomeni come il corallo raccolto nello Stretto di Messigiuoco delle correnti dello Stretto o le tipicità na. Ma quando mai fu possibile racco- sussultorie, ondulatorie - dei ricorrenti terregliere coralli nei fondali precipiti dello moti (ve n’era stato uno quasi sei anni prima, Stretto? Di biblioteca in biblioteca rinel 1783, e con suo imbarazzo l’abate Grano salendo l’Italia lo spasimante di dovette convenire, aggirandosi i due fra tristisDelphine confronta manoscritti e testi sime macerie di illustri monumenti, che si era stampati di Lazzaro Spallanzani. Infatto ben poco per ricostruire la città riportanfatti, giusto sul finire del ’700, il celedola all’antica imponente bellezza; anzi con il berrimo abate si era fermato a Messimasochismo sottopelle dell’intellettuale che, na per studiarvi i fenomeni naturali e pur di raccontare un aneddoto saporito non nabiologici dello Stretto. Lo aiutava sconderebbe il passato burrascoso della madre, monsignor Grano, un erudito locale, l’abate siciliano ricordò come in occasione di uomo di chiesa anche lui; ma è un’auna visita del Re Carlo III furono approntate in micizia accesa dall’ambizione che si fretta e furia facciate di cartapesta per nasconconcluderà con una morte atroce. Un dere le tracce immutate, le macerie spettrali di delitto perfetto, studiato così bene che quel disastro; trappole del sud, scherzò...). nessuno ne sarebbe mai venuto a caGentilmente Spallanzani lodò l’idea di quegli po. L’imbroglio del corallo, roseo fiore artifici scenografici attribuendoli appunto ad del mare, si trasforma sotto gli occhi un tipo di geniale inventiva tutta meridionale... dell’esterrefatto amante di Delphine Trovai in proposito un riferimento nella lettenel noir che ha protagonista un mora terza, «la bontà dell’Eccellenza che assolve stro marino, uno squalo. La cui carl’astuzia birbona dei miei concittadini». Ma cassa imbalsamata è tuttora visibile al nella lettera terza trovai anche tutto sul coralMuseo di Storia Naturale di Pavia: ollo nello Stretto di Messina. E rivolsi un occhio tre le sue fauci pluridentate si intravepiù che mai innamorato a Delphine, un occhio de ancora dopo duecento anni l’imimmenso come potete immaginarlo. Perché percettibile chiave del delitto. guardai anche lei attraverso la lente d’ingrandimento, un effetto curioso che le ingigantiva il seno mostruosamente, mentre il capo divenni duecento anni addietro aveva ricevuto e tava piccolissimo. Un’involontaria metafora gelosamente conservate (ma dubito che pen- del mio reale interesse per Delphine, per il suo sasse dovessero giungere sino a noi, sarebbe corpo piuttosto che per la sua capricciosa intelstato una specie di suicidio) erano altrettanto ligenza? Ma ora l’avrei fatta felice, mentre la minuti, una lettera prodigiosamente uguale studiosa di Madame de Staël, colei che aveva all’altra, ma le righe millimetricamente sepa- generato e messo in circolazione nel mondo rate da spazi uguali, nessuna che come accade così tante attrattive in una sola persona, sua finello scrivere a mano, «piombasse» sulla sot- glia, me ne sarebbe stata riconoscente; tre coltostante, come le falde dei tetti di certe case di petti con le punte delle dita sul petto, proprio campagna; niente capilettera sbilenchi, enfati- all’altezza del cuore. Il cuore per la madre di ci, pretenziosi o banali a seconda dell’umore Delphine non era un organo, ma la sede di sendello scrivente. Anche graficamente quelle timenti. E di pensieri. Il cervello era per lei una lettere erano un capolavoro. Anche. Un capo- specie di intruso. E come sarebbe rimasta inlavoro di leggibilità. L’assenza di pentimenti e differente alla meravigliosa coincidenza che correzioni testimoniava il fatto che il corri- quei due, Grano e Spallanzani, fossero conspondente di Spallanzani aveva tenuto per sé temporanei della Divina Madame? la «bruttacopia» inviando all’abate di Pavia Il granduomo scortato dal piccolo uomo. In quei merletti di gran gusto calligrafico. una città friabile dove tuttora si staccavano sasE la firma in calce ad ogni lettera - dopo alme- si, innocue frane da chissà dove con rumori di no due righe di convenevoli generosi e che ina- sgretolamento, non esattamente localizzabili. nellavano almeno dieci aggettivi in cui il mit- Piccolo, il monsignore indigeno, ma a suo tente esaltava il destinatario (sempre illustris- modo importante. Eppure precedendo l’altro, simo, colendissimo sapiente, eccellentissimo e come paggio... Tra dissestate vie. «Venga, venerabile) mentre con altri cinque si umilia- venga avanti, eccellenza monsignore». Tra lova dicendosi servo, debitore inottemperante, ro monsignori, avrebbe sorriso un passante. devoto e manchevole... - era ugualmente accu- «Non si periti dall’avanzare, ogni rischio è firata e senza svolazzi. Ma chiara, come di uno nito». Uomini di libri. Un soffio d’aria unica che si assume tutte le responsabilità di ciò che gonfiava le loro sorti come vele. Ma i porti sula precede. La firma era la sua. Dell’abate di blimi dove era lecito calare l’ancora a ciascuMessina, Monsignor Gaetano Grano. no dei due erano così diversi. **** **** Avevo collocato accanto a me, sull’angolo Le cose dovevano essere andate così. Partendestro del tavolo, in un piccolo sicuro spazio dosi da Messina, dopo un sicuro, virile abbracricavato tra le carte di Grano e Spallanzani, la cio, il Viaggiatore chiese al Nuovo Amico che sveglietta portatile che si apriva in forma di li- rimaneva nell’isola natia di fornirgli per via bro. Dall’altra epistolare altre faccia del picnotizie, altri Il mio uomo era il colo conteniapprofonditore di cuoio menti dei temi terzultimo rampollo Delphine mi che avevano sorrideva dietoccato in di una aristocratica tro il rigoglio quelle esploradi quel seno zioni. Scripta famiglia di Messina. generoso. La verosimilia sveglietta non sunt. Felice Un prete inquieto infastidiva con per tanto onoossessivi ticre l’abate Grache aveva raccolto chettii. Al mono spergiurò mento giusto che non un’immensa si sarebbe fatavrebbe manta viva con un cato di acconcollezione di segnale lumitentare l’Illunoso. Avevo stre. conchiglie ed altri opportunaMessina, 18 mente spostareperti marini dicembre to la levetta 1789 che consente Ven.mo Sig.re di scegliere tra light e sound. Almeno così Ab.e e P.ne mio Osserv.mo... (Veneratissimo credevo. Cominciai dalle lettere. In ogni in- Signore Abate e Padrone mio Osservatissimo.) treccio romanzesco ben fatto le lettere sono un Quelle contrazioni interpuntate dovevano esespediente importante. Per dire e per non di- sere il massimo di una «modernità» di dubbio re, affidandosi alla sagacia del lettore. Quelle gusto; comunque un presagio del futuro stile che il mio fiuto aveva rintracciato erano reali, telegrafico messo in cima a capolavori di proaltroché. La mia intuizione, che i due avesse- lissità. ro dato luogo ad un nutrito carteggio, si era ri- La terza lettera, estrapolato all’inizio ed alla fivelata esatta. ne un profluvio di chiacchiere cerimoniose, La prima lettera esprimeva pura, amichevole ammiccamenti alle tristi condizioni di un intelnostalgia per i momenti passati in compagnia lettuale in quelle estreme regioni entrava in dell’autorevole scienziato del continente a media res con grande dispiego di erudizione e passeggio per Messina e contorni. Cominciai rigore scientifici. Ciò che l’abate Spallanzani a godere come suppongo godano quegli ap- si ebbe squadernato sullo scrittoio, mentre anpassionati di letteratura nera, genere che mi è dava elaborando il magnifico testo della più indifferente. Allo stesso modo però la mia popolare delle sue opere, fu un vero e proprio fantasia innestò la quinta marcia ed immaginai trattatello. Sul corallo in genere, sul corallo subito quei due a spasso per la città dello Stret- dello Stretto in particolare, su come si formato con i suoi scenari magici, (il miraggio ri- va in quel giuocare imperterrito delle correnspecchiante della Fata Morgana sull’altra ti, di quali agenti microscopici interagissero sponda, e tanti altri mirages e mirages, carova- per renderne così pregiata, unica la qualità; ne, palmizi e camellieri, dame dal viso velato quali fossero i metodi per raccoglierlo, con sia metà) conversando tra loro come si vede nel- stemi meccanici pericolosi che scendevano a le pitture del Settecento; e mi pareva di co- profondità terrorizzanti (allora) di mille o milglierne il colto bisbigliare. lecinquecento metri, ma le misure erano natuConosco Messina e credo di sapere quale fu ralmente espresse in piedi e braccia. l’itinerario che l’abate Grano fece seguire al (1 - segue) suo eminente Visitatore. Nelle altre lettere non © Ronsisvalle, Stilos 2007 IL RACCONTO “ “ narrazioni inedite “ pagina 14 I n t e r v i s t e ra il 1970 quando un ragazzo dalla voce potente e melodiosa, prendendo in mano il microfono di "Canzonissima", intonava una canzone che iniziava con queste parole: «La mia vita cominciò come l’erba come il fiore…». Questo ragazzo era Massimo Ranieri. Che ancora oggi è sulla breccia della musica leggera. Forse a mo’di riepilogo di una carriera diventata lunga e di una vita vissuta sulle corde di una chitarra ha scritto un libro per raccontarsi senza riserve, parlare di sé, della sua infanzia, dei suoi primi passi nel mondo dello spettacolo e della sua vita da artista affermato. Un primo abbozzo, un’idea seminale di questa autobiografia la si può ritrovare in un libro di qualche anno fa, quattro per l’esattezza, di Catena Fiorello, Nati senza camicia, nel quale in un’intervista Massimo Ranieri che raccontava le esperienze dei suoi primi passi nel mondo dello spettacolo. Mia madre non voleva è un libro sincero e divertente, cosa che del resto è suggerita dallo stesso titolo: infatti la mamma di Giovanni Calone (questo è il vero nome di Massimo Ranieri) non voleva che il figlio intraprendesse la carriera del cantante, perché non la vedeva come una professione sulla quale contare giorno per giorno. Il papà di Massimo Ranieri invece ha sempre creduto nel talento e nel successo di suo figlio: «Se mia madre ha messo al mondo Giovanni Calone, mio padre ha fatto nascere Massimo Ranieri: mia madre mi ha fatto crescere, mio padre mi ha permesso di diventare l’uomo che sono. Perché lui non ha mai smesso di sognare accanto a me». E così, inseguendo un sogno e coltivando la passione, Massimo Ranieri, dopo aver intrapreso i mestieri più vari, inizia a cantare e ad avere successo: vince un "Cantagiro" con "Rose rosse", due edizioni di "Canzonissima" con "Vent’anni" e "Erba di casa mia" e partecipa a due Festival di Sanremo. Nonostante questo successo ad un certo punto Ranieri decide di interrompere la sua carriera di cantante ed inizia a fare l’attore: «Dentro di me si era spezzato qualcosa, come quando un amore sta per finire. Eppure ero all’apice del successo, avevo ormai la strada spianata. Ma vedevo lo spettro di un cantante che passa tutta la vita davanti al microfono. Non ero più così sicuro di quello che volevo. E soprattutto non volevo più essere sottoposto alla legge spietata di quel mestiere: il mio destino era legato ogni volta a una canzone e a una competizione… No, non era quella la mia strada». Non si trattò di un addio ma solo di un arrivederci, un arrivederci che però gli ha permesso da una parte di imparare un nuovo mestiere dello spettacolo e dall’altra di entrare in contatto con quelli che Ranieri considera, giustamente e meritatamente, i suoi maestri: Giorgio Strehler, Maurizio Scaparro, Garinei e Giovannini, Giuseppe Patroni Griffi, Vittorio De Sica, Anna Magnani e Franco Zeffirelli. Mia madre non voleva ripercorre la varie tappe della carriera artistica di Ranieri; ma una biografia non la si scrive solo per fare il bilancio di quello che si è fatto nel corso della propria vita. Con questo libro Massimo Ranieri tiene a mettere in scena l’uomo che si cela al di là di un sipario: un uomo curioso, desideroso di percorrere strade diverse per soddisfare una propria necessità di ricerca intellettuale e umana. Un uomo che non ha mai dimenticato le sue origini e che ha sempre fatto prevalere nel suo lavoro il lato umano. È proprio grazie a questa particolarità, e naturalmente alla sua bravura, che Ranieri oggi continua ad avere consenso. Stilos lo ha intervistato. Non è la prima volta che un artista, quale è lei, sente l’esigenza di raccontare la sua vita. Da cosa è dettata questa esigenza da parte di un artista di raccontarsi? Il motivo è molto semplice: perché si invecchia, e allora vuoi che il pubblico che ti ha seguito per tanti anni sia al corrente un po’ più dettagliatamente delle tue cose; vuoi che sap- Salvatore Salemi PHIL MASSIMO RANIERI IL LIBRO MASSIMO RANIERI "Mia madre non voleva. Autobiografia di Giovanni Calone. Che sarei io" pp. 191, euro 16 Rizzoli, 2006 Gli esordi nella musica leggera e i primi folgoranti successi. Una versatilità inappagata che ha aperto le strade al cinema, alla tv e al teatro. E il grande amore e la riconoscenza per Strehler in un libro che riepiloga una vita La partenza da Napoli il ritono alla napoletanità La vita di uno «scugnizzo» napoletano che scopre di avere una bella voce solo perché il fratello vuole che scelga tra cantare in pubblico o essere gettato in acqua; e che scala tutte le tappe del successo, approdando al teatro, al cinema, alla regia, alla televisione, per poi ritornare a riscoprire la canzone napoletana e ritrovarsi dunque alle origini del suo percorso artistico: con la differenza che stavolta vuole studiare la canzone partenopea per trarne la cultura più pura e originale. La vita di Ranieri raccontata da lui stesso come una esperienza irripetibile. La mia vita cominciò cantando ma oggi mi piace fare il regista PIERLUIGI PIETRICOLA VIVE AD ALBANO LAZIALE (ROMA). SI OCCUPA DI STORIA DEL TEATRO E SCRIVE SU DIVERSE RIVISTE WEB pia attraverso la tua bocca, anzi la tua penna in questo caso, come stanno le cose. E questo perché io il pubblico non lo reputo «pubblico» nel senso comune del termine, ma lo considero una grandissima famiglia, una famiglia mia che ho il piacere e la fortuna di avere da quarantadue anni. Indi poscia, come direbbe Totò, per evitare che le persone apprendano dai rotocalchi e dai vari giornali notizie enfatizzate, nel bene e nel male naturalmente, decidi di far sapere alla gente delle cose che alla stampa o non sono mai interessate, o non l’hanno interessata più di tanto. Tipo: la mia storia con Strehler, la mia storia con Patroni Griffi, il mio periodo con Scaparro, i miei contatti con la Magnani, con Visconti, con Zeffirelli, con De Sica… Tutte cose che al pubblico sono sfuggite o che alla stampa in quel momento non interessavano più di tanto. E allora ho voluto scendere nei dettagli per raccontare del mio rapporto personale che si è creato con queste grandi persone al di là di quello lavorativo. Nel libro lei scrive che ha iniziato a cantare per paura di essere buttato in acqua da suo fratello e suo cugino. La passione per il canto è venuta cantando oppure c’è sempre stata? Io già da allora ero dotato di questo dono datomi da Nostro Signore, perché di questo si tratta, non ho mai fatto nulla per perfezionarlo se non lavorare tutti i giorni: questa è stata la mia scuola, perché tra feste di piazza, matrimoni, battesimi e serate avevo la possibilità di lavorare con questo dono del Padreterno. La passione per il canto già c’era, e quella gran massa di fetenti dei miei amici, conoscendo sia questa mia passione che il mio handicap di non saper nuotare, mi ricattavano dicendomi: «Gianni canta altrimenti ti buttiamo in mare!». E io disperato stavo lì, mentre loro si buttavano in acqua a fare, come si suol dire, le foche ammaestrate. Perché a Napoli esistevano gli scugnizzi che stavano al mare sotto i ristoran- ti, e che chiedevano ai clienti cinque o dieci lire per far vedere come erano capaci di recuperarle sotto l’acqua. E mentre io cantavo loro prendevano i soldi. Ma le davano la percentuale sul guadagno oppure no? Come no: mio fratello mi faceva da manager. Alla fine della giornata dividevamo in parti uguali. Si guadagnavano duecento lire da dividere in cinque o sei persone. Lei usa parole molto dolci parlando di suo padre, che fu il suo primissimo fan. Sua madre invece era un po’più scettica su una sua futura professione di cantante, voleva restare il più possibile con i piedi per terra. Tra i suoi fratelli invece chi fu il primo a credere in lei? Veramente non gliel’ho mai chiesto, anche perché non c’era mai tempo di chiedersi le cose: ognuno si alzava alle sei o alle sette del mattino per andare a lavorare, si tornava a casa la sera per mangiare, si cenava molto spesso con la zuppa di latte e si andava a letto di nuovo. Per cui non c’era l’occasione e nemmeno il tempo di chiedere che cosa avrei desiderato fare da grande o per dirmi che avevo cantato bene. Ognuno andava per la sua strada a fare il suo mestiere: chi lo spazzino, chi il barista come nel mio caso, chi la sarta come mia sorella… Cantare per loro non doveva e non poteva essere un futuro per me, un futuro immediato, giornaliero. E invece lei ha iniziato ad avere successo fin da subito. Aveva, come dice nel libro, quindici anni o giù di lì. Cosa provava allora prima di entrare in scena? La cosa bella dell’adolescenza è che si è incoscienti, quindi quando entravo in scena non provavo assolutamente nulla, perché quando sei in quell’età non sai che è un pericolo. Poi col tempo quando cominci a pensare, a ragionare, allora ecco che te la fai addosso. Quindi lei ha più paura di entrare in scena oggi rispetto a quando aveva quindici anni? Assolutamente sì! Ad un certo punto della sua carriera ha deciso di troncare di netto con il mondo della canzone e, come racconta nel libro, ha smesso di cantare ma ha iniziato a fare teatro. Quali furono le sue impressioni, le sue sug- mesogea Mouloud Feraoun TERRA E SANGUE Un vecchio sapiente riappare dall’antichità «Le sembrava che lei e Amer al giorno d’oggi. formassero una Profugo dell’esistenza, strana coppia, non ricorda quasi ridicola, che, niente della sua vita e accanto a lei, nulla sa del nostro lui perdesse mondo. Il vagare la personalità drammatico, visionario di cabilo e poetico nella terra e lei non avesse più di nessuno dell’essere quella di francese». umano «in corsa fra gli steli dell’erba rossa». pp. 128 – € 9,50 Nella foto Massimo Ranieri, autore per Rizzoli di Mia madre non voleva pp. 304 – € 16,00 gestioni quando iniziò a recitare? Con il teatro ho trovato un contatto intellettivo con le persone. Ho trovato una famiglia con la quale sedersi intorno a un tavolo per parlare, per conoscersi. Come ho sempre detto il teatro è una cosa meravigliosa perché in otto mesi che si sta insieme si creano amori e odii, simpatie e antipatie; e che ben venga tutto questo. Perché poi quando nasce un’amicizia all’interno di una tournee è un’amicizia che non finisce mai. Lei dedica molte pagine a Strehler. Con lui ha interpretato L’anima buona di Sezuan di Brecht e L’isola degli schiavi di Marivaux. Oggi, a parte il ricordo affettivo, cosa ricorda con più piacere di Strehler? Giorgio Strehler. Il resto è silenzio. Ma detto così sembra che io non abbia stima e fiducia di quello che è stato fatto dopo la sua morte. La verità è che morto lui si è spenta la luce. Non perché io sia napoletano, ma quando giocava Maradona, per esempio, ci si divertiva a vedere una partita di calcio. Lui avrebbe potuto anche giocare nel Palermo, nel Padova o da qualsiasi altra parte: era sempre Maradona: quando ha smesso di giocare si è spenta la luce nel pallone. Maradona giocava a calcio così come faceva da bambino in un campo di terriccio, e Strehler dirigeva gli attori come li dirigeva nel lontano 1948 quando scoprì il Piccolo Teatro. Oltre che con Strehler lei ha lavorato anche con Maurizio Scaparro. Che differenze ci sono, da un punto di vista di metodo di lavoro, tra loro due, a parte la diversa opinione che avevano sul copione? Lei racconta che Scaparro le strappò il copione di "Varietà" davanti ai suoi occhi. Maurizio ha un pregio che Giorgio, il mio maestro, benevolmente non aveva. Giorgio era molto severo, soprattutto con se stesso. Maurizio invece ha quella leggerezza, quell’indolenza un po’ romanesca che gli permette di sorridere nella tragedia. Giorgio era severissimo, lui era il teatro, per cui non si poteva scherzare. Maurizio invece è un uomo scanzonato: un grande intellettuale, un grande regista che riesce anche divertirsi davanti a un bel piatto di bucatini all’amatriciana. Qualche anno fa lei ha esordito da regista: L’isola che scrive Francesco Russo Elio Carreca UN MEDITERRANEO DA INTEGRARE Il Mediterraneo è un ponte prezioso e praticabile fra Europa, Africa e Asia che una rete efficace di trasporti potrebbe rendere bacino di pace e sviluppo. E il ruolo dell’Italia? pp. 224 – € 13,00 LA CARNAGIONE DELLE BIONDE N A R R AT I V A E S t los musica e parole si sente più vicino a Strehler o a Scaparro in questo ruolo? Io quando faccio il regista penso a Giorgio. E lo sa anche Maurizio: fu proprio lui a dirmi che dovevo lavorare con Strehler. Oltre ad essere attore di teatro lei è anche attore cinematografico. Si sente di più a suo agio sotto la macchina da presa oppure su un palcoscenico con il pubblico presente in sala? Sicuramente con il cinema perché richiede un po’più di lavoro sul personaggio, molto di più di una fiction. Basta pensare che per una fiction si girano otto o nove minuti al giorno; per il cinema invece se ne girano tre di minuti, e già sono tanti. Questo vuol dire che nel cinema i tempi sono più dilatati, si può fare più ricerca sul personaggio che si interpreta, in altre parole si lavora di più sul particolare. Nel 1988 lei fece ritorno, e in grande, nel mondo della canzone con "Perdere l’amore" che vinse il festival di Sanremo di quell’anno. Cosa le è rimasto più impresso di quei momenti? La cosa che più mi è rimasta impressa è l’incredulità di avere vinto. Perché andai lì con l’intento di divertirmi, di cantare una bella canzone e di andarmene. E invece il mio produttore mi fermò per strada - perché la mattina successiva alla prima serata volevo ripartire - dicendomi che avrei dovuto ricantare anche la seconda serata. E del resto io fui l’unico a non partecipare alla puntata di "Domenica In" dopo il festival di Sanremo, perché io la domenica mattina ero già partito. Il lunedì ero a Napoli per debuttare con "Rinaldo in campo." Come mai non ha più partecipato a Sanremo? La sua ultima partecipazione risale al 1997 con "Ti parlerò d’amore". Perché non ce n’è stata l’occasione, non ne ho avuto il tempo. Tra i miei impegni in teatro con "Il grande campione", in televisione con "Siete tutti invitati citofonare Calone", nel gennaio del 2002 poi ho iniziato la mia grande tournée e fino a ieri non mi sono mai fermato. A tutto questo poi aggiungiamo quattro regie teatrali, quattro fiction, cinquecento serate, duemila partecipazione televisive… In questo grande turbine generale non ho proprio avuto il tempo reale di cercare la canzone per Sanremo. Per farlo è necessario fermarsi qualche mese e cercare la canzone adatta. Tutto sommato non c’era nemmeno questo grande entusiasmo perché erano anni e anni che non facevo più concerti e sinceramente mi piaceva troppo e mi piace tanto il contatto giornaliero con il pubblico. Ma io devo tutto a Sanremo così come tutti: da Adriano Celentano, a Mina, a chiunque. Tutti dobbiamo il nostro successo a Sanremo. Lei e la canzone napoletana: un connubio che in questi ultimi anni ha partorito ben tre dischi, ed ora, come anticipa nel libro, ce n’è un altro in preparazione. Da un punto di vista esecutivo che differenza c’è tra cantare in italiano e cantare in napoletano? Il quarto disco è già pronto e deve solo uscire. La differenza che c’è tra cantare in italiano e cantare in napoletano è la differenza che c’è tra mangiare e stare a guardare. Io quando canto in napoletano mangio e guardo allo stesso tempo; in italiano invece guardo e mangio poco. Io parlo in napoletano, la mia lingua è il napoletano. A conclusione del libro lei dice che nei prossimi anni le piacerebbe fermarsi un po’ e di mettersi dalla parte del pubblico, del suo pubblico. Che progetti ha, dunque, per il futuro? Adesso ho in preparazione due Traviate una dietro l’altra, poi per la fine del 2008 ho un Macbeth, per gennaio del 2009 ho un altro Elisir d’amore e forse un Don Pasquale. Diciamo che in questo momento, con un occhio proprio disincantato, direi che è ora che io dia ai giovani quello che ho imparato. Se mi si chiedesse: «Preferisci una vacanza di un mese o una regia di tre giorni?» io risponderei la regia di tre giorni perché è la cosa che più mi affascina adesso, perché sento che è un mestiere che mi è sempre piaciuto, che mi sono sempre portato dentro e non appena me ne hanno dato la possibilità l’ho fatto. Quindi fino al 2010 mi faccio le mie regie teatrali. CAMMEI IL DOLORE CONDIVISO a cura di Gianpiero Chirico Una spy story ambientata a Palermo. Un omicidio eccellente su cui indaga un agente ormai ‘dismesso’ dei Servizi segreti. Lo spaccato di una società travagliata dalle ipocrisie di potere e mentalità mafiosa. Una selezione tra i più importanti messaggi di solidarietà inviati da intellettuali, artisti e scienziati per le vittime del terremoto del 1908. Da Marconi a d’Annunzio, da Hesse a Debussy, da Capuana a Deledda. pp. 168 – € 12,50 pp. 160 – € 29,00 GEM s.r.l. – via Catania, 62 – 98124 Messina – Tel. 0902936373 – Fax 0902932461 – www.gem.me.it – [email protected] – www.mesogea.it – [email protected] – www.gbm.me.it – Distribuzione: PDE s.c. a r.l. versi poeti I n t e r v i s t e « A ENZO VERRENGIA nche le cose muoiono, come tutti / invecchiano e perdono la loro consistenza, / deperiscono». È il monito in versi che stabilisce meglio il canone espressivo di Fiori in pericolo, di Mauro Fabi. Una sortita nella poesia mai scevra di quegli assoluti necessari alla lingua essenziale e sincopata di ogni silloge. Quelle cose che muoiono come tutti sono infatti i segnali di una fragilità immanente non solo nella condizione umana, ma anche nella realtà percettiva che ne scaturisce. Eppure le cose, gli oggetti, fanno parte del nostro mondo e integrano la nostra natura portandosi nello stato di non poterne fare a meno. Fiori in pericolo parte dunque da una ricognizione privata dell’universo di riferimento dell’autore per poi aprirsi al resto. Che è la scansione dell’automatismo conferito alla contemporaneità dalle macchine. Per approdare infine all’incombere del nulla. Sembra un percorso lineare, invece la poesia - e la poesia di Fabi in particolare - procede per elisioni, elusioni o, al contrario, indugi che scoprono la verità uno strato dopo l’altro, con impietosa determinazione. "I bambini" s’intitola il gruppo di liriche che esplorano il privato. Dal rapportarsi con i figli alla condivisione coniugale, approdando all’esistenza ordinaria della città. Tre sfaccettature che appartengono a chiunque, ma che il poeta trafigge di luce prismatica. Un interrogativo nudo, per esempio: «Come spiegare ai nostri bambini / lo sfinito mondo degli adulti, / mentre ci sforziamo di preservarli / nella speranza di non vederli crescere». Nessuno potrebbe meglio sintetizzare il paradosso e l’impotenza che la biologia e l’antropologia assegnano al ruolo dei genitori. Certo, oggi trionfa l’illusione di vivere nel migliore dei mondi possibili, o almeno in un surrogato efficace di quel futuro che sfugge di continuo ed è sempre destinato ai posteri. La scienza, cioè la tecnologia, che ne è la controfigura semplificata e cialtrona, promette e talvolta mantiene in fatto di agio, sicurezza, distanza dalle miserie della carne. Non nelle visioni di Fabi, dove le macchine dimenticano un poco alla volta la loro natura inanimata per confluire in un’entità senziente, la megamacchina, e sostituirsi all’uomo non per apocalittica previsione avvenirista, bensì per un corso inevitabile degli eventi, un asse evolutivo. Più diretto e toccante di quel saggio ormai storico, e mai tradotto in italiano, L’età delle macchine spirituali, di Ray Kurzweil, basato sulla certezza che gli elaboratori elettronici acquisiranno inesorabilmente lo status senziente. Fabi, tuttavia, non sembra seguire questo processo né con entusiasmo da terzo millennio, né con lo spavento del profeta di sventura, né con l’ironia di Calvino e Levi. Lui semplicemente verseggia sulla transustanziazione. Semmai, con fatalismo: «Le cose / resteranno terribilmente sole / nell’arido mondo finalmente / scevro di parole». È il punto fermo a qualsiasi aspettativa di trascendenza, laica o spirituale che sia. Fabri non concede spazi di dubbio al prevalere finale del nulla. Fiori in pericolo rappresenta un passaggio ulteriore verso lo scavo filosofico già molto riconoscibile in Il motore di vetro, la precedente antologia poetica di Mauro Fabi. L’autore utilizza il verso per una scomposizione anche visiva dei concetti in una partitura ritmica di linguaggio e appello alle corde interiori. Senza mai piegare la sua voce alle conces- R e c e n s i o n i Sopra Mauro Fabi, autore per Avagliano di Fiori in pericolo. Sotto Rainer M. Rilke di cui L’Ancora del Mediterraneo ha pubblicato Vento e destino MAURO FABI IL LIBRO MAURO FABI "Fiori in pericolo" pp. 120, euro 10 Avagliano, 2007 «Nel romanzo entra in ballo l’artificio, una specie di compiacimento. In poesia non è possibile. La poesia reclama il vero, bandisce la vanità, pena l’autoinganno» Oggetti e macchine sguardo sulla modernità Una silloge poetica che si concentra sul valore degli oggetti di cui gli uomini si circondano, anch’essi destinati alla perenzione eppure così centrali e vitali nella circostanza delle persone. Le cose inanimate, così come le «macchine» e quanto è artificiale e meccanico in una visione poetica che libera lo sguardo nella modernità. Il mondo reificato da prendere nel giusto verso: quello poetico sioni più attese: quelle dell’emotività smaccata. Fiori in pericolo dimostra che si possono ricostruire, ricreare, o soltanto evocare, eventi, persone e poi squarci di assoluto che hanno bisogno di spazi dell’anima sviscerata con una sofferta ma elaborata mediazione di stile e di lessico. Senza scrittori rock, adolescenti con turbe ormonali, ipermercati e quarantenni precari che vogliono guadagnare di più per comprare di più. Nel cosmo liricamente disperato di Mauro Fabi la precarietà è l’esistenza medesima, sotto cui si aprono gli abissi della casualità. L’unica è tentare la salvezza legandosi ai solidi cavi di una cultura costruita con i mattoni dell’interiorità e riconoscibile, non dispersa fra zone di risulta, non-luoghi dove nessuno ha una storia. Il che non significa rifugiarsi nell’altrove del cosiddetto «sublime». La realtà, quella che accomuna tutti, qui è fin troppo riconoscibile. I versi di Fabi poeta somigliano al periodare del Fabi narratore. Sono misure di un discorso sui contenuti dell’anima- le uomo e della sua inadeguatezza di fondo. L’inadeguatezza che consiste nel seguire a ruota il ciclo usa e getta delle carabattole che affollano cantine e armadi. Stilos ha intervistato Mauro Fabi. Essere narratori e poeti oggi significa trovare due accenti diversi per esprimere il mondo, oppure si tratta soltanto di due predilezioni espressive che convivono? Nel mio caso non c’è molta differenza. C’è una visione del mondo da comunicare in qualche modo e io cerco di farlo sia con il romanzo che con la poesia. Per qualche motivo, che non riesco chiaramente a mettere a fuoco, rimango più legato ai miei libri poetici, li sento più importanti, anche se impiego infinitamente meno tempo a scriverli. Lei, come romanziere, ha raccontato il tema della ricerca in La meta di Luan, e l’intrecciarsi dei destini in Il pontile. Due temi che sanno di grande spazio dell’anima. Crede che la poesia possa andare oltre le compressioni e le convenzioni di una storia dai pas- saggi, per così dire, canonici? Forse in quello che dirò adesso c’è la risposta alla domanda precedente. Nel romanzo entra in ballo l’artificio, il gioco linguistico e, inutile negarlo, una specie di autocompiacimento alla fine di una bella pagina. In poesia tutto questo non è possibile. La poesia reclama il vero, bandisce la vanità, pena l’autoinganno. Nell’altro suo volume di poesia, Il motore di vetro, emergeva una versificazione parecchio conversata, un ripudio della lirica fine a se stessa, che persiste in molto materiale che si pubblica anche all’estero, dove comunque la letteratura in versi riceve più attenzione e frequentazione che da noi. Si riconosce in questa prospettiva di lettura? In parte sì. D’altronde basta aprire Finestre alte di Larkin, o i racconti-poesie di Carver, per rendersi conto che la nostra poesia è un giochino fine a se stesso, almeno da Sanguineti in poi. Da noi i poeti non hanno lettori, quindi si autoacclamano, vivono nelle serate di letture per pochi adepti, alimentano così il loro angu- SECONDA LETTURA La forza vitale che ci viene dal mondo inanimato, l’unico miracolo È la nuova Musa. Corteggiata, come nel caso di Franco Arminio, o subita, come nel caso di Andrea Di Consoli, l’ipocondria come stato clinico è la convitata più assidua al tavolino del poeta. In questo Fiori in pericolo, come nel precedente Il motore di vetro, Mauro Fabi (che l’ospedale, «occhio feroce spalancato sul buio» lo ha frequentato davvero) soggiace invece all’ipocondria nel suo significato estensivo, quello di profonda malinconia. Ma profonda di brutto, priva di quel tanto di sognante e consolatorio insito nel termine: Fabi percorre i sentieri del Nulla, «un Nulla calvo, posticcio, disturbato» che aggredisce l’individuo, le famiglie, in una lotta casa per casa. E oltre al desiderio di annullare se stessi si afferma quello di «vedere negli altri il Nulla che si compie». L’estate, ormai, non è più quella di Cardarelli: «un’urbanità sciatta e molle si muove ciecamente… tutto è malato e inane è il passo e simulato... le ragazze in ciabatte hanno i talloni sporchi / emanano un erotismo da diporto / qualcosa di mutilo e auspicabile, un desiderio di vendetta». Nella sezione che dà il titolo alla raccolta Fabi consacra le case, che «contengono il mondo degli uomini / più di quanto faccia il cielo o una religione», e benedice gli oggetti, che sono ormai rimasti da soli a sprigionare forza vitale (consolatorio è il tepore che emanano, anche se artificiale). C’è una radura e al centro una bambina, intorno alla cui anima di alito e di vento «le cose riposano e sono rinfrancate». L’unico miracolo quotidiano, l’unica distrazione possibile, è il modo in cui una figlia, leggera e silenziosa, s’impossessa di una stanza. Poeti come questi (Fabi è autore piano e prosastico come e più degli altri due) corrono un rischio evitato dagli iscritti all’Albo dei verseggiatori: spogli di artifizi, caparbi nell’aderenza al senso comune, costeggiano il precipizio dell’ovvietà, evitandolo grazie a un guizzo finale, a un accento sincero e commosso e, soprattutto, al sentimento del mondo - una postura, un emozione di fondo, un mood costante, palpabile - che sostiene le loro narrazioni. Elio Paoloni RAINER M. RILKE. Il lungo soggiorno caprese del poeta Da solo, con sé e il paesaggio l quattro dicembre 1906, giorno del suo trentunesimo compleanno, Rilke giunge a Capri per un soggiorno destinato a protrarsi alcuni mesi. Lo attendono, e lo ospitano sull’isola ROBERTO DEIDIER carica di suggestioni naturali come di reminiscenze storiche e mitiche - tre nobildonne teVIVE A PALERMO E INSEGNA ALL’UNIVERSITÀ. desche che la sua presenza induce al ruolo di DIRIGE IL SEMESTRALE DI POESIA "TRAME". compagne discrete. "LE FORME DEL TEMPO" (SELLERIO, 2004) Niente di meglio poteva offrirsi al poeta per lasciarsi alle spalle una vita artistica e sentimentale condotta tra due grandi centri europei, dal basso verso l’alto, la vecchiaia «senza specome Berlino e Parigi: il primo con le sue au- ranza» di un gruppo di volti); e sempre un misterità fin de siècle, il secondo (ben rappresen- nimo particolare è quello che gli ispira, tra l’altato nei Quaderni di Malte Laurids Brigge) tro, una delle liriche più alte dell’intero Novecon le sue fascinazioni sensuali, le sue contrad- cento europeo, Orfeo. Euridice. Hermes, ogdizioni e doppiezze còlte in un insieme di fer- getto di una folgorante lettura critica da parte di Josif Brodskij. La visione di un frammento vore e vivacità. A Capri, finalmente Rilke è solo con se stesso presso il Museo archeologico, infatti, dove i tre personaggi sono ritratti in e con il paesaggio. Certo, una variante del mito, didavanti a lui si apre il RAINER MARIA RILKE viene per Rilke e per i suoi golfo partenopeo e la pre"Vento e destino" lettori una vera e propria senza della città, visitata a cura di C. Groff, indicazione ermeneutica, quando sarà raggiunto dalE. Potthoff che non può non essere stala moglie, lascia delle tracpp. 90, euro 12,50 ta suggerita, insufflata, proce sensibili e visibilissime L’ancora del prio dallo speciale contatto sul tracciato dei suoi versi. Mediterraneo, 2007 con la natura durante il sogBasterebbe seguire il suo giorno caprese. Come Orsguardo, puntato sul minimo particolare (si pensi al banco del pesce, feo compie la sua discesa agli inferi, così il o alla poesia intitolata Il balcone, forse un poeta compie, posto davanti all’infinità del cauto omaggio a Baudelaire, ma anche un suo mare, la propria discesa dentro di sé. rovesciamento: alla grazia del ricordo mater- Chiunque cerchi di ricostruire, dalla geografia no qui Rilke sostituisce, spostando la visione delle poesie qui raccolte per la cura di Claudio I S t los Groff e di Elisabetta Ponthoff, un micro-universo pienamente riconoscibile, identificabile, resterà deluso. Questi versi parlano il linguaggio della suggestione, dell’allusione e soprattutto dell’introspezione. L’isola non è soltanto un luogo fisico, ma diviene inevitabilmente la condizione per la quale Rilke, nella solitudine e nel silenzio che accompagnano tutta la scrittura di queste poesie, può decidersi a compiere quella singolare operazione di attraversamento di sé e di proiezione nel mito orfico che rappresenterà la vera via d’accesso verso la stagione delle Nuove poesie. È la luce a disegnare il paesaggio, l’alterno succedersi di luce e di ombra, ai raggi del sole o sotto la luna. Un procedere impressionistico scandisce i passi e la contemplazione assorta del paesaggio isolano, dalle marine ai picchi di collina; dove, spingendosi fino ai ruderi della chiesetta di Santa Maria a Cetrella, e con l’incedere di una vera e propria litania, il poeta sigilla l’unione del ritmo poetico, della memoria collettiva e del sentimento individuale, che lo portano al riconoscimento del proprio isolamento, sovrapposto a quello della divinità vanamente invocata e cercata. Una discesa agli inferi è, inevitabilmente, un incontro con la morte e con il destino. Infatti l’assenza di suoni, in queste pagine, permette al vento di farsi portatore del solo senso acces- pagina 15 sto mondo. Francamente, a parte Carlo Bordini, non trovo nessuna affinità con gli altri poeti italiani, anzi faccio anche fatica a considerarli tali. Fiori in pericolo è un apologo di quanto sta intorno a chiunque e che pure stenta ad essere riconosciuto? Con riferimento ad un ciclo votato inesorabilmente alla chiusura? Fiori in pericolo è un poema sulla modernità, come lo era La terra desolata. Sul declino di una civiltà. È un percorso lineare e drammatico. Il titolo è preso da un’opera di Alberto Giacometti: c’è un fiore la cui corolla di gesso si trova sulla traiettoria di un’asta tesa ad arco da una corda sottile. Si capisce che la corda è destinata a spezzarsi, che l’asta andrà a colpire la corolla di gesso, che il fiore andrà in frantumi… Le pagine più viscerali di un libro per altri, o tutti, i versi concettuale, sono quelle dedicate all’impotenza del genitore. È da qui che parte l’itinerario diretto al nulla? Noi siamo responsabili dei nostri figli per il tempo da loro impiegato a capire con chi hanno a che fare, cioè molto poco. Una volta capito il nostro mondo, i figli si regoleranno di conseguenza, ci avranno preso le misure e si guarderanno bene dal volere essere come noi. D’altra parte, basta guardarsi allo specchio per rendersi conto dell’assurdità di questa locuzione: «essere responsabili». Pre-occuparci di loro fino a che non diventino autonomi non significa essere responsabili, significa interpretare un ruolo. Il Nulla con i figli non ha niente a che vedere. I figli esistono e si amano (com’è ovvio) più di noi stessi; il Nulla (lo dice la parola stessa) è l’inesistente. Ora, se è vero che, come diceva un grande filosofo un po’ matto, di quello di cui non si può parlare occorre tacere, ebbene cosa c’è di più innominabile dell’inesistente? Può, ciò che non esiste essere posto al termine di un percorso, di un itinerario? Secondo lei perché ormai quasi nessuno, fra quanti scrivono, ha più dimestichezza con l’incombere del Grande Ignoto? Perché, in altre parole, tutto sembra riconducibile al minimale quando anche la quotidianità, così come si dà, è spesso una sconfitta dell’intelligenza che merita di venire scandagliata? Perché si è così restii ad ammettere la disperazione cosmica? Perché l’Italia è un paese culturalmente degradato. Io considero ormai pubblicare un mio libro un atto di degradazione nei suoi confronti… Non voglio fare nomi, conosco quasi tutti i nostri scrittori contemporanei, non li frequento però e non li leggo più perché non ho tempo da perdere, con qualche rarissima eccezione. Non siamo un paese che produce talenti, non facciamo letteratura ormai da tanto tempo, inutile ingannarsi. Lei parla di disperazione cosmica, io limiterei il campo al nostro paese, che vive di un provincialismo letterario spaventoso. Dopo i cosiddetti «giovani autori», cosa attendersi di ancor più tragico nel percorso agli inferi della letteratura italiana contemporanea? Andrà sempre peggio, ne sono sicuro. L’industria editoriale non rischia niente, il che può anche essere giusto dal momento che gli italiani leggono molto poco e quel poco è veicolato a dovere da media. C’è il cosiddetto passaparola è vero, ma anche qui smettiamola con questa retorica romantica: accade una volta ogni vent’anni che un libro s’impone grazie al tam tam dei lettori. I libri (la maggior parte delle migliaia di libri che mensilmente escono) non si trovano nemmeno in libreria, di quale passa-parola parliamo? E poi andrà peggio perché non siamo bravi a raccontare storie, come sanno fare invece gli americani. E c’è ancora chi da noi predica l’antiromanzo. sibile, quello che riguarda il futuro; nell’umile ros-marino (trascritto così, proprio per evidenziarne il legame con i luoghi), offerto a Maria, la tradizione si fa viva riaccendendo proprio il legame antico con il culto dei morti e rappresentando, agli occhi e alla mente di Rilke, una piccola ma importante epifania. E al lettore di poesia non sfuggiranno i rinvii impliciti al Mediterraneo di Montale, quasi vent’anni dopo, con analogie evidenti e comunanza di suggestioni, a cominciare dall’aggettivo rivoltogli: «antichissimo», come il mito e la memoria che di continuo agiscono in entrambe queste officine, e come, infine, la paternità di cui il mare, serbatoio di vita e di morte, veicolo di sopravvivenza e tragedia, si fa portatore, divenendo per sempre emblema dell’ignoto, della fatica della conoscenza. Rilke intitola o raggruppa molti di questi componimenti sotto un’etichetta anch’essa densa di significato: «improvvisazioni». C’è qualcosa del genio musicale, in questi versi; c’è l’energia centripeta dell’impromptu, che è al tempo stesso energia visiva e sensitiva, percezione già carica di pensiero al momento del suo stesso accadere. È come se, posto di fronte al paesaggio, questo autore abbia avvertito la necessità di coniugarne il panorama con un percorso di reinvenzione interna; e infatti l’isola sta, piuttosto che davanti allo sguardo, «davanti al cuore», come recita il verso di apertura. «Mia oscurità, ecco, sono qui con te», intona la strofa, e attraverso la poesia cresce il «grido» - panico, esistenziale, viscerale - che affiderà per sempre il sentore del nostro destino alle ombre, ed Euridice al mondo dei morti. pagina 16 S t los saggistica italiana Nella foto Silvia Ballestra, autrice per Il Saggiatore di Contro le donne nei secoli dei secoli I n t e r v i s t e hiuso il libro, ce ne vuole del tempo prima di cancellare dalla testa l’urlo finale di Silvia Ballestra, cacciato fuori con tutta la rabbia che le avvelena i pensieri. Una reazione, la sua, necessaria per rompere la spessa nebbia d’indifferenza che tiene ben nascosto l’inesorabile processo di svilimento attualmente subìto dalle donne. Sempre più vittime di un maschilismo arrogante e prevaricatore, sono costrette a vivere sulla loro pelle le conseguenze di scelte politiche decisamente punitive - in grado di ridurne al minimo la libertà decisionale - che si adeguano pedissequamente all’aspro irrigidimento della Chiesa, intenta com’è a mettere in campo tutte le forze a disposizione per ridurle a innocue creature da manipolare in nome della famiglia. L’autrice punta il dito contro i colpevoli di questa situazione, donne comprese. Per approfondire tali temi, Silos ha intervistato l’autrice. Nella sua "Piccola premessa" lei definisce il suo libro una scenata. A chi è diretta? Alle ragazze e ai ragazzi della mia età e ai più giovani. Le donne degli anni Settanta certe cose le conoscono molto bene e le hanno combattute all’epoca, continuando a lavorarci negli anni. Sono le giovani generazioni ad aver bisogno di riflettere su ciò che è stato e ciò che è al momento il trattamento riservato alle donne in questo paese. Già dalle prime pagine lei definisce le peculiarità dell’Italia in fatto di discriminazione delle donne. Nello specifico, quali sono? Il dato più clamoroso riguarda la rappresentanza politica e la possibilità di accesso delle donne a ruoli di peso e potere nelle aziende, nella cultura e nell’informazione, a questo di deve unire il fatto che le donne sono svantaggiate rispetto agli uomini per quanto riguarda salari e possibilità di carriera. In un Paese che parla tanto di maternità, alle donne che vogliono fare figli viene richiesto spesso di rimandare - se lavoratrici - la nascita dei figli, e comunque i datori di lavoro non le vedono di buon occhio, le considerano «a rischio», come se la maternità potesse essere un problema e non una risorsa per tutti. Dalla sua analisi, sempre spietatamente lucida, emerge anche che l’Italia proprio non riesce ad essere uno Stato laico. Perché? Per il piccolo dettaglio che in questo Paese c’è il Vaticano, c’è il Papa. Perché tanti politici, da destra a sinistra, nella rincorsa all’elettorato cosiddetto moderato, vogliono essere più clericali dei cattolici, perchè siamo in un momento di rabbiosa debolezza della Chiesa che risponde ai suoi problemi interni arroccandosi e chiudendosi. C’è spazio anche per prendersela con le donne, che in maniera più o meno consapevole sposano il modello maschilista imperante. Quali sono le loro colpe? Quelle di prendere la scorciatoia, magari con la scusa che così, anzi, sono progressiste e liberate, mentre non fanno altro che reiterare il C R e c e n s i o n i SILVIA BALLESTRA . Una scenata alle donne che non si sono più voltate indietro: «Le donne degli anni Settanta certe cose le conoscono molto bene e le hanno combattute all’epoca, continuando a lavorarci negli anni. Sono le giovani generazioni ad aver bisogno di riflettere su ciò che è stato e ciò che è al momento il trattamento riservato alle donne in questo paese» E le donne ritornarono nel teatrino maschilista IL LIBRO GIUSEPPE RONCIONI VIVE AD AFRAGOLA. INSEGNA MATERIE LETTERARIE NELLE SCUOLE MEDIE. COL- "IL DIARIO", "PULP" "CONQUISTE DEL LAVORO" LABORA CON E teatrino maschilista che le vuole nude e disponibili. D’altronde una sottocultura che premia le Paris Hilton e le Gregoraci reimettendole continuamente nel circuito della comunicazione e trasformandole in icone per i giovanissimi non fa che riconfermare che la strada giusta per arricchirsi senza saper fare niente è quella. Però siccome oggi le donne studiano e sono più consapevoli e, appunto, più libere di prima, potrebbero pure fare altre scelte. Se una ragazza decide di adattarsi al modello della donna oggetto, più sessuato che mai, oggi non ci sono più scusanti: c’è della malafede e del collaborazionismo. Così si fa danno alle donne tutte e anche alla sessualità di tutti, che diventa caricaturale, mercantile e incredibilmente povera, ridotta a merce nemmeno tan- SILVIA BALLESTRA "Contro le donne nei secoli dei secoli" pp. 96, euro 7 Il Saggiatore, 2006 Così la lotta femminile degli anni Settanta ha perso la sua spinta Un duro pamphlet contro l’interruzione improvvisa del processo di liberazione della donna, arresto di cui anche la donna è colpevole e consapevole. Ma è la donna di oggi, che ha trenta e quarant’anni a trovarsi in questa condizione di distacco e di rinuncia. Perché? Perché i modelli invalsi negli anni Sessanta e Settanta, gli anni della lotta per l’emancipazione femminile che affermarono insieme con gli slogan anche un linguaggio, non sono oggi neppure recepiti: si sono persi per strada e sono stati lasciati indietro dalle donne di oggi, tornae succubi del maschilismo, sensibili alle pressione della Chiesa, nuovamente rinchiuse e rinserrate denro logiche tengono conto di nuove forze di assoggettamento quali i media, la pubblicità, il mercato del lavoro. Sicché il movimento nato l’anno scorso, che ha riunito moltissime donne attorno all’appello «Usciamo dal silenzio», è formato da ex militanti degli anni di lotta oppure da giovanissime attente alle nuove istanze. È rimasta tagliata la generazione che non ha vissuto il Sessantotto e i suoi retaggi. CARLO M. CIPOLLA. Il grado di intelligenza nella storia umana Fenomenologia dello stupidario uesto libro è la testimonianza di come non siano necessarie centinaia di pagine per scrivere un testo godibile ed ironico. Nella premesal1351, causando la morte di circa un terzo le mi sembra il caso di analizzare il caso del re sa, ("Tanto per incominciare"), Cipolla delinea MARCO LIMITI della popolazione europea. Così nella prima d’Inghilterra Edoardo. In primo istanza, come la differenza fra umorismo ed ironia, distinzione più utile di quanto possa sembrare, sopratVIVE A ROMA. DIRIGE LE EDIZIONI metà del secolo XIV la situazione degli stati lo stesso libro ci spiega, l’essere re, e quindi tutto per comprendere completamente il senPROGETTO CULTURA. COLLABORA CON europei non era così rosea, soprattutto per il re una figura istituzionale fra le più importanti, d’Inghilterra Edorado che, indebitatosi pesan- non esime nessuno dal rischio di comportarsi so del libro. SITI DI LETTERATURA E SPETTACOLO temente con i mercanti fiorentini, dichiarò come uno stupido: nella fattispecie, il comporSecondo la giustissima analisi dell’autore, guerra alla Francia, sicuro di una rapida resa tamento del re è stato stupido in quanto la sua quando si fa ironia si ride degli altri, mentre atazione non ha portato beneficio a nessuno, antraverso l’umorismo si riesce a ridere con gli agli amanti smaniosi. Prima di partire per il dei francesi. altri. Quindi l’ironia può generare tensioni e lungo viaggio i crociati, prendendo spunto dal Si sbagliò a tal punto che la guerra, da lui di- zi ha procurato un danno a tutti gli altri (a preconflitti che potrebbero essere sciolti attra- proverbio «fidarsi della propria moglie e bene chiarata ed alla quale non riuscì a sopravvive- scindere dal fatto che non sapeva che la sua verso un uso corretto e tempestivo dell’umo- non fidarsi è meglio» si procurarono una cin- re per vecchiaia, durò 116 anni e causò, fra azione ha dato vita al Rinascimento). l’altro, la bancarotta delle finanze inglesi. I fio- Nello spiegare come le nostre azioni ci qualitura di castità. rismo. In poche parole l’iVinta la battaglia il pepe rentini, demoralizzati e disillusi dal gentle- ficano, il saggio di Cipolla è istruttivo. Per ronia è privata, segreta CARLO M. CIPOLLA tornò nei mercati euro- man inglese si diedero alla pittura ed alla poe- esempio se Tizio compie un’azione e ne ricamentre l’umorismo è con"Allegro ma non troppo" pei, generando una gran- sia, facendo fiorire così il Rinascimento! va una perdita causando un vantaggio a Caio, diviso e pubblico. È con pp. 83, euro 10 de espansione demogra- Il comportamento del re Edorado è esemplare Tizio si sarà comportato da sprovveduto. Se questo spirito di condiviIl Mulino, 2006 fica ed il proliferare del per introdurre il secondo saggio del libro di Tizio compie un’azione dalla quale traggono sione che Cipolla congeda commercio di altri beni, Carlo Cipolla, "Le leggi fondamentali della vantaggio sua lui che Caio, Tizio si sarà comqueste pagine. stupidità umana". Questo breve scritto spiega, portato da persona intelligente. Se invece Tizio quali il vino e la lana. Il libro contiene due saggi Come conseguenza e pu- con grafici matematici, come le nostre azioni trae vantaggio da un’azione causando un danumoristici. Il primo è intitolato "Il ruolo delle spezie (e del pepe in par- nizione di un tale ed eccessivo consumo di be- manifestino il nostro grado di intelligenza o no a Caio si sarà comportato da bandito. Una persona stupida è quella che causa un danno ad ticolare) nello sviluppo economico del Me- ni di lusso, prolungato per circa tre secoli, ar- stupidità. dioevo". In un primo momento la mancanza di rivò la peste che sconvolse l’Europa dal 1347 Prima di riportare le varie leggi e commentar- una persona senza ottenere dalle sue azioni alpepe, potente afrodisiaco, è vista come causa del calo demografico e della perdita di speranza nella vita terrena in favore di un grande ferRITA LEVI MONTALCINI ALDO DELLA MALVINA vore religioso. È per questo che Pietro l’EreGIUSEPPINA TRIPODI "Un pezzo di niente" mita cerca di procurarsi il pepe dall’Oriente "Tempo di revisione" pp. 377, euro 15 tramite una guerra che avrebbe anche avuto il pp. 161, euro 16,50 Pendragon, 2006 merito di liberare la Terrasanta dall’oppressioBaldini Castaldi Dalai, 2006 ne musulmana. Generalmente la Chiesa non C approvava il comportamento violento dei ba- A roni ma in questo caso fu felice di aggiungere Suddiviso in sei parti per complessivi venticinque capitoli, Un la qualificazione di «santa» al termine «guer- T Nel corso dei secoli, l’evoluzione biologica e quella culturale sono sempre state oggetto di revisione. E se la prima si è veri- pezzo di niente è il poema di fine millennio di Aldo della Malra». A vina, pseudonimo di Aldo Lacchini, poeta di Cesena. Un poeficata in modo uguale per tutti, la seconda, basata sulle scoIl mercato metallurgico crebbe a dismisura come si può desumere anche dalla crescente L perte scientifiche, ha potuto verificarsi solo in favorevoli con- ma che è un viaggio, come quello dantesco, che l’autore prende ad esempio per un itinerarium alla ricerca della Verità. Se dizioni ambientali. Dunque non tutte le popolazioni hanno frequenza di cognomi derivanti dalla parola fabbro (Smith in Inghilterra; Schmidt in Ger- O potuto usufruire dei benefici apportati dall’evoluzione cultu- non una discesa agli inferi, un girovagare terreno, tra scenari reali e paesaggi ideali o luoghi dell’anima, con tanti persomania; Lefevre in Francia) - e non solo a cau- G rale; cosa che mette in evidenza l’importanza fondamentale naggi comuni, ma anche nuvole, pioggia e vento. del ruolo esplicato dai fattori epigenetici e non genetici. sa della fabbricazione delle armi ma anche grazie ai mariti dubbiosi, agli mogli infedeli ed O Q Dove arriva la cultura Un terreno girovago to bella. Perché i media sono allergici alla violenza sulle donne, che diventa interessante solo quando ci sono dei forti elementi di spettacolarizzazione? Perché sono conformisti e appiattiti sulla monocultura maschilista. La violenza domestica è un problema complicato ma assolutamente trasversale a luoghi e culture, basti pensare che la prima causa di morte delle donne nel mondo non sono malattie, incidenti stradali o altro, ma l’omicidio per mano di partner o fratelli o padri violenti. Magari prima di scagliarsi a denunciare l’arretratezza di tante parti del mondo - sto parlando del velo - potremmo soffermarci a guardare cosa succede di qua, aprire un dibattito - fra uomini - su cosa sta succedendo ai maschi, sul perché siano così spesso inadeguati, su cosa sia stata per loro questa meravigliosa rivoluzione - incruenta - delle donne e di come sia invece sanguinosa la reazione, o, se vogliamo, il tentativo di restaurazione. Sfogliando i giornali femminili, l’immagine della donna proposta sembra assai lontana da quella reale, innescando, come lei tende a sottolineare, negli uomini un perverso meccanismo di frustrazione delle aspettative. Perché non si ha il coraggio di tentare delle strade editoriali alternative, in cui si dia veramente spazio all’universo femminile, liberandosi dalle stritolanti leggi del mercato? Sfogliando i giornali femminili, ma anche quelli maschili, ma anche guardando la pubblicità in strada, tanta televisione, e la rete, e il porno che ormai arriva in casa con un clic e offre il catalogo più disparato e disperante di specializzazioni... Sembra che la donna ridotta a carnazza faccia vendere di più, tutto passerà quando si capirà che l’industria culturale non può essere considerata alla stregua di qualsiasi altra industria, quindi mai. Di certo non si può liquidare il problema, rinvenendo nella perdita di voce del femminismo la causa principale dell’attuale peggioramento della condizione delle donne. Ci sono delle efficaci voci femminili, in questo momento, in grado di difendere le donne? Ma certo, forse non sono voci che si sentono, ma sono gesti quotidiani di milioni di donne che lavorano, di ragazze che studiano, insomma delle donne vere che mandano avanti questo paese magari dannandosi fra lavoro e famiglia, delle tante donne straniere che nelle nostre case fanno le tate, colf, badanti, distantissime dalle pupe di carta ritoccate al silicone o scontornate dal fotoshop. E ci sono anche voci di uomini, comunque, molto interessanti. Cosa potrebbe, nel concreto, attutire il retrogusto di amarezza che le è rimasto alla fine della sua scenata? Mah, vedo che in questi mesi alcune cose si stanno muovendo e non solo sul piano simbolico. La manifestazione delle donne a Milano dell’anno scorso, la protesta contro l’orrenda pubblicità di D&G, il lavoro buono di alcune nostre ministre, le Segoléne e le Hillary all’estero... Di sicuro c’è una consapevolezza nuova, l’amara constatazione che le donne sono ancora sottotiro da più parti. cun vantaggio. Detto questo è facile, nonché divertente, catalogare le azioni dei nostri amici e conoscenti secondo questi gruppi. Lo stupido è pericoloso perché le sue azioni non sono prevedibili, mentre dietro alla mentalità di un bandito si può rintracciare una logica, seppur bieca e corrotta; dietro alle azioni di uno stupido c’è la sua irrazionalità, aggiungo che lo stupido non sa di essere stupido e si comporta in tal maniera con naturalezza e senza nessun rimorso. Passiamo ora alle leggi fondamentali: la prima legge recita: «Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». La seconda legge afferma che «la probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona». Ciò che Cipolla vuole spiegare è che la stupidità pervade tutte le persone del tessuto sociale a prescindere dal loro ruolo e dalla loro importanza nella società. Si può aggiungere che la percentuale di stupidi è la medesima all’interno di ogni classe sociale. La democrazia è il valore che regola tale legge: esistono tanti stupidi fra uomini e donne come fra paesi sviluppati e non. La quarta legge dice che «le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide». Uno stupido non si può controllare né rendere inoffensivo. L’ultima legge investe il campo della macronalisi ed è molto interessante. Partendo dal presupposto che il benessere della società è la somma algebrica delle condizioni di benessere individuale, la persona stupida è pericolosissima, molto più di un bandito. L’azione di tale individuo, a livello macro, non porta nessun cambiamento nell’equilibrio della società in quanto rappresenta puramente un trasferimento di benessere o ricchezza da una persona a un’altra. D’altro canto le persone stupide causano perdite senza generare ricchezza e da questo consegue un impoverimento della società. Non si può che concludere consigliando Cipolla, sperando che riusciate ad individuare tutti gli stupidi della Terra e difendervi dalle loro azioni. saggistica italiana ederico Bertoni affronta uno degli aspetti più affascinanti e nello stesso tempo sfuggenti della scrittura letteraria: il suo possibile realismo. Il termine non risulta, all’attenta disamina diacronica condotta dall’autore, in nessun modo riconducibile a una definizione unitaria: di realismo, come già di mimesis a partire da Platone e Aristotele, si è parlato con accenti diversi e a volte contrastanti. Sul tappeto è però sempre rimasto il problema del ruolo della letteratura nelle società e nei tempi storici che ha attraversato: se si è arrivati, alla metà del Novecento, a voler negare qualunque rapporto fra la letteratura e la realtà, la ragione sta probabilmente nel rifiuto del legame troppo stretto, uno a uno o biunivoco, che tra scrittura (in particolare romanzesca) e referenti esterni (vicende di esseri umani comuni, plausibili secondo norme più o meno condivise) si era creato nel secolo precedente. Su questa base, il libro di Bertoni risulta indispensabile a chiunque voglia conoscere le riflessioni degli autori, specialmente dei romanzieri, sulla loro «missione» e sui limiti della loro possibilità di rappresentare il reale. Sono molto interessanti alcuni interludi sul realismo di singole opere, dalle Città invisibili al Don Chisciotte e al Rosso e il nero, sino al provocatorio Sebastian Knight di Nabokov. Molto interessanti sono poi le osservazioni su uno snodo messo a fuoco dal massimo esponente del realismo canonico e insieme primo trasgressore dei suoi stessi vincoli, ossia il Balzac del Capolavoro sconosciuto, che presenta, è stato detto, una parabola o un’allegoria sul realismo stesso, ovvero sul come si possa ottenere una rappresentazione della realtà sui generis persino mirando a tutt’altro, magari facendo emergere, quasi si trattasse di un’opera di Rauschenberg anticipata agli anni Trenta dell’Ottocento, la «punta di un piede nudo» da un caos di forme e colori. Bertoni ovviamente esamina in dettaglio le interpretazioni critiche che in ogni epoca sono emerse riguardo al rapporto letteratura/realtà. Nell’impossibilità di trovare un accordo, una linea comune condivisibile, formula una sua proposta di «realismo plurale», nella quale confluiscono spunti ricavabili da grandi scrutatori dei confini del realismo - Auerbach, Jakobson, Lukács o il nostro Debenedetti -, e inseriti in una classificazione di piani latamente semiotica. Il realismo letterario si potrebbe dividere in quattro livelli fondamentali: tematico-referenziale, stilistico-formale, semiotico e cognitivo, ossia, nei termini di Ricoeur, quello che collega «ciò che sta a monte e a valle della configurazione poetica». Questi quattro livelli sono presenti e attivi in una delle ultime grandi opere realistiche, Underworld di Don DeLillo, alla quale è dedicata un’ampia analisi conclusiva. Il libro di Bertoni termina quindi con una pars construens, sia pur circoscritta, ma tale da non lasciare il lettore nel relativismo assoluto del concetto di realismo. Perché in effetti, benché si debba necessariamente considerare il realismo come un rapporto, una tensio- F R e c e n s i o n i I IDOLINA LANDOLFI Nella foto sopra Federico Bertoni, autore per Einaudi di Realismo e letteratura. Sotto Maurizio Bettini e Luigi Spina (foto piccola) che hanno pubblicato da Einaudi Il mito delle sirene IL LIBRO pagina 17 Trovarobe R e c e n s i o n i S t los FEDERICO BERTONI "Realismo e letteratura. Una storia possibile" pp. 402, euro 20 Einaudi, 2007 GIULIO MOZZI La natura e il grado della letteratura realista IL QUOTIDIANO DE CERTAU Tra testo letterario e realtà si estende una terra di mezzo che è l’esperienza, l’esistenza, il mondo. È il terreno decisivo per decidere le sorti della letteratura nel senso di mimesis o invenzione. Ma anche quanto ripete la realtà e la esegue, la letteratura fa leva sulla forza di rivelazione che hanno le storie inventate. Ma cos’è il realismo e come si configura? Bertoni, nell’intento di stabilirne la natura e il grado, va alla ricerca delle stazioni di posta nelle quali il realismo letterario si è fermato e ha lasciato segni: da Don Chisciotte a Le città invisibili fino a Underworld di DeLillo. FEDERICO BERTONI . Il canone del realismo sembra oggi fissato su una interpretazione dei nessi fra scrittura, visività cinematografico-televisiva e fruizione delle vicende viste come parte di un flusso comunicativo continuo e insieme privo di coerenza generale. E la letteratura dell’Ottocento compresa come grande realismo diventa genere di consumo Ogni grande opera letteraria aspira a una validità perenne ALBERTO CASADEI VIVE A PISA E INSEGNA ALL’UNIVERSITÀ. "ROMANZI DI FINISTERRE" (CAROCCI, 2000), "IL NOVECENTO" (IL MULINO, 2005) ne di tipo conoscitivo che varia al variare dei parametri epistemologici vigenti, non è negabile che qualunque grande opera letteraria aspiri a una sua validità perenne, raggiungibile trasformando i dati storici contingenti in un materiale da formalizzare e in qualche misura rendere assoluto, ossia riusabile in epoche diverse. In questo senso, potevano essere impiegate maggiormente le osservazioni di Peter Brooks nel suo recente "The realist vision" (2005) sul valore «modellizzante» che le opere artistiche tendono ad assumere in generale, e in particolare, negli ultimi due secoli, quelle narrative e quelle pittoriche: ma, aggiungiamo, il canone del realismo oggi sembra fissato su un’interpretazione dei nessi fra scrittura, visività cinematografico-televisiva e fruizione delle vicende viste come parte di un flusso comunicativo continuo e insieme privo di coerenza generale. Se il modello lineare della narrazione ottocentesca è ormai relegato alla letteratura di consumo, ciò dipende in gran parte da una percezione degli eventi che è intrinsecamente franta, oltre che mediata: e internet rappresenta una sorta di espansione all’ennesima potenza di questa situazione, con potenzialità e rischi ancora poco chiari. Insomma, il fondamento di ogni realismo letterario sta in una percezione se vogliamo biologico-culturale dell’esterno (usiamo il termine in senso fisico-sperimentale), che si sostanzia in forme di lunga durata, in genere dotate di una loro narratività (ma qui occorrerebbe affrontare anche il problema della manifestazione lirica di un rapporto io-mondo: perché una lirica di Baudelaire non potrebbe essere più «realistica» di un romanzo d’appendice di quart’ordine?). Proprio su questi fondamenti occorre riflettere ancora, perché è chiaro che solo con una metodologia che coniughi analisi tematicostilistica e snodi filosofici-epistemologici potremo costruire un modello di realismo che non si limiti alle consapevolezze, a volte ingenue, degli autori. Il grande Auerbach aveva individuato un principio euristico nella separazione degli stili e un punto di arrivo nella rappresentazione seria del quotidiano: e aveva così delineato i tratti distintivi del novel moderno. Ora che le distinzioni poste dalla fisica classica e dal modello informativo del giornalismo mostrano limiti evidenti, ora che nel campo del «reale» entriamo con strumenti euristici che rimandano alla genetica, ai fondamenti antropologici dell’Erlebnis, alla densità delle elaborazioni cerebrali, sembra sempre più necessario dotarci di una teoria del realismo che, partendo dagli assunti focalizzati da Bertoni, possa dar conto anche del perché il visionario Balzac o il paranoico DeLillo sono consanguinei dell’epico Omero. MAURIZIO BETTINI - LUIGI SPINA. Rivisitazione del mito Il lungo viaggio delle sirene nteressantissimo volume, corredato di ricco apparato iconografico e formidabile bibliografia ed elenco delle fonti ascoltare il canto divino, evitando però di es(tutto ciò che vorreste sapere su), che presen- serne annientato) e, secondo alcuni autori, si ta le enigmatiche creature dal loro primo appa- suicidano in mare. rire sulla scena del mondo, figlie, a seconda Della loro natura alata molte sono le spiegaziodelle tradizioni riportate da vari scrittori anti- ni: in origine ninfe che hanno scelto la vergichi, del fiume Acheloo e di una delle Muse, nità, e perciò bersaglio della collera di AfrodiMelpomene a detta di Apollodoro, Tersicore te, che le trasforma in uccelli; o compagne di per Apollonio Rodio (che le cita nelle sue Ar- Proserpina, ci dice Ovidio: dopo il ratto ad gonautiche) e Nonno di Panopoli; o di Ache- opera di Ade, si diedero a cercarla per ogni doloo e Sterope; o della stessa Terra, Gea, che le ve e, per perlustrare anche i mari, chiesero agli genera dalle gocce di sangue cadute su di lei da dei di essere trasformate in uccelli. un bellicoso Acheloo. O ancora «figlie di For- Ma ben prima che con Odisseo le Sirene eserco», come le chiama Sofocle, padre peraltro di citarono il loro potere canoro: intanto ebbero la tutta una serie di ibridi che spesso con le Sire- sfrontatezza di sfidare nel canto nientemeno ne si confondono: le Graie, le Gorgoni, la che le Muse e, avendo perduto, si strapparono di dosso le penne e si butdonna-serpente Echidna; tarono in mare, trasfore la stessa Scilla, che insimandosi in rocce bianche dia i naviganti nello StretMAURIZIO BETTINI (di queste vicende resta to di Messina. LUIGI SPINA traccia nella toponomaLuigi Spina segue le mol"Il mito delle sirene" stica: le Isole Bianche, te ramificazioni del mito, pp. 261, euro 22 Leukaì, si collocano al basandosi su una perfetta Einaudi, 2007 largo di Creta, di fronte conoscenza delle fonti; e alla città di Aptera, che dispiega sotto i nostri occhi la vita, la biografia di questi esseri alati (ma significa letteralmente «Senza ali»). che molto hanno a che vedere con l’elemen- E poi si ritrovarono loro malgrado a sostenere to acqueo, data la loro genealogia), dalla testa una gara canora con Orfeo: già gli Argonauti, e busto di donna e corpo di uccello - perché ta- infatti, erano riusciti a superare indenni la le era il loro aspetto originario, così le vediamo trappola delle Sirene, grazie ad Orfeo appunnei vasi attici del V e IV secolo a. C., essenzial- to, che avevano a bordo, e che col suono delmente raffigurate nella scena dell’Odissea che la cetra e il magnifico canto sovrastò la loro più di ogni altra le ha rese famose: quella del voce. Non importa ciò che dicessero: era la passaggio di Ulisse presso le loro rocce calci- qualità sublime e irresistibile delle loro armonate, durante il ritorno verso Itaca. Un mito ini- nie a condurre a perdita. Platone, nella Repubzialmente negativo, dunque, le cui protagoni- blica, fa narrare ad Er della configurazione ste subiscono una sconfitta (con lo stratagem- dell’aldilà: otto cerchi concentrici, ciascuno ma della cera a tappare le orecchie dei compa- dei quali presieduto da una Sirena, i cui suoni gni, e Odisseo stesso legato all’albero maestro, rappresentano nella loro summa «la perfetta perché solo all’eroe spetta il privilegio di armonia delle sfere». In un capitolo dedicato a "Il nome, i nomi, i luoghi delle Sirene", Spina, dopo alcune ipotesi sul termine Sirena e la sua discussa etimologia (seirá significa legare, ma seirén è anche in greco l’ape, produttrice di cera, ecc.), fornisce i nomi delle Sirene (da due a quattro), che mutano nelle varie fonti: ad esempio «Aglaophéme» (colei che ha «splendida fama»), «Thelxiépeia» (usa «parole che incantano»), «Peisinóe» (che ha nel nome la radice di peítho, persuado) e Lígeia (quest’ultima sarà, molti e molti secoli dopo, la protagonista dell’omonimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). E non dimentichiamo che Sirena era Partenope, «vergine dal bel canto», sepolta a Neapo- lis, e sul mare di Napoli, o un po’più in là lungo le coste campane (nelle isole sorrentine delle Sirenusse, le attuali li Galli), sono alcune delle loro sedi. Laddove altri autori le spostano più a sud, in Sicilia, presso il promontorio del Peloro. Il volume è insomma una miniera di preziosi collegamenti e raffronti tra autori e storie, rassegna delle presenze di Sirene nei luoghi più impensati, dalle finte Sirene fatte porre da Alessandro Magno sul mausoleo del fedele compagno Efestione (statue cave da cui alcuni uomini diffondevano il lamento funebre) fino a quelle che Colombo sosteneva nel suo diario di bordo di aver incontrato (lo riporta Bartolomé de Las Casas) il 9 gennaio del 1493. Creature metamorfiche per eccellenza, è in epoca relativamente recente (inizio VIII secolo) che divengono come ora le conosciamo, donne fino alla vita e il resto corpo squamoso e iridescente di pesce. Nella seconda parte del volume, "L’eco delle Sirene", il saggista dimostra con una serie di esempi la forza straordinaria del mito: la sua sopravvivenza e continuo utilizzo simbolico lo hanno trasformato da mito di sconfitta in mito vincente. Ed ecco allora la Sirena nei bestiari medioevali moralizzanti, nelle opere dei Padri della Chiesa (in accezione negativa: la donna adescatrice, la lusinga dei piaceri terreni cui resistere in nome della purezza della fede), nelle saghe nordiche, e fino a Boccaccio, Montaigne, Kafka (Il silenzio delle Sirene), Melville, Hans Christian Andersen (la cui Sirenetta, ormai benevola fautrice di approdi sicuri, campeggia nel porto di Copenhagen), Brecht (Dubbi sul mito) o Mario Camerini e il suo Ulisse. Da un po’ di tempo sto leggendo e rileggendo (perché sono belli e difficili, e io sono duro di comprendonio) alcuni libri di Michel de Certau. Michel de Certau (nato nel 1925, morto nel 1986) è uno studioso fuori dal comune. Si è occupato di mistici del Quattrocento e di antropologia della vita quotidiana. Ha scritto libri sul contemptus mundi nella tradizione spirituale dell’Occidente e su Che Guevara come personaggio leggendario. Padroneggiava, oltre che - da gesuita qual era - le lingue antiche, anche una mezza dozzina di lingue moderne. In somma: una sorta di genio universale, di quelli che nei tempi moderni solo la tradizione ebraica e la Compagnia di Gesù sembrano capaci di portare al mondo. Confesso che, un anno fa, ignoravo fin l’esistenza di quest’uomo; e mi sono accorto che molte «persone di cultura» che frequento non ne hanno mai sentito parlare. «Persone di cultura», intendo, che hanno letto tutti i libri di Foucault o di Baudrillard o di Lévi-Strauss, e magari qualcuno di Bourdieu (che peraltro, in Italia, non è mai stato veramente di moda). Effettivamente, i libri di de Certau in Italia sono stati pubblicati in ordine sparso, sparpagliati tra le Edizioni Lavoro, Olschki, il Mulino, il Pensiero Scientifico e altri ancora. Eppure è strano che un tale autore, un protagonista di quella stagione della nuova cultura umanistica francese che incrociava storiografia e letteratura, etnografia e politica, sociologia e linguistica - e che è stata importata in Italia con grande successo - abbia nella nostra lingua un’esistenza così marginale. Io l’ho incontrato, de Certeau, nel modo più banale: cercando, di bibliografia in bibliografia, opere che tentassero la descrizione, se non lo studio scientifico, della vita quotidiana: così mi sono trovato a leggere l’Invenzione del quotidiano (pubblicato in Italia da Edizioni Lavoro), e a restare sbalordito difronte a una delle intelligenze più astute che mi sia mai capitato di incontrare. Di solito alla parola «astuzia» si dà una connotazione diminutiva, se non negativa: dove non c’è intelligenza, diceva il mio professore di filosofia del liceo, c’è l’astuzia. Ma esiste anche un’intelligenza astuta, un’intelligenza che affronta il suo oggetto non frontalmente, non militarmente - la vita quotidiana è un oggetto così delicato che basta poco per frantumarlo - ma, diciamo così, seduttivamente. De Certau era, prima di tutto, veramente innamorato della vita quotidiana e delle invenzioni di cui essa è ricca. Se innumerevoli sociologi hanno spesa la loro vita a spiegarci che siamo tutti massificati, de Certau - con mossa quasi eversiva - si mette a caccia della creatività del consumatore, dei mille modi in cui il popolo dei consumatori si appropria di ciò che gli viene fornito e ne fa un uso imprevisto attraverso delle arti quasi invisibili, e scarsamente esplorate dalla comunità scientifica, ma non per questo meno vitali. Oggi (scrivo questo articolo il 31 marzo 2007) sono a un convegno. Il luogo è Reggio Calabria. Gli organizzatori sono l’associazione reggina «Le pietre di scarto» e la «Federazione Bombacarta», nata attorno al laboratorio di scrittura «Bombacarta» fondato (nel 1998, se non ricordo male) da Antonio Spadaro, gesuita. L’altro ieri, sul volo da Venezia a Reggio, il mio vicino - un giovanotto francese - ha tranquillamente sfoderato un libro di de Certau ("La faiblesse de croire", Seuil). Ieri, al convegno, tre relatori su quattro hanno citato, esplicitamente o implicitamente, de Certau. Stamattina, nella mia camera d’albergo, accendo la televisione e becco (su Rai3) una persona che parla di Michel de Certau. Ho pensato: qui sta succedendo qualcosa. Ci sono dei libri, degli autori, che scompaiono per anni e anni (o magari non compaiono mai), e poi, senza una ragione visibile, pian piano o all’improvviso, appaiono o riappaiono, e magari diventano di moda. Non parlo di quei casi in cui un editore, magari grande e grosso, decide di "«ipescare» un autore e di provare a farne un suo punto di forza. Parlo di «emersioni» e «riemersioni» che sembrano avvenire per caso, per passaparola, slegate da specifiche iniziative editoriali o culturali, per forza autonoma delle opere scritte da questi autori. Spero proprio che sarà questo il caso di Michel de Certau. saggistica italiana 18 I n t e r v i s t e e c’è una cosa che non pretendo è quella di aver scritto un libro pieno di affermazioni originali». Non si può dargli torto: di laicismi e laicità si discute ormai da anni e pare proprio che siano il tema preferito da moltissimi saggisti ed opinionisti, cattolici o atei non importa. Anche di Gian Enrico Rusconi, politologo dell’università di Torino ed editorialista de "La Stampa", che ha deciso di occuparsene scrivendo un breve saggio per Rizzoli, Non abusare di Dio. Per un’etica laica. Rispetto ai molti pamphlet pubblicati di recente, quello del germanista non si può dire certo che abbia il passo affrettato o che sia poco argomentato. Strutturato in due parti - la prima dedicata ai temi che animano il dibattito politico italiano, la seconda, più corposa ed inedita, incentrata sul discorso sulla natura umana - è un tentativo ragionato di dialogo con il laicato cattolico. A partire proprio dal significato della parola laicità: «Tutti in Italia si dichiarano laici. Contemporaneamente, però, nel linguaggio pubblico corrente continua a valere la distinzione, se non la separazione, tra laici e credenti, tra laici e cattolici, con il sottinteso che i laici siano non-credenti e viceversa. In realtà i due termini non sono affatto sinonimi. Ma allora: da noi ci sono laici e/o credenti oppure siamo tutti laici?». Stilos ha approfondito l’argomento. Un tema già trattato infinite volte dalla pubblicistica. È vero: la definizione di laicità è la parte meno originale di questo libro perché ribadisce il concetto di autonomia intellettuale ed individuale. L’idea che l’unico criterio sia la ragionevolezza è un’affermazione per niente inedita. Allora, perchè scriverlo? Perché la prima parte del libro è funzionale alla seconda, dedicata al concetto di natura umana. Credo che debba essere questo il reale tema di confronto. A tal proposito, metto sotto obiezione l’ambiguità del discorso ufficiale che per un verso depreca l’esclusione della religione dalla vita pubblica e per l’altro sostiene che il proprio argomentare non è religioso, ma razionale. Questa è una evidente contraddizione. Anche perché, così facendo la Chiesa corre un grosso rischio. Quale? In un momento in cui la Chiesa è così esposta nel discorso pubblico e però al tempo stesso continua a protestare di non essere ascoltata come vuole, c’è il serio pericolo che metta in gioco Dio su temi che possono esser affrontati in modo totalmente diverso. Mi pare assolutamente fuori luogo ad esempio che si debba ricorrere al Vangelo per rifiutare i Pacs. È un uso sproporzionato di strumenti ideologici. Non è contraddittorio invitare la Chiesa cattolica ad essere più pragmatica proprio su questi temi? Il mio è un semplice invito a discutere del merito. Una delle affermazioni che faccio è che la dottrina della Chiesa rischia di concentrarsi « S R e c e n s i o n i A ALFIO SIRACUSANO S t los Nella foto sopra Gian Enrico Rusconi, autore per Rizzoli di Non abusare di Dio. In basso Angelo Scola, che da Marsilio ha pubblicato Una nuova laicità GIAN ENRICO RUSCONI . «Se la Chiesa è così esposta nel discorso pubblico e però al tempo stesso continua a protestare di non essere ascoltata come vuole, c’è il serio pericolo che metta in gioco Dio su temi che possono esser affrontati in modo totalmente diverso. Mi pare assolutamente fuori luogo ad esempio che si debba ricorrere al Vangelo per rifiutare i Pacs» Così la Chiesa mette Dio in discussione FILIPPO MARIA BATTAGLIA VIVE A MILANO DOVE DIRIGE LA RIVISTA "GLI APOTI". COLLABORA A "IL FOGLIO", "IL GIORNALE", "L’INDIPENDENTE" tutta su problematiche morali, che poi sono familiari e sessuali, dimenticando del tutto la dimensione teologica alta. Non è un caso che nel libro parlo di impoverimento teologico. Questa difficoltà nasce anche dalla debolezza della classe politica. C’è un passo intermedio. La Chiesa cattolica è tentata di offrire una religione civile agli italiani che non l’hanno. Ma il vero problema è che il laicato cattolico è totalmente appiattito. Trovo incredibile che a parlare di queste cose siano prevalentemente monsignori e cardinali. Invece di essere protagonisti, i laici credenti delegano costantemente il loro pensiero all’autorità ecclesiastica. Di qui, il difetto della politica, ma non si può sottovalutare questo passaggio intermedio. Più che della Chiesa il problema allora riguarda l’opinione pubblica. È evidente che riguarda l’opinione pubblica italiana. E questo è da collegare alla fine delle grandi ideologie. Per molti decenni, in questo Paese il discorso laico è stato prevalentemente una componente della cultura democratico-socialista. Impoveritasi quest’ultima, sono venuti fuori problemi di fondo a cui si sono aggiunti nuovi temi, come quello delle biotecnologie. In questa situazione di estrema problematicità culturale, la Chiesa si avanza con la sua dottrina che offre certezze, mentre il laico ha dei problemi molto più complessi, anche perché non esiste un sistema laico orto- IL LIBRO GIAN ENRICO RUSCONI "Non abusare di Dio" pp. 189, euro 12,50 Rizzoli, 2007 L’impulso a partecipare al dibattito politico La spinta della Chiesa cattolica a dirigere la condotta non solo dei credenti ma anche dei laici e quindi dello Stato. ma questa vocazione a partecipare al dibattito politico mette in crisi il valore di laicità intesa come fondamento della libertà individuale di giudizio. dosso od omologo. In poche parole, c’è una forma di supplenza della Chiesa che non nasce da arroganza ma da una particolare congiuntura storica. L’anomalia italiana è il ruolo monopolistico della gerarchia. Un dato storico, più che una considerazione legata a questi ultimi anni. Ovviamente. Se vogliamo proprio trovare una data, io la trovo circa un secolo fa con lo schiacciamento da parte della Chiesa del movimento modernista, composto di sacerdoti ma anche di laici che auspicavano una certa modernizzazione del pensiero. La Chiesa lo ha soffocato con la ovvia conseguenza che è soltanto la gerarchia a parlare e a dire la verità. Il WALTER PEDULLÀ LA RESISTENZA DI FENOGLIO risultato nei suoi effetti più tangibili è che oggi il Pontefice commenti i Pacs. Lei nel libro fa menzione della Costituzione tedesca che, così come quella americana, cita esplicitamente Dio. Questi due Paesi non sono di certo teocratici. Da dove nascono allora i timori circa il riferimento delle radici cristiane nella costituzione europea? Che l’Europa abbia radici cristiane, anzi per essere più corretti greco-giudaico-cristiane, è fuori discussione. Ma il problema a me pare più complesso. Lei ha accennato alla Germania. Ebbene, nella costituzione si nomina Dio in modo molto generico, ma nonostante questo sono sorte diverse controversie giuridiche. Un episodio è avvenuto nel 1995. La Baviera, che è uno Stato federale autonomo, ha nella sua carta frasi molto simili a queste che si vorrebbero inserire in quella europea. Ne consegue che il crocefisso diventi parte obbligatoria dell’arredamento della scuola. Questa decisione è stata contestata e portata avanti fino alla Corte costituzionale centrale che ha sostenuto che la croce è un simbolo altamente religioso, ma non comunitario. E siccome il principio laico considera l’individuo più forte di una confessione, ad esse deve prevalere la coscienza individuale. Il crocefisso va quindi tolto. Tutto questo non comporta evidentemente una dichiarazione di incompatibilità della religione con la costituzione, ma la semplice osservazione che il principio della libertà individuale fa aggio su quella del gruppo. I bavaresi hanno protestato, ma alla fine hanno dovuto accettare questo principio. Ciò ci fa capire come il vero problema non risieda nel riconoscimento storico della matrice culturale, ma nelle inevitabili conseguenze politiche e giuridiche che ne derivano. ANGELO SCOLA. Una riflessione sul significato di laicità Questa è l’età del sacro selvaggio pparentemente i temi trattati dal cardinale Scola in Una nuova laicità discendono da una, per così dire, casualità ve», e che siamo dunque, in un’età di «esplopratica (e lo diciamo perché lo stesso autore sione di un sacro quasi selvaggio», dentro una avverte che il libro è nato dalla raccolta di mol- situazione di post-secolarizzazione. teplici interventi, beninteso tutti comunque Potremmo continuare sulle intense aperture di riconducibili alla funzione pastorale che ac- principio presenti in queste pagine. Che al di là compagna naturalmente l’azione di un cardi- della casualità della raccolta disegnano una venale), ma c’è in essi una linea unica che parte ra e propria «summa« dell’essere cristiano nel da affermazioni salde, di principio, che ose- tempo delle sfide supreme che l’oggi pone al remmo chiamare «politiche» se la parola po- mondo occidentale (e più al mondo cattolico). tesse essere intesa nel senso nobile che essa ha: E tuttavia non si può ignorare il fatto che querelative alla polis e all’uomo che vive in essa. sta «summa» ha anche una dimensione miliChe è poi lo sforzo dell’autore: coniugare la tante, nel senso che, se anche compie uno missione del pastore che esercita una funzione sforzo di fortissima intensità quanto ad apertura nei confronti del mondo e utilizza gli strumenti contemporaneo, talora andella funzione (i testi sache accettandone i linguagcri, ovviamente, le Encigi, non arretra poi di un milcliche, ma anche testi di ANGELO SCOLA limetro quando giungono al filosofi contemporanei, "Una nuova laicità" pettine i nodi su cui è oggi come Habermas) con pp. 186, euro 15 aperto lo scontro di «visiouna comprensione del Marsilio, 2007 ni»: dove l’idea di laicità, mondo di oggi visto nelpiù o meno nuova, esce la sua globalità e letto fuori dalle secche delle afcon occhio intriso di laicità. Beninteso «nuova». Dove per laicità si fermazioni di principio e si misura con la cordeve intendere, usiamo le parole di Scola, un posità delle questioni reali. quadro che consente «a me credente di opera- Perché si ha un bel dire, con Foucault, che il re nella convinzione che Dio regge ultima- potere, considerato in termini antropologici e mente la storia, con decisive implicazioni sul visto nell’ottica della democrazia (la cui prima vivere civile, ma deve riconoscere pari diritti e regola è il «raccontarsi per riconoscersi») non doveri a chi nega questa ipotesi con tutte le fi- è altro, «in ultima analisi... se non il potere di bre del suo essere». Che sono, sia detto senza riconoscimento dall’uno dato all’altro, sulla ironia, parole sante. E forse anche nuove, det- base del reciproco bisogno», ma come si concilia il «riconoscimento» con la «verità»? Che te da un ecclesiastico e di questi tempi. Come sono parole sante quelle relative al rico- per definizione ammette solo di essere ricononoscimento esplicito del meticciato di culture sciuta, dal momento che la contraddizione che connota il mondo contemporaneo, alla non consente che una verità riconosca un’altra presa d’atto della dimensione globale dei pro- verità? blemi, non solo quelli economici, alla neces- Non ci può essere più di una verità, o si deve sità che il mondo riconosca l’esigenza di un bi- ammettere che non ci sia nessuna verità. Dal sogno di «vita buona» che elimini quante più che discende che la traduzione del potere destorture da un presente che ne abbonda. Nella mocratico in prassi politica, ove non voglia richiara percezione che è finito il tempo delle dursi a pratica di prevalenza del potere dell’uutopie, «di fatto... religioni politiche sostituti- no sul potere dell’altro, non può sottrarsi al- L’ A U T O R E Teologia e dottrina un impegno costante Nato nel 1941 in provincia di Lecco è stato vescovo di Grosseto e patriarca di Venezia. Dal 2003 è cardinale. È membro della Congregazione per il clero e dei Comitati di presidenza dei pontifici consigli per i laici e per la famiglia. Ha scritto numerosissimi libri di teologia e dottrina cattolica. Tra gli ultimi, concepiti per un pubblico non di specialisti, Gesù destino dell’uomo, Uomo-donna: il "caso serio" dell’amore (Premio Capri 2003), L’esperienza elementare, Morte e libertà. Altro pagina l’obbligo di riconoscere «le verità» piuttosto che «la verità», con la conseguente necessità di adottare il principio del «vietato vietare»: che invece Scola assimila al detestato relativismo etico e considera dunque deleterio per l’umana convivenza. Per fare un solo esempio, prendiamo la polemica che il cardinale fa col concetto di gender, che, come è noto, sottolinea il fatto che il nostro essere donna o uomo è socialmente e culturalmente costruito e che i ruoli e le relazioni fra i sessi sono dettati dalla società e definiti dalle condizioni economiche, sociali, politiche e culturali in un dato momento. Per lui, in linea con tutto l’insegnamento della Chiesa, non si può uscire dall’unità duale uomo-donna, e dunque ogni comportamento sessuale che non si inscriva dentro questa dualità si colloca necessariamente contro la natura, che ha reso, dice, insuperabile la differenza sessuale. Solo che l’empirìa più usuale, più laica, mostra che non è propriamente così. Che è bensì vero che «differenza, amore, fecondità "sono" i tre fattori inscindibili del mistero nuziale "e quindi" proprietà intrinseca di ogni manifestazione d’amore»; ma dove sta scritto che «se colti nella loro verità essi intercettano ancora oggi il desiderio profondo dell’uomo, per quanto confuso dalle ferite che ogni esperienza d’amore presenta e distorto dai tentativi, più o meno scoperti, messi in moto dalla cultura dominante di cancellare "la strana necessità del sacrificio" che ogni affetto umano autentico comporta»? Può un potere democratico, che agisca in nome di una concezione laica della vita, imporre la necessità del sacrificio (perché poi strana?) a chi ritiene «con tutte le fibre del suo essere» che la sua natura meriti il diritto di un riconoscimento? O che una sua scelta di vita che non danneggi gli altri abbia anch’essa il diritto di essere rispettata? Beppe Fenoglio era lentamente ma sempre più irresistibilmente diventato uno dei quattro o cinque più grandi romanzieri degli ultimi cinquant’anni quando è arrivato addosso alla sua fama, con l’intenzione di stroncarla, un giudizio violento come una schioppettata o una pugnalata. Il tiratore scelto - un celebre giornalista che ha fatto e «scritto» la guerra partigiana e che è noto per il radicalismo delle opinioni e per la virulenza delle provocazioni - ha mirato al cuore: la Resistenza raccontata dall’autore del Partigiano Johnny è falsa. Tanto rumore per nulla? Ebbene no, per l’eterogenesi dei fini quella stroncatura ha risvegliato l’interesse per il narratore di Alba, quella pugnalata «assassina» lo ha resuscitato. E quindi sia benedetta questa «maligna» polemica giornalistica dalla quale risulta per ulteriori prove che Fenoglio è non solo il maggiore scrittore della Resistenza ma è anche uno dei narratori massimi del Novecento. De malo bonum? Ebbene sì, purché si convenga che non c’è niente di male nel negare il consenso a un autore. Non si può obiettare nulla a chi dice con un’espressione divenuta più celebre di una qualsiasi citazione dalla Poetica di Aristotele: «A me u presepiu nun mi piace!» A ognuno piace il proprio presepe, ma se tutto fosse rimasto nell’ambito del gusto personale non ci sarebbe stata disputa, secondo un plurimillenario precetto latino. I conti non tornano invece quando da una impressione privata, cui ovviamente ogni lettore ha diritto, si passa alla motivazione culturale che regge la risentita interpretazione. Se la Resistenza diventa falsa perché i partigiani di Fenoglio sono degli straccioni e dei poco di buono, l’attacco, più che fazioso, è paradossale, nonché falso (oltre che anacronistico per veterocontenutismo «elitario»). Essi erano numerosi nella realtà e non ci sono solo loro nella «fantasia» di Fenoglio: l’hanno incontrati in montagna e nei paesi Calvino, Meneghello e cento altri narratori che hanno combattuto la guerra partigiana. Gli uomini di azione saliti sui monti non erano solo eleganti e indottrinati «azionisti». E tuttavia non è questo il problema. Il noto giornalista, della cui onestà intellettuale nessuno dubita, potrebbe avere avuto come compagni di lotta solo degli intellettuali, della gente perbene, agiata e colta, se contasse solo ciò che lui ha visto coi propri occhi. Questo è ciò che distingue il documento - questo vedo, questo è reale - dal romanzo. Si tratta della banale differenza che passa tra un eccellente giornalista - il «visto cogli occhi» degli empirici - e un grande narratore. Il suo «visto cogli occhi della mente» mette a fuoco cento Resistenze diverse e le riassume sollevandole a una visione dove la Resistenza, che inizia come «questione privata», si trasforma in una questione collettiva. Che non è la collettivazione trombona della Resistenza come fabbrica di eroi. La Resistenza di Fenoglio non è solo un grande tema ma è anche una struttura di racconto in cui c’entra un modo diverso di vedere tutta la vita sotto l’aspetto di guerra combattuta su ogni palmo di terra, su ogni fatto, frase e parola. I suoi «straccioni» strozzano ogni agiografia, ogni «epica pallonara», per dirla con Gadda. Quegli straccioni non solo esistono nella realtà, ma senza di essi la Resistenza sarebbe stavolta sì falsa, ma in quanto retorica, evento augusto da parata per le celebrazioni annuali. La grandezza di Fenoglio è legata al tema della Resistenza come le due facciate dello stesso foglio con cui De Saussure spiegò il rapporto fra significato e significante in una parola. L’autore di Una questione privata è il più grande narratore della Resistenza («l’avessi scritto io questo romanzo», confessò Calvino) in virtù di uno stile singolare dove il documento è solo materiale di costruzione per un edificio in cui un mattone risponde di sé a ogni altra cosa, alla calce e alla terra. Una scrittura molto terrestre, con uomini che muoiono masticando il fango in cui hanno affondato il volto quando cadono o si buttano per nascondersi. Una prosa narrativa dove ogni parola è come se fosse l’ultima. La Resistenza come stile di vita e di morte, come il toreare di Leiris, dove ogni scontro ti può essere narrazioni anteprime S t los Nella foto una scena di La mosca, film di David Cronenberg del 1986 mente al suo migliore amico) e intorno alle cinque Pigi scopre di avere un nuovo stomaco (con la porta degli addominali scolpita come mai ha avuto prima) e nuovi polpacci. Le proporziosce il 3 maggio da Sironi La mania per ni sono tutte sballate e lo rendono ancora di un aspetto mostruol’alfabeto (pp.320, euro 14) di Michele so: le braccia sono troppo gonfie rispetto al torace, un piede è Candida. Ne anticipiamo un brano. più lungo e più largo dell’altro, i polpacci sono troppo grossi rispetto alle cosce e hanno una carnagione e un colore tutto diquarantatreesimo post it verso, un occhio è azzurro e l’altro è marrone, un orecchio è a …e qualche ora fa in cucina mentre prepapunta e l’altro arrotondato, alcuni ciuffi di capelli sono biondi ravano due panini tonno e maionese? (Mie altri sono castano scuro e via così, Emi; ma adesso Pigi sa che la trasformazione prima o poi si completerà e che deve soltanchele e Savemi hanno cenato a casa di Michele: due panini con to aspettare. Ragionando riesce anche a stabilire in base a quatonno e maionese, insalata di pomodori con origano e basilico le logica la trasformazione si stia attuando. Se ricordi, Pigi ha e una scatoletta a testa di salmone sott’olio con tanto sale). mangiato prima la mano sinistra del suo migliore amico, poi il Savemi stava maneggiando un coltello per affettare il pomodogluteo destro, poi…». ro quando Michele le ha detto: «Lo sai, Emi, che il nome pre«Un minuto! Un minuto! Basta! Basta!». ciso di questo coltello è "coltello per disossare"?». «…poi ha mangiato i deltoidi, i bicipiti e i tricipiti, cioè, Emi, «Ah». Savemi ha affettato un pomodoro (sei fette). le parti del suo migliore amico che Pigi ha mangiato per prime «Lo so perché l’ho fatto maneggiare a Pigi». escono per prime…». «L’hai fatto maneggiare a Pigi… cosa significa? E questo Pi«Basta! È una follia! È una storia… cretina». gi chi è? E quando hai fatto maneggiare coltelli a qualcuno? Al Michele si è interrotto. ha guardato Savemi. Savemi ha guarlavoro? E che cosa avete fatto al lavoro, avete squartato un dato Michele. «È solo una carabattola, Emi» Michele ha detto bue?» Savemi ha affettato un altro pomodoro (cinque fette). «una carabattola che ho scritto a ventun anni». «No, non proprio» Michele ha ignorato lo spirito di Savemi. «D’accordo, Michele» Savemi ha detto «ma non possiamo par«Pigi è soltanto un giovane uomo di ventiquattro anni - un anlare di un argomento serio?». no in più di te, Emi - che un giorno ha invitato a casa sua il suo «Non vuoi sapere come va a finire la storia, Emi?». migliore amico e se lo è mangiato». «No, no che non lo voglio sapere! Basta! Basta così! Mi basta Savemi ha smesso di affettare il terzo pomodoro. Si è fermata così!». alla seconda fetta. «Che storia è?» ha chiesto. «Emi, e io te lo dico lo stesso…». «È la storia di Pigi. Pigi invita a casa il suo migliore amico, che, «No!» Savemi stava schiacciando il tubetto di maionese sulle oltre a essere migliore come amico è anche migliore come perfette di pane (due ciabattine); poi avrebbe messo il tonno. sona, come fascino, come benessere, come… come tutto quan«Alla fine della carabattola Pigi è diventato to, Emi; e se lo fa a fette come tu stai facendo completamente il suo migliore amico: stesso a fette i nostri pomodori, e poi se lo mangia». MICHELE CANDIDA . L’esordio narrativo di uno dei più fisico, stessi occhi azzurri, stessi capelli bion«Ah» (nove fette). di, tutto uguale, ogni particolare. Pigi, però, co«Con il coltello per disossare e un trinciante». noti blogger italiani della nuova generazione. Un me ti ho detto agli inizi, non ha mangiato il cer«Ah». vello del suo migliore amico…». «Eh. Con precisione chirurgica - Pigi è molto «…oh, mamma…». bravo a cucinare, Emi; una volta ha vinto an- racconto extrasplatter sulle possibilità teratologiche «… il cervello è l’unica parte che non ha manche un premio - Pigi divide i fasci muscolari dell’immaginazione creativa di un aspirante scrittore giato del suo migliore amico. Gli ha mangiadell’amico mettendoli in recipienti pieni di to il cuore, gli ha mangiato il fegato, gli ha ghiaccio: i deltoidi nella pentola per far scaldamangiato gli intestini, gli ha mangiato la milre la pasta, i pettorali nella pentola per far za, ma non gli ha mangiato il cervello e…». scaldare le pietanze, i glutei nel vassoio della «…oh, mamma…». frutta, i bicipiti femorali nell’insalatiera…». «…e allora, seguendo la logica della trasfor«Che schifo…» quarto pomodoro (sette fette). mazione, Pigi è rimasto se stesso, con i suoi «Poi pulisce tutto, butta nel fuoco del camino pensieri, con la sua coscienza, con la sua perlo scheletro disossato e la scatola cranica (Pisonalità dentro il corpo del suo migliore amigi ha lasciato stare il cervello) e si dedica a cuco… e quando incontra qualcuno per strada, cinare i quaranta chili di carne del suo amico quando va con la ragazza del suo migliore arrivando a impiegare interi set di coperti e a amico, quando saluta i genitori del suo migliooccupare due intere tavolate. Poi si pappa tutre amico, Pigi non è più Pigi ma il suo miglioto». re amico…». «È un’idea disgustosa, poco originale e senza «Michele, sembra quel film…». credibilità. È una delle tue carabattole, eh?» «Cioè, Emi, Pigi non è il suo migliore amico quinto pomodoro (quindici fette: quindici mima lo sembra, anzi, fisicamente lo è proprio, lo crofette). Ormai Savemi sembrava una karaè esteriormente e questo fa sì che lo sia a tutti teka impazzita. gli effetti. Noi, Emi, siamo quello che siamo «Per chi sono tutti quei pomodori, Emi?»: nei fatti e non nei pensieri o negli intenti: siaMichele osservava l’insalatiera piena di fette mo in tutto quello che possiamo documentare, rosse di pomodoro. provare effettivamente agli occhi degli altri. «Sono per te; io non mangio» altro pomodoro: Siamo quello che gli altri dicono di noi, e di un il sesto. nostro pensiero, Emi, importa quello che riu«Vuoi farmi mangiare o vuoi farmi nuotare?» sciamo a rendere evidente agli altri. Una volta, molti anni fa, ha chiesto Michele «e poi perché non mangi?». MICHELE CANDIDA frequentavo una persona che non faceva che dichiarare il suo «Linea. Devo mantenerla. Per farlo non devo mangiare. La pancia è soltanto la somma di colazioni, pranzi, cene e aperelVIVE A TORTONA. SUOI RACCONTI SONO USCITI IN ANTOLO- amore per me, però per me non aveva mai un gesto d’amore: non mi baciava, non mi accarezzava, non mi abbracciava. Ci li con amici e colleghi d’università. Insomma: meno mangi, GIE. IL SUO BLOG (WWW.VIBRISSEBOLLETTINO.NET/MARCOtelefonavamo, ci incontravamo, ci frequentavamo, dicevamo meno sommi, meno pancia» diciassette microfette: un record. CANDIDA) HA AVUTO NEL 2006 QUARANTAMILA VISITE di amarci, ma lei non lo dimostrava mai con un gesto. Se io le sempre che l’ultima microfetta si potesse considerare una mimostravo di desiderare una cosa - una qualunque cosa, Emi… crofetta. sembrava più il mignolino sanguinolento di un piede fare un viaggio con lei, vedersi in un certo giorno anziché un mozzato. IL LIBRO altro, mangiare in un posto anziché in un altro… - lei mi dice«Pigi trasforma il suo migliore amico in bistecchine, nodini, va sempre no. Ero arrivato al punto di credere che questa perfettine, spiedini e si pappa tutto: prima le mani, poi i glutei, poi MICHELE CANDIDA sona mi negasse il suo consenso per il solo fatto che io mostrasdeltoidi bicipiti tricipiti, lo stomaco, i polpacci, tutto. Si pappa "La mania per l’alfabeto" si un desiderio. Alla fine ho smesso di frequentare questa percosì tutto che poi finisce con lo stare male; e, nella carabattopp. 320, euro 14 sona. Sono sparito. Non ho più risposto alle sue telefonate, non la - una carabattola che nemmeno il peggiore degli acchiappaSironi, 2007 ho più risposto alle lettere, per lei non ho risposto più: mi semtopi avrebbe potuto concepire, Emi -, succedono tutta una sein libreria dal 3 maggio brava che rispondere sarebbe stato come cadere in un tranello. rie di cose… te le dico?». Ora, Emi, dopo molti anni, ancora mi domando se abbia visto «E dille!». giusto: se cioè quella persona fosse stata dominata da un gusto «Con quaranta chilogrammi di carne nello stomaco, Pigi cosadico nei miei confronti - magari potevo starle antipatico per mincia a sentirsi male, così male che si chiude in bagno e…» qualche motivo, ma al tempo stesso attrarla per qualche altro Michele ha guardato Savemi. L’ossessione per un libro da scrivere motivo -, se mi avesse frequentato come si frequenta una ser«Vomita?». pe dietro al vetro di uno zoo… oppure no: che la sua fosse so«Caga». raccogliendo note di vita vera e finta lo una strategia per sedurmi; tuttavia il suo comportamento con «Che schifo!». Michele, venticinquenne, lavoratore precario, è preme ha prodotto questa impressione e io ho smesso di frequenSavemi aveva finito di affettare pomodori e adesso stava metda della mania per la scrittura. La sua camera e il suo tarla. tendo olio e origano. ufficio sono invasi da una distesa di foglietti: su cia«Comunque: Pigi può dichiarare quanto vuole a parole di non «Poi vomita. Sul lavabo in cucina. Ma la cosa particolare, Emi, scuno sta scritto qualcosa che Michele immagina di essere il suo migliore amico, e, infatti, nella carabattola che ho è che quello che esce dalla bocca di Pigi e dal…». potere un giorno inserire in un suo libro. A causa delscritto, Emi, se non ricordo male, fa proprio questo: quando i «…ho capito, ho capito…». la sua mania, Michele sarà licenziato dal lavoro, mal carabinieri lo portano via, continua a sostenere di non essere il «…sono tocchetti del suo migliore amico. Pigi sta cagando e tollerato in famiglia e perderà l’amore di Savemi, la suo migliore amico; ma agli occhi dei carabinieri e poi degli vomitando il suo migliore amico…». sua ragazza. Finirà per rintanarsi nel mondo illusopsichiatri che lo visitano Pigi è solo vittima di un fenomeno di «Dai!». rio del libro che ossessivamente cerca di comporre. transfert o qualcosa di molto simile. Perché, Emi, come un fi«…poi, il giorno dopo…». losofo ha detto, noi siamo un corpo e non abbiamo un corpo: «Cosa succede? Altre schifezze?». cioè siamo solo quello che è possibile vedere e constatare di noi «Il giorno dopo Pigi si sveglia, va in bagno, si lava per bene e e niente di più. Questo vale anche quando compiamo delle mentre si insapona e si sciacqua le mani, scopre che la sua ma- è molto più cascante e molliccio…». azioni. Per me, Emi, non esiste una divaricazione tra intenziono sinistra non è più sua. La osserva bene; la confronta con la «Ancora schifezze?». mano destra. La mano sinistra ha le dita più lunghe della ma- «…Pigi si accorge, cioè, che quello è il gluteo del suo miglio- ne e azione: la forma della nostra intenzione equivale sempre no destra, il palmo un po’ più grosso e un po’ più chiaro, il co- re amico, inequivocabilmente il gluteo del suo migliore amico, alla forma della nostra azione. Se la forma della mia azione sarà lore più olivastro e, a differenza della mano destra che le ha lun- perché quel singolo gluteo è stato inequivocabilmente sottopo- buona e allora produrrà effetti benefici, la mia intenzione sarà ghe e irregolari, le unghie della mano sinistra sono tagliate e ar- sto al trattamento di raggi ultravioletti in qualche solarium di stata buona, altrimenti sarà stata un’intenzione cattiva. Poco rotondate e la pellicina a lato del pollice non è mangiucchiata. fiducia… e Pigi ricorda bene tutte le teorie del suo migliore importa la mia opinione intorno alle mie intenzioni: molto spesPer di più la linea della vita sul palmo sinistro è molto più bre- amico a proposito dei raggi ultravioletti e dei raggi infrarossi… so più che non sentire noi non vogliamo vedere. Accettiamo ve di quella che Pigi credeva di ricordare e, infine, particolare secondo queste teorie, Emi, il sole estivo delle nove del matti- che una persona ci dica parole consolatorie e, intanto, compia decisivo, Emi, Pigi si accorge che le punte dei polpastrelli del- no o delle sei di sera contiene molti più raggi ultravioletti che proprio davanti ai nostri occhi azioni che smentiscono quelle la mano sinistra hanno i calli, come quelli che vengono a chi si infrarossi del sole estivo delle due o delle quattro del pomerig- stesse parole. Spesso non accettiamo una persona che ci dica esercita con la chitarra; il che lo porta a concludere che non so- gio e, comunque, anche il miglior sole possibile contiene sem- parole dure, tutt’altro che consolatorie, e, intanto, compia prolo quella non sia più la sua mano sinistra, ma che sia la mano pre più raggi infrarossi di una qualsiasi lampada in un solarium prio davanti ai nostri occhi azioni che ci sono effettivamente di fiducia, che, invece, di solito contiene solo raggi ultraviolet- d’aiuto. Le parole hanno un strano effetto narcotico che va tesinistra del suo migliore amico». muto: e questo effetto narcotico, ottundente spesso viene chiaSavemi è rimasta in silenzio. Ha tirato fuori le scatolette di sal- ti…». «Ma come si chiama questo migliore amico di Pigi?» Savemi mato consolazione». mone e ha cominciato ad aprirle. «Infatti il suo migliore amico suonava la chitarra; infatti il suo aveva svuotato le scatolette di salmone nei piatti e adesso ag- «Amen» ha detto Savemi, mentre allungava a Michele il panino tonno e maionese. migliore amico non si mangiava le unghie e si curava moltis- giungeva un po’ di olio e del pepe. simo il corpo; infatti il suo migliore amico aveva la stessa car- «Non ha nome, Emi. il migliore amico di Pigi è senza nome… «Cosa?». nagione della mano che adesso Pigi osserva collegata al suo o meglio lo ha, forse, ma nella carabattola che ho scritto il suo «Dico: amen» ha ripetuto Emi e si è seduta anche lei. «E tu, poi, a che categoria appartieni, Michele?». nome viene sempre taciuto». polso; e tante altre cose, Emi». «Io?» Michele ha acchiappato il suo panino. «Persona che di«Che bottiglione di vino hai bevuto per scrivere questa cosa?». «Ah». «A Pigi viene un presentimento. Cerca uno specchio molto «Diciamo intorno alle tre del pomeriggio Pigi scopre di avere chiara cose dure e offensive e compie azioni crudeli e meschigrande, si spoglia e comincia a esaminarsi tutto il corpo. Si ac- la mano sinistra e il gluteo destro di forma, dimensioni, carna- ne». corge di avere il gluteo destro della stesso colore olivastro e del- gione e colore diversi. Intorno alle quattro scopre di avere nuo- Michele ha dato un morso riempiendosi la bocca di un quarto la stessa carnagione della sua nuova mano sinistra, e che il glu- vi deltoidi, bicipiti e tricipiti (sul deltoide destro c’è pure il ta- di panino… teo destro è molto più tonico e sodo del suo gluteo sinistro che tuaggio blu a forma di farfalla che appartiene inequivocabil- © Candida, Sironi E Se mangio un amico lo assimilo 19 Morgue R a c c o n t o pagina SERGIO PENT LA LEGGEREZZA DEL DOLORE Alcune volte è impalpabile e indefinibile, ma determinante, il confine tra la finzione artificiosa del noir e la nebbiosa perversione psicologica della routine quotidiana. Un gesto, una lite, una scomparsa, una confessione. Le sottili incoerenze delle abitudini umane diventano delitto o peccato, entrano in scena, per il tempo di un trafiletto in cronaca o per una - più adatta ai giorni nostri - remunerativa strumentalizzazione mediatica, con i confini sempre meno marcati tra vittime e colpevoli. La lama del disagio percorre come un brivido perfetto, senza interruzioni, l’opera narrativa di Georges Simenon. I suoi peccati di provincia sono diventati il preambolo profetico di tutte le degenerazioni dei nostri recenti decenni. La provincia odia e uccide, rende atroci i distacchi, crea le barriere dell’indifferenza collettiva, giudica e condanna e spesso assiste senza intervenire alle cadute fatali senza risalita. Non c’è niente di nuovo sotto il sole opaco delle atmosfere provinciali, se non gli altoparlanti del consesso mediatico che amplificano a misura d’audience delitti e castighi, valutando anche la capacità di certi personaggi - colpevoli, vittime, sospetti, non importa - di «bucare» il teleschermo o reggere al fuoco di fila del presenzialismo forzato. Un caso come quello descritto con amara lucidità nel romanzo Il piccolo libraio di Archangelsk, egregiamente tradotto per Adelphi da Massimo Romano, sarebbe sicuramente finito - oggi - tra le grinfie di una trasmissione come "Chi l’ha visto?". Ma nel 1956, anno di pubblicazione e ambientazione del libro, la tv era quasi un’utopia nei borghi di provincia racchiusi attorno alla piazza del mercato, in quelle serate estive in cui tutti sedevano al fresco davanti agli usci a spettegolare, captando le notizie dal mondo attraverso le onde della radio o l’inchiostro dei giornali. Nel paese del Berry, nel cuore della Francia, in cui Simenon ambienta questo romanzo amaro e infelice, tutti si conoscono e si salutano, bevono insieme e seguono le stesse abitudini minimaliste, quasi idilliache, attorno alla piazza del VieuxMarché sulla quale fervono le attività della gente. Anche l’oscuro e miope Jonas Milk, piccolo libraio antiquario di origine russa, è ormai da tempo «uno di casa», amico del macellaio e del barista, integrato nel contesto sociale. Individuo anonimo e imbelle, più che modesto, ha avuto la sorte di sposare la bella e ancheggiante Gina, sedici anni più giovane dei suoi afflitti quarant’anni e determinata soprattutto a sfruttare la bonomia del consorte per spassarsela con gli altri uomini. Una vita semplice e disadorna, a cui il buon Jonas, che ha smarrito in maniera assurda l’intera famiglia nell’uragano della Rivoluzione Russa, si adegua per abitudine, o per amore. Così non bada più di tanto alle proprie parole istintive, quando afferma che la moglie è partita per recarsi a trovare un’amica, al fine di giustificare l’ennesima scappatella. Ma, come in un preciso incubo kafkiano, l’alito cattivo della disgrazia e delle circostanze inappellabili incombe sul povero Jonas, quando l’assenza di Gina si protrae per troppi giorni e l’alibi del presunto viaggio cessa a suon di testimonianze. Il lettore non verrà mai a sapere cosa sia accaduto a Gina, ne intuisce la fuga forse definitiva dettata dal fatto che è scappata sottraendo alcuni francobolli preziosi alla collezione del marito, ma a nessuno importa, dopotutto, conoscere la sua sorte di ragazza frivola e disinibita. La capacità psicologica di Simenon è mirata essenzialmente a togliere ogni sicurezza al suo piccolo personaggio, che da amico della collettività diventa gradualmente il possibile mostro da cui bisogna guardarsi. La leggerezza del dolore è alla base di un romanzo che appartiene al noir con lo steso diritto di una disgrazia individuale amplificata dall’eco feroce e perfida dell’opinione pubblica. La malinconia insita in queste pagine non toglie nulla alla tensione psicologica dell’insieme, ma ci lascia attoniti a seguire la china inesorabile su cui si incammina inconsapevole Jonas Milk, ben sapendo che nessuno è intenzionato e fermarlo. Nemmeno noi avidi lettori, come forse aveva perfidamente - umanamente - previsto il grande Georges. 20 I n t e r v i s t e olazione da Truman di Lawrence Grobe non è solo una raccolta di conversazioni con Capote. È anche e soprattutto un «manuale per l’uso della cattiveria». Grobel domanda, e di tanto in tanto provoca; Capote sta al gioco e sparla. Gide, tanto per fare un nome tra cento, viene liquidato dal piccolo Truman come «una vecchia, grossa checca francese dalla faccia rugosa». Ma c’è di peggio. Da Hemingway a Bellow, da Sartre a Bernardo Bertolucci, nessuno viene risparmiato dall’acida canzonatura, dallo strale caustico. Romanziere, intervistatore, giornalista e pettegolo. Ma quanti Truman Capote esistono? Distinguerei anzitutto: c’è un Capote scrittore quasi grande-grande, autore del racconto Miriam, capolavoro ricavato rielaborando con la scaltrezza d’un adolescente diabolico la ricetta del gotico americano (nel pedale di James più che di Poe), ma anche capostipite con A sangue freddo d’un nuovo genere di romanzoverità apparentemente praticabilissimo e in realtà impraticabile. Chi lo ha tentato dopo Capote (la cronologia non è un’opinione), come Norman Mailer, non è arrivato lontano. C’è poi un Capote mascotte dell’ultima vague di mostri sacri della cultura occidentale. Quella che va da Proust a Isherwood passando per Gide e Cocteau. Questo secondo Capote è appunto il protagonista del «libro-chiacchiera» di Lawrence Grobel, definito forse imprudentemente nel risvolto di copertina «il Mozart dell’intervista». Capote vomita qui vituperi velenosi sugli ultimi monumenti di defunti, già quasi defunti o in procinto di morire, dell’estetismo, del simbolismo, del surrealismo così come generosamente sono stati interpretati, fraintesi e rielaborati negli Stati Uniti. Grobel, affascinato da Capote, cerca di dare a ogni battuta, anche la più acidula e pigra, il suono di un gossip iperrealista. In realtà, spesso la malignità rimane tale e non vola. Qualche esempio? Quando Capote parla di Hemingway come di un omosessuale non dichiarato. Oppure, quando afferma che c’è un buon motivo se, a parità di lavoro, «un uomo guadagna un dollaro, una donna cinquantanove centesimi»: «Gli uomini lavorano più duramente», dice. Chissà cosa avrebbero pensato di questa risposta Virginia Woolf o Greta Garbo! E ancora: si possono criticare, come il nostro Truman fa, due grandi scrittori come Bellow e Roth. Non è lecito però parlare di «mafia ebraica». Capote non era antisemita. Le sue battute sono spesso le battute di chi vuol sorprendere conquistando l’attenzione d’un salotto a tutti i costi elegante e al di sopra dei pregiudizi della «povera gente» che pensa come si deve. Dalle nostre parti, chi si accorse del talento di Capote? Credo che tra i primi ci fu Emilio Cecchi. Ritrattista perfetto, in un intramontabile stile rondista, Cecchi ha così descritto il «piccolo (statura 1.60, all’incirca la stessa di Faulkner) Capote»: «Con i suoi capelli rigonfi sulla fronte mi ricorda i paffuti angiolotti che frequentano le nere tombe del Seicento, dove lo scheletro in marmo giallo tiene bene in mostra la clessidra e vibra la falce, a sgomentare noi peccatori». E poi, nella qualità della fantasia di Capote, Cecchi vede «qualcosa insieme di infantile e mortuario, la luce oltrepassata d’un sorriso innocente e terribile come il sorriso di certi feti». Di qui, da questo macabro ritratto, si può partire per leggere la vita di Capote e la sua opera. E lei, quali libri ha amato di Capote? Altre voci altre stanze? Colazione da Tiffany? Se penso a Joel, il protagonista di Altre voci altre stanze, penso che è un Pinocchio negli acquitrini d’un Sud visto attraverso i filtri della marijuana e d’un gusto neogotico speziato con aromi prelevati dalla dispensa simbolista. In sé e per sé potrebbe essere robaccia, ma l’istinto d’un vero scrittore, sostenuto dal dono d’una giovinezza magicamente consapevole dei propri doni (sensibilità spasmodica, gusto dell’estremo, imprudenza), rendono il tutto davvero potente come solo le autentiche rivelazioni lo sono. Quanto a Colazione da Tiffany, le dirò che fa pensare alle ricette dell’Artusi. C’è dentro tutto, e quel tutto è cucinato benissimo. Ma mentre leggi - come mentre mangi una leccornia in stile Artusi - sei preso da un irresistibile senso di colpa. L’eccesso di abilità diventa come l’eccesso di condimenti ricchi di C Guatemala C indagine A intricata Nella foto sopra Truman Capote. In quella sotto Antonio Debenedetti Occidente pagina T A L O G O S t los recensioni orali IL LIBRO LAWRENCE GROBEL "Colazione da Truman" Trad. Lucio Carbonelli pp. 266, euro 11,50 minimum fax, 2007 VANNI RONSISVALLE Scala di personaggi ambienti e società DEI NOSTRI PADRI Due anni di conversazioni scambiate tra un intervistatore ritenuto un maestro del genere e uno scrittore che come intervistatore ha dato parte del meglio di sé. Il gusto per il gossip assume qui i toni alti di una dissacrante polemica che oltre ai personaggi implica pure un ambiente e una società: personaggi come Tennessee Williams, Marilyn Monroe, Hemingway; società come New York e ambienti quale Hollywood. I LIBRI DI ANTONIO DEBENEDETTI «Ha vissuto una continua acrobazia. Se il mondo fosse fatto solo da uomini come lui, tutte le teorie dei sociologi andrebbero riscritte. È un caso». Il libro-intervista dove fa il pettegolo TRUMAN CAPOTE Ucciso da Narciso grassi. Eccesso di estetismo, eccesso di colesterolo. I miracoli forse più straordinari Capote li compie nelle interviste. A rileggere quella fatta a Marilyn si resta ogni volta stupefatti. Concordo. L’estrema astuzia di Capote è quel- PAOLO DI PAOLO VIVE A ROMA. HA PUBBLICATO "NUOVI CIELI, NUOVE CARTE", "UN PICCOLO GRANDE NOVECENTO", "HO SOGNATO UNA STAZIONE", "COME UN’ISOLA" SECONDA LETTURA Una vita come quintessenza del radical chic Si può parlare di Capote Renaissance’s ad osservare la consistente mole di pubblicazioni che, in tempi assai recenti, è stata dedicata a questa originale figura di intellettuale e dandy tanto controversa e famosa. Tanto per citare gli ultimi arrivati, la pubblicazione da Archinto delle sue lettere, la riedizione della celebre biografia di Gerald Clark per Frassinelli, e, a periodicità ormai regolare, la ripubblicazione dei suoi più famosi capolavori, da Musica per camaleonti ad Altre voci, altre stanze, da Colazione da Tiffany a A sangue freddo. Ad aumentare lo spessore di questa meritata fama postuma, anche la recentissima uscita al cinema di due ottime biopic : Capote e Infamous, che curiosamente estrapolano dalla tormentata biografia capotiana la stessa vicenda, la «strana relazione» che Capote intrattenne con i due pluriomicidi, poi condannati a morte, protagonisti di A sangue freddo. Esce adesso da minimum fax Colazione da Truman, viatico indispensabile per coloro che ancora non conoscono lo charme raffinato ed elegante di questo énfant terrible della letteratura americana. Ad essi, consiglierei anche la lettura, magari in parallelo con questo libro intervista, di alcune straordinarie pagine di Underworld di Don DeLillo, quelle in particolare dedicate alla leggendaria festa in maschera al Plaza, organizzata da Truman Capote nel 1966 all’apice della sua gloria letteraria: è una vera e propria scena madre, una cerimonia laica e mondanissima, che consacra però riti, perversioni e manie della high-society la conseguente assunzione capotiana nel Gotha delle celebrità. Le interviste che compongono il libro sono state fatte, invece, nella fase calante dell’astro Capote, tra il 1982 ed il 1984, quando l’autore era stato «ostracizzato» da quella stessa società di cui aveva così fedelmente riprodotto vizi e ma- RODRIGO REY ROSA "Giungla di pietra" Trad. Sara Della Corte pp. 111, euro 12 Cargo, 2006 Dietro un fatto apparentemente casuale, un incidente d’auto che coinvolge un bambino, si dipana una trama oscura e intricatissima, cui è chiamato a far luce Emilio Rastelli, investigatore privato. La narrazione, molto abilmente condotta, integra il quadro sociale e morale della Guatemala dell’autore: «Bellissimo paese. Brutta gente. (…) La piccola repubblica dove la pena di morte non è mai stata abolita, dove il linciaggio è stato l’unica manifestazione duratura di organizzazione sociale». Toni forti e accesi, tensione sempre sulle corde, il thriller di Rey Rosa rivela soprattutto mestiere. (mda) nie e la vita di Capote si trascinava ormai in una ininterrotta sequenza di alcolismo; ricoveri in ospedali, crisi depressive… Ad intervistarlo quello che, con qualche eccesso di benevolenza, Joyce Carol Oates aveva definito il «Mozart delle interviste», cioè Lawrence Grobel. L’intelligenza sulfurea e caustica di Capote, il suo gusto irrefrenabile per il mot d’ésprit, la perfidia gettata con enorme nonchalance fungono, in queste pagine, come suo biglietto da visita. Quasi ad ogni battuta si trasalisce per il concentrato di mefistofelica genialità che anima l’intervistato. Anche conoscendo lo smisurato egotismo che lo possedeva («Ho sempre saputo che ero in grado di prendere un qualsiasi grappolo di parole e di lanciarlo in aria per poi vederlo ricadere nel mondo giusto. Sono il Paganini della semantica»), sorprende la sua capacità di distruggere reputazioni e carriere con poche battute intinte nel curaro: «Quello di Kerouac non è scrivere, è battere a macchina» oppure «Saul Bellow è una nullità come scrittore» per non parlare della demolizione costante e massiva di Gore Vidal, a cui lo legava un odio incontenibile. Alla fine, paradossalmente, dopo tante pagine di nomi celebri, dopo tanti aneddoti di una vita che pare la quintessenza del radicalchic, l’immagine che rimane non è quella del causeur senza posa, dell’intellettuale che sa coniugare cultura e glamour, ma semmai quella dell’uomo che vive in una condizione di sconfinata solitudine e tristezza, che dopo un’intervista, si fa accompagnare a casa. «Aspettai a motore acceso, con i fari che formavano un sentiero di luce fino alla sua porta. Guardai questo signore pingue con una bottiglia di wodka sottobraccio entrare in casa, e poi lo vidi posare la bottiglia e aprire il frigorifero.» Linnio Accorroni Una donna sfida l’impero la di avere intervistato attraverso Marilyn Monroe non i più bei fianchi d’America ma un’idea della fama in senso cinematografico come l’aveva la sua generazione. Marilyn presta la sua faccia, il suo corpo, la sua voce all’angoscia che Capote ha pensando alla fama, al successo. A quel mito cui ha asservito tutta la propria vita. Successo, successo, successo. Vivere in mezzo ai mostri sacri lo ha portato probabilmente a una estremizzazione del proprio Narciso che lo ha lentamente ucciso. Queste verità sono talmente drammatiche che, facendosi racconto, trasformano questa intervista in uno strano monologo a due voci di qualità inarrivabile. Quanto in genere alle interviste-ritratto cucite col filo dell’egotismo e però della grande professionalità, credo che in Italia ci abbia dato uno straordinario esempio Alberto Arbasino nelle sue Sessanta posizioni. Bisognerebbe ricordare ai giornalisti italiani che il vero gossip non nasce dal pettegolezzo, dalla fotografia rubata, dalla chiacchiera intercettata, ma è figlio dell’interpretazione. I veri pettegolezzi vanno inventati e non devono aspirare a essere cattivi ma a essere il più possibile intelligenti, se non perfino geniali. E Capote come ci riusciva, a essere un pettegolo geniale? Mettendo insieme un grande scrittore e qualcos’altro. Il «qualcos’altro», il personaggio che dava del tu a tutti i Vip e poteva permettersi di quasi snobbare Marlon Brando, era però sempre al servizio dello scrittore. Truman uomo si buttava via, Capote scrittore era un guardiano gelosissimo di sé e del proprio talento. Si riaffaccia sempre il Capote «personaggio». Da libri come quello di Grobel, ma anche da film recenti. Forse si esagera, ma viene da pensare a lui come a un esemplare irripetibile. Raccontano che Capote avesse una voce stranissima, così acuta che quasi non si poteva coglierla. Bene, questa voce che sembra nascere al di fuori di una creatura, è l’espressione d’una vita vissuta al di là d’un preciso contesto sociale. A quale classe apparteneva, in fondo, Capote? Il jet-set, come l’ha definito lui, non è una classe. Truman ha vissuto una continua acrobazia. Se il mondo fosse fatto solo da uomini come lui, tutte le teorie dei sociologi andrebbero riscritte. È un caso. Non ci si chiede mai se sia di sinistra o di destra, se sia fascista o progressista: sono domande che non lo riguardano. Capote sconta il successo come si sconta l’inferno. E non gli si può chiedere altro. MORGAN LLYWELYN "Grania, la regina dei pirati d’Irlanda" Trad. Gianluigi Zuddas pp. 482, euro 18,60 Nord, 2007 Un nuovo romanzo dell’irlandese Llywelyn, appassionata della storia e del folclore irlandesi e delle antiche tradizioni celtiche alle quali risale la sua stessa famiglia. Stavolta la storia è ambientata nel XVI secolo, con Grania che a tredici anni si imbarca di nascosto sul vascello del padre, il capo degli O’Malley, mostrando già un’innata passione per il comando. E così quando dieci anni dopo Grania sposa l’erede del potente clan degli O’Flaherty, diventa padrona di tre vascelli e duecento uomini e costretta a combattere contro la regina Elisabetta che tenta di stroncare l’orgoglio irlandese. «Con Freud - disse Moravia - abbiamo imparato a colpevolizzare il padre; con Marx il padrone». Ora, lasciando da parte Marx ed i padroni, è vero che frequentemente in letteratura l’immagine del genitore di sesso maschile ne esce a pezzi. Forse perché il padre capofamiglia è più esposto in società e deve assumerne i trucchi, la grinta per le battaglie che lo aspettano là fuori, sicché trucchi (ipocrisia) e faccia feroce spesso si rispecchiavano in famiglia dove la madre, protetta da quell’alveo retoricamente affettivo, non aveva bisogno del truci armamentari fisionomici ma dispensava, irradiava amore tenerezza simpatia… Al padre si attribuivano con Freud - ma anche prima in tanti «altrove», vedi ad esempio alla voce «mitologia» - la responsabilità di nevrosi, afflizioni, forme depressive e di incapacità generale; perché autoritario, perché assente, perché troppo presente con invasioni calcolate o distratte, brutali o raffinate, nel sociale o nel subconscio dei figli. Questo è l’aspetto risaputo. Questo è ciò che accade alla gente normale. I letterati, i romanzieri, i poeti sono normali? I figli di Monaldo Leopardi o di Hermann Kafka e di John Stanislaus Joyce erano normali? Per grazia di Dio, e senza offesa, no… Il risultato si vede e dobbiamo comunque esserne debitori a quei padri forse inconsapevoli delle tracce scavate nell’anima e nelle viscere dei figli. «Quanto più la colomba trova resistenza nell’aria tanto più tende a salire in alto» è l’apologo kantiano citato nella prefazione al libro di cui qui scrivo: esce da Newton Compton una bella ed inquietante, ghiottissima antologia a cura di Luciano Luisi, A mio padre, che non è soltanto l’organico assemblaggio di testi altrui da parte di un poeta egli stesso di straordinaria sensibilità e potenza di rappresentazione nei suoi testi; ma l’impressionante inventario di sentimenti che l’attraversano nei versi di 162 autori italiani: dall’inevitabile Giovanni Pascoli di X Agosto alla Aleramo (di cui forse il padre è la sola figura maschile per la quale Sibilla possa aver scritto versi come «Sempre che un giardino mi accolga, io ti riveggo Padre / fra aiuole») a Bonaviri, a Cattafi e Raboni, Quasimodo e Saba, Nelo Risi e Patrizia Valduga. Le donne sono soltanto 19. Poesia alta, poesia come di quinta, sussurrata, schiva e pure rabbiosa: amore sì, rimpianto sì, riconoscenza sì, ma anche odio, rimorso, rispecchiamento del sé nella figura di lui, come dire chiamata di correo (vedi Freud). Insomma l’intuizione di Luisi non è soltanto l’aver voluto colmare il vuoto di un’assenza: agli affollati e numerosi florilegi di liriche con la madre figura centrale - mamma, mammina o semplicemente tu - corrisponde l’assenza o rarità di analoghe iniziative editoriali dedicate alla «metà del cielo» che resta. «Ora sei calmo, finalmente, hai pace. / So che sei morto, non ho più paura / che tu debba morire, non ho più». È l’incipit della lirica (tratta da una sua bellissima e ben nota silloge) che Luisi include nella prefazione all’antologia; nulla di più esplicito e funzionale questo intessere i suoi versi tra quelle righe tecniche come chiave di lettura di quanto ci attende nelle pagine seguenti; è implicito invece il suggerimento che solo la poesia può trasmettere: un nastro serico, fluttuante ed al contempo robusto, tiene insieme autori così disparati, prossimi e lontani, remiganti nell’etere o tenutisi sottotraccia come volessero non esserci: la messinscena più frequente è il padre morto, morente, condannato a sparire. Queste morti non hanno solennità nelle parole dei figli; certo vi sono delle compresenze scontate, tanto scontate che un comune pudore quasi sempre le sottace, come la mestizia fisica; ma la domanda è questa: il poeta piange il padre o piange se stesso che si vede «anticipato» in quella cerimonia dell’addio? Ora ne ha la certezza: lui anello di congiunzione che assicura l’immortalità all’umanità che muore in piccolissimi atomi che si disperdono nell’universo perché altri sopraggiungano. All’infinito? «Ora sei calmo, finalmente, hai pace. / So che sei morto, non ho più paura». Così Luciano… Mi viene in mente una frase, un’epigrafe incisa in una piccola lapide che scorsi per caso allo Smithsonian Museum di Washington vicino ad un pezzetto di luna, reperto del primo sbarco dell’uomo su quel pianeta: Ogni volta che guardi le stelle pensa che siamo fatti della stessa polvere». S t los schede libri MARIO BRUNO, Trapezio d’amore, pp. 125, euro 12, Boemi 2006 C’è anche una letteratura senza pretese, che finisce coll’averne in ragione della lucidità con cui viene perseguita. Appartiene a questo genere l’opera narrativa di Mario Bruno, giornalista, che in questo suo secondo romanzo fa tornare di scena il commissario Valenti (ispettore nel primo Caro assassino) che risolve alla sua maniera un intricato caso di omicidio in una Catania media cristallizzata nel piccolo cosmo di un condominio dove coesistono frustuli di umana miseria: il pianista con l’amante che prende in giro la fidanzata e intanto recita la parte della persona perbene che non vuole dar nulla a vedere, la vicina di casa che vive della curiosità di sapere quello che avviene al piano di sopra e ne descrive con precisione le tracce ricavate dai rumori, le gelosie e i legami del posto di lavoro filtrati nell’umanità vera di uomini reali, le patologie sociali (la droga) o fisiche (la depressione che sfocia nella violenza) che si annidano dietro la facciata della normalità. Il tutto dentro la dimensione catanese delle cose: le vie, le piazze, i sapori, gli odori, le musiche visive del barocco, ma anche dentro l’identificazione non nascosta del protagonista col suo autore. Che ne condivide gusti e pensieri: il garbo dell’ironia di chi si sforza di guardare alle cose dall’alto di una saggezza ricavata dalla vita, l’amore per certa musica di anni passati che affiora in un continuo ma non fastidioso recupero di nomi di gruppi e autori e titoli di canzoni, il gusto per la buona tavola che si esprime in una ostentata competenza per i vini e per il loro accoppiamento con le più varie pietanze. Piccole cose per piccole storie. (Alfio Siracusano) PIERRE HADOT La libertà dell’anima porta il singolo a non temere la morte. Parola di Epitteto ome è possibile evitare il dolore? Come si può essere realmente liberi? Qual è il modo per raggiungere la vera e piena felicità? Da sempre la ricerca della libertà e della felicità a discapito del dolore hanno tormentato gli uomini: alchimisti e filosofi hanno inseguito un utopico mondo in cui il dolore lasciasse il posto alla concordia comune e felicità interiore. La risposta a questi enigmi è risultata la filosofia. L’unica strada per poter raggiungere la felicità è la pratica di quella che notoriamente è indicata come la madre di tutte le scienze. Infatti solo l’attività logica e morale può concedere all’individuo il privilegio di raggiungere l’indipendenza spirituale. L’essere liberi non è solo una condizione sociale, ma in primis uno stato dell’anima e del pensiero. La libertà permette ad ogni singolo essere vivente di agire in modo da non avere mai rimpianti, poiché solo l’agire in conformità con la propria moralità è ciò che permette all’uomo di vivere felicemente. Lo scopo di questa libertà di azione e di pensiero lo si ritrova nel vivere bene con se stessi, in quella che, a dirla con Seneca, potrebbe essere definita «tranquillitas animi». Ciò che in realtà tormenta l’uomo non sono dolori e dispiaceri che ci attaccano quotidianamente C dal mondo esterno, ma i tormenti e i rimpianti che noi stessi ci causiamo agendo contro il bene universale. Questa libertà dell’anima porta il singolo a non temere la morte, né le torture o i fallimenti… Finché ognuno godrà del libero arbitrio non potrà mai essere sottomesso. Nulla può costringere la mia libertà tranne lei stessa. Siate libri e neppure i potenti potranno intimidirvi. È questo, in breve, il messaggio di libertà e autonomia che intende veicolare Epitteto, filosofo stoico, ai suoi discepoli sotto il grande impero dispotico di Nerone e Domiziano. Oggi l’insegnamento di Epitteto, la sua ammonizione a renderci uomini liberi, giunge a noi tramite il suo testo, Manuale di Epitteto, pubblicato di recente dalla Einaudi a cura del filosofo francese Pierre Hadot. Carosello di giornalisti d’epoca GIORGIO FONTANA "Buoni propositi per l’anno nuovo" pp. 200, euro 15 Mondadori, 2007 BORIS VIAN Ritratti dal vivo del secondo dopoguerra BORIS VIAN "Il prete bagnante e altri racconti inediti" pp. 125, euro 10 Stampa alternativa, 2006 per ben otto volte. Il dongiovannismo e l’eccessiva disponibilità femminili sono tra i bersagli preferiti da Vian, come dimostrano, ad esempio, i racconti "Un test" e "Le fanciulle di aprile". Sorprendentemente attuale è "Maternità", in cui due omosessuali adottano una ragazza di diciassette anni. Il finale è leggero e piacevole, in quanto uno dei due si fidanza con la figlia adottiva. Nella raccolta c’è posto anche per un racconto breve ma complesso psicologicamente come "Marthe e Jean", in cui la moglie si assume la responsabilità di un incidente automobilistico perché al marito non venga ritirata la patente, divenuta per lui fonte di sicurezza in ufficio e a casa. Dopo questa rapida carrellata, è possibile evidenziare come tali racconti siano in grado di rappresentare, pur attraverso il filtro dell’ironia, il mondo degli anni ’40 e ’50, il che dimostra come siano molto più che un semplice campionario di trovate umoristiche. Vian si pone in posizione polemica nei confronti dell’establishment culturale dell’epoca, puntando l’attenzione sulle aberrazioni che possono nascere da certe ideologie. Egli è un intellettuale interessato alle nuove forme d’arte del cinema e del jazz, verso le quali, comunque, non risparmia le sue frecciate ironiche. Il suo stile frizzante, pieno di giochi di parole, si accorda perfettamente ad una curiosità intellettuale che lo spinge ad indagare su tematiche delicate come quella del sesso, senza ricorrere alle interpretazioni altrui, ma servendosi semplicemente della sua ironia nei confronti di tutto ciò che degenera in affettazione, posa, vanagloria. Federico Bianca PIERRE HADOT (cura) "Manuale di Epitteto" pp. 217, euro 17 Einaudi, 2006 Questo scritto è un’interessante raccolta di appunti di lezioni messe insieme da un suo allievo Arriano e rispecchia quello che lui volesse che i giovani apprendessero per divenire filosofi, liberi da qualsiasi condizionamento esterno. Con un’attenta analisi contenutistica e storica, Hadot ripercorre le avversità in cui Epitteto dovette imbattersi per poter predicare la sua filosofia di libertà sotto un regime dispotico e quasi dittatoriale della dinastia dei giulio-claudi. DAVID RANDALL "Tredici giornalisti quasi perfetti" Trad. Nazzareno Mataldi pp. XXIV-307, euro 12 Garzanti, 2007 eguito ideale del prontuario Il giornalista quasi perfetto (Garzanti, 2004), arriva in libreria Tredici giornalisti quasi perfetti, pubblicato sempre da Garzanti, con l’ottima traduzione di Nazzareno Mataldi. Un prontuario quello, un manuale questo. L’autore è naturalmente ancora David Randall, tra i migliori giornalisti inglesi, cronista sempre on the road e in prima linea, oggi senior editor del settimanale "Independent on Sunday" di Londra e prestigiosa firma del settimanale "Internazionale" (periodico italiano che pubblica articoli provenienti dalla stampa mondiale). Se Il giornalista quasi perfetto era una sorta di manuale per il provetto reporter, che attraverso aneddoti e riflessioni rintracciava i doveri e le caratteristiche fondamentali per ogni cronista che si rispetti, Tredici giornalisti quasi perfetti è invece la parte dedicate ai cosiddetti case studies dell’ideale corso preparatorio alla professione tenuto da Randall: quella in cui si passa agli esempi, all’attuazione dei principi teorici espressi in precedenza. Così Randall ricerca, scava e seleziona e alla fine mette in piedi una vera e propria redazione olimpica che incarni tutte le virtù del suo reporter d’elezione e ne racconta le vicende personali, che spesso s’intrecciano con i maggiori e più drammatici eventi della storia mondiale. I tredici giornalisti di Randall sono dieci uomini e tre donne, tutti occidentali, perlopiù statunitensi (Randall comunque tiene a sottolineare nell’introduzione che «in questo libro ognuno rappresenta solo il proprio talento e il proprio lavoro. Il sesso, l’aspetto, le preferenze sessuali e i precedenti culturali non hanno giocato alcun ruolo nella selezione»), tutti esponenti della carta stampata, attivi tra l’800 e la fine del ’900 e che hanno sempre lavorato da soli per cui non deve stupire più di tanto l’esclusione di Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti del «Watergate», che produssero sì una straordinaria inchiesta destinata a cambiare il volto della politica statunitense, ma operarono in coppia. I tredici campioni dell’informazione vengono presentati in ordine di preferenza secondo la personale graduatoria dell’autore, che assicura: «Nei cronisti che reputo meritevoli di stare nel mio libro io cercavo alcune qualità […] e possederle tutte, a un livello alto, è il criterio che mi ha consentito, in questa ricerca, di separare il grano dal loglio». Da William Howard Russell (1820-1907) a Ernie Pyle (1900-1945), da Januarius Aloysius MacGahan (1844-1878) ad Ann Leslie (1941-), tutti questi cronisti secondo Randall hanno (avuto) intensa curiosità nel condurre ricerche, ferma volontà di superare qualunque ostacolo nella ricerca della notizia, una notevole capacità di interpretare il materiale a disposizione e una scrittura brillante e fresca, che non pretende mai di diventare letteraria (scrive Randall in proposito: «Il giornalismo non è letteratura ma, in fondo, neanche gran parte della letteratura lo è»). Scelti i magnifici tredici, Randall passa a raccontare la storia di ciascuno. Tra viaggi avventurosi, articoli spediti per posta che arrivano anche settimane dopo l’invio o dettati per telefono, minacce della malavita, inseguimenti, inchieste sotto copertura, pressioni politiche e direttori d’assalto, scopriamo uomini e donne che hanno scritto la storia del giornalismo, che senza l’aiuto della tecnologia ma con massicce dosi di coraggio e intraprendenza hanno rivoluzionato il modo di fare informazione. Insieme alle tre donne (Edna Buchanan, «il miglior cronista di nera mai esistito»; Nellie Bly «il miglior cronista infiltrato nella storia»; e Ann Leslie, «il cronista in assoluto più versatile»), una menzione campanilistica - tra tutti questi giganti della cronaca estera - va a Camillo Cianfarra, un giornalista italiano che ha svolto un ruolo fondamentale nell’inchiesta di Georges Seldes («l’uomo che diede fastidio ai potenti») sull’omicidio Matteotti, in seguito alla quale fu provata la responsabilità diretta di Mussolini - che anni prima era stato collaboratore free lance dello stesso Seldes - nell’omicidio. Una volta che l’articolo venne pubblicato, Seldes fu costretto a lasciare l’Italia e in seguito ottenne una promozione, mentre Cianfarra fu quasi ridotto in fin di vita da uno squadrone di camicie nere e non si riprese mai più. Pieno di aneddoti godibili, episodi degni dei migliori film d’azione, citazioni dagli articoli più significativi di ogni reporter (molto bravo Mataldi a rendere perfettamente lo stile e il linguaggio dei pezzi più datati), intelligenti riflessioni sul ruolo dell’informazione e della libertà di stampa nel corso degli eventi mondiali, Tredici giornalisti quasi perfetti è un inno privo di retorica all’onestà e all’indipendenza del giornalismo d’inchiesta, che oltre a riportare i fatti deve cercare sempre di smuovere le coscienze per richiamare tutti all’assunzione delle proprie responsabilità. Chi volesse poi intraprendere la carriera pericolosa del cronista d’assalto alla vecchia maniera, tenga bene a mente le regole auree stabilite da Randall: «Primo: essere onesti. Secondo: non smettere mai di fare ricerche. Terzo: rendersi conto che, per quanto si sappia su un tema specifico, non si saprà mai tutto»; e ancora: «Chiedere, chiedere, chiedere. Anche a costo di passare per stupidi». E chissà che, seguendo queste supreme norme, non ottenga di essere inserito nel prossimo "dream team". Seia Montanelli S Due ragazzi perfettamente sconosciuti Questa breve silloge di racconti è ideale per chi si avvicinasse per la prima volta all’opera del francese Boris Vian (1920-1959). Artista poliedrico, cantante, musicista, poeta, novelliere, drammaturgo, traduttore, romanziere, egli seppe rappresentare una cultura aperta all’influenza statunitense, insofferente nei confronti dell’esistenzialismo e di scrittori come Gide e Claudel. I quindici racconti esemplificano tutti gli interessi di Vian ed il suo stile ironico e giocoso. I primi tre, ad esempio, hanno per protagoniste bizzarre figure di attori e registi cinematografici. In particolare, i personaggi sono alle prese con affollatissime rassegne culturali, per assistere alle quali bisogna aspettare ore ed ore e durante le quali muoiono, per la calca, diverse persone, senza contare che gli unici posti liberi sono sui lampadari. Inoltre, uno dei protagonisti è un cane parlante. Il racconto che dà il titolo alla raccolta, invece, è un ironico ritratto di un mite parroco di campagna, e delle istituzioni ecclesiastiche, il quale evapora per lasciare le sue mansioni proprio a Boris Vian. Il mondo del jazz, molto amato dall’autore, è protagonista della garbata ironia di alcuni racconti, come "Diffida dell’orchestra!". Non mancano riferimenti alla difficile situazione del secondo dopoguerra, sempre uniti ad elementi umoristici ed anche surreali, come in "Francofortesotto-il-Meno". L’erotismo è un tema assai importante, trattato con malizia ma mai con volgarità. Vian, infatti, satireggia gli anormali costumi sessuali dei suoi personaggi, in particolare di Aurèle, protagonista de "L’impotente", forse il racconto più feroce nei confronti di Claudel, Gide e Sartre. Aurèle, intellettuale esistenzialista, ritiene che la miglior forma di amore per un uomo sia l’impotenza. Quando si corica con l’amata Miranda, per raffreddare i suoi istinti, recita mentalmente passi di opere di Gide e Claudel, salvo poi scoprire che, una notte, aveva soddisfatto la sua donna 21 ALMANACCO GIORGIO FONTANA Due giovani non hanno nulla in comune, non si conoscono, vivono in città diverse con diversi interessi. S’incontrano a Bologna e scoprono di essere entrambi fuori dal mondo vivendo ai margini. Ciascuno cercherà il proprio modo d’essere e una nuova consapevolezza. pagina Sappiamo infatti che fu perseguitato e successivamente esiliato da Roma per insegnamenti sovversivi. In definitiva come sotto ogni regime anche all’epoca esisteva la censura, una censura che limitava la libertà di coloro che volevano insegnare ad essere liberi. I potenti hanno da sempre temuto gli ideali che potessero dare alle masse la possibilità di pensare con la propria testa e di distinguere il bene dal male. Il singolo in sé ha la grande forza della libertà di pensiero che può divenire arma di interi popoli. Sarebbe errato pensare che questi siano problemi obsoleti:basti citare un recente studio di alcuni organi Onu che hanno stilato una classifica dei paesi dei cinque continenti in base alla «libertà di parola». Con grande sorpresa scopriamo che l’Italia si trova al settantasettesimo posto dopo il Burkinafaso! Oggi crediamo di essere liberi ma è solo un’illusione mediatica. La filosofia, la cultura sono le uniche che possono renderci liberi… forse se Epitteto vivesse oggi sarebbe indignato della schiavitù che incatena le nostre menti. Oggi Epitteto non è qui presente tra di noi ma ci ha lasciato come eredità il suo scritto. Ed è forse giunto il momento che il suo messaggio di libertà sia colto. Lidia Cuccurullo LUCA MUSELLA, Tre disubbidienti, pp. 104, euro 10, Gaffi 2006 Luca Musella, alla sua seconda pubblicazione con Gaffi, descrive tre ritratti di donne che compongono un mosaico sulla ribellione in Italia dagli anni Settanta a oggi. La prima è una ex terrorista pentita, misteriosa sessuomane e assassina, che ha pagato con la galera la sua militanza. Una donna che di quella stagione racconta le «sedute sessuali» alla ricerca di un piacere che per tutta la vita non proverà mai (è frigida), e le «sedute rivoluzionarie» all’insegna del fosco ideologismo che voleva cambiare il mondo con le pistole e che ovviamente non riuscì a cambiarlo. La seconda donna è una libraia di provincia che raccoglie le «confessioni» dei tanti scrittori-non lettori dei nostri tempi e che si imbatterà nelle lettere della ex terrorista e nei racconti della terza donna, una ragazza ribelle che fa la cassiera e sogna di abbandonare la mediocrità che la circonda. Traspare un intento simbolico, che la letteratura cioè possa fungere da ponte tra le generazioni. Indicare una o più vie e soprattutto avvicinarci nel buio desolato delle nostre coscienze. E sebbene nel descriverci queste tre solitudini, lo sforzo mimetico di Luca Musella (eccesso di zelo?) abbia prodotto alcuni passaggi troppo diaristici, e in altri ancora questo sforzo faccia pensare che il romanzo sia una collezione di racconti, lettere e confessioni prestate all’autore e da lui strutturate, Tre disubbidienti si presta tutto sommato a una lettura felice, e ci permette di ritornare alla stagione del terrorismo senza vaniloqui ideologici. Così come di mettere alla berlina i potenti che da quella stagione si trassero in salvo con poco. (Angelo Orlando Meloni) CARLA FARCOLIN Le difficili strade dell’affidamento La difficoltà dell’affidamento familiare di due gemellini di tre anni nigeriani che, staccati dalla madre detenuta, vengono affidati a una donna single. Il loro futuro è incerto tra la temuta Nigeria e la confortevole rassicurante Italia. Le difficili scelte su affidamento e immigrazione. CARLA FARCOLIN "Mamma non mamma" pp. 122, euro 11 Marsilio, 2007 LUCIANO SALERA Garibaldi, un’epopea da revisionare A dimostrazione che nessun mito può dirsi del tutto indenne dalle istanze di revisionismo storico, proprio nell’anno del bicentenario della nascita di Garibaldi fioriscono biografie che lo additano all’esecrazione pubblica come ladro di bestiame e negriero in Sud America, al soldo dei gruppi economici europei che favorirono l’annessione del regno delle Due Sicilie. È il caso di Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud di Luciano Salera. Che prende le mosse dall’acquisizione dei vapori «Lombardo» e «Piemonte» che portarono i Mille fino in Sicilia. A raccontarle è proprio un oscuro protagonista di quel periodo, Fauché, procuratore ed amministratore della società marittima Rubattino. Salera riprende le Memorie documentate di Giambattista Fauché e la spedizione dei Mille, date alle stampe ai primi del 900 dal figlio. Nel 1858 la compagnia di navigazione Rubattino & C. versa in condizioni economiche e si affida a un esperto di contabilità ed economia aziendale, Giambattista Fauché che ne diviene di fatto l’amministratore unico e che si mette d’accordo con Garibaldi concedendo le due navi. Nella ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla conquista del Sud, Salera individua ed analizza attraverso un attento scavo archivistico di documenti poco noti di parte borbonica n possesso dell’Ufficio Storico dell’Esercito - quattro episodi che ritiene «alla base della cosiddetta epopea dei Mille»: la messa a disposizione dei vapori Lombardo e Piemonte, la partenza della spedizione da Quarto, lo sbarco a Marsala ed infine il fatto d’armi di Calatafimi. Del primo già si è detto, del secondo è interessante registrare le modalità di presa materiale di possesso dei vapori: i due legni, ancorati nel porto di Genova, furono assaliti la notte le 5 maggio 1860 da un manipolo di uomini comandati dal Bixio che finsero di ridurre all’impotenza il ridotto personale presente (e già d’accordo) e intrapresero il viaggio. Sebbene tutto fos- LUCIANO SALERA "Garibaldi, Fauché e i Predatori del Regno del Sud" pp. 540, euro 30 Controcorrente, 2007 se stato preparato puntigliosamente, accadde l’imprevisto tra il comico e il tragico: il Lombardo non volle saperne di mettersi in moto e dovette essere trainato fuori dal porto dal Piemonte. Il terzo episodio che Salera ritiene fondamentale nella lettura revisionistica della spedizione dei Mille è quello relativo allo sbarco a Marsala: qui in verità l’autore ribadisce e rafforza con nuovi documenti ciò che già si sapeva, la presenza cioè di navi inglesi che protessero in qualche modo l’avventuroso sbarco dei Mille con la loro presenza, impedendo alla roccaforte borbonica di cannoneggiare i vapori di Rubattino. Viene fuori dalla ricostruzione del Salera - ed è questo l’aspetto più interessante della sua analisi tutta una serie di connivenze locali, frutto evidente di operazioni di intelligence predisposte nel tempo: la prova - se pure ve ne fosse ancora bisogno che la spedizione era stata meticolosamente preparata nei minimi dettagli dalle potenze europee interessate e che gran parte dei comandi borbonici fosse ormai abbondantemente collusa con il nemico. L’ultimo episodio conferma quanto detto innanzi: Calatafimi è la dimostrazione della viltà o del tradimento degli ufficiali borbonici: una sconfitta preparata a tavolino; se il generale Landi, invece di dare un inspiegabile ordine di ripiegamento alle sue truppe, le avesse fatte avanzare, forse le truppe garibaldine - già in difficoltà - sarebbero state ricacciate indietro. Il libro di Salera ha il merito di contribuire a far discutere su come si realizzò l’Unità d’Italia aggiungendo una voce non stonata ma in controcanto. Valentino Romano pagina 22 Il punto debole? La famiglia IRÈNE NÉMIROVSKY "David Golder" Trad. M. Belardetti pp. 180, euro 16 Adelphi, 2006 ome si capisce facilmente dal titolo, questo romanzo (1929) di Irène Némirovsky (1903-1942) è costruito su un unico, grande personaggio. David Golder è un petroliere ebreo di origine ucraina che vive tra Parigi, Londra, Berlino e gli altri grandi centri economici europei. La vicenda è ambientata alla fine degli anni Venti. Il vecchio Golder deve affrontare un grave tracollo economico. Inoltre si rifiuta di aiutare il suo socio Marcus che, disperato, si toglie la vita. Golder capisce di essere, almeno in parte, responsabile, ma una delle sue caratteristiche più importanti è il suo desiderio di lottare, il che spiega la sua assenza di rimorsi. Il suo è un vitalismo tenace che lo spinge ad impegnarsi negli affari ricominciando dopo ogni fallimento. Egli, infatti, non dimentica il suo passato di miseria, l’emigrazione negli Usa in cerca di fortuna, le continue tribolazioni prima del successo e della ricchezza. La sua salute è messa a dura prova da problemi di cuore, aggravati dal continuo stress, ma egli è sempre pronto a progettare nuovi viaggi ed affari per risollevarsi. Tuttavia, egli ha un punto debole: la propria famiglia. Sposato con Gloria, conosciuta sin dai tempi dell’Ucraina, ha una figlia di diciotto anni, Joyce. Golder, infatti, sa molto bene che le due pretendono il suo denaro, indifferenti alle sue fatiche. Tuttavia, egli è profondamente legato alla figlia, una ragazza vivace e dolce, anche se profondamente attaccata al denaro e disinteressata ai sentimenti del padre. Inoltre, il petroliere è disgustato dalla folla di ospiti invitati dalla moglie, una turba di mantenuti. Gloria, in particolare, è un personaggio negativo: dopo un attacco di cuore del marito, per timore che egli possa ritirarsi dagli affari dopo il dissesto, gli nasconde la gravità del responso medico, desiderosa di non perdere le sue comodità. La figura di Golder acquista progressivamente spessore e complessità: egli comprende l’atteggiamento della famiglia e dei suoi ospiti, ma non ha interesse a cambiare la situazione, totalmente interessato ai suoi affari, tanto da tollerare persino gli amanti di Gloria e il fatto che Joyce mantenga il proprio fidanzato. Egli riceve però un enorme dolore: la moglie, in un alterco, gli rivela che Joyce è figlia del suo amante. È un duro colpo, che sembra porre fine alla sua carriera: già provato dall’attacco di cuore, egli si ritira in un appartamento di Parigi, lontano dalla famiglia, dedito a giocare a carte con un suo vecchio amico ebreo. È l’occasione per ripensare alle proprie origini, grazie a passeggiate nel quartiere ebreo e i pranzi in tipici antichi ristoranti. Golder ed il suo amico, in particolare, riflettono sulle proprie origini, ritenendo di essere condannati a dover accumulare ricchezze per gli altri, senza poterne mai godere personalmente. Il leone indomabile delle prime pagine sembra lasciare il posto ad un uomo senza desideri ed aspirazioni che non siano le piccole attività quotidiane. In realtà, la sua vitalità è soltanto assopita. Joyce, infatti, gli rivela di essere sul punto di sposare un vecchio e losco uomo d’affari, disponibile a soddisfare tutti i suoi capricci. L’orgoglio e la rabbia di Golder esplodono, non certo il suo amore paterno, non può permettere che una persona con il suo cognome finisca nelle mani di un uomo che egli detesta. Sprezzante delle sue condizioni di salute, si rituffa negli affari, conseguendo un successo milionario. Il romanzo si chiude sulla nave che riporta Golder in Francia dopo un viaggio per lavoro in Ucraina. L’uomo ha potuto rivedere la terra in cui era nato e dalla quale era partito più di cinquant’anni prima. Ormai logorato, prima di sprofondare nella morte, gli rivengono alla mente i luoghi della sua infanzia. Opera tanto scorrevole quanto bella e profonda, David Golder è un altro capolavoro di una scrittrice sempre più da riscoprire. Federico Bianca C «un saluto attraverso le stelle» rivolto da tre sorelle degli anni Quaranta alle ragazze di oggi. Un dialogo tra le ragazze che scovavano scampoli di vita fra le macerie della guerra, e quelle che affogano nell’odierna opulenza del consumismo. In un’epoca in cui la tragedia sembra un’eco lontana, ma in realtà si insinua nella placida quotidianità a risvegliare paure sepolte da cumuli di storia. Ed esplode poi d’improvviso insieme agli aerei, ai grattacieli, a scuoterci dal torpore anestetizzante. La tragedia stria anche le pagine di questo romanzo d’ambientazione storica, squarciato da lampi d’attualità, su cui aleggia l’ombra della guerra e la sua immutata miope crudeltà, che non riesce però a distruggere l’essenza dei sogni. Quelli di cui Isabella, Regina, Lucia intessono le loro giornate sulla riva del lago di Como durante i terribili giorni della guerra civile. Intorno a loro gravitano, ammaliati come Ulisse dalle sirene, uomini invasi da quel brivido che muta la guerra in un ideale estetico-esistenziale: il foscoliano Jacopo, Giuliano, Libero, e anche quelli ormai scomparsi, come il bisnonno garibaldino, il nonno pacifista, il padre inebriato dall’ideale bellico futurista. A dominare questo romanzo corale sono le tre sorelle e la loro madre. Novelle Penelope immerse in un’attesa che «non è fare, ma disfare, interferire, scardinare: per rifare»: Marianna, la madre, senza il cui controcanto «la guerra sarebbe stata solo un virile frastuono e la pace una pausa opaca, e non un silenzio vibrante di parole»; Regina, che racconta «le sue storie esorbitanti, trapunte di eccessi, di fili d’oro e pagliuzze di gazza ladra»; Lucia, che «fin da bambina aveva percepito con silenziosa premonizione l’angoscia della vita adulta». E Isabella, «guerrigliera dell’intelletto», investita dal desiderio per Giuliano «come vento che, attraversate città e pianure, erompa in turbini fin dentro le case scoperchiate». Tutte legate da un tarlo: «che cos’altro li lega se non una fame d’amore? Perché questo gioco sfibrante che li avvicina e li allontana in avide cadenze?». È Isa che rinsalda il legame col passato, ricompone i pezzi di un’identità sparsi in ogni angolo di mondo in cui la sua irrequietezza la spingerà dopo la guerra. È Isabella a intrecciare i filamenti della memoria, a fare e disfare il ricamo della narrazione, che si snoda ora in terza persona, ora in prima, in rovelli appartiene alla categoria di viaggiatori che fanno del viaggio una sorta di centralità della loro vita. Ma per conciliare il desiderio di viaggiare con le possibilità economiche Brodelli deve rivolgersi a dei finanziatori, ricorrere a delle sponsorizzazioni e così, assieme a un amico, ottiene una sponsorizzazione dalla Piaggio e, nel 1998, per i cinquant’anni dalla nascita dell’Ape, i due attrezzano il piccolissimo veicolo per compiere un viaggio di sette mesi e di 25.000 km che li porta dall’estremità dell’Europa Occidentale - Lisbona - fino a Pechino attraverso l’intero continente dell’Eurasia. Turisti intelligenti e colti raccontano con dovizia di particolari i loro incontri e le loro impressioni. Trascorrono il tempo occupati negli spostamenti e nella quotidiana manutenzione del mezzo o chiacchierano con viaggiatori atipici come loro o con abitanti del posto, annotano minuziosamente gli incontri e si addentrano nella storia dei luoghi, nelle recenti tragiche vicende che li hanno attraversati, dato che si tratta di regioni che hanno visto negli anni Novanta conflitti feroci (le regioni dell’ex Yugoslavia) o regioni ancora infide come la Geogia o vastissime e inquietanti come la Cina. Ci ritroviamo all’interno di una narrazione a metà strada tra gli straordinari resoconti di cronisti di guerra come Paolo Rumiz o Terzani o Ryszard Kapucinski e una narrazione privata, in qualche punto picaresca, sempre molto concreta. Sulle ali di un’ape è un libro molto godibile, merito anche della socievolezza di protagonisti che nei più disparati luoghi trovano amici disposti a ospitarli e vengono così ad essere introdotti negli interni delle case, nella vita stessa della popolazione. ATeheran ad esempio, mentre sono alla ricerca di una musaferkhuné (una sorta d’ostello) compare miracolosamente un mu- È B S t los schede libri ALMANACCO Paolo Brovelli / Marisa Buglheroni / Irène Némirovsky / Pia Pera / Antonio Perazzi Se una signora è considerata una martire IRÈNE NÉMIROVSKY "La moglie di don Giovanni" Trad. L. Guarino Frausin pp. 63, euro 5,50 Adelphi, 2006, 63 p. , 5,50 £ ome avviene per Cechov e Maupassant, autori molto amati dalla Némirovsky, anche un racconto di poche pagine evidenzia l’abilità narrativa ed i temi prediletti del suo autore. La moglie di don Giovanni, infatti, pur nella sua brevità, avvince per la maestria con cui la scrittrice spiazza il lettore dopo avergli presentato un’altra versione degli avvenimenti. Inoltre, la profondità dei problemi affrontati rendono il racconto un classico nel suo genere. La vecchia cameriera Clemence, in punto di morte, scrive alla sua vecchia padroncina Monique, volendole rivelare la verità sulle reali motivazioni che spinsero sua madre all’uxoricidio. Tutto sembrerebbe nascere dal desiderio del padre, famoso dongiovanni, di separarsi dalla moglie e dai tre figli. Questi ha acconsentito a sposarsi per la ricca dote della moglie, una donna priva di fascino e di bellezza, timida ed impacciata. La moglie, dopo anni di tradimenti sopportati in silenzio per amore del marito e dei figli, non avrebbe retto ad una separazione definitiva. Il processo dichiara la donna innocente, comprendendo le umiliazioni patite. Anche l’alta società, della quale fanno parte le amanti del marito, considera la donna una martire. In realtà, la madre di Monique nasconde un terribile segreto. Il suo vero carattere nasce dal contrasto irrisolvibile tra il bisogno d’essere amata dal marito e l’orgoglio che le impedisce di modificare il legame col coniuge, tra l’affetto sincero per i figli ed il considerarli una insoddisfacente alternativa all’amore coniugale, tra gli slanci genuini del suo cuore e la timidezza e la paura d’essere derisa. La protagonista è insicura, teme di mostrare la propria femminilità, anche a causa di una madre, la Contessa, sempre critica nei suoi confronti. La sua reazione a tutto questo è stata concedersi al primo venuto. Del resto, l’ambiente che la circonda, compresa la servitù, è al corrente delle avventure del marito, non si interroga più sulle sue prolungate assenze, ben conoscendone l’indole passionale, mentre la donna può approfittare liberamente dell’immagine di moglie infelice che tollera con sofferenza la situazione. Le sue assenze, quindi, non destano curiosità. Il racconto, quindi, è una riflessione sul rapporto tra verità apparenti e i segreti e complessi moti del cuore umano. Il lettore rimane colpito dalla nitidezza con cui l’autrice delinea un personaggio così complesso. A tal proposito, va sottolineato il ruolo svolto dalla narratrice Clemence. Questa afferma con sicurezza le proprie qualifiche di cameriera specializzata, di avere studiato, di non essersi lasciata mai sedurre, come le sue colleghe, da fantasie come un matrimonio con un uomo ricco. F. B. C La storia è un insieme di sogni un gioco di specchi in cui i tre volti di Isabella (la protagonista, la narratrice e l’alter ego romanzato dell’autrice) si scrutano l’un l’altro. Se alla terza persona è affidata la parte corale, quella degli eventi del ’43, che si staglia con tutta l’immediatezza del tempo presente, la prima persona immette nel racconto l’urgenza dell’attualità che custodisce echi del passato. Un intreccio di voci e tempi incastonato in un impianto narrativo moderno, se non postmoderno, che si avvale dello sgretolamento dei piani temporali e narrativi: la narratrice medita, anticipa gli eventi, in un alternarsi sapiente di flashback e flashforward. «Io, Isabella» scandisce il ritmo del racconto come un refrain ipnotico, a smentire sogni e illusioni, a smorzare i toni con fare profetico. È la Cassandra che prevede. È il coro che commenta, nell’altalena tra passato, presente e futuro suggerita anche Fino a Pechino attraverso l’Eurasia sicista gentile e molto occidentalizzato che li introduce nella sua casa. Dall’interno la realtà appare meno rigida e più complessa e variegata di come ci risulti dai mass media anche se molti aspetti sembrano effettivamente inquietanti. Spesso i due viaggiatori hanno occasione di incontrare italiani che hanno lasciato la loro vita per indossarne un’altra e, tagliati i ponti con il passato, si sono insediati in zone remotissime. In Pakistan ad esempio vengono a conoscere «un sopravvissuto. Sopravvissuto al dopo Sessantotto, all’anticonformismo tutti i costi, alle occupazioni. Sopravvissuto ai Figli dei fiori, MARISA BULGHERONI "Un saluto attraverso le stelle" pp. 247, euro 17 Mondadori, 2007 dalla veste grafica, che alterna tondo e corsivo. Grazie a Isabella, anche lo scenario svela diverse fattezze: dalla placida monotonia del lago di Como (in quella città che «bombardata ancora una volta, ardeva come un immenso braPAOLO BROVELLI "Sulle ali di un’ape pp. 488, euro 19,80 Corbaccio, 2007 sparpagliati per il mondo a cercare qualcosa che forse si farà trovare. Un rifugiato. Rifugiatosi lontano dalla realtà di casa, fatta di perbenismo e lotte. Via dalla provincia, via dalla routine. Forse perché lontano l’emotività se ne va a farsi fottere e i fatti si analizzano meglio». E anche in India hanno modo di conoscere uno strano personaggio, Rashid, un americano proveniente da Oklahoma city, che ha deciso di lasciare tutto e di stabilirsi in India. Sguardo tranquillo, serenità a tutto tondo, kirpan alla cintola, capelli fissati da un kangha, è diventato ormai un cittadino di Amritsar. La parte più inquietante è forse l’attra- La forza sovrumana delle piante PIA PERA ANTONIO PERAZZI "Contro il giardino. Dalla parte delle piante" pp. 168, euro, euro 13,50 Ponte alle Grazie, 2007 ontro la quotidiana mortificazione della natura, quella natura «scempiata che ovunque ci avvolge e non ci permette più di fare caso al ridicolo che ci circonda» si alzano le voci di Pia Pera e Antonio Perazzi nel loro carteggio raccolto nel libro Contro il giardino. Dalla parte delle piante. Scrittrice-giardiniera, come affettuosamente la definisce il suo corrispondente, Pia Pera ha già affrontato il tema della riscoperta della natura nel precedente L’orto del perdigiorno, dove racconta, tra bucolico e realistico, la nascita del suo rapporto con il podere che è orto-giardino-uliveto-bosco, alle falde dei monti pisani. Ed ora non esclude che in dieci anni di vita tra le piante, in un fervore di attività di memoria esiodea, «le sia perfino spuntato un cuore». Lui, botanico e paesaggista, simpaticamente scambiato per giardiniere dai vicini, è architetto di giardini e paesaggio. Il loro carteggio è stata un’occasione di riflessione sulle piante spontanee, quelle solitamente definite erbacce, che vengono strappate via, e vi si sostiene l’idea di lasciarle inserite in progetti più ampi e compositi, dove la loro essenziale bellezza di forme, colori e volumi completi il paesaggio modificato dall’uomo. È un recupero di piante pioniere, colonizzatrici, quelle che si impossessano degli spazi abbandonati e martoriati dall’uomo, quelle che avanzano a nascondere anche i relitti di capannoni industriali, che riescono a scoppiare tra le pietre o a fianco di un marciapiede, per raccontare la forza della natura che riesce a rigenerarsi sempre, nonostante la cementificazione e la distruzione quotidiana. Perché «la forza delle piante è sovrumana, incredibile… e alla lunga riesce perfino a sopraffare gli interventi maldestri di coloro che pensano che la Terra sia un parcheggio e non un organismo vivente». Allora si può davvero esultare di meraviglia se su una rotonda spartitraffico si scopre che è cresciuto un giardino spontaneo, pur nella consapevolezza che sarà effimero, ma si rimane turbati se si vedono abbattere pini centenari su un’altra rotonda, per lasciare spazio al cemento, come si rimane affascinati di fronte alla bellezza dei giardini umili, che non si comprano, anche se sono realizzati in vaso. Si legge la gioia di chi ama le piante nella capacità di ricrearle da talee, da frammenti, da foglie scambiate tra amici che nutrono la stessa passione, in una forma di continuità e in una rete di rapporti umani che si allarga di continuo. Qui tutte le specie vegetali riacquistano la propria dignità, abbattuta ogni distinzione sociale e ogni forma di pregiudizio. E si racconta la tenerezza provata di fronte alle foglioline di prezzemolo che spuntano dalla terra, nel momento in cui si partecipa a «quel primo moto di vita, tanto delicato, vulnerabile: l’inizio di ogni altra più visibile forza». E si recupera il gesto materno di versare dalle mani a coppa l’acqua sulle piantine trapiantate, perché sia loro più leggera. In questa ottica non si guardano con simpatia i pratini all’inglese, che provocano lo stesso disagio che si prova di fronte ad «una donna che non ha un capello fuori posto». Prati pettinati che non conosceranno mai «la corsa del vento nel fieno» e quel pullulare di vita animale che si cela nel verde. Contro i giardini progettati con mentalità di architetti, con piante irreggimentate, costrette, decontestualizzate, pensati a fini puramente decorativi, si propongono giardini progettati per le persone, che tornino a integrarsi in un paesaggio spontaneo, creatosi secondo un gioco evolutivo di forme, «in cui perfino le ortiche vanno mantenute». Un ritorno alla natura prima che essa scompaia, quello che raccontano Pera e Perazzi, in un momento storico in cui si accavallano e si mescolano continuamente «impressioni di prossima fine, nel disordine climatico, e di risorse inesauribili», con l’esigenza di recuperare il legame uomo-natura, con la scoperta della sacralità di gesti antichi: «sacro… è piantare alberi che non vedremo mai nel pieno della loro bellezza» ma che rimarranno «una proiezione del nostro amore in un futuro da cui saremo assenti». Marisa Cecchetti C ciere tra le brume celesti della lontananza») ad Alessandria d’Egitto, fino all’Etna solcata dalla «colata ardente, inarrestabile come il tempo scandito da un rintocco luttuoso di campane». Scenari evocati attraverso una scrittura che diventa raffinato esercizio di catarsi letteraria e personale. Arma che scava nei cumuli della memoria e riporta a galla schegge di passato, ricomposte nella trasposizione letteraria per diventare affresco di un’intera generazione. L’autrice infatti non trasferisce sulla pagina il materiale inerte del ricordo. Piuttosto lo plasma, lo scompone, lo (ri)compone. Lo tesse in una trama in cui la rievocazione storica non è asettica e neutrale trasmissione di fatti, ma è percorsa da echi autobiografici e letterari. Perché la storia «non è la somma degli eventi soltanto» ma «un insieme di sogni, di illusioni, di progetti mancati. È una messa in scena in cui tutti a ugual diritto siamo attori. Ma è anche un teatro dell’anima di cui niente rimane se qualcuno non ha la forza e la pazienza di raccontare»: la forza di inalare il tanfo di morte che la guerra diffonde, e la pazienza di aspettare che si dissolva. Che il tempo muti la tragedia in parola. Quella della Bulgheroni, parola, nomina, (ri)evoca, incanta, grazie a un minuzioso cesello lessicale, alla precisione semantica che schiude scorci più poetici che narrativi. Le frasi si susseguono come in un poème en prose, in una danza tra arcaismi e neologismi, metafore e similitudini. Il ritmo è talvolta fluido, talvolta spezzato come in un susseguirsi di versi. Come se per rievocare quel passato eroico fosse necessario un registro poetico, lontano dalla bieca prosaicità odierna. Il sogno di Isabella non era che «una casa fatta di vento dove la paura non potesse entrare perché non c’erano porte». Isabella sognerà ancora. Senza crederci più. «Ancor oggi, più di mezzo secolo dopo, io, Isabella, sogno, come l’Isabella di allora, case e città fatte di vento: che non crollino. Come sono crollate sotto il mio sguardo - l’11 settembre 2001 - le due torri gemelle di Manhattan quando l’ago rovente di uno, poi di un altro, jet suicida, infilandosi nel duro tessuto di vetro e acciaio, le ha trapassate, con le loro migliaia di prigionieri chiusi in gabbia. E nel cielo fumoso di ceneri plumbee ha ricamato un enorme papavero di fiamma». Teresa Graziano versamento del «continente» Cina, mondo in velocissima evoluzione. «Ora che sono qui mi rendo conto di quanto poco rimanga delle antiche città, - osserva Brovelli - quelle che immaginavamo dei film storici patinati. Il rinnovamento, specie negli ultimi decenni è costante, e ogni giorno nuovi edifici soppiantano quelli vecchi nel tentativo di rimanere al passo col mondo, in una corsa smodata al nuovo, più apparente che reale. Come se bastassero questi edifici candidi e i lavori forzati alle infrastrutture per far dimenticare le migliaia di esecuzioni capitali». La Cina, di questi tempi, è corteggiatissima, per motivi squisitamente economici, dal mondo occidentale, «tutti cercano il dialogo e tutti si illudono di poter controllare il gigante. Ammiccano e corteggiano; ma nessuno, nei millenni, ci è mai riuscito, e il gigante ha sempre inghiottito chi l’ha voluto inghiottire. Si fanno concessioni, si tolgono embarghi, si stipulano accordi, si sorvola su mille questioni aperte col mondo, specie le metodiche violazioni dei diritti umani. E tutto per ottenere una bancarella nell’immenso mercato di Pechino». In Cina più che altrove ci si rende conto che «pretendere di penetrare un mondo estraneo in pochi giorni è una follia». E, osserva Brodelli, «il senso di impotenza e soprattutto di "alienità" che provo mescolandomi a questa agente è qualcosa di unico. Mai mi era capitato in nessun’altra realtà, dal più intransigente mondo arabo all’Africa più nera, dalle plaghe amazzoniche all’India più profonda». Non è solo la diversità profonda di vita e di mentalità che turba l’autore, ma anche il modo assai diverso da quello occidentale che hanno i cinesi di risolvere i problemi, senza tenere in nessun conto l’individuo e considerando il bene comune l’unico fine a cui subordinare il resto. Marina Torossi Tevini S t los schede libri La Sicilia affatturata di Vasile 23 TURI VASILE "Morgana" pp. 214, euro 13 Avagliano, 2007 n Sicilia, fra le acque dello Stretto, Morgana, la fata del romanzo bretone, è marittima illusione, inganno ammaliante. Un luminescente effetto ottico, dovuto al frangersi dei raggi solari fra i flutti dello Ionio, proietta la bella città di Messina, accanto la costa calabra. Luce e acqua irretiscono i sensi: in Sicilia come a Trozeaur, perché Morgana rappresenta, in fondo, il visibile delle cose che non ci sono. Turi Vasile, scrittore e drammaturgo siciliano, autore di Giòn, La valigia di fibra, pubblica Morgana, sorta di monologo interiore con il quale l’autore, riannodando i fili della memoria, percorre in punta di penna i luoghi dell’infanzia, le persone della formazione, le emozioni della prima giovinezza. Un viaggio a ritroso nel tempo dunque, e una riflessione sul presente, sulla vita che placidamente scorre, sulle passioni che non cambiano, le amicizie che rimangono. Turi Vasile dichiara un legame ininterrotto con la terra d’origine: un viaggio in un paesino dei Nebrodi consente di cogliere la Sicilia sommersa, terra di artisti e filosofi, spesso destinati a rimanere sconosciuti ai più, ma fatalmente presenti nell’animo di molti siciliani. Il viaggio di Vasile in terra di Sicilia, allora, non è semplice sosta nei luoghi più suggestivi dell’isola. Morgana è piuttosto un pellegrinaggio interiore, che, giocato nei luoghi della Sicilia, arretra sulla percezione «che dietro ogni realtà apparente si celi una verità sostanziale» l’intuizione che i segreti nascosti dell’isola sommersa sono immediatamente consustanziali alla condizione/condizionamento dell’essere siciliani. Le radici della propria genitura acquistano per Vasile il carattere di una tenera ossessione, che quanto più tende a rivelare una realtà che ha carattere di nascondimento,cede alla malia di miti e ricordi, sorta di luoghi dell’anima che, fissati nel paesaggio siciliano, sono modello di ogni accadere. Così Vasile riferisce l’incanto esercitato da una chiesa di stile barocco, Santa Maria dell’Annunciazione di Tortorici, dove l’insieme del sacro arredo figura quale «misteriosa contaminazione» di statue e santi sbiaditi nel tempo. L’autore racconta l’incanto della macchia mediterranea dell’oasi di Vendicari, il fascino rupestre di Caltabellotta, faro di riferimento per i naviganti del Mar d’Africa. La rievocazione della Sicilia si intreccia dunque con i ricordi della giovinezza: i luoghi, le presenze di allora, spesso consunte e soprattutto lontane, si ammantano, staccate dal tempo, di un alone mitico e popolare. Racconti quali "Il meravigliato della grotta", o "Il nespolo", confermano certo come in tutte le narrazioni di Vasile si renda riviviscente la presenza dei buoni sentimenti, quanto la ricerca della parola melodiosa e suggestiva dietro la quale sempre si cela l’attrazione per una realtà avita, mitologica, naturalmente risorta, come avviene per gran parte degli scrittori siciliani. Federica Di Luca I ALMANACCO Franca Angelini / Yehoshua Kenaz / Livio Romano / Turi Vasile Un palazzo popolato di fantasmi A suo abbandono, psicologicamente più sottile rispetto a quello fisico di Filottete, consiste nel non riuscire a sentirsi adeguato a un mondo che va troppo in fretta e che gli richiede un’attenzione spropositata, salvo poi non ricambiarlo e accusarlo reiteratamente di egocentrismo e immaturità. Si trova preso in un gorgo di speranze deluse perfettamente incarnato dalla vita politica locale: individuato in lui il candidato ideale, il partito dei Verdi dapprima lo seduce e quasi lo forza ad impegnarsi in prima persona; salvo poi, passate le elezioni, lasciarlo andare alla deriva e voltargli le spalle tradendone la fiducia. Di fronte al progressivo abbandono, o meglio di fronte al progredire della distanza fra sé e chi lo circonda, più di una volta a Gregorio Parigino pare di non essere più lo stesso. Esistono, infatti, due protagonisti: il Gregorio Parigino reale, per così dire, e il Gregorio Parigino percepito. Per fare un esempio pratico, al momento di farsi fotografare per la campagna elettorale, il Parigino pubblico si sente dire che è affascinante come In un gorgo di speranze e delusioni er fortuna che i libri non sono la vita, perché se dovessimo stare ai romanzi dei nostri scrittori (più o meno giovani che siano) il ritratto dell’uomo italiano dei giorni nostri sarebbe dei più desolanti: immaturo, irresponsabile, precario per indole e vocazione, infantile, egoista (non che le donne trovino più comprensione nelle patrie lettere, beninteso). E così, per distinguersi, la campagna stampa di Niente da ridere - ultimo romanzo di Livio Romano pubblicato da Marsilio nella collana "X" - recita: «[siete] stufi di leggere storie di trentenni dimissionari, precari?. […] Credete che la narrativa italiana […] dovrebbe raccontare anche le vite dei trentenni che hanno messo su famiglia, la famiglia media italiana, della gente (la stragrande maggioranza) che vive in piccoli centri? […] Ecco il romanzo che fa per voi». In effetti il trentacinquenne Gregorio Parigino, protagonista di Niente da ridere, non è un single: ha messo su famiglia, ha un lavoro fisso, possiede più di una casa, un paio di automobili, persino un conto in banca a cui attingere e sicuramente non soffre di solitudine. E poi è un tipo con vari interessi e mille impegni. Eppure anche Grego- rio, alter ego del suo autore - come lui insegnante d’inglese presso una scuola elementare, salentino e giornalista non fa eccezione e non sfugge al luogo comune di una generazione in fuga costante. All’inizio del libro lo troviamo incastrato nelle lamiere della sua auto dopo una carambola quasi mortale dovuta alla fretta di tornare a casa dal buen retiro in cui si nasconde per poter scrivere in pace. Quando non scappa in campagna, cerca sollievo in una tana meno ingombrante e bucolica: una pillola di Alzaprolam, un ansiolitico cui ricorre di continuo «contro il logorio della vita moderna». E ancora, non sono forse goffi tentativi di evadere quei continui approcci con una bella venditrice di torrone più giovane (e forse ancora più inguaiata) di lui con cui non riesce però ad andare oltre a numerose prove tecniche di tradimento? Gregorio è un uomo in fuga da una vita che ha scelto ma gli sta stretta, da responsabilità di cui si bea ma non riesce a gestire, da un ruolo che gli piace ma che in fondo non si sente tagliato a ricoprire: e allora la ricerca di anodini per sopportare il male di vivere, chimici o naturali che siano, diventa la soluzione per non doversi sottrarre del tut- SECONDA LETTURA P YEHOSHUA KENAZ "Cortocircuito" Trad. Elena Loewenthal pp. 251, euro 18 Nottetempo, 2007 ncora una volta l’israeliano Yehoshua Kenaz racconta le vite di quelli che la storia non ricorda, delle persone che non hanno nulla di speciale. E, ancora una volta, un condominio fa da sfondo alle vicende narrate. Come luogo moderno dell’aggregazione alienante e coatta di persone che, spesso, non scelgono di essere vicini, si fa metafora dello stato di salute dell’umanità: «Tutti hanno paura solo per se stessi e scappano in posti lontani o si nascondono nella stanza sigillata, è tutto capovolto». In questa Babele di voci, nonostante la molteplicità dei punti di vista, tutti parlano della stessa cosa: dell’incapacità di stabilire rapporti significativi con gli altri, «guardandosi in giro si vede solo gente che vuole rovinarsi a vicenda. Ognuno pensa solo a se stesso». Gli altri sono fantasmi e non esistono, almeno fino a quando non si incrociano sul pianerottolo, o quando si disturbano l’un l’altro. Nel palazzo di cui Kenaz ha scelto di narrare le vicende, vivono Sofi, «la donnina minuta come un passerotto con una lana candida in testa», che trascorre le giornate nel suo appartamento con la sola compagnia della radio e delle rare visite di una vicina, Eti, prigioniera di una violenza subita che le impedisce di condurre una vita serena. C’è la signora Mashiach, donnone prepotente e arrogante, Zachi e Ghili coppia che adotta un gatto rosso per poi abbandonarlo quando cambiano casa. C’è Rachmani e c’è il responsabile del condominio che gli ha affidato l’incarico di pulire le scale e il giardino, almeno fino alla fine della Guerra del Golfo, quando sarà presa la decisione di lasciare a lui il posto o riprendere il ragazzo arabo, Ismail, che lavorava per loro prima di lui. Poi, due avvenimenti che forse non hanno alcun legame fra loro, offrono allo scrittore la possibilità di sondare le reazioni dei personaggi di fronte alla morte: un cortocircuito scatena un incendio nel palazzo, provocando la morte di Sofi, e al ritorno di un diverso che è anche il Nemico: il ragazzo arabo torna per riavere il suo lavoro. Non dimentichiamo che siamo a Tel Aviv. Eppure, la problematicità della realtà israeliana tocca la materia narrata solo in maniera trasversale; infatti «Yehoshua Kenaz» dice anche Shulim Vogelman «non si "aiuta" né con l’attualità, né con la famiglia, né con le radici». Tutto rimane soffuso, non si arriva all’ultima pagina con la sensazione che una tesi forte sia stata dimostrata e, nonostante la coralità, la presunta diversità di voci, ci si trova esplicitamente a fare i conti con un omogeneo corpus di sensazioni sulle cose della vita. Silvia Santirosi on la sua ferita alla gamba, a seguito dell’incidente stradale sul quale si apre il romanzo, il protagonista di Niente da ridere sembra subito una riedizione postmoderna della figura tragica di Filottete. L’eroe classico, per via di una piaga purulenta, veniva abbandonato dai suoi amici sull’isola di Lemno, dalla quale cercavano poi di riscattarlo blandendolo per farsi perdonare coi più vari sotterfugi. Gregorio Parigino, l’io-narrante cui Livio Romano dà voce, a prima vista non sembrerebbe essere abbandonato, vista la pletora di persone che gli si affanna attorno dalla convalescenza in poi; la sua vita anzi si direbbe sovraffollata, fra una moglie, due figlie, un labrador obeso, una mamma scimunita, una nonna combattiva, un’amica invadente, uno zio scialacquatore e, per non farsi mancar niente, anche un’amante imprevista. Eppure Gregorio Parigino, insegnante salentino e corsivista saltuario, vede progressivamente frapporsi una distanza incolmabile fra sé e tutte le persone che lo pressano d’intorno. Il C pagina pochi; al momento dello sviluppo delle foto, ingrandendone i dettagli digitali, al contrario il Parigino privato si vede triste, ripugnante, improponibile: e questo è, ai suoi stessi occhi, il Gregorio Parigino reale. Se la sua amante lo ritiene somigliante a Nicholas Cage, sua moglie non fa altro che rimproverargli il progressivo decadimento psicofisico; se dopo l’incidente sente bisogno di una lunga convalescenza, parenti e amici fanno a gara a sovrapporre le proprie esigenze alle sue. Di fronte a uno specchio, prima ancora della propria immagine riflessa Parigino vedrebbe la crepatura sulla superficie. Livio Romano si è abilmente infilato in questa crepatura, in questa distanza che per tutti i personaggi è impercettibile ma che al protagonista appare in- LIVIO ROMANO "Niente da ridere" pp. 359, euro 17 Marsilio, 2007 sormontabile. Chi ha letto le sue opere precedenti si renderà facilmente conto che Niente da ridere riesce a miscelare brillantemente gli spericolati esperimenti linguistici di Mistandivò (Einaudi 2001) con la satira e l’impegno sociale di Porto di mare (Sironi, 2002). Questi ultimi cinque anni non sono passati invano: oltre a dare notevole spessore - anche quantitativo - alla trama di Niente da ridere, Livio Romano ha così potuto riconsiderare alcune convinzioni, tanto formali quanto contenutistiche, che nelle sue due Come fuggire dalle responsabilità to ai suoi doveri. Ma pur sempre di una fuga si tratta. E dopotutto: come dargli contro? Gregorio ha una famiglia scombinata in cui i parenti, acquisiti e non, si aspettano dedizione e abnegazione; ha amici squinternati incapaci di vivere la propria vita e che cercano una guida e un appiglio a cui aggrapparsi; e poi ulteriori amici, ancor più dissennati, che vogliono cambiare il mondo e che hanno tutta l’intenzione di servirsi di lui come un ariete per aprirsi dei varchi nei centri del potere. E le bambine da cambiare, il cane da portare a spasso, il mutuo da pagare, gli articoli da scrivere, gli studenti da istruire, una moglie a cui rendere conto, così diversa da lui e così piena di mute richieste: Gregorio quindi deve essere all’altezza, deve essere pronto, deve essere presente. Niente da ridere non è poi così diverso in fondo, dai romanzi di vita precaria degli ultimi anni, ma a distinguere il libro di Romano dagli altri c’è una buona dose di ironia che alleggerisce ogni cosa, un sense of humor vulcanico e travolgente attraverso cui l’autore filtra le contraddizioni della società civile, della famiglia moderna, della politica. E anche se a volte si cade nel qualunquismo: «come se non sapessi che chiunque vincerà saprà ben farsi gli affari propri prima ancora che quelli della civitas dice Gregorio commentando la sua discesa in politica nelle comunali del suo paese per i Verdi, le vicende tragicomiche di questa quotidianità eroica tengono il lettore incollato alla pagina, curioso di sapere come Gregorio riuscirà a mettere ordine al caos che L’attor comico? Un virtuoso e un infame FRANCA ANGELINI "Petrolini e le peripezie della macchietta" pp. 152, euro12 Bulzoni, 2006 ella conclusione del suo volume, Franca Angelini, riflettendo sulle peripezie della macchietta, esplicita il senso del lungo percorso dei suoi studi su Ettore Petrolini ma anche, al contempo, per il suo tramite, sulla macchietta, sul varietà in rapporto alla modernità, al Novecento e all’avanguardia, e sull’attore. Il ricordo conclusivo di Carmelo Bene «un attore testimone e rappresentante della "chute ancienne" dell’angelo di cui parla Baudelaire», testimonia, a diversi livelli, di alcune delle fondamentali tematiche e prospettive del libro. Tra queste, innanzi tutto, quella di una tradizione - che da Ruzante, passando per Viviani, Scarpetta, Eduardo arriva a Dario Fo - al cui proposito viene richiamata l’antica distinzione tra comici virtuosi e infami, appartenenti cioè, rispettivamente, a una tradizione alta, colta, letteraria o, viceversa, bassa, popolare, esclusivamente teatrale. Ma l’attor comico, scrive l’Angelini, «è sempre insieme virtuoso e infame». Alto e basso s’intrecciano nella comicità, sulla scena del varietà, nel teatro della modernità e delle avanguardie del Novecento e si esprimono, mediante il corpo e la voce, nella performance di un attore solo in scena che rappresenta, nella macchietta, l’eccentricità, caricaturalmente esagerata, di un «tipo» distinto dalla cultura della massa metropolitana. Questa raccolta di saggi, su una materia che è acquisizione solo relativamente recente in ambito accademico, può essere considerata anche un omaggio, pur non deliberato, alla «drammaturgia del frammento» che definisce un’altra fondamentale prospettiva del volume. Quella drammaturgia che costituisce la rivoluzione tardo ottocentesca della scena nella quale si può leggere la «profonda vicinanza tra avanguardia e teatro minimo del Varietà, del circo, delle piazze» che l’Angelini ricostruisce con richiami, ai futuristi, a Cocteau e al suo théâtre de poche, al «virtuosismo dell’attore-acrobata delle emozioni come mostra il limite che disgiunge e la sintesi che unisce i contrari», al «minimalismo come totalità», all’attore che Artaud chiama «atleta del cuore». Il grande amore degli intellettuali per il varietà raramente finisce in matrimonio, forse per lo spirito di vagabondaggio che Colette attribuiva al varietà, forse per l’impossibile e solo miracolosa convivenza tra due contrari che pur si attraggono: l’intelligenza della scrittura e la pura presenza scenica che raggiunge talora punte sublimi di intelligenza critica, decostruttrice di poetiche, mitologie, idoli e ideologie, ma che tocca altrettanto sublimi vette di abissale stupidità. Petrolini fu amato dai futuristi ma anche, diversamente da loro, dal grande pubblico, perché attore e artefice, tra naturalismo e avanguardia, di vecchie macchiette di tipi eccentrici alla maniera originaria del café chantant, nell’ humus dialettale, specificamente italiano, del varietà (Giggi er bullo, Sor Capanna), e di nuove macchiette dissacranti la retorica, la cultura letteraria, pseudoromantica, scolastica (Ma l’amor mio non muore, La canzone delle cose morte). Petrolini fu il miracoloso matrimonio di sopraffina intelligenza criticoparodica, sconsacratrice e di pura, assoluta demenzialità in chiave naturalistica (I salamini) o antilogica avanguardistica (Fortunello) in un itinerario che da Piazza Pepe, dal teatro di don Peppe Jovinelli, arrivò alla Comédie Française, al teatro alto nel quale, anche da drammaturgo, si cimentò a partire dagli anni venti. Il volume è anche e soprattutto, ovviamente, un volume su Petrolini, sulla storia del suo teatro (diversi testi sono anche riprodotti in appendice), sulla sua figura, sugli elementi della sua recitazione di cui anche l’apparato iconografico restituisce ulteriori testimonianze. Pietro Milone N opere precedenti talvolta apparivano tagliate troppo di netto. Da un lato infatti Romano viene incontro al lettore moderando i suoi primi ardimenti semantici che non di rado rendevano necessaria una rilettura più concentrata. Dall’altro canto, la tragica distanza che Parigino interpone fra sé e un mondo che sembra crollargli addosso consente a Romano di temperare le (per quanto giustificate) arrabbiature impegnate che avrebbero altrimenti rischiato di mettere in ombra la trama. Il raggiungimento di questo saggio equilibrio permette a noi lettori di avere per le mani un romanzo ben costruito, che si legge piacevolmente e che fa pensare senza essere mai stucchevole; mentre all’autore permette di riverberare la propria indubbia crescita sulla precipitosa maturazione alla quale Parigino è costretto dagli eventi. Il ritmo forsennato di Niente da ridere, che si sviluppa in lunghi capoversi paratattici, di tanto in tanto si interrompe e si distende: accade quando, travolto dalla propria stessa vita, Parigino si affida all’Alprazolam, un an- siolitico fenomenale nel tamponare immediatamente gli attacchi di panico ma che a lungo andare crea dipendenza e inevitabili sbalzi d’umore. Il maggior pregio tecnico di Niente da ridere consiste proprio nella prosa di Romano, che riesce a rendere perfettamente l’idea di quest’alternanza fra consolazione e angoscia, finché non arriva il momento in cui (poco dopo la metà del romanzo) Parigino deve riuscire a sbrigarsela da solo. In quel momento, recluso nella casetta di campagna come Filottete sull’isola, capisce che la pasticchetta quotidiana è un supporto inutile se non viene accompagnato da uno sforzo interiore, e che la propria vita consiste, come quella di ogni uomo, nella continua ricerca di un Senso, con tanto di esse maiuscola. Per fortuna, tuttavia, Livio Romano è un narratore troppo furbo, e troppo divertente, da poter concludere la propria tragedia postmoderna su una morale precostituita: allora Parigino prende un’altra pillola e per la nostra gioia il romanzo continua. Antonio Gurrado lo circonda. Il merito è anche di uno stile personale e consapevole, non privo di intuizioni brillanti e immagini ben congegnate che confermano le promesse fatte nei libri precedenti: Mistandivò (Einaudi Stile Libero, 2001) e Porto di mare (Sironi 2002), in cui l’autore già mostrava di saperci fare con le parole. Niente da ridere però è un’opera molto diversa dalle precedenti, meno sperimentale, più tradizionale nell’impianto narrativo e nel linguaggio, più matura anche per certi versi. Qui Romano ricorre a una narrazione in prima persona molto aderente ai pensieri del protagonista, in cui ragionamento, sentimento e azione si alternano senza pause, e a tratti si sovrappongono: Gregorio Parigino passa da un dialogo a una riflessione estemporanea, dal resoconto delle proprie attività quotidiane - qui elevate al rango di «epica domestica» - al dialogo interiore col padre (figura con la quale egli costantemente si confronta, col risultato di farne un modello, pur con tutti i limiti del caso dovuti alle oggettive colpe del genitore, e ai risentimenti che ogni figlio inevitabilmente prova). Ciò che viene fuori è un ritmo serrato, a tratti convulso, della prosa; una sovrabbondanza di dettagli descritti uno di seguito all’altro, quasi a voler togliere il fiato al lettore e il risultato è l’affresco di un ambiente in cui ogni cosa appare iperreale, eccessiva per troppa intensità, e inequivocabilmente barocca. Contrariamente a quanto sostenuto da più parti, è modesto invece il ruolo dello scorcio d’Italia meridionale su cui si staglia la vicenda: diversamente da quanto succede nei suoi libri precedenti, in Niente da ridere il Sud è una quinta scenografica, un puro sfondo, al punto che l’ambientazione e il feeling del libro di Romano hanno un sapore che ci riporta, più che alle narrazioni storicizzate a cui di solito di pensa quando si parla di «scrittori del Sud» (dalle Terre del Sacramento a Cristo si è fermato a Eboli e via discorrendo), all’Inghilterra sgangherata e autoironica del Nick Hornby di Come diventare buoni: non a caso, forse, il libro termina sulla conclusiva fuga in terra d’Albione del protagonista in compagnia di moglie e figlie, quasi una sorta di cortocircuito narrativo che riporta il romanzo a una terra di cui ha preso in prestito le atmosfere. Seia Montanelli pagina 24 l festival «A qualcuno piace giallo» di Brescia Carlo Fruttero ha ritirato il Premio Carriera Gialla, riconoscimento per una vita dedicata alla letteratura, non solo di genere. Una lunga carriera. Nato a Torino nel 1926, è stato per decenni indissolubilmente legato a Franco Lucentini. I due si conoscono a Parigi nel 1953 e finiscono per lavorare entrambi, come redattori, alla Einaudi. Insieme curano due volumi di fantascienza: Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza (1959) e Il secondo libro della fantascienza (1960). I rapporti con Mondadori iniziano proprio con la direzione della rivista di fantascienza "Urania", che cureranno fino al 1986. Nel frattempo, però, iniziano a scrivere assieme un giallo che diventerà un cult, La donna della domenica (1972). Un libro nato da una richiesta di Montanelli (allora direttore de "Il Giornale") di scrivere un romanzo di appendice e maturato con le lunghe discussioni su come strutturarlo. «Il pasticciaccio di Gadda, ad esempio, a me piaceva, a Lucentini proprio no» confessa lo scrittore. E infatti finirono per ispirarsi ai romanzieri inglesi. Nonostante la critica avesse liquidato il romanzo con una certa superficialità, il successo di pubblico fu immediato e gli stessi detrattori, negli anni successivi, dovettero ricredersi. Soprattutto quando, otto anni dopo, «Umberto Eco dimostrò come si potesse scrivere un giallo e, al tempo stesso, fare letteratura». Al romanzo d’esordio seguiranno, fra gli altri, Il palio delle contrade morte, A che punto è la notte (con lo stesso protagonista de La donna della domenica, il commissario Santamaria), Enigma in luogo di mare. Il sodalizio si interrompe solo a seguito del suicidio di Franco Lucentini, nel 2002. Fruttero, dopo aver dichiarato di non voler più pubblicare, è tornato in libreria quattro anni dopo con Donne informate sui fatti (Mondadori, 2006). Che riprende un elemento già presente in la donna della domenica: la Torino borghese, piena di chiaroscuri, i cui abitanti si svelano attraverso porte socchiuse e frasi rivelatrici. Al centro della storia, ovviamente, c’è un omicidio. La morte di Milena, rumena, forse prostituta, forse redenta, è lo spunto per dar voce a otto donne molto diverse tra loro: la bidella, la barista, la carabiniera, la figlia, la migliore amica, la giornalista, la volontaria e la vecchia contessa. Ognuna parla con toni e registri differenti, ognuna conosce una parte della verità e la rivela inconsapevolmente. Ognuna confessa, involontariamente, le proprie miserie e debolezze, vanità e fragilità. «Le donne di cui si parla nel libro sono le donne che piacciono a me. La vecchia contessa, poi, è proprio il mio autori- Il passato vissuto C nell’incubo A T A L O G O Nella foto Carlo Fruttero, autore per Mondadori di Donne informate sui fatti, premiato a Brescia con il premio alla carriera "A qualcuno piace giallo" CARLO FRUTTERO I n t e r v i s t e A S t los incontri ravvicinati IL LIBRO «Nessuno si sognerebbe di dire che "I promessi sposi" sono un romanzo di genere, eppure Manzoni non fece che cedere al gusto del romanzo storico». Lo sguardo di un profeta della nostra letteratura CARLO FRUTTERO "Donne informate sui fatti" pp. 196, euro 16,50 Mondadori, 2006 Il primo romanzo senza più Lucentini L’ultimo romanzo, il primo dopo la scomparsa di Lucentini. Aveva detto che non avrebbe più scritto, ma la passione per l’invenzione letteraria lo ha riconquistato dando un giallo dal meccanismo perfetto, che non risente della mancanza del coautore con il quale ha scritto tutti i gialli portati al successo. Qui il delitto di una ragazza rumena si dipana tra le testimonianze delle donne che l’hanno conosciuta alla ricerca soprattutto del perché. I generi letterari non esistono ci sono solo libri belli e brutti ALESSANDRA BUCCHERI VIVE A ROMA. COLLABORA DA DUE ANNI CON "IL FALCONE MALTESE" E CURA IL BLOG "L’ANGOLO NERO" tratto» ammette Fruttero. Circa i suoi progetti, Fruttero rivela che Mondadori gli ha proposto da tempo un Meridiano che raccolga le opere del duo Fruttero-Lucentini, ma lui li sta ostacolando perché quel tomo dall’aspetto «enorme e lugubre, pesante come una lapide» gli sembra di pessimo auspicio. Si entusiasma invece al pensiero della riedizione di un vecchio racconto, scritto anni fa senza Lucentini. Si tratta di Ti vedo un po’ pallida, una storia di fantasmi che verrà ripubblicata da Mondadori con l’aggiunta di una prefazione, «una sorta di backstage su come nasce il romanzo che conterrà anche rivelazioni su un personaggio famoso». Stilos lo ha intervistato. Si ritiene uno scrittore di genere o uno scrittore tout court? ELIE WIESEL "Dopo la notte" Trad. Piero Pagliano pp. 270, euro 9 Garzanti, 2007 Gamaliele, dopo una vita tribolata, diventa adulto grazie ad Ilonka che lo ha protetto dalle persecuzioni naziste e lo ha messo in salvo. La sua vita da rifugiato è stata fatta di continue fughe dal fascismo e stressanti procedure burocratiche. Trova l’amicizia di altra gente nelle sue stesse condizioni. Quando viene ricoverata una straniera, si cerca un traduttore e Gamaliele pensa possa trattarsi della sua benefattrice mai più rivista. In quell’istante ricompare il suo passato vissuto nell’incubo: la ricerca di una patria, la lotta tra l’oblio e la memoria e la ricerca della fede. L’autore, oltre ad avere scritto numerose opere, racconta della sua prigionia nel libro La notte. I generi non esistono. Ci pensi: a suo tempo Manzoni cedette alla moda del romanzo storico e scrisse I promessi sposi. Ma nessuno si sogna ora di dire che si tratta di letteratura di genere. Ci sono solo libri belli o libri brutti, non mi stancherò mai di ripeterlo. Una persona colta come lei, che ha letto per tutta la vita, che libri ha sul comodino? Attualmente leggo tutto ciò che mi mandano le case editrici. Adesso sto leggendo Imperium di Robert Harris (autore di Fatherland e Archangel), e lo apprezzo molto perché è ben documentato, è un libro pieno di dati e di notizie. Leggo finalmente i racconti di Cassola, e li trovo tristissimi. Leggo Simenon, ma non Maigret: sto leggendo Il piccolo libraio di Archangelsk e lo trovo meraviglioso, con quelle sue descrizioni... Simenon è l’ultimo grande realista. Ho letto un romanzo di Carofiglio e l’ho trovato interessante, gradevole. Ogni tanto leggo una tragedia di Eschilo. Faccio zapping, insomma. Vado dall’alto al basso. Mi sembra di capire che anche lei fa parte di coloro che ritengono che ci sia una distinzione tra letteratura alta e letteratura bassa. La forza della telepatia No, niente affatto: dico piuttosto che ci sono libri che ti impegnano di più e altri che leggi con minor fatica. La stessa cosa che accade per i film o gli spettacoli teatrali. Io non disapprovo chi guarda "Beautiful"; lo capisco. La disapprovazione che circonda gli spettacoli facili è una sciocchezza. È un intrattenimento leggero, che non richiede impegno. L’importante è sapere che c’è anche altro, che si può scegliere. Al limite, che si può spegnere la televisione e leggere un libro. Come nasce Donne informate sui fatti? Lo spunto iniziale, quello della «vendetta galante», l’avevo in mente da tanto tempo. Però non riuscivo a ideare una storia nella quale questo spunto si inserisse in modo naturale. Vede, nella Torino degli inizi del Novecento era plausibile che un ricco industriale sposasse una ballerina - era uno scandalo, certo, ma non era infrequente. Al giorno d’oggi, e nella Torino attuale, non è verosimile che un ricco industriale sposi una prostituta. Poi però sono arrivate le badanti, e i giornali si sono nuovamente riempiti di storie in cui il ricco borghese sposa la badante extracomunitaria. Tenga MARY HIGGINS CLARK "Due bambine in blu" Trad. Maria Barbara Piccioli pp. 400, euro 18 Sperling & Kupfer, 2007 Un mistero si cela dietro al rapimento di due gemelline di tre anni avvenuto nel giorno del loro compleanno. Durante le trattative per il riscatto qualcosa va storto. Una delle bimbe, Kelly, viene ritrovata morta insieme con l’autista che confessa, in un biglietto, di avere ucciso anche l’altra bimba, Kathy, buttandola poi nell’oceano. La madre intuisce che la bimba è ancora viva, pensa agli abitini blu che le due figliolette indossavano quel giorno finché le appare Kelly per dirle che Kathy chiede aiuto. Seguendo il suo istinto combatterà contro lo scetticismo generale. Un racconto pieno di suspence incentrato sul fenomeno della telepatia tra gemelli. Suicidio di una scrittrice presente che gli extracomunitari hanno portato un notevole rimescolìo nel tessuto urbano, non solo sul piano criminale, ma anche nell’ambito sociale. E così la mia idea iniziale è tornata a essere verosimile. Il banchiere che sposa la babysitter dei nipoti era un’idea perfettamente realistica. E da lì sono andato avanti. Se Lucentini avesse scritto questo libro con lei, cosa ci sarebbe stato di diverso? Beh, tante cose. Ad esempio nel libro c’è Milena, la morta, che è una giovane rumena. Se Lucentini fosse stato vivo, avrebbe studiato il rumeno per capire esattamente che tipo di errori fanno i rumeni che parlano l’italiano. E poi avrebbe scritto tre pagine e mezzo perfette, ineccepibili. Io non l’ho fatto. La ragazza rumena del libro è morta, dunque semplicemente non parla. Però ha scritto delle perfette simulazioni del linguaggio degli Sms: la barista manda al suo fidanzato dei messaggini che sembrano davvero scritti da una adolescente. In questo mi ha aiutato mia figlia. È stata lei a dirmi come i ragazzi di oggi comunicano tra loro. Io non sono esperto di nuove tecnologie. Anche con i computer non è che abbia un gran rapporto, io uso ancora la penna, si figuri. Nel libro compare anche una figura molto nuova, quella della carabiniera. Sì, mi sono molto documentato per essere certo che fosse realistica. Le carabiniere oggi esistono, ma ancora non si occupano di investigativa. Però mi sono informato con amici che lavorano nell’ambiente e mi hanno assicurato che a breve anche le carabiniere saranno inserite nelle strutture che si occupano di indagini. Come mai l’ha voluta, allora, anche se precorre i tempi? Perché non volevo usare dei cliché. Non volevo assolutamente ricorrere a parole come «commissario», «Dna», «sei sospeso dal servizio» e giù pistola e distintivo... Sono molto attento a questi dettagli. Vede, ormai si può dire che tutto è già stato scritto e che la difficoltà maggiore, oggi, è quella di evitare di essere ripetitivi. Quindi quando leggo un libro o guardo un film controllo sempre in che modo l’autore o lo sceneggiatore sono riusciti a ingentilire i cliché, come li hanno evitati, quali strategie o acrobazie hanno sperimentato. E, ovviamente, quando scrivo sto attento a evitare le banalità. Lei aveva detto che avrebbe smesso di scrivere. Invece ci ha regalato un nuovo libro. Cosa l’ha spinta ad andare avanti? Per raccontare ci vuole passione. La figura del narratore è molto risalente - pensi ad Omero, il primo narratore della storia. La passione è un dono, un istinto. Vedi qualcosa, un dettaglio, ti resta in mente un’immagine che hai voglia di raccontare. Poi la passione magari ce l’hanno in molti, ma non tutti sono capaci... Però io sentivo, e sento ancora, quella passione. SYBIL OLDFIELD (cura) "Lettere in morte di Virginia Woolf" Trad. Marina Premoli pp. 313, euro 18 Baldini Castoldi Dalai, 2007 Durante la Seconda guerra mondiale, Virginia Woolf si suicida. La sua depressione non era un mistero per nessuno, ma la sua morte sorprese tutti poiché la scrittrice era stimata da un foltissimo pubblico di appassionato lettori che erano all’oscuro degli abissi della sua mente. Il gran successo letterario e la presenza affettuosa del marito e della sorella non avevano scongiurato la sua spinta al suicidio. Virginia, con lucidità, scelse il momento giusto per la sua morte sentendo prossima la sua ennesima ricaduta nella terribile malattia. Per questo libro, l’autrice ha trovato collaborazione in tutti coloro che conobbero ed amarono la scrittrice.