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Pubblicato il 09 Marzo 2015
La Tragedia fiorentina di Zemlinsky e i Pagliacci di Leoncavallo brillano a M onte-Carlo
E in buca un grande Steinberg
servizio di Simone Tomei
MONTE-CARLO - Passione, amore, gelosia e morte: il filo sottile che ci ha accompagnato la sera del
28 febbraio al Teatro dell’Opéra di Monte-Carlo per l’ultima rappresentazione di un’altra fortunata
produzione della stagione monegasca 2014-2015; Une Tragédie Florentine di Alexander Zemlinsky e
Pagliacci di Ruggero Leoncavallo sono i titoli che si sono succeduti sul palco della Salle Garnier,
donandoci oltre due ore di grande musica.
L’opera di Zemlinky trova la sua genesi tra il 1914 ed il marzo del 1916 periodo in cui il compositore
era ormai da anni direttore del nuovo Deutsches Theater di Praga; tale impegno svolto con
pedissequa dedizione, toglieva spazio all’attività compositiva che era relegata ai periodi estivi di
vacanza. Considerato l'erede musicale di Gustav Mahler e di Richard Strauss, ebbe anche una lunga
infatuazione per Alma Mahler Schindler prima che questa divenisse moglie del grande musicista boemo. Nonostante la
grande amicizia con Arnold Schönberg e con gli altri musicisti viennesi venne sostanzialmente poco contagiato dalla
dodecafonia. Oltre al lavoro di musicista, Zemlinsky si occupò in maniera moderna di pedagogia. ll testo di quest’opera è
fornito dalla trascrizione quasi integrale del dramma omonimo di Oscar Wilde, lasciato incompiuto dallo scrittore. Zemlinsky
rimase affascinato da questo moncone teatrale e si adoperò a ricucirne i vuoti più evidenti, in modo da potervi innestare
un’opera musicale; le lacune del testo, invece, furono quindi suturate molto bene al punto che è riuscito a dar voce ai silenzi
attraverso la musica, talvolta parafrasando in suoni ciò che Wilde non fece in tempo a esplicitare in parole.
La vicenda narra di Simone, ricco mercante fiorentino che ritornando a casa e trova la moglie Bianca sola con un giovane
nobile, Guido Bardi, rampollo unigenito del principe di Firenze. Simone tenta di eludere la scabrosità della situazione
sciorinando la logorrea tipica degli affaristi e, facendo mostra di credere che Guido si trovi in casa sua per motivi di affari, gli
propone l’acquisto di alcune merci particolarmente preziose. Di fronte alla spavalda insolenza con cui il rivale gli replica,
Simone, pur conservando un contegno impenetrabile, sente ribollire il sangue e incomincia a lasciar cadere una serie di
allusioni sinistre. Quando Guido, dopo aver baciato Bianca, manifesta l’intenzione di congedarsi, Simone lo costringe a
duellare con lui e, avuta la meglio, lo strangola; ma quando si volta verso la moglie infedele, deciso a uccidere anche lei,
avviene un inaspettato rovesciamento di sentimenti: fissandosi negli occhi i due cadono l’una nelle braccia dell’altro,
chiedendosi in eco: “Perché non mi hai mai detto che eri così forte?” – “Perché non mi hai mai detto che eri così bella?”.
I tre protagonisti interagiscono ogni momento con la musica, sia con la voce, che con i movimenti scenici creando un tutt’uno
armonico con le intenzioni del musicista che gli sono suggerite dalla prosa; infatti il testo letterario si configurava come
tragedia della “procrastinatio”, tutta intessuta cioè sul continuo differimento del climax conclusivo: Zemlinsky ottiene
musicalmente un effetto analogo imbrigliando l’orchestra e lasciandola sfogare in un crescendo risolutivo solo negli ultimi
minuti dell’azione. Le sonorità di Zemlinsky sono un continuo ricamo che sottilmente si insinua nel testo: questa partitura
calibrata sui particolari, nasce dalla precisa volontà di tradurre in forma artistica adeguata l’eleganza minuta del verso di
Wilde, già necessariamente illanguidito dalla traduzione tedesca in prosa. Il preludio iniziale non assolve solo una funzione
introduttiva, ma sostituisce la scena d’amore fra Guido e Bianca, ovviando in parte all’incompiutezza del lavoro wildiano.
Carsten Wittmoser (nel ruolo di Simone) domina la prima parte dell’atto unico con una presenza scenica di notevole
spessore, riuscendo a trasmettere alla platea le intenzioni dell’autore di essere colui che domina il gioco sino alla fine; un
dominio scenico e vocale dove si nota un bellissimo timbro baritonale con una voce morbida e, sensuale e quando
necessaria anche irruente, forse generalmente un po’ debole per un’opera in cui l’orchestrazione, sia pur con notevoli
sfumature, è sempre tendenzialmente al massimo dell’organico strumentale.
Il ruolo di Guido Bardi è stato interpretato dal bravissimo tenore Zoran Todorovich, ormai veterano di questa partitura, che si è
dimostrato un ottimo attore e un cantante preparato sia da un punto di vista tecnico che interpretativo, riuscendo assieme alla
mimica corporea ed anche facciale a trasmettere le emozioni proprie del personaggio, attanagliato dall’amore per Bianca e
dal fatto di essere stato colto sul “fattaccio” dal di lei marito. Nei suoi slanci vocali non ha mancato di farci udire un timbro
squillante, potente e allo stesso tempo molto corposo, assieme a dinamiche più calme dove anche il sussurro della voce,
soprattutto nel duetto della seconda scena d’amore con Bianca, si è ben amalgamato con la voce dell’amata e con
l’accompagnamento orchestrale.
Barbara Haveman (Bianca) è il terzo personaggio di questo lavoro musicale e forse quello meno valorizzato dallo scrittore e
quindi dal compositore; il suo ruolo è relegato a poche frasi e trova il suo sfogo maggiore nel duetto verso la fine dell’opera
con Guido; duetto comunque di grande pathos che necessita di una vocalità importante sicura e squillante che non è
mancata nell’emissione di Haveman che oltre a questo, si è imposta anche come una bravissima interprete a livello teatrale
riuscendo ad essere topica nei momenti chiave come quando nel duello tra i due uomini incoraggia l’amante con le parole
“Töt ihn, töh ihn....” (uccidilo, uccidilo) ed alla fine quando si rivolge al marito affascinata dalla sua forza: “Warum hast du mir
nicht gesagt, daß du so stark?” nel già citato “Perché non mi hai mai detto che eri così forte?”
La regia di Daniel Benoin, che ha curato anche le luci, non si è attenuta all’ambientazione seicentesca dell’originale lavoro di
Wilde, ma ha immaginato l’ambientazione dell’opera nella Firenze anni ’30 del Novecento, in pieno periodo mussoliniano;
non mancano infatti i riferimenti al “Duce” che troneggia sullo sfondo della vetrata del negozio del mercante fiorentino,
contornata dalla presenza di figuranti vestiti in abiti militari inneggianti il periodo storico e il cambio di abito di Simone per la
scena finale che assume le sembianze di un generale “fascista” in perfetto stile “camicie nere” ed in tale vesti affronta a
duello il rivale e lo uccide avvolgendolo nei sui tessuti che durante questo concito momento, con un bellissimo colpo di
teatro, “piovono” a mano ma mano dall’alto, formando delle meravigliose cascate a mo’ di tenda. È qui che si consuma la
sconfitta del dandy da parte del mercante-fascista e si evidenza con intensità il prevalere della forza (forse vista dal regista
nella componente “politico-fascista”) sulla bellezza, rappresentata dall’amore seppur clandestino del principe fiorentino. Le
scenografie di Rudy Sabounghi e i costumi di Nathalie Bérard-Benoin, si sono magistralmente incastrati in questa
intelligente attualizzazione anni ’30, forse con qualche licenza di troppo: la trasformazione di un liuto, in una chitarra ed il
finale dove vediamo Simone uscire accolto dal saluto a mano destra tesa dei figuranti fuori dal negozio.
Impeccabile e aderente alla partitura di Zemlinsky, la direzione di Pinchas Steinberg che ha ben dinamizzato tutto il
cromatismo che pervade l’intera opera senza mai sconfinare in forzature artificiose; tale cromatismo infatti proprio per volontà
del compositore si sovrappone con grazia perfetta agli addentellati del testo e il direttore ha saputo ben cogliere questo
aspetto, donandoci delle sonorità molto vive e carnali rispettando sempre le voci sul palcoscenico.
Con i Pagliacci di Ruggero Leoncavallo ci siamo trasportati nel melodramma più classico e conosciuto. Il libretto, redatto
dallo stesso Leoncavallo, trae argomento da un fatto di cronaca realmente avvenuto a Montalto Uffugo in Calabria, un delitto
di gelosia che originò un processo in cui fu giudice proprio il padre del compositore. Assieme alla Cavalleria rusticana di
Mascagni, di poco precedente, Pagliacci segna una tappa di rilievo sulla via dell’emancipazione dal persistente predominio
verdiano: va ricordato che proprio negli stessi anni l’anziano e glorioso compositore proponeva il proprio capolavoro estremo,
Falstaff (1893).
Rispetto a Mascagni il componimento di Leoncavallo condivide l’ambientazione nel meridione d’Italia, ma il suo libretto non
si limita a proporre una tranche de vie. Fin dal prologo, da considerarsi quasi come il manifesto programmatico del verismo
musicale, si nota un meccanismo sofisticatissimo di trapasso tra piani narrativi diversi, con esiti metateatrali sottilmente
intellettuali che anticipano i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Nell’atto secondo il clima giocoso del ‘teatrino’,
sorretto da una squisita musica di pantomima, sfocia nella truculenta tragedia finale, a sua volta suggellata dal rientro nel
filone drammatico principale («La commedia è finita!»). Inoltre l’utilizzo delle maschere italiane e della commedia dell’arte
mette il capolavoro di Leoncavallo al passo con i conseguimenti scenici allora di moda nel teatro italiano ed europeo del
primo Novecento e con autori come Stravinskij, Malipiero, Richard Strauss, Busoni, Casella. Rappresentata per la prima volta
al Teatro Dal Verme di Milano il 21 maggio 1892, sotto la direzione di Arturo Toscanini, e nel giro di pochi mesi subito
rappresentata ovunque, quest’opera «possente, di rara intensità espressiva» (René Leibowitz) si contraddistingue per una
vocalità accesa e convulsa, con rapide escursioni verso l’acuto per rendere l’andamento di un discorso agitato, di sentimenti
scoperti e privi di controllo. Questo è proprio quello che si è percepito vedendo questa riproposizione del capolavoro di
Leoncavallo.
Leo Nucci nel doppio ruolo prima di Tonio e poi di Taddeo, ha subito ammaliato il pubblico nell’aria che gli è propria, dove al
pagliaccio, cui sono affidate le parole del “Prologo” si presenta come un uomo vero, dunque al di fuori della finzione,
preannunciando quello che succederà, ed è proprio questa caratteristica del personaggio che è trasparsa dalla voce del
baritono. Una voce vera, matura, sonora, avvolgente, profonda, ammaliatrice che ha conquistato il pubblico e che gli è valso
un applauso a mo’ di ovazione da parte degli astanti, ricambiato da simpaticissime faccette sullo stile delle “emoticon
elettroniche” ed uno scambio di ammicchi ed ammirazione con il direttore d’orchestra; merita qui ricordare la grandezza di
questo artista, la sua umiltà e la sua dedizione al lavoro, che all’età di settantadue primavere, riesce ancora a conquistare,
emozionare e inorgoglire il cuore di chi lo ascolta donando momenti di assoluto godimento per l’orecchio e per il cuore;
bravura e professionalità che hanno avuto riscontro in tutta l’opera, dal duetto con il soprano, alla scena nella scena del
secondo atto, dimostrando in ogni occasione di essere ormai un artista completo da cui con umiltà possiamo tutti imparare
qualcosa.
Marcelo Alvarez è stato un impeccabile Canio e successivamente Pagliaccio: ruolo considerato dai più un punto di arrivo per
la carriera di un tenore, ruolo denso di insite difficoltà, sia vocali che interpretative, ma egregiamente superate dalla
performance di Alvarez; sin dalla prima scena “A ventitré ore” si è imposto amalgamandosi ed al contempo distinguendosi
perfettamente con musica e coro, fino a seguire al momento più topico del suo ruolo “Vesti la giubba” dove abbiamo potuto
assaporare tutte le dinamiche e le sfaccettature della sua voce: la gelosia, la drammaticità, la delusione, il dolore per il
tradimento la rabbia e la sete di vendetta, tutto è trasparso nei colori dell’aria, dai pianissimo alle dinamiche più intense, si è
notata una vocalità morbida, ma al tempo stesso penetrante, un fraseggio perfetto, una dizione impeccabile ed un timbro
solare, caldo unito ad una bellissima presenza scenica, è arrivato a scaldare la platea che non ha mancato di dimostrargli il
suo gradimento con uno scrosciante applauso al termine dell’aria.
Maria Josè Siri, la protagonista femminile nel ruolo di Nedda poi Colomb ina, ha dimostrato di essere un’eccellente soprano
ed una brillante attrice: si è istrionicamente trasformata da donna impaurita, ad aggressiva contro Tonio, a sensuale e
passionale con una buona dose di carnalità con Silvio e poi risoluta e tenace fino alla morte nel finale, nei confronti di Canio,
con metamorfosi sceniche che si sono succedute insieme a quelle vocali, dimostrando di essere sempre all’altezza della
situazione con una voce robusta e sicura sia nel registro acuto che in quello più grave non perdendo mai né in brillantezza,
né in fluidità e dimostrando una perfetta padronanza della pronuncia e dello spartito.
Ottimo giudizio anche per la prestazione di Silvio, interpretato da Zhengzhong Zhou che si è imposto vocalmente e
scenicamente nel grande duetto del primo atto con Nedda, con un bel timbro vocale ed un’ottima padronanza della lingua.
Peppe alias Arlecchino nella pièce, impersonato dal tenore Enrico Casari, parimenti a tutto il cast ha interpretato il suo ruolo
dignitosamente regalandoci la “Serenata” a Colombina con un’emissione vocale morbida e ben calibrata sulle scarne note
dell’orchestra riuscendo a ben fondersi con essa.
Bravi e precisi i due contadini: Vincenzo Cristofoli e Domenico Cappuccio.
Il coro diretto dal Maestro Stefano Visconti ha assolto senza colpo ferire ai suoi momenti sia nel bellissimo brano delle
campane del primo atto “Don din don…..” sia all’inizio del secondo atto in assieme con i solisti divenendo poi lui stesso
spettatore dello “spettacolo nello spettacolo” ed interagendo con i protagonisti nei momenti ilari come in quelli tragici del
finale.
Molto appropriati i costumi di Jorge Jara, le scene di Rudy Sabounghi e le luci affidate a Laurent Castaingt che assieme al
regista Allex Aguillera hanno confezionato uno spettacolo pieno di colori, di emozioni e quasi di sapori che parevano provenire
dal palcoscenico.
Anche qui la direzione d’orchestra di Pinchas Steinberg è stata impeccabile facendoci percepire sfumature e colori di raro
sentire e fondendosi magistralmente con il palcoscenico dando sempre attacchi sicuri e precisi.
Una bella serata all’insegna di grande musica, ma soprattutto di bella esecuzione, terminata con una nota di allegria e
simpatia nei confronti di Marcelo Alvarez al quale il coro ed i colleghi del cast, accompagnati dall’orchestra, hanno intonato
“Tanti auguri a te” per festeggiarlo dei suoi anni compiuti il giorno precedente.
Crediti fotografici: Ufficio stampa Opéra di Monte-Carlo
Nella miniatura in alto: il direttore Pinchas Steinberg
Prima sequenza, Une Tragédie Florentine: Cartsen Wittmoser e Zoran Todorovich; Barbara Haveman e Wittmoser; la Haveman, Wittmoser e Todorovic
Seconda sequenza Pagliacci: Leo Nucci; Maria Josè Siri e Marcelo Alvarez; la Siri, Nucci e Alvarez