Leggi il testo di Sabrina Rastelli, curatore della mostra

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Leggi il testo di Sabrina Rastelli, curatore della mostra
Dalla tradizione Han all’eleganza Tang
Sabrina Rastelli
L’esposizione prende in esame il vasto periodo compreso fra la dinastia Han Orientale (25-220) e quella
Tang (618-907), durante il quale la civiltà cinese subì radicali trasformazioni.
L’intervallo di tempo intercorso fra il crollo della dinastia Han Orientale e la riunificazione della Cina da
parte della dinastia Sui (581-618) è tradizionalmente considerato un’epoca inquieta, “buia”, durante la quale
il paese era diviso politicamente e culturalmente fra nord e sud, est e ovest.
Tuttavia, scavi archeologici recenti e nuovi studi stanno dimostrando che in realtà quel periodo della storia
cinese fu tutt’altro che un deserto culturale e rappresentò invece un momento di rigenerazione e fioritura
delle arti, stimolate dagli scambi interculturali con Roma, la Persia, l’India e l’Asia Centrale, culminato nella
civiltà cosmopolita dei Tang (618-907). Le guerre intestine e le successive ondate di conquista da parte di
milizie straniere, infatti, non portarono solo sangue e devastazioni, ma anche nuove idee che stimolarono la
creatività, non più vincolata alla rigida etica confuciana.
Gli intensi scambi commerciali via terra e via mare, con l’estero e fra gli stati cinesi, trasformarono inoltre
la Cina in un crocevia di culture che, una volta integrate con quella cinese tradizionale – basata sui principi
del confucianesimo e del daoismo – determinarono la grande rinascita del VII-VIII secolo.
La mostra adotta questa nuova prospettiva, con la scelta di opere che evidenziano la qualità e la vitalità della
cultura del periodo fra le due grandi dinastie Han e Tang, e rivelano come da quella tradizionale del primo
impero – attraverso l’assimilazione d’influenze di un momento storico politicamente turbolento, ma
intellettualmente florido – si sia giunti all’“età d’oro” della dinastia Tang, senza ignorare il ruolo
fondamentale giocato dalle teorie estetiche e dalle arti sviluppate nella Cina meridionale nel periodo di
divisione del paese.
Dinastia Han Orientale (25-220)
La dinastia Han è storiograficamente suddivisa in Han Occidentale (206 a.C. - 23 d.C.) e Han Orientale,
perché la capitale fu spostata da Chang’an (l’attuale Xi’an) a Luoyang, più a oriente rispetto alla precedente,
dopo l’interruzione provocata dall’ascesa al trono di Wang Mang (r. 9-23); pur trattandosi della stessa stirpe,
i due periodi sono molto diversi e distinti per vicende politiche e per espressioni culturali.
La dinastia Han Occidentale portò a compimento il lungo processo di formazione della civiltà cinese, iniziato
molti secoli prima, con la definitiva trasformazione del sistema politico e sociale inaugurata dal Primo
Augusto Imperatore (r. 221-210 a.C.): il vecchio ordinamento, basato sui rapporti di parentela, fu soppiantato
dal nuovo, che prevedeva la suddivisione del territorio in governatorati e distretti, retti da funzionari di
nomina imperiale. Tale centralizzazione del potere permise un controllo capillare del territorio, agevolando
così la diffusione ampia del confucianesimo, che venne adottato come ideologia ufficiale. I funzionari
incaricati di amministrare i governatorati e i distretti in cui era diviso il paese non erano tecnici, bensì,
diremmo noi oggi, uomini essenzialmente di lettere, formati presso l’Università Imperiale dopo anni di
studio dei testi classici.
Il potere politico Han era infatti legittimato all’esercizio del governo in virtù della condivisione di principi
etico-religiosi elaborati durante la prima fase del dominio Zhou (1045-221 a.C.) e celebrati in alcuni
preziosissimi manuali dal carattere sacro e, insieme, etico-politico. Fin dalla loro compilazione, tali scritti
avevano costituito il cardine dell’educazione degli aristocratici e in epoca Han da questo corpus andò
formandosi il nucleo del cosiddetto Canone Confuciano, dal quale, appunto, gli uomini di stato e gli aspiranti
virtuosi traevano modelli cui ispirarsi
L’armonia sociale e cosmica, intesa come ideale assoluto cui tendere, era realizzabile grazie alla corretta
interpretazione di rapporti gerarchici e richiedeva l’esercizio delle virtù morali e l’interpretazione confacente
di quei ruoli che ognuno incarnava in seno alla comunità sociale: come in un solenne rito, siffatto insieme di
norme cerimoniali regolava i rapporti fra le persone e dettava ciò che era appropriato o sconveniente nelle
varie circostanze. L’autocoltivazione, momento preliminare e, dunque, fondante dell’agire politico, si basava
sullo studio e sulla pratica assidua di poesia, musica e calligrafia. Inevitabile, quindi, che la cultura
confuciana Han influenzasse pesantemente le arti in Cina. A essere ancora più precisi, il confucianesimo
permeò ogni aspetto della vita nel Paese di Mezzo ed è proprio in questo contesto che si formò il concetto,
imprecisato e dunque duttile, di “tradizione cinese”, gelosamente conservato e tramandato nei secoli
successivi fino ai giorni nostri.
L’arte Han Occidentale era contrassegnata dall’omogeneità del linguaggio artistico formulato in questo
periodo, condiviso dai vari mezzi espressivi e diffuso in ogni regione dell’impero. Tale unitarietà era
certamente determinata dalla presenza di un forte stato centralizzato, ma la sua ragione intrinseca risiede
nell’ideologia dell’epoca, secondo la quale il Cielo, la Terra e l’uomo erano elementi di un insieme il cui
buon funzionamento era assicurato dall’applicazione delle virtù confuciane: se gli uomini, a partire
dall’imperatore, considerato il mediatore fra Cielo e Terra, osservavano i valori etici confuciani, l’armonia
era garantita. Ogni manifestazione artistica esprimeva questa interpretazione metafisica e cosmologica
dell’universo; tuttavia, già nel I secolo a.C., l’attenzione cominciò a spostarsi lentamente da un’arte
ornamentale, dominata dalfantastico, a una figurativa, concentrata sul mondo reale; il passaggio si concluse
durante la dinastia Han Orientale, quando prese il sopravvento la corrente filosofica razionalistica, secondo
la quale non esisteva una corrispondenza fra Cielo e Terra e l’uomo non occupava una posizione
privilegiata nell’universo.
L’arte del periodo Han Orientale è dominata da alcune tematiche ricorrenti: la protezione della tomba, ben
illustrata dalla monumentale scultura in pietra raffigurante un animale fantastico con funzione di protettore
contro gli spiriti maligni (cat. 1); la celebrazione della vita del defunto con riferimenti specifici alla carriera,
come dimostra la magnifica processione di carri e cavalli di bronzo da Levitai (cat. 2); infine la ricchezza,
indissolubilmente legata alla proprietà fondiaria, rievocata da complessi modelli in terracotta di abitazioni,
torri di guardia, vere da pozzo, mulini, granai, porcili, stie, pollai ecc. (cat. 3-6), deposti in grande quantità
nelle sepolture dell’alta società, costituita prevalentemente da grandi famiglie latifondiste.
Periodo dei Tre Regni (220-280) e dinastia Jin Occidentale (265-316)
Gli intrighi e le lotte di corte tra la fazione delle grandi famiglie ricche e influenti, da cui provenivano le
imperatrici, e gli eunuchi, progressivamente più potenti, le rivolte popolari scoppiate in diverse regioni del
paese e la pressione esercitata dalle popolazioni nomadi sui confini settentrionali determinarono il crollo
della dinastia Han Orientale. La disgregazione dell’impero nel 220 non ebbe ripercussioni immediate in
campo artistico, poiché i signori dei successivi tre regni – Wei, Wu e Shu – in cui fu smembrata la Cina si
ritenevano eredi legittimi dei sovrani Han e tentarono in ogni modo di restaurarne la gloria.
Nel 280 Sima Yan, che nel 265 aveva sancito la fine della dinastia Wei (220-265) fondando quella Jin
Occidentale (265-316), ci riuscì, sebbene solo per un breve periodo di circa trent’anni. Le immagini dipinte
sul gruppo di mattoni (cat. 11) rinvenuti in alcune tombe scoperte nella regione occidentale del Gansu, e
databili dalla dinastia Wei a quella Jin Occidentale, ritraggono scene di vita quotidiana: un contadino con il
suo pagliaio; la macellazione di un maiale; l’allevamento di cammelli bactriani; un carro trainato da un bue;
una scena ludica; due uomini che suonano, ma anche un Immortale trasportato da un pesce.
L’incoerenza di stile riflette probabilmente lo status sociale del defunto: alcune mattonelle mostrano figure
tracciate molto rapidamente, quasi abbozzate, altre sono molto più curate e rivelano lo stesso trattamento di
volumi e contorni che si nota sulle pitture parietali (fig. 1) o sulle mattonelle delle tombe Han (cat. 8-10). Il
colore è applicato uniformemente, senza gradazioni, perciò la resa dei volumi è affidata alle modulazioni
della linea di contorno, che contiene profili vibranti ed espressivi; lo sfondo non è mai descritto, ma la
posizione delle figure riesce quasi sempre a suggerire l’idea di spazio. La somiglianza stilistica con la pittura
Han Orientale potrebbe essere dovuta al fatto che il Gansu, la regione di provenienza delle mattonelle, era
divenuto una sorta di rifugio per gli intellettuali in fuga dal clima insalubre degli ambienti politici nel III
secolo.
Un’importante tomba, scoperta appena due anni fa nei pressi di Nanchino, probabilmente appartenente a un
membro della famiglia reale del regno di Wu (222-280), ha restituito molti reperti, incluso il gruppo di figure
in piedi e il suonatore di qin in mostra (cat. 108), che testimoniano la continuità culturale rispetto alla
dinastia Han, ma mostrano anche elementi peculiari, soprattutto nell’abbigliamento e nelle acconciature: le
ampie gonne impreziosite da drappeggi, le giacche paricollo abbottonate sul davanti, i pantaloni lunghi, la
casacca e i capelli raccolti in maniera singolare segnalano un gusto meridionale non condiviso al nord.
Sempre dalla Cina meridionale provengono ceramiche che manifestano la rottura con la tradizione
precedente.
Nel primo periodo di divisione del paese, i vasai delle fornaci di Yue – distribuite vicino alle coste delle
regioni meridionali del Jiangsu e del Zhejiang, celebri per la produzione di ceramica cotta ad alta
temperatura (grès) rivestita con invetriatura verde (celadon) – affrancarono finalmente la ceramica dal ruolo
di surrogato di materiali pregiati, creando forme inedite, con funzioni originali. L’urna funeraria hunping
(cat. 7), con la sua complessa iconografia, è distintiva di questo periodo e testimonia il sincretismo religioso
dell’epoca: impiegata come “sede dell’anima” nei rituali funebri peculiari dell’area circostante il basso corso
dello Yangzi e deposta nella tomba per calmare l’anima del defunto, essa mostra anche immagini raffiguranti
il Buddha, a testimonianza che questa religione aveva raggiunto la Cina meridionale, forse via terra dal nord,
o forse direttamente via mare (si veda il saggio di Stefano Zacchetti in questo catalogo). Anche la giara
decorata con motivi dipinti sotto l’invetriatura (cat. 70) è molto insolita: la tecnica è una novità assoluta e il
soggetto scelto è altrettanto sorprendente, con animali fantastici, fiori non identificabili e riccioli piumati
racchiusi in medaglioni circolari separati da componenti cruciformi; gli elementi ornamentali e la loro
distribuzione evocano influenze inusuali, dalle quali si evince che, nonostante i problemi politici, la Cina dei
Tre Regni e dei Jin Occidentali non fu artisticamente statica, ma piuttosto animata da forze innovative.
In questo periodo divenne palese che l’ideologia confuciana, fortemente ritualizzante, non era in grado di
restaurare né preservare l’impero, così com’era stato concepito in epoca Han; la disillusione verso il
confucianesimo lasciò inevitabilmente un vuoto, ma stimolò al contempo un’intensa ricerca spirituale. Taluni
principi daoisti, in particolare il senso profondo della natura e della spontaneità, offrirono immediatamente
una valida alternativa alla rigida organizzazione politico-sociale imposta dalla dottrina tradizionale.
Inizialmente i giovani eruditi reagirono attuando una rivolta negazionista con la quale mettevano al bando la
società, le sue convenzioni e ogni coinvolgimento politico, per dedicarsi invece ai piaceri individuali; essi si
riunivano spesso in cenacoli dove componevano versi, suonavano, bevevano alcolici – usando graziose
coppe ovali con manici come quelle in mostra (cat. 72) – e conversavano. Le cosiddette “conversazioni pure”
erano particolarmente care ai colti gentiluomini, poiché erano l’occasione per esprimere considerazioni
personali sui più svariati argomenti in modo libero e spontaneo, sempre utilizzando un linguaggio forbito
rivelatore delle emozioni individuali e della sensibilità dei partecipanti. Il gruppo più celebre d’intellettuali
del III secolo, immortalato lungo il corridoio di una tomba della fine del V - inizio del VI secolo nei pressi di
Nanchino, è quello dei “sette saggi del boschetto di bambù”, che vantava esponenti del calibro di Ruan Ji
(210-263), Li Kang (223-262) e Liu Ling (221-300): essi solevano riunirsi in un boschetto nei pressi di
Luoyang e, quando nel 316 la capitale fu rasa al suolo dai Xiongnu – un gruppo di tribù nomadi che dal I
secolo erano gradualmente penetrate in Cina settentrionale (si veda il saggio di Nicola Di Cosmo in questo
catalogo), si trasferirono a Nanchino, dove continuarono a incontrarsi regolarmente.
La ricerca di un contatto diretto e intimamente partecipato con la natura da parte della classe più elevata
culturalmente ebbe ripercussioni enormi sulla letteratura e sull’arte, che cominciarono a emanciparsi dalla
funzione educativa e morale imposta loro dal confucianesimo per acquisire nel tempo piena autonomia.
Dinastia Jin Orientale (317-420) e periodo dei Sedici Regni (304-439)
La riunificazione dell’impero da parte di Sima Yan ebbe breve durata: la mancanza di un governo
istituzionale e le lotte di egemonia fra famiglie potenti devastarono la Cina settentrionale, sconvolgendone
l’economia e costringendo la popolazione a migrare verso sud. La dinastia Jin Occidentale fu infine travolta
dai Xiongnu: nel 304 proclamarono l’indipendenza di Bingzhou, nell’odierno Shanxi, dove si erano stabiliti
da tempo; nel 311 occuparono la capitale Luoyang e nel 316 conquistarono anche Chang’an, dove nel
frattempo si era rifugiata la corte Jin.
Affinché lo scenario risulti maggiormente comprensibile, è necessario distinguere le vicende storiche e i
relativi esiti artistici che si susseguirono a nord e a sud della Cina. Nel 317 un membro della famiglia
imperiale, Sima Rui, fuggito a sud, si proclamò imperatore dei Jin Orientali, con capitale a Jiankang, odierna
Nanchino. Oggi le regioni del basso corso dello Yangzi sono l’area economicamente più ricca e densamente
abitata della Cina, tuttavia nel III secolo quella era una zona scarsamente popolata e poco toccata dalla civiltà
cinese. Nella Cina imperiale il centro culturale era sempre stato al nord, intorno alle capitali Chang’an e
Luoyang; la fuga della corte Jin e soprattutto la migrazione delle centinaia di migliaia di persone di ogni
estrazione sociale dal nord, devastato da guerre intestine e invasioni straniere, al sud, immenso e in larga
parte ancora incontaminato, provocarono lo spostamento del centro culturale nel bacino inferiore dello
Yangzi.
Le genti del nord mantennero i loro costumi, la loro lingua e le loro tradizioni anche dopo essersi trasferiti
nel meridione, sovrapponendosi alla popolazione autoctona, e la corte meridionale si propose
immediatamente come erede legittima della tradizione cinese che, attraverso i Jin Occidentali e i Wei,
risaliva all’impero Han sia nei confronti dei conquistatori stranieri settentrionali sia verso le popolazioni
native meridionali.
Le mutate condizioni politiche, sociali e geografiche non potevano non avere ripercussioni sull’evoluzione
culturale; politicamente i Jin Orientali non riuscirono mai a consolidare il loro dominio, costantemente
minacciato da intrighi di palazzo e interessi personalistici, ma culturalmente inaugurarono un periodo
estremamente felice: due dei più grandi artisti della storia cinese, il calligrafo Wang Xizhi (321-379) e il
pittore Gu Kaizhi (344-406 circa) furonoattivi proprio a Nanchino.
Dopo il trasferimento, l’intellighenzia cinese continuò a dedicarsi alle “conversazioni pure” e alla ricerca di
un rapporto più intimo e vissuto con la natura, ma abbandonò la condotta antisociale che aveva adottato dopo
il crollo della dinastia Han e cercò invece di favorire la libera espressione delle voci individuali all’interno
della società.
Proprio in virtù del nuovo clima intellettuale instauratosi, la pittura fu riconosciuta come forma d’arte
insieme alla poesia e alla calligrafia; emerse la figura dell’artista come individuo e fiorirono nuove teorie
ispirate al mondo naturale, che fornirono alle arti originali e innovativi contenuti estetici e formali.
Come in ogni civiltà antica, anche in Cina la scrittura era appannaggio di pochi, ma, a differenza di altri
paesi, qui fu riconosciuta come arte visiva prima ancora della pittura, e per i cinesi è tuttora la forma d’arte
più stimata in assoluto. Alla fine della dinastia Han Orientale, i letterati avevano sviluppato uno stile di
scrittura per uso privato, più semplice e rapido, detto caoshu, alla lettera “scrittura a erba”, ma comunemente
reso con “scrittura corsiva”; la semplificazione si traduceva nell’eliminazione di alcuni tratti e nel
collegamento dei caratteri. Soprattutto nella corrispondenza fra amici, lo caoshu permetteva una grafia più
spontanea e soggettiva che rivelava le emozioni e la personalità dell’autore: il riconoscimento della scrittura
come forma d’arte è legato proprio a tale concetto e alla convinzione che le qualità personali dell’individuo
fossero determinanti nella realizzazione di un’opera esteticamente pregevole.
Nel III secolo la calligrafia fu elevata, al pari della poesia, a espressione artistica adeguata al gentiluomo
colto, che la praticava come passatempo, proprio come componeva versi; ciò non significa che essa fosse un
semplice diversivo: era piuttosto una disciplina intellettuale, per eccellere nella quale era necessario
possedere le virtù del gentiluomo e praticarla assiduamente, studiando i maestri del passato.
Il più celebrato calligrafo di tutti i tempi fu Wang Xizhi, originario di una famiglia aristocratica molto
influente presso la corte Jin Orientale; la sua fama divenne leggendaria in epoca Tang – l’imperatore Taizong
(r. 627-649) ordinò di essere sepolto con la sua opera più apprezzata, la Prefazione del padiglione
dell’orchidea , ma già i suoi contemporanei stimavano e collezionavano i suoi scritti. Egli creò un nuovo
stile, detto “corsivo corrente” (xingshu) che “incede come una nube fluttuante e si ritira come un serpente
spaventato” (Juliano 1996, p. 288); purtroppo nessuna sua opera originale è giunta fino a noi, perciò per
ammirare la sua calligrafia possiamo solo ricorrere a copie più tarde (fig. 2).
All’incirca coevo di Wang Xizhi e altrettanto famoso fu un altro aristocratico, Gu Kaizhi, che eccelse nella
pittura di ritratto e divenne il pittore più noto della dinastia Jin Orientale; ma la letteratura critica enuncia i
nomi di molti altri artisti, dimostrando quindi che già nel IV secolo la pittura era ritenuta una forma d’arte
autonoma, rispettata come la poesia e la calligrafia in quanto, al pari di esse, era considerata un mezzo
adeguato per esprimere la personalità superiore e le emozioni del gentiluomo colto. Emerse così la figura del
pittore-artista, ben distinta da quella del pittore-decoratore che per secoli aveva dipinto le pareti di palazzi,
tombe e templi.
Per esprimere i loro sentimenti, i pittori gentiluomini adottarono nuovi formati e materiali: nacque allora il
rotolo orizzontale portatile (fig. 3), impiegato anche per la calligrafia. Esso consisteva in una striscia di seta,
e successivamente di carta, di lunghezza variabile, sulla quale l’artista dipingeva il soggetto o scriveva i
caratteri; l’opera veniva montata su un supporto di carta alla cui estremità sinistra veniva fissato un bastone a
sezione circolare, mentre a destra si trovava una bacchetta semicircolare; il dipinto (o la calligrafia) era
arrotolato intorno al bastone e lo si osservavo non srotolandolo completamente, ma una sezione per volta,
tirando il lembo destro e leggendolo da destra verso sinistra.
Gu Kaizhi fu anche autore di scritti critici, fra i quali i Saggi sulla pittura (Lun hua), in cui esaminava opere
del III e IV secolo e soprattutto spiegava l’obiettivo della ritrattistica: “trasmettere lo spirito”, cioè con
grandi capacità introspettive saper carpire non solo l’apparenza fisica, ma principalmente lo spirito del
soggetto, attraverso posture, gesti e sguardi. Purtroppo nessuna opera originale di Gu è a noi pervenuta, ma
da una copia dell’VIII secolo dei Consigli dell’istitutrice alle dame di corte, conservata al British Museum, è
possibile intuire come il grande pittore traducesse i suoi principi teorici su seta. Il rotolo orizzontale (lungo
350 centimetri!) illustra l’omonimo testo letterario di alto tono morale, composto da Zhang Hua (232-300)
nel III secolo, in cui un’istitutrice di corte istruisce le dame del gineceo di palazzo sul comportamento da
tenere in circostanze delicate. Le immagini sono separate dal testo che descrivono (fig. 4), secondo
unoschema compositivo tipico dell’arte pittorica Han, ma iltentativo di caratterizzare i personaggi è una
novità assoluta: l’aspetto stereotipato delle figure Han (fig. 1) è sostituito da espressioni, atti e pose che
suggeriscono contemplazione interiore e spessore intellettuale, trasformando così i simboli in
rappresentazioni reali. Forse non è un caso che con l’affermazione dell’individualità del pittore si diffonda
anche la personalizzazione dei ritratti, mentre il soggetto confuciano rivelava che, nonostante l’intellighenzia
avesse ormai abbracciato teorie daoiste, il rispetto del corretto codice di comportamento continuava a essere
profondamente radicato nell’aristocrazia cinese.
Come osservato sulle mattonelle di epoca Han (cat.11), anche nei Consigli dell’istitutrice la linea
dell’orizzonte e la profondità spaziale sono suggerite soltanto dalla posizione delle figure e dalla presenza di
alcuni elementi di arredamento, ma sembra che in altri casi lo stesso Gu Kaizhi sia ricorso a un impianto
diverso. Nella Ninfa del fiume Luo, per esempio, di cui conosciamo solo copie molto più tarde (fig. 5), gli
episodi della triste storia d’amore fra la divinità del fiume e un giovane mortale, ispirati all’opera letteraria
composta da Cao Zhi (192-232) all’inizio del III secolo, non sono separati dal testo né da singoli elementi,
ma si susseguono ininterrottamente. I protagonisticompaiono ogni volta che il racconto lo richiede, secondo
la tecnica della narrazione continua, inseriti nell’ambiente circostante, introducendo così due grandi
innovazioni nell’arte pittorica: la ripetizione dei personaggi e l’esordio del paesaggio. Le figure umane,
emotivamente caratterizzate secondo le teorie di Gu, sono ancora protagoniste, mentre il paesaggio fa da
sfondo, come lo scenario a teatro, con i suoi elementi stereotipati: rocce e colline sono disegnate con linee
dello stesso spessore, le proporzioni e la prospettiva sono poco rispettate. Tuttavia, la comparsa del
paesaggio è senza dubbio rivoluzionaria e può essere attribuita a una combinazione di fattori: da una parte il
ruolo essenziale rivestito dalla natura nella filosofia daoista abbracciata dagli intellettuali sin dal III secolo,
dall’altra l’imitazione degli affreschi nei templi rupestri che descrivevano le numerose storie buddhiste. La
narrazione continua rappresentava, infatti, una novità per la Cina del IV secolo, ma non per l’India. In
quest’opera straordinaria è innovativo anche il soggetto, poiché il suo tema dominante non è più la virtù
femminile, esaltata nei Consigli dell’istitutrice, bensì la bellezza muliebre che ispira forti emozioni.
Tradizionalmente, si è ritenuto che, a causa della travagliata situazione politica della Cina del IV secolo e del
diverso sviluppo culturale delle due maggiori aree geografiche in cui era diviso il paese, i rapporti fra nord e
sud consistessero esclusivamente in scontri armati; tuttavia il ritrovamento di alcuni reperti, fra i quali il
bicchiere di vetro romano in mostra (cat. 68), prova il contrario: l’oggetto in questione è stato ritrovato in
una tomba nei pressi di Nanchino databile intorno al 322, mentre un altro molto simile è emerso da un
cimitero del III-V secolo, situato vicino a Lop Nor, lungo la Via della Seta (An Jiayao 2004, pp. 210-211).
Mentre al sud questi nuovi, rivoluzionari fermenti movimentavano la vita culturale, la Cina settentrionale era
nel caos più totale: dalla dichiarazione d’indipendenza dei Xiongnu di Bingzhou, nel 304, all’unificazione
del nord a opera della dinastia Wei Settentrionale (386-534), nel 439, si succedettero ben sedici regni da cui
il nome del periodo – fondati dalle élite di vari gruppi etnici, provenienti dalle steppe del nord o dalle
frontiere occidentali (si veda il saggio di Nicola Di Cosmo in questo catalogo). Gli stati nascevano nel
momento in cui una lega di tribù nomadi reclamava il dominio sui territori che aveva conquistato
sottomettendo signori della guerra locali e tenute fortificate, e spesso costringendo almeno una parte della
popolazione del luogo a migrare nelle zone di originedei conquistatori, con inevitabili conseguenze sulla
mescolanza dell’etnia cinese con quelle straniere.
Le tenute fortificate risalivano alla fine della dinastia Han Orientale, quando i disordini sociali e politici
avevano indotto i grandi proprietari terrieri a difendere i loro possedimenti fortificandoli e dotandoli di
milizie private; da grosse imprese agricole, attente alle esigenze di mercato, le grandi tenute andarono
trasformandosi in enclaves autarchiche, all’interno delle quali vivevano contadini dipendenti, eserciti privati,
servi e schiavi; tale sistema fu addirittura rafforzato dopo il crollo della dinastia Han e mantenuto anche nei
secoli successivi.
I sedici stati, mancando di un sistema istituzionale ed economico, si rivelarono estremamente effimeri, anche
quando riuscivano a estendere i loro confini a tutte le regioni settentrionali, come i Qin Anteriori (351-394),
di etnia Di, con capitale a Chang’an; nel 383 essi tentarono addirittura la conquista del sud, ma l’esercito dei
Jin Orientali, sebbene numericamente inferiore, respinse l’attacco nella memorabile battaglia del fiume Fei,
nello Anhui: due sculture di terracotta, raffiguranti rispettivamente un soldato del sud e un militare di origine
straniera proveniente dal nord, restituite da due tombe nei pressi di Nanchino, evocano il fatidico evento
storico (cat. 49 e 50).
La sconfitta fu deleteria per i Qin Anteriori e il nord tornò a essere teatro di continui e incessanti conflitti
armati, finché prevalsero i Wei Settentrionali: essi appartenevano al ramo Tuoba dell’etnia Xianbei,
originaria delle steppe, che, insieme ad altri gruppi della stessa popolazione, si erano stanziati lungo i confini
settentrionali dell’impero Han e dei due successivi, Wei e Jin Occidentale.
Nel 338 i Tuoba Xianbei avevano fondato lo stato di Dai – Mongolia centro-meridionale e Shanxi
settentrionale – fissando la capitale a Shengle, l’odierna Horinger, in Mongolia interna; nel 376, durante le
campagne di conquista dei Qin Anteriori, il sovrano dello stato di Dai e suo nipote, Tuoba Gui (371-409), di
cinque anni, furono catturati e portati a Chang’an, dove Tuoba Gui ricevette un’educazione di stampo cinese,
con forti influenze daoiste.
Tornato in patria, nel 386 Tuoba Gui cambiò il nome del suo regno da Dai in Wei e l’anno successivo
assunse il titolo di imperatore: da allora, i Wei Settentrionali rivolsero le armi verso gli stati rivali e nel 439
completarono la conquista della Cina settentrionale.
Dai ritrovamenti archeologici, purtroppo ancora scarsi, si evince che, nonostante il caos politico e le
devastazioni militari, i corredi funebri erano ancora molto curati: i due cavalli con armatura (cat. 126), le
musiciste assise (cat. 109) e il gruppo di suonatori a cavallo (cat. 127) provengono tutti dalla medesima
sepoltura, scoperta nel 2001 nei pressi di Xianyang, nello Shaanxi; non è stato possibile identificare il
proprietario della tomba, ma dal suo corredo si deduce che apparteneva all’alta società Qin Anteriore o Qin
Posteriore (384-417). La corazza lamellare completa dei cavalli, fra le più antiche finora scoperte in Cina,
realizzata con estrema meticolosità, rivela quanta parte avesse la guerra nella vita dell’epoca e le staffe,
introdotte in Cina non prima della fine del IV secolo, testimoniano l’influenza esercitata dalle popolazioni
straniere – in questo caso il ramo Murong dell’etnia Xianbei (Watt et al. 2004, pp. 14 e scheda 41). Tuttavia,
oltre alla guerra, c’era posto anche per il divertimento, come attesta il delizioso gruppo di intrattenitrici
sedute, intente a suonare rispettivamente un piccolo tamburo, il pipa, strumento a corda originario del Vicino
Oriente analogo al liuto, il qin, a corde pizzicate tipo cetra, considerato lo strumento musicale più prestigioso
della Cina antica, e uno a fiato simile al piffero, a giudicare dalla posizione delle mani della suonatrice.
La banda a cavallo suona invece un tamburo, analogo a quello della prima suonatrice, un corno lungo –
sconosciuto al repertorio di strumenti cinesi – e il paixiao, una sorta di flauto di Pan; la loro non è musica da
intrattenimento, ma piuttosto militare, in questo caso probabilmente di accompagnamento al funerale. Il
corno lungo e i tratti fisionomici dei suonatori a cavallo tradiscono la loro origine straniera e testimoniano
una sovrapposizione di culture nella Cina settentrionale del IV-V secolo, mentre l’esecuzione meticolosa di
tutte le sculture di terracotta incluse nel corredo della tomba rivela l’interesse degli artigiani per il realismo,
per quanto le figure appaiano più statiche rispetto a quelle di epoca Tang.
Il corredo funebre della tomba di Xianyang includeva anche altri oggetti, come alcuni animaletti di terracotta
e un recipiente per liquidi huzi, molto diffusi nelle sepolture meridionali (cat. 71) fra il III e il V secolo, ma
ritrovati anche al nord, a dimostrazione che in realtà il confine culturale fra nord e sud era meno marcato di
quello politico e che i corredi avevano mantenuto alcune delle caratteristiche ereditate dall’epoca Han.
Il concetto che in questo periodo la Cina settentrionale non fosse culturalmente morta, per quanto tormentata
da guerre sanguinose, è avvalorato anche dalla presenza di monaci, esegeti e traduttori di testi buddhisti del
calibro di Dharmaraksa, di origine Yuezhi, a Dunhuang, Fotudeng (m. 349 circa) a Luoyang, Shi Daoan
(312-385) e Kumarajiva (350-410 circa) a Chang’an.
Purtroppo i resti materiali risalenti a questo periodo sono scarsi, ma la produzione letteraria, il ritrovamento
di alcune statuette di bronzo (fig. 6) risalenti al IV secolo, le grotte del monastero di Bingling, nel Gansu,
databili al 420 circa e le più antiche grotte di Mogao a Dunhuang, anch’esse nel Gansu, scavate nella roccia
fra il 420 e il 440 circa, dimostrano che il buddhismo era ormai radicato in Cina e che i sovrani stranieri lo
avevano prescelto comesostegno ideologico e fattore di coesione sociale; tuttavia, per una diffusione senza
precedenti dell’arte buddhista, almeno a giudicare dalle opere arrivate fino ai giorni nostri, si dovrà attendere
la riunificazione del nord da parte della dinastia Wei Settentrionale nel 439.
Dinastie Meridionali (420-589) e Settentrionali (386-581)
All’inizio del V secolo, la divisione della Cina in due entità politiche e geografiche si consolidò
ulteriormente, così, al sud, il generale Liu Yü (363-422) si adoperò inizialmente per salvare i Jin Orientali da
usurpatori del trono e rivolte, proclamandosi in seguito egli stesso imperatore della nuova dinastia dei Liu
Song (420-479). Ciononostante, le lotte per il potere non cessarono: nel 479 il comandante delle guardie
imperiali fondò la dinastia dei Qi Meridionali (479-502), sostituita dai Liang (502-557) e infine dai Chen
(557-589). La breve durata di tali dinastie tradiva la loro debolezza e l’incapacità di imporsi sulle grandi
famiglie: la vita a corte era incerta, se non addirittura pericolosa; la morte violenta era una delle cause più
frequenti della fine della carriera burocratica e alcuni imperatori finirono assassinati. Tuttavia i frequenti
cambi di potere non turbarono più di tanto la società, garantendo comunque una certa continuità, rafforzata
dalle grandi famiglie originarie del nord, le quali, per mantenere i loro privilegi, avevano escogitato un
sistema di classificazione sociale basato sull’antichità dei servizi prestati dai propri antenati
nell’amministrazione imperiale.
Uno sguardo sulla vita intellettuale e culturale dell’epoca è offerto dalle immagini impresse sulle mattonelle
che decoravano le tombe della nobiltà meridionale, particolarmente famose quelle rinvenute nel 1958 a
Dengxian, nello Henan, quattro delle quali sono in mostra (cat. 12).
Una di esse ritrae mirabilmente l’atteggiamento dei gentiluomini “scapigliati”, ricalcando lo stile dei “sette
saggi del boschetto di bambù”: quattro personaggi conversano e suonano, immersi nella natura del monte
Nan, considerato dai daoisti il monte della longevità. La seconda ricorda un aspetto meno idilliaco della vita
dell’epoca: la guerra, qui evocata da due cavalli, uno dei quali munito di corazza completa, accompagnati dai
loro stallieri. La terza e la quarta sono più intimamente legate alla sepoltura e all’aldilà, illustrando un
ufficiale guardiano della tomba, che indossa un cappello daoista, e il Drago Verde – divinità guardiana
dell’Est – presente nelle sepolture fin dalla dinastia Han Occidentale (Lanciotti, Scarpari 2006, cat. 107-108).
Altre scene di vita dell’élite meridionale sono raffigurate sulle mattonelle recentemente portate alla luce in
una tomba nei dintorni di Nanchino (cat. 13) e per la prima volta esposte al pubblico: la prima descrive tre
gentildonne che seguono a piedi un carro trainato da un bue – veicolo di trasporto prediletto dall’alta società
– e accompagnato da un inserviente; le signore indossano gonne con la vita alta e camicie con le maniche
lunghe e ampie, molto di moda nel VI e all’inizio del VII secolo, mentre il servitore porta un paio di calzoni
lunghi legati sotto il ginocchio – introdotti dall’etnia Hu, che viveva nei territori settentrionali e nordoccidentali – e una specie di tunica incrociata davanti e stretta in vita da una fascia. Le altre due raffigurano
invece signori a cavallo di destrieri magnificamente bardati, preceduti e seguiti da inservienti che indossano
lo stesso abbigliamento di quello nell’esemplare precedente. Le mattonelle pittoriche rivelano che nei secoli
V e VI i temi preferiti nella decorazione delle sepolture erano in realtà molto simili a quelli dell’epoca Han
Orientale: cerimonie funebri, processioni, animali simboli dei quattro punti cardinali, soggetti confuciani e
daoisti; il linguaggio pittorico, invece, era cambiato, vista la nuova predilezione per figure longilinee, ritmi
lineari e un’esuberante energia.
La produzione di manuali di estetica e critica letteraria continuò a fiorire in questo periodo, ed è proprio al
VI secolo che risale l’opera che più di qualunque altra ha influito sulla pittura dei secoli successivi:
Classificazione di antichi pittori di Xie He (a. 500-535 circa); sia questo testo sia la sua continuazione a
opera di Yao Zui (535-602) passavano in rassegna una serie di pittori attivi dal III al VI secolo, secondo
canoni di valutazione che Xie He elencava nella sua introduzione. Come opera critica il saggio non è
eccezionale, ma i criteri in esso enunciati divennero i principi per antonomasia, sull’interpretazione dei quali
gli studiosi di tutto il mondo ancora discutono. In sostanza, secondo Xie He, oltre a rispettare la forma
esteriore, i colori e la composizione di ciò che andava raffigurando, il pittore doveva dipingere anche il qi,
cioè l’essenza, la natura intrinseca dell’oggetto rappresentato, usando il pennello in modo costruttivo; egli
raccomandava poi di studiare i maestri del passato riproducendoli: solo così era possibile assimilarne i
principi fondamentali per sviluppare in seguito uno stile personale. È interessante notare che, per quanto
concerne la terminologia critica, Xie He e Yao Zui ricorrevano alla poesia e alla calligrafia, e nelle loro
valutazioni mettevano in relazione la qualità dei dipinti e la personalità dell’artista.
Il paesaggio, comparso come sfondo della narrazione nel IV secolo, si svincolò da questo ruolo secondario
per proporsi come soggetto autonomo, forse incoraggiato dalla nascita della poesia della natura, celebrata
dagli immortali versi di Xie Lingyun (385-433) e Tao Qian (365- 427). Purtroppo nessun dipinto di
paesaggio ci è pervenuto, ma la pubblicazione di saggi sull’argomento dimostra che era ormai divenuto un
genere indipendente. Zong Bing (375-443), per esempio, nella sua Introduzione alla pittura di paesaggio,
affermava che il Dao, o principio cosmologico, si manifestava attraverso la natura, per cui la pittura di
paesaggio, cogliendo l’essenza delle forme fisiche, aveva la sublime funzione di fare da intermediario tra il
fruitore e il principio cosmologico; un concetto simile è espresso in Sulla pittura, nel quale Wang Wei (415443) spiegava che la vera pittura doveva riprodurre sia la forma esteriore del visibile sia la sua natura intima
attraverso una combinazione di simboli e, partendo dal presupposto che la natura è il microcosmo nel quale
convergono le forze dell’universo, considerava la pittura di paesaggio il genere che meglio rifletteva
l’attività del Dao. In mancanza di dipinti coevi su rotoli, i principi estetici professati in questo periodo sono
riscontrabili solo nelle pitture parietali delle tombe, negli affreschi che abbelliscono le grotte buddhiste e
nelle immagini scolpite su pietra o impresse su mattonelle, le quali però sono tutte opere di artigiani
specializzati anziché dei maestri pittori citati nei trattati. Il nuovo linguaggio pittorico emerso in questi anni
si era comunque diffuso anche fra gli artigiani incaricati di adornare le tombe dei loro clienti aristocratici,
probabilmente proprio per loro merito, come dimostrano le già citate mattonelle di 32 Dengxian e di
Nanchino (cat. 12 e 13). Quella raffigurante quattro “scapigliati” sul monte Nan esprime la felice
combinazione del paesaggio con i protagonisti della storia, mentre quelle
decorate con signori a cavallo e servitori mostrano l’impiego di elementi naturali, in questo caso alberi, per
segnalare l’ambiente circostante e scandire la narrazione. La caratterizzazione emotiva dei personaggi non è
molto individualizzata, ma considerato che si trattava di opere prodotte in serie da artigiani, il risultato finale
è sicuramente apprezzabile.
Nel V-VI secolo il buddhismo completò definitivamente la pacifica conquista della società e della cultura
cinesi, sia al nord sia al sud, ma purtroppo le vestigia meridionali sono estremamente rare: le storie
dinastiche e la letteratura religiosa descrivono l’arte buddhista fiorita a Nanchino, in particolare durante il
regno dell’imperatore Wu (r. 502-549) della dinastia Liang, ma oggi solo le sculture rinvenute nel Sichuan
illustrano lo stile meridionale, più plastico, realistico e umanizzato (fig. 7) rispetto alle figure ieratiche del
nord (Howard 2004, p. 93).
L’uso di termini comuni nei testi buddhisti meridionali e settentrionali di questo periodo testimonia
l’interazione tra i centri religiosi delle due aree, mentre i linguaggi formali della scultura rimangono distinti:
quello meridionale ispirato dall’India e dal Sudest asiatico, quello settentrionale influenzato dall’Asia
Centrale.
Nella Cina settentrionale, dopo centotrentacinque anni di invasioni, migrazioni di varie etnie e governi
effimeri, i sovrani della dinastia Wei Settentrionale riuscirono finalmente a inaugurare un periodo di pace e a
costituire uno stato forte, dotato di un efficace sistema istituzionale di stampo cinese con una burocrazia
stipendiata, il controllo sulla produzione agricola e un valido sistema fiscale.
Per consolidare il proprio potere, il nuovo regime doveva stabilire il controllo sulla terra e sull’alta società,
così per risolvere il problema terriero, i Wei Settentrionali introdussero il sistema della “perequazione
agraria”, che divenne poi il sistema fondiario delle dinastie Sui e Tang; mentre per tenere a freno
l’aristocrazia promossero l’integrazione politica delle grandi famiglie cinesi. A questo scopo le
classificarono secondo la loro antichità e fu dato loro accesso alle cariche pubbliche in base al rango; gli
incarichi più prestigiosi erano comunque riservati alla nobiltà Wei, alla quale, però, fu vietato di adottare
lingua e costumi Tuoba in favore di quelli cinesi; infine, per favorire l’integrazione della nobiltà furono
incoraggiati i matrimoni misti fra famiglie delle due etnie. In politica, nel tentativo di imprimere un carattere
di continuità al nuovo potere, i Wei reintrodussero il culto ufficiale di Confucio, mentre al fine di
promuovere l’integrazione fra i vari gruppi etnici dichiararono il buddhismo religione di stato. Non a caso, in
questo periodo si affermò la tendenza, condivisa dai sovrani meridionali, a sottoporre il buddhismo
istituzionale al diretto controllo dello stato, che comportò anche distruttive persecuzioni antibuddhiste, come
quella lanciata dai Wei Settentrionali nel 446. Il patrocinio imperiale si tradusse più spesso nella promozione
e nel finanziamento di opere monumentali, quali il tempio rupestre di Yun’gang (fig. 8), iniziato nel 460 nei
pressi di Datong, nello Shanxi, allora capitale dell’impero Wei: le dimensioni colossali delle sculture, alcune
alte quindici metri, le loro forme possenti e massicce esprimevano la potenza del Buddha e la forza
prorompente dei suoi insegnamenti, ma soprattutto esaltavano la grandezza della dinastia Wei.
Nel 494 i Wei decisero di trasferire la capitale in una zona più centrale dell’impero, in una città che aveva
già svolto questa funzione: Luoyang, nello Henan; tale decisione coincise con l’adozione di nomi cinesi per
l’aristocrazia Tuoba, della lingua, dell’etichetta e dell’abbigliamento formale Han. Il trasferimento significò
anche la realizzazione di nuovi templi buddhisti, il più importante dei quali fu costruito a Longmen (fig. 9),
quattordici chilometri a sud di Luoyang; i lavori iniziarono negli ultimi anni del V secolo per terminare alla
fine dell’VIII, quando si contavano ben trecentocinquanta grotte per un complesso di quasi centomila statue.
Due bassorilievi, raffiguranti Maitreya, il Buddha del futuro (cat. 15 e 16), provenienti probabilmente dalle
grotte di Longmen, illustrano lo stile diffuso alla fine del V - inizio del VI secolo: i corpi magri e sottili con
le spalle strette e cadenti sono nascosti sotto abiti molto ampi di stile cinese, che ricadono in pieghe a
cascata; le due raffigurazioni di Maitreya rispecchiano la conversione dei Wei ai valori estetici cinesi, che
prediligevano forme lineari e bidimensionali.
Ciò appare ancor più evidente in una delle opere più significative presenti in mostra: la stele a forma di
pagoda proveniente da Shuiluo, nel Gansu (cat. 14), scolpita su quattro lati con scene riferite a passaggi
essenziali delle scritture buddhiste ed episodi della vita di Sakyamuni in un tripudio di immagini.
La massiccia sinizzazione dei costumi etnici da parte dei sovrani Wei, con l’esclusione dei Tuoba da cariche
amministrative, creò un forte dissenso nell’aristocrazia dominante, che nel 534 fece nuovamente precipitare
il paese nel caos. L’impero fu diviso fra due dinastie rivali: i Wei Occidentali (535-557), capeggiati dal
generale Xianbei Yuwen Tai con capitale a Chang’an, e i Wei Orientali (534-550), guidati dal generale
cinese Gao Huan con capitale a Ye, sul moderno confine fra le regioni dello Hebei e dello Henan. Nessuna
delle due dinastie sopravvisse al generale che le aveva fondate: nel 550 il figlio di Gao Huan si proclamò
imperatore dei Qi Settentrionali (550-577) e nel 557 il figlio di Yuwen Tai fondò la dinastia Zhou
Settentrionale (557-581); i conflitti fra le due stirpi rivali terminarono solo nel 577, quando i Zhou
Settentrionali conquistarono l’impero dei Qi Settentrionali.
Appena salito al trono, Yuwen Tai patrocinò la realizzazione di alcune grotte presso il tempio rupestre di
Maijishan, a Tianshui, nel Gansu, la cui costruzione era stata intrapresa all’inizio del V secolo; le sculture di
argilla cruda raffiguranti il discepolo più anziano del Buddha, Kasyapa (cat. 18), e Maitreya, o Buddha del
futuro (cat. 19), con i loro lineamenti gentili e i volti più espressivi, anticipano i cambiamenti che si
verificarono verso la metà del VI secolo.
L’arte plastica sia dei Zhou Settentrionali sia dei Qi Settentrionali rifletteva una nuova ondata di influenze
indiane, che si tradussero in stili diversi nelle due aree geografiche, in base all’itinerario percorso per
raggiungerle (Howard 2004, pp. 95-98). La scultura del periodo Zhou Settentrionale, infatti, risente dello
stile meridionale del Sichuan, annesso all’impero Zhou nel 553: ciò è particolarmente evidente
nell’abbondanza di gioielli, sciarpe e nastri che adornano il corpo del Bodhisattva Padmapani (cat. 20): il
contrasto fra i volumi più ampi del corpo e gli ornamenti aumenta l’effetto plastico e anima l’intera scultura.
A testimonianza che il nuovo linguaggio artistico coesisteva con stili regionali è la stele di Zhao Anxiang
(cat. 22): essa riprendeva lo stile in auge alla fine dei Wei Settentrionali, contraddistinto da volti allungati e
spalle cadenti, mentre il nimbo del Buddha diviso in due zone anticipava una caratteristica che sarà tipica in
epoca Sui; le cinque figure di Buddha in meditazione su uno sfondo di fiamme ricorrevano invece sulle
aureole di immagini buddhiste dei secoli V e VI.
In merito alla rotta seguita dalle influenze indiane nello stile Qi Settentrionale gli studiosi dissentono
(Howard 2004, pp. 89-99; Su Bai 2004, pp. 79-97), tuttavia, che fossero giunte direttamente dall’India Gupta
(320-600) via mare attraverso il Sudest asiatico, o via terra attraverso l’impero turco che si estendeva dalla
Mongolia all’Asia Centrale – e che importò anche motivi persiani – o ancora dalla Cina meridionale, esse si
tradussero in un rinnovato senso plastico e in un pronunciato naturalismo, soprattutto nello Shandong (fig.
10).
È importante sottolineare che all’epoca, nonostante l’instabilità politica e i frequenti scontri armati, i regimi
che dominavano la Cina settentrionale intrattenevano stretti rapporti diplomatici e commerciali con gli stati
confinanti, in particolare con l’impero turco: la principessa Chanle dei Wei Occidentali fu data in sposa al
sovrano turco e la moglie dell’ultimo imperatore dei Zhou Settentrionali era turca. Esteso dalla Mongolia
all’Asia Centrale, l’impero turco controllava una parte delle vie carovaniere attraverso le quali merci di ogni
tipo transitavano in ambo le direzioni. I turchi – e le popolazioni sottomesse durante le loro campagne
espansionistiche, fra cui i sogdiani – divennero così l’elemento di unione tra la Cina a est e l’impero persiano
e l’oriente romano a ovest, favorendo contatti e scambi, come dimostra il piatto d’argento dorato raffigurante
Dioniso trovato nel Gansu (cat. 67): realizzato fra il II e il III secolo in una provincia dell’impero romano,
raggiunse il Paese di Mezzo attraverso mani sogdiane e bactriane. Nel VI secolo turchi, sogdiani, bactriani,
persiani e indiani vivevano regolarmente in Cina settentrionale, ragion per cui le origini del cosmopolitismo
che contraddistinse la dinastia Tang (618-907) vanno ricercate in questo periodo, turbolento ma
culturalmente vivace.
La grande giara di ceramica, riccamente decorata con petali di loto, medaglioni e maschere (cat. 75), è un
manufatto cinese fortemente influenzato dalla presenza di popolazioni centroasiatiche in Cina; l’invetriatura
verde fa immediatamente pensare alle fornaci meridionali di Yue, specializzate in questo genere fin dalla
dinastia Shang; tuttavia questo tipo di giare era fabbricato al nord, nello Shandong e forse nello Hebei.
L’esemplare in mostra è stato rinvenuto in una sepoltura nei pressi di Nanchino, ma altri sono emersi da siti
settentrionali, a testimonianza che, per quanto difficili fossero i rapporti politici fra il nord e il sud, gli
scambi commerciali non erano affatto impediti.
Un altro tratto distintivo dell’impero Tang fu la tolleranza religiosa, ma in realtà gli stranieri residenti in Cina
erano stati liberi di professare il loro credo anche nel periodo precedente, come testimonia la tomba di An
Jia, un sogdiano capo della comunità straniera a Tongzhou, nello Shaanxi, deceduto nel 579: in mostra si può
ammirare la lunetta della porta della sua tomba (cat. 25), magnificamente decorata in rilievo con una scena
rituale zoroastriana, concessa per la prima volta dalle autorità cinesi per essere esposta all’estero.
Di pochi anni più tarda è la stele datata da un’iscrizione al 583 (cat. 24): essa raffigura Laozi divinizzato, il
leggendario padre del daoismo e presunto autore del Daodejing. Rivelatosi a Zhang Daoling intorno alla
metà del II secolo, Laozi ispirò la nascita dei Maestri Celesti, una delle più importanti tradizioni religiose in
seno al daoismo.
A partire dalla fase conclusiva del dominio Han, furono numerosi gli intellettuali che, delusi dal
confucianesimo e scossi dalla profonda crisi morale e istituzionale della società, si avvicinarono al
misticismo e al naturalismo d’impronta daoista. Nel VI secolo il buddhismo era già la religione dominante,
soprattutto tra le comunità di stranieri provenienti dall’Asia Centrale; tuttavia questa stele dimostra che,
all’epoca, anche il daoismo godeva di un ampio seguito. Nel corso della storia cinese, i due culti si sono
spesso incrociati, dando luogo a reciproche e fruttuose contaminazioni.
Se l’espressione scultorea buddhista seguì percorsi diversi al nord e al sud durante il periodo delle Dinastie
Meridionali e Settentrionali, la pittura manifestò invece caratteri comuni, a dimostrazione del fatto che le
teorie estetiche si erano diffuse anche al settentrione, e perciò che il confine culturale fra nord e sud era meno
marcato di quello politico e di quanto la tradizione cinese ci abbia lasciato credere.
Le pitture parietali che abbellivano la tomba di Lou Rui – un aristocratico di alto rango presso la corte dei Qi
Settentrionali, la zia del quale era andata in sposa al fondatore della dinastia Wei Orientale – morto nel 570 e
sepolto vicino a Taiyuan nello Shanxi, sono la conferma che lo stile pittorico meridionale era condiviso
anche dagli artisti del nord. Un particolare della processione dipinta su una delle pareti della rampa d’accesso
alla tomba (fig. 11) è emblematico: due uomini cavalcano l’uno di fianco all’altro nascondendosi
parzialmente. Il gentiluomo più lontano dall’osservatore è ritratto di tre quarti, mentre l’altro è di profilo con
la schiena incurvata e la testa abbassata; i destrieri sono entrambi disegnati di profilo, quello interno con la
testa leggermente rivolta verso la sua destra, l’altro con la testa raccolta all’indietro richiamato dal suo
cavaliere. La composizione è davvero sapiente: con il contrasto creato dalla tensione del gruppo cavallocavaliere esterno contro la posa rilassata dell’altro; le zampe degli animali ritratte in posizioni diverse che si
sovrappongono, suggerendo l’idea di movimento e di profondità. Le caratteristiche facce ovali sono dipinte
con linee fini e morbide; il colore è applicato senza gradazioni in aree delineate da contorni regolari. È
difficile pensare che l’autore non fosse un grande maestro, stupisce solo l’assenza del paesaggio, che invece
fa da sfondo alle storie tratte dai testi buddhisti e illustrate sulle pareti delle loro grotte.
Le sepolture del V-VI secolo hanno restituito anche molte sculture di terracotta – raffiguranti militari,
musicisti, vari aspetti della vita di corte, donne occupate in faccende domestiche e perfino stranieri –,
fabbricate per essere seppellite assieme al defunto e accompagnarlo nel suo viaggio. La selezione di oggetti
dalla tomba di Yuan Shao – nipote dell’imperatore Xiaowen (r. 471-499) – morto nel 528, è un ottimo
esempio dei soggetti e dello stile scultoreo fittile dell’epoca (cat. 51, 61, 110 e 116): una creatura fantastica
guardiana della tomba con corpo di animale e volto umano; un ufficiale guardiano della porta con la spada
cerimoniale; un cavaliere; un tamburino a cavallo per scandire il ritmo della marcia funebre; un soldato con
scudo; un attendente militare; un inserviente; due musici seduti e una donna con un bambino in braccio. Le
statuine, indipendentemente dal soggetto raffigurato, rivelano una nuova concezione dei volumi: i corpi sono
più rotondeggianti, i volti più pieni e le espressioni più naturali; i profili sono nitidi e precisi. Non avendo a
disposizione l’intera processione funebre della tomba di Yuan Shao – centoquindici elementi – in mostra si è
preferito esporre le statuette seguendo il criterio tematico, per evidenziare al meglio lo sviluppo stilistico
della scultura fittile.
Dinastie Sui (581-618) e Tang (618-907)
Nel 581 Yang Jian usurpò il trono dei Zhou Settentrionali, proclamandosi imperatore della dinastia Sui; per
celebrare l’evento affidò al maggiore architetto dell’epoca, Yuwen Kai, l’incarico di riprogettare la capitale,
che rimase a Chang’an ma in un’area a sud-est della precedente. Risolti diplomaticamente i rapporti con
l’impero turco, il sovrano si dedicò alla conquista del sud, conclusa senza troppi sforzi nel 589 con la
distruzione totale della capitale Nanchino e l’eliminazione dell’ultima dinastia meridionale dei Chen.
L’arduo compito di provvedere all’integrazione del mezzogiorno, sviluppatosi politicamente e culturalmente
in maniera autonoma per quasi tre secoli, fu affidato al figlio, Yang Guan, sincero ammiratore della civiltà
meridionale.
Egli fece edificare una nuova capitale nell’odierna Yangzhou, nel Jiangsu, e si preoccupò di stabilire buoni
rapporti con il buddhismo e il daoismo; inoltre si circondò dei più noti intellettuali del tempo. Quando
subentrò al padre sul trono del grande impero Sui, nel 604, ordinò la realizzazione di un’opera ingegneristica
di proporzioni formidabili: il Canale Imperiale, che collegava Hangzhou a Pechino passando per Yangzhou e
Luoyang, per un totale di 2500 chilometri di canali navigabili; fece inoltre costruire una seconda capitale
settentrionale a Luoyang. In politica estera cercò di contenere diplomaticamente i turchi, mentre decise di
attaccare il regno di Koguryo: nessuna delle tre spedizioni condotte fra il 612 e il 614 ebbe successo e questo
fallimento, sommato alla terribile inondazione del Fiume Giallo, alla rivolta dei turchi, a una serie di
ribellioni interne e, infine, all’assassinio dello stesso imperatore nel 618, mise fine al loro dominio.
Proprio per la sua brevità, quello dei Sui può essere considerato come uno dei regimi effimeri susseguitisi al
nord dopo il crollo della dinastia Wei Settentrionale nel 534; in realtà alcuni fattori lo differenziano
marcatamente, primo fra tutti la riunificazione del paese e la restaurazione di un forte governo centralizzato.
È vero che anche i Zhou Settentrionali erano riusciti a unificare il nord nel 577, per essere soppiantati quattro
anni dopo proprio dai Sui, ma questi ultimi mostrarono subito un atteggiamento lungimirante: la
realizzazione del Canale Imperiale rese effettiva l’unione del paese, oltre a rivelarsi una grande opera di
propaganda; inoltre i sovrani Sui intuirono che la riunificazione militare non sarebbe stata sufficiente per
tenere insieme l’impero, era altresì necessaria un’ideologia statale efficace, come quella Han, basata sui
principi della dottrina confuciana. Le varie dinastie del periodo di divisione avevano tentato di riproporre
elementi della tradizione confuciana, ma senza risolutezza; i Sui, consapevoli di ciò, proposero una dottrina
che fondeva elementi confuciani, buddhisti e daoisti. Della tradizione confuciana adottarono il simbolismo
rituale, l’ordine sociale basato sulle virtù morali, lo studio dei classici e il sistema degli esami per selezionare
i funzionari statali; ma i soli principi confuciani, sebbene richiamassero il modello ideale applicato dalla
gloriosa dinastia Han, non sarebbero stati sufficienti a legittimare il potere imperiale, perché nel frattempo
erano andate affermandosi religioni organizzate secondo basi teoriche ormai consolidate che avevano
trasformato la civiltà cinese. Il primo imperatore Sui, perciò, si propose come paladino della fede buddhista,
attribuendosi alcuni titoli religiosi e risarcendo personalmente i monasteri danneggiati dalla persecuzione
antibuddhista lanciata dai Zhou Settentrionali nel 574; lo stretto rapporto fra il secondo imperatore e il
fondatore della setta buddhista Tiantai, Zhiyi, fu determinante per l’unificazione politica e culturale del
paese. Tuttavia, pure se in misura minore, entrambi i sovrani sostennero anche la chiesa daoista, come rivela
la stele in mostra (cat. 24) con l’effigie di Laozi divinizzato, ordinata nel 583 dal daoista Bai Xianjing “per
conto dei suoi antenati di sette generazioni, dei giovani e degli anziani della sua famiglia, al fine di augurare
buona salute all’imperatore, pace agli uomini, prosperità al Paese e la comprensione collettiva del Dao, cioè
del principio universale, da parte di tutti gli esseri senzienti” (traduzione di R. Whitfield).
Dopo l’assassinio dell’imperatore, il trono fu occupato da Li Yuan (nome postumo Gaozu, r. 618-626), un
generale originario di un’importante famiglia aristocratica del nord-ovest di origine Xianbei che aveva
prestato servizio militare sotto i Wei Settentrionali e i Zhou Settentrionali; sua madre era una nobile turca, la
sorella della quale era andata in sposa al primo imperatore Sui. Appena fondata la dinastia Tang –
unanimemente considerata l’età d’oro della storia cinese poiché in questo periodo il Paese di Mezzo
raggiunse l’apice della sua potenza – Li Yuan si dedicò alla pacificazione dell’impero, sconfiggendo decine
di forze ribelli e capi militari che ambivano al trono.
Il più acclamato dei sovrani Tang, preso a modello in tutte le epoche successive, fu però il figlio di Gaozu, Li
Shimin (nome postumo Taizong, r. 627-649), nonostante avesse ottenuto il titolo di imperatore dopo
l’uccisione di due suoi fratelli: egli si rivelò un sovrano illuminato, capace di far assurgere di nuovo la Cina
al ruolo di massima potenza del continente asiatico non solo in ambito militare, ma anche in quello culturale.
La storiografia cinese non fu altrettanto clemente con Wu Zetian, prevedibilmente vituperata per essersi
proclamata imperatrice (r. 690-705) – l’unica in tutta la storia cinese – e aver effettivamente governato per
circa vent’anni. I suoi metodi non furono sempre consoni – tendeva a sbarazzarsi dei rivali facendoli
assassinare o costringendoli al suicidio –, ma fu senza dubbio una sovrana abile e compresa del suo ruolo,
che cercò di svincolarsi dalla potente aristocrazia nord-occidentale, trasferendo la capitale a Luoyang e
promuovendo il sistema degli esami imperiali, ragion per cui i titoli accademici divennero molto prestigiosi;
nonostante i suoi buoni propositi, nel 705 i conflitti fra fazioni rivali a corte la costrinsero ad abdicare.
Dopo due regni deboli, salì al trono l’imperatore Xuanzong (r. 712-755), sotto il comando del quale la Cina
Tang raggiunse l’apice del suo fulgore, con la pacificazione delle frontiere e l’attuazione di grandi riforme in
materia istituzionale, fiscale, giuridica e militare. Purtroppo anch’egli non riuscì a sanare i contrasti
all’interno del governo fra i funzionari di nomina statale e i membri della vecchia aristocrazia del nord-ovest:
si arrivò così inesorabilmente all’indebolimento del potere centrale e, nel 755, allo scoppio della rivolta di
An Lushan, un generale metà turco e metà sogdiano, a capo di un esercito di centocinquantamila uomini
stanziato nelle regioni nord-orientali. Ci vollero otto anni per sedare definitivamente la ribellione, ma la
potenza dello stato centrale non fu più restaurata; economicamente l’impero continuò a fiorire, soprattutto il
sud, che divenne la forza trainante del paese, ora che le regioni settentrionali erano sotto il controllo di
governatori militari e i territori nord-occidentali, conquistati all’inizio della dinastia, erano stati abbandonati.
Dall’821 gli sforzi degli imperatori Tang per mantenere l’unità imperiale e il potere centralizzato furono
vanificati da dissidi interni e contrasti sociali che determinarono il crollo della dinastia.
Sul piano ideologico, i Tang ereditarono il sincretismo Sui, attribuendo però un peso maggiore ai principi
confuciani e alla storia quale strumento di legittimazione e d’insegnamento morale. Nel 629 Taizong istituì
l’Ufficio Storiografico, destinato a diventare un organo permanente nei governi di tutte le dinastie
successive: a esso fu affidato il difficile incarico di compilare la storia delle dinastie del periodo di divisione
e quello di registrare la storia contemporanea. Nonostante la verità fosse il fondamento morale e legale nella
compilazione storiografica, gli studiosi che redigevano i documenti non furono sempre obiettivi; ignorarono,
per esempio, il colpo di stato attuato da Taizong per conquistare il trono, mentre condannarono aspramente la
presa del potere da parte di Wu Zetian. Tra le due religioni organizzate, i sovrani Tang privilegiarono il
daoismo – la famiglia imperiale sosteneva di essere discendente di Laozi – favorendo la costruzione di
templi in ogni prefettura, l’inclusione del Daodejing fra i testi obbligatori per i concorsi statali e la
celebrazione di sacrifici solenni da parte dell’imperatore. Ciò non significava, però, che il buddhismo fosse
osteggiato: era sostenuto purché non interferisse con la politica; di conseguenza fu promossa la realizzazione
di grandi templi in tutto il paese e Taizong patrocinò l’immensa opera di traduzione di testi buddhisti a opera
del monaco Xuanzang (602-664), dopo il suo ritorno da un lungo pellegrinaggio in India. Tuttavia, furono
regolarmente varati provvedimenti restrittivi nei confronti della chiesa buddhista, più per limitarne il potere e
la ricchezza economica, che per reali motivi religiosi.
Solo durante il dominio di Wu Zetian, consorte del terzo imperatore, Gaozong, il buddhismo fu elevato al
rango di dottrina ufficiale dell’impero: fedele devota, l’imperatrice vi fece ricorso anche per legittimare il
proprio potere, poiché in base alla dottrina confuciana le sarebbe stato tassativamente precluso. Secondo il
Sutra della Grande Nube, il Buddha del futuro, Maitreya, si sarebbe incarnato in una sovrana per mantenere
ordine e pace nel mondo, perciò, appena salita al trono, Wu Zetian ordinò l’edificazione di un tempio della
Grande Nube in ogni prefettura: il prezioso gruppo di reliquiari in mostra (cat. 42) proviene da quello
dell’odierna Jingchuanxian, nel Gansu. L’imperatrice intendeva fondare un impero universale buddhista, al
centro del quale si sarebbe trovata la Cina, modello per tutti i popoli di tale fede, ma nel 705 fu costretta a
rinunciare alle sue ambizioni.
All’inizio del IX secolo i confuciani lanciarono una campagna che esaltava le antiche tradizioni e i valori
della civiltà cinese contro tutto ciò che era straniero, forse come reazione al declino delle istituzioni imperiali
e alle crescenti difficoltà economiche dell’impero; così nell’845 fu scatenata una violenta persecuzione, dalla
quale il buddismo cinese non si riprese mai più.
In politica estera, i sovrani Tang cercarono di estendere e consolidare le frontiere dell’impero: nel 630,
approfittando di lotte interne ai turchi orientali, stabilirono il loro dominio sulle regioni dell’Ordos e della
Mongolia interna; fra il 640 e il 649 conquistarono il regno di Karakhoja, nei pressi dell’odierna Turfan, e le
oasi di Karashahr e Kucha, estendendo così il controllo al bacino del Tarim e all’area dell’Issyk-Kul. Quando
l’impero dei turchi occidentali risorse, l’esercito cinese lo ridusse a due federazioni rivali, tributarie della
corte Tang; inoltre per arginare l’aggressiva potenza tibetana, ricorsero alternativamente alle armi e alla
diplomazia, mentre i rapporti con gli uiguri, emersi dalle rovine della confederazione dei turchi orientali,
furono sempre ottimi. Fra i popoli tributari si annoveravano i Tuyuhun, che abitavano la regione del lago
Kokonor, la tribù turca Xueyantuo, i Guligan della Siberia centrale e i Kirghizi. La centralità geografica e
culturale Tang è argutamente illustrata da una scatola d’argento dorato, detta dei “sette paesi” (cat.94), il
coperchio della quale raffigura la Cina circondata da sei paesi stranieri.
I confini dell’impero Tang mutarono più volte nel corso della dinastia, ma il dominio su un territorio
immenso che si estendeva dalla Corea alla Persia favorì il passaggio di merci e genti straniere con
un’intensità senza precedenti.
Molte città cinesi si trasformarono in metropoli internazionali, fra le quali primeggiava la capitale, Chang’an:
qui giungevano delegazioni da tutta l’Asia; la Persia ne inviò di frequente e al principe Firuz, emissario e
figlio dell’ultimo sovrano della Persia sasanide (226-651) in cerca di appoggio contro l’espansione araba, al
quale fu addirittura concesso di costituire una corte persiana in esilio; nel 643 ne giunse una del re Fulin di
Siria e nel 650 fu ricevuta la prima legazione musulmana.
Oltre al buddhismo e al daoismo, durante la dinastia Tang in Cina si praticavano anche zoroastrismo –
professato soprattutto dai sogdiani – manicheismo, nestorianesimo, giudaismo e, poco più tardi, l’islamismo.
Ogni religione aveva i propri luoghi di culto e Chang’an contava due templi imperiali, trentotto tempietti di
famiglia, centoundici monasteri buddhisti, quarantuno templi daoisti, quattro zoroastriani, tre nestoriani e un
numero imprecisato di chiese manichee, sinagoghe e moschee.
La Via della Seta, con le sue varianti, da secoli permetteva scambi tra la Cina e la Persia, ma i traffici non
furono mai tanto frequenti e intensi come in epoca Tang, quando i confini dell’impero cinese si estendevano
oltre il bacino del Tarim; altrettanto dinamiche furono le rotte marittime che collegavano i grandi porti
meridionali di Suzhou, Yangzhou e Guangzhou, l’odierna Canton, alla Persia e all’Arabia, attraverso il
Sudest asiatico e l’India verso ovest, e alla Corea e al Giappone verso est.
La centralizzazione del potere e il cosmopolitismo della Cina Tang erano magnificamente riflessi nella
capitale imperiale, Chang’an, progettata dai Sui e ampliata dai loro successori: un massiccio muro di cinta
(lungo 36,7 chilometri), interrotto da tre porte su ciascuno dei lati meridionale, orientale e occidentale,
circondava la città orientata lungo l’asse nord-sud e la proteggeva con le sue torri di guardia; all’interno,
undici viali verticali ne incontravano quattordici orizzontali suddividendola in quartieri a loro volta cinti da
mura (fig. 12). L’arteria principale era quella che correva dalla porta meridionale centrale all’ingresso della
città imperiale e quella che, passando davanti al palazzo, raggiungeva le porte centrali dei lati est e ovest. La
città imperiale, delimitata da un muro di cinta, occupava quindi tutta l’area settentrionale – un terzo circa –
dell’intera capitale e si suddivideva in una parte “ufficiale”, dove erano ubicati gli uffici governativi, il
Tempio Ancestrale e l’Altare della Terra, e in una residenziale, riservata alla famiglia imperiale; a nord, oltre
le mura, si trovava il parco imperiale, con alcuni frutteti, un vigneto e campi sportivi per giocare a polo – uno
dei passatempi preferiti dall’aristocrazia Tang 40 – e il Palazzo della Grande Luce (da alcuni anni al centro
del lavoro degli archeologi), che dal 660 circa divenne la residenza dell’imperatore e della sua famiglia. Gli
abitanti di Chang’an – più di un milione nell’VIII secolo, incluse le decine di migliaia di turchi, uiguri,
tokhari, sogdiani, indiani, persiani, arabi, cham, khmer, giavanesi e cingalesi –, abitavano nei centootto
quartieri delimitati da mura, chiusi ogni sera e riaperti la mattina seguente al suono del gong e del tamburo
che segnalavano le ore di attività e l’inizio del coprifuoco. Merci provenienti da ogni parte della Cina e
importate da tutto il mondo erano vendute nei due grandi mercati specializzati della città: uno occidentale e
l’altro orientale; essi si estendevano su una superficie pari a nove quartieri, uno dei quali, al centro, era
riservato agli uffici governativi per il controllo dei commerci, delle transazioni e del servizio; non lontano
dal mercato orientale si trovava anche il quartiere dei piaceri, dove si potevano soddisfare i desideri di clienti
provenienti da ogni classe sociale. Il modello urbanistico di Chang’an fu adottato anche per la costruzione
della seconda capitale, Luoyang, e fu esportato in tutta l’Asia Orientale, mentre gli echi della sua fama di
illustre centro culturale raggiunsero addirittura Costantinopoli.
La circolazione di genti, merci, idee e religioni, la tolleranza e la guida del paese da parte di un governo
fortemente accentratore e stabile stimolarono la creatività, spingendo le arti e le lettere verso nuovi vertici. Si
è più volte sottolineato che i rapporti fra nord e sud e i contatti con l’estero erano già frequenti nel periodo di
divisione, perciò alcuni elementi del linguaggio artistico e poetico Tang sono rintracciabili nelle espressioni
precedenti, tuttavia lo stile peculiare Tang è unico e inconfondibile.
La poesia conobbe una fioritura senza precedenti, come dimostra la Raccolta completa delle poesie Tang,
compilata nel 1707 sotto gli auspici della dinastia Qing (1644-1911): cinquantamila poesie di duemila autori
diversi per una varietà di tematiche che indica l’assoluta libertà concessa dallo stato agli scrittori. Fra questi
si annoverano alcuni dei poeti più celebri della storia cinese: il buddista Wang Wei (699-759), molto famoso
anche come pittore paesaggista, s’ispirava alla natura; il daoista Li Bai (701-762) cantava la bellezza
femminile e il buon vino; il confuciano Du Fu (722-770) prediligeva l’impegno civile e la giustizia; Bai Juyi
(772-846) celebrò il tragico amore fra l’imperatore Xuanzong e la preziosa consorte Yang; mentre Li He
(790-816) evocava suggestioni spettrali. In arte, la consuetudine di compilare saggi critici inaugurata nel IV
secolo continuò: l’opera più importante fu Lidai Minghua Ji (Annotazioni su dipinti famosi in età
successive), in cui Zhang Yanyuan, attivo nel IX secolo, esaminava artisti e opere dalla dinastia Han (206
a.C. – 220 d.C.) a quella Tang, riportando le biografie e analizzando criticamente i dipinti. Fu proprio lui a
consacrare Wang Xizhi come il più grande calligrafo di tutti i tempi e Gu Kaizhi quale padre della vera
ritrattistica; fra i pittori coevi esaltò Yan Liben (m. 673), Zhang Xuan (a. 713-742), Han Gan (a. 740-760) e
Zhou Fang (a. 780-810), nessuna opera dei quali, però, è giunta fino a noi – esistono solo copie più tarde
eseguite tra il X e il XII secolo. Lo stile della pittura Tang si evince tuttavia facilmente dai numerosi dipinti
parietali emersi dalle tombe della nobiltà dell’epoca.
A guardia dell’ingresso della tomba della preziosa consorte Wei, a Zhaoling, troneggiava un guardiano della
porta di oltre due metri (cat. 106) con il cappello a corona e la spada cerimoniale; la figura è semplicemente
ed efficacemente resa da una linea di spessore omogeneo che definisce le forme e suggerisce i volumi, non
c’è colore, eccezion fatta per il rosso delle labbra, che aggiunge uno squisito dettaglio cromatico.
Proseguendo lungo la rampa della tomba della preziosa consorte Wei, s’incontrano due stallieri che a
malapena trattengono un destriero bianco sellato (cat. 132), pronto per essere cavalcato dalla sua padrona,
famosa per le doti di amazzone. Questo frammento di pittura parietale ben rappresenta la stupefacente qualità
raggiunta in epoca Tang: con una linea calligrafica, continua ed elegante, il pittore ha delineato le figure e ha
poi aggiunto qualche pennellata più spessa per far risaltare alcuni elementi.
La stessa linea e il volto caricaturale si ritrovano nelle figure di eunuchi, uno dei quali è in mostra (cat. 107),
provenienti dalla tomba della nipote dell’imperatore Taizong, Duan Jianbi. Nelle sepolture dell’epoca, man
mano che si procedeva verso la camera sepolcrale, i temi delle pitture parietali si facevano più intimi – gli
eunuchi erano gli unici uomini ammessi nelle aree del palazzo abitate da donne – e aumentavano le
immagini femminili dipinte con grande realismo. La donna che gioca un’oca (cat. 123), un frammento
proveniente dalla tomba di Li Zhen – un fidato funzionario dell’imperatore Taizong e pertanto sepolto nel
suo parco funerario, il Zhaoling – rappresenta una varietà del genere pittorico “bellezze muliebri”, noto come
“bellezze in ozio”: la donna è infatti ritratta mentre gioca con un’oca e, sebbene l’ambiente circostante non
sia descritto, l’idea di movimento è sapientemente suggerita dalle ali dell’uccello spiegate all’indietro
parallele al braccio sinistro dell’ancella e dall’interruzione del regolare andamento verticale delle strisce
bianche e rosse della gonna.
Più statuarie sono invece le bellezze muliebri dipinte sui pannelli di pietra del sarcofago di Yang Hui, quattro
delle quali sono in mostra (cat. 122): esse incarnano l’ideale di beltà femminile in auge nell’VIII secolo, che
prevedeva donne paffute con spesse sopracciglia, dette “a falena”, labbra rosse “a bocciolo di rosa”, vesti
ampie e soffici che ricadevano in morbidi panneggi anche quando si trattava di abiti maschili. Durante la
dinastia Tang, infatti, le raffigurazioni di donne vestite da uomo erano frequenti, a dimostrazione della libertà
che il gentil sesso godeva all’epoca; tale indipendenza era in parte retaggio dei costumi delle popolazioni
nomadi, che dall’inizio del IV secolo dominavano la Cina settentrionale, rafforzato da nuove influenze
centro-asiatiche.
Lo stesso ideale di bellezza muliebre era riproposto nelle sculture di terracotta: per esempio, le tre donne in
esposizione (cat. 118) mostrano gli stessi abiti e le medesime posture dei pannelli dipinti, solo le
acconciature sono più complesse, consistenti in uno chignon singolo o doppio.
La dama dalla tomba di Mu Tai, nel Gansu (cat. 117), indossa invece abiti di foggia marcatamente
centroasiatica: una camicia molto scollata dalle maniche ampie sotto a una gonna lunga con la vita alta, che
mette in risalto il seno, e un soprabito di media lunghezza, qui portato aperto sulle spalle con molta
naturalezza.
Un altro gruppo (cat. 119-121) mostra tre figure femminili a cavallo, un’attività frequentemente ed
esclusivamente praticata in epoca Tang dalle donne, a testimonianza di quella libertà accennata a proposito
degli abiti maschili: per praticità esse indossavano camicie con maniche strette, la solita gonna lunga con la
vita alta e un bolerino a maniche corte; in testa portavano cappelli diversi, ma della stessa matrice straniera.
Anche la musica preferita in epoca Tang era di origine centroasiatica o persiana: in più di un’occasione lo
scià di Persia ossequiò la corte con musicisti e danzatori di grande talento: un’area del palazzo imperiale a
Chang’an era riservata proprio alla preparazione di intrattenitori stranieri e cinesi; un quartiere della capitale
era noto per i suoi acclamati musici e ballerini; mentre nei pressi del mercato orientale si trovavano negozi
specializzati nella vendita di strumenti musicali stranieri. Musica e danza erano parti integranti della vita
quotidiana, non solo a corte ma anche fuori: il delizioso gruppo di quattro danzatrici in mostra (cat. 112), due
con gli stivali e due con le scarpe “a nuvola”, sembra esibirsi proprio in un numero di danza “volteggiante”,
importata nel VI secolo dall’Asia Occidentale e molto apprezzata in epoca Tang. Il grande poeta Bai Juyi le
descrive mirabilmente in una poesia: “il cuore delle ballerine huxuan risponde al liuto, le mani ai tamburi,
esse volteggiano mille e diecimila volte senza fermarsi”, proprio come la danzatrice sul contenitore per
incenso proveniente dal monastero di Famen (cat. 45).
Queste sculture di terracotta, con altre raffiguranti danzatrici (cat. 111-112), musici, stranieri (cat. 50, 52-53
e 56-58), inservienti, mercanti, funzionari militari e civili – la coppia in mostra (cat. 104) è straordinaria –
cavalli (cat. 124-132), cammelli (cat. 54-55) e guardiani della tomba (cat.. 61-64), noti in cinese con il nome
collettivo di mingqi, insieme ai dipinti parietali, arredavano le tombe nobiliari e accompagnavano il defunto
nel suo ultimo viaggio. La pratica di seppellire riproduzioni inizialmentedi esseri umani, poi anche di animali
e cose, risaliva al V secolo a.C. e fu mantenuta nel tempo con variazioni sui temi prescelti e sulle quantità:
per esempio si è visto che durante la dinastia Han Orientale si prediligevano modelli di abitazioni (cat. 5),
torri, magazzini (cat. 4), padiglioni, porcili (cat. 6), stie, pozzi e stufe; mentre nel periodo di divisione
dell’impero comparivano spesso soldati e cavalli con armatura (cat. 52, 126), suonatori di marce militari e
funebri (cat. 127), ma anche ancelle e musiciste (cat. 109).
In epoca Tang le leggi suntuarie stabilivano le dimensioni e la quantità di oggetti funerari in base al rango
del defunto, ma la frequenza con cui venivano promulgate dimostra che erano spesso disattese, e infatti i
corredi dell’epoca sono eccezionali. Indipendentemente dal soggetto, le sculture fittili dipinte a freddo o
invetriate colpiscono per la loro naturalezza, la tridimensionalità, l’eleganza, la vivacità; sebbene prodotte in
massa con l’uso di stampi, alcuni dettagli – quali postura, gesti e particolari cromatici – esprimono la
sensibilità degli artigiani che le eseguivano.
Il confronto fra le due già citate ancelle della tomba di Xianyang della fine del IV secolo (cat. 115) e la
donna dalla tomba di Mu Tai databile al 730 (cat. 117) rende la trasformazione dello stile scultoreo evidente:
sono tutte ritratte stanti con grande attenzione per i particolari, ma, mentre le prime sono bidimensionali e
immobili, la terza è tridimensionale e le pieghe curve orientate verso il piede sinistro infondono il senso del
movimento. Le medesime osservazioni possono essere estese al confronto fra i cavalli con armatura
provenienti dalla tomba di Xianyang (cat. 126) e quelli di poca Tang della tomba di Qi Biming (cat. 128):
sebbene statici, i secondi sono percorsi da una tensione che li rende vivi e vibranti. È molto probabile che il
naturalismo dei mingqi sia derivato da quello che caratterizzava la scultura buddhistadel periodo Sui-Tang. Il
fatto che l’ideologia Tang prediligesse il daoismo non si tradusse in un indebolimento del buddhismo,
comunque ampiamente patrocinato dalla casa imperiale; in questo periodo esso raggiunse il culmine come
religione organizzata, si integrò definitivamente nella tradizione cinese e si arricchì di nuovi contenuti
dottrinari importati dall’India, ma rielaborati in Cina per adattarli al contesto autoctono: la scuola esoterica
ne costituisce l’esempio emblematico.
I saggi in catalogo di Stefano Zacchetti, Roderick Whitfield e I-Man Lai, rispettivamente dedicati alla
religione, all’arte dei templi rupestri e all’arte 42 esoterica, sono esaustivi sull’argomento, perciò in questa
sede si rileveranno solo i caratteri principali della scultura buddista Tang. Intorno alla metà del VI secolo le
forme lineari e bidimensionali predilette durante i Wei Settentrionali lasciarono il posto a figure più rotonde
e armoniose; tale rinnovato senso plastico fu ereditato e accentuato in epoca Sui, come evidenzia la statua
proveniente dal Gansu raffigurante Guanyin (cat. 23): la posa è sempre fissa, ma le forme del corpo sono più
aggraziate, il panneggio più morbido e l’espressione del volto più dolce.
Il nascente naturalismo rintracciabile nelle opere Sui raggiunse la piena maturità nella scultura Tang dei
secoli VII e VIII: il gruppo proveniente dalla grotta 3 di Tiantishan, nel Gansu, illustra il perfetto equilibrio
tra forme piene e vesti che le ricoprono in modo naturale; la grandezza del Buddha, dei suoi insegnamenti e
della dinastia al potere non è più espressa esagerando le masse corporee, ma attraverso il perfetto equilibrio
dell’insieme. Il Buddha della Medicina (Bhaishajyaguru; cat. 27) e il Buddha del futuro (Maitreya; cat. 26),
rinvenuti nella grotta meridionale di Leigutai a Longmen, superano i due metri di altezza, eppure anche
stavolta non è la mole a dominare, ma un senso di equilibrio e di serenità.
Il Bodhisattva Dashizhi (Mahasthamaprapta) ritrovato nel monastero di Fengxian (cat. 28), seduto su un
trono con una gamba pendente e la mano turgida appoggiata sul ginocchio, è addirittura sensuale, con le sue
forme carnose impreziosite da gioielli. Il gruppo di cinque sculture del monastero esoterico di Da Anguo a
Xi’an (cat. 35-39) è pervaso da un forte naturalismo e senso dell’equilibrio anche nelle figure delle
cosiddette “deità irate”, la collera delle quali fa vibrare intensamente le superfici, ma non le scompone con
gesti eccessivi.
I due bodhisattva del monastero Dahai nello Henan (cat. 33-34), databili all’821 circa, sono ancora molto
carnosi, ma la sensualità si è trasformata in languore: sembra quindi possibile dedurre che fino alla fine
dell’VIII secolo la scultura buddhista abbia riflettuto la potenza vigorosa ed equilibrata della dinastia
imperiale, mentre dal IX secolo le statue siano divenute più languide e malinconiche, interpretando il mutato
clima politico, meno energico e più insicuro.
Nel campo dell’arte decorativa, l’oreficeria e le ceramiche Tang riflettono mirabilmente l’opulenza della
corte, il gusto per l’esotico, ma anche l’elaborazione di un nuovo stile, più vicino al gusto cinese. Le scoperte
archeologiche degli ultimi cinquant’anni rivelano un uso di vasellame da tavola d’oro e d’argento senza
precedenti; alcuni siti del IV, V e VI secolo hanno restituito manufatti di bronzo dorato, argento e oro, di
stile palesemente non cinese, realizzati in regioni lontane, come il piatto decorato con Dioniso trasportato da
un leone (cat. 67), proveniente addirittura dal mondo romano, ma prima dell’avvento della dinastia Tang
questi reperti erano rari e comunque importati. I materiali emblematici dell’aristocrazia e del potere nel
Paese di Mezzo erano la giada e il bronzo, mentre oro e argento erano prediletti nei paesi centroasiatici,
dell’Asia Occidentale e dell’impero romano. Il ritrovamento di tali oggetti in siti cinesi dimostra
l’apprezzamento di manufatti esotici da parte dell’élite non di etnia Han, che dominava la Cina
settentrionale, e i frequenti contatti con popolazioni straniere.
In epoca Tang, la quantità di vasellame prezioso da tavola aumentò vertiginosamente, non perché fosse
importato in quantità maggiore – non era un bene commerciale come gli altri –piuttosto perché veniva
inviato come dono da sovrani di altri paesi attraverso le delegazioni, oppure offerto dalle comunità straniere
residenti in Cina.
Dalla fine del VII secolo, le tecniche di lavorazione, la forma e la decorazione erano ancora ispirate a
modelli stranieri, soprattutto persiani, ma furono avviate manifatture locali e il linguaggio decorativo
cominciò a rivelare una rielaborazione dei motivi secondo il gusto cinese. La forma polilobata della coppa
con manico rinvenuta a Xi’an (cat. 96) e il soggetto decorativo di uomini a caccia, per esempio, sono di
origine sogdiana, mentre il motivo di dame in giardino è certamente cinese. Lo stesso concetto vale per il
calice d’argento parzialmente dorato rinvenuta a Luoyang (cat. 95), mentre la magnifica scatola d’argento
dorato facente parte del deposito di Dingmaoqiao, nel Jiangsu, è abbellita con un motivo tipicamente cinese:
una coppia di fenici in volo fra volute floreali con un fiore nel becco, simbolo di buon governo (cat. 88). Dal
medesimo sito proviene lo straordinario e unico recipiente a forma di tartaruga contenente un gioco di
società che prevedeva l’assunzione di bevande alcoliche da parte dei partecipanti (cat. 86): il gioco stesso,
che evoca immediatamente personaggi come i “sette saggi del boschetto di bambù”, le citazioni dai Dialoghi
di Confucio e anche la tartaruga non potrebbero essere più squisitamente cinesi nello stile. L’eleganza
meridionale è evidente anche negli altri reperti scoperti a Dingmaoqiao (cat. 87, 89-92), forse perché dalla
seconda metà dell’VIII secolo il sud divenne il maggior produttore di argenteria con cinque aree
specializzate, così la lavorazione dei due metalli pregiati raggiunse livelli straordinari.
La diffusione di vasellame d’oro e d’argento in questo periodo è probabilmente riconducibile
all’affermazione di una nuova prassi secondo la quale gli ufficiali inviavano a corte tributi preziosi da alcune
regioni dell’impero: gli oggetti d’oro e d’argento del periodo Tang giunti fino a noi sono stati raramente
restituiti da sepolture, di solito provengono da “depositi”, cioè da luoghi in cui il vasellame veniva occultato,
probabilmente per salvarlo da guerre e razzie; è il caso di Dingmaoqiao, che ha conservato ben
novecentocinquanta reperti, e di Hejiacun, vicino all’aeroporto di Xi’an, nello Shaanxi, da cui ne sono
emersi altrettanti.
Tale regola era imposta dalla legge, tuttavia non era sempre rispettata, come nel caso del sottopiatto decorato
con motivi di pesci ritrovato a Luoyang (cat. 93). Di solito il vasellame di metallo del periodo Tang è
considerato pertinente solo alla sfera privata dell’aristocrazia e all’opulenza della corte, ma in realtà era
utilizzato anche in ambito religioso, come dimostra il magnifico insieme di reliquiari del tempio della
Grande Nube a Jingchuanxian nel Gansu (cat. 42) – che ne include anche uno di pietra, uno di bronzo dorato
e il più piccolo di vetro – e l’inestimabile tesoro rinvenuto nella cripta della pagoda del monastero di Famen
nello Shaanxi. Gli scrigni esterni di pietra e di bronzo dorato sono di forma quadrata, come prevedeva la
regola fin dal V secolo, mentre quelli successivi d’argento e d’oro evocano le fattezze dei sarcofaghi di
epoca Tang, a dimostrazione degli stretti legami intercorrenti fra religione e vita secolare.
La forma della brocca d’argento arghya senza manico dal monastero di Famen (cat. 43) è di origine indiana,
così come il motivo decorativo simbolo del buddismo esoterico, mentre la tecnica della doratura parziale
proviene dall’Asia Occidentale; la stessa è applicata sul contenitore per incenso (cat. 45), squisitamente
decorato con danzatrici straniere dorate e volute floreali su sfondo puntinato, mentre il fiore di loto (cat. 44)
è una meravigliosa riproduzione realistica del fiore vero e proprio; molti oggetti del tesoro di Famen
riportano il marchio wensi yuan, cioè del laboratorio nel palazzo imperiale che produceva anche vasellame
per la corte.
Il bronzo – metallo pregiato per antonomasia nella civiltà cinese – in epoca Tang fu usato di frequente, oltre
che per realizzare sculture buddhiste, anche per produrre splendidi specchi, il retro dei quali era abbellito con
soggetti tipicamente cinesi, come quello ispirato a contenuti daoisti (cat. 97), o motivi importati da paesi
stranieri, come i grappoli d’uva che fanno da sfondo in un altro esemplarecon i dodici animali dello zodiaco
(cat. 98). Lo specchio dalla tomba di Li Chui (cat. 99) mostra invece un’innovazione tecnica adottata dagli
artigiani Tang: preziose applicazioni di madreperla raffiguranti uccelli in volo ed elementi floreali che
compongono una decorazione estremamente elegante.
Il periodo Tang è particolarmente importante nello sviluppo della ceramica cinese per lo status di materiale
pregiato che essa conquistò, accanto a seta, giada, lacca, bronzo, argento e oro, in virtù delle sofisticate
tecniche impiegate dalle fornaci più avanzate. La bellezza delle ceramiche bianche e verdi fu addirittura
immortalata nei versi di poeti eccellenti come Du Fu, che considerava le ciotole bianche superiori alla brina e
alla neve (Michaelson 1999, p. 102). Alcune forme e decorazioni imitavano esemplari in oro, argento e
lacca, ma la qualità poteva competere con i materiali pregiati, infatti certi generi erano apprezzati anche dalla
corte. Ciò è ben evidenziato dal raffinatissimo piattino bianco, contraddistinto dal marchio “ufficiale” (cat.
100), e dalla tazza con invetriatura verde (cat. 101) in mostra. Il piatto, riproducente una forma in argento o
lacca, è di un materiale nuovo, molto speciale: è infatti di porcellana, un tipo di ceramica cotta ad alta
temperatura come il grès, ma caratterizzata da corpo bianco e traslucido, inventata nelle fornaci di Xing nello
Hebei e di Gongxian nello Henan fra la fine del VI e l’inizio del VII secolo (mentre in Europa fu prodotta
solo dall’inizio del XVIII secolo); il significato del marchio non è chiaro, ma lo collega indubbiamente al
sistema tributario della corte. Non tutti i manufatti bianchi erano di porcellana, alcuni erano preparati con
materiali meno puri, perciò il corpo non risultava perfettamente bianco, così, per ovviare a questo
inconveniente, gli artigiani li rivestivano di ingobbio bianco prima di applicare l’invetriatura trasparente: il
vigoroso vaso con due manici a forma di drago (cat. 76) prova che l’effetto era comunque eccellente.
L’evoluzione tecnico-artistica delle più antiche fornaci produttrici di ceramica cotta ad alta temperatura,
situate nella Cina meridionale e attive fin dalla dinastia Shang, è ben documentata dai reperti in mostra, i più
eclatanti dei quali sono la già citata urna funeraria hunping (cat. 7) e la brocca con il manico a forma di drago
(cat. 74), anticipatore di una moda molto diffusa dopo l’unificazione del paese, nel 581. Nell’VIII secolo tali
fornaci, note con il nome collettivo di Yue, rinnovarono radicalmente la produzione, perfezionando la qualità
dell’invetriatura verde (cat.101), tanto che nel IX secolo le ceramiche furono incluse nel sistema di tributi
presentati dalle prefetture e dagli ufficiali alla corte (Rastelli 2004, p. 148). Fonti letterarie dall’epoca Tang
in poi fanno riferimento a un particolare tipo di ceramica Yue, chiamato miseci o “grès dal colore segreto”,
identificato solo nel 1987 durante lo scavo della cripta della pagoda del monastero di Famen, che restituì
quattordici stupendi e rari esemplari: la loro qualità è veramente eccezionale e infatti le autorità cinesi ne
hanno negato il prestito (fig. 13).
Nelle tombe Tang, oltre alle sculture di terracotta, sono stati rinvenuti recipienti e oggetti di ogni tipo
rivestiti con brillanti invetriature al piombo monocrome e policrome, note con il termine sancai, cioè “tre
colori”, che trasmettono efficacemente la dinamicità, l’esuberanza e il cosmopolitismo dell’epoca.
Il piombo utilizzato nell’invetriatura delle ceramiche sancai le rendeva tossiche, perciò si è sempre ritenuto
che fossero destinate esclusivamente alle sepolture, tuttavia la loro prorompente bellezza rende difficile
credere che non fossero utilizzate anche quotidianamente. Il piatto marezzato rinvenuto nel Jiangsu (cat. 82)
è realizzato con una tecnica estremamente complessa e costosa che rafforza la convinzione di un uso non
solo funebre per le ceramiche sancai; lo stesso vale per la splendida brocca con il collo a forma di testa di
fenice (cat. 79) o la fiasca decorata con una scena circense (cat. 80). Inoltre, numerosi esemplari di questo
genere sono emersi da siti archeologici in Medio Oriente, Africa, Sudest asiatico e Giappone insieme a
ceramiche bianche e verdi, a dimostrazione dell’alta considerazione in cui erano tenute. Spesso si parla dei
beni importati in Cina durante la dinastia Tang e quando ci si riferisce all’esportazione si sottolinea
soprattutto quella della seta, ma anche le ceramiche costituivano una voce importante; testimonianza di ciò è
il ritrovamento di navi affondate nei mari del Sudest asiatico cariche di migliaia di oggetti in ceramica
destinati ai mercati stranieri.
L’arte Tang, indipendentemente dal mezzo espressivo usato, è caratterizzata da uno stile uniforme, pervaso
da un marcato interesse per il realismo, che scaturisce dalla straordinaria sintesi di linguaggi precedenti e
nuove esperienze. La dinastia Tang inaugurò un’epoca gloriosa, non a caso definita “età d’oro”, durante la
quale la Cina divenne il centro culturale dell’Asia Orientale con echi che raggiunsero addirittura il
Mediterraneo. L’aggettivo che meglio la qualifica è “cosmopolita”: la Cina dell’epoca era affascinata da
tutto ciò che era straniero e alimentava tale attrazione per l’esotico importando un’infinita varietà di merci da
tutto il mondo attraverso la Via della Seta, che collegava l’Oriente estremo alla Persia, e tramite le rotte
marittime che ponevano l’impero al centro di scambi commerciali e culturali dall’Arabia al Giappone.
Assieme alle merci, affluivano genti di paesi, razze e religioni diverse con credenze, usanze e costumi
caratteristici che si diffusero nella tollerante società cinese, divenendone parte integrante e indissolubile.
Dal catalogo della mostra “Cina. Alla Corte degli Imperatori. Capolavori mai visti dalla tradizione Han all’eleganza Tang (25-907)
(Firenze, Palazzo Strozzi 7 marzo – 8 giugno 2008)- Skirà Editore,Milano 2008.