l`eremita contemporaneo - LIV - Centro di ricerca e formazione nelle

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l`eremita contemporaneo - LIV - Centro di ricerca e formazione nelle
L’EREMITA CONTEMPORANEO
regia Anna Dora Dorno
Il Pozzo e il Pendolo Teatro, Napoli
IN SCENA DAL 16 AL 18 DICEMBRE 2011
A Studioteatro L’eremita contemporaneo: biomeccanica operaia, degna di applausi.
LO SPAZIO, LA FORMA, IL MOMENTO PRESENTE
Sempre più spesso è una questione di Forma.
Sempre più spesso ciò cui assistiamo assume valore per la vibratile essenza ostentata piuttosto che per ciò di cui essa
poi chiacchiera. Un muscolo che freme tesissimo; la porzione di fiato rilasciata nell’aria; uno e uno solo tra i molti moti
possibili: sempre più spesso è una questione di Forma.
Sempre più spesso il Teatro che ci solletica il giorno dopo a pensarne e parlarne e scriverne sperando di farne dibattito è
una questione di Forma e non di Tema o Contenuto prescelto. È questa nostra propensione a guardare, trattenendo il
respiro, come viene posto in scena cosa ad averci sospinto all’appassionata disamina di ciò che si sommuove nascosto,
rintanato e infognato in luoghi-non-luoghi divenuti contesti teatrali.
Questo nostro moto d’osservanza e attenzione in realtà non è “nostro” ma c’è suggerito dai crolli e dalle rinascite del
Teatro dei decenni passati. Crollati sono i discorsi ortodossi, i busti-maestri, gli ideologismi pomposi; i convincimenti
pletorici, i proclami marmorei, i pregiudizi politici; gli stantuffi in nome del popolo, in nome del popolo gl’inni, gli slogan, i
formulari imparati a memoria e malamente applicati su assito. Crollati, e non da oggi.
Crollati, e non da oggi, se – decenni fa – Peter Brook scriveva memoria raccontando di un’aria pulita, leggera, respirabile
quant’è respirabile l’aria di primo mattino: depurata dalle ciarle di «chi era convinto che la Cultura con la “c” maiuscola
iniettasse nelle vene della società una qualità ben superiore all’adrenalina di bassa lega messa in circolo da una volgare
commedia» l’aria era lo spazio «privo di scuole, maestri, esempi: il teatro tedesco veniva completamente ignorato,
Stanislavskij era praticamente sconosciuto, Brecht non era che un nome, e Artaud nemmeno quello». L’aria era pulita,
leggera, respirabile ovvero: lo spazio era spazio vuoto: «perché accada qualcosa che abbia qualità, è necessario che si
crei uno spazio vuoto. Uno spazio vuoto consente la nascita di un fenomeno nuovo, giacché tutto quello che concerne
contenuti, significati, espressioni, linguaggio e musica può esistere solo se l’esperienza è fresca e nuova. D’altro canto,
nessuna esperienza fresca e nuova è possibile se non c’è uno spazio puro e vergine, pronto ad accoglierla».
Il Teatro, perché sia ricerca d’un’altra Forma possibile, necessita di uno spazio vuoto nel quale non il teatro tedesco, non
Stanislavskij, né Brecht o Artaud vengano scimmiottati per replica consunta e ammuffita (Teatro Mortale, defunto ancor
prima di nascere: vale anche per i cronisti ed i critici se – per dirla ancora con Brook – «non hanno il coraggio, ad ogni
evento cui partecipano, di rimettere in discussione le proprie formule») ma in cui, piuttosto, si manifesti presente
(«l’essenza del Teatro è contenuta in un mistero chiamato “il momento presente”») una maschera nuova, un nuovo
battito in cui le sillabe pulsano, una nuova curvatura di schiena o di braccia o di gambe o di qualsiasi altro muscolo in
sforzo.
Ieri sera c’è parso che, a tratti, Studioteatro rispondesse pienamente al ruolo che interpreta (uno spazio vuoto, pronto ad
accogliere) e che L’eremita contemporaneo fosse avvenenza diversa e possibile (un momento presente, meritevole
d’accoglienza e attenzione). Ieri sera c’è parso, a tratti, che fosse una questione di Forma. Non di Tema o Contenuto
prescelto: di Forma.
Come far avvertire, alla pelle di chi osserva, il fastidio del tanfo di fabbrica? Come far avvertire, della fabbrica, il
massacro di membra, lo sporco dell’olio, la cacofonia strumentale? Come far avvertire la fissità dell’orario, la ritmicità
spappolante, il degrado che afferra un corpo operaio e lo riduce a brandelli strofinandolo fino a farne carcassa? Come far
avvertire cos’è una catena di montaggio, quali effetti produce, che cosa lascia a chi resta, a chi vi sopravvive ammuffito,
a chi vi si è consunto alle mani, ai piedi, alle gote; nel piccolo fosso tra le gote e la bocca, della bocca le gengive, i denti,
la lingua e poi s’è consunto all’addome, alla schiena, alla cassa toracica, tra costola e costola, tra giuntura e giuntura
dove si piegano i gomiti, le ginocchia, la testa? Come far avvertire cos’è un uomo di cui conta solo la produzione
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accertata e accertabile, il numero di pezzi prodotti, il conto di fine giornata – giornata dopo giornata – cui corrisponde
adeguato e inadeguato salario?
Nel 1962 Paolo Volponi poteva far narrativa lunga cinquecento pagine ed oltre e, nelle cinquecento pagine ed oltre,
raccontare la degradazione moderna d’un inetto qualunque: Albino riceve il suo ruolo, la sua mansione, il suo contratto
con regolare compenso ed entra nel gran capannone ventrale di fabbrica: «Aspettavo soprattutto di entrare nel corpo
della fabbrica, di arrivare di fronte alle macchine, alla bocca del rumore». Sopraggiunto sul posto ecco l’irreversibile
trasformazione meccanica, per sé e per gli altri: «chi con una spalla più alta, chi più bassa, chi piegato, chi diritto: non
c’è nessuno che non sia un pezzo della fabbrica». I pezzi, appunto: l’uomo diventa i pezzi che produce nel tempo che
lavora: «Tre pezzi due minuti. Novanta all’ora. Oltre mille al giorno. Per ogni giorno. Il lavoro pesa. Anche la macchina
pesa. I pezzi da fresare danno poi un senso di fastidio. Quanti erano: ognuno uguale all’altro, irriconoscibili; quale
sarebbe stato il primo e quale l’ultimo e perché?». Albino finirà matto, altrove dal cementale d’industria: «La fabbrica è
chiusa, di ferro: dentro passa il tempo dalle sette alle diciannove. La fabbrica è costruita per la velocità, per battere il
tempo. Davanti non si fermerà nessuno, solo chi starà male o chi vi lavorerà o chi non avrà lavoro. Ma di ciò di cui non si
può parlare si deve tacere».
Di questa bruttura ch’è già Tema e Contenuto ampiamente narrato (si leggano, oltre a Memoriale di Volponi, Ottiero
Ottieri e Giovanni Pirelli per farsene idea) L’eremita contemporaneo offre Forma diversa, altra, possibile facendosi
momento presente.
Nello spazio vuoto di Studioteatro non c’è che un trespolo in metallo, una striscia-tappeto di plastica fissata per terra e,
fra trespolo e striscia-tappeto, una scaglia lucente che visualizza l’immagine di un rudere d’impianto industriale. Il
trespolo sarà: rappresentazione ondulata di un’insofferenza intestina, avvento per crollo del crollo dell’uomo, avamposto
su cui poggia l’essere perso. E sarà: fabbrica, suoi corridoi, sue ciminiere; fabbrica, suoi macchinari, sue grandi vetrate;
fabbrica, suoi operai, sue vittime scelte. La striscia-tappeto sarà: giaciglio, anfratto, angolo putrido. E sarà: la soglia di
casa alle sei del mattino; la strada compiuta verso il gran mostro, l’entrata condotta tra le pareti del ventre ferroso; e
sarà turno, rullìo, ritmometrìa; trasporto meticoloso di spasimi, scansione prosodica di gesto e parola, pedana per una
danza meccanizzata e ossessiva.
Il trespolo e la striscia-tappeto saranno l’inferno che oggi è dimentico e che assume rilievo solo quando i corpi si
bruciano (Tyssen), quando sono costretti a chinarsi (Pomigliano), quando s’intossicano crepando a linfomi (l’ILVA di
Taranto).
L’inferno è una demonìa, una demonìa è il corpo d’attore ch’è da Forma al Teatro. Nicola Pianzola, unico in scena, fa
campionatura d’impulsi, di fremiti e mosse d’automa: ora guizza da trottola, ora batte geometrico, ora s’attorciglia in un
grumo che si trascina fetale come sagoma mobile. Ora ritma in sequenza talloni-gomiti-mani-spalle-nuca-parte bassa di
schiena; ora disegna eliche e sfere ed ellissi vorticando la parte destra del fisico; ora sale e scende, risale e riscende,
risale e riscende, risale e riscende l’interno del trespolo divenuto interno di fabbrica. Ora sulla fabbrica siede, ora dalla
fabbrica cade, ora nella fabbrica muore. Ora dalla fabbrica – chi rimane, chi vi sopravvive – è respinto: una, due, nove
ripetute di corsa, le mani afferrano i lati della montatura in metallo mentre una spinta di gambe rende, a mezza altezza,
un corpo che vola: all’aria ogni rivendicazione possibile.
Biomeccanica contemporanea, evoluzione ulteriore del «taylorismo» americano e della «proizvòdstvo» (ovvero:
«produzione») sovietica, rende lo spazio vuoto di Studioteatro, per momenti presenti, un laboratorio di movimenti
meccanici, di leve e ingranaggi attraverso tensioni, rotazioni ed espansioni del corpo, del corpo il suo battito, del battito il
fiato.
«Interprete qualificato» ne avrebbe detto Mejerchòl’d. Ma noi preferiamo l’aria pulita, leggera, respirabile per quanto
ammorbata di ruggine, di polvere, di cancrena e putredine.
Forma che avvampa per compendio metronomo (a tratti è raggiunta la celerità campionata della disco coeva) L’eremita
contemporaneo funziona ed avvince per la tachimetria attoriale, per l’attoriale precisione podistica, per la serialità degli
atti fisici, grafici e riflessologici. Meno convince (ma è ronzio all’orecchio) per qualche eccesso di verbalità fuori scena:
prosa poetica, intarsio di versi, sfiato a maniera: preferiamo rimanere intabarrati in azienda, tra i suoi stimoli atletici e i
suoi contraccolpi ginnico-psichici.
Plauso va fatto ad Instabili Vaganti, alla regia di Anna Dora Dorno, alle musiche compiute sul posto di Andrea Vanzo e,
soprattutto, a Nicola Pianzola: tra le membra e la mimica, l’immaginosa arditezza di una nuova Forma teatrale, diversa e
possibile. In uno spazio vuoto un momento presente: L’eremita contemporaneo è stato un soffio d’aria pulita.
Alessandro Toppi
Napoli, Studioteatro, venerdì 16 dicembre 2011
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