La trota ai tempi di Zorro

Transcript

La trota ai tempi di Zorro
Michele Marziani
La trota ai tempi di Zorro
© 2006 DeriveApprodi
I edizione: maggio 2006
P.zza Regina Margherita 27, 00198 Roma
tel 06-85358977 fax 06-97251992
e-mail: [email protected]
www.deriveapprodi.org
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Andrea Wöhr
Immagine di copertina:
ISBN 88-89969-07-5
Avere un doppio cognome a volte è peggio che portare gli occhiali. Ecco i due crucci principali della vita di Stefano Baldazzi
Morra. Il cognome e gli occhiali. Il cognome perché da bambini
è già difficile averne uno di cognome, figuriamoci due, con
maestra, supplenti, direttore e poi professori e presidi sempre a
interrogarlo sull’esatta posizione di Morra e Baldazzi. Sei un
Baldazzi Morra o un Morra Baldazzi? Quanto avrebbe voluto
essere un semplice Rossi o un anonimo Bianchi. Stefano Baldazzi Morra è nato il sette dicembre del millenovecentosessantadue a Laigueglia, sulla Riviera di Ponente. Ed è lì che ha sempre vissuto, tra la spiaggia, la vecchia cittadina di pescatori e gli
stabilimenti balneari per turisti sempre più stagionati. Papà e
mamma a Laigueglia c’erano andati per il mare, perché a Emilia, sua madre, il mare scorreva nel cuore. Lei in fondo c’era nata sul mare, ma su un altro mare, da tutt’altra parte: a Trieste.
Con papà si erano conosciuti all’università, a Milano. Papà era
nato pure lui a Laigueglia, ma la sua famiglia veniva dal Piemonte, quello vero. Precisamente i Baldazzi Morra, badava a dire sempre papà, venivano dalle colline del Roero, da Priocca
d’Alba. Papà però, era nato in Liguria ed era cresciuto in un altro Piemonte, dove già si parla lombardo, a Gozzano, sul piccolo lago d’Orta. A papà del mare non importava nulla, ma gli importava della mamma. Ecco allora che laureati di corsa, presa la
5
prima supplenza ad Albenga, si trasferiscono al mare armi, bagagli e pancione della mamma. Già, stavo arrivando io.
Il doppio cognome insomma me lo sono beccato perché è
quello di papà. Quanto agli occhiali non so bene a chi li devo
perché sia papà sia mamma li ho visti sempre con gli occhiali
inforcati. Addirittura papà ne ha tre o quattro diversi per leggere, scrivere, guardare lontano, vicino e guidare la macchina. Così a quattro anni sono stati la mia prima eredità: sono ipermetrope astigmatico (quasi un doppio cognome e come un doppio
cognome non so mai se va prima ipermetrope o astigmatico).
Beh, gli occhiali sono una sorta di calamità capace di attirare le
battute e gli sghignazzi di tutti i miei compagni di scuola. Ma
dai, dice papà, chi vuoi che negli anni Settanta faccia più caso
agli occhiali? Orde di bambini, papà. Almeno alla mia scuola.
Forse è anche per gli occhiali che mi è piaciuta l’idea di andare a
vivere a Gozzano. Spero che lì ci facciano meno caso.
E poi Gozzano l’ho vista. Siamo andati a farci un giro per cercare casa. È un posto bellissimo, non c’è l’umido del mare, dice
papà. Ci sono invece boschi e sentieri nei boschi e castagneti e il
lago e i cavalli che sono degli Zucca, quelli che fanno il rabarbaro. E poi c’è un torrente, alberi di robinia dappertutto, da lontano si vedono le montagne, quelle vere, le Alpi. È un posto dove
staremo bene, me lo sento.
Nel giugno del millenovecentosettantacinque, appena finita
la scuola, ci trasferiamo da Laigueglia a Gozzano. La nuova casa
è in fondo a via dei Grissini, lungo la strada che dalla Gozzano
vecchia, da via Regina Villa, conduce a Bolzano Novarese.
La casa è un po’ la somma dei sogni miei, di mamma e di
papà. Io ho il giardino con la possibilità di tenere un cane, papà
lo studio dove lavorare in santa pace e mamma una casa senza
vicini con cui litigare. Già, la nuova casa è proprio una casa, una
villetta, non un appartamento dove, come dice mamma, sul pianerottolo s’incontra chissacchì (di solito solo i signori Palladio,
quelli che la mamma non sopporta proprio).
6
A me non piacciono le case, le esploro sempre con diffidenza, ma questa è grande, c’è tanto sole in giardino, le scale, la ringhiera, il garage che una volta era una stalla. Il garage è immenso, dovevano starci almeno tre o quattro mucche visto che oggi
c’è posto per l’ottocinquanta, la lavatrice e le riviste che papà un
giorno o l’altro butterà via. Da oggi ci metterò anche le canne da
pesca. Già, ho deciso che diventerò un bravo pescatore. La canna e il mulinello li ho portati da Laigueglia, ma ho bisogno di
spazio per quando comprerò gli stivali, il cestino e soprattutto
per tenere i vermi che mamma assolutamente non vuole in casa. Come alla fine non vuole neppure il cane. A Laigueglia non
avevamo il giardino e le mie promesse di portarlo a passeggio al
mare tutti i giorni non erano valse a nulla. Qui il giardino ce
l’abbiamo – talmente grande che ci tocca chiamare un signore a
far ordine di tanto in tanto – ma la mamma trova sempre delle
scuse per rimandare. Mi consolo con il panorama dalla finestra
di camera mia, mi piace proprio, se guardo in alto si vede una
chiesa, si chiama il Castello, ma assomiglia a un maniero solo
quando il sole sta per tramontare. Allora il Castello è cupo, avvolto dai raggi aranciati del sole calante. Gli arbusti sulla montagna scompaiono e le vie intorno diventano fredde. Però a me
piace guardare lo stesso, mi dà la malinconia, ma la malinconia, dice papà, a volte può essere un piacere. Glielo auguro perché a volte ne ha proprio tanta di malinconia. Al contrario della
mamma che è sempre allegra, anche quando non c’è proprio
motivo.
Giulio Baldazzi Morra, classe millenovecentotrentasei, laurea in lettere classiche, insegnante al liceo scientifico di Borgomanero (un treno da prendere tutti i giorni) e soprattutto giovanissimo (vista l’età media di certi ambienti) e promettente curatore dell’antologia della lingua italiana per le scuole medie di
Bruno Gobbi Editore, casa editrice di Milano specializzata in
editoria scolastica. È il papà di Stefano. Una bella famiglia, una
bella moglie, una vita tutto sommato invidiabile e una nota di
7
tristezza negli occhi azzurrissimi, quelli che Stefano, a differenza del doppio cognome, non aveva ereditato.
A Gozzano è stato lui a volerci tornare anche se non sapeva
poi troppo bene perché. Se n’era andato per l’Università. Da allora aveva inseguito ostinatamente prima i suoi sogni, poi Emilia, la mamma di Stefano, poi… Poi quell’insoddisfazione di
fondo che mestava i suoi pensieri. E lo sguardo fisso sulla finestra dello studio, nella nuova casa di Gozzano. Il suo primo studio. Non un angolo di cucina, non un pezzetto di ripostiglio,
non una porzione di terrazzo (sia pure sul mare), ma una stanza intera. Libri nelle librerie, finalmente. E una scrivania, non
grande, ma di legno con la Lettera trentadue, nuova di zecca, azzurra, con la piccola scritta al centro e la scatola con la cerniera
riposta dietro la sedia, pronta a partire in qualunque momento.
Solo nastro nero, Giulio non sopportava i nastri bicolore nelle
macchine da scrivere. E poi fogli, tanti. Un portapenne, la stilografica, qualche Bic, la foto di Stefano ed Emilia che lo guardano sorridendo proprio lì, nell’obiettivo della Rollei.
Non aveva visto la guerra Giulio Baldazzi Morra. Aveva passato l’infanzia a giocare e a mangiare pane bianco, ad Ascona,
non lontano dal lago, dagli zii in Svizzera. Mentre l’Europa mangiava pane nero e a volte neppure quello, lui la guerra la vedeva
sui giornali. L’avrebbe sentita raccontare dopo, dagli amici, dai
genitori degli amici, da un intero paese che sembrava essere
uscito da uno schiacciasassi, da un rullo compressore. Giulio no,
era salito in macchina assieme alle sorelle, papà Amilcare alla
guida, mamma Rosetta dietro con le femmine. Erano scesi a Locarno, poi via lungo il confine del lago e infine di nuovo in Italia.
Siamo italiani, ricordalo sempre, gli aveva detto suo padre. Italiani un po’ più fortunati degli altri, le macerie della guerra si facevano sempre più fitte scendendo dal lago verso Gravellona con le
fabbriche distrutte e i posti di blocco dei soldati senza divisa. Sono partigiani, sono loro che hanno liberato l’Italia gli aveva detto
ancora suo padre. In Svizzera, aveva pensato, i liberatori sono vestiti un po’ meglio. A dieci anni era ritornato italiano. E non più
un italiano di Laigueglia, del mare, come quando era bambino
piccolo. Un italiano di Gozzano, in Piemonte, da bambino ormai
grande. Ci aveva vissuto bene Giulio Baldazzi Morra nella Gozzano della ricostruzione. Poi si era allontanato di nuovo. Verso
Novara per il liceo, verso Milano per l’Università. È in piazza
Santo Stefano che ha conosciuto Emilia, rampolla prodigio di famiglia triestina, cocciutamente laureanda in filosofia. Che
sguardo scuro, nero, luminoso come una meteora, un lampo…
Gli stessi occhioni neri di Stefano. Capelli corvini, lisci, morbidi
come la giovinezza. Amarsi, studiare, laurearsi, sposarsi è stato
un tutt’uno. E a Emilia piaceva il mare. A Laigueglia c’era il mare
e Giulio c’era pure nato. E c’erano anche le supplenze alle medie
di Albenga. E… Stefano è nato subito, neppure il tempo di immaginare una casa e un bambino.
Amilcare, suo padre, in realtà spingeva perché facessero in
fretta, più in fretta. In fondo la gamba matta non si vede, ma ti
ha evitato di fare il militare. Già la gamba matta. Giulio aveva
avuto la polio da piccolo ma se l’era cavata, segno che aveva davvero fortuna, con una gamba leggermente più corta dell’altra.
Più che un difetto sembrava una postura un po’ ancheggiante,
quasi una parodia. Però non gli aveva impedito di amare la
montagna, i sentieri, le sfacchinate. L’aveva salvato dal servire
la patria, ruolo nel quale, con tutti quegli occhiali sparsi per le
tasche, si sarebbe sentito un po’ a disagio. Aveva provato una
volta a immaginarsi a cambiar lenti di continuo sotto un elmo
da bersagliere. No, di militare (e di militaresco) Giulio Baldazzi
Morra aveva ben poco. Anche nelle idee: i Baldazzi Morra, diceva suo padre Amilcare, sono sempre stati socialisti, anche prima del socialismo. Gli unici socialisti, o quasi, di Priocca d’Alba. E socialisti, nell’idea di suo padre, significava anche pacifisti. O, comunque, contrari alla guerra. Eppoi con quattro paia di
occhiali è davvero difficile fare la guerra. È complicato pure vivere una vita normale. Giulio Baldazzi Morra portava sempre
una giacca di velluto di quelle da caccia con diverse tasche,
ognuna delle quali occupata da una montatura con lenti diver-
8
9
se: per vedere vicino, lontano, guidare e leggere. Il problema era
l’estate perché la giacca pesava, ma gli occhiali da portare erano
sempre quattro. Ai quali andava aggiunta la pipa che da qualche
tempo Giulio si era incaponito a voler fumare al posto delle Nazionali Esportazione senza filtro. Per fortuna l’estate sta finendo, pensa Giulio all’improvviso guardando fuori dalla finestra
dello studio. I pomeriggi stanno cominciando ad accorciarsi.
L’autunno è iniziato assieme alla scuola e, nonostante il trasferimento a Gozzano, Giulio non riesce a mandar via quell’inspiegabile irrequietezza che accompagna la sua vita da qualche
anno a quella parte.
Tutto era cominciato per caso, lentamente, senza motivo. I
ragazzi a scuola non lo facevano più sorridere, anzi, a volte la loro presenza lo infastidiva. Era come se avvertisse l’inutilità di
quello che stava insegnando. Sarà, aveva pensato, che insegnare italiano allo scientifico è come insegnare matematica al classico. Significa stare al posto sbagliato. E si era così gettato sulle
carte, a divorare libri, ad ampliare quell’antologia della lingua
italiana che imperversava nelle scuole medie e, grazie ai diritti
d’autore, gli aveva permesso di acquistare la casa di via dei Grissini. Ma nemmeno i libri avevano per lui molto senso. Così come lo stava perdendo la politica: grazie ai compagni della sua
età, quelli che non riconosceva più, il partito stava passando –
sarebbe accaduto di lì a poco – in mano a un borioso con gli occhiali (un paio solo, ma molto più brutti dei suoi) e la ics nel cognome, tutti gli ideali infranti, gli operai arrabbiati nelle fabbriche e i primi sentori di qualcosa che stava avvenendo. Il serpeggiare di un malessere politico forte dal quale si sentiva tagliato
fuori. È difficile fare il giovane a quarant’anni quando tutti i tuoi
coetanei fanno i vecchi. E poi questa famiglia così presente, così necessaria e così difficile da gestire. Dopo la nascita di Stefano con Emilia non era successo più nulla, mai più un momento
di intimità. O quasi. Le rare, rarissime, occasioni in cui avevano
fatto l’amore lei era distante, assente, lontana. Talmente lontana che pure lui si era stufato di chiedere, di essere gentile, di
provare a sedurla di tanto in tanto. Erano passati quattordici anni così e non se ne erano neppure accorti. Né loro, né gli amici.
Chi avrebbe mai pensato che dietro Giulio e le suoe quattro paia
di occhiali e la prorompente allegria di Emilia si nascondesse il
silenzio dei sentimenti?
10
11
Emilia Grandori amava Giulio Baldazzi Morra di un amore
immenso, inossidabile, deciso da sempre. O almeno dalla prima volta che lui l’aveva guardata con quegli occhi chiari, silenziosi, quasi vagabondi, poggiati sopra una sigaretta spenta. Proprio come nei film, solo che Humphrey Bogart non aveva gli occhi azzurri. Da allora il suo è stato un amore militante.
Sopravvissuto a tutto, disposto a tutto. E sempre con allegria.
Con lo stesso sorriso sulle labbra, con la stessa battuta di spirito
o una dolce frase consolatoria, sia che Giulio lasciasse i calzini
sporchi sul tavolo, sia che le chiedesse a bruciapelo di abbandonare il mare per andarsi a rinchiudere in un paese pieno di rubinetterie. Un posto con l’umidità del lago senza neppure esserci affacciato. Un luogo che non è pianura e non è montagna.
Non è città e non è provincia. Un paese da operai, gli aveva detto. Gli operai sono l’ossatura del nostro paese, aveva risposto
Giulio. Che imbecille quando faceva così, quando buttava le cose di casa in politica. D’altra parte Emilia era comunista, militante, convinta, con la tessera e sugli operai non poteva dire nulla, neanche quando le scappava. In fondo l’unico litigio vero, lei
e Giulio, l’avevano fatto quando lei pretendeva di andare la domenica mattina a vendere l’Unità ai vicini. Porta a porta, come
un piazzista di aspirapolvere. Con la sveglia che suonava prima
dei giorni normali. Emilia amava Giulio e gli aveva dato vinta
anche quella. Tra loro forse le cose non andavano sempre bene
ed era molto tempo che non avevano più occasioni d’intimità.
D’altra parte il bambino è stancante, faticoso, completamente
accollato a lei mentre Giulio scrive, insegna, entra, esce, si dimentica di andare a prendere Stefano a scuola. Eppoi a lei non
piace, c’è qualcosa di sporco, di poco intimo, di ridicolo addirit-
tura in quella frequentazione di corpi, in quello scambio di nudità, di liquidi, di odori. No, a lei – che pure da ragazza l’aveva
desiderato tanto – proprio non piace. Per fortuna col tempo
Giulio ha smesso di chiederglielo e lei si è sentita molto sollevata. Lui l’amava lo stesso. Avrebbe chiesto il divorzio altrimenti.
Si erano battuti tanto negli anni precedenti per far passare la
legge. Adesso che avevano vinto se volevano potevano anche
usarla la legge. E invece no. Stavano bene lei e Giulio. E lui in
fondo non era neppure un grande amatore, magari non gli interessava neanche più. Erano spesso più insistenti certi spasimanti casuali che Emilia aveva occasione di incontrare, soprattutto al partito. Ma bastava che inforcasse gli occhiali o gli lanciasse un’occhiataccia di sottecchi che subito tornavano in riga,
al loro posto. Forse con il segretario, sì proprio con Enrico Berlinguer, le sarebbe piaciuta una storia d’amore. Anche a letto se
fosse stato necessario. Ma Berlinguer era una persona troppo
impegnata, troppo perbene per preoccuparsi di fornicazioni.
Proprio come il mio Giulio, pensava.
Emilia Grandori aveva insegnato un poco storia ad Albenga,
poco prima che nascesse Stefano. Poi le cose andavano bene e lei
aveva preferito fare la mamma a tempo pieno. Tanto la laurea l’aveva e se le fosse tornata la voglia d’insegnare avrebbe potuto farlo anche più avanti, una volta che Stefano fosse cresciuto a sufficienza. Altri figli no, non avevano voluto farne. Non era chiaro
chi l’avesse deciso ma Stefano bastava. Lei era figlia unica ed era
cresciuta bene da sola. Molto meglio di Giulio soffocato da quelle sue insopportabili sorelle. E poi Stefano è un bambino in gamba, un ragazzo ormai, e dà tante soddisfazioni. Un po’ timido
forse, un po’ troppo fissato con i libri, tanto che spesso bisogna
mandarlo a giocare fuori per fargli prendere un po’ di sole. E poi
bello, Stefano è bello come suo padre, il padre di Emilia, che è
stato capitano di Marina. Un padre conosciuto in fotografia, mai
tornato a casa dalla guerra. Emilia che era nata nel millenovecentotrentotto era troppo piccola per ricordarselo alla partenza.
Gozzano è un paese che a volte piace e a volte no. Dipende
con quali occhi lo si guarda e un po’ anche da dove lo si raggiunge. Di certo a quelli che arrivano in treno rischia di piacere di
più. La stazione è piccola, appartata, quasi timorosa di dar fastidio allo scorrere delle cose. Da lì si risale per viale Parona. All’inizio ci sono i giardini, un villino e poi su, da Villa Caprera, il
viale sale, lentamente, verso il cuore del paese. Il cuore è un incrocio, pomposamente chiamato Purtòn, il Portone, anche se
nella toponomastica ufficiale un nome non ce l’ha proprio. La
mia vita e la mia casa però non c’entrano nulla con il paese. Anzi, in paese andiamo poco. Quando siamo arrivati sono venuti a
casa il farmacista, il giornalaio, persino l’Antonioli, a salutare
papà che era tornato. A ricordare qualcosa di simile ai vecchi
tempi. A conoscere mamma e a dirmi che bel ragazzo. Ma papà
li ha guardati gentile di quel gentile che dice di non tornare. E
loro non sono tornati. Mamma se può non va a fare la spesa nei
negozi, rimanda al sabato, quando c’è il mercato con le verdure
fresche in abbondanza e la pescheria ambulante proprio in
piazza. È lì che ho visto le trote, certe trote grosse e colorate che
mi piacerebbe proprio pescarne una. E poi le tinche, dalla pancia gialla, quelle che piacevano agli antichi romani. E mamma
sempre a comprare le sarde, a chiedere se sono fresche persino
con le domande a trabocchetto. Dovresti saperlo, penso, che a
Gozzano le sarde non possono essere fresche, siamo più vicini
alla Svizzera che al mare. Ma mamma è testarda, lei il mare ce
l’ha nel sangue e quando può ce lo propina pure per pranzo. A
me non piace il pesce, ma mi piace il mercato. Ci passo il sabato
tornando da scuola. Non faccio religione – lo sa che non è mai
accaduto in questa scuola? Ha spiegato il preside a papà – e esco
a mezzogiorno. Corro lungo via Gentile e sbuco in piazza. Ogni
volta ho il fiatone e mi fermo davanti al banco del pesce. Guardo
le code delle trote uscire dalla cassetta di polistirolo, sono veramente immense. Vuoi qualcosa ragazzino? Vorrei tutto tranne
le sarde, penso. Ma sorrido e vado via, mi defilo tra i banchi con
le arance e quelli con le mutande, raggiungo la biblioteca, salgo
12
13
e trovo, come tutti i sabati, Elsa che sta chiudendo. A Elsa sono
simpatico perché sono l’unico che passa a trovarla. Fra qualche
mese il comune non avrà più i soldi e lei non starà più in biblioteca. Io passo solo per vedere se ci sono dei libri nuovi. Non ci
sono. Scendo allora in via Sottoborghetto e mi ritrovo, volutamente, ogni volta, di fronte alla vetrina del fotografo. Ce ne sono
due di fotografi a Gozzano. Il più importante di sopra in via
Dante, la via principale. Poi questo con una stupenda Voigtlander in vetrina. Il mio sogno. Papà me l’ha promessa per il mio
compleanno, ma lui promette tante cose che se ne comprasse la
metà non si entrerebbe più in casa.
Dopo il fotografo vado sempre in piazza San Giuliano. È
un’altra piazza, un po’ appartata. C’è un grande negozio di fiori
dove la mamma ogni tanto passa per farsi un regalo. C’è il cinema dove danno i film pornografici, mi pare si dica così. Papà mi
ha spiegato cosa sono. Sul manifesto ci sono due grandissime
tette con sopra due stelle per non farle vedere, ma si capisce lo
stesso che è tanta roba. Il film cambia ogni giorno. Di fianco al
cinema ci sono portoni e cortili. Nei dintorni c’è pure l’unica
pizzeria. Mi piace gironzolare dopo la scuola fino a infilarmi in
via Regina Villa dove le case sono un po’ meno belle, i portoni
più polverosi e ingombri di cose che sembrano un po’ da buttare e un po’ da tenere. Carrozzine tenute insieme dal filo di ferro,
un grosso bidone di olio da macchina, una bici senza ruota, sacchi pieni di chissacosa. Sì, mi piace sbirciare dentro alle case,
sentire gli odori di minestrone sul fuoco, il profumo del brodo
di dado, sbirciare i panni stesi, le mutande che le guardi e sai
quanto sono grossi i culi in quella casa… In via Regina Villa poi
ascolto parlare. Ascolto la radio, le radio, la televisione con il
venditore di mobili, le donne che chiamano i bambini e lo fanno
con altre parlate, con grida del sud. Via Regina Villa, dicono a
scuola senza vergognarsi tanto, è la via dei terroni. E infatti parlano tutti come giù, come a Peschici dove siamo andati un anno
in vacanza, come in Sicilia, Calabria, Marocco… Qui dicono Marocco e ridono. C’è un bar in mezzo alla via dove papà mi man-
da a comprare il vino con il bottiglione. Dice che è buono, che è
Primitivo, il vino, il bar pure. Anzi, il bar sembra ancora più vecchio dell’età della pietra. È il bar dell’età della polvere. Sempre
buio, puzza di vino vecchio e di uova, i tavoli e le sedie sono di
formica rossa e al banco c’è un uomo coi baffi che mi ricorda un
disegno sul banditismo che c’è sul libro di storia. In via Regina
Villa mamma mi manda invece a comprare il pane. C’è un pane
pugliese profumato, morbido, a volte gommoso ma è colpa dell’umido del lago, dice il fornaio. Apro sempre con attenzione la
porta, mi sembra di vetro troppo sottile, con gli infissi di legno
vecchio e la maniglia ancora più vecchia. Ho paura che se entro
troppo di corsa mi rimane in mano la maniglia e il vetro si frantuma. E qui a Gozzano, mi dice a volte mamma sottovoce, non
ci vogliono troppo bene. Beh, se rompessi il vetro ci odierebbero anche i terroni. Terroni, sì, in via Regina Villa ci sono solo terroni. Anche i bambini sembra che si comprino i vestiti in negozi apposta per essere diversi dagli altri.
14
15
A scuola mi sento bene. Qui piacciono quelli che studiano. E
agli altri li guardano male. È un bel posto per uno che porta gli occhiali e si diverte sui libri. A casa posso fare quello che voglio.
Non ho amici, non ancora. Mamma un po’ si preoccupa, ma a me
non importa. Io sono stato solo anche a Laigueglia, ma lei non se
lo ricorda. E passo molto tempo a camminare, a cercare le castagne – è arrivato l’autunno – e mi faccio pure spiegare da Berto,
uno col cappello da alpino che incontro sempre nei boschi, a riconoscere i chiodini, i funghi che profumano di foglie bagnate e
crescono in famiglie grandi, grandissime che se ne trovi una fai il
risotto per tutto l’inverno. Mamma non vuole che porti i funghi.
Non si fida. C’è gente che c’è morta, mi dice. Papà non c’è mai e
io non ho più voglia di chiedere dov’è. Sono preoccupato perché
sento dentro qualcosa che non va. Anche se tutto va bene. Anche
se sono felice. Tra due mesi sarà il mio compleanno. Papà mi
comprerà la Voigtlander e Elsa, quella della biblioteca, mi ha promesso che mi fa insegnare dal suo moroso. È alto, altissimo, il
moroso di Elsa, ha i capelli lunghi, molto, e i vestiti un po’ stracciati, un eskimo vecchio. Si chiama Rodolfo, non parla mai, ma fa
il fotografo professionista. Ogni volta che Elsa ne parla la calca
molto questa parola, professionista. E io mi lascio impressionare,
penso che chissà quante cose sa, quanti segreti per fare le fotografie. Lavora per un giornale che non conosco, che papà non legge. Si chiama Avanguardia operaia. Chiederò alla mamma. Lei è
comunista e sa di operai. Chiedo alla fine a papà che mi dice che
è un giornale di ragazzi, come Lotta continua. Che vorrà dire lo sa
giusto lui. Io pensavo fosse cosa di operai.
Guardo il telegiornale la sera alle otto. Ci hanno detto di farlo a scuola. Non mi piace. Preferisco i giornali, le notizie sembrano più importanti con i titoli grossi e neri e le fotografie. E
poi il giornale è grande, bisogna saperlo piegare, bisogna sapere dove sono le cose importanti da leggere. Papà legge il Giorno
e l’Avanti, mamma legge l’Unità. Al telegiornale ci sono le facce
di quelli che parlano e le notizie importanti sono tutte all’inizio.
Comincio a capire di politica guardando il telegiornale. Perché
lì vedo i segretari dei partiti che dicono cosa pensano. A papà
piace Sandro Pertini che non è segretario, ma deputato. Credo
che papà fumi la pipa da quando ha conosciuto Pertini. L’ha detto una volta la mamma. A me piaceva Ugo La Malfa, mi sembrava che dicesse delle cose molto giuste. Poi un giorno eravamo a Stresa ad aspettare il treno per Milano e si è fermato un treno svizzero che non doveva fermarsi. Si è fermato per far salire
Ugo La Malfa che era a Stresa anche lui. Papà si è arrabbiato col
capostazione e siamo saliti anche noi così siamo arrivati prima
a Milano. Però La Malfa non mi è piaciuto più, mi piacciono
quelli che viaggiano coi treni di tutti gli altri.
Poi una sera lo vedo, lo sento parlare. È Enrico Berlinguer, il
segretario della mamma. Glielo vedi negli occhi che non dice
bugie, che non ferma i treni solo per sé. Mamma dice che comunisti vuol dire tutti uguali. Anche i terroni di via Regina Villa. Anche i bambini magri con i vestiti strani. Tutti uguali, tutti
16
a scuola, nessuno viene preso in giro. Mi piacciono i comunisti.
Guardo Berlinguer e sono comunista anch’io.
Forse è novembre. La scuola va bene e le castagne sono finite. Non manca molto al mio compleanno. Ho chiesto la Voigtlander e anche il cane. Papà e mamma parlano fitto la sera da
un po’ di tempo. E non sono felici. Almeno papà. Un giorno facciamo una riunione in cucina. Dobbiamo parlare, dice papà.
Abbiamo bisogno del tuo aiuto, dice mamma. C’è qualcosa nell’aria che non capisco e non lo capisco perché non sto mai a sentire i discorsi dei grandi. Sto diventando grande anch’io, credo,
ma tutto da un’altra parte.
Te lo ricordi Giovanni? Chiede mamma. No, non me lo ricordo. E zio Luciano? Nemmeno. E poi chi è zio Luciano che
mamma è figlia unica e papà ha solo sorelle?
Zio Luciano è il cugino di papà. Forse l’ho visto una volta e
nessuno mi ha detto che era zio. Giovanni è suo figlio ed è un po’
più piccolo di me. Non tanto, un anno o due. La mamma di Giovanni è morta che lui era piccolo, mi raccontano. E ora zio Luciano sta male, molto male. Che malattia ha? Chiedo. Silenzio.
Chiedo ancora. Silenzio di nuovo. Dev’essere una malattia davvero grave se mamma e papà non ne sanno neppure il nome.
Beh, Giovanni viene a vivere con noi. Non con zia Clara o con
zia Anna, che sono tanto indaffarate. Con noi che si vede che
non facciamo niente. Arriva la settimana prossima. Andremo a
scuola insieme, dice mamma. Giovanni mi porta via la stanza e
anche la speranza di avere il cane. Dobbiamo volergli bene, lo so
mamma. È sfortunato e io devo fargli da fratello più grande, lo
so papà. Intanto però il sette dicembre è il mio compleanno, ma
le attenzioni, lo so già, saranno tutte per Giovanni. Che io non ricordo e non conosco proprio perché non l’ho mai visto.
Lo vedo una domenica mattina, Giovanni. Arriva in treno e
siamo tutti a prenderlo in stazione. Io ho cominciato a farmi
crescere i capelli e non mi piace l’idea di radermi con il rasoio.
17
Mi vergogno di quei quattro peli che mi crescono sulla faccia,
ma ancor di più ho paura di tagliarli. Mi sento ancora il ragazzino che correva per le vie di Laigueglia e allo specchio vedo questi sparuti pelucchi sotto il naso e sotto il mento. E i piedi che
crescono più in fretta del solito. Giovanni scende da solo dal treno con la valigia e un bel sorriso. Me lo aspettavo carico di infelicità e tristezza. Invece no, è spaesato, ma non triste. Ed è biondo. Non sapevo che potevamo avere dei parenti biondi. Giovanni non parla. Mamma gli fa complimenti e moine. Un po’
troppe, non è un bambino Giovanni. Alla fine è grande quasi
come me. Io faccio tredici anni il sette dicembre, lui a febbraio,
poco dopo. Però non siamo coscritti, dice papà, lui è del sessantatré. Non parlo con Giovanni in stazione. Non parlerò con lui
fino a domani. Mi limito a guardarlo. Lui fa altrettanto, ma è più
sfrontato. Delle cose del mondo, penso, deve intendersene. Nel
letto a castello lui sta di sotto. In fondo è sempre la mia stanza
anche se da oggi è pure la sua.
Vorrei chiedere ancora a papà della malattia di zio Luciano,
ma sento già il tic-tic della Lettera trentadue. Papà scrive nervoso. E dallo studio si sente anche la puzza della pipa. Non è giornata. Se entriamo in confidenza lo chiederò a Giovanni. Domani intanto andiamo a scuola insieme. Lui è in classe con me perché ha cominciato la scuola un anno prima, perché sapeva già
scrivere. Giovanni Morra, un solo cognome. Niente occhiali.
Mamma e papà l’hanno già iscritto. Adesso nella scuola quelli
che non fanno religione sono due.
Lunedì siamo in quattro a fare colazione. Giovanni respira
forte di notte e ha i piedi che puzzano. Divora i biscotti così velocemente che la mamma dovrà comprarne il doppio. Sorride,
ma a me non piace sorridergli. Non mi va giù. Già mi tocca accompagnarlo a scuola che è il primo giorno. Lui porta i libri sottobraccio, stretti con una cinghia. Io li metto nel tascapane da
caccia che ho preso a papà. Mi sembra una cartella molto bella.
Anche a scuola ha fatto colpo. Pure Giovanni fa colpo. Piera mi
18
chiede chi è quel bel ragazzo. Sarà che lui è biondo, sarà che Piera ci capisce poco. Però mi rimane un po’ qui, nel gargarozzo.
Altra cosa che non mi va giù, il pomo d’Adamo. Meglio quando
si è piccoli che non c’è che quando arriva poi non sai cosa fartene e non va da nessuna parte.
Giovanni è come papà. Guarda fuori dalla finestra e non si
capisce dove. Gli ho chiesto se voleva leggere il mio Corriere dei
ragazzi. Gli ho detto che a me piace Valentina Melaverde e lui si
è messo a ridere. È roba da femmine, dice. Il Miura è mica una
femmina, rispondo io. È la prima volta che parliamo e non abbiamo cominciato proprio bene. Faccio finta di niente e gli faccio vedere la Storia a fumetti, me l’ha regalata papà e a me piace
molto. Mi ha detto lo zio che hai una canna da pesca, dice Giovanni. Sì, ma non è niente di speciale. Porto comunque Giovanni in garage a vederla. È un po’ corta per le trote, dice. Sai dove
abitavo, a Domo, andavo sempre con mio papà a pesca nel Toce.
Appena guarisce mi ha promesso che torniamo. Ma lo dice con
la voce strana di chi pensa che suo papà non guarisce. Vorrei
chiedere ancora a papà, al mio, della malattia di zio Luciano, ma
quando lo incontro gli domando dov’è questo posto che si chiama Domo dove viveva Giovanni. Papà ride di gusto da sotto gli
occhiali e mi spiega che dovrei arrivarci da solo. Ci siamo anche
passati andando in Svizzera. A me viene in mente Momo, ma
Domo proprio no. Allora papà chiama Giovanni e gli chiede di
dirmi dove abitava. A Domodossola, dice Giovanni. E il fatto di
non aver capito un po’ mi umilia. E poi non mi sembra una cosa intelligente dare i nomi tagliati ai paesi. È un po’ come se noi
adesso abitassimo a Goz e andassimo pure a dirlo in giro. Comunque a me papà non mi ha mai portato a pescare e questo un
po’ mi dispiace. A Laigueglia ci sono sempre andato da solo, sugli scogli, sul porticciolo… Qui non saprei dove andare.
Nei giorni che vengono mi tocca far vedere il paese a Giovanni e pure presentarlo, se incontro qualcuno, e dire che è mio cu19
gino. Lui sa sorridere subito e rimane simpatico anche se non
dice niente. A scuola piace alla Piera, alla Valeria, alla Silvia…
Tutte vengono da me a chiedere di Giovanni, a darmi i bigliettini da passargli. Io non glieli passerei, ma so che non è giusto ed
è da poco che sono diventato comunista. E i comunisti vogliono
le cose giuste, dice mamma. Giovanni è più bello, è più simpatico e pure più alto, più esperto in tutte le faccende. Sa aggiustare
la bicicletta, fare i palloncini con la gomma da masticare, gioca a
calcio, non porta gli occhiali. Che fai Giovanni, sei matto? Gli dico mentre lo vedo andare a fuoco, andare in fumo. Non ci credo,
siamo in via Sottoborghetto e Giovanni sta accendendo una sigaretta. Dove l’hai presa? Buttala via… Giovanni sorride e dice
che è un anno che fuma, solo Muratti. Ma i tuoi non lo sanno?
Mi lavo le mani e mastico un po’ di caramelle prima di andare a
casa. Vuoi provare? Ho paura, mamma dice che il fumo fa male,
papà racconta sempre di quando ha provato la prima volta e ha
tossito per ore e la nonna gliele ha date di santa ragione e il nonno la sera l’ha ripassato pure lui con la cinghia. Dico che ho già
provato e non mi piace. Giovanni comincia a ridere… Già provato? Tu? Ma va… Gli strappo la sigaretta di mano, l’avvicino alle
labbra, la prendo in bocca e tiro, tiro forte e sento il fumo che gira in bocca e non tossisco e divento rosso e tiro ancora e ridò la
sigaretta a Giovanni. Va là che non sai fumare l’hai bagnata tutta, mi dice. A me sembrava già bagnata. Vieni che ti faccio vedere e lo porto davanti al fotografo a vedere la Voigtlander. Fumiamo davanti alla vetrina, una sigaretta per uno, io ho paura che ci
vedano, ma Giovanni dice che anche se ci vedono non se ne accorgono. Ormai siamo grandi, non importa a nessuno se fumiamo. Non credo che mamma la pensi proprio così, ma non
voglio fare la figura del fifone.
Dal negozio esce Rodolfo, il moroso di Elsa, con le macchine
fotografiche al collo. Ha una Rollei come quella di papà, una
Hasselblad e una Olympus, nuova, bellissima. Ha la borsa con
gli obiettivi. E gli occhiali che mi fanno pensare che anch’io farò
20
il fotografo da grande. E l’eskimo verde, gli occhi stanchi, i capelli lunghi, la barba lunga, i jeans della Levi’s quelli che mamma non mi compra perché costano troppo, le Clark, i giornali
spiegazzati che escono dalle tasche e quel profumo di oriente
che mi sento stregare ogni volta che lo sento. Patchouli, si chiama, me l’ha detto Elsa. Come vorrei che Rodolfo fosse mio fratello. Come vorrei che ci fosse Elsa a ricordargli che quando avrò
la Voigtlander ha promesso di insegnarmi a fare le foto. Lui passa, ma guarda da un’altra parte e a me che voglio salutarlo mi si
strozzano i saluti in gola. Chi è? Mi chiede Giovanni. È un fotografo professionista, rispondo calcando anch’io professionista
come fa Elsa. Non se la deve passare tanto bene. E poi hai sentito come puzza? Papà a Domodossola ha un amico fotografo professionista che fa i matrimoni, si veste benissimo e guadagna
un pacco di soldi. Un vero professionista non fa i matrimoni, rispondo. E cosa fa allora? Fotografa le cose che accadono, tutto
quello che succede, le guerre, le ingiustizie e pubblica le fotografie sul giornale. Giovanni ha già smesso di ascoltare.
È il sei di dicembre. Domani compio tredici anni. Sono andato almeno sei volte a vedere la vetrina del fotografo per vedere
se papà ha comprato la Voigtlander che mi ha promesso. È sempre lì. Giovanni è andato a trovare dei suoi compagni di scuola.
Io non vado mai a trovare nessuno. Non è che non ci vado d’accordo e che non so cosa farci insieme di pomeriggio. Preferisco
girare per il paese. Poi oggi ho paura che papà si dimentichi la
macchina fotografica che mi ha promesso. E così controllo il negozio. Fa freddo, non sapevo che facesse così freddo in Piemonte. Piove sempre, per giorni interi. Ho imparato a camminare
con gli stivali di gomma. E porto la sciarpa. E il cappello per le
orecchie. Oggi non piove. Forse verrà la neve. Forse verrà papà
a comprare la Voigtlander.
Hai preso il regalo per Stefano? Lo sai che ci tiene tanto.
Emilia guarda Giulio con aria di rimprovero. La domanda è re21
torica. Giulio, sicuramente, si è pure scordato che è il compleanno di Stefano. E lui è così poco allegro da quando divide la
camera con Giovanni. E anche così taciturno, solitario, da quando ci siamo trasferiti a Gozzano. Sarà l’età, rispondi sempre tu.
Ma alla sua età io ero una ragazzina curiosa delle cose della vita.
Mi piaceva invitare a casa le amiche. Cercavo occasioni di confidenza. Sai che ho chiesto a Stefano se voleva fare una festa con i
suoi amici? Sai cos’ha risposto? Se ti fa piacere, mamma. Se fa
piacere a me, ti rendi conto. Dai Emilia, lo sai che è sempre stato un bambino un po’ speciale, un po’ sognatore, sempre con la
testa sui libri, sugli insetti, sui disegni, su cose tutte sue… Sei sicuro che voglia la macchina fotografica per il suo compleanno?
In realtà avrebbe chiesto anche il cane… Lo sai Giulio che adesso non si può. E poi è inverno. E dobbiamo ancora abituarci a
Giovanni. Ah, mio nipote sarebbe un cane… Non intendevo
questo. Già… Giulio aveva infilato la giacca e la porta, lo aspettava il regalo da comprare per Stefano. E non sarebbe stato un regalo a quattro zampe neppure quest’anno. No, Emilia non lo capiva più quando parlava. O forse non l’aveva capito mai. Sarà
l’età, anche per lei sarà l’età. Mentre lo dice sorride ed è una
smorfia di freddo. Forse verrà la neve.
Ecco, da mezzanotte è il mio compleanno. Ho compiuto tredici anni e non nevica. Mi alzo come fosse Natale, per cercare da
qualche parte, sotto un albero immaginario, il mio regalo. So
che non sarà un cane, conosco troppo bene la mamma. Non lo
prenderemo mai, ne sono certo. Mamma ha un segno leggero
sopra l’occhio destro, sembra un ruga, una piccola ruga. Invece
è la cicatrice di un incidente fatto in Lambretta con papà. Quando parla del cane quel segno sulla pelle si fa più profondo, significa che non le va proprio l’idea. Io penso spesso che quel graffio
che rende la mamma più bella gliel’abbia fatto un cane, di notte, nel sonno. Poi si sono inventati la storia dell’incidente. In casa non c’è un luogo dove depositare un regalo di compleanno.
Torno a dormire, oggi sono più grande, posso aspettare. Temo
22
però che non troverò neppure la Voigtlander, ieri sera stava ancora in negozio. Giovanni dorme sotto, il letto si muove quando
faccio le scale e lui si sente respirare ancora più forte.
Eccola, la trovo sul tavolo assieme alla colazione, la scatola
della Voigtlander con il biglietto di auguri di mamma e papà.
Pure Giovanni mi ha fatto un regalo. È un disco. Io ascolto poco
la musica. A Giovanni l’ha appassionato suo padre. Il disco s’intitola Rimmel ed è di Francesco De Gregori. Mamma cos’è Rimmel? Serve per truccarsi, risponde. Io guardo il disco e credo sia
un disco da donne. Invece mi sbaglio perché Giovanni mi ha fatto conoscere i cantautori con quelle canzoni che ascolto dieci,
cento volte e non capisco. E come sempre non chiedo. E immagino. La Voigtlander è bellissima. Io faccio finta di essere sorpreso. E forse lo sono davvero perché pensavo che papà si fosse
dimenticato di comprarmela. È una macchina fotografica vera,
con anche l’esposimetro incorporato e la messa a fuoco a telemetro. Bessamatic c’è scritto sulla confezione. C’è la custodia in
pelle, c’è un rullino intero da scattare. Il libretto delle istruzioni
anche in italiano. Grazie papà, grazie mamma. È ora di andare a
scuola. Corriamo, io e Giovanni, per non arrivare tardi. E anche
un po’ per sfida. Comincio a pensare che si possa stare bene insieme con questo mio cugino biondo piovuto da Domodossola
non so ancora perché. Sono felice. È il mio compleanno.
Nel pomeriggio prendo la bicicletta e corro a Monte Rosso, a
casa di Elsa. Devo stare attento a non farmi vedere perché mamma non vuole che vada così lontano. E devo stare attento anche
perché a Monte Rosso c’è sempre il ghiaccio e si scivola e oggi
ho al collo la Voigtlander. Non sono più un bambino. La Voigtlander non è una macchina fotografica per bambini. Elsa non
c’è, non c’era neppure in biblioteca. Sua madre mi chiede se voglio entrare, me lo chiede in siciliano. Loro vengono da Palermo
dove non si poteva essere comunisti. Racconta il padre di Elsa
che bisognava dormire con la pistola sotto il cuscino per paura
23
dei fascisti e dei mafiosi. Questa cosa della pistola sotto il cuscino mi fa paura ogni volta che la sento. No, grazie, aspetto di fuori. Faccio un giro a vedere se ci sono gli altri miei compagni di
scuola che vivono nelle case popolari di Monte Rosso. Una sorta
di ghetto, una catasta di brutti palazzi a fianco di una polveriera
militare. Sopra c’è una montagna, piccola, brulla, ma sufficientemente grande per togliere il sole d’inverno alle due del pomeriggio. Per questo c’è sempre il ghiaccio a Monte Rosso. Io ho
freddo e Elsa non arriva. Mi siedo sulle giostre arrugginite, quelle messe dal comune per i bambini senza sapere che i bambini
troppo poveri le giostre non sanno usarle, sanno mandarle solo
in malora (l’ho sentito dire una volta dal nonno, quand’era assessore). Cala la nebbia e in fondo al vialetto, dietro al cancello
mezzo divelto, vedo Elsa e Rodolfo, mano nella mano. Corro
tutto felice mostrando la Voigtlander come un trofeo di caccia.
Rodolfo dice a Elsa che è una macchina fotografica troppo importante per un bambino della mia età. Io un po’ mi offendo, ho
pure un po’ di baffi. E tredici anni interi. Oggi compio gli anni,
dico a Rodolfo. Lui sorride e Elsa mi dice che mi insegnerà a
usarla. Verremo da tuo padre a chiedere se possiamo portarti un
po’ con noi la domenica. Non c’è bisogno di chiedere, penso, ma
non dico nulla. Rodolfo prende in mano la macchina, la sfiora,
la guarda, inquadra cose vicine e lontane. Si vede che lui le sa
usare le macchine fotografiche, la tiene con più tenerezza della
mano di Elsa. Questo però a Elsa non lo dico. Torno a casa convinto di aver passato il più bel compleanno della mia vita. Racconto a papà che Rodolfo mi insegnerà a fotografare, che dovrà
darmi il permesso di andare con lui la domenica. Posso insegnarti anch’io, se vuoi. Lo so che sei bravo con la Rollei, papà,
ma Rodolfo è un fotografo professionista, calco anch’io professionista. Papà incassa, ma so che non è felice. D’altra parte la verità è che lui non avrebbe mai tempo per insegnarmi.
Rodolfo con il suo eskimo e le sue macchine fotografiche. Sono
arrivati un pomeriggio. Io e Giovanni eravamo da poco tornati
da scuola. Eccoli. Suonano. Mamma va ad aprire e sorride, sa
già chi sono. Papà li invita in salotto. Parlano, ma non so cosa dicono. Papà mostra la Rollei. Si stringono la mano con Rodolfo.
Vanno via, ma mamma mi strizza l’occhio. Si può fare. Dopo
Natale. Dopo le feste. Qualche volta la domenica, ridimensiona
papà. Puoi portare anche Giovanni, mi dice. Ma quel puoi suona come un ordine: devi. Porterò Giovanni, comincio a volergli
bene. Giovanni ti insegnerò a fare fotografie, ti insegnerò tutto
quello che mi farà vedere Rodolfo. Potrai usare anche la Voigtlander, qualche volta, finché non avrai una macchina fotografica tua. Giovanni sorride, forse sa già fotografare e non me l’ha
detto. Sa fare tante cose, lui. Quando aprirà la pesca ti insegnerò
a pescare, dice. Così siamo pari.
Papà ha detto sì. Posso andare con Rodolfo a imparare le foto. Si sono parlati nello studio. Elsa è stata di parola. Ha portato
Giulio perché non vai a fare una passeggiata? Magari compri
due pasticcini per i bambini stasera? Sei sempre così lontano,
così taciturno… Ed è un po’ di tempo che ti guardo. Non scrivi
più. Non leggi più. Passi il tempo a fissare fuori dalla finestra.
Ad accendere la pipa. A… E poi lo sai che oggi hanno telefonato
dalla Bruno Gobbi? Erano preoccupati. Dicono che sono mesi
che non ti fai sentire, che la nuova edizione dell’antologia è indietro… Mi hanno chiesto se stai male. Io non sapevo cosa dire…
Ecco perché ti interessi tanto a come passo il tempo, hai paura che non finisca l’antologia e magari ci rimettiamo dei soldi…
Giulio inforca gli occhiali e guarda distrattamente Emilia, alza lo
sguardo quel tanto che basta per sottolineare un po’ di sarcasmo.
No, non è vero, mi stavo preoccupando per te… dice Emilia
con un sorriso che Giulio finge di non vedere. Che forse proprio
non vede perché è già alla finestra e non gli importa di sorrisi, di
antologie, di case editrici, di Emilia. Il suo dovere lo stava facendo. Si era anche accollato la responsabilità di Giovanni. Forse
era un po’ stanco, forse la primavera l’avrebbe aiutato. Natale, si
sa, non è mai un momento felice.
24
25
In primavera va sempre in montagna, diventa più allegro,
vedrai che gli passa si trova a ripetersi Emilia quasi soprappensiero. Natale non è una bella festa. Quest’anno c’è da pensare ai
regali. Stefano ma anche Giovanni. Li sento sempre parlare di
pesca, che dici Giulio se gli compriamo una canna da pesca per
uno? Tutte e due uguali?
Parlano sempre anche di cani, lancia lì Giulio sapendo bene di
lanciare un sasso a vuoto. È deciso, per Natale due canne da pesca.
Partiamo che è ancora buio con l’ottocinquanta che tossicchia un po’ prima di prendere il via. Guardo Giovanni e vorrei
piangere, ma lui non piange. Non guarda. Non è lì con me sul sedile dietro. È un bambino più piccolo di me e non ha paura. Se
avesse paura piangerebbe e saprei cosa pensa. Giovedì papà è arrivato col treno. Mi ha incontrato prima degli altri e mi ha detto:
adesso Giovanni è tuo fratello. Io non ho capito. Lui era stanco,
molto stanco, glielo si leggeva negli occhi. Poi ha chiamato la
mamma e si sono chiusi nello studio con Giovanni. E lui è uscito
senza dirmi niente. È uscito dallo studio ed è uscito di casa. Lascialo andare ha detto mamma. Avrei voluto rispondere che era
mio fratello, ma non avevo capito. Sono uno che capisce tardi e a
volte anche male. A sera abbiamo cenato in silenzio. Giovanni
non c’era. Mamma ha detto di non preoccuparsi. Con papà hanno parlato del funerale. Era morto zio Luciano, non lo avevo capito. Aveva un tumore al cervello, ecco perché non poteva tenere
Giovanni. L’ho aspettato Giovanni finché non è tornato. Era sera
e non piangeva e non parlava. E neppure io sapevo cosa dire. Io
se morisse papà piangerei fino a finire le lacrime.
Adesso siamo qui, stiamo andando al funerale. Per me è la
prima volta. Non l’ho mai visto un funerale. A Giovanni non lo
chiedo, tanto a lui è già morta anche la mamma.
C’è la nebbiolina sul lago. Papà guida ed è vestito di nero.
Non l’avevo mai visto quel vestito. La mamma non si è messa il
rossetto. A me e a Giovanni hanno cucito un bottone nero molto grosso. Hanno discusso un po’ sulla fascia e sul bottone. Ci
26
sono tante curve sul lago e io devo vomitare. Papà un po’ si scoccia, mamma lo calma: lo sai che Stefano non sopporta la macchina. Adesso tra le mura delle fabbriche di Omegna va meglio,
la strada sussulta perché è fatta con il pavé (l’ho imparato quando leggevo della Parigi-Roubaix), ma non ci sono più le curve e
c’è un po’ di sole. Passiamo sopra lo Strona e l’acqua luccica, lo
guardo dai vetri appannati dell’ottocinquanta. A Crusinallo ci
sono le bandiere rosse fuori dalle fabbriche. Papà chiede a
mamma, ma lei non sa niente. Lui sorride, vuol dire che lei è poco comunista, ma stamattina glielo risparmia.
Più la strada si avvicina a Domodossola più le fabbriche diventano grandi e dai camini esce il fumo. E non è un fumo bello. Alcuni camini hanno il fumo nero, altri degli odori densi che
entrano nella macchina. In una fabbrica si vede il fuoco, tanto,
come un’immensa fiamma ossidrica, altrove ci sono torri di ferro, tralicci, bocche di fuoco, camini, puzza… E in fondo la montagna, la neve, i ghiacciai, le cime. Come due mondi, dice papà
che commenta. Ecco a sinistra una fila di case di montagna, tante, tutte uguali, sembra un villaggio svizzero, coi comignoli e le
finestre con le persiane in legno… Sono le case della Sisma,
spiega papà. Sono le case costruite per gli operai, per farli scendere a valle dalle montagne e farli vivere vicino alla fabbrica. La
Sisma è un’acciaieria, una fonderia, qualcosa di simile. Un posto dove a lavorare si prende la silicosi, dice ancora papà. E poi si
muore. E io non capisco perché ti costruiscono le case per farti
morire. È un mondo strano che non avevo visto mai. Anche un
funerale è un mondo strano di gente vestita di nero che parla
sottovoce e piange in silenzio. E se provi a parlare ti dicono sss…
Papà saluta alcune persone, altre vengono da mamma, molti
abbracciano Giovanni, tutti dicono qualcosa che suona male,
stonato, sbagliato. Non mi piace e non posso dirlo a nessuno.
Comincia il funerale dice qualcuno. Papà e mamma litigano
sottovoce, non gridano ma si vede che non sono d’accordo.
Qualcuno dovrà portarlo il ragazzo, sento dire da mamma.
27
Papà resta fuori dalla chiesa a leggere il giornale e fumare la pipa. Giovanni e la mamma entrano. Io non so. Ci provo. Inginocchiati, sento bisbigliare. Inginocchiati prima di entrare. La
signora parla con me, bisbiglia con gli occhi, segnati con l’acqua, ripete due volte… Io ho paura e esco di corsa. Da dentro arrivano una cantilena solenne e l’odore dell’incenso. Qualcuno
ogni tanto esce a fumare e si sentono forti le parole del prete. Ci
guarda, a me e a papà, chi esce a fumare. E noi siamo lì, fuori
dalla chiesa e vogliamo bene a zio Luciano e soprattutto a Giovanni. Salga da quest’altare, cantano a squarciagola le signore
col velo nero. Papà è appoggiato al muretto della chiesa e io vorrei parlargli, ma anche lui che non entra in chiesa sta in silenzio
e se deve dire bisbiglia. Arriva la macchina dei beccamorti e si
spalanca la porta della chiesa.
La macchina con la bara dello zio apre la strada, dietro c’è
l’ottocinquanta di papà, dietro ancora un sacco di macchine.
Zio Luciano si è fatto voler bene, commenta mamma guardando la fila. Si fa ancora molta strada. Il funerale a Domodossola
non si sa chi l’ha voluto, ma al cimitero di Fondotoce ci è voluto
andare lo zio. Così si scende per Premosello con la gente ai lati
della strada che mormora preghiere e scongiuri. E li vedo –
papà li ho visti con i miei occhi – quelli che si segnano e quelli
che si toccano. Stiamo seguendo la macchina della morte, piano piano, per una strada che scorre più bassa del treno, che scivola in paesi silenziosi, che arriva a un lago, un altro, il Mergozzo, dove ancora c’è nebbia, c’è silenzio. Giovanni non parla, io
non parlo. Papà e mamma dicono cose, ma è come se non parlassero. Non avevo mai visto un morto e neppure il silenzio che
può fare. La macchina dei beccamorti, quella con zio Luciano,
frena all’improvviso e dietro ci fermiamo pure noi. Mi giro e
l’effetto è a catena. Mi viene da ridere a pensare la notizia di un
tamponamento al funerale. Una volpe! È una volpe! grida Giovanni che ha visto un animale sgusciare davanti alla macchina
dei beccamorti. Porta fortuna, dice ancora Giovanni. La volpe
porta fortuna, lo diceva mio papà, adesso Giovanni piange e io
gli voglio bene. Non so cosa fare ma gli voglio bene. E voglio bene anche alla volpe che ci ha fatti uscire dal silenzio. Vorrei dire
a Giovanni che la volpe gli porterà fortuna, ma so che non mi
ascolterebbe. E poi io non sono sicuro, non so bene cos’è la fortuna. Ripartiamo tutti per raggiungere un piazzale di ghiaia
lungo un rettilineo. Non c’è niente di là della strada. Di qua un
cancello e dentro un cimitero. Io non sono mai entrato in un cimitero, ma credo che questo non sia diverso dagli altri. Mamma
non entro, papà non entro, ho paura. Non fare lo sciocco Stefano, accompagna Giovanni. Non ci penso nemmeno mamma.
Dai, fa il bravo. Mamma ho paura. Paura degli scheletri, dei
morti, dei fantasmi, dei fuochi fatui… Non c’è niente di tutto
questo, dice mamma, ma non sorride. Ha paura anche lei a entrare. Io non voglio proprio. Se avessi la Voigtlander, farei delle
foto e sono sicuro che sui negativi ci sarebbero i fantasmi senza
l’ombra. Lo so, l’ho visto in un film. Se non vuole venire lascialo
qui, in fondo cosa cambia… dice papà alla mamma. Lei si stizzisce, ma smette di insistere. Io non voglio entrare. Non entrerò
mai al cimitero di Fondotoce. Non tornerò più in questo angolo
di mondo. E aiuterò Giovanni a non tornarci più. È inverno ma
è come se fosse caldo. Guardo in alto e c’è un monte ferito a
morte, ha una parte che non c’è più, sassi, pietre strappati via
dalle gru, dai cavi, da non so cosa… È un monte triste. È il Montorfano mi dice papà. In un giorno solo ho visto la morte, ho visto Domo, ho visto un cimitero, un monte distrutto e sono diventato fratello di Giovanni. E pensare che sarei ancora quasi
un bambino. Questo non lo dico, neppure a mamma. Hanno finito, saliamo in macchina e torniamo a casa. È sera, è notte, è
buio, è umido, papà vorrebbe fermarsi a mangiare la pizza,
mamma gli ricorda che io vomito quando viaggio. Arriviamo la
sera tardi, ma andiamo a mangiare la pizza a Gozzano, da Patac,
è l’unica pizzeria, sono tutti del sud e chiudono a mezzanotte. A
me piace il calzone ripieno, anche Giovanni mangia di gusto.
Tra poco è Natale, poi si cominceranno le foto. La morte è finita.
28
29
Anche per Giovanni. Lo guardo mangiare la pizza e lo so. È mio
fratello adesso.
Secondo Giovanni la pesca alla trota apre più o meno per
carnevale. La festa a scuola l’abbiamo già fatta. Le canne ce le ha
regalate papà per Natale. Dovremmo esserci. Forse ci vuole la licenza, dice Giovanni. Forse. Forse ci vogliono anche altre cose.
È martedì pomeriggio, prendiamo le canne da pesca e andiamo
in paese, al negozio di pesca. Stiamo un po’ davanti alla vetrina
a guardare. Ci sono cose di caccia e cose di pesca. Canne, mulinelli, bobine di filo, coppe, piume, un libro che si intitola A pesca coi campioni, retine, reticelle, cestini di vimini e una lampada da campeggio. Sulla porta c’è scritto che la pesca alla trota
apre domenica. Entro io? Entri tu? Ci guardiamo in faccia, abbiamo la stessa canna da pesca. Entriamo insieme. Vogliamo
sapere cosa fare per andare a pescare. E pure dove andare. Il negoziante ci guarda, ci prende sul serio, ci spiega che dobbiamo
fare la licenza, basta il versamento e domenica potete pescare,
tremiladuecento lire, a testa, io e Giovanni pensiamo ai nostri
risparmi. Poi ci vuole la lenza, il filo sul mulinello, i piombi, le
girelle – che sono le girelle? Vedere per favore – gli ami del numero sette, i vermi. I vermi? In negozio si comprano anche i
vermi. È vero, ce li fa vedere, sono dentro alle scatole dello yogurt, se lo sapesse la mamma… Abbiamo tutto, abbiamo speso
tutto. Sappiamo dove andare a pesca. Sull’Agogna. Il negoziante ci ha fatto anche la mappa. Giovanni dice che se ne intende,
ma secondo me ne sa poco anche lui. Domani si va a fare un sopralluogo, subito dopo la scuola. Prendiamo le biciclette, è freddo, è inverno. Scendiamo lungo la strada di San Lorenzo, c’è la
chiesa immersa nella bruma, gli alberi sono spogli, se parliamo
facciamo condensa. Eppure adesso, ci hanno detto, si prendono
le trote. Arriviamo sull’Agogna, l’acqua luccica, il sole sta per
tramontare, il rumore delle cascate mormora nel cervello, quello che sento è un brivido ma non so se è di freddo. Giovanni
guarda la cascata, ha capito qualcosa che non mi dice. Io vedo gli
30
alberi senza foglie e le spine dell’acacia. Se fossi un bravo fotografo come Rodolfo ti farei una foto adesso Giovanni, con gli occhi nell’acqua e l’acqua negli occhi. Torniamo domenica e ci divertiamo, te lo giuro. Non c’è bisogno che giuri, lo so anch’io
Giovanni, la sento l’acqua, la sento eccome.
Non sei mai tornato a casa a quest’ora, non sei mai uscito
senza dirmi dove andavi… Non c’è rimprovero negli occhi di
Emilia, c’è sconcerto. Giulio la guarda con gli occhi di chi non
riesce a sentire. Dove sei stato? Hai bevuto? Era una festa? C’è
un’altra? Lo sai che non m’importa, lo sai che non sono gelosa…
Dai parlami. Non c’è motivo, né donne, né altro in questo ritorno all’alba, infreddolito, sudicio di sudore, di vomito forse, di
freddo nei vestiti. C’è il vino che batte in testa, vino cattivo, di
quello che Giulio non berrebbe mai. Dove sei stato? Dove sono
stato? Non lo so Emilia, non so… Che importanza ha se la notte
Giulio l’ha passata nell’osteria di via Regina Villa, a bere Primitivo e Sicilia, a pregare con gli occhi il gestore di non chiudere,
di non mandarlo via, di non…? Poi la notte è finita, il vino è salito nello stomaco assieme al freddo, le scale erano tante, il garage vicino, ho dormito in garage… Perché ero lì? Perché ci sono
andato? Non lo so, Emilia. Non mi manca nulla eppure tutto mi
sfugge dalle dita… Non riesco a dirti adesso… Non parlare Giulio, vai a letto. Può succedere a tutti… Non a me, Emilia, non a
me… Il vino sbocca da solo, sfiotta sul tavolo di via dei Grissini,
un vino nero denso che puzza di zucchero e alcol, un vino inadatto a quel tavolo… C’è il vuoto, ma un vuoto profondo, lucido,
lubrificato dall’alcol, negli occhi di Giulio, c’è il silenzio degli
occhiali a proteggerlo, c’è la paura, l’abbraccio di Emilia, gli abiti sporchi, la vergogna di una sera imprevista, il battito delle
gambe che reclamano sedia e letto… Lo guarda Emilia e non capisce davvero. No, mai aveva visto il suo Giulio così. Forse zio
Luciano, ma non erano poi così legati. Forse Giovanni, no, ci sta
così volentieri. E Stefano? Lo adora. La scuola? No, non si è mai
visto uno ubriacarsi per colpa di un liceo di provincia… L’anto31
logia da consegnare forse? Forse è stato un caso, una brutta serata, un po’ di stanchezza, la compagnia sbagliata. Non l’aveva
visto mai Giulio così accasciato sulla spalliera della sedia, con
addosso il puzzo della strada, e i capelli che gli cadono sugli occhi, lo sguardo vuoto, la giacca a terra e l’orologio… Già l’orologio… Giulio, dov’è il tuo orologio? L’ho buttato. Come hai buttato l’orologio di tuo padre? Non andava, non andava più, stringeva il polso, era vecchio… Ma era un Longines… No, era solo
vecchio… Giulio, non ti capisco. Non mi hai capito mai, voleva
vomitargli con rabbia Giulio, ma invece un conato di vomito vero invischia di nuovo sedia e tavolo… Fatti una doccia… Dopo,
adesso ho sonno, mi appoggio un po’ qui… Dopo…
Abbiamo preparato tutto. Papà ci ha dato anche un libretto
che regalano i distributori dell’Agip pieno di consigli per la pesca. Mamma ci ha fatto un sacco con la merenda se ci viene fame e ha detto che domattina ci prepara un termos di tè, se si sveglia. Abbiamo controllato: licenza nuova di zecca per me e per
Giovanni, canne da pesca, cestini (il mio è di plastica verde, Giovanni ha quello di vimini di suo padre, secondo me un po’ gli
pesa, non perché è grande, ma perché gli ricorda zio Luciano),
vermi, ami, fili, piombi, le forbici multiuso comprate alla Standa di Borgomanero, stivali, calzettoni di lana pesante, eskimo,
maglioni, sciarpe, berretti, la sveglia alle cinque che alle sei, anche se è buio, vogliamo essere al Bachitòn, la grande buca, quasi un laghetto, che c’è sull’Agogna. Giovanni dice che le trote,
d’inverno, si prendono lì. Non dormo per tutta la notte, controllo che la sveglia sia puntata davvero, mi giro nel letto, sento il respiro di Giovanni, sento papà che gira per casa, vado a controllare l’attrezzatura, vado a vedere la caffettiera (vista l’occasione
mamma ci permette di mettere un po’ di caffè nel latte), stringo
la vitina degli occhiali con il cacciavite di papà, non vorrei si
rompessero proprio il primo giorno di pesca, prendo la Voigtlander, cerco uno zaino dove metterla, voglio portarla sul torrente. E se poi cade in acqua? A Rodolfo non cadrebbe. Ma a me
32
sì, ne sono sicuro. La rimetto via. Torno a letto. Non mi ero mai
accorto che la sveglia facesse tanto rumore. Tic-tac, tic-tac, guardo l’ora, le due, mi giro dall’altra parte. Mi alzo. Cerco il latte
condensato, trovo il tubo nel frigo e comincio a succhiare. Finalmente le cinque. Chiamo Giovanni e in un attimo siamo in
cortile. È buio, mamma non si è alzata per il tè, tiriamo fuori le
biciclette dal garage e partiamo. Giovanni prendi una pila. Già,
è meglio. Eccome se è meglio, prendiamo la strada per San Lorenzo dal cimitero ed è buio, molto buio. Con la pila si intravedono le ombre degli alberi che si richiudono al nostro passaggio. Anche con i guanti ho freddo alle mani. Leghiamo le biciclette a un cancello, chi mai l’avrà messo un cancello per andare
in riva a un torrente? Sento il rumore dell’acqua vicino. È il mio
primo giorno di pesca alla trota.
La lenza è già pronta. L’ha fatta ieri sera Giovanni. Guarda
Stefano, mi dice, ti faccio vedere come si infila il verme sull’amo. Prende un lombrico e lo tiene stretto tra le dita, poi lo trafigge con la punta e lo fa scorrere sul gambo. Zac, l’amo è scomparso dentro al lombrico che si contorce selvaggiamente. Facile, penso e prendo un verme anch’io. Attento che sono
scivolosi, stringili bene. Me ne sono accorto è già caduto nel prato. Ne prendo un altro, ma si arrotola tutto, non riesco a infilare
l’amo. Giovanni mi spiega che per quelli di città vendono anche
degli aghi apposta perché proprio non sono capaci a mettere il
verme. Io non sono mica uno di città, penso, ma intanto non ci
riesco. Il primo lombrico me lo innesca Giovanni. Io imparerò
più tardi. Il cielo si è fatto meno scuro e al Bachitòn, oltre a noi,
ci sono altri pescatori. Qualcuno accende un fuoco. C’è il ghiaccio sulla punta della canna ed è difficile lanciare. Non si prende
niente stamattina, dice un signore nascosto dietro al fumo di
una sigaretta. Ma tu non sei il figlio del professore? domanda.
Del professore con due cognomi dico… Baldazzi Morra? Chiedo io che sono abituato. Sì, sì, Baldazzi Morra… Sì, sono io…
Ciao, io sono Mario Giurati, il papà dell’Antonella, Antonella
33
Giurati, che va a scuola da tuo padre… E così ti piace la pesca? È
il primo giorno, ma credo di sì, mi piacerà molto… Fa vedere come peschi… Ah ma se fai così con l’acqua bassa prendi poco…
Ci vuole il filo fine, il galleggiante… La lenza da fondo come la
tua va bene in montagna… Un giorno che ci incontriamo sul
fiume ti spiego bene… Salutami il tuo papà, ricordati, Giurati…
Stefano corri, l’ho presa, è grossa, vieni ad aiutarmi… È Giovanni che urla come un dannato in fondo alla buca, ha la canna piegata e pure lui non sembra tanto dritto… Vado vicino e guardo il
filo che parte dalla canna e si inabissa in acqua e in fondo un
lampo giallo che si gira, è la pancia della trota, credo. Faccio fumo dalla bocca mentre parlo. Giovanni cosa devo fare… Devi
prenderla quando la porto a riva… Giovanni suda. E se non sono
capace e la perdo? Non la perdi, devi afferrarla forte, sotto alle
branchie, prendi uno straccio magari. Ecco cosa non abbiamo,
penso, lo straccio. Mi tolgo il fazzoletto dalla tasca. Entro in acqua con gli stivali, sento il freddo fuori dalla gomma, intorno ci
sono anche i pescatori grandi, ma non parlano. La vedo la trota
di Giovanni che arriva verso la sponda, è grande, è enorme, ha
una pancia gialla, il dorso scuro e da sotto la superficie dell’acqua si vedono dei pallini rossi, arancioni forse. Le giro intorno,
mentre Giovanni indietreggia sulla riva, anch’io adesso sudo,
vedo la testa fuori dall’acqua, arrivo con il fazzoletto, stringo forte e sollevo il pesce, sento tutta la potenza dei muscoli della trota che vorrebbe divincolarsi. Io non posso tradire Giovanni e
stringo forte e tiro il pesce sulla riva. Giovanni lascia la canna e
corre a prendere la trota. Arriva un pescatore adulto e ci dice uccidetela, sennò soffre… Come si fa? Chiedo a Giovanni, ma lui
non ascolta, guarda il suo pesce che ormai è un po’ anche mio.
Devi sbattergli la testa su un sasso, dice il pescatore. Giovanni lo
sa, se lo ricorda, prende il pesce con due mani e lo sbatte su un
grosso masso. La trota si irrigidisce, cola del sangue sulla pietra.
Giovanni la lava nell’acqua del torrente. Io la guardo incantato.
Bella bestia, sarà mezzo chilo, dice il pescatore dietro di noi.
Prendi il metro Stefano. Eccolo. Fa quarantatré centimetri. Sai
che è la più grossa della mia vita? ansima Giovanni. Per me è
bellissima. Non avevo mai visto un pesce come quello, così liscio, lucido, possente, con la schiena cupa, la pancia giallastra, i
puntini neri e rossi sui fianchi, le pinne lunghissime e la mascella pronunciata, possente come quella dei salmoni canadesi
dei documentari. Guardo il cielo, c’è aria da neve, è freddo. Giovanni è felice. Chissà se lo prenderò mai anch’io un pesce così?
34
35
Cara Cosetta, scrive Emilia, con tratto sicuro, rotondo, in
quella domenica mattina, con i ragazzi a pesca e Giulio fuori, a
prendere giornali e caffè. Guarda il foglio, sorride e prosegue:
So in questi anni di esserti stata poco vicina, di averti scritto poco, di non essere mai venuta a trovarti. Però, credimi, oggi che
ho bisogno di confidarmi con una persona cara ho scoperto che
tu sei la migliore amica che ho e che abbia mai avuto. Spero allora che mi perdonerai se ti scrivo solo in questo momento per
me così difficile. Tu mi conosci bene e sai di quante poche persone mi possa fidare. In questioni che riguardano Giulio poi
non posso neppure confidarmi con mamma. Non voglio fartela
troppo lunga. Giulio è malato. Non so se di una malattia grave,
non so neppure se è una malattia. Non so, Cosetta cara, neppure come scriverla questa cosa senza mettermi a piangere. E pensare che abbiamo fatto tanto, io e te come tante altre donne, per
non trovarci più ad aver paura, a piangere, ad aspettare sole in
casa. Bene, cercherò di essere forte, di dirti le cose come sono,
anche con la crudezza necessaria. Giulio, il Giulio che tu conosci, il Giulio che amo, beve, si ubriaca. Non in compagnia, non
con gli amici. Da solo. Inizialmente la sera, adesso anche di
giorno, nelle peggiori osterie del paese. Mi hanno anche telefonato un giorno per andarlo a prendere. Lui non parla, non dice
nulla. La mattina dopo sembra normale. Va al liceo, insegna,
torna a casa, si chiude nel suo studio, magari parla un po’ con i
ragazzi, legge. Poi di colpo esce, sparisce e non torna se non di
notte, a notte fonda e puzza di vino. E non parla. L’altra sera mi
sono arrabbiata per provare a fargli dire qualcosa. Ha tentato di
spingermi via, non gli è riuscito, mi ha chiesto scusa, si è messo
a piangere. Non so bene quando abbia cominciato, ma so che
dura da tempo e peggiora sempre più. Credo che persino in paese ne parlino. Cosetta io sono sola con un figlio quasi adolescente e Giovanni, il figlio del cugino di Giulio, che come sai,
oggi vive insieme a noi. Sono sola e non so come fare. Dimmi
qualcosa tu che hai sempre trovato le parole giuste. Ti abbraccio, la tua amica Emilia. Che sciocca, mandare via una lettera
bagnata dalle lacrime, pensa Emilia mentre piega il foglio e
chiude la busta. Sul lato destro l’indirizzo di Cosetta, ben scritto. In alto a sinistra il mittente con quella via – via dei Grissini –
così difficile per Emilia da ricordare, da riportare come casa propria. Forse avrebbe dovuto spiegarsi meglio, forse doveva essere meno sbrigativa a spiegare l’angoscia di Giulio, la sua malattia, ma Emilia aveva solo l’urgenza di scrivere a Cosetta, non di
fare un trattato, non di perdersi in lunghi distinguo. Le parole
non erano mai state il suo forte, specie quando erano troppe.
Sono quasi le sei del pomeriggio, siamo sul torrente da questa mattina all’alba. Giovanni ha già catturato sette trote, compresa quella colossale. Io niente, neppure una trota piccola piccola. Forse la pesca non fa per me. Il torrente è un viavai di pescatori che si salutano, che mostrano le catture, che si siedono
attorno ai fuochi accesi per far fronte al freddo. Adesso il verme
credo di saperlo infilare sull’amo, ma non mi serve a molto.
Giovanni è soddisfatto e mi dice di insistere. Io ho provato dappertutto, sono stanco. Lancio lontano, sotto a un albero spoglio
che protende i rami in acqua. Su un’acqua che sta diventando
cupa perché ormai è quasi buio. Appoggio la canna a un muretto e guardo la punta. Giovanni cammina nell’acqua. Stai attento, porca miseria, mi hai mosso il filo… Guarda che io non ho
toccato niente, dice Giovanni. È un attimo, il filo si tende di nuovo e capisco che in fondo, laggiù, un pesce sta mangiando l’esca. Tiro con forza, la canna si piega, mamma mia come si piega, sento qualcosa in fondo che tira, si muove, non ne vuol pro-
prio sapere di venire a riva. Stefano fai con calma, mi sussurra
Giovanni in un orecchio, credo che sia grossa. Io tiro e lei non
viene. Faccio sì con calma, ormai è quasi buio, ma ne intravedo
la sagoma sulla superficie dell’acqua. È un’ombra enorme,
sembra uno squalo con quella silhouette scura, ombrosa, piena
di rabbia e di sconcerto. Vedo la schiena con la grossa pinna salire in superficie. Adesso sudo, tanto. Ho paura di perderla, di
perdere il pesce più grande della mia vita, la mia prima trota…
Non so come fare. Vedo la spiaggetta e istintivamente indietreggio e faccio scivolare piano la trota sulla sabbia della riva. Eccola che esce dal suo elemento, eccola all’asciutto, sto per andare a prenderla, ma lei fa due salti e si slama. Sta per tornare in
acqua, ma Giovanni ci si butta sopra con tutto il corpo, la schiaccia, l’afferra, la stringe. È troppo bella per lasciarla andare. È
lunga, molto lunga, scura, quasi nera, magra, molto diversa dalla trota che ha preso Giovanni la mattina. Ha dei puntini rosso
fuoco sui fianchi che si vedono anche adesso che è quasi buio.
Sarà otto etti, dice Giovanni, è più grossa della mia. Non pensavo nemmeno che ci fossero delle trote così grosse nell’Agogna,
dice un pescatore che è arrivato attirato dal trambusto. Giovanni è tutto sporco di sabbia e tiene in mano la mia trota che è diventata anche un po’ sua. Una per cominciare, una per finire,
dice soddisfatto. La misuriamo, fa quarantasei centimetri è davvero grande. La mia prima trota è la trota più grossa che è stata
pescata quel giorno in tutta l’Agogna. Smontiamo tutto, mamma ci starà aspettando. Incontriamo il Giurati che fuma, guarda
le trote che abbiamo preso e dice che siamo stati i più bravi di
tutti. No, non dice proprio così. Dice che abbiamo avuto più culo di tutti, ma lo dice con ammirazione. È la prima volta che un
adulto mi prende davvero sul serio. Sì che mi piace la pesca alla
trota. È la mia passione. Prendiamo le biciclette e andiamo verso casa, ma passiamo dal centro, da via Dante. Ormai lo sanno
tutti che abbiamo preso le trote più grosse e ci fermano tutti per
vederle. Le abbiamo messe nel cestino di Giovanni, quello di vimini, quello di zio Luciano. Nel mio la trota che ho preso non ci
36
37
stava proprio. Non ti abituare troppo bene che così grandi non
si prendono mica tutti i giorni, dice Giovanni. E chi se ne importa. Siamo noi che abbiamo preso le trote più grosse dell’apertura. Io e Giovanni. Siamo una forza io e te insieme. Puoi
dirlo fratello. Già, da oggi siamo fratelli, fratelli di pesca.
Ci sono papà e mamma sulla ringhiera, all’aperto, quando
arriviamo. Forse sono un po’ preoccupati perché è buio, ma
non lo dicono. Papà sta fumando la pipa, mamma lo abbraccia,
ha messo il poncho di lana e sorride. Indovinate cosa abbiamo
preso? Niente. Ma va là niente. Guarda qui papà, sette le ha prese Giovanni, ma la più grossa l’ho presa io. Bisognerà pulirle,
dice mamma entrando in casa. Siamo tutti sporchi, abbiamo
sabbia, terra, fango dappertutto e un freddo polare che sul fiume non sentivamo. Vi preparo il tè che non vi ho fatto stamattina, dice mamma. Meglio una cioccolata, che dici? Dico che è
quasi ora di cena. Ma dai, hai visto che pesci? E che pescatori…
Ci mettiamo tutti a ridere. La pesca dà allegria, il fuoco nel camino dà allegria, anche papà sorride con i suoi occhi chiari e io
sento l’aroma della pipa che si spande per casa. È un odore strano, di tabacco, ma anche di tessuti, di sudore, di cognac, di tante cose. Che belle risate, che grande giornata l’apertura della pesca alla trota del millenovecentosettantasei. Da segnare sul diario, da raccontare a scuola, da fotografare… Cavolo, la
Voigtlander. Porca miseria, non ha il flash. Arriva papà con la
Rollei, ci ha pensato anche lui. La guardo spesso quella foto in
cui io e Giovanni teniamo in mano le trote e le canne da pesca
davanti al camino. Nella foto c’è uno spruzzo di fango sui miei
occhiali e Giovanni ha la faccia da pescatore. Papà fa anche una
foto a mamma mentre fa finta di essere lei ad aver preso le trote.
Fa una bella smorfia la mamma in quella fotografia. Cioccolata
calda, biscotti, foto, bagno in due nella vasca e in un attimo ci
addormentiamo. Anche la giornata dell’apertura della pesca alla trota è finita. Domani scuola.
38
Professore, ancora lei, che piacere averla qui… Sei sempre
gentile Carmelo, dammi un bicchiere di Sicilia, mi metto qui a
leggere il giornale… Per Giulio Baldazzi Morra, la vecchia osteria di via Regina Villa è diventata il salotto di casa. Poco importa
che ci siano solo vecchi ubriaconi che giocano a carte e polvere
sui tavoli di formica e vecchi croissant imbustati nel cellophane
e bicchieri unti pieni di ditate prima ancora che di vino. La luce
è bassa, l’odore intenso, di vinaccia mista a vomito, la parlata
lenta, cadenzata, spesso pugliese, altre volte calabrese, altre siciliana. Giulio ci stava bene in mezzo a quell’umanità silenziosa. Ossequiosa ma di poche parole. Di giorno, in un’osteria, ci si
va per stare in pace, non per far baccano. Ognuno ad annegare
nel vino il proprio silenzio interrotto, al massimo, dalle bestemmie di una carta calata sbagliata sul tavolo di briscola. Non sapeva Giulio perché o cosa lo spingesse lì, armato di libri e giornali per dare un tono alla sua presenza. Ed era certo entrando,
ogni volta, che non avrebbe bevuto più di un bicchiere. Gli piaceva il luogo, la gentilezza di Carmelo, la posizione in disparte,
il vezzo di mescolarsi coi terroni, con gli immigrati, con la gente che ai gozzanesi piaceva davvero poco. A lui stava piacendo
poco Gozzano. Eppure era stato lui a volerci andare, a trascinarci Emilia, a convincere Stefano. Ma non gli piaceva più, non sapeva che farci, non sapeva dove girarsi nello studio troppo grande di via dei Grissini, nel treno troppo affollato per andare a Borgomanero, nelle chiacchiere troppo impegnate della sala
insegnanti, nelle lettere pressanti dell’editore che chiedeva gli
ultimi aggiornamenti per l’antologia. C’era qualcosa che ronzava fuori dalla sua vita, c’era quella rabbia insolita e a tratti incomprensibile che animava i giovani, c’erano le piazze cariche
di protesta. A Gozzano non c’era nulla, persino gli operai non
scioperavano anzi si portavano il lavoro a casa. E lui si sentiva
vecchio per la rivoluzione, stanco per ricominciare qualunque
cosa, troppo solo per proporre a Emilia qualsiasi cambiamento.
Un altro, Carmelo. Professore non è che le fa male? In vino veritas. Che cazzata stava dicendo. Sì che faceva male, allo stoma39
co, ai pensieri, a Emilia con cui non riusciva più a parlare, a Stefano e Giovanni che chissà cosa penserebbero se lo trovassero
lì. Ma non lì due ore fa. Lì adesso con la testa che si fa di piombo,
i pensieri che hanno la stessa pesantezza dell’alito. I libri che
forse sono caduti per terra. Gli occhiali appoggiati sul tavolo.
Vuole che l’accompagni a casa professore? Più tardi Carmelo,
più tardi, magari quando chiudi. Non starà in pensiero la signora? No, Carmelo, stai tranquillo. Va bene, l’accompagno dopo,
però mi faccia un piacere personale, smetta di bere per oggi,
troppo vino fa male. In vino veritas. Anche troppa verità fa male. Se devo smettere portami l’ultimo Carmelo. Va bene professore, lo offro io, ma mi prometta che è l’ultimo. Hai visto Carmelo, anche oggi c’è stato un agguato delle Brigate rosse… Non
è così che si fa la rivoluzione, quelli, con tutto il rispetto, sono figli di signori. Già, sono figli di signori. Anch’io sono figlio di signori, pensa Giulio, e com’è, vorrebbe chiedere a Carmelo, che
io figlio di signori me ne sto qui, tra voi, tra i figli del popolo… Il
professore è andato pure oggi, lasciamolo dormire, Concetta,
mettigli una coperta sulle spalle. Certo che i signori il vino lo
reggono proprio poco.
messo a Stefano che gli avrei insegnato e ho sempre poche occasioni per mantenere la promessa, dice Rodolfo a mamma
quasi per scusarsi. Lei gli chiede se vuole un caffè. Non è una
manifestazione importante, non succederà nulla, il giornale mi
ci manda e così avrei un po’ di tempo per Stefano, viene anche
Elsa. Bravo Rodolfo! Alla mamma Elsa piace, si fida di lei, è una
brava bibliotecaria, dice sempre. Preferirei chiedere a Giulio cosa ne pensa, prende tempo mamma. Va bene, potete telefonare
a me stasera, dice Elsa con un sorriso. Ma stasera papà non c’è e
siamo punto a capo. Mamma, vorrebbe venire anche Giovanni
domani a far le foto, ma se papà non torna come facciamo a dirlo a Elsa… Cosa dici Stefano? Scusami ero distratta… Sei sempre tanto distratta, lo so, ma sono quasi le dieci di sera. Beh,
papà sarà stato trattenuto, magari da qualche collega. Sì, ma io
voglio sapere se posso andare. Mamma chiama Elsa e dice che
possono passarci a prendere, a me e a Giovanni. Mi raccomando, sono due ragazzini, la sento bisbigliare.
Quando serve papà non c’è mai. Chissà dove si è cacciato. È
venuto Rodolfo a chiedergli se domattina può passarmi a prendere. È sabato, ci sarebbe scuola, ma a Novara c’è una manifestazione di operai, viene anche il segretario del sindacato. È l’occasione giusta per cominciare a insegnarmi a usare la Voigtlander, gli ha consigliato Elsa. Per Rodolfo è una giornata di
routine. Lei sì che è una grande amica. Voglio il permesso da
papà e non lo trovo. È sempre in giro. Mamma dice che ha degli
impegni di lavoro. Una volta quando lavorava molto era sempre
in casa. Io un’occasione così non me la perdo, mamma dimmi
tu se posso andare domani a fare le foto. Mamma guarda Rodolfo, lo so che non le piace. Ha i capelli lunghi e l’orecchino e a
mamma non piacciono le persone così. Nemmeno se sono comunisti come lei. Lo so che è un giorno di scuola, ma ho pro-
Per la pesca ormai ci ho fatto il callo ad alzarmi presto e la sera mi addormento, ma per la nostra giornata fotografica non
riesco proprio a prendere sonno. Che invidia Giovanni, lui dorme sempre, si sveglia solo quando deve. Io controllo la Voigtlander, la borsa, i panini preparati da mamma. Che ci fai ancora alzata mamma? È notte perché leggi in cucina? E papà perché
non torna? Ha chiamato che dorme fuori, dice mamma con un
sorriso, ma quando sorride così tanto mi sa sempre che dice
una bugia. Non ho sentito il telefono, provo un po’ malizioso.
Ha squillato una volta sola, ero vicina, l’ho preso subito. Perché
non torna papà? Ha avuto un guasto alla macchina. Ma l’ottocinquanta è in garage mamma… Era con l’auto di un collega,
quella si è guastata, sono in albergo. Dove? A… a Vercelli, dai vai
a dormire Stefano che è tardi e domani non ti alzi. Sì mamma
che mi alzo, è il mio primo giorno da fotografo. Mio papà faceva
così quando aveva un’amica e non voleva farmelo sapere, sento
la voce di Giovanni nel buio della stanza. Così come? Come zia
40
41
Emilia, l’ho sentita, non la racconta giusta su zio Giulio. Già,
ma secondo te cos’è? Magari zio Giulio ha un’altra donna.
Un’altra donna, non credo proprio Giovanni, la mamma è così
bella e gli vuole così bene… Gli uomini sono strani in questioni
di donne, Stefano… Non ci credo, buonanotte… Dai non prendertela, dicevo così… Non me la sono presa… Sì, che te la sei presa… Sì, me la sono presa. E tanto. Giovanni non ha ragione e se
papà avesse un’altra donna mamma non l’avrebbe difeso. È già
ora di alzarsi, avrei voluto dirlo a papà che andiamo a Novara.
Se tu fossi tornato a casa avremmo potuto dirtelo e magari ci
andavi anche tu a Novara, credo che ai ragazzi avrebbe fatto piacere. Stefano ci teneva tanto ad avere il tuo permesso… Più Emilia lo guardava con quell’aria da maestrina, anzi da professoressa del primo anno, più otteneva solo silenzio. Perché te ne vai in
giro tutta la notte da solo? Silenzio. Perché torni a casa sempre
che puzzi di vino in quel modo? Silenzio. Ma ti sei visto come
sei conciato? Silenzio. A volte si guardava Giulio Baldazzi Morra, passava distratto davanti allo specchio e si fermava un attimo. Si passava una mano sul viso, si avvicinava al vetro, vicino,
vicino, per vedere le rughe che gli si scavavano attorno agli occhi. Sarà la fatica di portare gli occhiali… Voleva sorridersi, ma
ne usciva una smorfia. Spesso anche un rigurgito. Sentiva il sudore sul collo, vedeva la camicia bianca velata di nero, lì, nell’angolo del colletto. Sapeva che il sonno prima o poi l’avrebbe
condotto con sé, lontano. Lontano da Emilia che ripeteva sempre le stesse domande, convinta forse che a forza di farle lui
avrebbe trovato risposte. Ma lui non lo sapeva. Non lo so, Emilia, non lo so, le aveva ripetuto all’infinito nelle sere, nelle notti
in cui lei piangeva e chiedeva con ostinazione perché. Poi aveva
smesso di dire non lo so. Non lo sapeva e basta. Succedeva, succedeva sempre più spesso forse, ma succedeva e basta. E lui,
Giulio, era convinto che dovesse durare un attimo, un minuto,
il tempo di un bicchiere, al massimo due. Così, per sentirsi un
po’ più a proprio agio nelle cose del mondo. Poi i bicchieri di42
ventavano tre, quattro, tanti. E a lui piaceva il vino nero del sud,
o ancor di più quello dolce, lo Zibibbo, il Sicilia. Vini che legano
e non sciolgono. Legano la lingua e i pensieri, accompagnano
come una carezza verso una sorta di torpore rassicurante. Come un grande abbraccio dal sapore zuccherino. Emilia quante
volte avrei voluto che tu mi abbracciassi… Emilia, quanto vorrei
essere ancora quello di prima… Emilia, tu sai che voglio bene a
Stefano, che voglio bene ai ragazzi… Emilia… Quante Emilia
avrebbe voluto dire, ma si fermavano tutte lì, in bilico, appoggiate sull’orlo del bicchiere, mentre il silenzio si faceva spazio e
piano piano lo portava con sé, lontano. Lontano da Emilia, da
Gozzano, da via dei Grissini, da Stefano, da Giovanni, dalle loro
cose da ragazzi, le trote, la scuola, le macchine fotografiche,
l’antologia da finire… Via tutto, lontano. Ecco cos’è Emilia,
avrebbe voluto dire. E invece stava zitto a guardarsi le mani
mentre a lei crescevano delle rughe sottili dove gli occhi si sforzano in pianto. Erano belle le rughe di Emilia, mica le sue. Lui
stava andando via, anche la sua faccia l’aveva capito e lo stava lasciando solo, lo stava trasformando in un vecchio. Eppure era
giovane con i suoi quarant’anni. Troppo giovane per la saggezza richiestagli da tutti, troppo in fretta. Che paura sai Emilia la
prima volta che mi hanno riportato a casa i carabinieri, volevano
sapere chi fossi e io sboccavo vino nero e sonno lungo la strada
che dalla stazione porta a Briga Novarese… Che paura, avrebbe
voluto ancora dirle, ma non aveva voce, non aveva forza neppure per la paura. Alle nove, più o meno era quella l’ora, la manifestazione a Novara era già cominciata. Speriamo che Stefano si
diverta, che Giovanni si diverta. Ho sonno Emilia, questa è l’unica frase che riesce a uscire davvero dalla bocca di Giulio.
Abbiamo preso il treno. Scendiamo alla stazione di Novara
che sembra non esserci quasi nessuno, i binari sono deserti, c’è
qualche ferroviere, pochi viaggiatori. Entriamo nel sottopassaggio, saliamo le scale che portano ai giardini della stazione, già
dai primi scalini si sente un brusio che diventa sempre più for43
te man mano che ci avviciniamo e diventa boato appena usciamo dalla rampa delle scale e i muri finiscono e smettono di attutire i suoni. C’è il sole un sole invernale, forte, intenso, che azzurra il cielo e fa rimbalzare il rosso delle bandiere, tante, grandi mentre avvolgono il piazzale davanti alla stazione e
sembrano sventolare al suono dei tamburi, al ritmo dei fischietti. È un grande abbraccio quello che sento, una stretta al cuore,
l’Italia di cui parla sempre la mamma, gli operai di papà… Per la
prima volta li vedo tutti insieme, tutti in piazza, con i simboli e i
colori che al telegiornale non si vedono mai. Rodolfo ha già impugnato la sua nuova Olympus e io lo vedo muoversi felpato, veloce, come se danzasse con l’obiettivo. Lo guardo rapito mentre
scatta e riconosce, in mezzo a centinaia, migliaia di persone urlanti, i volti che raccontano la rabbia, la gioia, la disperazione, la
fatica. Seguo con l’occhio dove punta l’obiettivo. Rodolfo è davvero un grande mentre scova il baffo del sud con il fazzoletto
rosso al collo e la coppola del paese. C’è la storia di quell’uomo
nel suo volto. Quando ho visto le foto ho capito che Rodolfo con
l’obiettivo sa leggere i cuori, sa rubare i segreti dell’anima, sa fare magie… Anche Giovanni rimane in silenzio, al centro del
piazzale con i giardinetti, a guardare questo esercito variopinto
e chiassoso, eppure serissimo. Dai ragazzi, muoviamoci se vogliamo fotografare la testa del corteo, dice Rodolfo facendoci
cenno di correre lungo il corso. Arriviamo in una piazza dove ci
sono le camionette della polizia e i poliziotti con i caschi e gli
scudi. Un esercito minaccioso e silenzioso contrapposto a quello urlante e colorato che abbiamo appena lasciato. Rimango
senza fiato a sentire gli umori della piazza, le tensioni, le paure
che avverto e non capisco. Non doveva essere una manifestazione tranquilla? A me tutte queste armi, tutte queste divise, tutti
questi volti immobili, tirati, sottovoce fanno una paura tremenda. Anche Rodolfo è a disagio, si avverte, ma sa qual è il suo posto. Dai, mi dice, tira fuori la macchina fotografica. Ecco qui
scatti, qui controlli l’esposizione, qui i tempi, qui i diaframmi…
In meno di un minuto mi ha spiegato tutto quello che secondo
me ci volevano mesi per impararlo. Guarda e scatta Stefano,
quello che vedi lo devi vedere nel cuore e rapirlo spingendo sul
pulsante di scatto. A me sembra matto, ma la sua fretta, la sua
frenesia, la sua eccitazione mi piace e mi convince. Il boato sta
salendo dalla stazione, rumore e colore dietro a uno striscione
immenso e pugni chiusi che si levano in alto verso il cielo azzurro. Rapisci con lo scatto quello che ti dice il cuore. Eccoli lì,
sono gli stessi uomini che incontro quando vado a comprare il
vino per papà, che vedo passeggiare con la cicca in bocca la domenica mattina, solo che adesso non hanno i volti rassegnati
delle osterie o quelli un po’ finti della domenica. C’è un’energia
solenne in questo baccano infernale, in queste bocche dai denti
ingialliti, in queste mani che non sembrano più callose, ma forti, serrate, pronte a conquistare il mondo… Io questo vedo, io
questo fotografo. Dai Stefano, muoviti che ti schiacciano, sento
Giovanni che mi chiama. Vedo Elsa che sorride. Vedo Rodolfo
che si arrampica sulla statua di Cavour e scatta da lì e raccoglie
la forza di questa marea umana che passa a fianco dei silenzi dei
poliziotti armati, con casco, scudo e manganello. Se papà fosse
qui potremmo parlare… Scatto, eccome se scatto. E adesso lo
faccio da dietro, alle spalle, mentre il corteo si incammina lungo
un viale costeggiato dai giardinetti. Qualcuno mi vede, un ragazzo mi sorride. Io sono un bambino che gioca a fare il fotografo, ma mi sento felice. Felice per la Voigtlander, felice per
questa piazza così bella, così variopinta, per questa gente così
tanta, così convinta, così… È la mia prima manifestazione. Non
so neppure cosa chiedono gli operai, ma dentro di me so con
precisione che hanno ragione. D’altra parte sono comunista anch’io, l’ho deciso al telegiornale, mica ho cambiato idea.
44
45
È solo per caso che mi trovo di fianco al bar dove in un colpo
solo vanno in frantumi le vetrine, mentre il corteo urla fascisti e
un gruppo di persone si stacca di corsa, forse tira qualcosa che
non vedo. Sento il vetro infranto, sento grida diverse dalle urla
del corteo, vedo fumo, mi metto in posizione per fotografare e
sento Rodolfo che mi afferra e mi trascina mentre urla, vieni via
incosciente, andiamo sbrigati… Se ti succede qualcosa chi lo
sente tuo padre… Già chi lo sente papà. Ma io non ho mica fatto
niente, solo una foto stavo per fare. Cambiano in un attimo rumori e colori, noi corriamo verso i giardini, ma vedo fumo, sento spari, botti, vedo lampeggianti, sento sirene, vedo lingue di
fuoco, sento Rodolfo che mi strattona, non vuole che mi fermi,
non vuole che mi giri indietro… Corre. Corro. Corrono Elsa e
Giovanni. Sento l’affanno, il mio, mescolarsi con quello di tutti
gli altri. Entriamo in un portone, nel cortile di una vecchia casa
a ringhiera. Io non ho capito cosa è successo Rodolfo… Non
preoccuparti, stai bene? Certo che sto bene anche se non so neppure come mi chiamo. Ho il cuore pieno di emozioni. È questa
la giornata più lunga della mia vita. Non ne ricordo altre. Aspettatemi qui, dice Rodolfo che ha ritrovato il tono calmo di sempre, vado a vedere cosa è successo, poi torniamo in stazione e
andiamo a casa. Posso venire anch’io? Lo chiedo, ci provo, lo
vorrei tanto. Tu bada alle mie macchine fotografiche, dice Rodolfo consegnandomi il borsone. Adesso sì che sono un fotografo, che sono entrato nel mondo dei grandi. Grazie Rodolfo,
non potevi farmi regalo più bello.
sul giornale, conclude mamma, facendo sorridere tutti, anche
papà. Grande mamma, ci volevi tu per togliere a papà quell’aria,
ingiusta, da accusatore, da professore, che non gli avevo mai visto. Adesso ho solo paura che papà non mi lasci più andare a fare le foto con Rodolfo. Vedrà professore che belle fotografie deve aver fatto Stefano, si è dato molto da fare. Grazie Rodolfo,
grazie Elsa, scusatemi per lo sfogo, ero un po’ preoccupato,
papà chiude l’incidente. Colgo la palla al balzo: quando mi riporti con te a fare foto? chiedo a Rodolfo. Rodolfo guarda papà
con tono interrogativo. Quando vuole, dice papà che ormai è
tranquillo. Presto, Stefano, presto, mi risponde Rodolfo mentre
Elsa mi strizza l’occhio. Ci provo anch’io, ma come sempre non
ci riesco. Ho capito che a Giovanni della fotografia non importa
un fico secco. Pazienza, saremo solo fratelli di pesca.
Non è successo nulla mi creda e i ragazzi non hanno corso
alcun rischio. Rodolfo non ha dubbi quando parla con papà che
si sta chiedendo come ha fatto la mia foto, cioè una foto di me,
non fatta da me, a essere sulla Stampa.
Scontri tra manifestanti e polizia, titola il quotidiano e sotto
c’è l’immagine del bar Basilica, si chiamava così il bar, con le vetrine rotte, qualcuno che scappa e io lì con i miei occhialoni e la
Voigtlander. Guardi professore che fino a un attimo prima era
tutto tranquillo, incalza Elsa. Non ci è mica successo nulla, dice
Giovanni. Se tu fossi stato lì avresti potuto vedere come sono
andate davvero le cose. Rodolfo ed Elsa sono stati premurosi e
hanno portato a casa Stefano e Giovanni sani e salvi, taglia corto la mamma. Eppoi è la prima volta che qualcuno di noi finisce
Papà dice che è così gentile il Giurati perché pensa di convincerlo ad alzare il voto alla figlia… Lo dice però ridendo e ci lascia andare a pescare con lui. Giovanni si annoia a vederlo pescare, a sentirlo parlare, per Giovanni la pesca alla trota non è
roba da raffinatezze, da donnicciole, da cavedanari. La trota è un
predatore, dice, e va pescata come fanno i montanari, senza perdere tanto tempo come fate voi in un posto solo… Il Giurati fuma, fuma e sorride e i denti sono gialli, ma il sorriso è fresco: e
quando l’acqua si abbassa come fate voi montanari a prendere
le trote? Le prendiamo lo stesso… Adesso il sorriso del Giurati è
una grassa risata. Giovanni l’ha sparata grossa e l’ha fatto davanti a uno che va a pesca da almeno trent’anni. E io e Giovanni
non li abbiamo trent’anni, nemmeno a metterci insieme. Beh,
con l’acqua bassa è meglio non pescare, si corregge. Poi guarda
il Giurati che prepara la lenza, ma si capisce che per lui la pesca
è quella di suo padre, quella di zio Luciano. Non può essere altrimenti, non sarebbe neppure giusto, penso. Io invece vado in
brodo di giuggiole a guardarlo il Giurati che usa il filo sottile e
infila un galleggiante fatto con una penna di pavone, oppure,
dove c’è corrente, con il sughero lavorato al tornio. Lo mette sul-
46
47
la lenza e lo ferma con grande precisione, senza fretta. Poi
inforca degli occhialoni con le lenti bifocali e non capisco se
guarda sopra o guarda sotto, ma comincia a prendere dei piccoli pallini di piombo da una scatoletta che ne contiene tanti, di varie misure. Li mette sul filo, calcolando la distanza uno dall’altro, serrandoli coi denti, con precisione. Io lo guardo, rapito dai
gesti da orologiaio, dall’armonia di questa lenza fatta di cose
piccole, di piombini minuscoli, di ametti, di fili sottili. Vedi, tutto questo serve a presentare l’esca alla trota in modo assolutamente naturale… Certo, col filo sottile devi stare più attento a recuperare il pesce, ma è anche molto più sportivo… Sportivo voleva dire che dava delle possibilità alla trota di tornarsene in
acqua… Mi piace questa pesca, più di quella di Giovanni. È una
tecnica di precisione, bisogna stare attenti, saper aspettare, credere che la trota, prima o poi, uscirà e si farà ingannare da un
vermetto, da una piccola larva nascosta in un amo piccolo piccolo legato a un filo invisibile… Eccolo laggiù, il galleggiante
rosso, in fondo alla buca, dove l’acqua verde si fa cupa, rallenta e
gira. Il galleggiante danza con il filo della corrente in un’acqua
trasparente nella quale si possono contare i sassi del fondo. E
mentre conto i sassi la profondità aumenta e il fondale si fa cupo. Lì il galleggiante rosso del Giurati affonda, si inabissa, lo vedo viaggiare sott’acqua, andare lontano, verso chissadove… E
vedo il Giurati ritornare un ragazzo, balzare sulle gambe, fare
un salto all’indietro, inarcare la schiena e con il braccio ferrare.
La canna da pesca si piega. Dev’essere bella. Sì, dico io, dev’essere bella. La trota non viene e il filo è troppo sottile per forzarla
verso riva. Il Giurati non ha fretta. Io sì, ma è lui che pesca e discende il fiume lentamente, seguendo la trota che cerca un appiglio, un rifugio, un angolo dove potersi infilare, dove spezzare quella lenza così sottile e invisibile che non l’aveva proprio
notata… La trota sale, stanca, verso la superficie, si gira su un
fianco e luccica al sole… In quel momento vedo un riflesso arancione e sento il Giurati dire: è un’iridea. Lo dice con tono deluso,
quasi dispregiativo. L’interesse per il pesce cambia di colpo, lo
tira verso riva, lo prende, lo uccide, lo appoggia sulla roccia. Sarà
trentacinque centimetri, sarà rimasta da una gara. Rimasta?
Già, mi spiega il Giurati, le trote iridee sono pesci americani,
pesci d’allevamento, che vengono messi nell’Agogna già adulti,
già grossi, quando si fanno le gare di pesca. Perché? Perché con
tutto il chiasso che fanno i pescatori durante le gare quante trote del posto pensi che prenderebbero… E sorride con i denti gialli. E anch’io sorrido. Peschiamo ancora. Io guardo. Dai prendi la
canna prova. Provo. È difficile seguire quell’antenna rossa che
gioca con la corrente e poi dove il fondo non si vede più ha già
fatto un bel chiasso l’iridea… Non preoccuparti, l’ho portata fuori subito dalla zona dove si prendono i pesci… Come fa a saperlo? Lo so. Anch’io lo so che non prenderò nulla. Lo penso e mentre lo penso il galleggiante si ferma e poi va sott’acqua di colpo e
io non so piegarmi sulla schiena come ha fatto il Giurati. Io non
so cosa devo fare e tiro e la sento là in fondo, viva, saettante, vera. E io che non ci credevo. Viene subito è più piccola dell’iridea.
La misuro, fa ventisei centimetri, la uccido, la guardo, ha la testa
nera il corpo magro e i pallini rossi fitti fitti. Questa è una piccola fario dell’Agogna, le più belle, le più rare. Il Giurati è contento. Fuma e mi spiega che non tutte le trote nascono lì e non tutte sono uguali. Molte, la maggior parte, vengono immesse dai
pescatori e dalla provincia. Si seminano – questa è la parola che
usa: seminare, come per i campi – trote molto piccole, altre un
po’ più grandicelle, altre addirittura già grandi, pronte da pescare. E poi si possono mettere le uova, già fecondate, le vendono
dentro a delle scatolette che si chiamano Vibert come il francese che le ha inventate. Io ascolto e penso che allora è tutto finto.
Ma non lo chiedo, non siamo in confidenza, non così tanto. Magari però non mi ci riporta più a pescare e allora che mi importa
di star zitto. Allora lo dico. Prendo fiato e lo dico: ma così è tutto
finto… E il Giurati fa una smorfia che un po’ è un sorriso, forse
è un sorriso, se lo è, è amaro. Non tutto Stefano, la tua trota non
lo è… Già, ma le altre sì. Ma la tua si è salvata e si è fatta pescare
da te… Mi piace il Giurati, fuma come una ciminiera, ma parla
48
49
come un poeta. Un po’ parla come faceva papà. Adesso papà
parla poco ed è sempre via o comunque ha da fare. Arriva Giovanni, è passato tra i rovi, si vede dalle mani. Ho provato in un
piccolo affluente qui vicino, ma l’acqua è bassa, troppo. È trasparente, le trote scappano… Non tutte, gli fa il Giurati e gli mostra le nostre catture. Giovanni incassa, ha imparato presto a incassare lui. Dai che quando s’alza l’acqua ci fai neri a tutti e due,
gli dice il Giurati strizzando l’occhio.
Chissà se il prossimo anno andremo nella stessa scuola, mi
dice Giovanni. Perché no? Magari ti bocciano… Scemo… Magari vuoi fare una scuola diversa dalla mia… Magari tu vuoi fare
qualcos’altro… Già, che scuola facciamo l’anno che viene? Ne
parliamo presto ragazzi, dice mamma. Per lei la scelta della
scuola è un affare di Stato. Per papà la scuola è una sola: il liceo
classico. Mamma ci mostra dei libri che spiegano tutte le scuole, ce ne sono davvero tantissime. Il classico è lontano, Giulio…
Io ci andavo in treno tutti i giorni… Perché non possono venire
allo scientifico dove insegni tu? Sarà mica una scuola quella… E
perché no? Già perché no papà? Perché ci insegno io, è ovvio…
Dai non scherzare… La mamma tira un cuscino a papà. Papà toglie gli occhiali e si getta all’assalto. Anch’io vado in camera a
prendere un cuscino. Giovanni è un po’ imbarazzato nella lotta
dei cuscini, per lui mamma e papà sono solo due zii… Però mi
lancia il cuscino, io sono suo fratello, lo sono davvero adesso.
Andremo al classico, ormai è deciso. Andremo a Novara anche
se è più lontano. Ad Arona vanno solo gli sfaccendati, taglia corto papà. Treno tutte le mattine alle sette e quattordici, dice
mamma con aria grave. Che mi importa? Devo ancora finire la
terza media, devo dare gli esami, devo fare le foto notturne al
Castello, devo andare a pesca tutti i giorni per tutta l’estate, per
tutta la vita… Adesso che ho imparato a pescare con le lenze sottili riesco a volte a prendere più di Giovanni. Il latino lo sappiamo tutti e due, sono due anni che la Domeniconi ce lo instilla a
tappe forzate… Mamma che ti importa se saremo lontani, se
50
verremo a pranzo alle due del pomeriggio, se… Sono il figlio di
Giulio Baldazzi Morra, uno che è un nome nella scuola italiana,
me l’ha detto il prof Bisceglie, quello di storia. Vuoi che non riesca a fare un liceo lontano da casa? Vuoi che non riesca a badare
a Giovanni che, tra parentesi, bada benissimo a se stesso e anche a me… Dai mamma che lo scientifico dove insegna papà
non è mica una scuola, l’ha detto uno che è un nome nella scuola italiana, l’ha detto papà… Se papà non si sbriga a consegnare
gli aggiornamenti dell’antologia vedrai che bel nome che diventa… Papà si gira di scatto, vedo che sta per dire qualcosa a mamma, poi le tira il cuscino, sorride, ma non è un sorriso bello e ci
dice che ha da fare… Mamma perché hai rotto tutto? Perché non
sai mai cucirti la lingua quando serve? Lo penso, ma non lo dico, non posso vederli andare via tutti e due la sera che ho deciso,
che con Giovanni abbiamo deciso, che scuola fare, dove diventare grande. Sapessi come mi piace l’idea di tornare a Novara col
treno e uscire dal sottopassaggio della stazione e rivedere la statua della mondina e le bandiere rosse, i fischi, i tamburi… Diresti che non ci sono sempre gli operai. Lo so, mamma, ma prima
o poi ritorneranno pure, mica gli daranno in una volta sola tutte
le cose che chiedono… E poi fammi sognare un po’, non dici
sempre che sono il tuo bambino? Beh, mamma, i bambini sognano, soprattutto quando mandi via papà e rimangono soli.
Buonanotte. Buonanotte. Ci ritroviamo nel corridoio io e Giovanni con i cuscini sottobraccio. Basta un’occhiata e si ricomincia alla grande in camera nostra. Peccato non ci sia un cane, si
sarebbe divertito coi cuscini, ne sono sicuro.
Mamma è partita. Ne abbiamo discusso a lungo. Starò solo il
minimo per non sentirmi inutile, per non sentire di aver abbandonato la mia gente, ha detto e ha ripetuto. E l’ha detto come
solo lei sa dire quando vuole qualcosa e la vuole davvero. Papà
ha capito subito che non poteva dire di no, ma ci ha provato lo
stesso a convincerla, a dirle che sarebbe stata più di impiccio
che altro… Se l’è presa da morire mamma quando ha sentito
51
questa frase. Giulio, tu sei solo un ometto ossessionato dalla solitudine e dal potere… Papà è sbiancato e pure io e pure Giovanni. Mamma non riesce a sopportare che a casa sua, che in Friuli, sia crollato tutto, il terremoto abbia sparso case e morti e lei
non possa fare niente… Con il partito e con il sindacato stanno
organizzando squadre di volontari per andare a dare una mano,
ha detto a cena quando eravamo tutti a tavola. Papà dice di capire, ma non vuole mandarla. Io non sono mai stato in Friuli e poi
Trieste, mi ha sempre spiegato mamma, non è proprio Friuli.
Io e Giovanni ce la possiamo cavare benissimo, papà non lo so.
Mamma comunque è partita. Noi la guardiamo al telegiornale.
Cioè non è che guardiamo proprio lei, ma seguiamo le notizie
del terremoto, guardiamo le immagini della tragedia (così la
chiama la televisione). Mamma chiama tutti i giorni anche se da
lì è difficile. Lei riesce sempre. Papà risponde asciutto, chiede se
sta bene, è malinconico mentre con noi non lo è affatto. Poi me
la passa e lei racconta di come tanta gente come lei si sta dando
da fare, di come manca l’acqua e le case sono polvere e… Ti devo
lasciare Stefano altri aspettano il telefono, ti voglio bene, ti bacio
forte, bacia Giovanni, bacia papà, mi manchi tanto… Anche tu
mamma… Ma io lo penso e non lo dico, sono orgoglioso di avere una mamma che ricostruisce il Friuli. Papà passa tutti i giorni o quasi dal Piacente compra salami, prosciutti, formaggi e
mangiamo panini quasi sempre. A volte la sera andiamo in pizzeria. Un giorno ci ha portati al lago alla Poncetta che è un ristorante. Ho mangiato il pesce persico, ma non è del lago mi ha
detto papà, nel lago non c’è più niente, è tutto inquinato. Eppure dalla terrazza della Poncetta si vedono dei pesci e io so che sono cavedani, ma questi non sono giorni in cui discutere con
papà. Infilo la testa nel piatto e finisco il persico, mangio persino l’insalata. Andiamo a prendere mamma alla stazione che sono le due del pomeriggio e comincia a fare caldo. Sono stati
giorni belli per me, veloci, silenziosi, passati nella mia stanza
senza Giovanni che esce sempre di più con i nostri compagni di
scuola (io proprio non li sopporto).
Dovrei prepararmi per l’esame, ma Giovanni non lo fa e allora non lo faccio neppure io. Avete sgobbato parecchio non c’è
bisogno che vi venga la gobba come a Leopardi. La storia della
gobba di Leopardi mamma la tira fuori spesso. E io posso non
studiare con il permesso di mamma. Sono contento. È giugno,
papà ha compiuto quarant’anni da pochi giorni e non ha voluto
la festa perché dice che ormai è vecchio. Sì, un vecchio sciocco,
gli ha detto mamma e l’ha guardato con gli occhi da donna. Sto
imparando adesso a vedere gli occhi da donna, me l’ha insegnato Giovanni. È come se fossero appena appena umidi che stanno per piangere e invece sono complici. Li ho visti anche a Piera
quando guardava Giovanni. E lui è uscito con Piera. E sono le
quattro del pomeriggio e ancora non torna. Mamma vado a pesca, vengo a casa col buio… Stai attento. Certo che sto attento.
Cosa ti credi che vado in giro a farmi male? Magari apposta…
Son proprio cose da mamma, penso. È caldo sull’Agogna, si
sente l’umido uscire dal bosco, l’aria togliere il respiro in mezzo
alle robinie, il sudore mi scende dappertutto e dove c’è sudore
arrivano i tafani. Il bosco è troppo verde, il vento immobile, l’acqua bassa, non corre, stringe il letto, forse è pure calda da farci il
bagno… Anche le lenze sottili del Giurati sono pesanti, grosse
come corde, in un fiume trasparente come questo dove conto i
sassi e guardando con la luce di taglio vedo il fondo anche nelle
tane più nascoste, nelle buche più profonde. Le cascate, gli
schiumoni, sono saltini d’acqua, schiumette sotto alle quali le
trote sostano diffidenti. Lo so, me l’ha insegnato il Giurati che la
trota senz’acqua ha paura. Non si prende niente oggi, non si
può prendere nulla, nessuno prenderà nulla… Incontro il Nardi
che viene a scuola con me e pesca bene con le esche fini, con
l’occhio di quello bravo. Scuote la testa quando mi vede, la scuote piano per non sudare troppo. Tutto andrebbe rimisurato in
un pomeriggio come questo. La canna da pesca è lunga, troppo
lunga. Gli stivali non servono, pesano, si riempiono del sudore
dei passi. Il cestino è persino ridicolo. Smetto di pescare quasi
52
53
subito. Mi siedo. Non c’è nessuno, cerco nella tasca segreta del
gilet e trovo una sigaretta di quelle prese con Giovanni. La metto in bocca e la accendo e c’è un fumo denso nell’aria che mi fa
svenire dal caldo all’idea di fumare. Io mi impegno, m’impegno
tanto ma non ce la faccio proprio a prendere il vizio. Giovanni
dice che è perché me la faccio sotto che mi scoprano, ma a me
non piace proprio, mi fa venire mal di testa e lo stomaco pesante e le mani che puzzano che non esistono saponi che ti puliscono del tutto. Guarda che alla tua età è meglio pensare ai pesci
che alle sigarette… Mi giro di scatto e butto per terra la cicca cercando di spegnerla. È sbucato silenzioso dal bosco questo pescatore con la canna corta, un cestino di cuoio a tracolla, un cappellone grande, da brigante, con la piuma, una smorfia divertita incorniciata dalla barba e gli occhi che mi guardano come
fossi uno studente impreparato. Ne hai prese? Chiede il pescatore. Oggi è impossibile, rispondo. Oggi è difficile, dice lui, ma
le trote difficili sono le più belle. Ne ho fatte due non male… Lo
guardo stralunato, come fosse un marziano, uno sceso da un altro pianeta. Posso vederle? Azzardo curioso, timido. Non so come, ma azzardo. Certo, risponde aprendo il cestino di cuoio e
spostando le felci dentro alle quali sono avvolte due fario stupende, dalla livrea piena di puntini infuocati, lunghe almeno
due spanne. Saranno più di quaranta, dico io. Sono quarantuno
e trentanove centimetri, hai un buon occhio. Ho un occhio che
trasuda invidia, altroché. Come pesca? chiedo. Col cucchiaino.
Con il cucchiaino? domando sbigottito guardando la canna corta e un piccolo cucchiaino di metallo colorato penzolante. Ma se
qui tutti dicono che col cucchiaino non si prende niente, che è
roba per quelli di città… Se è per questo non sbagliano, vengo da
Genova, sono qui di passaggio… Da Genova? Anch’io sono ligure, sono nato a Laigueglia, ma vivo qui… Ma come fanno le trote
a mangiare un pezzo di metallo con tre ami attaccati che pure si
vedono? Non mangiano un pezzo di metallo, ragazzo, mangiano l’idea che questo pezzo di metallo gli dà mentre si muove…
Bisogna muoverlo sempre, far credere ai pesci che sia qualcosa
di vivo, guarda… Guardo, eccome se guardo, con due occhi sgranati che trapassano gli occhiali lo vedo lanciare quello strano oggetto di metallo con un solo secco movimento del polso. E il cucchiaino vola, lontano sotto le fronde, tagliando l’aria come un
missile e arriva in acqua silenzioso che sembra una farfalla.
Plof! Il signore di Genova col cappello da brigante ha già chiuso
l’archetto del mulinello mentre il filo era in aria. Adesso dà un
colpetto con la punta della canna, inizia a recuperare il filo e io
vedo il cucchiaino girare, frullare, brillare nell’Agogna come un
gioiello sottomarino. Bellissimo, sto per pensare, ma non faccio
a tempo, da sotto una pietra di quelle profonde, nascoste, che si
vedono solo con la luce di taglio, schizza un’ombra nera. Non
riesco a pensare neppure che sia un pesce che già sguazza in
superficie. Viene a riva in un attimo, non è molto grossa, ma è di
misura. Il pescatore si bagna la mano, prende una pinza, gira la
punta del cucchiaino conficcata nella bocca della trota e libera il
pesce. Lo tiene fermo nell’acqua, facendolo andare delicatamente su e giù. La sto ossigenando, mi dice. Poi la lascia e la trota s’inabissa in un lampo, lo stesso con cui è uscita dalla tana.
Perché la rilascia? Sarebbe di misura, qui è diciotto… Lo so, ma
io le tengo solo sopra ai trenta… Solo sopra i trenta! Mi si ferma
il fiato a mezza gola. Lui s’accorge e ride. Sì, a diciotto vanno lasciate crescere e poi a cucchiaino si prendono le più grosse…
Sempre? Sempre. E perché qui dicono che non si prende niente? Perché non ci pescano e non sanno usarlo. Cosa bisogna fare per saperlo usare? Crederci. Come sarebbe…? Sapere che
prende i pesci, credere che prende i pesci, il resto si impara
usandolo. Ne vuoi uno? Mamma dice che non sta bene dire sì
subito. Sarebbe stato meglio dire no grazie, ma correvo il rischio che cambiasse idea e io non volevo, non volevo proprio
che la cambiasse. Davvero me ne darebbe uno? Certo, eccolo, è
tuo. E mi trovo in mano un aggeggio di metallo con una paletta
che sembra davvero un cucchiaino, tutta dorata, con sopra disegnati dei puntini blu. Ho occhi solo per questo aggeggio strano
che prende pesci. Sento il saluto del pescatore di Genova. Rin-
54
55
grazio. Credo di aver ringraziato. Credo di aver salutato. Guardo il cucchiaino e vedo le due trote nel cestino di cuoio. Chiudo
gli occhi e mi attraversa l’immagine della trota che saetta fuori
dal suo rifugio sommerso per prenderlo al volo questo pezzo di
metallo colorato. Non ci credo ancora. È effetto del caldo. È una
magia. Magari funziona solo con lui, magari funziona solo con
quelli di Genova. Però magari funziona anche con me che sono
ligure. Buttala via quella roba lì che non serve a niente… Sento
la voce arrivare alle spalle, ma la riconosco, è quella del Giurati
che sta tornando a casa. Son aggeggi per pescare quelli di città,
li usano i negozianti e vedi come abboccano i pescatori di Varese e di Milano… E quelli di Genova? Sto per chiedere, ma mi fermo. Chiedo al Giurati se ha preso qualcosa, mi dice no, con una
giornata calda così, con l’acqua bassa neppure un mago potrebbe prendere una trota. Un mago sì, vorrei rispondergli, un mago di Genova, col cucchiaino… Non glielo dico però, so che non
mi crederebbe… Il mago di Genova è venuto solo per me. Metto
in tasca il cucchiaino e comincio anch’io a smontare tutto. È
quasi buio. Magari mamma si preoccupa. Chissà se Giovanni è
ancora con Piera, chissà se è vero che si toccano. Me l’ha detto
Giovanni, ma io non ci credo, di notte lo sento, è lui che si tocca.
Metto la mano in tasca, il cucchiaino è lì. Vado a casa contento.
Sono tornata apposta per il tuo compleanno. Nessuno te l’ha
chiesto. Potevi almeno far finta di essere contento. È tutta la vita che faccio finta Emilia, avrebbe voluto dire Giulio, ma si
ascolta mentre dice: a quarant’anni si comincia a invecchiare,
non si può essere contenti. Continuava a far finta. Non riusciva
a farne a meno. L’unica cosa vera della sua vita erano quei pomeriggi all’osteria di via Regina Villa. Pomeriggi che si dilatavano fino a diventare sere, notti… E lì si sentiva autentico, sincero,
comunque sé stesso, l’uomo miserabile e miserabilmente solo
che in realtà era, tra il calore del vino, il silenzio di un’umanità
impegnata a consumarsi con misurata lentezza, l’odore delle
cose che se ne vanno, il sudore di giornate in fabbrica e cantiere
che vedeva annegare nel rosso nero di Puglia. Non sono stato
bene quand’eri in Friuli… Pensi che io mi sia divertita tutto il
giorno a spalare macerie? Tu sei voluta andare. Non potevo fare
altrimenti. Lo so Emilia che non potevi fare altrimenti, pensa
Giulio, ma nemmeno io posso fare altro che brontolare, recriminare, cercare un po’ di affetto, una briciola di pietà, sento la
vita che mi scivola via dalle mani, persino mio figlio cerca altrove risposte a domande che un tempo faceva a me, non servo a
nulla Emilia. Ma ancora Giulio non riesce a parlare, gli si strozzano i pensieri nel momento esatto in cui prendono forma di
parole. E ancora le parole sono altre. Giulio abbraccia Emilia, la
stringe, forte, da mozzare il respiro, con la bocca cerca le sue
labbra… Sai di vino. Sono mesi che non facciamo l’amore. Sono
mesi che tu non ci sei. Sì, ma quando ci sono ti giri dall’altra parte. Per non sentire la puzza di osteria che ti porti dietro. Avrebbe voluto dire la puzza di morte, di solitudine, di malattia, ma
anche Emilia non aveva il coraggio delle parole. O comunque
non lo aveva fino in fondo. Giulio cerca il corpo di Emilia, il tepore delle cosce. Emilia lo spinge via con un grido, duro, durissimo: non provarci mai più, mai più! Poi lo guarda con i capelli
sudati che cadono sulla voragine dei suoi occhi azzurri. Mai più
in questo modo, aggiunge con calma, calcando bene le parole.
Non so cosa mi ha preso Emilia è che non sono più io… E questa
volta i pensieri rotti dal pianto diventano parole e la rabbia di
Emilia diventa carezze su quei capelli bagnati, su quell’anima
stanca perduta in un bicchiere di vino nero, scuro. Entra la brezza fresca del mattino che arriva. Anche se è estate, anche se è
un’estate calda, il vento che annuncia l’alba riesce a scuotere la
pelle con quella sensazione di freddo tanto rara di questi tempi.
Giulio dorme arrotolato tra gambe e lenzuolo. Emilia lo guarda
il suo quarantenne ossuto e peloso, sudato e con gli occhiali anche nel sonno. Si avvicina lentamente e gli toglie gli occhiali.
Poi si siede e cerca di capire, ma più guarda Giulio e più Giulio,
il suo sonno, i suoi pensieri, diventano una nebbia che si allontana. Questo Emilia lo sa, ma non trova la forza di dirselo. Do-
56
57
vresti stargli vicino, dovresti capire cosa c’è che non va, dovresti
parlargli, vedrai che è un periodo poi gli passa, le aveva scritto
Cosetta. Quante frasi fatte, quante parole inutili condiscono l’amicizia quando non si sa cosa dire, aveva pensato Emilia. Pentendosi subito dopo. Anche lei avrebbe scritto le stesse cose. Ma
Giulio intanto viveva in un mondo dove né lei, né Stefano, né
Giovanni, né la scuola, né la politica, né l’antologia da finire potevano sperare di entrare. E da lì Giulio non sapeva – o non voleva? – uscire. Il dubbio che Giulio non volesse uscire da quella
situazione le veniva spesso ed era la cosa più difficile da capire.
Perché un uomo che ha tutto quello che si possa desiderare cerca qualcosa – ma cosa? – in una polverosa osteria di operai, in
un litro di vino cattivo? Forse perché gli operai erano l’ossatura
del paese come Giulio diceva in altri tempi? No, credo proprio
che gli operai non gli passino più per la testa. E cosa gli passa
per la testa allora? Non so, non riesco a saperlo, non so… E sulla
fila infinita dei non so la brezza del mattino accompagna anche
Emilia in un sonno leggero. La notte, anche oggi, è finita. Tanto
basta per dormire.
A pesca con questo caldo? E col cucchiaino? A te aver passato l’esame ti ha fatto diventare un po’ scemo, mi sa, dice Giovanni con un’aria di compatimento che è tutto un programma.
Ma si prendono delle trote così… Allargo le braccia forse un po’
più del dovuto. Dovresti pensare alla morosa. Non ce l’ho. Appunto. Stronzo. Scemo. Arriva mamma e ci spiega che non va
bene che litighiamo. Lo sappiamo da soli mamma. Si può sapere il motivo? Non te lo dico, daresti ragione a Giovanni. Anche
secondo te sarebbe ora che pensassi alle ragazzine. Chissà perché poi le mamme delle ragazze non sono mai d’accordo e pensano l’esatto contrario. Io penso alla pesca, mamma, e, credimi,
sono felice. Papà ha sempre pensato a te, ma non è felice. Lo
penso, ma non te lo direi mai, mamma. La vecchia canna, quella di Laigueglia, è l’ideale per il cucchiaino, l’ho letto su un libro.
Così l’ho tirata fuori, rispolverata. Le ho messo il mulinello con
il filo nuovo e oggi sono pronto. L’esame è finito e non era nemmeno tanto difficile. Oggi vado a pescare, anche se è caldo. Porto l’Autan contro i tafani. Non porto Giovanni che non vuole venire. È presto, la brezza del mattino taglia l’aria, arriverà più tardi l’afa. Adesso ci vorrebbe la maglia per andare in bicicletta, ma
è meglio prendere freddo ora piuttosto che portarsi dietro un
impiccio come la maglia. Me l’ha insegnato papà che con tutti i
suoi occhiali di impicci se ne intende e tutti quelli che può evitare li evita. Non passo davanti alla stanza di mamma e papà tanto
dormono. E se non dormono litigano e quindi sono impegnati.
Lascio un biglietto sul tavolo, prendo un Buondì e due mele, infilo gli stivali e sono in strada. Prendo la via per Invorio, oggi si
cambia. È più lunga in bicicletta ma lì potrebbe esserci un filo
d’acqua in più sull’Agogna. E comunque ci vado così di rado.
Lascio la bici ai bordi di un campo e scendo a piedi. Preparo la
canna, guardo l’acqua, chissà se saprò pescare a cucchiaino?
Già, chissà? E chissà perché papà è sempre così assorto, sempre
chiuso nel suo studio, oppure sempre via. Giovanni mi dice che
resta in paese, ma mamma dice che no, che va fuori, va a Borgomanero. Forse è vero che ha un’altra donna. Papà? Che stupidaggine, solo Giovanni può pensare una cosa del genere. Forse
è stanco, mamma lo fa arrabbiare troppo con tutte quelle sue
idee, quelle cose da fare, è sempre in movimento, anch’io mi
stancherei se dovessi seguirla in questo modo… Povero papà. Il
cucchiaino è già in acqua, c’è arrivato da solo mentre pensavo a
papà. Mi sembra di essere nato per pescarci, lo vedo luccicare,
ruotare, passare dall’acqua ferma alla corrente… Sono incantato, abbagliato… Sono un imbecille! È uscita la trota da sotto il ramo l’ha seguito e io non ho fatto niente, mi sono quasi spaventato… Epperò! Al terzo lancio… Mi sa che con noi liguri funziona, altro che specchietto per quelli di città… Ma cosa fai? Sei
scemo? Peschi col cucchiaino? Eccolo quell’antipatico del Nardi
che arriva sempre al momento sbagliato. Volevo provare, gli dico vergognandomi un poco. Ma dai, si vede che sei un secchione, ti ha fregato quello del negozio? No, l’ho letto su un libro di
58
59
pesca che mi hanno regalato… Vedi che sei un secchione. Il mio
pa’ lo dice sempre che voi che siete venuti da fuori avete troppi
libri in testa… I libri sono belli. Già, però insegnano a pescare
coi pezzi di ferro. Guarda che ho visto uno di Genova che ha preso due trote così… A te ti fa male il sole. E poi non si è mai visto
nessuno di Genova a pescare sull’Agogna. Beh, io l’ho visto.
Contento tu, continua pure se ti va di non pescare niente. Lo
odio il Nardi quando fa così, anche a scuola fa così, ma lì c’è Giovanni che gli tiene testa. È lo stesso, lui non può capire, forse il
cucchiaino è davvero roba da liguri. Forse anche quello che ha
scritto il mio libro di pesca è ligure. Ho fatto cento metri di torrente per lasciare indietro il Nardi e guardo sotto alla profonda
radice di un albero sommerso, la mano lancia senza neppure
che io ci pensi, il filo fa entrare il cucchiaino proprio lì sotto, tra
la radice e l’acqua, senza impigliare da nessuna parte. Chiudo il
mulinello e non ho nemmeno il tempo per girare la manovella
che lì sotto sta succedendo di tutto, sento trascinare verso il
profondo della radice e il pesce che si muove fa onde in superficie. Tiro, lei tira. Non so bene cosa fare, la vedo uscire finalmente da sotto le radici e mettersi con il fianco alla debole corrente.
Sembra un siluro, uno squalo, una balena… È enorme, enorme
davvero… Sarà un metro, sarà un chilo, saranno due chili, no
due metri è troppo… Scendo il letto del fiume trainato da questa
specie di batiscafo dalla schiena scura e possente. Vedo il cucchiaino appuntato al lato della bocca. Mi sembra di essere Hemingway. Ho appena letto Il vecchio e il mare. Ho fatto quasi
duecento metri di fiume dietro alla trota e sono tutto sudato,
dalla schiena alle mutande, ai piedi che bollono negli stivali.
Adesso tira di meno e io provo a trainarla verso riva, viene, piano, ma viene… La vedo scodare verso di me e poi ripartire verso
il fiume… Adesso è in acqua bassa, è stanca, sbanda sul fianco
ed è davvero un pesce stupendo, con dei punti rossi che sembrano dei francobolli… Si arrende, viene verso riva, come faccio
a prenderla? Sarà due chili, sarà tre chili… Sarà che lei è abituata a salvarsi la pelle, ma proprio quando ce l’ho davanti inarca la
schiena, fa un guizzo, si gira e il cucchiaino come d’incanto si
stacca… Mi butto nell’acqua per prenderla, ma stringo tra le mani solo la sua ombra, lei è già lontana, rapida come un siluro,
svelta come un sogno… E io rimango lì, bagnato, infangato, con
gli occhiali tutti sporchi e la mia canna da cucchiaino, quella
con cui non si prende niente… Mi siedo sul greto dell’Agogna.
Non pensavo esistessero pesci così, da noi a Gozzano proprio
no. È la prima volta che penso da noi a Gozzano. Finalmente
questo è il mio paese. Non ho più voglia di pescare. Non avevo
mai visto una trota così grande. Non… Ho la mente affollata di
non che si inseguono l’un con l’altro mentre lei è tornata laggiù,
sotto alla sua radice. Avrei voluto vederlo il Giurati a prendere
un pesce così. Avrei voluto vedere anche il Nardi. Comincio a discendere il fiume, vado a casa, per oggi non pesco più, ho troppe emozioni che mi girano addosso e io sono troppo piccolo per
tutti questi pensieri, in fondo sono ancora un bambino… Già,
mi piace essere un bambino, mi piace molto di più di questo
qualcosa che sto diventando, che mi ha cambiato la voce e la faccia. Sono un bambino. No sono un pescatore di trote. Col cucchiaino. D’ora in poi solo col cucchiaino. Come quelli di Genova. Come… Cosa hai fatto? È il Nardi che me lo chiede, non l’avevo visto. Sto per rispondergli che ho incontrato la regina di
tutte le trote, la signora dell’Agogna, il marlin di Gozzano… Sono caduto in acqua, sono scivolato, rispondo. Te l’ho detto io
che con ’sta cosa del cucchiaino ti sei un po’ rincoglionito. Non
mi piace il Nardi anche perché dice parolacce da grandi che a
me suonano male. Sono solo scivolato, gli dico scocciato. Non
parlerò a nessuno della mia trota. Nessuno mi crederebbe. E poi
mi piace l’idea di avere un segreto. Un segreto tutto mio.
60
61
Sei sicura che non sia pericoloso? Ma dai Giulio è una festa,
c’è andata anche Cosetta l’anno scorso. Sì, ci sono un po’ di giovani colorati, c’è tanta musica, magari gira pure qualche spinello, ma con Stefano e Giovanni ci sarebbero Elsa e Rodolfo. So
che ne hanno parlato a lungo prima di venircelo a chiedere… Ve-
nircelo a chiedere? A te l’hanno chiesto, non a me… Sì, Giulio,
ma tu sei intrattabile in questo periodo… Io sono quello di sempre… Va bene non scaldarti e torniamo ai ragazzi… Ti dicevo che
è una festa, bella, con tanta gente, tutta di sinistra… Non so più
cos’è di sinistra in questo paese Emilia… Come? Tu che leggi
l’attualità con una lucidità che fa paura e mi prendi sempre in
giro perché non capisco? Adesso sono io che non capisco Emilia, non comprendo i giovani, sono violenti, sono sporchi, non
sanno cosa vogliono, cambiano umore in fretta… Noi volevamo
giustizia sociale e libertà, ricordi? Volevamo la scuola per tutti,
questi vogliono essere tutti promossi senza studiare… Dai Giulio non fare il vecchio professore, lo sai che non è così, non è così per tutti… Guarda Elsa e Rodolfo come sono belli… Ma dai un
capellone che fa foto per un giornaletto che non so nemmeno se
lo paga e una bibliotecaria innamorata con un orecchino infilato nel naso, questa è la sinistra degli zulù… Sei ingiusto e razzista Giulio e ai ragazzi passare qualche giorno da soli farà solo
bene… Sembra che li mandiamo dai boy scout secondo te, ma
hai letto che questi mangiano macrobiotico che non so nemmeno cosa sia, che pensano all’India come una meta di viaggio e
non come un paese sottosviluppato, che sicuramente si drogano, che studiano come non pagare la bolletta della luce, che lottano per non fare il biglietto dell’autobus… Che forse non si lavano nemmeno, gli fa eco Emilia abbracciandolo. Lo guarda con
un sorriso e dice: secondo me tu non vuoi capire che Stefano e
Giovanni non sono più bambini… Secondo me invece sei tu che
vuoi farli crescere a forza… Guarda che l’hanno chiesto loro…
Sì, ma sono quel fotografo e quella zingara che gliel’hanno messo in testa… Ecco che ridiventi ingiusto… Ok, mi arrendo.
Si va allora. Ho ascoltato la discussione di mamma e papà
dal sottoscala, facendo finta di mettere a posto la roba da pesca.
Giovanni è contento di venire perché gli ho spiegato che ci si diverte, ma sono io che ho vinto, sono io che ho convinto prima Elsa e Rodolfo e poi mamma. E lei ha pensato a papà. Non so per-
ché ci tengo tanto ad andare, ne ho letto sul giornale dove lavora
Rodolfo e anche il Manifesto che ogni tanto mamma compra ne
parlava. Cosa mi aspetto non lo so, ma adesso che vado a Milano
alla festa del Parco Lambro, alla festa del proletariato giovanile,
scandisco le parole anche col pensiero, mi sento davvero grande. Un po’ lo sono, ne sono sicuro. Cerco il vecchio sacco a pelo
militare di papà. Giovanni il suo ce l’ha. Rodolfo ha detto che si
dorme dove capita con le macchine fotografiche per cuscino così non ce le rubano. Perché a una festa di compagni rubano le
macchine fotografiche? ho chiesto. Non si sa mai, ha risposto
Rodolfo. Giovanni ha voluto sapere se ci sono ragazze della sua
età. Ci sono anche bambine, è una festa per tutti. C’è tanta musica, ho saputo, e tanta gente e tanto… non so tanto cosa, ma voglio andarci, non sto nella pelle. E voglio fare le foto, un mare di
foto, colorate bellissime. So che Milano sarà bella. Questa volta
andiamo in auto, niente treno. La Renault quattro di Rodolfo è
piena come un uovo di noi che siamo felici e di tutto quello che
forse potrà servirci. Elsa è radiosa, ha i capelli al vento che da bibliotecaria non le ho visto mai e profuma di fiori mentre fa svolazzare una sciarpa indiana. Rodolfo è bianco come un cencio
sotto alle maniche arrotolate della camicia. Io e Giovanni siamo
dietro. Il rumore della macchina con i finestrini aperti è infernale. Rodolfo racconta che ascolteremo gli Area, Eugenio Finardi, Gianfranco Manfredi… Io non conosco davvero nessuno.
Giovanni qualcosa ha sentito, ma siamo troppo piccoli per conoscere questa musica, lo dice anche Elsa. E zio Luciano era
troppo grande quando faceva ascoltare i dischi a Giovanni, penso io, mentre attraversiamo il Ticino sul ponte di ferro. Sotto è
blu e immagino i pesci, intorno tutto sa di lago e di pianura e più
si va verso Milano più aumentano case e strade. Arriviamo in
città, non avevo mai visto tanto cemento da vicino, tanta aria grigia scendere sotto il sole e poi il caldo e le macchine, tantissime,
e il tram, e le piante che non sono verdi, i cartelloni della pubblicità sono enormi, luccicanti, ma grigi da qualche parte anche loro grigi… Rodolfo ha gli occhi da sognatore e un po’ mi ricorda
62
63
papà. Già, lui non era d’accordo e forse aveva ragione: c’è una
patina di tristezza sulle strade, sui pali della luce, dentro ai portoni, attorno alle ringhiere… Non so cos’è, ma non sono più felice, anzi mi preoccupo un po’… Non siete mai stati a Milano? No,
rispondiamo in coro ed è un coro sperduto quello mio e di Giovanni, noi siamo bambini di montagna e di mare, pescatori di
trote, studenti di provincia, come si fa a vivere qui vorrei chiedere, come si fa solo a pensarlo un posto così… Passa la Renault
quattro e vedo le capanne e le roulotte e gli zingari e le giostre e
il sole che sta sciogliendo l’asfalto e il caldo e l’immondizia e l’odore della città… È un odore che non mi piace… Fermiamo la
macchina dove ce ne sono altre e intorno ci sono persone colorate nei vestiti, con i cani, un uomo con il trombone, una ragazza con gli occhi dipinti di verde e piccoli tappeti per terra che
fanno da botteghe dove si vendono borse, cinture, orecchini,
anelli, sciarpe, incensi, libri, giornali, maschere dipinte, essenze, profumi, erbe, pipe per fumare l’hashish, mi spiega Rodolfo, si chiamano chilum o qualcosa di simile, non capisco. La
droga mi fa paura. L’hashish non è proprio una droga, dice Elsa.
Secondo un libro che ho letto sì, a quarant’anni fa diventare impotenti. Non ho ben chiaro cosa vuole dire, ma Rodolfo ride di
una risata forte che rompe l’aria, che toglie quella patina grigia
che c’è anche qui dove tutti sembrano usciti da un accampamento di indiani e alcuni girano mezzi nudi, altri hanno il cappello con la piuma e ci sono donne con le pietre preziose nei
denti che leggono le carte o stanno sedute per terra e fumano…
E i fumi sono intensi, mescolati, dolciastro di hashish che mi
insegna Elsa a riconoscerlo, di erba secca che brucia che è quello di marijuana, di pipa forte, pungente di bidi che sono sigarette indiane di gelso mi spiega ancora Elsa e di chiesa, di incenso,
del funerale di zio Luciano, di oriente, di cose lontane… Una
mescolanza di fumi che scivola nell’aria a zaffate e quando mi
investe mi lascia stordito. Rodolfo cerca qualcuno, Elsa si dondola in un vestito colorato, grande, vistoso, leggero che la rende
bellissima come una fata… In biblioteca non l’ho mai vista così.
Sento la musica. C’è gente che passa. Qualcuno barcolla. Qualcuno saluta. Tutti si guardano, molti sorridono. Gli occhi, gli occhi di tutti sorridono. Giovanni mi guarda serio: ma qui si drogano tutti, dice. No, è solo un altro mondo, rispondo, ma neppure io so dove sono, di tutto questo a casa, a scuola, sui libri
non ho sentito parlare mai. È diverso, molto diverso, da quando
siamo andati a fotografare gli operai, di operai in casa se n’è parlato sempre, mentre di questo mondo inebriante fatto di cani, di
capelli lunghi, di vestiti colorati, di ciondoli e collane, non ho
sentito parlare mai. Guarda là un ragazzo con il cappello a cilindro e il violino… E quello che sembra Mosè mentre apre le acque… E quella ragazza dai capelli rossi e le unghie lunghissime
arrotolate che ci guarda come fosse una strega… Seguiamo Rodolfo che sorride sempre meno e ha qualcosa che gli vela lo
sguardo, ogni tanto si ferma, parla con qualcuno, a volte scatta,
ma scatta poco… Gira, cerca. Noi abbiamo lasciato tutto in macchina, anche la Voigtlander, ma non m’importa di fotografare
questo mondo, io voglio esserci in questo mondo, voglio sentirne le vibrazioni – me l’ha detto un signore, quello che sembra
Mosè: ascolta le vibrazioni – chiedo quanto costa un braccialetto a uno seduto col cane e due occhiali grandi in mezzo ai capelli lunghissimi. Ce li ho i soldi. Lo compro, chiedo a Elsa se me lo
lega, è di cuoio intrecciato. Adesso mi sento più uguale. Giovanni dice che vendono dei panini con i wurstel. Sarà quello
mangiare macrobiotico come diceva papà? È Elsa stavolta che
ride di gusto, con i denti che si aprono come un arcobaleno e ci
spiega che i macrobiotici mangiano lenticchie, riso e carote,
scondite. La musica avvolge il parco e tutti quelli che ci passano.
E anch’io sono ormai un tutt’uno con questi odori, con i profumi d’oriente, con la voce potente di Demetrio Stratos che canta
giocare col mondo facendolo a pezzi… Che brivido, sento la pelle
che si tende e diventa un tamburo di spilli, desidero un mondo
migliore, lo desidero davvero e mi sento leggero, pronto a partire verso un viaggio nel quale la musica mi sta già accompagnando. È la stessa forza delle voci potenti degli operai di Nova-
64
65
ra, è qualcosa che mi dice chi devo essere e cosa voglio fare… La
mia rabbia legge sopra i quotidiani… La musica pulsa come un
motore di trattore mi manca il fiato… Leggi nella storia tutto il mio
dolore… E io lo sento il dolore del mondo, sono un bambino, sono un uomo, sento comunque qualcosa che mi fa esplodere il
cuore… Non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare guerra
all’umanità… Intorno c’è un mondo che è la mia famiglia, adesso lo è. E anche papà e mamma se fossero venuti capirebbero.
Che voce, che musica, che profumi, che colori, che… Che cosa
succede perché Rodolfo arriva di corsa? Perché è scuro in volto?
Perché sta parlando con Elsa come quando mamma e papà litigano? Non ci si ferma più a dormire ragazzi, è meglio che andiamo a casa… Elsa è risoluta come una maestra, non la immaginavo così. Oppongo resistenza, voglio almeno capire perché.
È meglio tornare a casa. Ma sto così bene qui Elsa. Ma se vi accadesse qualcosa i tuoi genitori se la prenderebbero con me e
con Rodolfo. Ma cosa vuoi che succeda… Rodolfo è preoccupato. Voglio sapere perché, alzo la voce per sapere perché e la sento stridula, da bambino e un po’ me ne vergogno… Per me se andiamo è lo stesso, io mi sono già divertito, dice Giovanni. Ma
per me non è lo stesso, non lo è proprio. Dai Stefano, fammi un
piacere, fallo per me. Elsa mi guarda preoccupata e io le voglio
troppo bene per farla preoccupare. Andiamo, ma almeno mi
spieghi perché. Per strada. Per strada.
Rodolfo rimane a Milano. È Elsa che guida e ci riporta a casa
con la Renault quattro che diventa una macchina triste e grigia
come la città che attraversiamo col buio. Fa paura Milano, non
so perché, ma fa paura, non vorrei mai che ci dovessimo fermare. So che dietro a ogni pilone c’è una città pronta a sbranarci.
Non avevo mai visto una puttana prima di stasera. All’inizio
non ho capito perché sul bordo di questo immenso vialone ci
fossero donne con la minigonna ad aspettare. Poi Giovanni ha
detto hai visto quante troie… Allora ho capito. Ci sono parole
migliori per chiamare quelle signorine, dice Elsa con il filo di
66
voce di chi si vergogna. Ma sempre troie rimangono, sentenzia
Giovanni che è di malumore. È triste, dico io. Lo fanno per i soldi, dice Giovanni. Magari hanno i figli piccoli e il marito disoccupato, dice Elsa. Chi quella? indica Giovanni con una punta di
disprezzo. Sì, quella… lo rintuzza dolce Elsa. Sei meglio della
mamma a sostenere le discussioni, vorrei dirle ma, come sempre, non ho il coraggio. Allora chiedo perché siamo andati via.
Succederà qualcosa alla festa, dice Elsa. Che cosa? Niente di importante… Sono un ragazzino ma non mi freghi così, se non è
niente di importante perché ci hai portato via… Perché non si sa
mai. Dai dimmi cosa deve succedere… Ci sono degli spacciatori
di droga in mezzo a quelli che ascoltano la musica… È pieno di
droga, dice Giovanni… No, non il fumo, non le droghe leggere,
quelle non fanno male a nessuno… Mi vengono in mente le risate di quando ho detto che porta all’impotenza, come è cambiato il clima in poche ore. Come siamo seri. Tristi. Intendo
droghe pesanti, eroina… prosegue Elsa. L’eroina fa morire, annichilisce il cervello, è una droga che vogliono i padroni e non si
può vendere tra i compagni… È diventata seria, serissima, Elsa,
fa quasi paura quando parla così. Stanotte Rodolfo e altri compagni manderanno via gli spacciatori, ma può essere pericoloso
è per questo che vi porto a casa… Potevamo dare una mano, azzardo. Non è una bella cosa. Già non è una bella cosa essere dei
ragazzi quando servono degli uomini finiti. Anche papà sarebbe rimasto con Rodolfo, lo so. L’eroina uccide, l’ho letto in un libro. Cosa diciamo a casa? Chiedo a Elsa. La verità, si fa prima
che a inventare bugie.
Mamma non ci aspettava proprio nel cuore della notte, credeva fosse papà. Ma perché papà non è a casa? È uscito. Ma sono le quattro. Mamma non risponde. È invecchiata. Ha le occhiaie. Mi abbraccia, accarezza Giovanni, dice grazie a Elsa. Allora come è andata ragazzi? Per chiederlo indossa il suo sorriso
migliore, ma c’è qualcosa che non va anche a casa. Sembra di
essere a Milano. O forse sono io che non vado. Sento girare la
67
chiave nella serratura, la porta si apre. Quell’uomo dalla camicia slacciata e i capelli unti sul viso è papà. Non l’ho neppure riconosciuto quando è entrato. Non ha salutato. È entrato ed è andato dritto in bagno. Vengo subito ragazzi, dice mamma prima
di corrergli dietro. Vedi Giovanni non ha un’altra donna, mi
verrebbe da dire, ma Giovanni è preoccupato, si vede. Aspettiamo mamma che arriva dicendo che è ora di andare a letto. Cos’ha papà? È stanco. Anch’io a volte sono stanco, ma mai così.
Doveva essere una grande avventura e invece siamo qui che ormai è l’alba coi sacchi a pelo in mano e papà che sembra essere
uscito da una betoniera. Mamma non vado a letto, vado a pesca.
Anch’io zia Emilia, dice Giovanni. Mamma ci guarda e fa sì con
la testa. Avrei voluto raccontare tutto quello che ho visto, sentito, capito – sì, anche capito – stasera a Milano, ma mamma ha
altro in testa e papà pure. A me rimangono i pesci che per fortuna mangiano all’alba. Non ho esche, dice Giovanni. Io sì, vado a
cucchiaino. A cucchiaino? Già Giovanni, ma anche tu non puoi
capire. Senza i vermi non vengo e poi mi è venuto sonno. Non
importa, vado da solo, io non ho sonno, non ho nulla, ho solo
una moltitudine di pensieri da sciogliere davanti all’acqua. Forse se non avessi finito le scuole medie non avrei tante cose che
mi si mescolano dentro senza farsi capire e senza mamma e
papà pronti a scioglierle come sempre. Che brutto affare smettere di essere un bambino. Guardo il braccialetto di cuoio comprato a Milano e sento la voce di Demetrio Stratos che mi accompagna mentre in bicicletta scendo verso San Lorenzo. Vado
al Bachitòn, dove ho perso la trota gigante. No, stamattina non
ho il coraggio. Respiro a pieni polmoni l’aria del fiume che il
vento sospinge verso il paese. Qui la vita è verde, non grigia come a Milano. Chissà dove è stato papà stanotte, è l’ultimo pensiero prima di arrivare di fronte all’Agogna, da lì in avanti solo le
trote sono importanti.
Dov’è papà? Aveva da fare. Sì, ma dove. Mamma sorride, ma
non m’incanta più con i suoi denti bianchi e i suoi occhi neri.
Cosa ha fatto papà stanotte? Cosa gli sta succedendo? Avete litigato? Non gli vuoi più bene? Sono stato io che l’ho fatto arrabbiare? Mi escono domande che traboccano e non riesco a trattenere, voglio sapere tutto, voglio sapere che cos’ha papà, voglio
sapere dov’è, voglio sapere se mi vuole bene, se gli ha fatto male
la morte di zio Luciano, se forse lavora troppo, se… Siediti Stefano, dice mamma. Papà è in un brutto periodo, è molto stanco, ha
tanto da fare, ma ti vuole molto bene e ne vuole anche a Giovanni. Cosa me ne frega di Giovanni! Grido con tutto il fiato da bambino che mi è rimasto e poi esplodo in un pianto grande, di quelli di quando ti fa male, molto male. Sento le lacrime che scendono e sanno di sale e le mani di mamma mi stringono, mi
abbracciano, mi accarezzano, accompagnano la voce che dice
cose dolci, belle, che non riesco a sentire… Stai tranquillo, Stefano, io voglio molto bene a tuo padre, al mio Giulio… È mamma
che adesso non è più forte e fa scendere le lacrime lungo il viso,
silenziose, discrete, come piangono le donne. Non mi basta
mamma, io voglio sapere, vorrei chiedere. E voglio sapere se
Giovanni è un problema per papà, per te, come un po’ lo è per
me. Ma non chiedo, non dico, non parlo. Ho paura di pensare
cose brutte di Giovanni che già è solo e che in fondo, se è un po’
antipatico, non è colpa sua. Ma cos’ha papà? Io ho bisogno di saperlo davvero, non sono più un bambino, non posso più farmi
incantare dalle favole del lavoro e della stanchezza. Voglio sapere se ha un’altra donna. Magari altri figli. Magari ho un fratello o
una sorella e non lo so. Voi grandi tenete sempre tutto per voi come se tenere le cose nascoste le facesse un po’ sparire, ma il male che ho qui, che non scende dalla gola e non sale dallo stomaco,
quello, mamma, non sapete farlo sparire, né con le carezze, né
con le bugie. Dimmi cos’ha davvero papà. Lo dico con tutta la
forza che ho, la parola davvero mi esce adulta, anch’io sono un
uomo oggi, mi avete costretto voi a esserlo. Mi hai costretto tu
che non vuoi dirmi la verità, mi ha costretto papà che viene a casa la notte che sembra uno spazzino e ha sempre il vuoto negli
occhi e non mi parla più e non mi porta più con sé. Vai a dormi-
68
69
re Stefano è tardi, quando papà rientra ne parliamo insieme, te
lo prometto. Davvero me lo prometti? Sì, mamma mi dà un bacio sulle labbra, leggero, un bacio che non sa di mamma che mi
fa sentire grande. E lei stasera è vecchia di nuovo, con gli occhi
grandi, gonfi, pesanti, assenti, lucidi di lontananza. A che ora
tornerà papà? Non lo so, ma tu dormi. Alle cinque non è ancora
tornato. Mi alzo, preparo la canna da pesca, lascio un biglietto e
parto in bicicletta. L’Agogna è l’ultimo luogo della mia infanzia.
Emilia aveva deciso di rivolgersi ai carabinieri dopo cinque
giorni che di Giulio non aveva avuto più notizie. Con Stefano,
con Giovanni, si era arrampicata sugli specchi per giorni lunghi
secoli e anche con sé stessa aveva tenuto duro consumando la
speranza fino all’ultimo filo, esile, che l’aveva condotta nella caserma dei carabinieri. Stefano per fortuna sembrava forte e aveva smesso di preoccuparsi. Andava a pesca tutti i giorni e non
chiedeva più di papà, se non distrattamente tornando a casa.
Tornerà presto, ripeteva Emilia come un ritornello.
Signora è sicura che non ci sia tra voi qualche dissapore? Il
maresciallo Fez guarda Emilia e ammicca per farle capire cosa
intende per dissapore, è un uomo di esperienza e di mestiere,
chissà quante ne ha viste lui di donne disperate che indossano
una faccia perbene e vanno dai carabinieri a chiedere del marito.
Senta, dice Emilia, mio marito è in un brutto periodo e ogni
tanto, ogni tanto… La voce si strozza tra le lacrime. Il maresciallo la guarda con comprensione e le allunga un fazzolettino di
carta. Emilia piange come una bambina, non riesce a fare altro.
Il maresciallo si alza in piedi, si avvicina alla finestra, fa il giro
largo di quest’ufficio che sa di Arma da ogni parte, dal calendario alla bandiera, alla monumentale macchina da scrivere. Ogni
tanto cerca altra compagnia? Domanda secco il maresciallo.
Emilia smette di piangere e lo guarda fisso negli occhi come per
dire non giudichi mio marito un puttaniere qualunque, non si
permetta… Poi raduna tutta la voce possibile e dice no, non è
questo il punto maresciallo, la stanchezza, lo stress lo portano a
bere.
L’avevo sentito dire, scopre le carte il maresciallo. L’aveva
sentito dire? Domanda Emilia esterrefatta. Beh, sa, in un paese
piccolo come questo il maresciallo dei carabinieri sa un po’ tutto di tutti, il fatto è che non volevo crederci, un uomo come il
professore… Già, un uomo come Giulio, come il mio Giulio,
avrebbe voluto dire Emilia, ma le parole si fermano in gola e si
trasformano in una supplica: me lo trovi per favore, mi faccia
sapere se gli è successo qualcosa…
Caro Amilcare, sai che non ti ho mai scritto e non mi sono
mai permessa nessuna confidenza. Sai anche quanto tempo mi
ci è voluto per darti del tu. Ti scrivo questa lettera perché mi sento in dovere di farlo, deciderai tu se è il caso di farla leggere a Rosetta. Credimi, se potessi risolvere da sola la cosa che ti sto scrivendo… Emilia rilegge le parole indirizzate al padre di Giulio,
poi accartoccia il foglio con rabbia e lascia cadere la penna sulla
scrivania. Alza gli occhi e guarda la foto di lei con in braccio Stefano bambino al Passo dello Stelvio. L’immagine che Giulio tiene sullo scrittoio. E la penna stilografica, la carta intestata Giulio
Baldazzi Morra, uno dei tanti vezzi di Giulio la carta intestata.
Uno dei tanti vezzi per i quali lei lo aveva sempre amato, per le
sue stranezze, per i suoi legami con oggetti che adesso stavano
qui, tra la carta per scrivere, la pipa, il tabacco, la Lettera trentadue… Aveva cercato Emilia tra le carte di Giulio due righe di spiegazione, un biglietto d’addio, un indizio di tutto questo tempo
senza farsi vedere, né sentire… Il caldo di questa estate più arida
di tutte le estati, di questa estate senza mare e senza montagna,
le toglie il respiro mentre lo studio di Giulio le gira attorno con i
colori e calori del legno scuro, del ventilatore con le pale grandi
che muove solo aria calda, con le tende che filtrano la luce che già
sta andando via… Prende i fogli di carta Emilia. Carta, buste e
una Bic blu e va in cucina dove c’è più luce. E meno ricordi.
Caro Amilcare, ricomincia su un foglio nuovo, se potessi
non ti scriverei queste righe che so potrebbero allarmare te e
70
71
Rosetta. D’altra parte se non te le scrivessi potresti un giorno
rinfacciarmi di non averti detto nulla. E poi credimi, sono sola e
non so più cosa fare. Giulio, il tuo Giulio, il nostro amato Giulio
perché io lo amo quanto lo ami tu, quanto lo ama Rosetta…
Non ce la fa Emilia a scrivere la verità: Giulio, il suo Giulio,
il loro Giulio, è un ubriacone alcolizzato che da cinque giorni
non mette più piede a casa. E se poi gli è capitato qualcosa?
pensa Emilia. Se Giulio sta male, ha avuto un incidente, magari è morto… Oh dio non voglia che sia morto… Ma se gli è successo qualcosa e io scrivo ad Amilcare che se n’è andato… Sono
proprio una scema… Prima di scrivere devo almeno aspettare
di sapere cosa fa, dov’è… Riporta i fogli di carta sullo scrittoio
appena in tempo per sentire squillare il telefono. Sentirlo o
pensarlo? È tutto il giorno che a Emilia sembra che il telefono
suoni, che corre a dire pronto a una cornetta muta capace solo
di un tristissimo tuu-tuu… Eppure questa volta suona davvero
il telefono, trilla, vibra, vuole farsi sentire tra i mille suoni fantasma che accompagnano il pomeriggio di Emilia. Pronto…
Pronto, sono il maresciallo Fez, posso venire a trovarla? Ho
delle notizie per lei… Certo, maresciallo. Certo Giulio, avrebbe
voluto dire Emilia.
Chi ti ha detto che ero qui? Sono giorni che ti cerco Giulio,
potevi lasciare almeno un biglietto, telefonare… Non ho carta e
penna, non ho soldi per chiamare… Vuoi dei soldi? Non mi servono, Emilia, non mi servono proprio… Non hai caldo? Ho freddo, un poco, a volte, ma come hai fatto a sapere che ero qui? Me
l’ha detto il maresciallo… Mi hai fatto seguire dai carabinieri?
Non arrabbiarti Giulio ero… Eravamo solo molto preoccupati
per te… Non c’è motivo di preoccuparsi Emilia, io qui sto bene,
vedo il lago e sto bene… Giulio non essere ridicolo, non penserai di passare la vita in questa stazione senza che nessuno ti
mandi via… Cambierò stazione, forse andrò al mare… Al mare
tu che l’hai sempre odiato? È tardi Emilia per odiare e per amare… Ma cosa c’è Giulio che non va? Non lo so Emilia, credimi,
non lo so, ma è meglio così… Ma perché mi fai questo? Perché
fai questo a Stefano? Perché fai questo a Giovanni? Grida e
stringe i pugni e fende l’aria Emilia in quel pomeriggio estivo
alla stazioncina ferroviaria di Orta, ma non c’è voce né gesto capace di sollevare Giulio dalla sua panchina. Dove hai messo gli
occhiali? Dice Emilia accorgendosi di colpo che Giulio non ha
occhiali, né la giacca per tenerli. Ha gli occhi rossi, gonfi, vuoti,
soli… Indossa la camicia di una settimana prima, ha il viso sporco, la barba troppo lunga, i capelli incollati, i pantaloni spiegazzati, le mani ferme sulle cosce, non si muove quando parla. Non
mi servono più gli occhiali, non ho più niente da vedere… Ma
perché fai così? Silenzio. Non torni a casa con me? Emilia lo abbraccia disperata, lo bacia su una guancia con una sensualità
antica, dimenticata. Giulio tace. Dai che i ragazzi ti aspettano…
Sorride, ride, è allegra per un attimo Emilia che sfodera i suoi
occhi grandi e il suo sorriso migliore, quello dei tempi dell’università. Ti ricordi quanto ci siamo amati io e te? Giulio vorrebbe
dire che era un’altra vita, ma non riesce più a parlare, quell’improvviso, gioioso, tentativo di Emilia di riportarlo indietro comincia a infastidirlo. Devo andare Emilia, scusami. E scusami
anche con i ragazzi… Dove devi andare Giulio? Non vedi come
sei conciato? Come un barbone? Tutti i barboni prima erano
qualcos’altro. Saccente come sempre. Emilia non lo sopportava
quando pontificava a quel modo. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo… mi lasci così, per una stazione, per un bicchiere di vino, neanche per una donna… Le donne sono così noiose Emilia,
sai quante ne ho provate… Come quante ne hai provate? Non
crederai che abbia passato tutti questi anni da solo?… Come da
solo? Io c’ero, io sono sempre stata con te, io ti ho seguito ovunque anche a Gozzano che è la cloaca del mondo… Ma non mi hai
mai amato Emilia… Come non ti ho mai amato? Io ti ho sempre
amato Giulio… Mai qui, dice Giulio mettendosi una mano in
mezzo ai pantaloni con il gesto più volgare che Emilia gli avesse
mai visto fare. Fai schifo Giulio… Lo so… Per te era tutta una
questione di sesso allora? No, Emilia, tanto che non sono anda-
72
73
to via con un’altra donna… Vieni qui, dice Emilia non più inferocita, passando una mano sulla testa di Giulio. Sto bene qui,
credimi. Si scosta con un gesto che non ammette repliche. Si alza, Giulio, e cammina sulle pietre della ferrovia, zoppicando vistosamente. Tu zoppichi? È così che dovevo essere Emilia, dimentichi che ho avuto la polio… Ma non hai mai zoppicato… Ho
avuto fortuna, tanta inutile fortuna… Perché ti lasci andare così
Giulio? Silenzio. Non vuoi tornare? Silenzio. Se non torni ora
non ti vorrò mai più… Silenzio. Il sole tramonta sul lago e fischia il treno dei pendolari. Dovrò mandare via Giovanni… Silenzio. Cosa dirò a Stefano? Silenzio. Ricordi che andrà al liceo,
al tuo liceo? Silenzio e fumo dell’ultima locomotiva a vapore
pronta ormai per la pensione. E lacrime silenziose sul volto di
Emilia. E un dolorosissimo nulla negli occhi di Giulio. Ho voglia di bere Emilia, lo pensa ma non lo dice. Come sempre.
Mamma non racconta più bugie. Ha deciso che sono grande, me l’ha detto lei. L’ha detto anche a Giovanni. Ci spiega che
la situazione è grave che papà se n’è andato perché sta male, è
depresso, a volte eccede con il vino, ma è una persona in gamba
e ne uscirà fuori. Perché non possiamo aiutarlo noi mamma?
Perché non vuole farsi aiutare. Ma dove vive? Da amici. Il Nardi
dice che fa il barbone alla stazione e guadagna qualche soldo
dando una mano al ferrovecchio, interviene Giovanni. A volte
vive da amici, a volte no, mamma non ha più voglia di mentire.
Giovanni non può più vivere con noi, non possiamo farcela, andrà da zia Clara a Laigueglia. Parla di Giovanni come se non ci
fosse e non ha il coraggio mamma di guardarlo negli occhi. Non
l’avrei neppure io il coraggio di cacciarlo di casa. Mamma perché mi fai questo? Perché fai questo a Giovanni? Dobbiamo andare al liceo insieme il mese prossimo, come faccio da solo a fare tutta la strada per andare a Novara? Come faccio a fare la
guerra dei cuscini? E ad andare a pesca? Non bastava papà che
se n’è andato? Perché mamma fai andare via tutti da questa casa? Penso e non parlo, in realtà mamma ha già deciso tutto, co74
munica e basta. Mi ha imbrogliato ancora, mi ha detto che ero
grande e poi ha deciso lei, tutto lei. Non preoccuparti zia io mi
adatto, Giovanni rompe il silenzio. Già, Giovanni si adatta, come no, è tutta la vita che gli muoiono madri, padri, lo abbandonano gli zii, lo allontanano le zie, eppure lui resiste. Giovanni sì
che è un uomo, lo penso davvero e lo guardo con fierezza: sono
fiero Giovanni di essere tuo fratello, di esserlo per sempre. Zia
Clara ti ha già iscritto al liceo di Albenga così ti accompagna lo
zio che va in studio tutti i giorni e poi voi, mamma adesso ci
guarda negli occhi, potrete passare tutte le estati insieme. Qui o
al mare, dove vorrete. Anch’io mamma vorrei tornare a Laigueglia, con Giovanni, stavolta non penso, dico. Noi dobbiamo restare qui Stefano, rimanere per quando tornerà papà. Quando
tornerà papà? Appena starà meglio. Quelli che vivono nelle stazioni non stanno mai meglio, se ne vanno in silenzio, dimenticati da tutti, perché mi prendi in giro mamma? Ma anche stavolta non parlo, voglio crederci anch’io che papà tornerà un pomeriggio. Entrerà e dirà, buongiorno miei cari, ti bacerà
mamma e mi darà una carezza tra i capelli. Allora ci abbracceremo e saremo felici. Sì, tornerà un pomeriggio papà, non può
averci dimenticato, è solo stanco, gli passerà.
C’è già aria d’autunno quando arriva la Giulia di nonno Amilcare, è fresco la sera, c’è più acqua nel torrente e le trote sono nervose. Mi capita già di catturarne alcune piene di uova e so che si
stanno spostando per riprodursi, come i salmoni. E come piccoli
salmoni le vedo saltare, guizzare fuori dall’acqua come un fascio
di muscoli tesi, tentare inutilmente di attraversare la briglia in
massi e cemento di Gozzano. Quando ci sarà la piena, quando salirà l’acqua passeranno, mi ha detto il Giurati che adesso non mi
dice più di salutare papà. Nessuno in paese parla mai di papà. E la
casa di via dei Grissini sta diventano buia, il vento la spazza spesso e ci porta davanti le prime foglie mentre il sole sul castello ricomincia a tramontare al pomeriggio. Mamma spolvera ogni
giorno lo studio di papà, la vedo che lo fa quando pensa che io non
75
me ne accorga. E a volte la scopro seduta alla scrivania e la sento
stanca. Non te l’aspettavi mamma? dovevi aspettartelo, tu lo sapevi, tu lo vedevi papà che stava male. Io ero un bambino, un
bambino al quale raccontavate bugie per impedirgli di crescere.
La casa è grande adesso che Giovanni ha preparato le sue cose.
Abbiamo parlato, lo accompagnerò a Laigueglia, ci scriveremo
pure. Nonno Amilcare è venuto solo, senza nonna. È sceso dall’auto senza giacca, con un gilet scuro sulla camicia bianca e il sigaro in bocca. Per un attimo mi è sembrato papà, solo più vecchio. Lo stesso sorriso. Ciao Stefano Baldazzi Morra. La stessa
ironia. Perché papà non poteva essere come il nonno e diventare
un vecchio signore gentile? Forse lo diventerà. Puzza di toscano
il nonno, non lo si sopporta. Vuole venire anche Stefano ad accompagnare Giovanni, sento mamma che impone al nonno i
miei desideri. Grande mamma, quando vuoi puoi ottenere tutto.
Nonno Amilcare non obietta. Dice va bene, lo riporterò indietro
io, volentieri. Vuoi venire anche tu, c’è spazio in macchina se
vuoi, dice rivolto a mamma. Mamma non ci aveva neppure pensato a un viaggio a Laigueglia. Non posso ho da fare. Non hai
niente da fare che non possa aspettare, vieni ti farà bene… Anche
nonno sa imporre quel che vuole, ma lo fa in modo gentile che
quasi non te ne accorgi. Pranziamo insieme e ancora si mangia
in giardino. Mamma ha fritto un po’ di salvia e a me il profumo
della salvia fritta ricorda il mare da bambino. Nonno parla di cose
inutili, ma lo fa da vero signore. Nonna Rosetta e la sua artrite, i
lavori per mettere a posto la casa, Renato, il marito di zia Clara
che è diventato il più bravo avvocato del ponente ligure e domani,
ci potete scommettere, di tutta la regione… E zia Anna sempre insieme a quel matto che vuol fare il giro del mondo in barca a vela.
E chissà dove prende i soldi. E tu piuttosto come te le passi Emilia? Mi fa piacere che non vi ha lasciato in mutande. Non vi ha, intende papà, ma non lo nomina mai nonno Amilcare, neppure
quando ne parla. E beve vino e fuma a tavola. Fai ancora attività di
partito? Magari un giorno ci si trova al governo assieme, sai noi si
sta con la Dc solo per preparare l’alternativa, il nostro cuore è ros-
so e batte a sinistra… Sì, rosso come il vino, vorrei dire al nonno.
Il vino che a te dà allegria, fa parole, cicaleccio e sorriso, e che a
papà dà tristezza, malinconia, fa silenzio. Potevi almeno insegnargli il vino a papà in tanti anni che è stato figlio tuo. Dai ragazzi andate a prendere la vostra roba che il nonno ha fretta di partire, vuole guidare con la luce. Già, come papà, stessi occhiali, stesse manie e come è bello il nonno a capotavola, al posto tuo, papà.
76
77
Ha i sedili di pelle e le finiture in radica la Giulia del nonno.
Davvero una gran macchina. Ci guardo tutti seduti qui dentro e
mi viene in mente Milano e la Renault quattro di Rodolfo. Non
so, non so davvero, quale macchina mi piace di più. Non so
nemmeno se mi piacciono le macchine. Quella del nonno è vecchia, ma tenuta come un salotto. Il nonno gira la chiave e il motore obbedisce come un orologio e frulla con un rumore da orchestra che rende il nonno orgoglioso. Glielo si legge negli occhi. Chissà nonno se sei mai stato così orgoglioso di papà?
Scivola la guida del nonno, scivola l’auto lungo la strada che
conduce nella bassa, porta a Novara e poi passa in mezzo alle risaie ormai asciutte verso Vercelli e le colline di Casale Monferrato, Asti e poi, di qua del Tanaro, in Roero, a Priocca d’Alba. È
sera e si cena da zia Nilde, la moglie di un fratello del nonno
morto in guerra. Papà non mi aveva mai portato a Priocca, dove
nascono i Baldazzi Morra, come dice il nonno che ancora, con il
vino e la gioia di essere a casa, raggiunge il massimo dell’allegria. È leggero, il nonno, leggero come un ragazzo. E dice cose
che fanno sorridere mamma e fanno arrabbiare zia Nilde, parla
di politica, parla con me e Giovanni e dice che il mondo oggi è
diverso e che tocca a noi capire com’è. Eppure gliela vedo, un attimo, per un secondo solo, la malinconia di papà. Gli passa negli occhi chiari quando di colpo dice io sono nato in un altro secolo. Per un anno solo, ma in un altro secolo. Non lo diresti mai
che il nonno viene dall’Ottocento. Neppure lui lo direbbe stasera, ma se lo sente addosso il suo secolo cambiato e i suoi occhi
fanno la smorfia che fa sempre papà. Eccolo il tuo segreto non-
no: tu hai nascosto, hai mentito, hai sopito le cose che a papà sono esplose fino a farlo schiavo del vino. Tu hai fatto il vino schiavo della tua allegria, ma anche tu dentro hai la malattia di papà.
Ecco cosa abbiamo noi Baldazzi Morra, non il doppio cognome,
non gli occhiali, ma la malinconia, una malinconia che ci fa stare lontani. Anch’io adesso sono lontano nonno, sono lontano,
mamma. Io adesso sono con papà mentre voi ridete, scherzate,
sorridete, raccontate storie che non esistono più, vi raccontate
le bugie che vi aiutano a vivere. Io sto con papà che di bugie non
è riuscito a raccontarsene più. Non sei contento di andare al liceo Stefano? Nello stesso liceo in cui… Nonno Amilcare si ferma, non sa andare avanti. Nello stesso liceo in cui è andato
papà, dovrei dire. Nello stesso liceo in cui si era iscritto anche
Giovanni? rispondo. Anch’io dico bugie papà, anch’io non ho
coraggio. Assaggio il vino di zia Nilde. Poco che non sei abituato… Poco sì che non voglio abituarmi mai.
vo regalato io. Adesso che di papà si è parlato nonno non sorride
più e ritorna un vecchio, di colpo. Tienilo, mi dice, mettendomi
in mano l’orologio e la sua mano non è più sicura. Lui è di un altro secolo e ha un figlio che gli fa male. O forse solo se ne vergogna. Hai vergogna di papà? vorrei chiedere, ma dico grazie e
guardo Giovanni. Ma a Giovanni sta bene così, Amilcare non è
nonno suo e lui ha l’orologio che gli ha lasciato zio Luciano. A
ognuno i suoi parenti, a ognuno i suoi orologi. Ci capiamo in
un’occhiata. Non ci siamo mai compresi tanto come in questo
viaggio, io e Giovanni. Siamo tutti e due soli e stanno per dividerci. Sai che Stefano vuole mettere l’orecchino? Dice mamma
al nonno. Lui mi guarda, mi osserva, sputa: i vecchi anarchici di
Priocca l’hanno sempre avuto, se vuoi puoi metterlo marinaio…
E di nuovo sorride. Mamma cercava una sponda per dirmi di
no, ma questa volta non l’ha trovata. Grazie nonno. Anche papà
faceva così a volte. Solo col cane non ha vinto mai.
Forza ciurma che il battello parte, grida il nonno che stamattina sembra un giovanotto. Sta in piedi, in maniche di camicia,
al centro dell’aia di zia Nilde. Tiene il cappello in mano e ci dice
che è ora di partire. Noi mettiamo fuori il naso dalla stanza di sopra dove abbiamo dormito e vediamo il nonno e mamma con i
capelli sciolti e zia Nilde che ci dice che la colazione è pronta. Ed
è una colazione ricca di pane, di marmellata, di crema di nocciole, di latte buono, di caffè che non siamo più bambini. Vorrei
fosse papà a dirmi che sono cresciuto, che sono un uomo. E invece è il nonno che è contento di suo nipote e di questa nuora
dai capelli neri che in questo viaggio ha ritrovato la voglia di
scherzare. Sì mamma, tu non sei fatta per le tragedie, per i noiosi come papà. Ce l’hai l’orologio Stefano? Mostro il polso con
l’orologio tutto di metallo regalatomi all’inizio delle scuole medie. Ma non lo vorresti un orologio vero? Cos’è un orologio vero,
nonno? Questo è un orologio vero e il nonno mi mostra il suo da
taschino. È un Longines, dice, noi Baldazzi Morra portiamo solo questi. Anche papà aveva un Longines da polso. Sì, gliel’ave-
Queste sono le colline di Pavese, Fenoglio, di Lajolo… Dice
sempre le stesse cose il nonno quando passa per Alba, le Langhe, Bossolasco, Murazzano… Quando si arriva a Ceva e si entra nell’alta valle del Tanaro gli scrittori finiscono. E finisce pure la resistenza. Bagnasco, Garessio, nonno presenta tutti i paesi come fossero amici suoi. Scendiamo dalla valle di Neva, fino
ad Albenga e finalmente il mare, l’Isola Gallinara, Alassio e poi
Laigueglia. Zia Clara sta in un villino verso l’interno, zio Renato
è sempre abbronzato ma non è uomo di mare. Ci sono tutti e
due e anche le piccole Alice e Rebecca, le mie cugine. Rebecca si
chiama così perché zio Renato è ebreo. Alice e Rebecca non lo
sono perché lui ha sposato zia Clara. Una volta mi ha detto che
sono le donne a trasmettere la religione, ma che a lui importava
poco, il suo era un dio sfortunato e poi, come papà, anche zio
Renato è socialista e i socialisti, dice sempre papà, hanno poco a
che fare con dio, anche quello degli ebrei.
Nonno Amilcare ferma la Giulia in mezzo al piazzale che c’è
davanti a casa, scende per primo e apre la porta alla mamma. Io
78
79
guardo Giovanni e so che è pronto. Possiamo scendere. Come ti
sei fatto grande Stefano, ma guarda hai i baffetti, ma non è che
mangi un po’ poco… E questo è Giovanni, che bel ragazzo, che
giovanottone… Ciao zia Clara, ciao zio Renato, ciao Alice, ciao
Rebecca… Fatto buon viaggio… Sì, ci siamo fermati da Nilde, la
sua cucina è sempre impareggiabile… La facciata della villetta è
rosa pallido, quasi finto, smorto, colorato coi pastelli. Tutti si abbracciano, si rispondono, sorridono. È questo il mondo che piace a te, vero nonno? È questa, mamma, la vita che volevi con
papà? Ma a papà non piacciono i villini di collina, le risate di parenti, gli avvocati come zio Renato e le auto che sembrano salotti. Lo capisco papà perché sei andato via. Non dovevi però dimenticarti di me. Io sono uguale a te, non alla mamma. Mi accorgo che mi si stringe il cuore e sto per piangere. Seguo il muro
della recinzione fino a un angolo dove si apre il capanno degli
attrezzi. Mi siedo di fianco alle damigiane vuote messe ad asciugare e aspetto. Aspetto le lacrime e la fine dei saluti.
Addio Giovanni, fratello per pochi mesi. Penso lungo la strada del ritorno. Nonno Amilcare passa dal mare e io siedo davanti, mamma sta dietro e ha lo sguardo di chi torna a casa dopo
una vacanza. Certo, ha anche quella smorfia che le leggo sulle
labbra da quando è andato via papà, però sta bene, si vede che le
ci voleva questo viaggio a Laigueglia e forse per lei Giovanni era
un peso troppo grande. Forse anch’io sono un peso troppo
grande, mamma. Tu che vorresti una vita da signora, da signora comunista, sulle barricate ma con qualcuno che ti apre la portiera e ti chiede notizie del tempo e dei parenti. Io sono un figlio
a cui hai pensato tanti anni e adesso toccava a papà occuparsi di
me che vado al liceo. Invece, invece… Penso a papà spesso, ma
non riesco ad arrabbiarmi con lui. Lo so che dovrei, in fondo è
lui che ci ha lasciati, abbandonati in via dei Grissini. Però lo
penso nelle sue stazioni, o dagli amici, o alle osterie e so che sta
un po’ come me al Parco Lambro, anche le cose che non ti piacciono ti dicono che quello è comunque il posto tuo. A cosa pen-
si Stefano? Chiede il nonno all’improvviso. Al mare. Non è vero, ma mi sembra una risposta. Vorresti tornarci? Chiede mamma. No, non più, non ora, non so. Di tutti i no riesco a dire solo
non so. Nonno guida con i finestrini abbassati e a mamma dietro volano i capelli. Io guardo il mare. Nonno me lo presenta:
Borghetto Santo Spirito, Loano, Pietra Ligure… Scendono torrenti al mare in Liguria e io non ci ho pescato mai. Varigotti, Noli, Spotorno, Savona… Sul mare si affaccia la fortezza, al porto
navi gigantesche, non pensavo ce ne fossero di così grandi.
Vuoi un gelato Stefano? Coppa di crema e pistacchio ad Albisola a fine di stagione con pochi villeggianti. Mamma sembra davvero in vacanza. Varazze, Cogoleto, Arenzano… Vuoi fermarti a
Genova, Emilia? No, se non sei stanco Amilcare, preferisco arrivare a casa appena possibile. Nonno Amilcare non è mai stanco di guidare, dovresti saperlo mamma. A Voltri si sale allora la
montagna, si va verso il Piemonte. Addio al mare. Addio per
sempre? No, finché c’è Giovanni Laigueglia è ancora casa mia.
Campo Ligure, Ovada… Qui fanno un ottimo dolcetto, ne prendo due damigiane tutti gli anni. In ogni paese il nonno fa qualcosa o lo ha fatto o lo farà. Anche a papà piacciono i posti nei
quali viaggia, ma il nonno conosce davvero tutto. Mi chiedo se
conosce tutti. Se conosce te papà, se ti conosce davvero in fondo
al cuore, se sa perché sei andato via. È solo una piccola deviazione, vedrai che ne vale la pena… Mi sveglio che sento nonno che
convince mamma a girare per Novi Ligure a comprare il cioccolato con le nocciole. Il più buono del Piemonte, dice nonno. Ma
non lo fanno ad Alba il più buono? Chiedo ricordandomi che
l’aveva detto nonno all’andata. Questo è diverso, risponde un
po’ piccato. Hai voglia di girare nonno, te lo si legge in faccia.
Sgranocchiamo cioccolato che sporca le mani e fa i baffi quando
passiamo per Alessandria. Nonno ha anche un’altra idea. Un’idea per cena, dice. Passiamo da Mortara, mangiamo qualcosa,
poi con calma raggiungiamo Novara e poi Gozzano. Ma arriveremo a notte fonda, dice mamma che è stanca. Stanca di viaggio, ma non ancora di nonno. Lui insiste, fa gli occhi dolci, dice
80
81
che vorrebbe riposarsi un po’ del viaggio. Bugiardo nonno, lo
sanno tutti che per te il viaggio è riposo. Mamma accetta.
Siamo a tavola sotto il pergolato che ancora c’è il sole e qui la
luce è malata. Mamma è preoccupata per le zanzare, ma la signora della trattoria la invita dentro e le dà una lozione. Vieni
Stefano, vieni Amilcare che ci danno l’Autan fatto in casa… Io
preferisco questo all’Autan, dice nonno alzando il bicchiere,
rosso, spumoso. Si chiama Bonarda dice quando lo versa. Nonno Amilcare appoggia la giacca sulla spalliera della sedia, arrotola le maniche della camicia che sembra papà e racconta dei salami d’oca che son fatti così non solo perché sono buoni, ma
perché così li mangiano gli ebrei che hanno il divieto del maiale, parla dei genitori di zio Renato perseguitati dai fascisti, dice
dei campi di concentramento, della guerra, dell’Italia che non
l’hanno rifatta troppo bene, che la colpa è un po’ loro, ma un po’
è anche di quelli dell’età di mamma… Che ci sono i giovani che
non si sa cosa vogliono, che sono duri, che pretendono nelle
piazze, che non è così che si costruisce un paese, non urlando
per strada… Per fortuna che ci sono i bravi ragazzi come Stefano
dice a mamma, ma guarda me… Io urlerò per le piazze nonno,
eccome se urlerò, vorrei dirgli. Ho capito che la forza sta nell’urlare tutti insieme quello che si vuole. Mica come voi socialisti che state al governo e dite male di quelli che ci stanno. Dovrebbe dirle mamma queste cose. Mamma è comunista, ma
stasera dice che l’oca è buona, che il risotto è squisito,che nonno
vuole ubriacarla per farle la corte e ride, ride di gusto. Anche a
me piace questa trattoria dove le zanzare succhiano sangue e lozione, dove il vino è frizzante e fa girare la testa anche a me, dove la sera pulisce l’aria e porta via la polvere, dove fanno da mangiare agli ebrei. Papà se c’eri avresti detto al nonno che è ora che
il partito smetta di leccare la diccì, che è ora di fare sul serio, anche con i comunisti, anche con i ragazzi che gridano nelle piazze… Lo so che l’avresti detto e io sarei stato orgoglioso. Io e
mamma non siamo capaci di fare politica col nonno, abbiamo
82
paura di fare i comunisti. Poi mamma col nonno sta in vacanza
e anch’io un po’ mi lascio conquistare. In fondo è ancora estate,
tra poco vado a scuola e se tu non ci sei a divertirti con noi è solo
colpa tua. Sì, papà è solo colpa tua. Se io sono triste, se Giovanni
se n’è andato, se a mamma tocca divertirsi con nonno che è vecchio è solo colpa tua. Mi si strozza in gola la colpa di papà, mi resta tra il poco vino e le tonsille. Nonno dice che è ora di partire…
A mamma che chiede il conto risponde che lui non ha mai fatto
pagare le signore… Tra Novara e Gozzano non c’è neppure
un’auto per strada. Nonno si ferma nella camera degli ospiti, io
faccio un giro per casa a vedere se Giovanni ha scordato qualcosa o se papà è tornato o anche solo passato. La canna da pesca è
al suo posto. Domani all’alba sull’Agogna. A cucchiaino. Solo.
Non ci si abitua facile a una scuola nuova dove ti danno del
lei anche se non hai ancora quindici anni, non hai sentito la sveglia in tempo per lavarti la faccia, porti l’orecchino e la camicia
da boscaiolo. L’orecchino me l’ha messo Elsa, dopo che mamma ha ceduto ed è di quelli da pirata, come Corto Maltese. È d’oro ed è un regalo di Elsa e Rodolfo. La camicia l’ho comprata io
per andare in una scuola dove c’è chi viene con la cravatta tutti i
giorni. A quasi quindici anni con la cravatta, questa papà non
me l’avevi detta quando ho scelto la tua scuola. Forse anche tu,
ai tuoi tempi, andavi a scuola con la cravatta. Con mamma, soli,
viviamo bene. Ci facciamo compagnia quando serve e lei ha ripreso a insegnare, per adesso in una scuola privata a Borgomanero, ma ha fatto domanda per tornare alle scuole pubbliche.
Mamma che insegna dai preti ce la vedo davvero poco. Lei a
scuola ci va con l’ottocinquanta. Io in treno. Tutti i giorni corro
da via Regina Villa al Purtòn e poi sempre più affannato giù per
viale Parona. Io e il treno arriviamo insieme al passaggio a livello, lui, per fortuna, fa un po’ più di strada a entrare in stazione.
Alle sette e quattordici si parte, spesso sbuffando visto che qui
c’è una delle ultime locomotive a vapore. Linea DomodossolaNovara, sempre in piedi i primi giorni. Poi mi sono fatto degli
83
amici che vengono da Omegna e mi tengono il posto. Studenti
che partono al mattino da Gozzano? Solo io e Chiara, la sorella
gemella del Nardi, quello che incontravo sempre sul fiume a pescare. Gli altri sono pendolari, gente che lavora. A Borgomanero salgono alcuni ragazzi che fanno il mio liceo. Io però parlo
sempre con Chiara. Lo ammetto, mi piace. A volte penso che sarebbe bello baciarla. Ma ci vorrebbe Giovanni. O ci vorresti tu,
papà. Insomma qualcuno che sa come si fa, da che parte si comincia. La pesca alla trota ha chiuso, tu papà non ti sei più fatto
sentire e neppure il maresciallo per dare notizie. Io scrivo a Giovanni, gli scrivo spesso, lettere lunghe dove gli racconto cosa accade. Lui risponde di rado con lettere corte, come ci si può aspettare da Giovanni. A scuola ci fanno sudare sui libri, su materie
incomprensibili come il greco, quando suona la campana se sono veloce riesco a prendere un treno che mi porta a casa per le
due. Ma di solito non sono affatto veloce, se torno alle quattro
mangio più tardi, ho poco tempo per studiare, ma viaggio con
Chiara. E con tanti amici, quanti non ne ho avuti mai. Tutti conosciuti in piazza, alle prime manifestazioni dell’autunno per
avere scuole migliori. Papà non mi avevi detto che a Novara la
mia scuola, la tua scuola, l’hanno appena ricostruita perché è la
scuola dei ricchi, mentre tutte le altre cadono a pezzi, hanno il
tetto che ci piove, i termosifoni che non si accendono. E noi manifestiamo, occupiamo, urliamo, sì proprio come non piace al
nonno, ci conosciamo, ci scazziamo anche perché facciamo
parte di un movimento con molti nomi. Già, mi è cambiata la vita. Tra tante sigle io non mi trovo, sto con altri e siamo cani
sciolti, siamo un po’ anarchici, mi piace più di comunisti, e, mi
spiega Aleardo che è simpatico ed è più grande e più addentro di
me, stiamo nell’area dell’autonomia. Io dove sto adesso sto bene come non sono stato mai. No, non sono felice, mi manchi
papà. Mamma dice che sono cresciuto di colpo e non mi riconosce più. Credo abbia ragione perché anch’io mi riconosco poco,
sia sui banchi di scuola dove quello che studio per la prima volta non mi interessa – ti ricordi quando mi dicevi di smetterla coi
libri e andare a giocare? – sia fuori dove mi sembra che stiamo
facendo la rivoluzione, una bella rivoluzione e non mi sento più
troppo piccolo per farla. Con mamma di politica ci azzuffiamo a
volte, con te forse ci capiremmo, tu hai sempre avuto un occhio
più lungo degli altri, non diresti che siamo solo ragazzi incazzati che fanno casino. Ti penso spesso alle fermate del treno, quelle del ritorno che sono davvero tante: Vignale, Caltignaga, Momo, Vaprio, Suno, Cressa, Borgomanero… Mi chiedo se è vero
che vivi in stazione e in quale stazione vivi e se non ti viene voglia mai di tornare a casa da noi, di vedermi adesso che sto parlando con Chiara e ho paura di dire cose sbagliate, di dire troppo, di annoiarla, di arrossire. In tutte le cose, tante, troppe, che
sono accadute in questi mesi, tu manchi davvero. Non dovevi
andartene così, non adesso almeno.
84
85
Con Rodolfo ed Elsa non faccio più le foto, adesso discutiamo di politica. Rodolfo dice che a noi autonomi non ci capisce. E
io mi chiedo cosa ci sia da capire a volere libertà e rivoluzione e a
volerli subito, adesso, non quando sarà il momento. Lui dice che
sbagliamo che prestiamo il fianco alla lotta armata che è anche
per colpa nostra che si è sciolta Lotta continua. Ecco cosa non
riesco a capire dei compagni più grandi come Rodolfo. Sono divisi in un sacco di sigle, alcune fanno persino ridere, ma non
glielo puoi dire se no si offendono e ne fanno una questione politica: Avanguardia operaia, Quarta Internazionale, Lotta continua, Pdup, Servire il popolo, Manifesto, Mls che non sono sigarette ma Movimento lavoratori per il socialismo… Anche i vecchi anarchici sono incomprensibili tra anarchia, anarchismo,
individualisti, libertari, insurrezionalisti… Mi chiedo quanto
tempo ci si debba perdere dietro a queste cose, mentre Rodolfo
dice che noi non abbiamo storia e quindi neppure futuro… Può
darsi ma abbiamo ragione da vendere nel chiedere la cultura
gratis per tutti, libri, musica, concerti senza padroni. Perché gli
operai non possono mangiare le aragoste al ristorante? Perché
gli operai non mangiano aragoste, dice Rodolfo. I tuoi operai so-
no tristi e condannati a vivere da operai tutta la vita. I tuoi sono
destinati a trasformarsi in padroni. No, i miei sono destinati a vivere felici. Lo diceva anche mio papà che il suo maestro di socialismo era un compagno che di mestiere faceva il sarto: il socialismo era la possibilità per tutti gli operai di avere un principe di
Galles per uscire la domenica… Tuo papà alla politica ha preferito la Barbera. Rodolfo sei uno stronzo, sei uno stronzo… Lo grido con tutte le forze, con rabbia, con voce adulta e anima bambina, anima ferita… Stai zitto, imbecille! dice Elsa a Rodolfo. Si discute di politica Elsa e nella lotta non ci sono affetti, non ci sono
colpi sbagliati… Sei solo uno stronzo… Ha ragione Stefano, perché dovevi insultare suo padre? Dov’è suo padre adesso che ci
stiamo facendo un mazzo così per costruire l’alternativa? Ma di
quale alternativa vai parlando che pensi come tutti qui intorno,
pensi che mio papà sia solo un ubriaco… Non era questo che volevo dire, scusami. Ma è questo che hai detto, ti credevo diverso.
Dai non prendertela. Vaffanculo. Vaffanculo tu e il vostro movimento di autonomi che sta rovinando tutto. Lascialo perdere
Stefano, andiamo via io e te. Elsa è una che capisce. Rodolfo è
preoccupato dice che voi farete tutti la lotta armata, che finirete
male, che ha già visto amici suoi sparire in clandestinità, è solo
per questo che è un po’ nervoso… Un po’ nervoso? È uno stronzo… È solo per questo che è un po’ stronzo… aggiusta Elsa con
dolcezza. Così va bene. E rido. E sono contento perché Elsa è dalla mia parte, perché adesso mi parla da grande e anche Rodolfo
mi parla da grande. Mi sta crescendo anche un po’ di barba, più
che ai miei compagni di scuola. Io ti ho difeso papà, ma la verità
è che Rodolfo ha ragione: tu ci hai traditi tutti per il vino e io non
posso nemmeno urlartelo in faccia perché sei anche un vigliacco e te ne sei andato. Mamma quando è triste e ti vorrebbe dice
che sei un vigliacco. Anche lei ha ragione.
È passato in fretta un altro anno, un altro compleanno, il primo senza te, papà. Mamma mi ha chiesto cosa volevo e io mi sono fatto regalare una nuova canna da pesca per il cucchiaino e
un Abu cinquecentosei, un mulinello che è una specie di orologio svizzero. Anzi svedese, lo fanno in Svezia ed è un miracolo di
precisione, un gioiello della meccanica. Costa un pozzo di quattrini, ma mamma ha detto: quello che vuoi. E io non ho risposto
il cane per non costringerla a dire di no. Ho detto una cosa che
desideravo, che ho passato ore a guardare in un negozio di Novara nei pomeriggi in cui rimango in città dopo la scuola. A Gozzano non si trova nemmeno. Mamma si è fatta dire come si
chiama e l’ha procurato in non so che modo. Giovanni mi ha
scritto che da lui non si fa tanta politica, che sono in pochi, ma
lui c’è e si dà da fare. Mi ha mandato per regalo una foto dove lui
è assieme a una ragazza ed entrambi sono avvolti in una bandiera rossa. Mi manca Giovanni. A Natale abbiamo pranzato da soli perché non abbiamo avuto voglia di prendere il treno e andare
a Laigueglia. Io il treno lo prendo tutti i giorni, mamma è stanca
di guidare e nella bassa ci sono ghiaccio e nebbia. L’ultimo dell’anno sono andato via con gli amici, in Valsesia, in una baita in
montagna, a Rimella, il primo ultimo dell’anno da solo fuori casa, c’era anche Chiara abbiamo parlato fino all’alba e io ho pensato che potevo baciarla, ma non capisco, davvero non capisco,
come si fa, come si comincia. Adesso è freddo, nella casa di via
dei Grissini, mamma ha chiuso il termosifone dello studio,
quando ci entro ad annusare il passato, a pensare a te, papà, sento il gelo, ma è gelo di freddo vero quello che mi prende. Non è
più solitudine, non è più mancanza. Non è malinconia. Non ho
tempo per essere malinconico, la fine del quadrimestre fa sgobbare sui libri, l’apertura della pesca alla trota è alla fine di febbraio. Mamma esce a volte la sera, credo con un uomo, credo sia
uno della sezione del Pci. A me non piace che mamma esca, ma
lei mi lascia andare dove voglio quando lo chiedo e così mi pare
che siamo abbastanza pari. Dormo spesso a Novara, a casa di
Aleardo che è un compagno, non di scuola, di politica, uno molto più grande di me con il quale mi piace restare a parlare. Sua
moglie dice spesso: per fortuna che c’è lui che ti sta a sentire. Solo i giovani riesci ancora a incantare… Aleardo e Gianna, così si
86
87
chiama lei, hanno una bambina di pochi anni che porta il nome
di non so quale eroina di non ricordo quale rivoluzione. È un nome che non riesco a imparare, a ricordare, ma lei è una bambina
dolcissima che tutti chiamano Megghi e così la chiamo anch’io.
È diversa questa famiglia dalla mia, Aleardo non lavora nemmeno, hanno una casa che sembrano profughi eppure sono un
papà, una mamma e una figlia. Proprio come siamo noi. Come
eravamo noi. La rivoluzione è impegnativa, soprattutto se c’è da
finire le interrogazioni a scuola. Ma Aleardo che con la rivoluzione ci deve pure mantenere una famiglia mi sembra ancora
più inguaiato. Anche perché adesso le cose non stanno andando
bene per il movimento. C’è un’aria pesante. Compagni che vogliono usare le armi in piazza. E forse hanno ragione. C’è una sinistra che non ha più niente da dire e i sassi in testa se li va a cercare, dice Aleardo parlando dell’Università di Roma dove hanno
– abbiamo, se ci fossi stato l’avrei fatto anch’io – preso a sassate
Lama, il segretario della Cgil. Mi dispiace un po’ perché la Cgil e
Lama sono gli operai della mia manifestazione a Novara, ma
Aleardo mi spiega che no, i sindacati li stanno fregando agli operai. Proprio come Rodolfo che non vuole fargli mangiare le aragoste. Stiamo discutendo di questo al circolo anarchico, stiamo
decidendo cosa faremo domani. Partecipiamo oppure no alla
manifestazione dei sindacati? Fabbrica scuola, la lotta è una sola, dice una voce dal fondo della stanza. Chi parla? Chennesò,
qui è tutto fumo, la politica è tanto fumo, nelle riunioni, nei collettivi. Domani si va e si chiede ai sindacati di parlare anche noi,
alla fine, in piazza. Ma sei scemo? Dopo quello che è successo a
Roma… Dopo quello che è successo ci devono stare a sentire per
forza… Guarda che quelli hanno il servizio d’ordine della Fiom.
E noi quello dell’Autonomia operaia. Ecco un’altra sigla nella
quale siamo finiti dentro un po’ anche noi. Che casino compagni. Allora domani ci si vede nel piazzale della stazione e se siamo abbastanza si fa una manifestazione anche noi. Assieme ai
sindacati? Assieme ma distinta. Non autorizzata? Non autorizzata. Quali sono gli slogan? Vediamo lì, adesso è tardi, andiamo
a spargere la voce. Andiamo a spargerci a letto Aleardo, da qualche mese è così sempre, tutti i giorni e sembra che sarà sempre
peggio. Forse è meglio davvero diventare clandestini. Dopo devi
toglierti l’orecchino e mettere la cravatta… L’idea non mi piace
proprio, alla clandestinità ci penso un’altra volta. Come vorrei
che Chiara fosse qui. Come vorrei che ci fossi tu, papà.
88
89
Eccola Chiara che sale dalla scalinata della stazione e io faccio finta di non vederla dopo che la aspetto da più di mezz’ora.
Ha i capelli raccolti dietro la nuca, la pelle bianca da inverno, gli
occhi color nocciola, un orecchino che è un cerchio grande, da
zingara e l’altro piccolo con la falce e il martello, la sciarpa a righe colorate sopra a un giaccone bianco che sembra di lana di
pecora… Ah ci sei anche tu? Non ti avevo vista… Bugiardo e timido, altro che rivoluzionario. Aleardo organizza la prima vera
manifestazione dell’autonomia a Novara. Ci sono almeno duecento compagni, tantissimi. Gli operai del sindacato saranno almeno quattromila, gli studenti che sfilano con gli operai almeno un migliaio. Noi però siamo più belli, me lo dico guardandoci, sembriamo usciti da una riserva indiana, con le bandiere
rosse avvolte attorno ai bastoni, e le bandiere nere degli anarchici, e le sciarpe colorate e i passamontagna e le kefie palestinesi… Chissà cosa direbbe zio Renato se mettessi la kefia anch’io? Chissà. Come è lontano il mondo di ieri da questo mondo
nuovo che mi ha adottato. Chissà papà se ci leggi sui giornali, se
ci guardi alla televisione in qualche bar, se pensi anche tu che
siamo i nuovi fascisti – l’ha detto quello stronzo che esce con la
mamma – se credi anche tu che finiremo con il mitra in mano…
Vedo Rodolfo che scatta fotografie, anch’io voglio fare il fotografo, ma non ora che sto cambiando il mondo. Fabbrica scuola, la lotta è una sola… Partiamo, siamo dietro agli studenti che
sono dietro agli operai. Il corteo, quello grande, il loro, ha il megafono che dice gli slogan da scandire e gli operai con la fascia
rossa al braccio. Il servizio d’ordine. Non l’avevo visto l’altra volta. Sono brutti, brutti da far paura, senza sorrisi tra barbe e baffi
sotto ai caschi da muratori, con mani grandi come badili e
sguardi duri che guardano verso di noi. Siamo noi il nemico oggi. Non i fascisti, non la polizia. Berlinguer sei come un rapanello, rosso di fuori e bianco nel cervello… Sto facendo a pezzi
anche il segretario della mamma, non sono più comunista, anzi sono loro a non essere più comunisti. Pala, piccone e fonderia sono i rimedi per l’autonomia… gridano dal corteo e gridano
contro di noi. Altro che aragoste agli operai.
solo per Daniele. Io ho voglia di riposare, di dormire, di andare
in ferie dalla rivoluzione. Almeno per stamattina. Perché non
andiamo al Cantinone? Al Cantinone? Che schifo, un’osteria
piena di ubriaconi e di terroni. Bel compagno che sei, non sai
più distinguere gli sfruttati? Ma che sfruttati, il Cantinone è un
posto da poeti… Sì, da poeti che non si lavano… Ma il vino è buono e costa poco. Hanno uno Zibibbo dolce da brivido. Dai andiamo sennò i brividi ci prendono a noi…
Non so quando succede e nemmeno perché succede. C’è del
fumo tra noi e il resto del corteo. E in mezzo al fumo vedo volare
i bastoni, le bandiere, le nostre, quelle della Fiom, bandiere sbattute sulle teste, sulle teste di chi? C’è fuoco in strada, c’è fumo,
c’è Aleardo che grida via, via che qui ci fanno il culo… Via di corsa prima che arrivi anche la pula… E allora via, via di corsa, dove,
che importa dove. Vieni Chiara… Chiara scappa con Daniele… E
allora scappo da solo… Corro da solo con il cuore che palpita tra
le tonsille e la milza che urla vendetta e un nemico immaginario
che mi insegue… Ci vuole il fisico anche per la rivoluzione… Ci
vediamo all’angolo delle ore… Uno alla volta senza farsi vedere…
Poi si va in piazza delle Erbe che proviamo a forzare il servizio
d’ordine… Chi quegli specie di catanga? Sì, loro… Ma tu sei matto… Corri, non sprecare fiato… Corro, corro, coi pensieri, con le
gambe, con le polacchine con il pelo che adesso sono pesanti
mentre sudo e sono solo e ho paura e ci sono facce di compagni
attorno a me… Conosco tutti e non conosco nessuno… La corsa
si stringe a imbuto nelle viuzze di Novara… Chi ha scelto le strade per scappare? Nessuno, ovviamente nessuno, l’imbuto
esplode sul corso davanti alla Upim… E no, porca miseria, chi
spacca le vetrine? Chi sta scrivendo con lo spray sulle colonne?
Metto nel tascapane il fazzoletto rosso, prendo fiato, non corro
più, non scappo più. Vado all’angolo delle ore e non in piazza. Lì
c’è Chiara con Daniele, c’è Lupo, c’è Arpo, ci sono tutti quelli che
non hanno, adesso, più voglia di guerra. Gli altri sono in piazza
a dar battaglia. Io ho voglia d’amore forse. Ma Chiara ha occhi
Si entra da una porta piccola di legno vecchio al Cantinone e
fuori dall’ingresso c’è odor di candeggina. La usa la signora per
lavare il vomito degli ubriachi. Qui capita e capita spesso che chi
esce barcollando scarichi tutto nel muro di fianco alla porticina.
E allora via con stracci e candeggina a fare un po’ di pulizia prima che si lamentino i vicini e si perdano i clienti. Per essere un
posto di terroni e ubriaconi ci vedo in giro tanti ragazzi come
noi, fuori dalla scuola, fuori dalla manifestazione, fuori da tutto
a provare l’ebbrezza del postaccio. Ci va tutta la sinistra fricchettona a bere vino al Cantinone. E l’oste corpacciuto con il grembiale impataccato guarda strano questa nuova clientela che gira
sotto ai soffitti bassi, si siede ai tavolacci e bere Zibibbo di Sicilia
e Nero d’Avola. Ci si ubriaca per poche lire qui e con vino fatto
d’uva. Siamo così tanti che gli avventori soliti cercano rifugio
nei tavoli contro il muro, ad angolo, lontano. Gente abituata ad
annegare la vita nel vino, in silenzio, si trova un po’ impacciata
di fronte a questo nuovo movimento che va a bere sempre più
spesso e facendo sempre più rumore. Parla Chiara al tavolo con
Daniele, Lupo legge Lotta Continua, Arpo racconta di come il vino è uguale a quello di un suo zio, io ascolto e guardo nella penombra di questa cantina senza finestre, senz’aria, dove l’odore
forte di vino zuccherino inebria anche chi al bicchiere non si attacca… È a un tavolo da solo quel signore con gli occhiali che fissa il vino nero nel bicchiere. È l’unico tavolo per bevitori soli. Lo
guardo e mi fa un po’ di tenerezza, chissà cosa racconta a quel
bicchiere, chissà se anche tu sei così papà, chissà… Puttanavac-
90
91
camiseria, sai che non parlo male mai, ma sei tu papà quell’uomo che sto guardando solo al tavolo del suo bicchiere nero… Ti
guardo bene, voglio essere sicuro, pulire gli occhiali prima di
decidere… Sei tu, a due tavoli da me senza saperlo. Come sei vestito male, come sei magro, con la barba che così lunga e quasi
bianca ti mostra molto più che quarantenne. E gli occhiali per
leggere cosa li tieni a fare in fronte al vino? E le spalle così curve?
Ti è pesata così tanto la vita, papà?
Eccolo il momento per dirti cosa penso, che non dovevi andare via, che non dovevi lasciarci soli, che… Ti guardo e lo capisco solo adesso: sei tu il primo che hai lasciato, appeso in qualche appendiabiti su un treno, o gettato via dal finestrino dove
c’è scritto di non lanciare oggetti… Li ho imparati tutti in questi
mesi i cartelli ferroviari, le scritte sui vagoni, quanto è pericoloso sporgersi, cosa non aprire prima che il treno sia fermo, cosa
tirare in caso di emergenza… Adesso vengo lì e cosa ti dico? Alza gli occhi papà, sono Stefano. E se tu non li alzi e sei ubriaco?
In fondo sei stato tu ad andare via. Perché non volevi rivedermi
più? Forse perché non volevi rivedere più nessuno, neanche te.
Posso parlarti, salvarti, raccontarti, ma mi arrendo. Non ho
neppure quindici anni e già mi arrendo. In quel bicchiere di vino sei sparito, ti vedo lì dentro e sei sparito. E io ho paura di tirarti fuori. Adesso dico a Chiara che voglio andare via. Adesso,
adesso un accidente, se non ti parlo ora quando mai?
Papà. Sussurro stando in piedi davanti a te in modo che tu
possa vedermi. All’inizio non pensi che stia parlando con te.
Forse non senti neppure la mia voce. Forse non la riconosci,
non è più voce da ragazzo. Poi vedo un brivido che ti percorre
sulle mani e sento le spalle incassate aprirsi quel tanto per capire che stai alzando la testa. Papà, sono Stefano. Mi guardi, finalmente, con quella faccia strana, tutta tua, di uno che non riconosce bene. È un vezzo da occhialuto, mi hai riconosciuto, lo
sento e sento anche che non pensavi di trovarmi lì. Cosa fai qui
figliolo, non è posto per un bambino come te. Neppure per un
92
papà, dovrei risponderti. O dovrei dirti che non sono più un
bambino, ma a che servirebbe? Ti cambierebbe la vita la notizia? No, dovrei sedermi e raccontarti di questi mesi senza te, ma
se tu non c’eri che ti interessano mai i mesi? Adesso, adesso che
hai parlato, adesso che hai detto una frase da papà, ora so che
non dovevo venire al tavolo. Ma già che son venuto mi ci siedo e
ti racconto, di me, di mamma, di nonno Amilcare, di Giovanni.
Avrei dovuto immaginare che sarebbe andato via… Non è andato via, mamma ce l’ha mandato, l’unico andato via sei tu. Parlo
e non penso e non piango e infilo gli occhi negli occhiali perché
non mi sfuggano quelli di papà. Ce l’hai il cane? No, sai che
mamma non vuole. Pensavo che per farti compagnia l’avrebbe
preso. Mamma si fa fare compagnia da uno della sezione. Avrei
fatto anch’io così… Ma lei non ci avrebbe mai lasciati, non sarebbe andata via. Che vuoi capire tu che sai ancora di latte. E tu
troppo di vino… Mi devi del rispetto, sono sempre tuo padre…
Lo dici e piangi finalmente, hai capito che stai dicendo stupidaggini e che io non ti voglio male. Adesso devo andare dici rapido cercando d’alzarti. Non senza avermi detto perché… Perché che cosa? Perché vivi così. Non so. Ma l’avrai un’idea? Non
so, so solo che tutti volevate tante, troppe cose da me e io non sapevo essere tante e troppe cose… Silenzio. Devo andare. Non
torni a casa? Sapevo di non dovertelo chiedere, ma l’ho fatto. Sì,
torno. Bugiardo. Lasciami andare Stefano, ti prego, ho un impegno. Sai cosa non abbiamo mai fatto insieme? No. Non siamo
mai andati a pesca. Sono diventato bravo, sai? Peschi trote? Sì,
col cucchiaino. Faccio a tempo a sentire una carezza che già
papà è andato. Chiara si avvicina e chiede: chi era quel vecchio?
Un amico di mio padre, un uomo sfortunato.
Non era poi così difficile baciare, ho appoggiato le labbra e
ho sentito il sapore, quello di Chiara e quello del vino.
93