Schede film discussi insieme 2010
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Schede film discussi insieme 2010
2 Alza la testa regia alESSandro anGElini sceneggiatura alESSandro anGElini, anGElo carBonE, FrancESca Marciano fotografia arnaldo caTinari montaggio MaSSiMo Fiocchi interpreti GaBriElE caMPanElli, SErGio caSTElliTTo, GiorGio colanGEli, aniTa KravoS, aUGUSTo Fornari nazione iTalia distribuzione 01 diSTriBUTion durata 86’ ALESSANDro ANGELINI 1971 - Roma 2009 2006 2005 2003 2000 alza la testa l’aria salata El barrilete - doc la flor mas linda de mi querer - doc ragazzi del Ghana - doc Alza la testa 59 La storia Mero, operaio specializzato in un cantiere nautico, è un padre single. Lorenzo, il figlio nato da una relazione con una ragazza albanese, è la sua unica ragione di vita e il sogno dell’uomo è che il ragazzo diventi un campione di boxe, riscattando così la sua anonima carriera da dilettante. Per questo lo allena duramente, insegnandogli giorno dopo giorno a tirar pugni e a proteggersi dai colpi bassi della vita. L’equilibrio di questo rapporto è sconvolto dal ritorno di Denisa, la madre di Lorenzo, e dall’incontro tra il figlio e la giovane Ana. Le prove per Mero non sono finite e dovrà confrontarsi con il dolore, con i propri pregiudizi e con la lontananza del nostro Nord Est. La critica Dopo la sorpresa di “L’aria salata”, Angelini continua a circumnavigare il tragitto affettivo in andata e ritorno padre-figlio con la storia di Castellitto proletario che trasmette al figlio la passione della boxe. Lo perde in un incidente ma si perde anche il film alla ricerca di troppi nuovi spunti che confondono la reattività dell’avvio. Cuor trapiantato non batte, ma Castellitto è così bravo che non soltanto è vero, si cala nella parte, ma insieme si sdoppia e porta per mano il ruolo. Maurizio Porro, il corriere della Sera, 6 novembre 2009 Sergio Castellitto, operaio nautico sul litorale romano, non va troppo per il sottile. Tra uno sfoggio di cameratismo e un consiglio al figlio che vorrebbe campione di boxe, la vita trascorre agra. La maldestra educazione sentimentale della prole, costa il più tragico dei dazi. Morte, funerale, assenso all’espianto degli organi. Da quel momento in poi, sapere dove batte il cuore di Lorenzo, diventa per Castellitto (miglior attore al Festival di Roma) la ragione unica che lo spinge al viaggio. Dentro se stesso e fuori dai confini. Il primo della sua esistenza. Quello definitivo. Angelini, ex spalla di Nanni Moretti e Calopresti, tiene ferma la barra della narrazione e dopo L’aria salata, si conferma come il più promettente tra i giovani registi italiani. 60 Alza FILMlaDISCUSSI testa INSIEME Funzionano volti, ragioni e mutamenti di genere e sintassi. ll film somiglia al suo inventore. Popolare, serio, distante da snobismi o alterità. Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2009 Opera seconda che conferma il talento di Alessandro Angelini, uno dei migliori giovani registi italiani. Il suo esordio, con “L’aria salata”, ci aveva regalato un cineasta dall’occhio originale, capace di raccontare realtà poco indagate. “Alza la testa” parte come un film sulla boxe (un padre, ex boxeur di poco talento, allena in modo ossessivo il figlio, sperando nel suo successo) ma diventa, ben presto, tutt’altro. Il ragazzo ha un incidente, entra in coma... e qui ci fermiamo, a metà film, per non rovinarvi la visione: ma non aspettatevi un “Million Dollar Baby” all’italiana, bensì un rovente melodramma in cui quel padre iper-protettivo sarà costretto a ribaltare il proprio mondo, a fare i conti con esperienze di vita che non avrebbe mai immaginato. “Alza la testa” è, anche geograficamente, un film insolito: parte da Fiumicino, periferia romana altamente multietnica, e finisce ai confini con la Slovenia, in un’Italia bilingue e misteriosa. Sergio Castellitto è bravissimo. Nella seconda parte forse gli succedono troppe cose folli, ma è il senso del film, quindi un difetto che va perdonato. Alberto Crespi, l’Unità, 6 novembre 2009 Un capocantiere navale, Mero, vive attraverso il giovane figlio Lorenzo il sogno del suo riscatto. Lo allena nei ritagli di tempo dal lavoro perché diventi quel pugile di prima categoria che lui non è diventato mai. Periferia romana, cantieri navali di Fiumara, romani bonari e immigrati lavoratori, l’inizio di “Alza la testa” di Alessandro Angelini (di fatto, suo secondo lungometraggio dopo la buona sorpresa dell’esordio “L’aria salata”) ha i requisiti di una struttura classica ben trattata. Tutto maschile, tutto sudore e cameratismo, la prima parte del film promette un lavoro ben fatto, in cui finalmente si vede una sana società “dal basso” dove le differenze geografiche fanno parte del grande scherzo della vita e poco più. Poi, il primo colpo di scena, imprevisto e mal giocato come nelle sceneggiature di serie b americane. Al quale ne seguono una serie di altri che creano fastidio e sconcerto crescente, come se al momento della scrittura Angelini e i suoi collaboratori (Angelo Carbone e Francesca Marciano) avessero deciso di sorprendere il povero spettatore con effetti speciali non richiesti. L’enormità delle scelte fa catapultare anche gli attori in situazioni paradossali. Uscito di trama il giovane e bravissimo Gabriele Campanelli (Lorenzo), la scena rimane tutta per lui, un Sergio Castellitto istrione in crescendo che si impossessa del racconto e dello schermo per farne parossistica palestra emotiva. La Festa del Cinema di Roma lo ha premiato come miglior attore della rassegna, tradendo una propensione per l’arte più guitta del cinema italiano. Si sa che le seconde opere degli artisti sono sempre le più complicate, soprattutto quando le prime hanno ricevuto unanimi consensi. Speriamo che i dubbi espressi da buona parte della critica per questo secondo titolo riporti Angelini a più miti consigli. L’arte di un cinema intimo come quello di Angelini non è fatta di colpi di scena, ma di percorsi sinuosi in cui incontrare il silenzio e non certo la risata bruscamente risolutoria di Castellitto. Lilla Jordan, liberazione, 6 novembre 2009 Una convivialità tutta al maschile. La famiglia del giovane Lorenzo è rappresentata dal gruppo di operai specializzati con cui lavora il padre, uomini diversi tra loro per nazionalità e mansioni, amici che si ritrovano la sera e condividono le emozioni dei suoi primi successi sportivi. Da quando su un furgoncino da lavoro accompagnano alle sue nozze l’immigrato Radu fino agli appuntamenti serali, Angelini disegna nella prima parte della pellicola un universo da cui è completamente estromesso il carattere femminile. Gli ambienti sono quelli tipicamente maschili del cantiere e della palestra dove si disputano gli incontri, con l’evidente e programmatica rimozione della donna. Quando per caso Lorenzo conosce Ana, giovane romena con cui fa l’amore per la prima volta, il contrasto tra padre e figlio si fa inevitabile. Secondo Mero, la distrazione dell’affetto - che qui corre parallelo con l’incomprensione - potrebbe vanificare tutti gli sforzi e i sacrifici spesi nella costruzione della carriera sportiva. Perché proprio come fa con le tavole di legno della nave che sta assemblando, giorno dopo giorno e pezzo dopo pezzo, il padre tenta di definire fisicamente il corpo del figlio, commettendo l’errore di sottovalutarne la componente emozionale. Ci vorrà un evento traumatico com’è quello del distacco per far capire a Mero i suoi errori, commessi nella più tragica delle buone fedi così come nella ricerca di una redenzione tutta individuale. Quell’emozione che ha sempre cercato di arginare nel figlio è, infatti, la stessa che lo porterà a riconsiderarsi in un durissimo faccia a faccia con i propri pregiudizi, quelli verso gli immigrati (quale è anche la madre di Lorenzo, che li ha abbandonati) e in generale i diversi. Già alla base del riuscito “L’aria salata”, il rapporto genitore/figlio è solo il punto di avvio di un film che procede liberamente per accumulo di storie e sensazioni, in realtà incentrato tutto sul padre, uomo solo e disilluso che trova un singolare riscatto in un finale inaspettatamente rocambolesco. La scelta della camera a spalla e gli ambienti proletari danno alla pellicola un côté realista/europeo alla Loach o alla Dardenne che cozza con la libertà di scrittura di un regista capace di sfidare la convenzione e la correttezza a costo di accollarsi il rischio di un’opera fortemente squilibrata. Marco Chiani, duellanti, ottobre 2009 Incontro con Alessandro Angelini e Giorgio Colangeli GUIDo bErtAGNA S.I. Diversi di voi ricorderanno Giorgio Colangeli. Fu nostro ospite due anni fa per film “L’aria salata” di Alessandro Angelini. Quella volta però, il regista non aveva potuto essere presente… ALESSANDro ANGELINI Grazie per l’invito, sono molto felice di essere qui con voi stasera. Per cominciare vorrei dire solo un paio di cose. L’ambizione di un regista e di uno sceneggiatore è quella di scrivere una storia che si avvicini il più possibile alla vita, e la vita non ha mai un andamento lineare: si fanno progetti e poi, puntualmente, succede qualcosa che ci obbliga a ricominciare da un’angolazione che non avevamo previsto. Questo è alla base del lavoro di sceneggiatura di “Alza la testa” ed è anche il motivo per cui la struttura narrativa del film si presenta un po’ anarchica: inizia in un modo, poi diventa qualcos’altro, fino ad arrivare a un finale, forse, inatteso. Il film si avvale di attori molto bravi: c’è Giorgio, che è qui con noi, e Sergio Castellitto, il protagonista della storia. Alza la testa 61 GUIDo bErtAGNA S.I. Tu venivi da “L’aria salata” che ha avuto un ottimo riscontro. Si dice sempre che l’opera seconda – dopo un’opera prima ottima – è sempre la più difficile. Ci puoi raccontare un po’ la genesi di questa narrazione, come è venuta strutturandosi? ALESSANDro ANGELINI Intanto, fra i due film c’è stata la vita di mezzo: sono cambiate tante cose, sono diventato padre. Il passaggio tra i due film è stato un passaggio fondamentale, in cui ho iniziato a rivedere le priorità. Infatti mi sono accorto che prima perdevo molto tempo nei dettagli, anche minimi e inutili. Quando poi è nato il bambino la prospettiva è cambiata e sono rimasti solo gli aspetti più importanti. Tra questi, l’idea della storia di un uomo che sbaglia continuamente e trova il modo di rimettersi in piedi sempre, uno di quei personaggi che mi piace definire “con la ruggine addosso”: persone che sentono di aver ricevuto dalla vita meno di quanto gli spettasse e che quindi cercano sempre di recuperare e di rimettersi in pari, non si danno mai per vinte e sono animate da una grande energia che è un po’ anche la loro disgrazia. Così facendo, infatti, si complicano sempre di più la vita, spesso non ascoltano gli altri e hanno l’urgenza di essere sempre ascoltati. Tutto questo è alla base del personaggio di Antonio Mero. D’altro canto, il percorso narrativo che avevo in mente fin dall’inizio, era, appunto, quello di un uomo che, per riscattarsi, continua a sbagliare; che investe un ragazzino di diciassette anni – suo figlio – di troppe responsabilità e, così facendo, lo perde. Un padre che cerca, brancolando nel buio, di ritrovare quello che resta di suo figlio – il suo cuore – e incontra un’altra persona con la quale non riesce fino in fondo a legare, ma che in qualche modo lo spinge a compiere un gesto incredibile che ne esalta l’umanità, facendogli “alzare la testa” per incontrare gli occhi degli altri e capire che, come tutti, anche lui si porta dietro la sua vita fatta di sogni e ambizioni frustrate. C’è una poesia di Márquez che dice che l’unico momento in cui un uomo è autorizzato a guardarne un altro dall’alto in basso è quando gli tende una mano per aiutarlo a rialzarsi. In qualche maniera questo concetto rientra nel film, soprattutto nella seconda parte, quando Mero incontra il personaggio di Ivan-Sonia e chiaramente per lui – che è un razzista basico – questo rappresenta uno shock. Piano piano cerca comunque di avvicinarsi, pur non trovando quello che avrebbe voluto, ma 62 Alza la testa offrendogli comunque supporto e calore. Lo stesso fa Sonia con lui. Mi piaceva l’idea che in questa storia, così come nella vita, spesso le cose non si chiudano, oppure il cerchio si chiuda più avanti coinvolgendo altre persone, in questo caso una sconosciuta. All’inizio Mero si occupa solo di suo figlio, poi vorrebbe occuparsi di Ivan-Sonia: la porta al centro di riabilitazione e si improvvisa istruttore di nuoto. Il film potrebbe quasi finire lì, però mi piaceva l’idea che questa storia non si chiudesse semplicemente tra loro due, perché il percorso di crescita di questo personaggio lo porta a imparare a non trattenere lo scorrere degli eventi, a lasciarlo andare. C’è un gesto molto preciso che lui compie prima di prendere la decisione di donare gli organi del figlio: si mette il paradenti che - si diceva con Sergio Castellitto - è quasi un’ostia, qualcosa che ti rimane attaccato al palato e ti prepara a una sfida “altra”; il paradenti serve per parare i colpi e Mero ha ricevuto il colpo più duro per un padre. Alla fine, riesce ad accettare che tutto vada come deve andare, lascia che Sogna segua la sua strada e arriva a compiere un gesto che ha del miracoloso: un gesto materno – portare in neonato a questa mamma straniera e sconosciuta - perché solo le madri sanno combattere in un modo così irrazionale per il bene dei loro figli, rompendo delle barriere. Così facendo, il protagonista restituisce qualcosa anche a sua moglie che un po’ si rispecchierà nella figura di questa ragazzina che arriva da un paese lontano per dare un futuro migliore al suo bambino. GUIDo bErtAGNA S.I. Darei subito la parola al pubblico. Questo è un film che ha più livelli di lettura. Al primo impatto è anche un bel pugno nello stomaco. È interessante sentire anche qualche commento a caldo. Intanto che ci pensate, chiederei a Giorgio com’è l’inserimento in un film dove c’è un protagonista forte, ma anche un movimento importante di figure che lo sostengono e danno vitalità alla storia… GIorGIo CoLANGELI Per certi aspetti non è facile. Ricordo quante volte mi è stato chiesto come sia riuscito a interpretare il personaggio dell’ “L’aria salata”. Questo secondo ruolo non è stato più semplice solo per il fatto di aver dato vita a un personaggio minore, perché in realtà ho avuto anche meno tempo per metterlo a fuo- co e farne una cosa credibile agli occhi del pubblico. Era anche un personaggio che aveva una funzione piuttosto chiara nella storia, insieme a tutti quelli che compongono il mondo di Mero, prima che intraprenda il suo viaggio: un mondo di maschi soli, con alle spalle storie di delusione, sofferenze con donne e figli. Uomini che si danno dei rituali di vita, quasi dei surrogati per quello che gli manca, soprattutto una figura femminile. Un universo maschile e anche un po’ maschilista, di persone che si ritrovano insieme per leccarsi le ferite senza troppo aprirsi all’ambiente esterno. Io e Mero siamo soci in questo cantiere dove si costruiscono barche che però stanno lì, ferme, e che costituiscono un altro elemento per sottolineare la stasi di questo gruppo che porta avanti la sua vita, anche in maniera piuttosto dignitosa. Questo è il punto di partenza di Mero e il mio personaggio serviva a rendere più credibile l’ambiente che lo circondava. Noi attori abbiamo vissuto a stretto contatto durante la lavorazione. Abbiamo fatto “comunella” come si dice, mangiando insieme, chiacchierando: abbiamo cercato di creare delle situazioni che riproducessero quelle che dovevamo rappresentare sul set. Per me, che nel film precedente avevo avuto un ruolo molto più significativo e un rapporto con Alessandro più intenso, questo film è stato una lezione di vita, nel senso che ho dovuto prendere atto del fatto che questa volta il mio posto era un altro. Non è stato semplicissimo, ma sicuramente utile e importante. Sono molto contento di esserci riuscito, è stata una piccola conquista. In “L’aria salata” ho imparato ad avere un film sulle spalle, mentre in “Alza la testa” ho affrontato, con lealtà e onestà, un ruolo significativo anche se non da protagonista, facendo tutto il mio meglio nell’interesse del film. INtErvENto 1 Solo un’osservazione: mi sembra che la scena dell’incidente, quella che segna una rottura fra il prima e il poi nella vita di Antonio, sia stata dal punto di vista cinematografico un po’ sottovalutata. Non l’ho visto come un incidente granché credibile; il ragazzo cade dopo 30 metri con in testa il casco e muore. È stata una scelta di regia o dettata da altri motivi? Nell’importanza che poteva avere mi è sembrata un po’ debole. ALESSANDro ANGELINI Lei mette l’accento su un aspetto estremamente importante, non solo perché lì ruota e cambia il film, ma perché è stata una proprio scelta di regia: ormai siamo abituati a vedere gli incidenti come qualcosa di spettacolare e la prima idea era quella di raccontare un incidente così. Poi, però mi sono accorto che uno dei vantaggi del cinema è poter raccontare in termini diversi rispetto a quanto si vede, per esempio, in televisione o rispetto a un linguaggio immediato, secondo il quale - se un ragazzo muore – l’incidente deve essere violentissimo. Purtroppo, invece, nella vita, può succedere che l’evento più innocuo possa essere il più fatale. Mi piaceva l’idea che si potesse pensare di vedere il ragazzo rialzarsi, proprio perché cade molto lentamente e solo dopo 30 metri, però lui purtroppo non si era allacciato il casco e resta a terra. Mi sembrava fosse più giusto per la cifra stilistica di questa storia, dove non ci sono grandi effetti speciali, non sottolineare la scena che cambia il clima del film in un modo che, in realtà, non appartiene al film. Se ci fate caso, il personaggio di Castellitto è quello di un uomo che fa sempre un passo in più, rispetto a uno in meno. Sbaglia perché va sempre oltre le sue mansioni e il comune senso del rispetto delle persone. Il quel caso, fa quello che non ci si aspetta: un uomo che è abituato a fare sempre tutto in prima persona si blocca dietro un’inferriata, vedendo il figlio a terra poco distante da lui. Quindi, tutta la sequenza è giocata in maniera diversa rispetto a quella che poteva essere l’idea tipica di una narrazione filmata. Come per tutte le scelte coraggiose me ne assumo io la responsabilità: se passa bene, altrimenti è colpa mia. GIorGIo CoLANGELI Questa osservazione è emersa anche in un dibattito precedente e io credo che dipenda anche da una cultura della rimozione della morte che è in atto da diverso tempo. Ci è talmente innaturale pensare alla morte come a qualcosa che fa parte della vita, che preferiamo considerarla un’eventualità eccezionale, connessa sempre a eventi fuori dal comune. È un atteggiamento che ci rassicura. Invece, è esattamente il contrario: la morte fa talmente parte della vita che si potrebbe morire – e spesso lo si fa – in maniera molto semplice, come succede a Lorenzo col motorino. Invece ci piace pensare che la morte sia un rullo di tamburi. La fiction ce la racconta con lunghe degenze in ospedale. Si muore con agio con comodità, uno se ne accorge, lo sa da prima, magari con diagnosi di mali incurabili, a volte anche sbagliate, così che il personaggio Alza la testa 63 possa tornare a vivere normalmente. Invece, la morte è un qualcosa di semplicissimo e irreversibile. INtErvENto 2 Mi sembra che ci siano due film in uno, tra la prima e la seconda parte. Non tanto perché si passa da una situazione di spazi chiusi – le quattro corde del ring – a uno spazio indeterminato di confine, ma perché cambia il ruolo del protagonista. Mentre nella prima parte la costruzione del suo rapporto con il figlio è determinata dal suo atteggiamento di considerarlo quasi una sua proprietà, senza riconoscergli una personalità propria – che è poi la causa della tragedia – nella seconda parte il rapporto fra Mero e gli antagonisti è rovesciato: loro hanno una vita propria e lui deve considerarli come qualcosa di esterno rispetto alle sue possibilità di controllo della loro vita. Volevo chiedere se questo cambiamento di relazione con gli altri sia costruito nel film e sia un passaggio psicologico motivato e giustificato, oppure se si tratti solo di un mutamento di atteggiamento perché sono le situazioni a cambiare. ALESSANDro ANGELINI Scrivendo la sceneggiatura, abbiamo incontrato molte persone che hanno perso un familiare e deciso di donare gli organi. Abbiamo lavorato a stretto contatto con il Centro Nazionale Trapianti. Mi ha molto colpito una mamma che aveva perso la figlia, perché mentre altra gente ci aveva detto che donare gli organi e regalando a qualcun altro una nuova possibilità di vita era stato un modo per alleviare col tempo il dolore della scomparsa, questa signora aveva dichiarato che “dopo, niente è più come prima, tutto cambia”. Su questa frase abbiamo costruito una svolta totale nella storia. Antonio Mero va alla ricerca del cuore di suo figlio, lo cerca e lo trova con intorno un involucro che è un’altra persona e non è disposto a riconoscerla ed accettarla, le si avvicina solo per raccontarle la storia di suo figlio Lorenzo. Quindi, è chiaro che è perso in questa situazione e non è più in grado di decidere nulla. Quando poi si accorge di chi è Sonia – una persona molto lontana da lui – ha una sorta di shock e torna a quelli che sono i suoi strumenti: la rabbia, il senso di tradimento e delusione. Ho scritto questo film più da un punto di vista emozionale che narrativo, emozionale dal punto di vista del protagonista. Avremmo potuto inserire delle scene “semplici” dove si raccontava il dolore di questo padre che ha perso il figlio o 64 Alza la testa una discussione con la madre sulla decisione o meno di donare gli organi. Avremmo potuto mettere in scena un funerale e arrivare in maniera più omogenea alla seconda parte del film. Ma non mi sembrava giusto rispetto alla temperatura emozionale di questo personaggio, quindi abbiamo accettato delle sfide enormi, soprattutto se consideriamo che ad accettarle era un gruppo di lavoro con a capo un regista – io, non un intoccabile del cinema italiano – con alle spalle solo due film,. Però, il film è esattamente come lo volevo. Dal punto di vista emozionale questi salti mi raccontano qualcosa di estremamente vero, perché le persone sono spesso incoerenti e le scelte non possono essere spiegate fino in fondo. So di essermi permesso il lusso di aver raccontato in maniera disarticolata e quasi anarchica questa storia; però, per me il film andava girato così e credo che questa scelta appartenga al percorso di crescita di un autore: significa fare quello che si più sente e portare l’asticella delle difficoltà qualche centimetro al di sopra del lavoro precedente. INtErvENto 3 Il film è condotto molto bene, però mi resta un’incertezza se non addirittura una protesta. Il film ha una rara concisione… È vero che la scena dell’incidente stradale è concisa ma efficace come tutto il film. La sceneggiatura ha una grande coerenza. C’è questa società maschilista, forse non abbastanza rappresentata perché se aveste fatto qualche scena non solo sul ring ma anche amicale per approfondire questa solidarietà fra uomini soli, probabilmente avreste espresso anche di più quello che volevate. L’uomo che considera suo figlio una proprietà e lo offende, lo “rompe” per poi rimanere sbigottito quando si rende conto che Sonia non è una sua proprietà, perché è troppo diversa da lui, fa un percorso coerente. La mia perplessità è nella scena finale, dove sembra che quest’uomo in qualche modo si realizzi o si redima – in definitiva - con un gesto materno puramente esteriore, perché non sa nulla né vuol sapere nulla del bambino e della mamma, soltanto si culla all’idea di un nuovo nato che prenda simbolicamente il posto di Lorenzo. Quella scena inganna il pubblico, perché fa pensare a un’evoluzione psicologica che invece non c’è: il protagonista rimane identico a se stesso e ispira anche una certa antipatia, in alcuni momenti sembra una vera carogna. Allora, perché non avete portato il discorso fino in fondo, accentuando la sua coerenza spietata fino all’ultimo? ALESSANDro ANGELINI Perché non credevo che, di fronte a un dolore così grande, non ci potesse essere cambiamento da parte di una persone. Il dolore è il sentimento che più insegna agli esseri umani. Si deve sbagliare per riuscire a capire più velocemente certe cose che magari ci passano davanti agli occhi senza che ce ne accorgiamo ma, quando le subiamo con una certa potenza improvvisamente, le comprendiamo. Sembra quasi che quello che non si riesce a cogliere e interpretare solo con la testa si possa invece conoscere fino in fondo con il corpo, con la sofferenza fisica. Non credevo, allora, che una persona, di fronte a un dolore così intenso, non avesse nessun tipo di cambiamento. Penso ancora che quel gesto finale non solo restituisca qualcosa al personaggio di Mero, ma anche a quella famiglia che lui in qualche modo voleva avere. Non credo che inganni il pubblico però rispetto la sua opinione. I film sono un po’ come quelle barche che costruiscono i personaggi della storia e che poi devono prendere il mare e quindi esporsi, in questo caso al giudizio delle persone. INtErvENto 4 Vedo una sorta di specularità fra due scene: quella in cui Mero appoggia il bambino appena nato sul cuore della sua mamma e quella in cui – nella prima parte del film - nega al figlio l’emozione dell’innamoramento per curarsi solo della sua prestanza fisica e poi lo perde. È come se l’emozione che gli ha vietato di provare la restituisse attraverso questa donna, alla quale fa sentire la vicinanza e il calore del suo bambino, riportandola alla vita. ALESSANDro ANGELINI Effettivamente Mero è capace di compiere un gesto materno, di sentimento, di cuore… INtErvENto 5 La mia è una curiosità tecnica: mi sembrava di ricordare che, per legge, le equipe mediche che espiantano gli organi non sanno dove e a chi verranno rimpiantati. Ammesso che sia così, credo sia una licenza poetica l’aver potuto conoscere, a un certo punto della storia, il nome della persona che ha ricevuto il cuore di Lorenzo. Essendo una creazione narrativa, credo sia anche un escamotage per mettere in viaggio il protagonista verso altri luoghi e situazioni. È così? ALESSANDro ANGELINI Quello che dice è giusto, però in parte. Infatti è l’equipe che arriva sul posto per portare gli organi a destinazione, quindi volendo si può risalire al luogo da cui proviene. Chi decide di andare a conoscere la persona che ha ereditato, per esempio, un cuore, ricostruisce il viaggio che ha fatto l’equipe, compra i giornali locali e cerca di fare un controllo incrociato delle notizie. Nel film abbiamo accorciato questo percorso di ricerca, perché volevamo uscirne il prima possibile per mantenere a un livello alto lo smarrimento del protagonista. Fargli fare gesti così precisi come comprare dei quotidiani, mettere insieme le notizie, ritagliarle - avrebbe portato a una scansione del tempo più lunga nella sceneggiatura. È vero che c’è un segreto rispetto alla donazione degli organi, ma se i familiari sono sul posto nel momento in cui arriva l’equipe sanno da dove proviene, perché sul frigorifero che contiene l’organo risulta quasi sempre il nome dell’ospedale di provenienza. INtErvENto 6 Vorrei farle due domande. È casuale che sia un travestito ad aver ricevuto il cuore, visto che il film mette al centro l’universo maschile e guarda solo marginalmente e con ostilità quello femminile? Io temevo molto il finale, quando ho visto che Mero s’incontrava con la persona che aveva ricevuto il cuore del figlio; invece, i miei timori non si sono realizzati e ho apprezzato l’evolversi della storia. Forse l’avrei terminata con la scena della piscina. Le chiedo se la scelta di una donna alla fine del film, colta nel momento della maternità, ha anch’essa un significato preciso? Questa mamma sconosciuta che sopravviverà e Sonia vuole rappresentare una sorta di riconciliazione di un mondo tutto al maschile e isolato con l’altra parte femminile? ALESSANDro ANGELINI Sonia rappresenta la diversità, ma anche un momento di passaggio. Ho conosciuto un transessuale “in transito”, appunto, che mi ha detto di essere una persona perennemente in viaggio, da un corpo e da un sesso verso un altro e da un luogo verso un altro, perché “dove si nasce non si è quasi mai accettati e si è costretti ad andare via”. Una frase che mi ha molto colpito. Quindi, ho pensato che una persona “in transito” più di ogni altra figura poteva essere il simbolo non solo della diversità rispetto a Mero, ma anche diventare una sorta di Caronte, capace di traghettarlo da una parte all’altra della sua esistenza. Per riavvicinare il Alza la testa 65 protagonista all’universo femminile pensavo servisse una persona che fosse a “metà del guado”, che da uomo si stava trasformando in donna. In sostanza, la scelta di Sonia non è affatto casuale. Anche la donna del finale, senza un nome e senza battute nel film, quindi senza alcuna possibilità che Mero la conosca, è la figura che meglio si specchia nella moglie del protagonista. La volontà di riavvicinamento al mondo femminile c’è senza alcun dubbio. INtErvENto 7 Già in fase di scrittura del film, avevate pensato a Sergio Castellitto nel ruolo di protagonista? ALESSANDro ANGELINI Sì, Sergio è sembrato da subito l’attore più giusto: volevamo fosse romano, di quella fascia d’età, capace di dimostrarsi simpatico e antipatico anche nella stessa scena e di avere dei rovesciamenti di umore. La fortuna è stata quella di sottoporgli un soggetto e d’incontrare immediatamente il suo favore; questo ci ha facilitato anche dal punto di vista economico e di produzione del film. Lavorare con Sergio era per me anche un modo di misurarmi con un attore già affermato con cui non avevo alcun rapporto, quindi un mettermi in gioco. Giorgio invece lo considero ormai una parte integrante della “mia famiglia”, è un bravissimo attore e mi auguro che lavoreremo ancora a lungo insieme su tanti progetti che lo vedano sempre più nel ruolo di protagonista. In questo caso, sentivo di dover fare il film con un altro interprete, anche per poter dare a Giorgio, in futuro, qualcosa di diverso, dopo aver fatto io un’esperienza di crescita professionale. Mi ha rassicurato molto che lui abbia accettato di partecipare al film: intanto perché ho avuto sul set una “spalla” emotiva e familiare, poi perché - visto che i film sono pezzi di vita - mi sarebbe dispiaciuto, tra 10 o 20 anni, rivedere “Alza la testa” e non trovarvi Giorgio. GIorGIo CoLANGELI Alessandro mi colpisce molto con queste parole. Sapevo che per lui era fondamentale fare questo passo e misurarsi con un attore importante, con una presenza forte, che lo avvicinasse a una sorta di mestiere del far cinema, indipendentemente dall’essere l’autore della sceneggiatura, oltre che il regista… Anche a me sarebbe dispiaciuto non esserci in questo film, nonostante il mio fosse un ruolo minore, e sono molto felice di avervi preso parte. 66 Alza la testa I commenti del pubblico da PrEMio ANNA MArIA SCoLArI Un magnifico Castellitto. Una vicenda tragica e dolorosa ma dignitosa. oTTiMo GIUSEPPE bASILE Due film in uno, toccanti ma un po’ sopra le righe. Il primo inizia in allegria con una festa di nozze e finisce con la tragica morte del figlio del protagonista che, disperato, consente l’espianto del cuore, non per salvare un’altra vita ma con l’assurda illusione di prolungare così quella del figlio. Nel secondo, tra cupe atmosfere di confine, si narra l’incontro con il trapiantato, un fragile transessuale, e il forte sentimento, che dopo un’iniziale ripulsa, lega il protagonista a quel nuovo in qualche modo, secondo figlio, forse per un nuovo possibile futuro. Il racconto poteva finire qui. Il regista invece aggiunge un rocambolesco episodio strappalacrime che nulla aggiunge all’economia del film. Bravissimo Castellitto, intensi gli altri interpreti. Ottimamente diretto, sceneggiato e fotografato, senza quel finale assolutamente superfluo poteva essere “da premio”. SIMA tErzI Questo film mi è parso molto pregevole, sia per la sicurezza della regia che ha saputo passare in modo credibile ed efficace dalla prima alla seconda parte della vicenda, sia per l’eccezionale bravura del protagonista, Castellitto, che sa impersonare con grande forza il padre nei due opposti momenti della sua vita. Straziante il suo tentativo di conoscere e di adattarsi alla personalità del giovane che aveva ricevuto il cuore di suo figlio: esperienza, complessivamente, amara. Poetico e liberatorio, invece, per lui, il finale. BUono MALAvASI F. Ottima la prima parte, la seconda non convince. ALESSANDrA CASNAGHI Avrei girato questo film in bianco e nero, almeno fino alle scene finali, quelle in ospedale, quelle della nascita e del chiaro messaggio di speranza. Ho apprezzato la moderazione dell’interpretazione di Castellitto, solitamente un po’ sopra le righe. La mano del regista è sicura: Angelini promette bene. ELENA CHINA-bINo Anzitutto vorrei esprimere il mio apprezzamento per la generosità con cui il regista (con Giorgio Colangeli) ha raccontato il suo lavoro e ha fornito risposte esaurienti alle domande degli spettatori. Per passare alla pellicola, inizierei con un plauso ai due bravissimi protagonisti. La scenografia composita comprende diverse aree di riflessione: confronti etnici generazionali, diversità nelle scelte sessuali e solitudini. Alcuni scarti narrativi hanno, secondo me, interrotto bruscamente il racconto in diversi punti. Le scelte di sceneggiatura “ad effetto” mi paiono penalizzare il racconto. CArLA tEStorELLI Buona prestazione del regista Angelini che, nonostante affronti troppe tematiche - rapporto padre-figlio, donazione d’organi, transessuali ed extracomunitari - riesce a mantenere un buona unità stilistica, sfruttando primi piani molto significativi e permeando tutto il film con un’atmosfera cupa quasi da thriller che mantiene viva l’attenzione dello spettatore. Decisiva la presenza di Castellitto. roSA LUIGIA MALASPINA Un amore possessivo, un contrasto di sentimenti e di emozioni, un percorso di maturazione nel dolore. Un padre che non ha saputo proteggere l’oggetto del suo amore esclusivo, un uomo un po’ prevaricatore, che non concede troppa libertà, che riconosce solo il suo punto di vista e non accetta, non rispetta l’alterità, che spera quasi di ritrovare il figlio perso nella ricerca ossessiva della persona a cui è stato trapiantato il suo cuore e si trova davanti il diverso. Che è costretto ad accettare il dolore e l’altro passando, come per tappe successive, da un transessuale per approdare al femminile, inconsapevolmente sempre rifiutato frequendando solo compagnie maschili, prediligendo lo sport maschile per eccellenza della boxe, negando un gesto di compassione alla ex compagna anche nel momento della perdita del loro figlio, nel gesto finale di dare la vita a una giovane immigrata, trasportata clandesti- namente con il suo generoso aiuto, mettendole il figlio neonato in grembo sfidando le regole, gesto quasi di generazione di una nuova vita. Bravissimo Castellitto, che si adatta istrionicamente alle diverse maschere facciali. Però la risata finale, che avrebbe forse voluto essere liberatoria, mi è parsa di troppo, sopra le righe, fuori luogo. tErESA DEIANA Il film che nella prima parte disegna protagonisti e comprimari in modo eccellente, stringato e senza una sbavatura, nella seconda si trasforma in un bizzarro caleidoscopio di avvenmenti troppo colorati e al limite del grottesco. Dato che il tema “Possessività - ambizioni - frustrazioni - paterne” è svolto molto efficacemente, il film sarebbe stato perfetto se si fosse chiuso, magari, con la disperazione del padre che esclude anche fisicamente la moglie dal suo dolore rabbioso ed esclusivo. Mi è sembrato dunque un lavoro piuttosto disarmonico, come diviso in due tronconi troppo diversi, ma complessivamente buono. MArIAGrAzIA GorNI Di sicuro un film originale, capace - come “L’aria salata” - di esplorare vissuti e realtà inusuali ma non altrettanto riuscito. Mi è parsa più convincente e meglio diretta e recitata la prima parte, la seconda risulta, a mio parere, un po’ troppo forzata, ricca com’è di risvolti che vogliono “far quadrare il cerchio” a tutti i costi. Forse il film poteva finire con la scena di Ivan-Sonia che riprende a nuotare per la riabilitazione e Mero che, dietro alla vetrata, la invita a gesti ad “alzare la testa”. diScrETo MArIA SANtAMbroGIo Buona regia, ma non totalmente convincente la sceneggiatura nella parte finale. Bravo Sergio Castellitto. CArLA CASALINI Vedendo questo film, mi si è imposto il confronto con “La stanza del figlio”, il film di Moretti che qualche anno fa ha affrontato con tanta toccante sobrietà lo stesso tema atroce della perdita di un figlio, e “Alza la testa” il confronto lo perde decisamente. Il film di Alessandro Angelini costruisce con efficacia un rapporto padre-figlio dalle dinamiche malate, ma poi, dopo la morte del ragazzo, l’elaborazione del dolore passa per situazioni estreme Alza la testa 67 con qualcosa di confuso e di eccessivo: dalla sorpresa del trans in cui batte il cuore trapiantato al parto di una ragazza sconosciuta in un furgone, con quel che segue. Comunque, se è vero che il secondo film di un regista promettente è il più difficile, con Angelini possiamo contare sul terzo. PIErFrANCo StEFFENINI È un film fortemente pensato e costruito. La parte introduttiva rappresenta in modo persuasivo il rapporto tra padre e figlio, la strenua determinazione del genitore di veder realizzate nel figlio le sue aspirazioni fallite, le turbative provocate dal ritorno della madre del ragazzo e dalla comparsa di una giovane innamorata, il mondo solidale e burlesco dei compagni di lavoro del protagonista. Ma il film non mantiene le buone promesse iniziali, perché a seguito dell’improvvisa morte del figlio, primo colpo di scena di una serie di svolte melodrammatiche, il padre, superata una prima fase di completo annichilimento, consente l’espianto degli organi del defunto, riesce a incontrare il giovane cui è stato impiantato il cuore, che vedi caso è un transessuale, supera la repulsione iniziale e perviene a un radicale quanto immotivato rovesciamento di valori. Nemmeno l’istrionica e apprezzabile interpretazione di Castellitto riesce a rendere credibile l’improvvisa presa di coscienza del personaggio. Attendo il regista, persona gentile e garbata, a una prova di più forte personalità. PIErANGELA CHIESA A un titolo coinvolgente e a una locandina di grande impatto fa seguito un film diviso in due parti, senza continuità. A fronte di una prima parte anche psicologicamente perfetta (il desiderio del padre di riscattare i suoi fallimenti con il successo del figlio, la furiosa gelosia per il suo primo amore, l’impotenza davanti al dolore lacerante della sua morte e il rimorso dello schiaffo dato un attimo prima, il desiderio di sapere chi ora ha il “suo” cuore, sentimenti e atteggiamenti veri e assolutamente comprensibili) si contrappone la seconda parte, che sembra un altro film. Eccessive, isteriche tutte le reazioni di Mero, quasi grottesca la scena nella camera d’ospedale, da telenovela il finale. Anche Castellito che, nella prima parte, offre una pregevole interpretazione della figura del padre, cade, poi, in una recitazione eccessivamente gigionesca e isterica. 68 Alza la testa MEdiocrE LUISA ALbErINI Al centro una delle tragedie della nostra società: senza colpevoli. Dove le vittime sono tutte eguali e il dolore senza differenza di classe. Ma quando alla morte di un figlio si sovrappone l’urgenza di una decisione, forse ancora più drammatica, il dolore sembra costretto a un tempo di attesa. E ci si aspetta che assuma una dimensione eroica, diventi gratuita prova d’amore, si perda nella solennità di un gesto che non ha più riferimenti riconoscibili. Castellitto è troppo se stesso, troppo scomposto in una reazione irrazionale, o forse semplicemente immerso in sequenze che per ragioni cinematografiche procedono forzatamente a colpi di scena. E il riferimento a film più celebri è purtroppo inevitabile. MIrANDA MANFrEDI Film sorretto dalla recitazione di Castellitto, che interpreta bene la figura del padre che vorrebbe riscattare i suoi fallimenti attraverso un figlio vincente ad ogni costo. La seconda parte tramuta l’affetto in rimorso e delusione per il trapianto del cuore del figlio su un “trans”. Il finale dovrebbe rappresentare la vittoria dell’amore e della vita. Trama poco convincente e lacunosa nei rapporti umani, in un’Italia rappresentata nei suoi aspetti regionali più discutibili.