Racconto "L`amore per gioco"

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Racconto "L`amore per gioco"
Racconto PROGETTO ABC
L’amore per gioco
Io amavo pattinare. Ero diventata brava: sapevo andare avanti e indietro incrociando i piedi,
fare piccoli salti, disegnare ideali serpentine sul cemento liscio della pista procedendo a
ritroso con sicurezza.
Quando accaddero i fatti che sto per raccontare avevo undici anni e mezzo: era maggio, ed il
tempo buono aveva convinto mia madre a portare me e mia sorella al parco quasi tutti i
pomeriggi.
Ancora poche settimane ed avrei finito la seconda media, poi saremmo partiti per il mare
dove sarei rimasta fino a metà settembre, in un lungo periodo vuoto di impegni e compiti.
Aspettavo la fine della scuola come l’inizio di una fase ricca di promesse, perché durante la
scuola vivevo una specie di eterno coprifuoco: studio e letture occupavano la maggior parte
del pomeriggio, che doveva riservare un po’ di tempo anche al pianoforte. Dopo la cena,
alle otto, verso le nove e mezzo iniziava la mia lunga notte di riposo.
Al mare, invece, lo scendere in spiaggia due volte al giorno, la lettura di romanzi di
avventure dopo pranzo, le serate al cinema all’aperto, significavano una vita piena di
emozioni e di incontri. Mi divertiva la vita di spiaggia, in quella luce magnifica respiravo
l’aria intrisa di salsedine e mi incantavo ad osservare le persone a lungo, perché trovavo
ognuno particolarmente interessante.
In città mi sembrava di non avere il tempo di capire le persone, era come se i miei sensi
fossero ottusi dal rigore con cui dovevo affrontare i miei studi. Ero concentrata su me
stessa, sulle cose che dovevo imparare e capire, e anche i miei genitori incoraggiavano
questa specie di “isolamento” emotivo ed affettivo. Loro mi volevano proteggere dalle
delusioni , e tenersi al riparo dalle difficoltà di gestione di un’adolescente in crisi.
Un pomeriggio, verso le tre, quando la mamma aveva finito di rigovernare la cucina, e mia
sorella si era svegliata dal pisolino pomeridiano, sono uscita con i pattini, che mio padre
aveva pulito ed ingrassato. Erano quelli allungabili, con delle belle rotelle rosse ed un
grande tampone–freno sotto la punta. Ormai ero esperta, e mi piaceva anche scendere le
scale con i pattini ai piedi, percorrere il lucidissimo androne ed uscire sul marciapiede. Mia
madre mi aveva chiesto come sempre di aspettarla, prima di attraversare la strada, e mentre
stavo ferma sul cordolo del marciapiede, sull’altro lato dell’incrocio ho visto arrivare
Mattia e suo fratello Giuseppe. Erano due ragazzi che frequentavano la mia stessa scuola
media, in una classe tutta di maschi, come si usava allora. Portavano i capelli lisci e biondi,
in un caschetto sempre perfetto, tanto che credo proprio che qualcuno della loro famiglia
facesse di mestiere il parrucchiere. Erano vestiti alla moda, già indossavano jeans e
magliette, portavano vistosi occhiali di cellulosa per correggere la miopia ed avevano una
spavalderia a me poco famigliare.
Loro venivano al parco non tanto per pattinare, quanto per stare seduti a chiacchierare sulle
ringhiere che delimitavano la pista. Appollaiati con i piedi appoggiati sulla sbarra inferiore,
le mani che si alternavano per tenere l’ equilibrio mentre fumavano sigarette, parlavano con
altri ragazzi e ridevano forte, mentre guardavano distrattamente i bambini che scivolavano
sul cemento rosato e liscio con i loro pattini.
Quel pomeriggio in pista c’erano tre bambini di cinque o sei anni, due ragazzine poco più
piccole di me e Gianluca, un mio vicino di casa di un anno più giovane, che vedevo
raramente perché era malato di diabete e la sua mamma lo teneva molto riguardato, anche se
pattinava piuttosto bene: io mi sentivo padrona della pista, perché potevo andare veloce
mentre gli altri procedevano con difficoltà vicino alla ringhiera; solo io e Gianluca
dovevamo stare attenti a non incrociarci. Pattinavo con impegno, spingevo con forza sulle
gambe e mi godevo l’aria tiepida sulla faccia, evitando di guardare verso Mattia e suo
fratello perché temevo che ridessero di me.
Certo! Portavo degli orrendi occhiali di finta tartaruga, che non mi fidavo a togliere per non
perdere il controllo sul mondo circostante. Soltanto al mare stavo giornate intere senza
metterli, perché in acqua non mi servivano e sulla spiaggia mi muovevo con sicurezza sui
percorsi conosciuti incontrando le solite persone.
Qui no, volevo essere sicura di tenere d’occhio la mamma e la mia sorellina, ma soprattutto
quei ragazzi poco più grandi di me che mi piacevano tantissimo, ma che intuivo
profondamente estranei.
Qualche volta avevo sognato che Mattia mi rivolgesse la parola con tenerezza,
dimostrandomi che per lui ero importante: mi svegliavo sorpresa e così felice che speravo
per un po’ di giorni che succedesse. Ma puntualmente lui procedeva dritto per la sua strada,
chiacchierando con suo fratello e con i suoi amici, e raggiungeva la scuola assolutamente
ignaro della mia presenza.
Ero mortificata ogni volta che lo incontravo, ma quel pomeriggio poteva essere
un’occasione per fargli vedere come ero abile a pattinare e forse questo sarebbe valso
qualcosa nella nostra amicizia impossibile. Così continuai a pattinare, godendomi la mia
maestria ed il delizioso tepore della giornata, fino a quando, passando a ritroso vicino al
gruppo di ragazzi appollaiati sul recinto, mi sentii apostrofare proprio da Mattia con un
“Ehi, tu, vieni un po’ qui!”. Avevo capito benissimo che stava parlando con me, ma feci
apposta a fare finta di niente. Il cuore mi batteva forte, ma mi sentivo umiliata da tanta
mancanza di delicatezza. Avrebbe potuto avvicinarsi pattinando, mettersi a giocare ad
incrociarsi, chiedermi come mi chiamassi e presentarsi.
Invece mi richiamò ancora, nello stesso modo, alzando la voce e restando in attesa della mia
reazione con un atteggiamento arrogante. Suo fratello e gli altri ragazzi mi guardavano,
anche loro con aria di superiorità.
Mi avvicinai balbettando: “Dici a me?”
“Sì, proprio a te. Ma sei sorda per caso?”
“No, ma mi sembrava strano che mi chiamassi” risposi,” noi non ci conosciamo”
“ Ma da quando per parlarsi bisogna conoscersi già? Ti stiamo guardando pattinare da un
po’ ”, disse con una voce quasi dolce, aggiustandosi la frangia biondissima con una
scuotimento della testa. “Come ti chiami?”
Mi sentivo confusa, come sull’orlo di un abisso. Non mi fidavo né di lui né degli altri, ma
era inutile dargli un nome inventato, perché lo avrebbe scoperto appena mia madre mi
avesse chiamato per un qualsiasi motivo.
“Mi chiamo Marina, e tu?”
“Io sono Mattia, lui è mio fratello Giuseppe, poi c’è Luca, Salvatore, Luigi e Antonio.”
Io sapevo già i nomi dei due fratelli perché ero stata attenta quando davanti a scuola li avevo
sentiti salutare dai loro compagni, mentre lui credo che mi stesse guardando veramente solo
allora.
Pensavo che forse avrei potuto indossare una camicetta più carina e i pantaloni di cotone
rossi non ero proprio sicura che mi stessero bene. I capelli non li avevo ancora tagliati,
quindi avevo un caschetto di riccioli molli tenuti via dalla fronte da una semplice forcina.
Gli occhiali, che di sicuro non mi abbellivano, completavano il quadro.
“Ce l’hai il ragazzo? “ riprese con aria di sfida,” una carina come te dovrebbe proprio
averlo, non è vero?”
Mi rendevo conto che ormai la conversazione sarebbe stata terribile, perché stavamo
andando su un piano a me sconosciuto, e l’aria di canzonatura era evidente.
“No, non ce l’ho. Sono molto impegnata con lo studio ed il pianoforte” aggiunsi con enfasi,
anche se capivo che per loro ciò che dicevo era senza significato.
“Chi di noi ti piacerebbe?” disse con un’aria quasi seria.
“Ma, non lo so, credo nessuno” replicai con la voce smorzata dall’emozione.
Come potevo dire che molte volte avevo sperato almeno in uno sguardo proprio da parte
sua, che ora mi stava parlando in quel modo? Come potevo non tradire l’emozione che mi
stava facendo rispondere sicuramente nel modo sbagliato?
“Come nessuno? Siamo in sei, e per questa sera vedrai che anche tu avrai il tuo ragazzo!”,
esclamò con energia Mattia, che stava pensando probabilmente come divertirsi un po’ con
una ragazzina ignara della vita dei grandi e che lo stava innervosendo con le sue risposte di
difesa.
“Allora, vediamo un po’: hai mai baciato un ragazzo? Perché, vedi, è importantissimo per
noi sapere se tu sei un po’ esperta di queste cose, per non trovarci delle sorprese”. Disse
queste parole con uno sguardo da uomo esperto delle faccende amorose ed a me il senso di
disagio aumentava ad ogni respiro. Volevo tornare a pattinare, ma mi sembrava una vera e
propria resa allontanarmi senza aver concluso quella conversazione.
“Ma a te perché interessano queste cose? Prima si diventa amici e poi magari ci si fidanza,
no? Nessuno di voi è mio amico“: la mia logica nata sui libri di avventura e sulle Favole
italiane di Calvino prese il sopravvento. Pensai di poter fare leva sulla presunta superiorità
fisica dei maschi e li provocai, invitandoli a pattinare tutti insieme. “Perché non pattiniamo
un po’?”
“Noi non abbiamo voglia di pattinare, ci interessa invece risolvere questa questione del tuo
ragazzo”; mentre Mattia parlava a nome del gruppo, gli altri lo ascoltavano divertiti ma
seri, in attesa di vedere come il cappio si sarebbe stretto intorno al mio collo.
“Noi facciamo la prova del bacio prima di accettare una ragazza nel nostro gruppo, e
naturalmente la prendiamo soltanto se è brava. Se ti vuoi esercitare con uno di noi potete
andare nei cespugli di biancospino, lì non vi vedrebbe nessuno. Salvatore è molto bravo ad
insegnare alle ragazze inesperte. Togliti i pattini, lasciali qui, noi vi aspettiamo”.
Ma cosa stava succedendo? Come eravamo arrivati a quel punto? Dovevo fare marcia
indietro, e la scusa del controllo di mia madre poteva funzionare perfettamente.
“Ma io non mi posso allontanare, la mamma non me lo permette. Mi deve sempre poter
vedere. “ Risposi d’un fiato, per prendere tempo e pensare a qualche altra motivazione più
forte da opporre a tanta tracotanza.
“Figurati, non puoi nemmeno fare il giro del parco, dunque? “ disse con forza, quasi con
rabbia, perché il loro piano di canzonatura mostrava difficoltà impreviste, e rischiavano di
non avere nulla su cui ridere il giorno dopo a scuola.
“No non posso, anzi si starà anche chiedendo perché non mi vede in movimento sulla pista.
Poi io mi devo allenare perché sabato ho una gara al mare”, mi inventai per svincolarmi da
quella morsa inaspettata.
“Quindi non hai nemmeno cinque minuti per esercitarti in una cosa così importante come
saper baciare?” la sua voce era diventata dura e lo sguardo mi esaminava spietatamente.
Decise di essere sincero e per me fu difficile resistere al dolore che mi provocava.
“ Noi ti volevamo aiutare, perché sembri già vecchia con quella ruga in mezzo alla fronte,
e quel neo sul mento che sembra quello della Befana” sibilò godendosi in anticipo le
lacrime che sicuramente avrebbero provocato le sue parole.
In effetti la mia fronte era attraversata da una sottilissima ruga perfettamente orizzontale
alle sopracciglia, che erano unite tra loro da una leggera peluria. Il mio mento aveva un neo
color nocciola grande come una lenticchia sul lato destro, in una posizione visibile di fronte
per metà, perché tutto il neo si vedeva soltanto se alzavo la testa. Non mi deturpava il viso,
che aveva anche qualche efelide sul naso ed una bella pelle, senza foruncoli e particolari
impurità. Perfino i denti erano quasi a posto, grazie all’apparecchio che portavo di notte.
Mi chiedevo perché mi stesse umiliando in quel modo: io non volevo baciare nessuno di
loro, e tantomeno Mattia, che si era rivelato crudele nel suo chiaro tentativo di prendersi
gioco di me.
Io avevo risposto quando mi avevano chiamato, perché speravo di potermi guadagnare un
amico. Pensavo alle ragazze che si facevano trattare così: come potevano accettarlo? Forse
anche le mie compagne di classe, come la Francolini, che aveva la “compagnia” nella via
dove abitava, aveva subito un’umiliazione del genere. Beh, lei era “carina”, aveva lunghi
capelli castani fino a mezza schiena che portava sciolti, gambe lunghe e fianchi stretti. Non
andava bene a scuola ma la sua mamma le permetteva di venire con gli short di jeans sotto il
grembiule nero. Anche a lei era stata chiesta la prova del bacio?
Con questi pensieri in testa trovai la forza di reagire: ”Chi ti ha chiesto niente? Sei stato tu a
chiamarmi ed io credevo per fare amicizia!”
“Sì, certo, per fare amicizia! Noi abbiamo una quantità enorme di amiche, non avevamo di
sicuro bisogno di te! Pensavo di aiutarti, perché ti vedo sempre venire a scuola da sola, così
con un ragazzo sarebbe stato diverso, non credi?”
Allora mi aveva visto, era da tempo che mi conosceva, ma mi disprezzava così tanto da
parlarmi in quel modo. “Senti, io ti devo anche dire un’altra cosa,”continuò, ”perché metti
questi orrendi pantaloni rossi? Lavori in un circo per caso? Dì a tua mamma di comprarti
qualcosa d’altro, dai!”
Concluse l’attacco guardando compiaciuto gli altri ragazzi che forse non si aspettavano un
affondo così grave, e tra l’incredulo ed il divertito, iniziarono a scherzare a voce bassa tra di
loro, continuando a fumare.
Io non sapevo più come rispondere, mi sentivo brutta e malvestita. Non importava quanto
sapessi suonare bene le invenzioni a due voci di Bach, né come fossi brava a governare la
barca di mio padre: lì ero inchiodata al mio aspetto, giudicato sgradevole da un gruppo di
adolescenti impudenti.
In silenzio mi sistemai la camicetta sulle braccia, arrotolando con cura le maniche fin oltre il
gomito, in silenzio riaggiustai la forcina che teneva i capelli tirati da una parte, ed
accarezzandomi il neo, raccolsi tutte le mie forze e dissi: “A me le cose che avete detto non
importano, perché non sono vere; niente è vero! Volevate soltanto prendermi in giro e basta.
Io vengo a scuola da sola perché non ho bisogno di accompagnatori, non ho paura e non mi
sento affatto sola. E per quanto riguarda i vestiti, a me piace il rosso, e l’ho chiesto io a mia
madre di comprarmi questi pantaloni. E adesso vado a pattinare, ciao!”
Invece mi sentivo offesa, piena di rabbia, orripilante.
Loro si erano già interessati ad altri discorsi. Credo che non avessero sentito che qualche
parola della mia risposta, infatti nessuno mi salutò.
Mattia si era rivelato in tutta la sua adolescenza brutale, alimentata dalla grande autonomia
che la sua famiglia gli concedeva, e che non conosceva il rispetto per chi è ancora custodito
come un cucciolo all’interno del recinto familiare.
Quando mia madre mi chiamò per rientrare a casa stavo pattinando da quasi un’ora con
un’energia potente che non mi faceva sentire la fatica. Pensavo a quelle parole pesanti,
indimenticabili, che avrebbero contato molto nella mia vita. La decisione di reagire era
scaturita dalla ribellione ad una sofferenza così acuta che non potevo tollerare.
Raggiunta la panchina dove mi aspettavano la mamma e mia sorella, tolsi i pattini e mentre
ci avviavamo verso casa, Martina prese con la sua piccola mano la mia mano libera, e quel
contatto pieno di fiducia mi consolò immensamente.
Non parlai mai a mia madre di quella conversazione, ma presto anche io avrei imparato a
giocare con i sentimenti altrui: avrei sperimentato con accanimento l’amore per gioco.