Crisi e fine della repubblica

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Crisi e fine della repubblica
Costituzione e privilegio aristocratico: le riforme sillane
Silla dittatore. Rimasto padrone del campo, Silla si fece assegnare a tempo indeterminato la carica di
dittatore per la riforma dello stato. Era una carica inesistente, dato che la dittatura poteva durare al
massimo sei mesi e si legava a gravi emergenze, non certo a scopi di riforma politica. Ma Silla voleva piena
libertà di manovra per mettere in atto il suo programma politico e la dittatura, annullando i poteri dì tutte le
altre magistrature, era l'unica carica in grado di assicurargli questa libertà. Siila rimase dittatore per tre anni,
dall'82 all'80 a.C, durante i quali perseguì con coerenza e spietatezza l'obiettivo di rendere immodificabile il
potere dell'aristocrazia senatoria, eliminando qualsiasi altra autorità che potesse minacciarlo o indebolirlo.
Le liste di proscrizione. Anzitutto, Silla si liberò degli avversari politici attraverso le liste di proscrizione, e
cioè elenchi di nemici dello stato, che chiunque poteva uccidere impunemente, anzi ricevendo una
ricompensa. La licenza di uccidere si estendeva agli schiavi nei confronti dei loro padroni e ai figli verso i
propri padri. La vendetta di Silla investì persino i figli dei proscritti, che venivano privati del loro patrimonio
e del diritto di accedere alle cariche pubbliche.
Nelle liste furono inserite anche persone la cui unica colpa era di possedere ingenti ricchezze: i beni dei
proscritti venivano infatti ceduti all'asta al miglior offerente, e molti patrimoni nobiliari tardorepubblicani
ebbero questa origine. Assai bersagliato fu il ceto dei cavalieri, che aveva più volte simpatizzato con Mario
nei decenni passati, mentre dai massacri uscì quasi indenne, com'è ovvio, l'aristocrazia senatoria, la
principale beneficiaria delle riforme sillane.
La limitazione del potere dei tribuni. Liberatosi degli avversari, Silla procedette alle riforme vere e
proprie. Nei cinquant'anni precedenti, le minacce al potere dell'oligarchia erano venute soprattutto dai tribuni
della plebe. Ebbene, il dittatore decapitò i poteri dei tribuni, stabilendo che le loro proposte di legge
dovevano passare al vaglio del senato, prima di essere approvate dai concili della plebe, e inoltre rendendo
poco attraente la carica di tribuno, perché chi la ricopriva non poteva più proseguire la carriera politica. I
popolari perdevano così l'arma più temibile, quella che dai Gracchi a Saturnino a Druso aveva rappresentato
il più efficace strumento di pressione contro l'oligarchia ottimate.
Silla stabilì anche l'obbligo per i comandanti di congedare gli eserciti non appena giunti in Italia, i cui
confini vennero fatti coincidere con l'intera penisola, a eccezione della pianura padana. A nessuno sarebbe
più stato possibile, almeno legalmente, quello che lo stesso Siila aveva fatto due volte: marciare in armi
contro Roma.
Il rafforzamento del senato. Un'altra norma vietò la rielezione al consolato prima che fossero trascorsi
almeno dieci anni dal consolato precedente: situazioni come quella di Mario, che era stato console per
cinque anni di seguito, diventavano da allora in avanti illegali. Silla inoltre ridefinì l'intero assetto della
carriera politica, fissando l'obbligo di ricoprire la questura e la pretura prima di potersi candidare al consolato; anche in questo caso l'obiettivo era di evitare carriere "facili" e di controllare meglio l'accesso alle
magistrature maggiori.
In compenso, l'accesso in senato venne esteso ai magistrati minori, a partire dai questori. Fu quindi
necessario ampliare il numero dei senatori, che passò da 300 a 600; tra l'altro, Silla mise nuovamente nelle
mani dei senatori il pieno controllo dei processi intentati contro i governatori di provincia.
Il ritiro dalla vita politica. Completate le sue riforme, Silla depose spontaneamente la dittatura e si ritirò a
vita privata. Morì subito dopo, nel 78 a.C. Era convinto di aver consolidato in modo duraturo il potere della
sua classe: una convinzione che gli eventi degli anni successivi dimostreranno profondamente sbagliata.
Roma nell'epoca di Pompeo e di Crasso
Due nuovi uomini forti per Roma
All’ombra di Silla. Quando Silla era ancora un brillante generale impegnato a reprimere la rivolta degli
italici e, più tardi, negli anni di piombo delle proscrizioni e della dittatura, si segnalarono al suo fianco due
giovani rampolli dell'aristocrazia conservatrice, Gneo Pompeo (106-48 a.C.) e Marco Licinio Crasso (115-53
a.C). Pompeo colpì l'immaginazione dei contemporanei perché quando nell'82 a.C. Silla, tornato dall'Oriente,
si accingeva a marciare contro i mariani, arruolò un esercito personale mettendolo a disposizione del futuro
dittatore; durante la dittatura Pompeo ricevette il trionfo e il soprannome di "Magno". Crasso si arricchì
sfacciatamente attraverso le proscrizioni, al punto che a Roma lo chiamavano semplicemente Dives, "il
Ricco". Questi due uomini dal passato torbido furono tra i protagonisti dei successivi decenni di storia
repubblicana.
Pompeo contro i mariani in Spagna. Anche se Mario e Silla erano morti, negli anni settanta restavano
attivi i generali che avevano combattuto con loro nella guerra civile. Già abbiamo ricordato che un
consistente gruppo di mariani, fuggiti da Roma all'epoca delle proscrizioni, aveva trovato rifugio in Spagna.
Questi fuoriusciti, guidati da un ex ufficiale di Mario, Sertorio, diedero vita a una specie di guerra privata
contro lo stato centrale, anche con l'appoggio delle popolazioni iberiche, mai del tutto pacificate.
Dopo la morte di Silla si decise di liquidare quest'ultimo focolaio di resistenza mariana. Era un compito
tutt'altro che facile, perché la Spagna era sempre stata un osso duro per i generali romani: venne affidato a
Pompeo, sillano della prima ora e già con una breve ma brillante carriera militare al suo attivo. La guerra fu
aspra, come previsto, durò dal 76 al 72 a.C. e fu vinta solo grazie al tradimento di uno degli uomini di
Sertorio.
Spartaco e la rivolta degli schiavi. Intanto, alla fine del 74 a.C. la fuga di un gruppo di schiavi dalla scuola
di addestramento per gladiatori di Capua si era trasformata in una vera e propria guerra. Guidato dall'abile
Spartaco, un gladiatore originario della Tracia, il gruppo degli schiavi si ingrossò fino a diventare un vero e
proprio esercito, che impegnò le truppe consolari per tre anni e le sconfisse ripetutamente. Alla fine fu
Crasso a infliggere agli schiavi la sconfitta definitiva, nel 71 a.C: gli uomini di Spartaco furono massacrati, i
superstiti, circa seimila, vennero crocifissi lungo la via Appia che collegava Capua a Roma; un altro gruppo,
che era riuscito a sfuggire a Crasso, fu intercettato dall'esercito di Pompeo che tornava dalla Spagna e
annientato.
Un chiaro segno della considerazione in cui erano tenuti gli schiavi è il fatto che Crasso non chiese al senato
il trionfo o altri riconoscimenti per la sua vittoria: come spiega un antico biografo, era «ignobile e poco
decoroso trionfare per una guerra contro degli schiavi».
Il consolato di Pompeo e Crasso. Tornati a Roma vittoriosi, Pompeo e Crasso potevano ormai aspirare a un
ruolo politico di primo piano, e infatti furono entrambi eletti al consolato per Tanno 70 a.C.
I consoli smantellarono gli aspetti più odiosi della costituzione sillana: in particolare, restituirono ai tribuni le
prerogative che erano state loro sottratte e reintrodussero i cavalieri nelle giurie incaricate di giudicare i reati
di malgoverno nelle province. I due ex sillani di ferro avevano capito che, per governare, occorreva il
consenso di gruppi sociali più ampi di quelli a cui si era rivolto Siila, cioè di fatto la sola aristocrazìa
senatoria.
L'ascesa di Pompeo
Il processo a Verre. L'anno del consolato di Pompeo e Crasso passò alla storia anche per un processo che
tenne con il fiato sospeso l'intera cittadinanza. L'imputato era l'ex governatore della Sicilia Gaio Verre, che
durante il suo incarico aveva commesso innumerevoli abusi e accumulato un'immensa fortuna personale. Gli
accusatori erano i siciliani stessi, i cui interessi erano difesi da un giovane avvocato e politico emergente,
destinato a un grande futuro, Marco Tullio Cicerone.
La posta in gioco del processo non era tanto la sorte di Verre, quanto l'efficacia della riforma che aveva
riammesso i cavalieri nelle giurie dei tribunali. Una giuria di soli senatori avrebbe probabilmente assolto l'ex
governatore, mentre il tribunale riformato lo condannò: per il ceto equestre (al quale apparteneva lo stesso
Cicerone) fu una vittoria politica prima ancora che giuridica.
Il nuovo assetto in Oriente
Province romane (arancio)
Stati vassalli romani (giallo)
Regni indipendenti (verde)
La carta illustra come Pompeo operò per
sistemare definitivamente l'area orientale del
territorio romano. Il Regno di Mitridate venne
smembrato: la regione orientale fu annessa al
Regno di Galazia, quella occidentale fu aggregata
alla provincia di Bitinia. Venne creata la
provincia di Siria, cui furono annessi molti
territori del Regno giudaico. Anche la Cilicia,
infine, divenne provincia romana. Per difendere
i confini delle nuove province, Pompeo creò
una linea di "stati-cuscinetto" -Galazia, Cappadocia, Giudea, Armenia e Colchide-il cui
governo fu affidato a sovrani fedeli a Roma.
Tale modello sarà
mantenuto anche in età
imperiale.
L'operazione contro i pirati. Nel
corso degli anni sessanta Pompeo continuò a tessere la trama della politica romana. Tenne una posizione
equidistante fra ottimati e popolari, fra aristocrazia e cavalieri: l'ex console mirava a consolidare il suo
prestigio e la sua influenza politica, e a questo scopo riteneva opportuno non farsi troppi nemici. Nel 67 a.C.
il senato gli assegnò un comando speciale per la lotta contro i pirati, i quali, aggredendo i convogli
commerciali in viaggio attraverso il Mediterraneo, danneggiavano tanto gli interessi dei cavalieri, che
gestivano i grandi traffici internazionali, quanto quelli della plebe, dato che molte delle navi depredate
trasportavano verso Roma grano e generi alimentari di prima necessità. Pompeo ebbe il controllo totale delle
forze navali romane e di un esercito molto consistente, grazie ai quali riuscì a stroncare l'attività dei pirati nel
giro di poche settimane.
La campagna in Asia Minore. Sull'onda di questo brillante successo, nel 66 a.C. Pompeo ottenne il
comando della guerra contro Mitridate VI, il re del Ponto da tempo nemico di Roma. Dopo la tregua
conclusa ormai parecchi anni prima da Siila, infatti, Mitridate aveva rilanciato la sua politica antiromana e la
guerra si era riaccesa. Questa volta Pompeo impiegò tre anni a recuperare i territori asiatici occupati da Mitridate, e infine lo costrinse alla fuga e a darsi la morte.
Il risultato della campagna in Oriente di Pompeo non fu solo la sconfitta di un vecchio e pericoloso
avversario. Sfruttando il proprio carisma e i pieni poteri di cui era dotato, Pompeo volle anche dare un
assetto politico stabile a tutta l'area mediorientale, nella quale l'egemonia romana non appariva ancora
consolidata. Alcuni territori furono strutturati da Pompeo in forma di provincia, come la Siria e la Cilicia;
in altri casi Pompeo preferì insediare sovrani locali graditi a Roma e, naturalmente, legati da un rapporto
personale di gratitudine a Pompeo, cui dovevano il loro potere (è il caso della Palestina). Direttamente o
indirettamente, Roma ottenne così il controllo di un'area vasta ed economicamente molto ricca, che dalle
sponde del Mediterraneo giungeva fino all'alto corso del fiume Eufrate.
Il ritorno in Italia. Nel 62 a.C. l'esercito di Pompeo, carico di gloria e di bottino, sbarcò a Brindisi. Fu
inevitabile ritornare con la memoria a vent'anni prima, quando da quello stesso porto Siila, reduce anch'egli
dalla campagna contro Mitridate, era partito alla conquista di Roma. Ma Pompeo ritenne politicamente più
utile rispettare, in questo caso, le norme sillane, che imponevano ai generali di sciogliere i loro eserciti non
appena toccato il suolo italico. Le sue uniche richieste al senato furono l'assegnazione di terre ai soldati che
avevano preso parte alla campagna e la conferma dei provvedimenti da lui assunti in Oriente.
In questa circostanza l'aristocrazia ottimate dimostrò ancora una volta la propria miopia politica. Il gesto di
congedare l'esercito fu preso per un atto di debolezza e gli aristocratici, che credevano di aver usato Pompeo
per il "lavoro sporco" della guerra contro i pirati e contro Mitridate, si illudevano ora di liquidarlo senza
troppi complimenti. Un calcolo politico assai lontano dalla realtà, come vedremo.
Vita e carriera di Cesare: l’ascesa politica
La repubblica da riformare
Le origini familiari. Gaio Giulio Cesare nacque a Roma nel 100 a.C. La gens Iulia, a cui apparteneva, si
vantava di discendere da Enea, il mitico progenitore di Romolo, e per suo tramite dalla dea Venere. Ma
Cesare era anche nipote di Gaio Mario, e questo ne faceva quasi naturalmente un esponente della parte
popolare. Nell'83 a.C. ebbe il coraggio di sposare la figlia di Cornelio Cinna, uno dei mariani che avevano
governato Roma mentre Siila era impegnato in Oriente: e quando Siila instaurò il proprio regime personale,
Cesare fu costretto a nascondersi e a cambiare rifugio ogni notte, braccato dai sicari del dittatore.
Le prime cariche. Negli anni sessanta Cesare iniziò a percorrere la carriera politica, tenendosi a stretto
contatto con i due massimi leader del momento, Pompeo e Crasso. Nel 69 a.C. lo troviamo questore in
Spagna; due anni dopo fu tra coloro che sostennero l'attribuzione a Pompeo del comando straordinario
contro i pirati, un sostegno che rinnovò nel 66 a.C. per la guerra contro Mitridate. Queste amicizie importanti, la nobiltà di nascita e un uso alquanto disinvolto della corruzione gli consentirono negli anni
successivi di proseguire piuttosto velocemente la carriera politica; tra l'altro, nel 63 a.C. divenne pontefice
massimo.
Era l'anno della congiura di Catilina, un piano eversivo di cui Cesare, insieme a Crasso, era a conoscenza e,
forse, complice. Un primo progetto di congiura prevedeva che Crasso assumesse la dittatura e che Cesare
diventasse il suo vice. Ma su questi risvolti oscuri della sua carriera siamo poco informati: giunto al potere,
infatti, Cesare fece cancellare accuratamente ogni traccia del suo passato "rivoluzionario".
Un progetto per Roma. Cesare si convinse molto presto che il sistema politico romano necessitava di
riforme profonde, ma che tali riforme non erano realizzabili attraverso i normali strumenti della lotta
politica. L'aristocrazia ottimate era troppo compatta e potente per accettare di rinunciare, anche solo in
parte, al proprio potere e ai propri privilegi: lo dimostravano i cinquant'anni di sangue che andavano dall'uccisione di Tiberio Gracco alla dittatura di Siila.
La lezione che Cesare trasse dalla storia recente di Roma fu, dunque, che le riforme si potevano varare
soltanto attraverso un potere forte: in altre parole, era necessario contrapporre alla dittatura ultraoligarchica di Siila una dittatura democratica, come è stata definita. Certo, un programma del genere
soddisfaceva anzitutto il desiderio di potere di Cesare; ma era anche, a giudizio dello stesso Cesare, l'unico
strumento per realizzare le trasformazioni strutturali e non più rinviabili dello stato. Dalla fine degli anni
sessanta tutta la carriera di Cesare fu contrassegnata dallo sforzo di costruire, tassello dopo tassello, questo
potere.
Il primo triumvirato e il consolato
L'accordo segreto. Abbiamo lasciato Pompeo nel momento in cui si vide respinte dal senato le richieste di
terre per i suoi veterani e di ratifica dei provvedimenti assunti in Oriente. La tensione che seguì a questo
rifiuto era alta quando Cesare, nel 60 a.C, si preparava a concorrere per il consolato. In questa atmosfera
minacciosa, Cesare avanzò una proposta senza precedenti: stringere un accordo segreto fra se stesso,
Pompeo e Crasso, allo scopo di spartirsi le cariche politiche e di controllare, rimanendo dietro le quinte, il
governo dello stato. La proposta venne accolta e l'accordo passò alla storia con il nome di primo
triumvirato.
Cesare diventa console. Fu così che, grazie all'appoggio di Pompeo (molto influente presso i suoi ex
soldati) e di Crasso (ricchissimo esponente degli ambienti economico-finanziari), Cesare venne eletto
console per il 59 a.C. Assunta la massima carica, varò una serie di provvedimenti che diedero corso agli
accordi presi con gli altri due triumviri:
•
fece espropriare le terre da distribuire ai veterani di Pompeo e ratificare la sistemazione da lui data alle
conquiste orientali;
•
|favorì i pubblicani (gli esattori delle tasse nelle province), un ceto a cui Crasso era molto legato,
riducendo la somma che dovevano versare allo stato e quindi aumentando i loro margini di guadagno;
•
per se stesso, infine, Cesare ottenne, a partire dal 58 a.C. e per la durata di cinque anni, il governo della
Gallia Cisalpina, dell'Illirico ♦ e della Gallia Narbonese, la provincia che coincideva con la fascia
mediterranea dell'odierna Francia.
Una scelta insolita. A Roma, il momento dell'assegnazione delle province vedeva di solito una corsa
all'accaparramento dei territori più ricchi, ovvero le regioni orientali. Arricchirsi estorcendo denaro ai
provinciali era ritenuta una prassi quasi normale per un governatore, che in questo modo compensava le
ingenti spese sostenute nella campagna elettorale o nell'esercizio della magistratura a Roma; e, naturalmente,
più la provincia era ricca, maggiore poteva essere il vantaggio per chi la governava. Perché allora Cesare si
fece assegnare un territorio come la Gallia Narbonese, economicamente depresso e politicamente quasi
insignificante?
Dietro questa scelta, che a molti sembrò incomprensibile, si nascondeva un progetto lucidissimo. Partendo
dalla Narbonese, Cesare intendeva lanciare un'operazione di conquista in grande stile in direzione della
Gallia centrale e settentrionale, un'area enorme, ma poco popolata e militarmente debole. A sua volta, da
questa operazione Cesare si riprometteva di ricavare diversi vantaggi.
Anzitutto un beneficio in termini di immagine, perché, in caso di successo, il suo prestigio politico-militare
sarebbe salito alle stelle, tanto da eguagliare quello di Pompeo. Inoltre una lunga campagna militare avrebbe
offerto la possibilità di costruire un rapporto molto stretto con le proprie legioni e, alla fine della guerra,
Cesare poteva prevedere di avere un esercito esperto e fedele, ponendosi anche da questo punto di vista su un
piano di parità rispetto a Pompeo.
Due avversari: Cicerone, Catone il Giovane. Ottenute dunque le province che desiderava, nella primavera
del 58 a.C. Cesare si accinse a lasciare Roma per raggiungere i territori della Gallia. Prima, però, volle
liberarsi di due avversari politici che in sua assenza avrebbero potuto tramare contro di lui. Il primo era
Cicerone, il quale era stato console l'anno della congiura di Catilina e probabilmente conosceva i retroscena
di quel fallito colpo di stato, compresa la sua complicità: un segreto che scottava, uno "scheletro
nell'armadio", che Cicerone poteva tirare fuori al momento opportuno e e usare contro il suo avversario.
L'altro oppositore che preoccupava Cesare era Catone il Giovane, difensore inflessibile dell'aristocrazia e del
suo governo, e dunque sostenitore di quel regime che Cesare si preparava, nel lungo periodo, ad abbattere.
Cesare non agì personalmente contro i due avversari e affidò invece la faccenda a Publio Clodio, un nobile
passato dalla parte dei popolari e dotato di largo seguito fra gli strati più bassi della plebe urbana. Clodio,
eletto tribuno della plebe in quello stesso 58 a.C, riuscì a mandare in esilio Cicerone, mentre Catone venne
inviato a governare l'isola di Cipro, appena passata dagli egiziani a Roma: apparentemente un onore, in realtà
un modo per tenere l'implacabile anticesariano lontano quanto bastava dalla vita politica.
Cesare il conquistatore
La campagna di Gallia
Un immenso territorio da conquistare. La Gallia, come si è detto, era un territorio immenso, delimitato a
nord dal canale della Manica, a est dal fiume Reno, che divideva i galli dai germani, e ad ovest dall'oceano.
Di questa vastissima area i romani controllavano, come sappiamo, solo la fascia costiera mediterranea; con i
popoli dell'interno esistevano rapporti commerciali e qualche isolato contatto politico-diplomatico, nulla di
più. Sulla carta, la conquista della Gallia interna si presentava come un compito non troppo impegnativo.
Sembrava confermarlo soprattutto il fatto che i galli, omogenei sul piano linguistico e religioso, apparivano
invece divisi sul piano politico da profonde lacerazioni e rivalità interne.
Il primo atto: lo sterminio degli elvezi. Il comando assegnato a Cesare non prevedeva lo sconfinamento
fuori della Gallia Narbonese, né era pensabile che Cesare attaccasse a freddo, senza ragioni plausibili. Per
scatenare l'offensiva gli serviva quindi un pretesto, che non fu difficile trovare nella fluida situazione delle
irrequiete tribù celtiche. Gli elvezi, stanziati nell'attuale Svizzera, sotto la pressione di tribù germaniche avevano stabilito di trasferirsi più a ovest. Per fare questo dovevano transitare per la provincia romana e Cesare
non si lasciò sfuggire l'occasione. Dapprima negò agli elvezi il permesso di transito, obbligandoli ad
affrontare un percorso alternativo, molto più lungo e disagevole; quando poi, seguendo il percorso indicato,
gli elvezi dovettero attraversare il territorio degli edui, alleati di Roma, Cesare li aggredì con il pretesto di
difendere gli edui. Nel corso di una sola battaglia, combattuta nell'estate del 58 a.C, gli elvezi vennero
praticamente sterminati. È lo stesso Cesare a informarci di questo genocidio, parlando di 260000 vittime su
un totale di 370000 elvezi partiti dai loro territori.
Le guerre galliche
La carta illustra le campagne militari che portarono Cesare, fra il 58 e 52 a.C, a conquistare l'intera Gallia
La travolgente avanzata romana. In un territorio instabile come la Gallia bastava intervenire su un tassello
per alterare l'equilibrio di tutto l'insieme; e così, lo sterminio degli elvezi produsse una serie di reazioni a
catena, delle quali Cesare approfittò per allargare il fronte della sua avanzata. Già nel 57 a.C, con la sconfitta
dei belgi e di altre tribù del nord l'esercito cesariano era arrivato sul canale della Manica.
Dopo soli due anni di guerra, la conquista dell'intera Gallia sembrava dunque cosa fatta. Cesare si sentì
abbastanza sicuro da abbandonare temporaneamente l'area di guerra per incontrare, a Lucca, Pompeo e
Crasso.
Il secondo accordo con Pompeo e Crasso. A Lucca, nel 56 a.C, gli accordi fra i triumviri furono
aggiornati. Pompeo e Crasso sarebbero stati consoli nel 55 a.C (come puntualmente accadde) e avrebbero
votato una legge che prorogava di altri cinque anni il mandato di Cesare in Gallia. L'anno successivo
Pompeo avrebbe assunto il governo della Spagna - territorio a lui fedelissimo sin dall'epoca della guerra
contro Sertorio e Crasso il proconsolato in Oriente, dove voleva intraprendere una campagna militare in
grande stile contro i parti, la minacciosa popolazione stanziata nell'area mesopotamica, oltre il confine
dell'impero.
Cesare in Britannia e oltre il Reno. Tornato in Gallia, nel 55 a.C. Cesare effettuò un primo sbarco
esplorativo in Britannia, cui ne seguì l'anno successivo un secondo; questa volta i romani raggiunsero e
oltrepassarono il Tamigi. Cesare inoltre attraversò il Reno, il fiume che segnava il confine fra Gallia e
Germania, penetrando per alcune miglia in territorio nemico. Si trattò di due operazioni poco significative
dal punto di vista militare, perché in Germania non venne conquistato alcun territorio e la Britannia fu
assoggettata a un tributo puramente nominale. Ma con esse Cesare suscitò una grande impressione, perché si
trattava di territori lontanissimi e sconosciuti, nei quali nessun romano aveva mai messo piede; penetrandovi,
Cesare portava alle stelle la sua fama di condottiero invincibile.
La vittoria di Alesia e la sottomissione della Gallia. Nonostante i successi riportati, tuttavia, la
sottomissione della Gallia si rivelò più complessa del previsto, anzi fu a un passo dal fallire. Dopo varie
rivolte nel nord del paese, infatti, nell'inverno del 53-52 a.C. una grande coalizione di popoli gallici diede
vita a una generale sollevazione antiromana. La novità stava nell'unione fra diverse tribù e nella presenza di
un generale abile e coraggioso, il giovane Vercingetorige, in grado finalmente di tener testa a Cesare. La
battaglia decisiva si svolse nel settembre del 52 a.C. intorno al centro fortificato di Alesia, dove
Vercingetorige si era asserragliato e dove lo raggiunsero altre forze galliche, che a loro volta circondarono
l'esercito romano assediarne: fu la più difficile e la più decisiva fra le vittorie di Cesare in Gallia.
Il resto fu un'operazione di polizia: gli anni 51-50 a.C. furono dedicati a spegnere gli ultimi focolai di rivolta,
ma la conquista era ormai cosa fatta. L'intera campagna era costata alla Gallia un milione di morti e
altrettanti furono i galli ridotti in schiavitù: un genocidio di proporzioni inaudite, anche in una cultura
militarista come quella romana.
Cesare il dittatore
Un’altra guerra civile
Le tensioni fra Cesare e Pompeo. Negli anni in cui Cesare era lontano da Roma (ma sempre a stretto
contatto con i suoi uomini nella capitale) erano accadute molte cose che mutavano il quadro politico; in
particolare si evidenziava una crescente tensione nei rapporti fra Cesare e Pompeo, che portò i due sull'orlo
della rottura.
• Il primo segnale inquietante si era avuto nel 57 a.C, ad appena un anno dalla partenza di Cesare,
quando Pompeo aveva richiamato in patria Cicerone (che Cesare, come sappiamo, aveva fatto
esiliare da Clodio), evidentemente per garantirsi un alleato in vista di un futuro, possibile scontro
con Cesare.
•
Nel 54 a.C. morì Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo: venne meno così un altro legame fra i
due aristocratici.
•
Sempre nel 54 a.C. Pompeo, pur avendo ricevuto l'incarico di governare la Spagna, non si mosse
dalle porte di Roma, dove stazionavano le truppe che gli erano state affidate.
Pompeo console unico. Intanto la campagna contro i parti dell'altro triumviro, Crasso, si rivelò un
fallimento. Nella decisiva battaglia di Carre, in Mesopotamia, Crasso cadde prigioniero e fu ucciso (53
a.C): era la fine del triumvirato. Nel 52 a.C. Clodio, che era ancora uno dei principali agenti di Cesare a
Roma, venne ucciso da un commando guidato da Milone, che agiva per conto dell'aristocrazia ottimate.
Nella confusione che seguì al fatto, Pompeo venne nominato console senza collega: una formula elegante
per evitare di usare il termine "dittatore", che evidentemente suscitava il ricordo odioso di Silla.
Così, progressivamente, le posizioni di Pompeo e degli ottimati si erano avvicinate. Del resto, a Pompeo
non poteva sfuggire che il potere che Cesare stava accumulando era diretto anzitutto contro di lui, perciò la
scelta di schierarsi con il senato fu in un certo senso obbligata: ora ciò che contava era battere Cesare, i conti
con gli oligarchi erano rimandati a dopo.
L’inizio della guerra civile. La rottura avvenne su una questione apparentemente formale. Nel 49 a.C.
scadeva il secondo quinquennio di governo provinciale e Cesare intendeva presentare la propria candidatura
al consolato per l'anno seguente. Ma, su suggerimento di Pompeo, il senato chiese a Cesare di sciogliere le
legioni e presentarsi a Roma come privato cittadino. Era evidente il fine politico della richiesta: senza soldati
e senza i poteri assicurati dalla carica di proconsole, Cesare poteva facilmente essere arrestato, processato,
insomma reso inoffensivo. In questa circostanza Cesare si mostrò conciliante: si dichiarò disposto a
sciogliere il suo esercito, a patto che Pompeo facesse lo stesso con il proprio.
Prudentemente, Cesare aspettò la decisione del senato nei pressi di Rimini, sul Rubicone. Quando apprese
che la sua richiesta era stata respinta, Cesare si decise per un atto di forza: passò il fiume ed entrò con
l'esercito in Italia. Era il gennaio del 49 a.C. e iniziava un'altra guerra civile.
La vittoria di Cesare e la morte di Pompeo. La scelta di Cesare dovette cogliere di sorpresa Pompeo e gli
ottimati. Mentre i cesariani dilagavano nella penisola, Pompeo e una fetta consistente dell'aristocrazia
conservatrice lasciarono l'Italia e si trasferirono in Grecia, dove Pompeo pensava di radunare più facilmente
un esercito grazie alle sue eccellenti relazioni con re e vassalli orientali, molti dei quali dovevano a lui il loro
potere. Quello però che Pompeo e gli ottimati non avevano previsto era la rapidità di Cesare.
Dopo una fulminea campagna in Spagna, che annientò le truppe fedeli a Pompeo, e un brevissimo soggiorno
a Roma, nel quale si fece nominare console per il 48 a.C, normalizzando la propria posizione, ai primi del 48
a.C. Cesare era in Grecia. La battaglia decisiva ebbe luogo in estate a Farsàlo, in Tessaglia: Pompeo venne
sconfitto, fuggì dal campo di battaglia con un pugno di fedelissimi e si imbarcò alla volta dell'Egitto. Qui
contava di ricevere ospitalità dal re Tolomeo XIII, ma quest'ultimo lo fece assassinare, evidentemente
contando di ottenere la benevolenza di Cesare. Quando poco dopo Cesare giunse ad Alessandria, il suo
avversario era già morto.
Il lungo strascico. Ma la guerra civile non finì a Farsàlo, né con la morte di Pompeo: non bastava una
vittoria per abbattere un regime che aveva retto per quasi cinque secoli. Ancora per anni Cesare combatté ai
quattro angoli del Mediterraneo contro truppe guidate dai figli di Pompeo o da altri oligarchi anticesariani,
decisi a vendere cara la pelle della repubblica, o convinti che la partita non fosse ancora chiusa e che fossero
possibili nuovi colpi di scena.
Cesare intervenne in Asia Minore, sconfiggendo nel 47 a.C. una ribellione nel Ponto. Poi passò in Africa
settentrionale e nel 46 a.C, a Tapso, sconfisse le truppe guidate dall'antico avversario Catone il Giovane
(che si uccise per non cadere nelle sue mani). Si diresse infine ancora in Spagna, dove nel 45 a.C, a Munda,
combatté la battaglia decisiva contro gli ultimi pompeiani, e fu la più dura tra le vittorie di Cesare.
Il breve governo
Quale posizione istituzionale per Cesare? Nei tre anni intercorsi tra Farsàlo e Munda, Cesare soggiornò a
Roma non più che poche settimane, il tempo necessario per assumere alcuni provvedimenti urgenti, tra cui
farsi conferire di anno in anno la carica di dittatore, che dava una parvenza di legalità al suo potere. Nel 45
a.C, liquidate le ultime forze pompeiane, sembrò finalmente aprirsi la possibilità di una attività di governo
più continua: ma non fu così.
Il problema per Cesare più urgente era di definire la propria posizione istituzionale. Egli era pontefice
massimo, dunque capo della religione pubblica romana, era stato più volte console e nel 45 a.C, dopo la
vittoria di Munda, il senato gli aveva conferito il titolo di imperatore. Queste cariche, tuttavia, non bastavano
ad assicurare un potere stabile e abbastanza forte da consentirgli di operare quelle riforme profonde del
sistema repubblicano che Cesare riteneva non più rinviabili, ma che di certo avrebbero suscitato resistenze e
opposizioni.
La dittatura e il coinvolgimento degli ex pompeiani. Dopo alcune incertezze, la scelta definitiva, compiuta
all'inizio del 44 a.C, fu di farsi assegnare la dittatura a vita: una scelta di tipo sillano, che però Cesare riempì
di contenuti assolutamente diversi rispetto a quelli del vecchio oligarca.
Anzitutto, a Cesare era chiaro che si poteva governare contro la vecchia classe dirigente, ma non senza di
essa. Molti aristocratici che avevano combattuto dalla parte di Pompeo furono così non solo graziati, ma
anche coinvolti nella gestione dello stato, attraverso l'attribuzione di magistrature o di incarichi speciali e
prestigiosi. È il caso, per esempio, di Terenzio Varrone, pompeiano di ferro ma anche uomo di eccezionale
cultura: a lui Cesare affidò il compito di realizzare la prima grande biblioteca pubblica romana.
Le province, le colonie e le opere pubbliche. L'esigenza di un governo dell'impero diverso dal puro e
semplice saccheggio delle province fu soddisfatta riducendo i margini di arbitrio dei pubblicani (gli agenti
incaricati della riscossione delle tasse) e rendendo più severa la legge che puniva il reato di malgoverno. La
concessione della cittadinanza agli abitanti della pianura padana (Gallia Cisalpina) si inseriva nella tendenza
all'allargamento della cittadinanza, nata all'indomani della guerra sociale e destinata a proseguire.
La fondazione di numerose colonie garantì una sistemazione decorosa a decine di migliaia di proletari, gran
parte dei quali affollava una Roma ormai sovrappopolata, generando problemi di ordine pubblico e spese
ingenti per le distribuzioni frumentarie gratuite (che Cesare tagliò drasticamente). Particolarmente numerose
furono le nuove colonie in Gallia e in Spagna, cosa che rispondeva anche all'intento di accelerare la
romanizzazione di quelle terre.
Molti altri proletari furono impiegati in un programma di opere pubbliche. Con Cesare, infatti, cominciò a
cambiare l'aspetto monumentale della capitale: un'intensa attività edilizia interessò il foro e furono avviati
grandi interventi idraulici, come il controllo del flusso del Tevere, con lavori di arginamento, e il
risanamento delle paludi pontine, nel sud del Lazio.
L'ampliamento del senato e la riforma del calendario. Cesare portò i senatori da 600 a 900 e moltiplicò il
numero dei magistrati: i questori, per esempio, diventarono 40. Queste rilevanti trasformazioni nascevano
dall'intento di ampliare la classe dirigente, nonché dalla consapevolezza che l'impero non si poteva
governare con un apparato amministrativo troppo esiguo.
L'esigenza di razionalizzazione e di riordino dello stato investì persino il computo del tempo. Cesare varò
infatti una riforma del calendario che metteva al passo anno solare e anno civile. Il calendario giuliano, che
appunto da Giulio Cesare prese il nome, rimase in vigore per secoli.
La congiura e l'assassinio. Ma la vasta e articolata attività cesariana di riorganizzazione dello stato fu
bruscamente interrotta. Il giorno delle Idi di marzo (15 marzo) del 44 a.C, mentre si recava in senato,
Cesare fu circondato da un gruppo di congiurati guidati da Bruto e Cassio, due ex pompeiani da lui graziati,
e ucciso con ventitré pugnalate. I congiurati agirono per conto di quella parte della vecchia classe dirigente
che non aveva mai accettato il regime di Cesare. Ma le cose - lo vedremo - non andarono come si
aspettavano i congiurati e i nostalgici della repubblica aristocratica.
Una partita a tre: Ottaviano, Antonio, i repubblicani
Dalla morte di Cesare al secondo triumvirato
L'erede pretendente, l'erede designato: Antonio e Ottaviano. Nel periodo immediatamente successivo
all'attentato contro Cesare, il 15 marzo del 44 a.C, il settore della nobiltà che puntava a una restaurazione
della repubblica tradizionale non riuscì a volgere a proprio vantaggio l'incerta situazione politica. Due giorni
dopo la morte del dittatore, il console Marco Antonio (83-30 a.C.) - uno dei generali di Cesare e fra i suoi
collaboratori più stretti - convocò il senato e fece ratificare queste decisioni:
•
fu concessa l'amnistia ai congiurati;
•
vennero decretati i funerali solenni per Cesare e, soprattutto, il senato dichiarò di riconoscere gli atti di
Cesare, vale a dire le nomine alle magistrature da lui disposte e le sue volontà testamentarie, fra cui un
lascito in denaro a ogni proletario e ad ogni legionario.
Marco Antonio riuscì così a presentarsi agli occhi dei soldati e della plebe come il continuatore della politica
di Cesare, in un certo senso come il suo erede politico, ma contemporaneamente si affacciò sulla scena il
vero erede di Cesare, indicato nel testamento del dittatore: era Gaio Ottaviano (63 a.C.-14 d.C), suo
pronipote e figlio adottivo.
Alla notizia della morte di Cesare, Ottaviano si affrettò a rientrare in Italia dall'Epiro, dove, a quanto pare, si
apprestava a seguire il padre adottivo in una spedizione contro i parti. E, al rifiuto di Antonio di consegnargli
il patrimonio del padre, impiegò subito il proprio denaro per elargirlo alla plebe, secondo le disposizioni
testamentarie di Cesare, e per arruolare alcune legioni di fedelissimi veterani.
Il senato cerca l'alleanza con Ottaviano. Sembrava inevitabile che fra Antonio e Ottaviano si aprisse un
confronto per decidere chi dovesse prendere il posto del defunto dittatore e, in un primo momento, il senato
si illuse di poter sfruttare a proprio vantaggio questa rivalità. Tra i due, il più pericoloso sembrava senz'altro
Antonio, abile generale e politico navigato, piuttosto che il giovanissimo Ottaviano, nemmeno ventenne;
perciò i senatori cercarono di indurre Ottaviano a schierarsi dalla loro parte, sfruttando contro Antonio le
forze militari che stava raccogliendo. L'occasione non si fece attendere.
Nel 43 a.C. Antonio ebbe il governo della provincia di Macedonia, un incarico a lui sgradito perché lo
allontanava troppo da Roma in quei mesi cruciali. Manovrò allora per scambiarlo con il proconsolato in
Gallia (scelta ovvia per un ex cesaria-no), ma il governatore della Gallia legittimamente designato, Decimo
Bruto, non volle cedere e i due si scontrarono in armi a Modena. Il senato approfittò della circostanza per
dichiarare Antonio nemico pubblico e, in aiuto di Decimo Bruto, inviò un esercito a cui si unì Ottaviano con
le proprie truppe: Antonio fu sconfitto e riparò in Gallia insieme a Marco Emilio Lepido, anch'egli ufficiale
veterano delle campagne di Cesare.
Il secondo triumvirato. In questo momento, quanto mai incandescente e confuso, Ottaviano rientrò a Roma,
lasciò le sue legioni accampate alle porte della città e si fece assegnare il consolato, grazie al quale legittimò
in qualche modo la sua posizione (fino ad allora, infatti, aveva di fatto combattuto come privato cittadino,
senza alcun mandato ufficiale). Ma Ottaviano aveva già un eccellente intuito politico e capì che in quel
momento l'accordo con Antonio era per lui più conveniente di una nuova guerra civile. Preferì perciò aprire
una trattativa con Antonio e Lepido e costituire, insieme con loro, il secondo triumvirato (43 a.C).
Il secondo triumvirato fu molto diverso da quello costituito nel 60 a.C. da Cesare, Pompeo e Crasso,
terminato nella lunga guerra civile e poi nella dittatura di Cesare. Il primo triumvirato era stato un accordo
segreto fra tre uomini molto potenti (o decisi a diventarlo), per mettere le mani sulle leve cruciali dello stato
e garantirsi il controllo della vita politica. L'accordo fra Ottaviano, Antonio e Lepido, al contrario, prese la
forma di una vera e propria magistratura straordinaria, istituita da una legge che prevedeva un mandato di
cinque anni per triumviri, con pieni poteri di procedere alla riforma dello stato.
La lotta contro l'aristocrazia conservatrice.
Il primo obiettivo di Ottaviano, Antonio e Lepido era di liquidare l'ala più conservatrice della nobiltà, quella
che, con l'assassinio di Cesare, aveva dimostrato di essere pronta a difendere con il qualsiasi mezzo il proprio
potere. Cesare aveva tentato di guadagnare al suo progetto di riforma anche gli avversari più irriducibili: una
strategia politica che appariva, con il senno di poi, perdente, visto che molti dei congiurati che l'avevano
eliminato erano proprio ex pompeiani da lui graziati. I triumviri decisero di procedere per altra via. In primo
luogo, i cesaricidi furono proclamati nemici pubblici. Bruto, Cassio e gli altri erano già fuggiti in Grecia,
dove iniziarono a raccogliere un esercito per far fronte al prevedibile attacco dei triumviri, che a quel punto
appariva solo questione di tempo.
Tornano le liste di proscrizione. In secondo luogo, i triumviri riesumarono un vecchio e odioso strumento
di lotta politica: le liste di proscrizione, cioè gli elenchi di avversari che potevano essere uccisi da chiunque
impunemente, anzi con una ricompensa da parte dei tre magistrati supremi. Era un modo brutale per liberarsi
dei nemici più pericolosi, ma soprattutto uno strumento per procurarsi rapidamente le ingenti somme di
denaro che servivano a preparare lo scontro finale con i cesaricidi, dato che i patrimoni dei proscritti
venivano incamerati dallo stato, e dunque dai triumviri stessi. Tra le vittime eccellenti delle proscrizioni vi fu
Cicerone, l'ormai anziano protagonista di quarant’anni della vita politica romana. Nel breve periodo in cui il
senato aveva cercato di giocare la carta Ottaviano per indebolire Antonio, Cicerone aveva attaccato
quest'ultimo in una serie di violentissimi discorsi; ora Antonio ebbe modo di vendicarsi e Ottaviano non potè,
o non volle, difendere il suo ex sponsor politico. I sicari di Antonio raggiunsero Cicerone nel dicembre del
43 a.C. sulla spiaggia di Formia, mentre cercava di prendere il largo su una nave: la testa e le mani di Cicerone furono mozzate ed esibite a Roma nel foro, a riprova della violenza inaudita dello scontro in atto.
La sconfìtta dei repubblicani. Nel 42 a.C. l'esercito dei triumviri era pronto allo scontro finale. Il contatto
con l'esercito dei cesaricidi avvenne a Filippi, nel nord della Grecia, e si risolse con la vittoria delle forze
triumvirali. I nobili che avevano seguito Bruto e Cassio morirono quasi tutti in battaglia e il suicidio dei due
congiurati, alla notizia della sconfitta, segnò anche simbolicamente la fine del loro progetto di restaurazione
dell'antica repubblica oligarchica.
Ottaviano padrone di Roma
La rivolta dei proprietari. Ora che l'obiettivo prioritario del triumvirato era stato raggiunto, la rivalità fra
Antonio e Ottaviano riemerse in primo piano. Dopo Filippi, gran parte dell'esercito triumvirale venne
smobilitato e si procedette all'assegnazione di terre ai veterani. Ottaviano, che si era assunto tale compito,
dovette però affrontare una rivolta di proprietari terrieri, i cui fondi erano stati confiscati per distribuirli ai
soldati, e a capo della rivolta stavano Fulvia e Lucio Antonio, ovvero la moglie e il fratello di Antonio. Il
triumviro si trovava ancora in Oriente e non intervenne: era tuttavia difficile pensare che fosse all'oscuro
dell'iniziativa.
La guerra si protrasse per due anni, il 41-40 a.C, e i rivoltosi si asserragliarono infine a Perugia, dove
vennero assediati da Ottaviano. Quando infine la città cadde, Ottaviano fece scannare per rappresaglia
trecento notabili perugini su un altare dedicato a Cesare. La situazione restava dunque tesissima, anche dopo
la sconfitta dei cesaricidi.
La spartizione dell’impero. Nello stesso 40 a.C, a Brindisi, si arrivò a un nuovo accordo fra i triumviri,
fondato su una spartizione delle zone di influenza:
•
Ottaviano si riservò l'Italia e le province occidentali dell'Impero;
•
Antonio assunse il controllo delle province orientali;
•
Lepido, la figura più scialba e politicamente debole, dovette accontentarsi dell'Africa.
II patto fu suggellato dal matrimonio di Antonio con Ottavia, sorella di Ottaviano. Si aprì un decennio di
pace apparente, ma nel quale, in realtà, i due principali contendenti non fecero altro che affilare le armi in
vista dello scontro finale.
Antonio in Egitto. Antonio pose la sua base di operazioni ad Alessandria d'Egitto.
L'Egitto continuava a essere uno stato formalmente indipendente, governato dalla dinastia dei Tolomei, che
lo avevano conquistato quasi tre secoli prima, all'epoca delle lotte fra i successori di Alessandro Magno; di
fatto, però, era da tempo una specie di protettorato romano, sottoposto al controllo più o meno diretto della
maggiore potenza mediterranea, Roma appunto. Antonio si legò alla regina d'Egitto, la giovane e
spregiudicata Cleopatra, già amante di Giulio Cesare, la quale cercava, anche attraverso il suo fascino, di
conciliare l'indipendenza del suo regno e la sempre più invadente presenza romana.
Da Alessandria, Antonio coordinò alcuni interventi militari in Medio Oriente. Era un'area tormentata, dove
l'egemonia romana doveva fare i conti con il potente e te muto Impero dei parti e con le lotte interne ai vari
regni, lotte che spesso provocavano la caduta dei sovrani filoromani e l'imporsi di governi ostili. Si trattava,
insomma, di situazioni politiche fluide e delicate, che misero a dura prova le capacità militari e diplomatiche
di Antonio e che non approdarono a successi definitivi.
La propaganda contro Antonio. Nel 38 a.C, alla scadenza prevista, il triumvirato venne prorogato di altri
cinque anni, ma i rapporti tra Ottaviano e Antonio cominciarono a peggiorare. Ottaviano decise di usare
contro il rivale l'arma della propaganda e degli stereotipi antiorientali. I deludenti risultati militari ottenuti da
Antonio, l'offesa subita dalla sorella Ottavia (il cui marito si era legato a una regina straniera), la tradizionale
immagine dei popoli orientali come viziosi, militarmente incapaci e portatori di valori estranei alla "sana"
tradizione romana: Ottaviano fece leva su tutti questi elementi per presentare Antonio come un traditore, per
accusarlo di giocare con le risorse e i soldati dell'Impero, ponendosi per di più al servizio di una donna, e gli
attribuì addirittura il progetto di trasferire la capitale dell'Impero da Roma ad Alessandria. Di fronte a tali
pericoli, Ottaviano si poneva come il difensore delle radici e dei valori più autentici dello spirito romano. Era
perciò inevitabile che la tensione crescesse sempre più e nel 33 a.C, alla fine del secondo quinquennio di
triumvirato, i rapporti fra Antonio e Ottaviano erano troppo compromessi per pensare a un ulteriore rinnovo.
La battaglia di Azio e la morte di Antonio. Lo scontro finale era ormai solo questione di tempo e si
verificò infatti nel 31 a.C. al largo di Azio, una località sulla costa dell'Epiro. Antonio combatteva insieme
alle forze navali di Cleopatra e questo diede a Ottaviano la possibilità di presentare il conflitto non come
l'ennesima guerra civile, ma come una regolare e legittima guerra contro un nemico esterno. La propaganda
ufficiale, sia prima sia dopo la battaglia, tacque del tutto il fatto che Antonio guidava le truppe di terra. Lo
scontro si concluse con la vittoria delle forze di Ottaviano e prima Cleopatra poi Antonio cercarono rifugio in
Egitto, dove, braccati da Ottaviano, si tolsero la vita. Nel 30 a.C. Ottaviano entrava da vincitore ad
Alessandria: l'Egitto cessava di essere un regno indipendente ed entrava a far parte dell'Impero romano.
Quanto al terzo ex triumviro, Lepido, la sua figura era ormai talmente innocua che potè morire di vecchiaia
vent'anni circa dopo Azio.
Così, Ottaviano si trovava ora nella stessa posizione di Giulio Cesare quindici anni prima. Ancora giovane
(aveva trentatré anni) era il nuovo padrone di Roma: lo sarebbe rimasto - ma questo allora non poteva
saperlo - per altri quarantaquattro, fino al 14 d.C. Intanto, però, dalle mosse che compì nei mesi e negli anni
successivi dipese il futuro della storia di Roma.
La crisi della nobiltà e il desiderio di pace. Molte cose erano cambiate nei quindici anni che separavano la
vittoria di Cesare su Pompeo da quella di Ottaviano su Antonio. La vecchia aristocrazia conservatrice era
stata decimata dalle proscrizioni e poi dalle guerre; i superstiti di questa classe, un tempo temuta e potente,
erano ormai pronti a consegnare il potere nelle mani di un leader unico, se questo era il solo modo per
continuare a godere almeno di una parte dei propri antichi privilegi.
Il resto della popolazione era stremata da guerre civili che si protraevano, con poche interruzioni, da almeno
un secolo (cioè dall'uccisione di Tiberio Gracco), e il desiderio diffuso era quindi che si giungesse a una pace
duratura. Ottaviano, che era molto sensibile all'importanza dei simboli, già nel 29 a.C. si affrettò a far
chiudere le porte del tempio di Giano: un gesto rituale, che indicava l'assenza di guerre in tutto il territorio
dell'Impero e che si era verificato due sole volte nella precedente storia della città. Il significato della
decisione era evidente e doveva essere fonte di immenso sollievo per generazioni cresciute in mezzo alle
guerre civili.