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n. 18 Aprile / Luglio 2016
L’artista e la sua opera come fonte di ispirazione
Reinterpretazione, citazione e reinvenzione dell’Ofelia di John Everett Millais
nella fotografia contemporanea
di Martina Massarente
… si vedono di continuo persone nude e immobili che,
fingendosi sculture, diventano testimoni segreti degli eventi.
Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano (2010)
Questo studio intende approfondire i modi attraverso cui tre fotografi contemporanei, che
hanno visto nell’arte un terreno favorevole allo sviluppo delle proprie necessità espressive,
quali Silvia Camporesi, Gregory Crewdson e Tom Hunter, si sono ispirati al celebre dipinto
preraffaellita Ofelia (1851 -1852) di John Everett Millais [fig.1].
Nello specifico, s’intende analizzare il labile confine che distingue, nel processo di
ispirazione, le pratiche di reinterpretazione, citazione e reinvenzione della famosa opera
d’arte ottocentesca nella fotografia contemporanea. Il concetto di citazione dà luogo a
«differenti approcci all’uso di dati formali preesistenti, di cui il soggetto operante, si
serve».1 L’ambito di indagine risulta complesso, dal momento che non è ancora stato
individuato un denominatore comune sotto il quale inserire tutte le declinazioni possibili
del concetto di citazione, così come è difficile riuscire a «individuare la differenza
concettuale, più che formale in sé, tra gli “omaggi”, i “d’après”, le rivisitazioni, le citazioni
vere e proprie».2
In riferimento ad alcune specifiche modalità di intervento tra le quali si considerano
dislocamento, prelevamento, decontestualizzazione e rielaborazione, questo studio si
focalizza sull’analisi di una pratica che sta attualmente vivendo il suo momento di massima
diffusione e maturazione: una forma della fotografia contemporanea conosciuta, sin dagli
anni Ottanta del Novecento, con la definizione di tableau vivant - staged photography o
“fotografia messa in scena”. La fotografia tableau vivant è caratterizzata dal fatto che la
1
gamma delle immagini vive comprende dipinti, affreschi, sculture a tutto tondo o
bassorilievi costruiti non come opere figurative, ma come persone o gruppi di persone […]
devono cioè fungere da immagini viventi.3
La storia dell’arte e il recupero dei concetti espressivi e simbolici del passato da parte dei
fotografi contemporanei rimanda alla fortuna critica di opere e autori la cui visione è
recuperata e rinnovata a seconda delle sensibilità del singolo artista. È quindi in seguito al
riconoscimento di alcune caratteristiche che accomunano il modus operandi dei fotografi,
che è stato possibile suddividere le tendenze di ricerca citazionistica della staged
photography in una serie di gruppi tematici. Il primo riguarda i casi in cui un artista o una
determinata opera divengono motivo di ispirazione o citazione per il fotografo, con
riferimento a situazioni, personaggi, temi, opere e autori entrati a far parte
dell’immaginario e delle conoscenze collettive e per questo resi volutamente riconoscibili
(Silvia Camporesi). Nel secondo gruppo figurano i fotografi che si lasciano liberamente
ispirare dalle opere del passato come incentivo alla produzione di nuovi lavori dando voce
a storie del contemporaneo o di totale fantasia (Gregory Crewdson). Infine, vi sono
fotografi che si appropriano del tema di un’opera e lo dislocano all’interno della pratica
fotografica; si tratta di casi in cui sono ben riconoscibili nell’immagine fotografica le
fattezze e le composizioni di opere del passato, trasposte però in contesti arricchiti da
caratteristiche in grado di generare un ponte mentale tra passato e presente, tra modelli
iconografici di epoche lontane e situazioni del contemporaneo (Tom Hunter).
Nelle pagine che seguono si analizzano tre opere che mostrano come il lavoro di Millais
continui a costituire un campo di indagine a livello segnico e di significato iconografico
negli artisti contemporanei. Tale tendenza viene individuata con chiarezza da Luca
Beatrice in occasione della retrospettiva Preraffaelliti, l’utopia della bellezza, il quale
afferma nelle pagine del catalogo: «è davvero sorprendente come alcuni movimenti della
storia dell’arte che non vengono annoverati tra le espressioni dell’avanguardia […] riescano
alla lunga a spingere la loro influenza ben oltre il proprio raggio di azione temporale» e
riconosce nei preraffaelliti il primo caso di «revival e citazionismo dell’epoca moderna» in
riferimento al loro stile di vita e alla volontà di recuperare antichi valori di epoca
medievale. 4
Per la fotografia contemporanea il rapporto con l’arte del passato costituisce un medium
con cui l’idea di “attingere dalla storia” significa in qualche modo re-inventare, rinnovare,
creare qualcosa di nuovo in linea con il sentire del proprio tempo.
2
I tre artisti in esame mostrano di conoscere a fondo le pratiche della citazione che hanno
visto nella fotografia degli anni Ottanta, e più specificatamente in quella del decennio
successivo, uno strumento privilegiato di riflessione critica, certamente non intendendola
come documentazione di un’azione, ma come progetto artistico di cui essa diventa l’atto
finale di una serie di azioni preparatorie multidisciplinari.
Citando Charlotte Cotton, le ultime ricerche della fotografia artistica conducono i fotografi
ad assumere il ruolo di «narratori di vicende del mondo» che palesano, tramite costruzioni
di scenografie artificiali, una critica alla decadenza dei valori culturali e sociali attuali.5
Claudio Marra nel suo saggio Fotografia e pittura (e oltre) sostiene che è negli anni
Ottanta, con l’aprirsi di una nuova situazione artistica, che la fotografia e il ruolo stesso
dell’artista hanno iniziato a mutare profondamente il proprio statuto. Il fotografo-artista
non sarebbe più il solo autore dello scatto ma un vero e proprio regista di progetti che
prevedono la ricostruzione a priori di uno scenario, quale è il caso dei tre autori in esame.6
Il fil rouge che unisce i tre fotografi può essere sintetizzato nella volontà di concentrare in
un’unica scena l’intera narrazione di un evento, ovviamente con sfumature e finalità
diverse una dall’altra.
Il caso delle “rivisitazioni” contemporanee dell’Ophelia di Millais, permette di sottolineare
le differenze intercorse tra i concetti di ispirazione e citazione nella “fotografia tableau
vivant” dove «esseri umani immobili, elevati a opere d’arte, vengono percepiti come
immagini»7.
L’opera di Millais raffigura il personaggio shakesperiano nel momento in cui si abbandona
alla morte ed «è diventato un emblema dell’approccio dei Preraffaelliti alla natura, alla
psicologia e alla narrazione di storie»8 mantenendo (oltre ad una profonda coscienza
religiosa velatamente celata dietro alla posizione assunta dalle braccia di Ofelia che
ricordano quella dell’orante) la sua caratteristica più attuale: la veridicità della morte.
L’arte ha sempre guardato al suo passato, anche Millais ha infatti re-inventato l’iconografia
della morte «riferendosi alla sua fonte testuale tardo-cinquecentesca» e recuperando
l’iconografia delle effigi delle tombe gotiche aggiungendo, in seguito, motivi innovativi
nella veste della donna, elementi indicatori della nuova contestualizzazione temporale del
dipinto.9
Al fine di comprendere a fondo il lavoro compiuto dai tre fotografi in esame sul dipinto di
Millais e l’analisi critica che in questo contributo si propone, occorre comprendere la
formazione, la complessità e i messaggi simbolici che l’autore ha inserito nell’opera,
messaggi che oltre a essere stati trasmessi alla società dell’epoca, hanno profondamente
influenzato le riflessioni sviluppate nei secoli successivi.
3
Il dipinto permane nella memoria di tutti, anche dei non addetti ai lavori, perché coloro
che non ne conoscono i “retroscena” tecnici, oltre che simbolici e culturali, ne sintetizzano
l’immagine – e quindi il significato – convogliando l’attenzione esclusivamente sullo
splendore dell’immagine della protagonista. In realtà Ofelia è un dipinto che necessita una
profonda e attenta decodificazione da parte di critici e storici dell’arte perché è costituito
da diversi momenti e fasi operative, nonché da una serie di operazioni che trovano
molteplici connessioni con i progetti di ricostruzione dei fotografi considerati.
La realizzazione del dipinto rimanda a pratiche cui si riallacciano anche i tre fotografi scelti
perché non è stato concepito e realizzato in un unico momento. Questo si può ben
comprendere dalla varietà di una vegetazione che non avrebbe potuto crescere
contemporaneamente in uno stesso periodo, ma che necessariamente l’autore ha dovuto
dipingere en plain air nel momento della loro fioritura e assemblarli in un secondo tempo.
10
La prima fase ha quindi interessato la realizzazione della composizione vegetale lasciando
libero uno spazio centrale all’interno del quale Millais ha inserito la protagonista ritratta
nel suo studio, all’interno di una vasca da bagno; infatti «nel dipinto, la natura è al tempo
stesso ripresa dal vero e fabbricata appositamente per la scena»
11
esattamente come
accade per le opere di Silvia Camporesi, Tom Hunter e Gregory Crewdson.
Lo stesso Millais quindi, per dare vita allo scatto finale, ha dovuto ricostruire una intera
scena pezzo per pezzo, assemblandola successivamente per la realizzazione dell’opera
finale. Questa iconografia della morte ha avuto un’importante fortuna critica per la sua
grande forza espressiva che – grazie all’insieme dei fattori riguardanti la posizione della
protagonista, i colori e le simbologie – resta impressa nella memoria.
I fotografi al centro del nostro studio si approcciano ai molteplici contenuti dell’opera
sperimentando diverse modalità di restituzione visiva, da una parte come dislocamento e
vera e propria citazione formale-stilistica dello stesso Millais, nel caso di Silvia Camporesi
[fig.2]; dall’altro lasciandosi ispirare e rielaborando l’immagine di Ofelia all’interno di un
contesto “altro”, riconducibile alla realtà contemporanea, come Tom Hunter [fig.3] e
Gregory Crewdson [fig.4].
A fare parte della nuova generazione di artisti che si sono approcciati alla fotografia
reinventandone le possibilità comunicative e tecniche, è Silvia Camporesi che affronta
nella sua opera il tema dell’identità femminile in modo trasversale costruendo situazioni in
bilico tra realtà e immaginazione. Camporesi inventa micro storie e situazioni narrative
concentrando, in un’unica immagine fotografica, una narrazione in cui reinventa
4
iconografie di donne provenienti dalla storia dell’arte o della letteratura, spesso
indossando essa stessa i panni dei suoi personaggi.12
Il terreno culturale e artistico dell’artista richiama casi noti ascrivibili al trasformismo e
allo studio identitario caro a una artista come Cindy Sherman che, tra la fine degli anni
Settanta e gli anni Novanta del Novecento, ha sviluppato il suo intento di «realizzare
un’immagine come un vero e proprio corpo che respira» e che «punta dritto alla vitalità
dell’opera»13 in una costante analisi delle molteplicità di sé e delle proprie metamorfosi
identitarie. Con Ofelia, Camporesi si appropria non solo del tema, ma anche dello stile e
dei caratteri distintivi del dipinto di Millais costruendo un interessante parallelismo tra
pittura e fotografia, una coreografia e una messa in scena del contesto che ripropone il
famoso dipinto portandone al massimo livello la percezione realistica.
L’azione concettuale dell’artista rimanda a un “modo di fare” e utilizzare la fotografia
intesa come performance; la sensazione è infatti quella di partecipare realmente alla morte
di Ofelia quasi come se la si potesse filmare dal vivo, documentare e bloccare in un istante
che la fotografia e il suo potenziale realistico riesce ad enfatizzare.
La riproposizione dell’opera, nel caso di Camporesi, mantiene un dialogo riconoscibile con
il dipinto tanto da attribuire a questa operazione concettuale non solo un atto di
dislocamento ma addirittura di ciò che Lucilla Meloni intende come “re-enactment”
«caratterizzato da una maggiore fedeltà all’originale»14 e riguarda da vicino le pratiche con
forti componenti performative. Infatti nonostante Camporesi trasporti il personaggio
ottocentesco e le sue caratteristiche in un’altra epoca, ne ricostruisce la morte mantenendo
«l’aderenza all’azione presa in prestito»15 dal passato per tradurla in analisi
contemporanea.
L’immagine fotografica finale si presenta quindi come un’azione di dislocamento dell’opera
d’arte originale dal suo contesto di appartenenza che proietta l’eroina di Millais nel tempo
e nello spazio di cui l’artista fa parte reinterpretandone il significato. «Dislocare significa
portare altrove, trasferire»16 cogliere un modello e inserirlo all’interno di un contesto altro.
«Alla base della dislocazione dell’opera originale c’è spesso una pratica performativa o
processuale»17 e Camporesi mette in atto questo tipo di operazione dapprima prelevando il
soggetto dall’opera originale e in seguito sottoponendolo a una operazione di
appropriazione identitaria (la modella Elizabeth Siddal nei panni di Ofelia). Questa azione
non riguarda esclusivamente la citazione compositiva e l’effetto tecnico-coloristico che
rimanda, meticolosamente, al dipinto originale, ma interessa il riadattamento
dell’iconografia, la costruzione di un dialogo tra passato e presente, tra realtà e finzione,
capace di generare nello spettatore un effetto di straniamento.
5
Il dislocamento risulta inoltre maggiormente comprensibile se si contestualizza il singolo
scatto di Camporesi all’interno del più ampio progetto che riguarda i suoi Studi per Ofelia
(2004-2008). La singola immagine in cui l’artista cita in modo riconoscibile il famoso
dipinto preraffaellita, è quindi riproposta all’interno di una narrazione che racconta il
viaggio di una donna reale nelle acque del fiume verso la morte.
Il rapporto che l’artista intrattiene con il dipinto ha come scopo lo sviluppo di un’indagine
identitaria che la pone a confronto con la verifica del proprio io attraverso l’esperienza di
Millais e della modella, proiettando questa riflessione in un tempo reso instabile dal
cortocircuito provocato dalla riconoscibilità del dipinto in relazione al realismo
caratteristico della fotografia.
Il recupero e la chiara citazione di questo tema, nonché la sua ri-contestualizzazione non
concerne esclusivamente la scelta del personaggio protagonista, bensì l’insieme di quegli
oggetti che, come avviene per il cinema, assumono all’interno del set-scenografia un
particolare significato simbolico; infatti «gli oggetti sono in molti casi investiti di affetti,
concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano»18 e il recupero
dell’ambientazione originale, così come l’attenzione ai dettagli floreali che ha caratterizzato
uno dei tratti di grande interesse nel dipinto ottocentesco, viene riproposto da Camporesi
con la medesima meticolosa attenzione. Seppure collocati in posizione differente rispetto
all’originale, i papaveri e i fiori appassiti che Ofelia tiene tra le mani vengono riportati
puntualmente dall’artista nella ricostruzione fotografica mantenendo intatto il significato
simbolico e allegorico di precario equilibrio tra la vita e la morte, di dolore e sofferenza
nonché di vanità della bellezza e dei beni terreni elevandoli a valori universali condivisibili
dall’esperienza empatica dello spettatore.
Sono proprio questi aspetti di morte e realismo della narrazione a essere al centro
dell’interesse di un fotografo come Tom Hunter nella sua serie fotografica Thoughts of life
and death. Anche Hunter trae spesso ispirazione dai grandi dipinti del passato, in
particolare preraffaelliti e opere di epoca vittoriana, proponendo reinterpretazioni di temi
ottocenteschi dislocati in contesti contemporanei. Tra questi, in The Way home (2000) il
fotografo preleva la raffigurazione della morte di Ofelia rifacendosi alla famosa iconografia
di Millais e la colloca in uno scenario atipico, una zona verde abbandonata alla periferia di
una città.
Hunter utilizza il riferimento al celebre dipinto per trattare criticamente un argomento di
cronaca nera, la morte di una giovane donna annegata mentre rientrava a casa.19 Lo
scenario preraffaellita viene impiegato dall’artista per indagare la decadenza della società
odierna, un racconto dell’orrore celato dietro a un celebre momento narrativo in cui
6
l’autore assume i panni di un «cronista di fiabe contemporanee»20, racconti che portano
con sé l’urgenza di una profonda necessità di analisi culturale.
L’opera di Hunter si pone in relazione con l’Ofelia di Millais secondo diverse modalità;
anzitutto la struttura dell’immagine ricorda, nella precisione del taglio dell’inquadratura, la
disposizione originale della figura nel dipinto all’interno di uno spazio verde che, solo
apparentemente, rimanda all’atmosfera onirica dell’originale, un’atmosfera rapidamente
smentita dalla sporgenza dei tetti delle case sovrastanti i cespugli a indicare la
ricontestualizzazione semantica della scena. La citazione tematica è evidente agli occhi
dello spettatore che viene indotto a ricercare nella propria memoria visiva e conoscitiva il
riferimento al famoso dipinto preraffaellita. Il distacco e la collocazione di quest’opera in
un contesto diverso dall’originale, si percepiscono inoltre dal fatto che l’Ofelia di Hunter
viene restituita dalla fotografia all’eternità in cui essa si trova, un ritratto post mortem di
un decesso accidentale che non porta con sé simboli di vanità della vita terrena dal
momento che non vi sono fiori tra le mani della donna e la stessa posizione da lei assunta
non ricorda quella orante dell’Ofelia di Millais che prega nel momento in cui assume in sé
la coscienza del sopraggiungere della morte.
La morte messa in scena da Hunter è quella di una donna comune immortalata nel silenzio
di una società muta, una morte non voluta, realistica, che potrebbe rimandare ad una
fatalità o ad un omicidio del quale non ci è dato sapere e del quale il fotografo ci informa
velatamente. Anche il luogo in cui Hunter ambienta la scena rimanda solo per la presenza
dell’acqua al dipinto preraffaellita privandola del senso originario della morte della donna;
Ofelia non sta per essere trascinata nelle profondità del fiume dal peso delle vesti, come
avviene nel celebre racconto shakesperiano, ma galleggia ormai prima di vita in uno stagno
che non ha le caratteristiche di trasparenza e ricchezza di dettagli naturali caratteristici del
dipinto. A Hunter non interessa quindi proporre un rifacimento o una copia fotografica
dell’originale, gli interessa utilizzare un’iconografia conosciuta per restituire dignità alla
deceduta attribuendole la citazione formale di un celebre dipinto consacrato alla storia
dell’arte e palesando un dramma della modernità rimasto inascoltato, isolato ai confini del
mondo.
Dall’analisi del passato emergono sempre nuovi modelli. La fortuna critica di questa
iconografia della morte e la volontà di reinterpretarne i significati simbolici in allegorie
allucinate del contemporaneo si riscontrano anche nel lavoro dell’americano Gregory
Crewdson. Il fotografo-artista è affascinato dal personaggio shakesperiano tanto da
realizzarne una propria versione nel 2001. La sua Ophelia appartiene alla serie intitolata
Twilight, composta da quaranta opere senza titolo e in grande formato21, dislocata
7
dall’artista all’interno di una abitazione allucinata in una periferia americana sconosciuta.
Crewdson inizia a dedicarsi alla “fotografia tableau vivant” negli anni Novanta, momento
in cui ricostruisce scene di storie strane e fantastiche nel suo studio seguendo la lezione di
Jeff Wall (uno dei primi artisti che si è dedicato a queste tipologie di ricerche fotografiche
strettamente collegate ad azioni performative, teatrali e cinematografiche prelevando,
dall’universo della storia dell’arte, composizioni, prospettive e tagli di immagini). Come
evidenziato per Camporesi, anche Crewdson ha tra i suoi riferimenti culturali l’opera di
Cindy Scherman della cui produzione approfondisce i Film Stills, realizzati a partire dal
1977 e sviluppati «su una serie di scatti che si presentano come tanti fotogrammi estratti
da non meglio identificati B-movie degli anni Cinquanta-Sessanta» in cui la citazione,
come sostenuto da Claudio Marra, «attraversa zone originariamente distanti tra loro».22
L’universo di Crewdson si distingue dai casi precedenti di Camporesi e Hunter perché
estremizza la contrapposizione tra fantastico e realistico, tra naturale e artificiale,
proiettando l’immaginario degli spettatori verso una sensibilità filmica e un senso di
inquietudine che contraddistinguono i suoi drammi psicologici. La composizione è
costruita senza lasciare nulla al caso, infatti «il mondo delle storie è un mondo
“ammobiliato”», scrive Antonio Costa, «la scenografia di un set, quando viene
correttamente ripresa e assorbita nell’universo diegetico, cessa di essere scenografia ed
entra a far parte del mondo delle cose […] le sue qualità diventano qualità del mondo reale
[…] gli elementi della scena cessano di essere procedimenti e artifici. A meno che non ci sia
una precisa intenzionalità di esibirli in quanto tali per ottenere effetti di straniamento».23
Il cinema e le influenze che da esso derivano sono parte integrante delle fasi operative del
lavoro di Crewdson che, come altri artisti dediti alla “fotografia tableau vivant”, lavora con
equipe da set cinematografico in qualità di regista della narrazione. Tutto viene confermato
dall’artista all’interno di un’intervista in cui dà spiegazione circa il senso della narrazione
interna alla scena di Ophelia.24 L’artista disperde sulla scena oggetti che assumono un
particolare valore di “rivelatori della narrazione”, come ad esempio le ciabatte disposte
sulle scale e la vestaglia casualmente appoggiata alla ringhiera a sottolineare la discesa
inquieta della protagonista e il suo successivo abbandono nelle improvvise acque che
hanno invaso la sua abitazione.25
Il dialogo con il dipinto originale viene mantenuto da Crewdson grazie al solo dettaglio
della posizione distesa dell’Ofelia-vampira, disposta immobile nell’acqua di un
appartamento dai colori allucinati realizzato a metà tra un set da film horror e una
scenografia teatrale. La fissità artificiosa dell’immagine modifica l’iconografia della morte
che non si mostra più vicina all’originale, come nel caso di Camporesi. Non è più una
8
morte colta per restituire dignità a un decesso comune, come nella fotografia di Hunter,
ma raffigura il compimento di un atto suicida da parte di un essere soprannaturale, il
termine di un dramma filmico avvenuto in un tempo non precisato che attende solo di
essere svelato inducendo nello spettatore ansia e suspance in attesa di un colpo di scena.
Il dipinto di Millais ha dunque ricevuto nel tempo un’interessante fortuna affascinando
artisti che, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, si sono dedicati ad investigarne, con
la fotografia, gli aspetti simbolici e metaforici ancora attuali rielaborando una critica del
mondo contemporaneo a partire dalle allegorie e dai significati che il tema di Ofelia ha
trasmesso fino ai giorni nostri. Le azioni citazionistiche tradotte in queste opere aprono a
una riflessione sulla morte, sullo scambio identitario, sulla decadenza culturale e sociale.
I fotografi presentati sono accomunati, oltre che dal tema del personaggio shakesperiano,
dall’attenzione per la riflessione sulla morte che si presenta con declinazioni fortemente
differenti nei tre casi. Non sono solo le modalità nella trattazione del tema a mostrarsi
diverse, ma anche le finalità di queste rappresentazioni sono declinate con varie sfumature
e significati simbolici.
La grande perizia con cui Camporesi lavora alla sua re-interpretazione non è certamente
unica prova di arte, così come il set cinematografico di Crewdson e l’attenzione
compositiva di Hunter non sono i soli motivi di interesse che li avvicinano al dipinto
ottocentesco. Queste osservazioni vogliono aprire una serie di domande e proposte
interpretative in attesa di ulteriori indagini che rimandano anzitutto al rapporto non solo
con il tema della morte ma anche con il nuovo movimento che si sta affermando ai giorni
d’oggi intorno alle possibilità offerte dalla fotografia digitale.
Camporesi, nella sua meticolosa ricostruzione e nel suo sfasamento sensoriale dettato dalla
non precisa copia del dipinto, potrebbe forse aver riproposto simbolicamente la morte del
quadro dettata dalla possibilità offerta oggi dalle nuove tecnologie di riproduzione digitale
che permettono di sottolineare uno scarto temporale tra la rapidità dello scatto fotografico
e la “durata” del gesto pittorico che, all’epoca, ha richiesto all’autore svariate ore di lavoro.
Il fatto di poter riprodurre la morte in modo pressoché identico apre a una serie di
riflessioni sulle motivazioni che hanno spinto i tre fotografi a interessarsi al dipinto. Non si
tratta comunque per tutti e tre i casi di una pedissequa riproduzione, o di una mera copia
fotografica del dipinto; i tre fotografi si proiettano oltre l’immagine della morte,
un’immagine che grazie alla fotografia può diventare immediatamente fruibile da tutti.
Le tre letture dell’opera proposte superano il mero discorso sulla perizia tecnica per
approdare su territori intellettuali aperti a diverse e possibili interpretazioni.
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La fotografia coglie il momento della morte in un’elevatio animae digitale che può essere
fruita nelle sue declinazioni simboliche ovunque e in tempo reale. Gli elementi di
incongruità che volutamente fanno sì che le singole opere fotografiche si distacchino
dall’originale, come nel caso di Tom Hunter dove la volontà di recuperare nella stampa
dell’immagine di grande formato proviene da una ulteriore citazione dalle tecniche
fotografiche antiche, ne determinano quindi l’unicità rispetto al dipinto, e questo pur
guardando al modello ottocentesco come una finestra da aprire su importanti temi della
realtà contemporanea.
Lucilla Meloni, Arte guarda arte. Pratiche della citazione nell’arte contemporanea, Postmediabooks,
Milano, 2013, p. 11
2 Ibidem.
3 Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico (2010), Cortina, Milano, 2015, pp.
78-79.
4 Luca Beatrice, “Gothland. L’enigma preraffaellita tra musica, moda, cinema e arte”, in Luca Beatrice e
Alison Smith (a cura di), Preraffaelliti, l’utopia della bellezza, catalogo della mostra (Torino, Palazzo
Chiablese, 18 aprile.13 luglio 2014), 24 Ore Cultura, 2014 p. 51. Il saggio tralascia volutamente l’analisi, già
avviata da un interessante studio di Lucilla Meloni, delle ricerche di artisti contemporanei che lavorano
attraverso tali pratiche, per dedicarsi a un caso specifico che coinvolge la fotografia dell’ultimo decennio.
5 Cfr. Charlotte Cotton, “C’era una volta”, in La fotografia come arte contemporanea, Einaudi, Torino, 2010,
pp. 60-61.
6 Claudio Marra, “Oltre le ideologie: cronache dagli anni ottanta” in Fotografia e pittura (e oltre), Bruno
Mondadori, Milano, 2012, p. 241
7 Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano, cit., p 81
8 Luca Beatrice e Alison Smith (a cura di) Preraffaelliti, l’utopia della bellezza, cit., p. 74.
9 Luca Beatrice, “Gothland. L’enigma preraffaellita tra musica, moda, cinema e arte”, in ivi, p. 51.
10 Ivi, p. 74.
11 Ibidem.
12 Cfr. Marinella Paderni (a cura di) Laboratorio Italia. La fotografia nell’arte contemporanea, Johan & Levi
Editore, 2009, p. 52.
13 Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano, cit., p. 84
14 Lucilla Meloni, Arte guarda Arte, cit., p. 116.
15 Ivi, p. 117.
16 Ivi, p. 88.
17 Ivi, p. 89.
18 Antonio Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Einaudi, Torino,
2014, p. XVI.
19 Charlotte Cotton, “C’era una volta”, in La fotografia come arte contemporanea, Einaudi, Torino, 2010, pp.
60 - 61.
20 Ibidem.
21Cyril Thomas, “La part mystériesuse de Gregory Crewdson: dévoilement et construction de l’image
photographiqu” in Érudit, Ciel variable: art, photo, médias, culture, numéro 73, septembre 2006, pp. 1013, URI: https://id.erudit.org/iderudit/19853ac
22 Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Bruno Mondadori, Milano, 2012, p. 241.
23 Antonio Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock, cit., p. 157.
24 Nelson Hancock, “The ultimate Film Still in “The New York Times”, 25 marzo, 2005.
http://www.nytimes.com/2001/03/25/magazine/arteurs-the-ultimate-film-still.html [ultima consultazione
14/02/2016].
25 Charlotte Cotton, “C’era una volta”, in La fotografia come arte contemporanea, cit., pp.76-77.
1
10
IMMAGINI:
1.
John Everett Millais, Ofelia, 1851-1852. Courtesy Tate Britain, Londra.
2. Silvia Camporesi, Ofelia, 2004. Courtesy l’artista.
3. Tom Hunter, The Way Home, 2000. Courtesy l’artista.
4. Gregory Crewdson, Untitled (Ophelia), 2001. Courtesy l’artista.
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