Botswana (Zimbawe) 2006

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Botswana (Zimbawe) 2006
Botswana (Zimbawe) 2006
3 settembre
Il viaggio è cominciato la mattina. Elena è venuta a prenderci a casa, abbiamo caricato gli zaini e
siamo andati a prendere Carlo che abita nel mio vecchio quartiere, un paio di piani sopra i miei
genitori. Caricati i bagagli di Carlo e salutato il parentado ci siamo diretti all’aeroporto Marco Polo,
dove avevamo appuntamento con gli altri due veneti: Marta di Padova e Andrea di Vicenza, dei quali
avevo i biglietti recapitati qualche giorno prima dal corriere. Come da accordo ci siamo di fronte al
check in della Lufthansa con la quale saremmo giunti a Francoforte. Da qualche viaggio a questa
parte mi capita di rilassarmi appena l’aereo ha cominciato l’operazione di decollo. In breve tempo
siamo a Francoforte e, visto che eravamo i primi del gruppo abbiamo cominciato a gironzolare per
passare il tempo. Dopo un breve pasto stile
messicano (come? I portacenere nel ristorante? Ah,
è vero, siamo in Germania…) ci siamo piazzati su
alcune sedie e Andrea, che la notte prima aveva
gozzovigliato con gli amici, s’è messo a pisolare.
Passano le ore e probabilmente i compagni di
Milano sono già in aeroporto. Ad un certo punto si
avvicina “un tale”: “Siete di avventure nel
mondo?”… “Sì”... “Sono Stefano!”. E’ il
coordinatore di Roma o, come poi Emanuela lo
chiamerà scherzosamente, “il capogita”, assieme a
Mauro e Antonella di Pisa. Ora non resta che
raggiungere il check in della South African Airways
dove ci stanno aspettando Emanuela, Stefania e
Dario. Li incontriamo e cominciamo le operazioni d’imbarco dei bagagli, compresa la cassa cucina.
Qui Stefano da già spettacolo con il suo carattere impulsivo agitandosi per l’inesperienza
dell’impiegata del check in (in effetti una novizia che poi si farà aiutare dalla collega…). Sbuffa e
brontola beccandosi del maleducato dall’impiegata dello sportello accanto. Ci sediamo vicino al gate
d’imbarco per una breve riunione e decidiamo all’unanimità di nominare Carlo, il più giovane del
gruppo, responsabile della cassa comune. Alla sera l’imbarco e il volo fino a Johannesburg. Dopo la
cena nel volo io, Monica e Carlo prendiamo la prima pastiglia di Malarone (il Lariam è troppo
fastidioso anche se più comodo perché si prende settimanalmente…), che ci accompagnerà ogni sera
per tutto il periodo di permanenza in zona a rischio malaria e anche nei sei giorni successivi dopo il
rientro.
4 settembre
Arriviamo a Johannesburg. Una breve attesa e poi prendiamo il volo per Victoria Falls, Zimbawe.
Dall’oblò si vede un territorio come quello dell’anno scorso tornando da Windhoek a Johannesburg:
savana a perdita d’occhio con qualche pista che taglia il terreno per centinaia di chilometri senza quasi
una curva. Il calore che sale dal terreno provoca dei vuoti d’aria che ci fanno ballare parecchio in
prossimità dell’atterraggio. Arriviamo in un aeroporto modesto, passiamo lo sportello
dell’immigrazione e ci dirigiamo al ritiro bagagli: colpo di fortuna, è arrivato tutto! Usciamo da una
porta laterale e sentiamo dei canti che arrivano dall’ingresso principale, un gruppo di indigeni in
costume sta intonando un canto per accogliere i viaggiatori del nostro volo. All’esterno troviamo il
corrispondente dell’agenzia in Zimbawe che ci accompagna al furgone. Carichiamo i bagagli e
partiamo per il centro (invio un sms a mamma per il compleanno e per informarla che fin qui va tutto
bene…). Facciamo tappa alla sede dell’agenzia e poi raggiungiamo i bungalow che ci ospiteranno per
una notte. Il tempo di prendere posto nelle stanze, poi usciamo a cambiare il denaro, a fare uno
spuntino e acquistare qualche bibita. Ci facciamo indicare la strada per il Victoria Falls National Park.
Non è molto lontano e ci andiamo a piedi. Lungo la strada ci sono molti ragazzi che vogliono venderci
vari oggetti di legno o pietra. Non siamo ancora in vena di acquisti. Ci rechiamo all’entrata del parco
per pagare l’accesso e poi iniziamo il percorso sul lato opposto della gola dove precipita il fiume
Zambesi. Le cascate, nonostante sia la stagione secca, sono maestose. Più di un chilometro e mezzo di
fronte per cento metri di altezza. L’acqua scende con uno scroscio costante e si vaporizza e ritorna in
alto come un enorme aerosol dando una sensazione di fresco nonostante il clima tropicale e formando
di continuo degli arcobaleni che scompaiono nel fondo del canyon. Il fiume Zambesi in questo punto
fa da confine tra Zambia e Zimbawe, ma molto vicino c’è il confine con il Botswana e con la Namibia
che si incunea in questo territorio con la Caprivi
Strip. Passeggiamo lungo il percorso panoramico e
scopriamo anche i primi esempi di flora e fauna
locali. Ad un certo punto, per fortuna non in
prossimità dello strapiombo, scivolo sulla roccia e
“volo” ad angelo in avanti. Riesco a mantenermi in
piedi atterrando sulla schiena di Dario (Se eravamo
qualche metro più avanti probabilmente lo lanciavo
nel vuoto…). Superato lo shock raggiungiamo la
fine del percorso e ci sediamo su delle rocce per
contemplare il panorama. La nostra curiosità si
sofferma su tre strane palme che svettano dall’altro
lato del canyon… a ben vedere con i binocoli sono
delle antenne camuffate… Torniamo sui nostri passi
e Carlo ci porta per una scaletta che aveva scoperto prima che arriva ad una terrazza naturale dalla
quale si può ammirare una delle cascate e la forza del fiume prima di arrivare allo strapiombo. Qui c’è
anche una statua con targa di David Livingstone che queste terre esplorò scoprendo la cascata che i
locali chiamavano Mosi-o-Tunya, “il fumo che tuona”. Di la dal confine, in Zambia, esiste la città di
Livingstone con un museo dedicato all’esploratore. Ritorniamo ai nostri alloggi, sono bungalow da 4
posti. Ci siamo sistemati io con Monica, Marta e Emanuela; Mauro e Antonella con Dario e Stefania;
Stefano con Andrea e Carlo. Carlo accende dei vulcani perché è terrorizzato dalla malaria… in effetti
in questa zona ci sono delle zanzare, ma non sembrano le temibili anofele. Doccia e poi siamo pronti
per uscire a cena. Andiamo al Mama Africa, un locale in centro dove mangiamo una zuppa vagamente
di verdure (sembra una zuppa pronta knorr…) e del facocero innaffiato con del vino sud africano. Del
buon rum per digerire il tutto. La serata è piacevole e cogliamo l’occasione per conoscerci un po’
meglio, visto che fino a ieri non c’eravamo mai visti… Tornando verso i bungalow facciamo tappa in
un locale notturno indicatoci da un ragazzo del luogo. E’ ancora semivuoto e quindi andiamo a nanna.
5 settembre
La mattina ci troviamo all’entrata del lodge. Andiamo in centro per acquistare qualche cosa da
mangiare. Colazione con latte, yogurt, frutta, seduti attorno al muretto di un’aiuola. Carlo sbuccia delle
piccole mele verdi per tutti. Partenza per il confine con uno di quei camion adibiti ai safari. Alla
frontiera vediamo i primi manifesti per la lotta all'AIDS (ne vedremo molti nei centri abitati...) che
invitano ad usare il preservativo, visto che il Botswana è uno dei maggiori paesi colpiti dal virus (c'è
un'alta percentuale di sieropositivi, molti di questi bambini...), prima di fare la coda all’immigrazione
(dove i preservativi si trovano gratis in un distributore), siamo costretti a smontare dal mezzo (che
passa per una fossa piena di disinfettante per i pneumatici) e pigiare le scarpe su di un tappetino
imbevuto della stessa sostanza. Si tratta di precauzioni veterinarie per evitare il contagio dei capi di
bestiame degli allevamenti. Arriviamo a Kasane, dove pianteremo il nostro primo campeggio,
passando per Kazungula (nome che provoca l’ilarità generale). Ci accampiamo vicino ad un ponticello
che porta ai bagni e alle docce. Ad un albero è inchiodato un cartello inquietante: “Beware
Crocodiles!”. Andiamo in paese a piedi (i mezzi che ci porteranno per il Botswana non sono ancora
arrivati) per cambiare i soldi e acquistare qualche cosa per pranzo e cena. Leggiamo i tassi presso
un’agenzia e poi Stefano con un paio di noi prende un taxi per vedere se alla banca il cambio è più
favorevole. Nel frattempo cominciamo a riempire il carrello al supermercato. Stefano ritorna e
decidiamo di cambiare all’agenzia. Torniamo a piedi
con le borse della spesa e ci accorgiamo che
abbiamo lasciato il carrello con le bocce d’acqua
(senza pagarle, per fortuna). Torniamo Io, Dario,
Andrea e Carlo e prendiamo due scatoloni da quattro
bocce ciascuno… 40 litri d’acqua che portiamo a
turno in spalla (Dario voleva che ne portassimo
insieme una non rendendosi conto che le nostre
stature sono “leggermente” differenti…). Dopo un
veloce pasto ci dirigiamo all’imbarcadero del
campeggio per una gita pomeridiana in barca sul
fiume Chobe senza Stefano che deve contattare
l’agenzia per sapere qualche cosa delle auto. La gita
si rivela interessante, anche se dura un paio d’ore
avvistiamo molti animali che pascolano nelle isole che emergono dal Chobe a cavallo del confine tra
Botswana e Namibia. Rientriamo al tramonto. Accendiamo il fuoco per la grigliata. Le auto non sono
ancora arrivate e con loro il tavolo e le sedie che dovremo usare nei camp site. Per fortuna la guardia
del campeggio ci presta un tavolo e delle sedie di plastica… Ci presta pure un mezzo barile di metallo
con una grata da adibire a barbecue sul quale cuciniamo e mangiamo carne, salsicce, pomodori. Dopo
cena un’ultima birra al bar del lodge dove Stefano ci racconta della volta che gli è toccato tra i
partecipanti di un viaggio il divino mago Otelma. Altri racconti e risate e decidiamo di andare a
dormire.
6 settembre
Stefano si è alzato presto ed è andato ad acquistare del latte e dello yogurt per la colazione. Poi arriva
Vasco con un furgone jeep che ci conterrà tutti per il game drive al Chobe National Park. In pratica
entriamo “via terra” nel parco visitato ieri in barca.
Percorriamo i pochi chilometri di strada asfaltata
fino al gate del parco e poi via per le piste interne.
Vediamo vari animali e quando costeggiamo il
fiume incontriamo un paio di jeep ferme vicino a dei
cespugli. Dietro s’intravedono due leoni adulti, un
maschio e una femmina. Sono tranquillamente
distesi all’ombra. Scattiamo delle foto e riprendiamo
con le telecamere. Appena le altre jeep se ne vanno
Vasco ci dice di preparare gli obiettivi, ingrana la
retromarcia, gira puntando il muso verso i cespugli e
ci si dirige in mezzo. Noi pensiamo ad una “toccata
e fuga”, ma quando siamo a pochi metri dai leoni
Vasco si ferma e spegne il motore (la nostra jeep è completamente aperta…). Dopo un istante di
perplessità, visto che i “gattoni” ci rivolgono solo qualche occhiata disinteressata, cominciamo a
scattare le foto e ad osservarli con curiosità. La femmina ha un radiocollare che i rangers le hanno
applicato per studiare i suoi spostamenti. Poi Vasco riaccende l’auto e indietreggia… il motore si
spegne… ci guardiamo… non se ne parla di scendere per spingere! La macchina riparte e presto siamo
di nuovo nella pista. Incontriamo altri animali, soprattutto elefanti, visto che in Botswana vive la più
grande comunità mondiale di pachidermi. Li osserviamo a terra mentre mangiano, lungo il fiume che
s’infangano o addirittura che nuotano e giocano quasi completamente immersi. Ci sono poi vari tipi di
gazzelle, bufali, ippopotami, coccodrilli oltre a volatili come gli aironi o le bellissime fish eagles.
Arriviamo in un’area adatta per il picnic. Possiamo scendere dall’auto e sgranchirci le gambe. Ci sono
pure i bagni. Scarichiamo il cibo (pane, del formaggio, speck e lonza sotto vuoto portati dall’Italia,
frutta) e l’acqua e ci accomodiamo attorno ad un tavolo con panche in cemento per pranzare. Dopo
questa pausa riprendiamo il game drive che si svolge senza grosse sorprese fino a quando, quasi al
tramonto, torniamo lungo il fiume. Vicino alla riva
c’è il leone maschio. La femmina invece è più
vicina ai cespugli e alla pista e nelle vicinanze ci
sono i cuccioli di varie età. Comincio a riprenderli
con
la
telecamera…
stanno
giocando
mordicchiandosi e leccandosi… emettendo brontolii
di piacere. Si alzano e vanno a coccolarsi dalla
mamma… e tutto questo ad un paio di metri da noi.
Arriva alle nostre spalle anche il papà… in pratica
siamo attorniati dai leoni che sembrano tinti
d’arancio per il sole che tramonta. Non c’è paura…
nemmeno quando incrocio i loro sguardi… gli occhi
gialli, fermi, da predatore. E’ una scena così
naturale che ne restiamo incantati, ben sapendo poi che non amano avvicinarsi alle auto e agli uomini.
Ce ne andiamo di malavoglia, ma il sole tramonta velocemente e bisogna uscire dal gate prima del
buio. Torniamo al campeggio dove, mentre prepariamo la cena, conosciamo Simon, uno dei due autisti
con i quali domani cominceremo il viaggio in Botswana. Dopo cena torniamo al bar del lodge e
incontriamo il gruppo di Avventure nel Mondo che ha appena terminato il “Botswana soft”. Hanno
avuto alcuni problemi con le auto (le stesse che useremo noi…), ma ci parlano bene degli autisti/guide
che domani li riporteranno presto al confine con lo Zimbawe prima di tornare a prenderci. Ce ne
andiamo a dormire relativamente presto… Domani sarà una giornata faticosa (non immaginiamo
quanto…).
7 settembre
Ci alziamo presto, cominciamo a fare velocemente i bagagli. Sto smontando la tenda quando Dario
comincia ad urlare: “Aiutatemi… aiutoooooo”. Mi giro e vedo un getto d’acqua che scroscia di fianco
alla sua tenda. Ha tolto un picchetto che probabilmente ha forato un condotto… Speriamo che non sia
la fogna, visto che il getto gli è arrivato dritto in bocca… Togliamo in fretta gli altri picchetti e
allontaniamo la tenda prima che si bagni completamente e avvisiamo la ragazza svedese che si è
accampata di fianco a noi (viaggia da sola… che coraggio…) visto che l’acqua sta scivolando verso la
sua di tenda. Avvisiamo la direzione del campeggio e così ora siamo anche senza acqua (Carlo resta
insaponato sotto la doccia). Le auto sono arrivate: due pikup Toyota con i sedili saldati sul cassone,
completamente aperti e un telone per riparare dal sole. Rimorchiano due trailers, uno dei quali già
carico di materiale vario del viaggio precedente. Carichiamo la maggior parte dei bagagli sul tetto di
una delle due auto, e il resto su un trailer. Formiamo i due equipaggi che resteranno invariati, salvo
qualche saltuario cambio, per il resto del viaggio. Nell’auto di Kenny, quella più comoda con i sedili e
l’apertura per salire sul cassone si accomodano Dario e Stefania, Mauro e Antonella, con Stefano a
fianco dell’autista. Io, Monica, Carlo, Marta, Emanuela e Andrea (duri e avventurosi fino all’ultimo…)
saliamo sull’auto di Simon, con le panche piccole e scomode e che per salirci ci si deve arrampicare su
per la ruota. Si parte… per la spesa. Arrivati al parcheggio del supermercato alcuni si avviano al
market. Due vanno ad acquistare una bombola di gas per il fornello e una tanica di paraffina per le
lampade. Altri restano nelle auto che si avviano al distributore per fare carburante. L’auto di Kenny ha
un serbatoio supplementare che sta ai piedi della prima fila di sedie passeggeri (un cartello in “simil”
italiano dice: “Vietare fumare”), mentre Simon riempie una decina di taniche di metallo che assicura
nell’ultima panca inutilizzata. Comunque a bordo di tutte e due le auto, soprattutto nelle strade
particolarmente dissestate, l’odore di benzina ci
accompagnerà spesso. Ci ritroviamo al parcheggio
del supermercato. Portiamo i carrelli carichi in
fianco alle auto e comincialo a caricare. Abbiamo
raccolto degli scatoloni per stivare i viveri nel trailer
e ieri Stefano ha acquistato due grandi bidoni neri di
plastica con coperchio chiudibile che si riveleranno
utili per proteggere le cose più delicate dagli
scossoni e dagli animali. Carichiamo anche i primi
boccioni d’acqua da 5 litri, che nel corso del viaggio
saranno il nostro tesoro. Mai come in questi luoghi,
dove il clima è molto caldo e passano anche alcuni
giorni senza possibilità d’approvvigionamenti, si
può capire il valore dell’acqua. Per il momento non
ne abbiamo acquistati molti perché avremo possibilità di fare un’altra spesa più avanti prima di partire
per il Kalahari. Li sistemiamo sotto i sedili, un po’ per auto. Siamo pronti. Indossiamo felpe, k-way,
cappelli e bandane fin sul naso. L’aria è ancora fresca vista la grande escursione termica di questa
latitudine. In effetti qui siamo alla fine dell’inverno. Partiamo e le jeep s’inerpicano su per i bassi
rilievi che circondano Kasane. Per un po’ proseguiamo per la strada asfaltata, poi prendiamo una pista
sassosa che mi ricorda le strade della Namibia. E’ proprio su questa strada che ad un certo punto il
nostro trailer (che ha il portellone chiuso solamente e precariamente con un gancio… ha legato sopra il
tavolo di ferro, in pessime condizioni, e la griglia per arrostire, che cigolano in maniera spaventosa e
fastidiosa…) improvvisamente comincia a grattare per terra. Si è spezzato un perno che tiene attaccato
il gancio alla macchina. Lo troviamo qualche passo indietro. Per fortuna Simon ne ha uno di ricambio.
L’altra auto che stava davanti viene a recuperarci.
Stacchiamo il trailer, sostituiamo il perno,
riagganciamo il trailer e ripartiamo per l’avventura.
Come quasi tutti i giorni successivi il pasto lo
consumiamo ai bordi di una pista, sotto un albero
quando possibile, ed è a base di pane in cassetta
affettato, formaggio, affettati, uova sode, frutta, ecc.
Ad un certo punto lasciamo la pista sterrata e
infiliamo una stradina stretta, tanto che i rovi ai lati
spesso frustano i pali che sostengono il telone della
jeep (e qualche volta le nostre braccia o le gambe…
). Assomiglia ad una nostra stradina di campagna
con i solchi ai lati e più alta al centro, ma in molti
tratti sabbiosa. Affrontando un tratto particolarmente pieno di sabbia noi dell’auto posteriore
c’insabbiamo. Simon tenta di uscire, ma ad ogni accelerata le ruote posteriori sprofondano fino ad
arrivare quasi a metà. Scendiamo e ci accorgiamo che il gancio di traino è incastrato come un aratro
nella duna centrale e il differenziale della jeep tocca il fondo. Da questo momento comincia una
sequenza di spingi, scava, sgancia il trailer, aggancia il trailer, traina. Gli altri, non vedendoci arrivare,
sono tornati indietro. Per trainare le auto Kenny e Simon usano una corda di nylon che ogni tanto si
strappa riducendosi sempre di più di lunghezza. Alle 21.00 siamo nella savana con le auto che stentano
ad avanzare (la nostra ha il ferro che regge il gancio così spostato che sfiora il terreno…). Si sentono i
leoni ruggire in lontananza e per fortuna la luna piena ci permette di vedere abbastanza bene. Stefano
sostiene che il campeggio non dovrebbe essere lontano e che alcuni dell’altra auto vogliono andarsene
perché i ruggiti li agitano. Gli rispondo che non me ne voglio andare e che trovo sbagliato dividerci.
Forse accendere un fuoco e piantare il campo qui non è la peggiore delle soluzioni. Fortunatamente
arriva un furgone verde con, a bordo, tre lavoranti del parco Linyanti. Kenny assicura che ci aiuteranno
a togliere le auto dalla sabbia e che ci apriranno il campeggio, che all’interno dei parchi in genere
chiude alle 18.00. Alla fine (anche il furgone s’insabbia e rischia di fondere il motore) riusciamo a
liberare le auto e decidiamo di lasciare i trailers (carichiamo bagagli e cibo nelle auto…) per
raggiungere il campeggio. Arriviamo al gate di Linyanti attorno alle 22.00. Veniamo a sapere che il
campeggio è chiuso da qualche mese e Stefano, incredulo, sempre di più si spazientisce con le guide. Il
ranger ci concede di piantare le tende in fianco alle casette degli addetti al parco e l’uso di un rubinetto
e del fuoco. Decidiamo di fare una frittata tanto per dare una parvenza di normalità e smorzare la
tensione. Alcuni sono particolarmente innervositi e, mangiando attorno al fuoco, si accende una
discussione animata. C’è chi pretenderebbe da Stefano una soluzione per l’indomani (non pensando
che, in fondo, anche lui si trova nella nostra stessa situazione). Stefano, dal canto suo, è sempre più
innervosito dal comportamento delle guide (e
pensare che all’inizio del viaggio ci aveva detto di
“trattare bene” gli autisti e che se c’erano problemi
avrebbe pensato lui a comunicare con loro…). Sono
permalosi e non vogliono essere “comandati” dal
coordinatore
del
gruppo.
Si
definiscono
professionisti, affermano di conoscere il programma
del viaggio (in effetti è l’agenzia che prenota per
tempo la permanenza nei parchi…), salvo poi, nei
momenti di disagio, risponderti che non sanno che
fare. In questo caso ammettono che le auto
(soprattutto la nostra…) non sono adatte a
continuare il viaggio. Affermano che domani uno
degli operai proverà a ripararla (sembra che il
differenziale sia andato…) e poi ci sono anche i trailer da recuperare (Prima di andare a dormire i
nostri autisti con l'aiuto degli altri operai andranno a recuperarne uno, per il momento...). Alla fine,
visto che il ranger non sembra disposto a darci l’uso della radio, Stefano decide che al mattino partirà
con Kenny per Savuti, dove ci sono un paio di lodge e c’è il telefono satellitare. Ci dice di insistere,
comunque, a farci usare la radio per comunicare all’agenzia di Maun se per caso l’auto è stata riparata
dal meccanico locale. Ci ritiriamo nelle tende per il meritato riposo.
8 settembre
Mi sveglio alle 6.00 e sento che Stefano si sta alzando. Esco e in mancanza di bagni vado a fare la pipì
poco lontano dalle tende, tra i cespugli, stando attento all’eventuale fauna che ci potrebbe essere
intorno. Mangiamo qualche biscotto intinto nel latte, un pezzo di cioccolato. Stefano e Kenny partono
per Savuti. Pian piano si svegliano anche gli altri. Questa sarà una giornata di attesa, gli operai del
parco hanno acceso il fuoco e ci invitano a scaldare l’acqua per il caffè e il tè. Chiedo a Simon se è
possibile utilizzare un bagno del ranger e, unico fortunato, mi fa entrare in casa e m’indica dove si
trova. Poi dice che dovremmo utilizzare i bagni del gate (tra l’altro la costruzione reca una targa che
ricorda come sia stata costruita con il contributo della comunità europea…), che si trova non lontano
sulla strada, ma sono in condizioni pietose e optiamo per continuare a fare i bisogni nella savana. La
giornata scorre noiosa. Gironzoliamo nei pressi delle tende (nei parchi non si può girare a piedi…) e
osserviamo gli operai che se ne stanno attorno al fuoco spennando delle faraone che probabilmente
hanno cacciato fuori del parco. Chiediamo se e quando l’operaio proverà ad aggiustare la macchina. Ci
rispondono che ha il pezzo che serve, ma vuole essere pagato e quindi aspetta che l’agenzia dia
l’assenso per il lavoro. E’ ora di pranzo, ci facciamo dei panini. L’acqua dei boccioni è tiepida, ma è
l’unica bevanda sicura (l’acqua del rubinetto non è affidabile e il colore non è molto invitante…).
Mangiamo addossati ad una delle baracche per ripararci dal sole. Chiediamo al ranger di poter
comunicare a Maun che la macchina non è stata riparata… Lui sostiene che ha ricevuto un messaggio,
che il nostro capogruppo sta tornando e che un’auto nuova è partita da Maun. Finalmente ritorna
Stefano. Ha parlato con l’agenzia locale, ma anche con Avventure a Roma. Ci chiede se hanno provato
a riparare l’auto, comunque ne dovrebbero mandare una nuova, ma aspettiamo la conferma via radio. Il
ranger assicura che potremo provare alle 15.00. Ci sediamo sotto un albero sui materassini e
giochiamo con la settimana enigmistica. Il ranger si sta allontanando in auto e Stefano gli ricorda che
dovevamo provare con la radio. Ci assicura che ritorna alle 17.00 circa. Allora (non poco incazzati…)
decidiamo, Stefano, io, Monica, Carlo, Emanuela, Marta e Andrea, di ritornare a Savuti per telefonare
di nuovo ed avere la conferma che l’auto sta arrivando. Non vorremmo restare bloccati un altro giorno
in questa terra di nessuno. Partiamo con Kenny e ripercorriamo la strada che hanno fatto la mattina. E’
una pista sabbiosa che spesso abbandoniamo per evitare di bloccarci passando per un terreno
disseminato di rovi e rischiando di graffiarci
dappertutto. Arriviamo a Savuti. Il lodge è di quelli
di lusso, recintato da una rete elettrificata, ma in
quel momento il cancello è aperto e c’infiliamo nel
giardino. Entriamo nella hall e Stefano si fa ridare il
telefono satellitare (alla fine della giornata la spesa
sarà di parecchie decine d’euro…). Noi ci aggiriamo
tra il giardino interno e il negozio del lodge.
Cerchiamo di rimediare una bibita fresca e delle
sigarette per Carlo (che fuma solo in ferie…)
quando arriva uno degli addetti che, prima
gentilmente, poi in maniera sempre più irritata (e
irritante…) ci dice che non siamo ospiti e che ci
dobbiamo accomodare vicino all’auto. E’ la prima
volta che ci succede (e da parte di un bianco...) di essere trattati in modo così inospitale in un luogo
così desertico. Torniamo alla jeep e attendiamo che Stefano ci raggiunga (ci conferma che l’auto
sostitutiva è in arrivo…). Proponiamo di provare a bere una birra all’altro lodge dove riceviamo lo
stesso un rifiuto. Kenny c’informa che la benzina scarseggia e scende a chiedere ad un autista del
lodge se è possibile averne. Ci conducono all’officina dove travasano due taniche nel serbatoio con un
tubo di gomma. Ripartiamo che ormai l’aria è meno calda e, quasi al tramonto, siamo di nuovo a
Linyanti. I compagni rimasti ci hanno preparato una deliziosa carbonara. Ci raccontano che ad un certo
punto gli operai del parco li hanno fatti montare a bordo del furgone per andare a vedere dei bufali che
stavano all’esterno del gate. Centinaia di bestie che corrono a rotta di collo, a poche decine di metri
dalle nostre tende, sollevando un polverone. Racconto che rende insignificanti i pochi incontri
d’animali che abbiamo avuto noi sulla strada per Savuti. E’ così buio tutto attorno, ora che la luna è
calante e sorge molto tardi, che Andrea per andare a lavare le sue stoviglie al rubinetto va a cozzare
con la gamba addosso ad un enorme crick che sta vicino ad un grosso camion. La ferita è fonda e
dolorosa. Fa la sua parte allora Carlo, come infermiere in trasferta, che pulisce e medica alla perfezione
pure con i pochi strumenti a disposizione, E’ notte, quando arriva l’auto sostitutiva con il meccanico
che si mette, al buio, a controllare l’auto guasta. Poi pianta la tenda vicino a quella di Kenny e Simon.
Andiamo a dormire. Domani partiremo per Xakanaxa, all’interno del parco Moremi.
9 settembre
Alla mattina, dopo una veloce colazione, smontiamo le tende e carichiamo i bagagli. Vorremmo partire
presto, ma dobbiamo ancora una volta adattarci ai ritmi africani, visto che con calma i nostri autisti
vanno a recuperare il secondo trailer. Stefano c’informa che ha consegnato al meccanico che rientra a
Maun una lettera per l’agenzia nella quale chiede, pur col rammarico per le conseguenze alle quali
questa decisione può portare, la sostituzione di Kenny e Simon (indicazione che era emersa, dalle
discussioni di questi giorni, da più d'uno di noi… ). Finalmente partiamo. Il paesaggio è piacevole,
anche se delle zone di pista più sabbiosa ci fanno
temere di finire intrappolati come due giorni fa.
Così che Carlo inventa la "strambata" (in realtà il
termine marinaro significa un'altra cosa...). In
pratica nel momento in cui ci accorgiamo che l'auto
fatica a far presa sul terreno ci alziamo all'unisono e
portiamo il peso sul lato opposto al guidatore (qui,
con la guida a sinistra, sta sulla destra
dell'abitacolo...) per aumentare la presa delle ruote.
Non sappiamo perché, però funziona. Chiaramente
chi siede già da quel lato tende ad uscire all'esterno
dell'auto reggendosi ai pali che sostengono il
telone. Ci fermiamo come il solito all’ombra di
qualche albero per un pasto veloce. Passiamo per una serie di laghetti dove avvistiamo degli
ippopotami. Più avanti incontriamo una mandria di bufali intenti a pascolare. Ci fermiamo in un
piccolo paese di poche capanne dove una piccola costruzione in muratura con un finestrone protetta da
delle grate, funge da bar. Una ragazza molto giovane, con una simpatica pettinatura, ci serve delle birre
semifredde e delle coca cole non molto meglio refrigerate. Attorno ci sono alcuni abitanti del luogo,
delle donne con dei bambini graziosissimi. E’ qui che Andrea, dopo aver bevuto la coca cola si
cimenta in un rutto pauroso (che io, involontariamente, registro con la telecamera…) tanto da
provocare lo sbalordimento e l’ilarità dei presenti (italiani e non…). Andrea chiude l’episodio con un
distratto: “Sorry…”. Passiamo il gate di Moremi, attraversiamo un fiume su un ponte di tronchi. Ci
fermiamo in uno spiazzo alberato, dopo aver guadato dei rigagnoli, a raccogliere la legna per il fuoco.
Costeggiamo un piccolo aeroporto (una pista in terra battuta per cessna e piper…) ed entriamo nel
campeggio quando il sole sta per tramontare. Montiamo le tende. Dopo i primi giorni di campeggio
abbiamo capito che i “grugniti” notturni che udiamo
distintamente sono generati da Mauro. Ci teniamo
tutti lontani dalla sua tenda! Accendiamo il fuoco
perché pare che qui gli animali siano numerosi.
Vado fino ai bagni che si trovano a poche centinaia
di metri da dove siamo accampati. Ci sono altre
persone che campeggiano lungo una fascia
delimitata da un campo con dell'erba alta alle spalle
e la strada sabbiosa davanti, oltre la quale si estende
la savana. Dalla Parte opposta ai bagni, alla fine
della strada, c'è il lodge. Questa volta, però, non ci
capiterà mai di usufruire del bar. Andiamo a fare la
doccia, dotati di pila perché i bagni non hanno
illuminazione (forse è meglio, così non vediamo la fauna che popola le pareti e il soffitto!). Andrea e
altri quando tornano alle tende ci dicono di aver visto un elefante che girava libero nei pressi dei bagni.
Prepariamo la cena e mangiamo vicino al fuoco. Dopo cena, mentre chiacchieriamo, passa sulla strada
a pochi passi da noi una iena maculata. Pochi minuti dopo qualcuno nota una grossa ombra che avanza
dietro le tende: si tratta di un ippopotamo che sta "brucando" l'erba avvicinandosi a noi. Ci alziamo per
osservarlo puntandogli le pile. Io cerco di riprenderlo con la telecamera ma è troppo buio. Ci ripariamo
dietro le auto nel caso continui la sua traiettoria. Il fuoco fa il suo dovere. Pian piano si sposta sulla
strada e l'attraversa per continuare la sua cena sul lato opposto. A questo punto andiamo a dormire.
Nella notte mi sveglio più volte per dei rumori che sento attorno alle tende. Provo ad aprire lentamente
la cerniera e a guardare fuori, ma non noto niente. C'è un po' di vento e forse i fruscii dipendono da
questo.
10 settembre
Al mattino, dopo colazione, andiamo verso il lodge che è in riva al fiume per imbarcarci su una piccola
chiatta che ci porterà per l'intrigo di canali e paludi di questa parte del delta dell'Okawango. E' una gita
rilassante tra alberi, canneti, papiri. Avvistiamo
svariati uccelli: aironi, cormorani, aquile, fenicotteri,
marabù, ibis (nel delta vivono circe 450 specie
d’uccelli...). Vediamo anche qualche elefante
nascosto tra la folta sterpaglia, occupato a strappare
e mangiare l'erba. Purtroppo non vediamo
coccodrilli,
che
pensavamo
numerosi
in
quest’ambiente. La barca ha una copertura in
metallo ed è possibile salirci sopra in non più di
quattro alla volta. Ci alterniamo così ad osservare il
paesaggio da un altro punto di vista. Quand’è ora di
pranzo sbarchiamo su una piccola isola di quelle che
si affacciano su un ampio bacino. Siamo di fronte ad
un'altra isola dove una volta i turisti (compresi quelli di AnM) facevano tappa piantando il campo per
una notte. Poi ci sono stati degli episodi di "sequestro" da parte dei pescatori che erano ingaggiati per
portare i visitatori. Questi barcaioli pattuivano una cifra e poi, quando era il momento di riportare a
terra gli ospiti pretendevano ancora dei soldi. Una volta a terra affettiamo il pane e del prosciutto crudo
per noi e per la guida/barcaiolo. Lui ci informa che non mangia carne (porta al petto una stella, come
Kenny…). Ci spiega che appartiene ad una chiesa che vieta di mangiare la carne, il pesce come il
tonno che non ha squame e quindi non può essere mondato dal diavolo. Gli offriamo del formaggio,
ma dobbiamo cambiare il coltello e tagliatore (Stefano…) perché sono "contaminati" dalla carne.
Finito di mangiare risaliamo a bordo del battello e incontriamo due elefanti che nuotano e giocano nel
mezzo del bacino. Prendiamo la strada del ritorno e
il barcaiolo si sporge e beve l'acqua del fiume. Dice
che è buona. Non oso pensare cosa ci può succedere
se proviamo a berla noi! A Monica, che sta sul tetto
della barca, scivola un pacchetto di batterie
ricaricabili della macchina fotografica che, prima di
cadere in acqua, rimbalza sulla testa di Dario, il
quale accusa la nostra famiglia di attentare alla sua
incolumità (rifacendosi allo "spintone" mio alle
Victoria Falls...). Sbarchiamo e torniamo al campo,
smontiamo le tende, carichiamo i trailers e siamo
pronti a partire per Maun. Arriviamo quasi al
tramonto al campeggio Sedia che si trova alle spalle
dello stabile dell'albergo con bar e ristorante
all'aperto con tanto di piscina. Io, Carlo ed Emanuela piantiamo le tende assurdamente molto vicine,
visto lo spazio esteso del campeggio. Stefano ce lo fa notare. Gli rispondiamo che ci garba così, perché
ci vogliamo bene! Prenotiamo un tavolo per la cena e poi andiamo a fare la doccia. Il menu del
ristorante non è molto vario e prendiamo della carne ai ferri. Beviamo del vino sudafricano (in pratica
l'unico di qualità che si trova qui, come in Namibia). La serata è fresca. C'è un po' di vento e un
continuo gracidare di rane. Passiamo il resto della sera al bar dove Stefano gioca al biliardo. Andiamo
a letto molto tardi.
11 settembre
Ci alziamo con calma. Questa mattina andiamo in centro a Maun per fare la spesa. Un gruppo va al
supermercato mentre io, Monica e altri visitiamo un negozio d’articoli vari dove acquistiamo delle
cartoline (i francobolli ci dicono li troveremo solo all'aeroporto...) e poi ascoltiamo alcuni cd di musica
locale. Alla fine ne acquistiamo un paio. Ci sono in vendita delle confezioni d’extension di capelli già
pronti in piccole trecce, allora si scherza con Andrea che, come me, ha un taglio cortissimo. Nel
sottoportico fuori dei negozi vediamo una donna Herero nel suo costume tipico stile '800. Monica
accenna ad inquadrarla con la macchina fotografica (è risaputo che molte di loro non amano farsi
fotografare... alcune solo dietro ricompensa...), ma non scatta. Non si è accorta che la donna parlava
con un militare che si avvicina infuriato. Monica cerca di spiegare che non ha scattato la foto e fa
scorrere le immagini della digitale, ma il militare continua a protestare nella sua lingua
(incomprensibile!). Per fortuna interviene Simon che riesce a calmare il tipo (anche se poco prima
aveva lui stesso fatto una scenata con Stefano al supermercato... sono proprio esplosivi questi
botswani...). Arrivano i carrelli colmi di cibo e acqua (dobbiamo andare verso il Kalahari e non avremo
possibilità di approvvigionamenti per alcuni giorni). Carichiamo tutto in auto e poi continuiamo a
visitare le botteghe lungo la strada. C'è un negozio all'aperto di batik molto belli, ma anche molto
grandi che non saprei dove appendere a casa. Andrea comincia una contrattazione per un paio di questi
e altri oggetti. Lo lasciamo a mercanteggiare e ci dirigiamo ad un altro mercato dove ci sono molti
articoli di legno intagliato. Qui Carlo acquista un paio d’orecchini di legno a Marta che ama sfoggiarne
ogni giorno un modello diverso. Ci dirigiamo verso il parcheggio dove abbiamo lasciato le auto.
Torniamo verso il campeggio. Sulla strada vediamo l'insegna rudimentale (che colpisce Carlo per
deformazione professionale) di un medico tradizionale africano. Rientriamo al campo per pranzare, fa
caldo e cerchiamo di sistemare il tavolo sotto alcuni alberi vicini alle tende. Approfittiamo del sole
cocente e del fatto che resteremo qui due notti per lavare la biancheria. Con Carlo stendiamo un filo tra
due alberi e poi ci rechiamo ai bagni con i nostri sacchetti e il sapone. Ci mettiamo in coda, visto che ci
sono già Stefano e Andrea. Quest’ultimo sta lavando tanti di quei vestiti che pare ne abbia portati di
sporchi anche da casa. E’ impossibile che abbia
consumato tutta quella roba in pochi giorni. Alla
fine, quando è il nostro turno, è quasi finita l’acqua
e dobbiamo attendere che la pompa ne accumuli
dell’altra. Mentre lavo arriva Monica con la
macchina fotografica perché, dice, vuole
immortalare questo momento storico (in effetti,
siamo tutti uomini a lavare…), ma alla fine si trova
a darci una mano (poteva restarsene seduta a
tavola…). Steso il bucato (che si asciugherà molto
velocemente…) ci prepariamo per andare
all'aeroporto di Maun, da dove partiremo per il volo
sul delta dell'Okawango. Visto che la nostra
auto perde dell'olio sotto il piantone dello sterzo sui pedali (non si sa da dove...) decidiamo di salire
tutti e undici sull'auto di Kenny, per dare modo a Simon di portarla dal meccanico. La strada per
l'aeroporto è breve. Stefano e Kenny vanno all'agenzia a comprare i biglietti, noi intanto acquistiamo i
francobolli nell'ufficio postale interno, scriviamo le cartoline e le imbuchiamo in una cassetta di legno
piuttosto artigianale. Alle 16.00 arriva il responsabile dell'agenzia che ci fa passare una sorta di check
in e ci fa accomodare in una sala d'attesa dalla quale usciamo quasi subito direttamente all'esterno in
prossimità della pista. Ci dirigiamo verso dei piccoli cessna divisi in tre gruppi ognuno al seguito del
proprio pilota: Io, Monica, Marta ed Emanuela (con l'unica pilota donna, Britta...); Mauro, Antonella,
Dario e Stefania; Stefano, Carlo e Andrea. I piloti c’indicano su una mappa l’area che sorvoleremo in
un'ora sopra la zona sud orientale del delta, che è enorme e si estende nell'interno del Botswana (non
sfocia nel mare...) in un territorio altrimenti desertico. Il fiume Okawango, che nasce in Angola e passa
per la Namibia, con la sua piena, che arriva alcune settimane dopo le grandi piogge, porta una seconda
ondata di vita e permette a queste terre di conservare
un ecosistema unico al mondo. Il pilota ci fa salire e
ci da le ultime istruzioni, compreso il posto dove si
trovano i sacchetti in caso ci venisse da vomitare. Ci
spiega che per mostrarci il panorama farà delle
virate a destra e a sinistra e in caso di nausea basta
avvertirla e lei si riporta in posizione. E’ la prima
volta che volo in un aereo così piccolo, quindi non
ho idea quanto siano fastidiose queste evoluzioni e
gli eventuali vuoti d'aria. Accende il motore e
lentamente si porta all'inizio della pista, accelera e in
breve ci troviamo sopra i tetti delle baracche di
Maun. L'abitacolo è rumoroso e caldo, anche se
dell'aria entra da dei bocchettoni sibilanti. Pian piano la vegetazione sotto di noi comincia a cambiare
colore, dal giallo della savana al verde più intenso e si cominciano a vedere una serie di canali più o
meno larghi e profondi che si snodano formando delle isolette dove vediamo degli animali, bufali,
elefanti, intenti a bere o a bagnarsi. Uno strano spettacolo sono i termitai, che spesso incontriamo quasi
solitari lungo le strade a terra, che visti dall'alto sono numerosi e disposti in modo che sembra quasi
regolare ed equidistante. Assomigliano ai coni che si creano in spiaggia facendo scivolare dalle mani la
sabbia intrisa d'acqua, solo che alcuni sono più alti di una persona e a volte inglobano l’intero fusto di
un albero. S’intravedono anche i mokoro, le imbarcazioni tipiche scavate in un tronco e portate
spingendo una lunga pertica sul fondo dei canali. Il volo è piacevole e per niente fastidioso. Faccio
delle riprese con la telecamera e scattiamo parecchie
foto. Viriamo per tornare verso Maun ed
intravediamo alla nostra destra l'aereo che porta
Carlo, Stefano e Andrea. Britta alza la quota per
allinearci, così ci scattiamo a vicenda delle foto.
Sulla nostra sinistra ad un certo punto vediamo la
pista di Maun. L'atterraggio è veloce e delicato.
Come tutte le belle esperienze (in particolare
questa...) il tempo è "volato". Scendiamo e ci
fermiamo a scambiare commenti e impressioni
entusiastiche ma siamo invitati a lasciare l'area
interna dell'aeroporto. Continuiamo a chiacchierare
all'esterno dove nel frattempo è arrivato anche
Simon con l'altra auto. Faccio notare che anche
l'anno scorso ero in volo l'11 settembre (data nefasta per l'aeronautica…) per tornare dalla Namibia,
ma non sono superstizioso e penso che ogni giorno è buono per volare... o cadere. Notiamo che di
fronte all'aeroporto c'è un negozio (chiaramente per turisti...) dove gli oggetti hanno dei prezzi molto
sopra la media, ma contiene anche una bellissima galleria d’immagini del territorio e d’animali africani
che vale la pena vedere. Ammiriamo queste foto quando Emanuela, passando tra dei pannelli che
delimitano il percorso della mostra, urta una famiglia di giraffe di legno facendole capitolare con
effetto domino. Nulla può Dario nel tentativo di fermare il crollo. Io, Monica e Carlo, che siamo
leggermente più avanti, una volta accertato che il frastuono non annuncia niente di grave ci mettiamo a
ridere. Carlo addirittura fugge fuori del negozio sbellicandosi. Risaliamo sulle auto dividendoci di
nuovo nei due equipaggi distinti. Sulla strada di ritorno facciamo fermare Simon ad un laboratorio di
batik che però ha appena fatto una svendita e non ha molto da mostrarci. Arrivati al campeggio
prenotiamo un tavolo per la sera al ristorante e ci sediamo a bere qualche cosa nell'attesa che arrivi
Irene (corrispondente dell'agenzia che ci ha fornito auto e autisti qui in Botswana) con la quale
Stefano, supportato da Carlo nella veste di cassiere, contratterà per qualche ora uno sconto per i guasti
e i disagi dei giorni precedenti. Irene parla per conto di Clint, proprietario dell'agenzia, personaggio
che diventerà un mito per la sua "invisibilità" (Sta sempre nel bush e Stefano lo sentirà solo al
telefono...). Noi andiamo ad assistere alla discussione (che si svolge mentre a turno facciamo la doccia
fino a che ne abbiamo la possibilità… domani saremo nel Kalahari...), che a sprazzi ha del comico per
le sparate di Stefano e di Carlo. Alla fine riusciamo ad ottenere una serie di rimborsi (come le
telefonate...) e qualche sconto sui noleggi. Stefano ritira la richiesta di cambiare gli autisti, anche se i
rapporti continuano ad essere per lo meno strani. In campeggio notiamo una tenda con una moto
parcheggiata vicino. E’ un turista canadese che ha già girato l’America, ora sta viaggiando per l’Africa
e intende raggiungere per la costa orientale lo Yemen e proseguire per la Tahilandia, l’Indonesia, per
poi imbarcarsi per l’Australia, un giro che complessivamente durerà qualche anno. Dice di mantenersi
insegnando inglese, ma credo abbia le spalle ben coperte per permettersi di abbandonare tutto per un
viaggio così dispendioso. Per cena, al ristorante, ci avevano promesso un piatto locale. Ora ci dicono
che è finito (davvero non è facile capire i ritmi e i pensieri africani... ) e ci dobbiamo accontentare di
quello che, a più riprese, la cameriera ci dice essere rimasto in cucina. Per fortuna c'è sempre il buon
vino sud africano. Dopo cena gironzoliamo nel giardino del ristorante e beviamo qualche cosa nel bar
dove alcuni di noi sfidano i locali (con scarsi risultati) a biliardo. Si usa così: due giocatori si stanno
cimentando in una partita, lo sfidante appoggia sul bordo del tavolo una pula (la moneta locale che
significa "pioggia", mentre i centesimi, thebe, stanno per "gocce", questo per capire il valore che qui é
tributato all'acqua) e aspetta di battersi con il vincente della gara in corso. Ci si può accodare in quanti
si vuole, la notte è lunga. Per la nuova partita, la pula viene inserita nel tavolo per riavere le boccette,
così che lo sfidante paga e chi è più bravo praticamente gioca gratis. Le ore passano e andiamo a
dormire tardissimo (due in particolare più tardi degli altri...).
12 settembre
Sveglia relativamente presto. Facciamo colazione poi smontiamo le tende e carichiamo i bagagli sulle
auto. Partiamo e dopo un po' ci fermiamo ad un
distributore per fare il pieno ai serbatoi e alle taniche
visto che poi ci allontaneremo dai centri urbani.
Compriamo qualche stuzzichino e delle bibite
fresche e Andrea acquista un pallone bianco rosso e
verde al supermercato SPAR. Nell'attesa
palleggiamo sullo spiazzo in fianco alle pompe di
benzina: siamo o non siamo i campioni del
mondo? (Come ci ricordano molti di quelli che
incontriamo, che conoscono i nomi dei giocatori
della nazionale e ce li snocciolano come in un
rosario... ). Arriva una guardia dei negozi vicini,
Carlo chiede se vuole giocare anche lui, ci fa capire
che lì non si può giocare. Finito il rifornimento
percorriamo qualche altro chilometro di strada asfaltata e giriamo per una pista in corrispondenza di
una rete veterinaria. Si tratta di una doppia rete, una delle quali elettrificata (come ce ne sono tante in
Botswana e che fanno parte di quelle prevenzioni tipo la disinfezione di ruote e suole al confine...).
Proteggono il bestiame da contatti e contagi con animali selvaggi. Alcune associazioni ambientaliste
internazionali sollevano l'obiezione che questi chilometri di rete non permettono le naturali migrazioni
che da sempre le mandrie selvatiche hanno intrapreso in questi territori (soprattutto nella stagione
secca, alla ricerca delle rare pozze d'acqua), provocando grossi squilibri e, a volte, anche la morte di
molti capi. Costeggiamo la rete per molti chilometri in una savana arsa punteggiata qua e la da acacie e
da cespugli completamente coperti dalla paglia portata dal vento. Assumono così una forma strana di
piccole capanne probabilmente abitate da piccoli animali. Trovato un albero abbastanza grande lungo
la pista ci fermiamo per il solito pranzo a base di
pane in cassetta, formaggio, affettati, mele.
Prendiamo anche qualche sedia dal trailer e ci
accomodiamo, un po' come nella vecchia pubblicità
di Calindri, proprio al centro della pista. L'unica
differenza è che manca assolutamente il traffico
caotico della città. Il sole è cocente, anche se
all'ombra si resiste visto il basso tasso d’umidità.
Dario ha un orologio con termometro e lo appende
alla rete dove non c'è ombra. In pochi secondi i 40
gradi sono superati. Ripartiamo ancora lungo la rete
e incontriamo anche un paio d’auto che procedono
in senso inverso. Com'è d'uso in questi paesi poco
popolati si rallenta, ci si saluta e ci si scambia
qualche informazione o curiosità sulla strada percorsa. Ad un certo punto un cartello c’indica un posto
di blocco veterinario. Avvistiamo Qualche casetta, la pista compie una larga curva che ci porta
perpendicolarmente alla rete, proprio di fronte ad un cancello. Alcune persone sono sedute nel cortile
tra le casupole. Uno di loro si avvicina e parla con Kenny. Un cane bianco tutto ossa mi viene vicino e
accetta con noncuranza una carezza. Il guardiano ci chiede di aprire il trailer per una ispezione. Gli
interessa particolarmente il contenuto del contenitore degli alimenti, visto che non si può passare con
carne di manzo. Guarda il salame, lo rimette giù, poi prende lo spek e la lonza ancora sotto vuoto.
C’indica un bidone e ci spiega che dobbiamo gettarli via. Io assicuro che il salame è di porco e anche
gli altri due pezzi (nonostante l'aspetto da carne
cruda...) "are the same". Il tipo tentenna e chiama "il
capo". Stefano ed io ci guardiamo ed esprimiamo il
nostro pensiero comune: "Questo si vuole garantire
il pranzo?". Ce li fa buttare e poi se li recupera,
quando siamo andati! Stefano dice: "Piuttosto me li
affetto qui e me li mangio". Arriva l'altro guardiano
e gli ripetiamo, anche con l'aiuto di Kenny, che non
è carne di manzo. Ancora qualche istante di
tentennamento poi ci fa un vago segno di
semiapprovazione, noi gettiamo il tutto di nuovo
dentro il trailer e lo chiudiamo, prima che cambi
idea siamo a bordo delle jeep. Ci aprono il cancello
e siamo di nuovo sulla pista che ci porta al gate
della Central Kalahari Game Reserve. Scendiamo a sgranchirci le gambe, mentre Stefano va negli
uffici dei rangers per il pagamento d'accesso. Siamo ad un incrocio nel nulla tra la strada che abbiamo
percorso noi e quella che uscendo dal parco prosegue fino al paese di Rakops (c'è persino un cartello
che indica le destinazioni...). Scattiamo qualche foto di gruppo di fronte al cartello del parco.
Risaliamo sulle auto e, passando sotto la costruzione del gate ci dirigiamo verso la Deception Valley,
dove pianteremo il campo. Arriviamo nell'area dove campeggeremo (ad una quarantina di chilometri
dal gate...). Si tratta di un'area come altre nella zona, con un disco di cemento dove fare il fuoco, due
costruzioni di legno senza tetto fatte a chiocciola. Una contiene un water che da direttamente su una
buca della quale non s’intravede il fondo e dalla quale esce un puzzo soffocante. L'altra contiene la
doccia, ovvero un secchio da riempire con la propria acqua che poi va issato con una corda all'altezza
desiderata e che sul fondo ha un rubinetto con un erogatore a forellini. Piantiamo le tende a
semicerchio a qualche metro dalla base per il fuoco, infastiditi dalle faraone che ci girano intorno senza
il minimo timore. Per scherzo ipotizziamo una cena a base di questi volatili e Carlo, celere, lancia il
suo coltello e quasi ne colpisce una. Kenny "impallidisce" e si mette ad imprecare! E' chiaro che dentro
il parco non si può assolutamente cacciare. Carlo chiede scusa e l'episodio si chiude qui. Ceniamo alla
luce delle lampade a paraffina, che si anneriscono subito e quasi ogni sera vanno ripulite con cura. La
paraffina poi è oleosa e ha un odore fortissimo. E' già capitato che abbia macchiato dei bagagli nel
trailer e quindi nei trasferimenti svuotiamo le lampade e le trasportiamo con la tanica dentro un
sacchetto di nylon sull'ultima panca della nostra jeep. L'acqua non è molta, oltre alla preziosa scorta da
bere. Abbiamo riempito due grosse taniche e alcuni bottiglioni vuoti da cinque litri riconoscibili dallo
scotch da pacchi che abbiamo sovrapposto all'etichetta per non confonderla con quella potabile.
Laviamo quindi le stoviglie centellinandola. Ci sediamo attorno al fuoco, in silenzio, con il naso per
aria a cercar di vedere le stelle cadenti. Stefano si apparta vicino al tavolo, gli occhiali sul naso, a
scrivere chissà quale racconto o copione alla luce della lampada (ha fatto l’attore di teatro…).
Qualcuno si sposta dietro le jeep, per mascherare la
luce del fuoco, senza allontanarsi troppo: sarebbe
pericoloso. E' indescrivibile il cielo notturno nelle
zone desertiche, così fitto di stelle, con la via lattea
visibilissima e le stelle cadenti numerose, con una
scia lunghissima che sembrano al rallentatore, tanto
che una notte ero di spalle, quando Stefania ha
detto:"Eccola!". Ho fatto tempo a girarmi e
vederla ancora morire nel buio. Riusciamo a
vederne molte, poi la stanchezza comincia a farsi
sentire e chi prima, chi dopo, si ritira in tenda. Prima
però bisogna fare la pipì, che poi se scappa di notte
ti tocca uscire da solo. La latrina è fuori
discussione. Mi allontano un poco vicino ai
cespugli, sposto la pila da fronte come un faro per controllare che non ci sia alcun animale. Nel buio si
possono notare degli occhi luccicare, ma non si avvicinano. In particolare in mezzo ad un cespuglio
vedo il riflesso di un occhio piccolino che avanza lentamente e regolarmente a livello terra: un serpente
o solamente un topolino? Meglio non pensarci. Mi avvio alla tenda, prima di aprire la cerniera
allontano con la ciabatta un bel ragno peloso che si aggirava davanti all'ingresso. Finalmente il
meritato riposo, buona notte.
13 settembre
Come deciso ieri sera ci alziamo prestissimo per un game drive. Stiamo facendo una veloce colazione,
quando udiamo alcuni ruggiti che vengono dalla Deception Valley. Nascondiamo il cibo, prendiamo il
minimo indispensabile e saltiamo a bordo delle auto. La nostra stenta a partire. Scendiamo e spingiamo
fino a che va in moto. Raggiungiamo la savana cosparsa qua e la di piccoli boschetti d’acacia. Ci sono
alcuni sciacalli e un orice solitario non molto lontano (c’era anche ieri in quella stessa posizione… che
sia di cartone?...). Di predatori nemmeno l’ombra. Simon però ci mostra lungo la pista sabbiosa delle
chiare impronte di felino (come illustrato anche nel bel libro sulla fauna africana che ha con se…) che
però potrebbe essere passato questa notte. E’ risaputo che i ruggiti, nel silenzio della savana, si
propagano anche a chilometri di distanza. Nel breve giro che facciamo ci rendiamo conto che l’auto ha
qualche problema. Non parte facilmente e il più delle volte ha bisogno di una spinta , che in un game
drive non è proprio la cosa migliore! Torniamo a finire la colazione per poi riprendere la visita del
parco. Ci spingiamo per una serie di sentieri a nord senza però avere molta fortuna. Incontriamo
piccoli animali, xero del Sud Africa (simili a
scoiattoli) che vivono in delle tane scavate nel
terreno con molte via d’accesso. L’anno scorso li ho
fotografati nel campeggio all’Etosha, in Namibia.
Erano abituati ai campeggiatori e correvano a
prenderti i bocconi di pane dalle mani alzandosi
sulle zampette posteriori. Poi ci sono alcuni impala,
gruppi di femmine con il solo maschio dominante
(…e via battute sul fortunato possessore
dell’harem…) e gruppi isolati di maschi perdenti
(sfigati…) che non attendono altro che il momento
di sfidare e soppiantare l’avversario. Poi ancora
molti uccelli che Simon conosce bene e c’indica
pronunciando di volta in volta il nome (mitici il
Segretary bird, che i locali dicono somigliare ad una segretaria truccata e ben vestita… E il Cory
bastard). Proseguiamo senza spegnere il motore per evitare di dover scendere ogni volta, ma un game
drive rumoroso non è il massimo, ogni tanto ci si dovrebbe appostare a motore spento per non agitare
gli animali. L’auto si spegne a più riprese, allora ci rendiamo conto che il guasto è più grave di quello
che pensavamo. Non si tratta solo della batteria, che a questo punto dovrebbe essersi ricaricata.
Decidiamo che è il caso di rientrare alla base. Lo facciamo con difficoltà perché la macchina ci muore
su una pista sabbiosa in salita. Ci vuole tutta la nostra buona volontà per riuscire a farla ripartire e, con
ansia, torniamo al campeggio. Girando la chiave dell’accensione non da segni di vita e se, faticando,
riusciamo a metterla in moto, non tiene il minimo. Appena si lascia l’acceleratore muore. Stefano
propone di far andare gli autisti fino al gate per comunicare via radio il problema all’agenzia (sono
circa 40 chilometri di pista che spacca la schiena…). Gli faccio notare che non sono così affidabili e
preferirei che ci andasse lui, mi offro di accompagnarlo e Monica si aggrega. Ci prepariamo al volo un
panino e partiamo con Kenny (sono più o meno le 13.00). Impieghiamo circa un’ora e mezza per
arrivare all’entrata del parco. Spieghiamo la situazione al ranger e dobbiamo ancora una volta
sottostare ai ritmi africani. Seduti all’ombra, con molta calma e tatto. Il ranger sostiene che la radio va
usata per casi di estrema necessità (stare nel deserto
con l’auto rotta e l’acqua razionata qui è normale…),
che poi lui non chiamerebbe direttamente Maun, ma
una base intermedia che poi avviserebbe quella di
Maun che a sua volta andrebbe ad avvisare
l’agenzia, il tutto senza possibilità di certezza che il
messaggio venga recepito. Poi, sempre con molta
flemma c’indica l’incrocio fuori del gate e ci
assicura che a Rakops (altri 40 chilometri…) c’è il
telefono. Ok, non ci resta altro da fare. La mia scelta
di non lasciare andare gli autisti da soli si rivela
giusta, sono certo che sarebbero tornati indietro per
dirci che non si poteva usare la radio, punto. Stefano
mi da ragione e dice a me e Monica: “Ormai siete in
ballo, si va a Rakops!”. Di nuovo una pista spaccaossa (per fortuna non come la pericolosa febbre
Dengue…). Siamo in prossimità di Rakops (incontriamo delle mandrie di bovini al pascolo e
intravediamo il centro abitato all’orizzonte…), quando ci accorgiamo che i telefoni cellulari hanno
campo. Kenny chiama l’agenzia che gli assicura che a breve saremo richiamati da Clint in persona.
Aspettando abbiamo anche l’esperienza di essere investiti da una di quelle piccole trombe d’aria che di
solito si notano in lontananza nella savana. Sono delle colonne di polvere che si spostano velocemente.
La vediamo nascere dalla strada, alzarsi lentamente e venire verso di noi. Abbassiamo la testa e
chiudiamo gli occhi. Per qualche secondo ci
troviamo al centro di un turbinio di vento e sabbia
che poi passa e prende sempre più velocità. Clint ci
richiama e Stefano spiega la situazione minacciando
che quando rientreremo sarà costretto a parlare di
questi contrattempi con Paolo (uno dei capoccia di
AnM…) che lui conosce bene. Clint ci promette che
farà partire subito un’auto con i meccanici. Kenny ci
fa notare che questi spostamenti non previsti ci
fanno consumare carburante, allora ci dirigiamo
verso il centro di Rakops. Raggiungiamo un
distributore di benzina d’altri tempi. Le uniche due
pompe funzionanti (una è guasta e ci sono attorno
degli operai che ci lavorano) sono “a mano”, nel senso che una va a manovella, l’altra, quella che
utilizzano per la nostra auto, ha una leva che deve essere spinta avanti e indietro con energia, tanto che
per il pieno si alternano il benzinaio, una ragazza esile con tuta blu da meccanico e un cappello di
paglia e alla fine anche Kenny. Noi scendiamo dalla jeep per sgranchirci e scattiamo increduli delle
foto. Ultimate le operazioni di rifornimento ci dirigiamo ad un market dove Kenny compra una
aranciata da un litro e mezzo per il ranger (infatti gli aveva consegnato del denaro quando siamo
partiti…). Noi ne approfittiamo per acquistare delle bistecche di manzo e delle costicine di agnello per
la cena e, con grande soddisfazione per le nostre gole riarse, ci scoliamo una bibita gelata. Ora non ci
resta che rifare gli 80 chilometri al contrario. Per strada riusciamo a vedere qualche animale, una
mangusta gialla, un gatto selvatico, degli orici. Incontriamo anche un guidatore solitario con la jeep in
panne che attende aiuti. Arriviamo nei pressi del campeggio che è il tramonto e ci fermiamo per
scattare qualche foto. Una volta raggiunti i nostri compagni raccontiamo il nostro viaggio e loro la
giornata passata ad attenderci (hanno provato a fare un giro con l’auto guasta per fotografare il
tramonto e hanno spinto a dovere…). Carlo ci accoglie con baci e abbracci, soprattutto perché ha visto
la carne che abbiamo portato. Facciamo una breve
riunione e decidiamo a maggioranza di saltare la
puntata a Piper Pan, che in fondo non è molto
diverso da dove ci troviamo ora, per recuperare un
po’ del tempo perso per le varie vicissitudini, ma
anche perché un altro problema alle auto in un posto
così lontano dai centri abitati comprometterebbe
definitivamente il viaggio. Organizziamo la grigliata
nell'attesa dell’arrivo dei meccanici. Finito di
mangiare siamo di nuovo intorno al fuoco, Stefano
continua a scrivere prima di darci la buona notte: il
viaggio fino a Rakops ci ha sfiancato. Noi comunque
continuiamo ad attendere i soccorsi. Ad un certo
punto sentiamo un motore, ma si tratta di un furgone
di turisti che abbiamo incrociato oggi. Poi un altro motore, Andrea corre verso il bivio che porta alle
nostre tende, gli gridiamo di stare attento, ma lui avanza nel buio sbracciandosi. Sono loro, i nostri
meccanici. E’ circa mezzanotte, gli offriamo da mangiare, poi cominciano a controllare l’auto.
Riescono a farla partire e tutto sembra risolto, comunque Andrea li convince a lasciarci i cavi con le
pinze per fare ponte nel caso dovesse verificarsi ancora qualche inconveniente con l’accensione. Ci
ritiriamo nelle nostre tende.
14 settembre
Al mattino partenza per un altro game drive. Questa volta scendiamo a sud, ma la macchina ricomincia
a fare le bizze. La riavviamo un paio di volte facendo ponte con l’altra e alla fine decidiamo di
rientrare al campo, prima che i meccanici se ne vadano via. Questa volta sostituiscono lo start up e
pare che tutto sia risolto. Facciamo colazione, smontiamo le tende, carichiamo le auto. Si parte,
direzione Rakops (chissà perché mi sembra di conoscere la strada…). Stefano convince i meccanici ad
accompagnarci almeno fino alla strada asfaltata. Prima di uscire dal parco incontriamo ancora il tipo
con l’auto ferma che abbiamo visto ieri. Stanno aiutandolo a ripararla, ma si trova in mezzo alla pista
in un tratto chiuso tra delle dune. Lo superiamo salendo con la jeep su un lato quasi rovesciandoci sulla
sua. Arriviamo al gate, il ranger ci saluta e ci domanda se ora l’auto funziona bene. Imbocchiamo la
strada di fronte all’uscita e arriviamo a Rakops. Facciamo una breve sosta e ripartiamo verso il
Makgadikgadi National Park. Ormai siamo sulla strada asfaltata e i meccanici ci sorpassano e ci
salutano. Lungo la strada, al riparo di un albero, un gruppo di persone sta cercando un passaggio. Ci
fermiamo, Simon (il solito simpaticone…) monta in groppa ad un asino e si cimenta in una cavalcata
nel bel mezzo della strada (qui il traffico non è poi così fitto…). Facciamo salire un paio di donne con
alcuni bambini divisi tra le due auto, alcuni davanti in fianco all’autista e altri dietro vicino a noi. Ad
un certo punto uno di loro, visto Carlo, scoppia a piangere e tutti partono in coro e vogliono
raggiungere la donna che sta davanti. Ne resta solo uno con noi, ma che si guarda bene dal darci la
minima confidenza. Andrea comincia a distribuire biscotti che i piccoli accettano con timidezza. Noi,
per rompere il ghiaccio, cominciamo a cantare in
coro: “Ci son due coccodrilli ed un orango…”. I
bambini ci guardano seri con gli occhioni fissi.
Scegliamo un dignitoso silenzio. Il bambino che si
trova davanti a me e Monica, dormendo in piedi,
comincia a scivolare di lato. Le dico di provare a
prenderlo in braccio. Un pianto disperato! Simon si
gira e, sgarbato come al solito, grida a
Monica:“Lascialo, che sei una bianca!”. Lei, che
non ha capito che cosa gli abbia detto in inglese, gli
risponde per le rime in italiano, con tono alterato
(questa volta Simon proprio se lo meritava…).
Allora, con più calma Simon spiega che non sono
abituati a vedere i bianchi (per fortuna, al primo momento l’avevo presa per una frase razzista…).
Arrivati nei pressi del loro villaggio facciamo scendere le donne e i bambini e proseguiamo. Per strada
raccogliamo dei tronchi per il fuoco che leghiamo sopra il trailer assieme alla tavola e alla griglia.
Arriviamo ad un campeggio privato che sta all’interno della doppia recinzione elettrificata che delimita
il parco. Superato il cancello, proseguiamo fino ad una costruzione dove c’è la reception/bar con una
piccolissima piscina dall’acqua opaca (un po’ come tutte le piscine che abbiamo visto nei campeggi o
nei lodge). Chiediamo informazioni e ci facciamo indicare il posto dove pianteremo le tende. Non c’è
molta ombra, fa caldissimo e scelgo uno spiazzo a caso tra quello di Andrea e quello di Emanuela. Poi
vado a vedere dove si trovano i bagni e le docce. Non sono molto lontani, ma ci consigliano, quando
sarà notte, di andarci almeno in due e con una pila molto forte e, in caso d’incontri inaspettati, non
correre ma retrocedere lentamente. Ci facciamo poi accompagnare da Kenny al punto d’avvistamento
vicino ad una pozza. Si tratta di un luogo all’ombra separato da una ringhiera di legno da un vasto
spazio dove ci sono alcune pozze d’acqua, una delle quali non molto distante. Lontano vediamo tante
zebre e gnu. Sugli alberi intorno ci sono parecchi avvoltoi, ce n’è anche uno per terra che cammina con
la tipica andatura ondeggiante. Arrivano poi degli elefanti e restiamo per un po’ così ad osservare
questo angolo di natura. Le zebre temono gli elefanti e non si recano a bere fino a che non si sono
allontanati. Allora cercano di entrare tutte nella piccola pozza e chiaramente l'ha vinta chi è più forte.
Volano delle scalciate con gli zoccoli posteriori che impattano sull’avversario producendo un suono
secco che rimbomba fortissimo. Ad osservare queste scene ci sono anche un paio di coppie anzianotte
di turisti, forse sud africani, attrezzati con seggiolini, binocoli e macchine fotografiche. Rientriamo
presto perché oggi faremo il game drive notturno. Dobbiamo quindi mangiare presto e prima fare una
doccia, visto che nel Kalahari non l’avevamo (ci siamo arrangiati come potevamo, con le salviette
umidificate…). Per fare prima Monica ed io
facciamo la doccia assieme nel bagno delle donne.
Dopo cena arrivano due auto del campeggio dotate
di faro a mano per illuminare gli animali. Partiamo
per il game drive. La prima cosa che vediamo è: un
gatto selvatico che da la caccia ad un topo (serviva
venire in Africa per questo?...). Poi incontriamo
anche animali più tipici come le zebre, gli gnu e
perfino qualche leone sdraiato nell'attesa di
cominciare la caccia notturna. Vediamo anche
alcune carcasse (se ne trovano spesso vagando per la
savana…) e in particolar modo suscita ilarità quella
di una zebra quando Emanuela, fingendo di tradurre
quello che dice la guida, dice che probabilmente è morta di infarto. Monica chiede: ”Come fa a sapere
che è morta di infarto?”. Il game prosegue senza altre grosse sorprese e la stanchezza comincia ad
avere il sopravvento. Siamo tutti mezzo abbioccati e il ritorno al campeggio è un sollievo. Tutti a
nanna.
15 settembre
La mattina, dopo colazione, Usciamo dal campeggio, attraverso i cancelli, per raggiungere l’entrata del
parco Makgadikgadi. Attraversiamo anche un cancello elettrificato che Stefano apre e richiude con
molta attenzione. Al gate, dove ci fermiamo per il pagamento, ci sono una serie di ossa di animali, da
quelle piccole fino a quelle grandi e pesanti di elefante, appoggiate ad un espositore fatto con alcuni
rami legati tra loro. Proseguiamo all’interno del parco e presto arriviamo vicino a dei cespugli dove ci
sono un gruppo di leoni. Giriamo attorno alle piante
e scattiamo una serie di foto. Ci dirigiamo poi verso
la pozza degli ippopotami. Il parco si snoda sul letto
di un fiume in secca, corriamo sul fondo di una
trincea molto larga delimitata ai lati da pareti che,
nella stagione delle piogge, diventano argini.
L’acqua si può vedere in alcune pozze dove qualche
elefante, zebre e antilopi si recano per bere e
bagnarsi. Alcuni ippopotami sono, come il solito,
stesi ai bordi di un laghetto, altri sono immersi e si
possono notare le orecchie, gli occhi e le narici
sbuffanti che ogni tanto emergono dal fondo.
Torniamo accompagnati da una mandria di zebre
che timorose come sempre corrono al nostro fianco
tenendoci d’occhio fino a che trovano il coraggio di attraversarci la strada per proseguire verso la loro
meta. Ci dirigiamo verso il campeggio seguendo la rete elettrificata, vediamo un paio d’operai che la
stanno riparando dall’interno. Di fronte ci sono dei piccoli anfratti davanti ai quali osserviamo dei
coccodrilli così secchi e impolverati da sembrare quasi bianchi, sono molto grandi. Poco vicino ce ne
sono altri, più piccoli, sempre di colore chiarissimo. Un altro meraviglioso spettacolo lo offre un
enorme stormo d’uccelli. Sono tantissimi e si muovono all’unisono provocando un gioco frusciante
d’onde, fughe e ritorni. Rientriamo al campeggio per il pranzo. Nel pomeriggio invece di Clint, che
aveva promesso una visita a Stefano, arriva sua sorella Dee. Noi decidiamo di tornare all’osservatorio
di fronte alla pozza. Ci appostiamo lungo la staccionata e osserviamo prima un elefante che ci viene
incontro e si ferma come in posa per farsi fotografare, poi una mandria di zebre che con le loro solite
spinte e scalciate alla fine prosciugano completamente l’acqua. Torniamo alle tende per avviarci ad un
game drive pomeridiano al parco. Visto che l’acqua delle bocce è calda, Andrea ha la trovata di
riempire la sua bottiglietta e poi aggiungerci un paio di filtri di the, così da renderla più appetibile. Non
giriamo molto, visto che alle 18.00 dobbiamo uscire dal gate, riusciamo comunque a vedere ancora
degli animali. Rientrando questa volta è Marta ad aprire e chiudere il cancello elettrificato e toccando
inavvertitamente il ferro prende la scossa. Arrivati al
campeggio usciamo nuovamente con Stefano, Carlo,
Andrea e Kenny a raccogliere la legna per il fuoco.
Raggiungo Monica, che si è già avviata, per fare
insieme la doccia, questa volta nel bagno degli
uomini. Ma la trovo all’esterno e mi dice che non è
il caso che lei entri. Ha visto un uomo nero
completamente nudo! Le chiedo chi era, ma non sa
rispondermi e allora capisco che non l’ha guardato
propriamente negli occhi. Decido di fare la doccia
da solo e incontro Kenny che si sta asciugando.
Chiediamo ad un addetto se il bar sarà aperto la sera.
Ci risponde negativamente, ma chiama un collega
perché venga a venderci ora delle bibite fresche per
la cena. Stiamo mangiando, quando sentiamo distintamente il ruggito di un leone e, in risposta, il
barrito di un elefante. Probabilmente si tratta di una “discussione” sulla precedenza d’accesso alla
pozza d’acqua. Finiamo la giornata, come il solito, attorno al fuoco, poi ci ritiriamo nelle nostre tende.
E’ proprio in questa notte che, mentre Monica ed io facciamo l’amore (silenziosamente per non farci
sentire da chi è ancora sveglio vicino al fuoco…) proviamo quello che credo poche persone possono
vantare di aver provato: nel culmine dell’orgasmo un leone rompe il silenzio della notte con un ruggito
forte e ripetuto. Un brivido, non di paura, ma di piena coscienza d’essere parte della natura. Ora
possiamo abbandonarci serenamente al riposo.
16 settembre
Alla mattina Andrea ci chiede se abbiamo sentito… Il leone? Non solo! Nella notte ha sentito frusciare
dietro la nostra tenda e pensava fossi io. E’ uscito
con la testa dalla tenda e ha visto un elefante che
stava mangiando alcune frasche di un albero.
Facciamo colazione, smontiamo le tende e
carichiamo i bagagli. Partiamo per Kubu island
(isola degli ippopotami). Il nome è dovuto al fatto
che sorge nel mezzo del Makgadikgadi pan, un
sistema estesissimo di laghi salati asciutti che
diventano degli acquitrini nella stagione delle
piogge. Gli ippopotami non ci sono più, ma
probabilmente in passato abitavano numerosi questa
zona che era anche un centro di riti iniziatici per i
bush men (boscimani…). Percorriamo qualche
chilometro di strada asfaltata per poi imboccare
l’ormai famosa pista sterrata all’inizio della quale ci fermiamo a vedere alcuni scorci di una partita di
calcio che si gioca ai margini del paese. Proseguiamo per un dedalo di stradine che s’incrociano e
s’intrecciano tra alberi bassi e terra bruciata. La temperatura comincia ad alzarsi col passare dei minuti
e nemmeno l’aria che c’investe correndo all’aperto riesce a darci la minima tregua. Boccheggio e a
momenti è come se avessi un phon che mi spara direttamente l’aria sul viso. La vegetazione si fa
sempre più rada e vediamo dei cavalli che cercano refrigerio all’ombra delle poche piante. Ad un certo
punto arriviamo al bordo del pan. Ci fermiamo per sgranchirci le gambe. Davanti a noi si estende una
distesa bianca senza fine fatta di una crosta salata che scrocchia sotto i nostri passi. In alcuni punti il
bianco è puntinato da alcuni sassi neri, ruvidi, che sembrano d’origine vulcanica. Stefano, Andrea e
Carlo (quest’ultimo a petto nudo per il caldo che
fa…) si cimentano in alcuni passaggi col pallone,
che spinto dal vento, li costringe a delle rincorse nel
biancore del pan. Io me ne sto all’ombra a bere,
mangio anche una barretta energetica perché anche
la fame comincia a farsi sentire. Per parare un tiro di
Stefano Carlo si esibisce in un tuffo e, sfiorata
miracolosamente la portiera dell’auto, finisce a terra
grattandosi la spalla sul terreno. Forse è meglio
proseguire, prima che qualcuno s’infortuni sul serio.
Arriviamo a Kubu island e già cominciamo ad
intuire la magica atmosfera del luogo. E’ un’altura
dalla quale spuntano delle rocce lisce ed è tutta
costellata di magnifici baobab. Il campeggio, come il
solito, è un’area aperta con la base per il fuoco. Piantiamo le tende e piazziamo il tavolo all’ombra di
un grosso albero. Un’asta della tenda di Carlo è rotta così Stefano ed io la disassembliamo e la
risistemiamo con pazienza certosina. Non contenti dei palleggi precedenti Stefano, Dario, Emanuela
(resto del mondo…) sfidano Carlo, Andrea e Marta (Veneto…) in una partita dove, come documentato
dal filmato di Stefania, sono validi anche i colpi bassi. La partita termina con la vittoria per 2 a 1,
contestata, da parte della squadra “resto del mondo”. Io e gli altri razioniamo le energie per andare ad
ammirare il tramonto. Ci avviamo tutti assieme in senso antiorario alla base dell’isola. Da un lato
abbiamo l’altura con i baobab, dall’altro il “mare”
bianco con i miraggi lontani nell’aria che vibra di
calore. All’avvicinarsi del tramonto ci dirigiamo
verso la cima. Ci sediamo in una sorta di
meditazione, ognuno sulla sua roccia, ad ammirare il
silenzioso panorama che si sta arrossando man mano
che il sole si abbassa all’orizzonte. Scattiamo le
nostre foto e quando il sole è quasi nascosto ci
avviamo di corsa verso le tende, prima che il buio ci
renda difficile individuare la strada. Prepariamo la
cena alla luce delle lampade, mangiamo e poi
“facciamo fuori” una bottiglia di Amarula. La notte
non è fredda e il cerchio attorno al fuoco è ampio.
Chiacchieriamo un po’ prima di andarcene a
dormire. Decidiamo, accertata la disponibilità degli autisti, di saltare la tappa di Nata (che sarebbe
servita solo a spezzare il ritorno…) e dirigerci direttamente a Kasane per riuscire a recuperare una
giornata intera di game drive nel Chobe.
17 settembre
Dopo una veloce colazione partiamo per questa tappa che sarà piuttosto lunga. Percorriamo ancora un
tratto di pan per poi raggiungere la strada asfaltata. Da qui il paesaggio si fa noioso. Di corsa lungo una
strada poco frequentata, a parte un po’ d’animazione nei pressi di qualche centro abitato, alterniamo
momenti di chiacchiere ad altri di silenzio, frastornati dal vento che ci soffia addosso. Arriviamo a
Nata, un piccolo centro che sorge attorno ad un incrocio, e ci fermiamo giusto per rifornirci di
carburante e acquistare qualche cosa da mangiare e da bere. La cittadina è spazzata da un forte vento
che a tratti alza un fitto polverone. Ripartiamo, ma Stefano, che aspetta una chiamata dall’agenzia di
Maun (per accordarci sul trasferimento in Zimbawe che andrà anticipato visto il nostro arrivo a Kasane
con un giorno di anticipo), propone di attendere lungo la strada prima che il segnale del cellulare
scompaia completamente. Aspettiamo un po’, poi decidiamo di non perdere ulteriormente tempo:
contatterà lui Irene, quando arriviamo. Stiamo correndo lungo la strada quando io e Andrea ci
guardiamo: entrambi sentiamo uno strano rumore che viene dal sedile che ci sta davanti, in fianco a
Simon. Gli facciamo cenno di fermarsi. Ci sono scintille dietro il sedile (non lontano dal serbatoio… e
poi siamo carichi di taniche di carburante!). La solita mania di Simon di mettere la pala stesa dietro il
sedile dove c’è la batteria dell’auto così da fare ponte tra i due poli (era già successo l’altro giorno e
forse è stata una concausa nei problemi d’accensione…). Proseguiamo e la strada si fa sempre più
frequentata, il territorio più abitato. Simon c’invita ad una sosta presso un bar molto grande e
abbastanza moderno dove lavora una delle sue tante “sorelle” (non abbiamo capito il significato che da
a questa parola…). Acquistiamo delle bibite fresche
e io trovo e compro una bottiglietta di sidro uguale a
quelle che beveva Tonino lo scorso anno in
Namibia. Siamo rimasti un po’ indietro e
raggiungiamo l’altra auto all’ennesimo controllo
sanitario. Dobbiamo scendere e passare le suole sul
disinfettante. Ormai non manca molto a Kasane e il
paesaggio è privo di interesse se non perché
piombiamo in una atmosfera irreale. Il sole è
mascherato e l’aria ha un colore rosa arancione.
Man mano che proseguiamo si fa sempre più intenso
un odore acre di bruciato. Ci hanno spiegato che qui
usano incendiare ampi tratti di savana per facilitare
la crescita dell’erba nuova ora che arriveranno le
piogge, ma ne avevamo visto solo gli effetti a cose fatte, quando delle zone annerite presentavano già
ciuffetti di germogli verdi. In questo caso percorriamo decine di chilometri in mezzo a distese
completamente bruciate che ancora emanano calore fino ad arrivare al fronte del fuoco, vastissimo, e
passare per pochi istanti attraverso una nube irrespirabile. Ci lasciamo alle spalle questa visione
infernale e il cielo comincia a riacquistare il suo colore naturale. E’ quasi il tramonto, quando
arriviamo al campeggio e ci facciamo assegnare la stessa area dell’andata, raccomandando Dario di
evitare di forare le tubature coi picchetti. Il tempo pare incerto. C’è vento e a tratti si alza della polvere.
Alcune nuvole corrono veloci e lontano si sente il rumore di tuoni. Piantiamo le tende mentre cadono
alcune gocciolone di pioggia calda, ma tutto finisce li. Prenotiamo una cena a buffet al lodge e poi ci
dedichiamo alla meritata doccia. Stefano incontra un altro gruppo di AnM che è appena arrivato dallo
Zimbawe. Scambia con loro qualche informazione e da alcuni consigli per il proseguimento del
viaggio. Cerca anche di barattare con loro i nostri bidoni, le lampade e ciò che resta del cibo in cambio
di una bottiglia di Amarula e una di rum. La capogruppo assicura che ne parlerà con gli altri. Il buffet è
abbondante e di qualità, o forse a noi sembra così dopo giorni di zone desertiche. Dopo cena ci
spostiamo al bar per il solito giro di Amarula e rum. Siamo gli stessi dell’andata, questa volta però
amalgamati e segnati dai giorni di viaggio e dagli eventi che abbiamo subito. Torniamo alle tende e
andiamo a dormire. Per tutta la notte soffia il vento e sento l’odore di polvere, con la sensazione che
s’insinui all’interno dalle zanzariere.
18 settembre
Ci svegliamo presto e appena vedo Monica mi scappa da ridere. Ha il volto coperto di una finissima
polvere nera tanto che sembra un marine mimetizzato. Dobbiamo andare a farci una doccia, dopo aver
sbattuto sacchi a pelo e zaini e ripulito per bene la tenda. Il vento si è calmato, ma per precauzione
chiudo con lo scotch da pacchi le finestrelle di rete.
Questa volta nel campeggio, oltre al solito grosso
facocero, ci sono gruppi di scimmie e manguste alla
ricerca di cibo. Così, fatta colazione, chiudiamo
tutto nel trailer. C’è una scimmia che si mangia un
barattolo di yogurt, rubato ai vicini tedeschi,
beatamente appollaiata in cima ad un albero. Stefano
sperimenta i suoi serpenti di pezza (qualcuno gli
aveva assicurato che sono sufficienti ad impaurire le
scimmie…), ma a quanto pare la strategia non
sortisce alcun effetto. Partiamo per il game drive
acquatico (che all’andata Stefano aveva saltato…)
lungo il fiume Chobe. Questa volta abbiamo più
tempo e la navigazione è più tranquilla. Riusciamo a
gustarci il paesaggio e gli animali, scattando molte foto d’elefanti, ippopotami, coccodrilli, bufali e
gazzelle varie e anche qualche bellissimo esemplare di volatile, dalle fish eagles ad altri coloratissimi
esemplari. Torniamo al campo per il pranzo e poi partiamo per il game drive via terra, ma questa volta
andiamo con le nostre auto. E’ l’ultima occasione che ci resta per vedere quegli animali che non siamo
ancora riusciti ad incontrare (ghepardo e leopardo…) che sono difficilissimi da avvistare per numero e
abitudini, anche se nella lavagna del lodge sono segnati i loro avvistamenti nei giorni scorsi. Non
riusciamo nemmeno a rivedere i leoni. In compenso ci dirigiamo verso l’uscita al tramonto con degli
elefanti lungo il fiume e un gruppo di giraffe che si abbeverano nella loro buffa posizione a gambe
allargate. Il sole, sfera arancione all’orizzonte, è contornato dal fumo dell’incendio che abbiamo
incontrato arrivando qua a Kasane. Usciamo dal parco, ma non sappiamo se l’altra auto ci ha preceduto
o meno. Visto che si parlava di una grigliata per cena diciamo a Simon di andare al supermercato
(tanto la cassa l’ha Carlo…). Compriamo la carne e la carbonella e torniamo al campeggio. Poco dopo
ci raggiungono anche gli altri che si erano attardati al parco. In fianco a noi si è accampata una coppia,
proprio vicino al disco di cemento per il fuoco.
Constatato che l’altro posto utile è troppo vicino alla
mia tenda e a quella di Dario, decidiamo di chiedere
al gruppo di tedeschi di fronte se possiamo usufruire
del loro fuoco già acceso. Si tratta di una dozzina di
“anzianotti” super attrezzati, con un camion, cuoco,
cameriere, tovaglie e stoviglie. Cuciniamo la nostra
carne, affumicandoli
quando il vento cambia
direzione. In fondo se lo meritano perché,
commentando gli ultimi mondiali di calcio,
sostengono che l’Italia non ha meritato di vincere,
facendo imbestialire il nostro ultras vicentino
Andrea. Stiamo cenando quando ripassa la
capogruppo dei nuovi arrivati. Le chiediamo cosa hanno deciso, ma sembra tentennare. Insomma, se
vuole le lasciamo il materiale, altrimenti si arrangi. Andiamo al bar per l’ultimo giro di rum in
Botswana. Domani si torna in Zimbawe.
19 settembre
Facciamo colazione presto, così possiamo sfruttare meglio la giornata a Victoria Falls. Decidiamo di
lasciare ciò che resta di materiale e di cibo a Kenny, visto che gli italiani dell’altro gruppo forse
trovavano troppo costose la bottiglia di Amarula e quella di rum (che taccagni…). Arriviamo in breve
tempo alla frontiera, salutiamo Kenny e Simon, poi entriamo negli uffici dell’immigrazione per il
controllo del visto. Dall’altra parte c’è già il furgone dell’agenzia di Victoria che ci attende. Dobbiamo
attraversare il cancello con i bagagli in spalla per poi caricarli sul nuovo mezzo. Torniamo al lodge
dell’andata, però non negli stessi bungalow. Questa
volta sono tutti da due posti. Usciamo subito per
prenotare un’attività per il pomeriggio. Monica ed io
scegliamo un giro a cavallo di due ore all’interno del
parco. Mauro e Antonella prenotano il volo in
elicottero sopra le cascate (100 dollari per 10
minuti…). Carlo, Emanuela e Marta andranno a fare
rafting sullo Zambesi. Stefano e Andrea noleggiano
una dumbaghy per girare nei dintorni e, con
l’occasione, cercheranno un ristorante per l’ultima
cena in terra d’Africa. Dario e Stefania invece si
dedicheranno ad un giro in paese per acquistare gli
ultimi regali. Cosa che Monica ed io facciamo
subito, dopo aver prenotato la cavalcata (ci verranno
a prendere al lodge nel pomeriggio…). Visitiamo tutti i negozi del centro, acquistiamo qualche
souvenir e facciamo una pausa per pranzo presso un localino dove ordiniamo un panino e una coca
cola. Cerchiamo di spendere gli ultimi spiccioli dello Zimbawe. Tornando al lodge incontriamo un
ragazzo che ci offre degli oggetti in cambio delle nostre scarpe o delle magliette. Gli spiego che sono
le uniche scarpe che ho e che devo tornarci a casa. Ci dice che aspetta fuori dal lodge se gli portiamo
delle magliette (la guardia al cancello non vuole che si avvicinino troppo i venditori…). Torniamo con
qualche maglietta sporca dal viaggio e alla fine si forma un capannello. Si tratta, si guardano le
mercanzie. Alla fine rientriamo con un a serie di oggetti in pietra e in legno. Un riposino e poi
all’entrata per l’appuntamento. Ci viene a prendere un autista con un pickup per portarci alla fattoria da
dove partiremo. Ci fanno accomodare sotto un gazebo dove ci offrono dei biscotti e del succo di frutta.
Poi proviamo e scegliamo degli elmetti antidiluviani
(il mio sembra un residuato bellico…) e delle
giacche lise e foracchiate. Alla Monica, che indossa
dei pantaloncini corti, forniscono dei paragamba in
pelle. Firmata la liberatoria per eventuali incidenti
possiamo avviarci vicino alle stalle. Come il solito,
la proprietà appartiene a bianchi. In questo caso ad
una signora, non più giovane, di probabile origine
teutonica. Almeno così sembra dal modo di parlare e
gesticolare. Ci chiede il nostro livello di conoscenza
equestre, ci fornisce alcune istruzioni e ci affida a
due guide, di colore, che ci accompagneranno nel
nostro giro. Per due ore cavalchiamo per il parco e
avvistiamo alcuni animali, guadiamo dei torrenti,
raggiungiamo le rive della Zambesi. E' una passeggiata rilassante e piacevole che si conclude quasi al
tramonto. Torniamo alla fattoria attraverso dei campi di terra rossa resa ancora più intensa dal sole che
sta calando. Smontati da cavallo ci togliamo indumenti ed elmetti e ci riaccompagnano al lodge. Vado
a fare la doccia e incontro Andrea che mi racconta che la dumbaghy si è fermata quando erano in un
paesetto lungo la strada per l’aeroporto. Per fortuna alcuni ragazzi li hanno aiutati a spingere (tanto per
non perdere l’abitudine…) e sono riusciti a ripartire. Poi sentiamo anche i racconti di Carlo, Marta ed
Emanuela. Si sono divertiti malgrado, o proprio per, il rovesciamento del canotto e si sono trovati
completamente in ammollo tra le rapide. Molto suggestivo, anche se breve, il volo in elicottero di
Mauro e Antonella. Vado in stanza di Stefano per farmi prestare il riduttore per ricaricare il cellulare.
L’ho usato solo per qualche sms, anche perché erano poche le zone dove c’era campo. Domani mi
servirà al rientro in Italia per ricontattare “la civiltà”. Stefano mi dice di aver prenotato la cena in un
lodge non lontano che, per la felicità di Monica che da giorni continua a dire che vuole mangiare
“bestie strane”, ha nel menu il coccodrillo, il kudu,
il bisonte, il facocero, eccetera. E’ sera, quando il
pulmino del ristorante viene a prenderci. Arriviamo
in un bellissimo lodge. Il ristorante è all’aperto,
anche se i tavoli sono coperti dalla tipica struttura di
travi e paglia. La forma è quella dell’ansa dello
Zambesi (sulle quali rive ci troviamo…) e al centro
si esibiscono vari gruppi di musicanti e danzatori
tipicamente turistici. Comunque la cucina è ottima,
la cena a buffet. Ci alziamo a più riprese per
assaggiare vari tipi di pietanze che sono cucinate
all’istante. Non ci facciamo mancare anche la frutta,
il dolce, il caffè e i superalcolici. In fondo è l’ultima
cena qui in Africa. Da domani mangeremo in aereo
o in aeroporto prima di un pasto decente a casa. Siamo in pratica gli ultimi ad alzarci dal tavolo.
Saliamo a bordo del pulmino che ci riporta al nostro lodge assieme all’ultimo gruppo che si è esibito in
alcuni canti e danze popolari. E’ proprio la cantante che ci scatta l’unica foto di gruppo dove siamo
tutti e undici (stanchi e un po’ bevuti…). Andiamo a dormire dopo aver organizzato il grosso dei
bagagli.
20 settembre
Visto che il volo è in tarda mattinata facciamo colazione nel lodge molto presto e poi, in ordine sparso,
andiamo a barattare le ultime magliette rimasteci. Il mercato è oltre la linea ferroviaria, alle spalle delle
case allineate lungo la strada principale. Ci sono oggetti disseminati per terra dentro alcune
costruzioni, ma anche sotto delle tettoie e per strada. Sosteniamo l’ultima serie di trattative estenuanti
per racimolare qualche altro ricordo. Poi torniamo al lodge e chiudiamo i borsoni nel sacco con tenda,
sacchi a pelo e materassini, compatti per il viaggio aereo e le cose utili e fragili nello zaino che
portiamo come bagaglio a mano. Arrivano due pulmini, uno dei quali con un trailer (che
persecuzione…) per i bagagli. Carichiamo tutto e partiamo per l’aeroporto. Stefano ha preso in
consegna dall’agenzia locale del materiale di proprietà di AnM da riportare a Roma, quindi decide di
fare un check in complessivo di tutti i bagagli per restare dentro il limite di 20 kg a testa. Purtroppo
superiamo lo stesso il limite ma Stefano riesce a pagare un extra relativamente basso che si farà
rimborsare da AnM. Alcuni problemi invece per i bastoni e le giraffe di legno di Marta e Andrea. Al
controllo imbarco non li fanno passare e devono etichettarli e caricarli nella stiva. Ci avviamo a piedi
verso il nostro aereo che ci aspetta a motori accesi nella desolata pista del Victoria Falls Airport. In un
paio d’ore siamo a Johannesburg. Il volo per Parigi partirà la sera ed è segnalato in ritardo. Alcuni
decidono di noleggiare un taxi e fare un giro in centro città, mentre io e altri restiamo a gironzolare per
i molti negozi di questo aeroporto che ormai conosco come le mie tasche, visto che è la quarta volta in
due anni che ci faccio scalo (l’anno scorso ci ho pure dormito una notte intera…). Facciamo qualche
altro acquisto e cerco anche una cintura che avevo vista l’anno scorso senza acquistarla. Purtroppo non
trovo la mia misura. In ogni caso acquisto altri oggetti e anche delle scatolette di vari patè di
coccodrillo, di kudu, eccetera. Ritornano anche Stefano e gli altri che sono andati in centro. Ci
raccontano di aver visitato la casa natale, ora adibita a museo, di Nelson Mandela e qualche altro punto
caratteristico della città. Ci raccogliamo tutti nei pressi del gate d’imbarco, e constatiamo che il volo
subirà un ulteriore ritardo. Niente male, tanto avremmo dovuto aspettare lo stesso alcune ore a Parigi i
voli per l’Italia. La trasvolata si svolge normalmente con i suoi riti e le ore interminabili che cerchiamo
di consumare dormendo con mascherina e la tipica coperta rossa a righe gialle (simile a quelle
Masai…) della South African Airways.
21 settembre
Arriviamo a Parigi che è giorno, ormai il continente africano è lontano molte miglia e si respira aria di
casa. Raggiungiamo i gate d’imbarco dei voli Alitalia per Milano e per Roma. Devo ammettere che mi
sento più fuori posto qui che nella savana. In effetti, pur lavati e cambiati, abbiamo l’aspetto più
“selvaggio” degli altri viaggiatori che ci circondano e al check in ci fanno togliere pure le scarpe, oltre
ad aprire il bagaglio a mano (tanta pignoleria e poi a bordo ti servono il pranzo con le posate di
metallo…). Già s’incontrano volti più familiari, anche se in Francia il numero delle persone di colore è
elevato, i bianchi ora sono in maggioranza e alcuni parlano italiano (individuo pure, seduto non
lontano da noi, il magnifico rettore che è spesso ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”). Trovo
anche il Corriere della sera che mi fa ripiombare nelle cazzate e nelle beghe italiche. Leggo che il
presidente della camera Bertinotti ha commemorato Oriana Fallaci. Che? E’ morta? Sapevo solo che
era morto il presidente dell’Inter, Giacinto Facchetti, sempre per merito dell’ultras Andrea che
riceveva sms di carattere sportivo. Il nostro volo parte per primo, così Stefano, Mauro e Antonella ci
accompagnano per il primo “distacco” dopo tanti giorni passati insieme. Ci abbracciamo prima di
dirigerci dalle hostess che, fa un certo effetto, parlano la nostra lingua. Si parte e in breve sorvoliamo
le Alpi per arrivare sul cielo nuvoloso di Milano. Almeno non piove. L’anno scorso al ritorno dalla
Namibia qui a Milano grandinava. Ora comincia il problema bagagli. Li attendiamo inutilmente prima
di recarci a chiedere informazioni allo sportello adeguato. Sostengono che probabilmente arriveranno
con il prossimo volo. Decidiamo di aspettare tutti assieme e ci mangiamo nel frattempo un pezzo di
pizza. All’arrivo del volo successivo non abbiamo miglior fortuna, a parte un paio di zaini. Sentiamo
anche i “romani” che hanno lo stesso nostro problema. Alla fine salutiamo Dario e Stefania e
prendiamo la navetta per la stazione centrale (il resto dei bagagli ci arriveranno a rate nei giorni
successivi all’aeroporto Marco Polo…). Arriviamo che c’è un treno per Venezia che sta per partire. Il
tempo di fare i biglietti agli sportelli automatici e via di corsa con in spalla i pochi bagagli (per fortuna
non sono arrivati tutti!) e senza nemmeno il tempo di salutare Emanuela. Eccoci di nuovo, i cinque
veneti di ritorno a casa. Invadiamo uno scompartimento dove un ragazzo (probabilmente uno studente
di ritorno a casa…) cerca inutilmente di dormire, disturbato dai nostri strani discorsi di reduci da
avventure inverosimili. Abbiamo ancora dei residui di biscotti e acqua che consumiamo fraternamente
prima di lasciare, nell’ordine, Andrea a Vicenza e Marta a Padova. Io, Monica e Carlo arriviamo alle
23.00 circa a Mestre, dove ci aspetta il papà di Carlo che ci accompagna a casa. La prima notte sul mio
letto, dopo molti giorni di tenda. Il primo pensiero al risveglio: mi faccio un tè, ma… ho l’acqua?...
Ah, ho il rubinetto!