Botswana (Zimbawe) 2006
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Botswana (Zimbawe) 2006
Botswana (Zimbawe) 2006 3 settembre Il viaggio è cominciato la mattina. Elena è venuta a prenderci a casa, abbiamo caricato gli zaini e siamo andati a prendere Carlo che abita nel mio vecchio quartiere, un paio di piani sopra i miei genitori. Caricati i bagagli di Carlo e salutato il parentado ci siamo diretti all’aeroporto Marco Polo, dove avevamo appuntamento con gli altri due veneti: Marta di Padova e Andrea di Vicenza, dei quali avevo i biglietti recapitati qualche giorno prima dal corriere. Come da accordo ci siamo di fronte al check in della Lufthansa con la quale saremmo giunti a Francoforte. Da qualche viaggio a questa parte mi capita di rilassarmi appena l’aereo ha cominciato l’operazione di decollo. In breve tempo siamo a Francoforte e, visto che eravamo i primi del gruppo abbiamo cominciato a gironzolare per passare il tempo. Dopo un breve pasto stile messicano (come? I portacenere nel ristorante? Ah, è vero, siamo in Germania…) ci siamo piazzati su alcune sedie e Andrea, che la notte prima aveva gozzovigliato con gli amici, s’è messo a pisolare. Passano le ore e probabilmente i compagni di Milano sono già in aeroporto. Ad un certo punto si avvicina “un tale”: “Siete di avventure nel mondo?”… “Sì”... “Sono Stefano!”. E’ il coordinatore di Roma o, come poi Emanuela lo chiamerà scherzosamente, “il capogita”, assieme a Mauro e Antonella di Pisa. Ora non resta che raggiungere il check in della South African Airways dove ci stanno aspettando Emanuela, Stefania e Dario. Li incontriamo e cominciamo le operazioni d’imbarco dei bagagli, compresa la cassa cucina. Qui Stefano da già spettacolo con il suo carattere impulsivo agitandosi per l’inesperienza dell’impiegata del check in (in effetti una novizia che poi si farà aiutare dalla collega…). Sbuffa e brontola beccandosi del maleducato dall’impiegata dello sportello accanto. Ci sediamo vicino al gate d’imbarco per una breve riunione e decidiamo all’unanimità di nominare Carlo, il più giovane del gruppo, responsabile della cassa comune. Alla sera l’imbarco e il volo fino a Johannesburg. Dopo la cena nel volo io, Monica e Carlo prendiamo la prima pastiglia di Malarone (il Lariam è troppo fastidioso anche se più comodo perché si prende settimanalmente…), che ci accompagnerà ogni sera per tutto il periodo di permanenza in zona a rischio malaria e anche nei sei giorni successivi dopo il rientro. 4 settembre Arriviamo a Johannesburg. Una breve attesa e poi prendiamo il volo per Victoria Falls, Zimbawe. Dall’oblò si vede un territorio come quello dell’anno scorso tornando da Windhoek a Johannesburg: savana a perdita d’occhio con qualche pista che taglia il terreno per centinaia di chilometri senza quasi una curva. Il calore che sale dal terreno provoca dei vuoti d’aria che ci fanno ballare parecchio in prossimità dell’atterraggio. Arriviamo in un aeroporto modesto, passiamo lo sportello dell’immigrazione e ci dirigiamo al ritiro bagagli: colpo di fortuna, è arrivato tutto! Usciamo da una porta laterale e sentiamo dei canti che arrivano dall’ingresso principale, un gruppo di indigeni in costume sta intonando un canto per accogliere i viaggiatori del nostro volo. All’esterno troviamo il corrispondente dell’agenzia in Zimbawe che ci accompagna al furgone. Carichiamo i bagagli e partiamo per il centro (invio un sms a mamma per il compleanno e per informarla che fin qui va tutto bene…). Facciamo tappa alla sede dell’agenzia e poi raggiungiamo i bungalow che ci ospiteranno per una notte. Il tempo di prendere posto nelle stanze, poi usciamo a cambiare il denaro, a fare uno spuntino e acquistare qualche bibita. Ci facciamo indicare la strada per il Victoria Falls National Park. Non è molto lontano e ci andiamo a piedi. Lungo la strada ci sono molti ragazzi che vogliono venderci vari oggetti di legno o pietra. Non siamo ancora in vena di acquisti. Ci rechiamo all’entrata del parco per pagare l’accesso e poi iniziamo il percorso sul lato opposto della gola dove precipita il fiume Zambesi. Le cascate, nonostante sia la stagione secca, sono maestose. Più di un chilometro e mezzo di fronte per cento metri di altezza. L’acqua scende con uno scroscio costante e si vaporizza e ritorna in alto come un enorme aerosol dando una sensazione di fresco nonostante il clima tropicale e formando di continuo degli arcobaleni che scompaiono nel fondo del canyon. Il fiume Zambesi in questo punto fa da confine tra Zambia e Zimbawe, ma molto vicino c’è il confine con il Botswana e con la Namibia che si incunea in questo territorio con la Caprivi Strip. Passeggiamo lungo il percorso panoramico e scopriamo anche i primi esempi di flora e fauna locali. Ad un certo punto, per fortuna non in prossimità dello strapiombo, scivolo sulla roccia e “volo” ad angelo in avanti. Riesco a mantenermi in piedi atterrando sulla schiena di Dario (Se eravamo qualche metro più avanti probabilmente lo lanciavo nel vuoto…). Superato lo shock raggiungiamo la fine del percorso e ci sediamo su delle rocce per contemplare il panorama. La nostra curiosità si sofferma su tre strane palme che svettano dall’altro lato del canyon… a ben vedere con i binocoli sono delle antenne camuffate… Torniamo sui nostri passi e Carlo ci porta per una scaletta che aveva scoperto prima che arriva ad una terrazza naturale dalla quale si può ammirare una delle cascate e la forza del fiume prima di arrivare allo strapiombo. Qui c’è anche una statua con targa di David Livingstone che queste terre esplorò scoprendo la cascata che i locali chiamavano Mosi-o-Tunya, “il fumo che tuona”. Di la dal confine, in Zambia, esiste la città di Livingstone con un museo dedicato all’esploratore. Ritorniamo ai nostri alloggi, sono bungalow da 4 posti. Ci siamo sistemati io con Monica, Marta e Emanuela; Mauro e Antonella con Dario e Stefania; Stefano con Andrea e Carlo. Carlo accende dei vulcani perché è terrorizzato dalla malaria… in effetti in questa zona ci sono delle zanzare, ma non sembrano le temibili anofele. Doccia e poi siamo pronti per uscire a cena. Andiamo al Mama Africa, un locale in centro dove mangiamo una zuppa vagamente di verdure (sembra una zuppa pronta knorr…) e del facocero innaffiato con del vino sud africano. Del buon rum per digerire il tutto. La serata è piacevole e cogliamo l’occasione per conoscerci un po’ meglio, visto che fino a ieri non c’eravamo mai visti… Tornando verso i bungalow facciamo tappa in un locale notturno indicatoci da un ragazzo del luogo. E’ ancora semivuoto e quindi andiamo a nanna. 5 settembre La mattina ci troviamo all’entrata del lodge. Andiamo in centro per acquistare qualche cosa da mangiare. Colazione con latte, yogurt, frutta, seduti attorno al muretto di un’aiuola. Carlo sbuccia delle piccole mele verdi per tutti. Partenza per il confine con uno di quei camion adibiti ai safari. Alla frontiera vediamo i primi manifesti per la lotta all'AIDS (ne vedremo molti nei centri abitati...) che invitano ad usare il preservativo, visto che il Botswana è uno dei maggiori paesi colpiti dal virus (c'è un'alta percentuale di sieropositivi, molti di questi bambini...), prima di fare la coda all’immigrazione (dove i preservativi si trovano gratis in un distributore), siamo costretti a smontare dal mezzo (che passa per una fossa piena di disinfettante per i pneumatici) e pigiare le scarpe su di un tappetino imbevuto della stessa sostanza. Si tratta di precauzioni veterinarie per evitare il contagio dei capi di bestiame degli allevamenti. Arriviamo a Kasane, dove pianteremo il nostro primo campeggio, passando per Kazungula (nome che provoca l’ilarità generale). Ci accampiamo vicino ad un ponticello che porta ai bagni e alle docce. Ad un albero è inchiodato un cartello inquietante: “Beware Crocodiles!”. Andiamo in paese a piedi (i mezzi che ci porteranno per il Botswana non sono ancora arrivati) per cambiare i soldi e acquistare qualche cosa per pranzo e cena. Leggiamo i tassi presso un’agenzia e poi Stefano con un paio di noi prende un taxi per vedere se alla banca il cambio è più favorevole. Nel frattempo cominciamo a riempire il carrello al supermercato. Stefano ritorna e decidiamo di cambiare all’agenzia. Torniamo a piedi con le borse della spesa e ci accorgiamo che abbiamo lasciato il carrello con le bocce d’acqua (senza pagarle, per fortuna). Torniamo Io, Dario, Andrea e Carlo e prendiamo due scatoloni da quattro bocce ciascuno… 40 litri d’acqua che portiamo a turno in spalla (Dario voleva che ne portassimo insieme una non rendendosi conto che le nostre stature sono “leggermente” differenti…). Dopo un veloce pasto ci dirigiamo all’imbarcadero del campeggio per una gita pomeridiana in barca sul fiume Chobe senza Stefano che deve contattare l’agenzia per sapere qualche cosa delle auto. La gita si rivela interessante, anche se dura un paio d’ore avvistiamo molti animali che pascolano nelle isole che emergono dal Chobe a cavallo del confine tra Botswana e Namibia. Rientriamo al tramonto. Accendiamo il fuoco per la grigliata. Le auto non sono ancora arrivate e con loro il tavolo e le sedie che dovremo usare nei camp site. Per fortuna la guardia del campeggio ci presta un tavolo e delle sedie di plastica… Ci presta pure un mezzo barile di metallo con una grata da adibire a barbecue sul quale cuciniamo e mangiamo carne, salsicce, pomodori. Dopo cena un’ultima birra al bar del lodge dove Stefano ci racconta della volta che gli è toccato tra i partecipanti di un viaggio il divino mago Otelma. Altri racconti e risate e decidiamo di andare a dormire. 6 settembre Stefano si è alzato presto ed è andato ad acquistare del latte e dello yogurt per la colazione. Poi arriva Vasco con un furgone jeep che ci conterrà tutti per il game drive al Chobe National Park. In pratica entriamo “via terra” nel parco visitato ieri in barca. Percorriamo i pochi chilometri di strada asfaltata fino al gate del parco e poi via per le piste interne. Vediamo vari animali e quando costeggiamo il fiume incontriamo un paio di jeep ferme vicino a dei cespugli. Dietro s’intravedono due leoni adulti, un maschio e una femmina. Sono tranquillamente distesi all’ombra. Scattiamo delle foto e riprendiamo con le telecamere. Appena le altre jeep se ne vanno Vasco ci dice di preparare gli obiettivi, ingrana la retromarcia, gira puntando il muso verso i cespugli e ci si dirige in mezzo. Noi pensiamo ad una “toccata e fuga”, ma quando siamo a pochi metri dai leoni Vasco si ferma e spegne il motore (la nostra jeep è completamente aperta…). Dopo un istante di perplessità, visto che i “gattoni” ci rivolgono solo qualche occhiata disinteressata, cominciamo a scattare le foto e ad osservarli con curiosità. La femmina ha un radiocollare che i rangers le hanno applicato per studiare i suoi spostamenti. Poi Vasco riaccende l’auto e indietreggia… il motore si spegne… ci guardiamo… non se ne parla di scendere per spingere! La macchina riparte e presto siamo di nuovo nella pista. Incontriamo altri animali, soprattutto elefanti, visto che in Botswana vive la più grande comunità mondiale di pachidermi. Li osserviamo a terra mentre mangiano, lungo il fiume che s’infangano o addirittura che nuotano e giocano quasi completamente immersi. Ci sono poi vari tipi di gazzelle, bufali, ippopotami, coccodrilli oltre a volatili come gli aironi o le bellissime fish eagles. Arriviamo in un’area adatta per il picnic. Possiamo scendere dall’auto e sgranchirci le gambe. Ci sono pure i bagni. Scarichiamo il cibo (pane, del formaggio, speck e lonza sotto vuoto portati dall’Italia, frutta) e l’acqua e ci accomodiamo attorno ad un tavolo con panche in cemento per pranzare. Dopo questa pausa riprendiamo il game drive che si svolge senza grosse sorprese fino a quando, quasi al tramonto, torniamo lungo il fiume. Vicino alla riva c’è il leone maschio. La femmina invece è più vicina ai cespugli e alla pista e nelle vicinanze ci sono i cuccioli di varie età. Comincio a riprenderli con la telecamera… stanno giocando mordicchiandosi e leccandosi… emettendo brontolii di piacere. Si alzano e vanno a coccolarsi dalla mamma… e tutto questo ad un paio di metri da noi. Arriva alle nostre spalle anche il papà… in pratica siamo attorniati dai leoni che sembrano tinti d’arancio per il sole che tramonta. Non c’è paura… nemmeno quando incrocio i loro sguardi… gli occhi gialli, fermi, da predatore. E’ una scena così naturale che ne restiamo incantati, ben sapendo poi che non amano avvicinarsi alle auto e agli uomini. Ce ne andiamo di malavoglia, ma il sole tramonta velocemente e bisogna uscire dal gate prima del buio. Torniamo al campeggio dove, mentre prepariamo la cena, conosciamo Simon, uno dei due autisti con i quali domani cominceremo il viaggio in Botswana. Dopo cena torniamo al bar del lodge e incontriamo il gruppo di Avventure nel Mondo che ha appena terminato il “Botswana soft”. Hanno avuto alcuni problemi con le auto (le stesse che useremo noi…), ma ci parlano bene degli autisti/guide che domani li riporteranno presto al confine con lo Zimbawe prima di tornare a prenderci. Ce ne andiamo a dormire relativamente presto… Domani sarà una giornata faticosa (non immaginiamo quanto…). 7 settembre Ci alziamo presto, cominciamo a fare velocemente i bagagli. Sto smontando la tenda quando Dario comincia ad urlare: “Aiutatemi… aiutoooooo”. Mi giro e vedo un getto d’acqua che scroscia di fianco alla sua tenda. Ha tolto un picchetto che probabilmente ha forato un condotto… Speriamo che non sia la fogna, visto che il getto gli è arrivato dritto in bocca… Togliamo in fretta gli altri picchetti e allontaniamo la tenda prima che si bagni completamente e avvisiamo la ragazza svedese che si è accampata di fianco a noi (viaggia da sola… che coraggio…) visto che l’acqua sta scivolando verso la sua di tenda. Avvisiamo la direzione del campeggio e così ora siamo anche senza acqua (Carlo resta insaponato sotto la doccia). Le auto sono arrivate: due pikup Toyota con i sedili saldati sul cassone, completamente aperti e un telone per riparare dal sole. Rimorchiano due trailers, uno dei quali già carico di materiale vario del viaggio precedente. Carichiamo la maggior parte dei bagagli sul tetto di una delle due auto, e il resto su un trailer. Formiamo i due equipaggi che resteranno invariati, salvo qualche saltuario cambio, per il resto del viaggio. Nell’auto di Kenny, quella più comoda con i sedili e l’apertura per salire sul cassone si accomodano Dario e Stefania, Mauro e Antonella, con Stefano a fianco dell’autista. Io, Monica, Carlo, Marta, Emanuela e Andrea (duri e avventurosi fino all’ultimo…) saliamo sull’auto di Simon, con le panche piccole e scomode e che per salirci ci si deve arrampicare su per la ruota. Si parte… per la spesa. Arrivati al parcheggio del supermercato alcuni si avviano al market. Due vanno ad acquistare una bombola di gas per il fornello e una tanica di paraffina per le lampade. Altri restano nelle auto che si avviano al distributore per fare carburante. L’auto di Kenny ha un serbatoio supplementare che sta ai piedi della prima fila di sedie passeggeri (un cartello in “simil” italiano dice: “Vietare fumare”), mentre Simon riempie una decina di taniche di metallo che assicura nell’ultima panca inutilizzata. Comunque a bordo di tutte e due le auto, soprattutto nelle strade particolarmente dissestate, l’odore di benzina ci accompagnerà spesso. Ci ritroviamo al parcheggio del supermercato. Portiamo i carrelli carichi in fianco alle auto e comincialo a caricare. Abbiamo raccolto degli scatoloni per stivare i viveri nel trailer e ieri Stefano ha acquistato due grandi bidoni neri di plastica con coperchio chiudibile che si riveleranno utili per proteggere le cose più delicate dagli scossoni e dagli animali. Carichiamo anche i primi boccioni d’acqua da 5 litri, che nel corso del viaggio saranno il nostro tesoro. Mai come in questi luoghi, dove il clima è molto caldo e passano anche alcuni giorni senza possibilità d’approvvigionamenti, si può capire il valore dell’acqua. Per il momento non ne abbiamo acquistati molti perché avremo possibilità di fare un’altra spesa più avanti prima di partire per il Kalahari. Li sistemiamo sotto i sedili, un po’ per auto. Siamo pronti. Indossiamo felpe, k-way, cappelli e bandane fin sul naso. L’aria è ancora fresca vista la grande escursione termica di questa latitudine. In effetti qui siamo alla fine dell’inverno. Partiamo e le jeep s’inerpicano su per i bassi rilievi che circondano Kasane. Per un po’ proseguiamo per la strada asfaltata, poi prendiamo una pista sassosa che mi ricorda le strade della Namibia. E’ proprio su questa strada che ad un certo punto il nostro trailer (che ha il portellone chiuso solamente e precariamente con un gancio… ha legato sopra il tavolo di ferro, in pessime condizioni, e la griglia per arrostire, che cigolano in maniera spaventosa e fastidiosa…) improvvisamente comincia a grattare per terra. Si è spezzato un perno che tiene attaccato il gancio alla macchina. Lo troviamo qualche passo indietro. Per fortuna Simon ne ha uno di ricambio. L’altra auto che stava davanti viene a recuperarci. Stacchiamo il trailer, sostituiamo il perno, riagganciamo il trailer e ripartiamo per l’avventura. Come quasi tutti i giorni successivi il pasto lo consumiamo ai bordi di una pista, sotto un albero quando possibile, ed è a base di pane in cassetta affettato, formaggio, affettati, uova sode, frutta, ecc. Ad un certo punto lasciamo la pista sterrata e infiliamo una stradina stretta, tanto che i rovi ai lati spesso frustano i pali che sostengono il telone della jeep (e qualche volta le nostre braccia o le gambe… ). Assomiglia ad una nostra stradina di campagna con i solchi ai lati e più alta al centro, ma in molti tratti sabbiosa. Affrontando un tratto particolarmente pieno di sabbia noi dell’auto posteriore c’insabbiamo. Simon tenta di uscire, ma ad ogni accelerata le ruote posteriori sprofondano fino ad arrivare quasi a metà. Scendiamo e ci accorgiamo che il gancio di traino è incastrato come un aratro nella duna centrale e il differenziale della jeep tocca il fondo. Da questo momento comincia una sequenza di spingi, scava, sgancia il trailer, aggancia il trailer, traina. Gli altri, non vedendoci arrivare, sono tornati indietro. Per trainare le auto Kenny e Simon usano una corda di nylon che ogni tanto si strappa riducendosi sempre di più di lunghezza. Alle 21.00 siamo nella savana con le auto che stentano ad avanzare (la nostra ha il ferro che regge il gancio così spostato che sfiora il terreno…). Si sentono i leoni ruggire in lontananza e per fortuna la luna piena ci permette di vedere abbastanza bene. Stefano sostiene che il campeggio non dovrebbe essere lontano e che alcuni dell’altra auto vogliono andarsene perché i ruggiti li agitano. Gli rispondo che non me ne voglio andare e che trovo sbagliato dividerci. Forse accendere un fuoco e piantare il campo qui non è la peggiore delle soluzioni. Fortunatamente arriva un furgone verde con, a bordo, tre lavoranti del parco Linyanti. Kenny assicura che ci aiuteranno a togliere le auto dalla sabbia e che ci apriranno il campeggio, che all’interno dei parchi in genere chiude alle 18.00. Alla fine (anche il furgone s’insabbia e rischia di fondere il motore) riusciamo a liberare le auto e decidiamo di lasciare i trailers (carichiamo bagagli e cibo nelle auto…) per raggiungere il campeggio. Arriviamo al gate di Linyanti attorno alle 22.00. Veniamo a sapere che il campeggio è chiuso da qualche mese e Stefano, incredulo, sempre di più si spazientisce con le guide. Il ranger ci concede di piantare le tende in fianco alle casette degli addetti al parco e l’uso di un rubinetto e del fuoco. Decidiamo di fare una frittata tanto per dare una parvenza di normalità e smorzare la tensione. Alcuni sono particolarmente innervositi e, mangiando attorno al fuoco, si accende una discussione animata. C’è chi pretenderebbe da Stefano una soluzione per l’indomani (non pensando che, in fondo, anche lui si trova nella nostra stessa situazione). Stefano, dal canto suo, è sempre più innervosito dal comportamento delle guide (e pensare che all’inizio del viaggio ci aveva detto di “trattare bene” gli autisti e che se c’erano problemi avrebbe pensato lui a comunicare con loro…). Sono permalosi e non vogliono essere “comandati” dal coordinatore del gruppo. Si definiscono professionisti, affermano di conoscere il programma del viaggio (in effetti è l’agenzia che prenota per tempo la permanenza nei parchi…), salvo poi, nei momenti di disagio, risponderti che non sanno che fare. In questo caso ammettono che le auto (soprattutto la nostra…) non sono adatte a continuare il viaggio. Affermano che domani uno degli operai proverà a ripararla (sembra che il differenziale sia andato…) e poi ci sono anche i trailer da recuperare (Prima di andare a dormire i nostri autisti con l'aiuto degli altri operai andranno a recuperarne uno, per il momento...). Alla fine, visto che il ranger non sembra disposto a darci l’uso della radio, Stefano decide che al mattino partirà con Kenny per Savuti, dove ci sono un paio di lodge e c’è il telefono satellitare. Ci dice di insistere, comunque, a farci usare la radio per comunicare all’agenzia di Maun se per caso l’auto è stata riparata dal meccanico locale. Ci ritiriamo nelle tende per il meritato riposo. 8 settembre Mi sveglio alle 6.00 e sento che Stefano si sta alzando. Esco e in mancanza di bagni vado a fare la pipì poco lontano dalle tende, tra i cespugli, stando attento all’eventuale fauna che ci potrebbe essere intorno. Mangiamo qualche biscotto intinto nel latte, un pezzo di cioccolato. Stefano e Kenny partono per Savuti. Pian piano si svegliano anche gli altri. Questa sarà una giornata di attesa, gli operai del parco hanno acceso il fuoco e ci invitano a scaldare l’acqua per il caffè e il tè. Chiedo a Simon se è possibile utilizzare un bagno del ranger e, unico fortunato, mi fa entrare in casa e m’indica dove si trova. Poi dice che dovremmo utilizzare i bagni del gate (tra l’altro la costruzione reca una targa che ricorda come sia stata costruita con il contributo della comunità europea…), che si trova non lontano sulla strada, ma sono in condizioni pietose e optiamo per continuare a fare i bisogni nella savana. La giornata scorre noiosa. Gironzoliamo nei pressi delle tende (nei parchi non si può girare a piedi…) e osserviamo gli operai che se ne stanno attorno al fuoco spennando delle faraone che probabilmente hanno cacciato fuori del parco. Chiediamo se e quando l’operaio proverà ad aggiustare la macchina. Ci rispondono che ha il pezzo che serve, ma vuole essere pagato e quindi aspetta che l’agenzia dia l’assenso per il lavoro. E’ ora di pranzo, ci facciamo dei panini. L’acqua dei boccioni è tiepida, ma è l’unica bevanda sicura (l’acqua del rubinetto non è affidabile e il colore non è molto invitante…). Mangiamo addossati ad una delle baracche per ripararci dal sole. Chiediamo al ranger di poter comunicare a Maun che la macchina non è stata riparata… Lui sostiene che ha ricevuto un messaggio, che il nostro capogruppo sta tornando e che un’auto nuova è partita da Maun. Finalmente ritorna Stefano. Ha parlato con l’agenzia locale, ma anche con Avventure a Roma. Ci chiede se hanno provato a riparare l’auto, comunque ne dovrebbero mandare una nuova, ma aspettiamo la conferma via radio. Il ranger assicura che potremo provare alle 15.00. Ci sediamo sotto un albero sui materassini e giochiamo con la settimana enigmistica. Il ranger si sta allontanando in auto e Stefano gli ricorda che dovevamo provare con la radio. Ci assicura che ritorna alle 17.00 circa. Allora (non poco incazzati…) decidiamo, Stefano, io, Monica, Carlo, Emanuela, Marta e Andrea, di ritornare a Savuti per telefonare di nuovo ed avere la conferma che l’auto sta arrivando. Non vorremmo restare bloccati un altro giorno in questa terra di nessuno. Partiamo con Kenny e ripercorriamo la strada che hanno fatto la mattina. E’ una pista sabbiosa che spesso abbandoniamo per evitare di bloccarci passando per un terreno disseminato di rovi e rischiando di graffiarci dappertutto. Arriviamo a Savuti. Il lodge è di quelli di lusso, recintato da una rete elettrificata, ma in quel momento il cancello è aperto e c’infiliamo nel giardino. Entriamo nella hall e Stefano si fa ridare il telefono satellitare (alla fine della giornata la spesa sarà di parecchie decine d’euro…). Noi ci aggiriamo tra il giardino interno e il negozio del lodge. Cerchiamo di rimediare una bibita fresca e delle sigarette per Carlo (che fuma solo in ferie…) quando arriva uno degli addetti che, prima gentilmente, poi in maniera sempre più irritata (e irritante…) ci dice che non siamo ospiti e che ci dobbiamo accomodare vicino all’auto. E’ la prima volta che ci succede (e da parte di un bianco...) di essere trattati in modo così inospitale in un luogo così desertico. Torniamo alla jeep e attendiamo che Stefano ci raggiunga (ci conferma che l’auto sostitutiva è in arrivo…). Proponiamo di provare a bere una birra all’altro lodge dove riceviamo lo stesso un rifiuto. Kenny c’informa che la benzina scarseggia e scende a chiedere ad un autista del lodge se è possibile averne. Ci conducono all’officina dove travasano due taniche nel serbatoio con un tubo di gomma. Ripartiamo che ormai l’aria è meno calda e, quasi al tramonto, siamo di nuovo a Linyanti. I compagni rimasti ci hanno preparato una deliziosa carbonara. Ci raccontano che ad un certo punto gli operai del parco li hanno fatti montare a bordo del furgone per andare a vedere dei bufali che stavano all’esterno del gate. Centinaia di bestie che corrono a rotta di collo, a poche decine di metri dalle nostre tende, sollevando un polverone. Racconto che rende insignificanti i pochi incontri d’animali che abbiamo avuto noi sulla strada per Savuti. E’ così buio tutto attorno, ora che la luna è calante e sorge molto tardi, che Andrea per andare a lavare le sue stoviglie al rubinetto va a cozzare con la gamba addosso ad un enorme crick che sta vicino ad un grosso camion. La ferita è fonda e dolorosa. Fa la sua parte allora Carlo, come infermiere in trasferta, che pulisce e medica alla perfezione pure con i pochi strumenti a disposizione, E’ notte, quando arriva l’auto sostitutiva con il meccanico che si mette, al buio, a controllare l’auto guasta. Poi pianta la tenda vicino a quella di Kenny e Simon. Andiamo a dormire. Domani partiremo per Xakanaxa, all’interno del parco Moremi. 9 settembre Alla mattina, dopo una veloce colazione, smontiamo le tende e carichiamo i bagagli. Vorremmo partire presto, ma dobbiamo ancora una volta adattarci ai ritmi africani, visto che con calma i nostri autisti vanno a recuperare il secondo trailer. Stefano c’informa che ha consegnato al meccanico che rientra a Maun una lettera per l’agenzia nella quale chiede, pur col rammarico per le conseguenze alle quali questa decisione può portare, la sostituzione di Kenny e Simon (indicazione che era emersa, dalle discussioni di questi giorni, da più d'uno di noi… ). Finalmente partiamo. Il paesaggio è piacevole, anche se delle zone di pista più sabbiosa ci fanno temere di finire intrappolati come due giorni fa. Così che Carlo inventa la "strambata" (in realtà il termine marinaro significa un'altra cosa...). In pratica nel momento in cui ci accorgiamo che l'auto fatica a far presa sul terreno ci alziamo all'unisono e portiamo il peso sul lato opposto al guidatore (qui, con la guida a sinistra, sta sulla destra dell'abitacolo...) per aumentare la presa delle ruote. Non sappiamo perché, però funziona. Chiaramente chi siede già da quel lato tende ad uscire all'esterno dell'auto reggendosi ai pali che sostengono il telone. Ci fermiamo come il solito all’ombra di qualche albero per un pasto veloce. Passiamo per una serie di laghetti dove avvistiamo degli ippopotami. Più avanti incontriamo una mandria di bufali intenti a pascolare. Ci fermiamo in un piccolo paese di poche capanne dove una piccola costruzione in muratura con un finestrone protetta da delle grate, funge da bar. Una ragazza molto giovane, con una simpatica pettinatura, ci serve delle birre semifredde e delle coca cole non molto meglio refrigerate. Attorno ci sono alcuni abitanti del luogo, delle donne con dei bambini graziosissimi. E’ qui che Andrea, dopo aver bevuto la coca cola si cimenta in un rutto pauroso (che io, involontariamente, registro con la telecamera…) tanto da provocare lo sbalordimento e l’ilarità dei presenti (italiani e non…). Andrea chiude l’episodio con un distratto: “Sorry…”. Passiamo il gate di Moremi, attraversiamo un fiume su un ponte di tronchi. Ci fermiamo in uno spiazzo alberato, dopo aver guadato dei rigagnoli, a raccogliere la legna per il fuoco. Costeggiamo un piccolo aeroporto (una pista in terra battuta per cessna e piper…) ed entriamo nel campeggio quando il sole sta per tramontare. Montiamo le tende. Dopo i primi giorni di campeggio abbiamo capito che i “grugniti” notturni che udiamo distintamente sono generati da Mauro. Ci teniamo tutti lontani dalla sua tenda! Accendiamo il fuoco perché pare che qui gli animali siano numerosi. Vado fino ai bagni che si trovano a poche centinaia di metri da dove siamo accampati. Ci sono altre persone che campeggiano lungo una fascia delimitata da un campo con dell'erba alta alle spalle e la strada sabbiosa davanti, oltre la quale si estende la savana. Dalla Parte opposta ai bagni, alla fine della strada, c'è il lodge. Questa volta, però, non ci capiterà mai di usufruire del bar. Andiamo a fare la doccia, dotati di pila perché i bagni non hanno illuminazione (forse è meglio, così non vediamo la fauna che popola le pareti e il soffitto!). Andrea e altri quando tornano alle tende ci dicono di aver visto un elefante che girava libero nei pressi dei bagni. Prepariamo la cena e mangiamo vicino al fuoco. Dopo cena, mentre chiacchieriamo, passa sulla strada a pochi passi da noi una iena maculata. Pochi minuti dopo qualcuno nota una grossa ombra che avanza dietro le tende: si tratta di un ippopotamo che sta "brucando" l'erba avvicinandosi a noi. Ci alziamo per osservarlo puntandogli le pile. Io cerco di riprenderlo con la telecamera ma è troppo buio. Ci ripariamo dietro le auto nel caso continui la sua traiettoria. Il fuoco fa il suo dovere. Pian piano si sposta sulla strada e l'attraversa per continuare la sua cena sul lato opposto. A questo punto andiamo a dormire. Nella notte mi sveglio più volte per dei rumori che sento attorno alle tende. Provo ad aprire lentamente la cerniera e a guardare fuori, ma non noto niente. C'è un po' di vento e forse i fruscii dipendono da questo. 10 settembre Al mattino, dopo colazione, andiamo verso il lodge che è in riva al fiume per imbarcarci su una piccola chiatta che ci porterà per l'intrigo di canali e paludi di questa parte del delta dell'Okawango. E' una gita rilassante tra alberi, canneti, papiri. Avvistiamo svariati uccelli: aironi, cormorani, aquile, fenicotteri, marabù, ibis (nel delta vivono circe 450 specie d’uccelli...). Vediamo anche qualche elefante nascosto tra la folta sterpaglia, occupato a strappare e mangiare l'erba. Purtroppo non vediamo coccodrilli, che pensavamo numerosi in quest’ambiente. La barca ha una copertura in metallo ed è possibile salirci sopra in non più di quattro alla volta. Ci alterniamo così ad osservare il paesaggio da un altro punto di vista. Quand’è ora di pranzo sbarchiamo su una piccola isola di quelle che si affacciano su un ampio bacino. Siamo di fronte ad un'altra isola dove una volta i turisti (compresi quelli di AnM) facevano tappa piantando il campo per una notte. Poi ci sono stati degli episodi di "sequestro" da parte dei pescatori che erano ingaggiati per portare i visitatori. Questi barcaioli pattuivano una cifra e poi, quando era il momento di riportare a terra gli ospiti pretendevano ancora dei soldi. Una volta a terra affettiamo il pane e del prosciutto crudo per noi e per la guida/barcaiolo. Lui ci informa che non mangia carne (porta al petto una stella, come Kenny…). Ci spiega che appartiene ad una chiesa che vieta di mangiare la carne, il pesce come il tonno che non ha squame e quindi non può essere mondato dal diavolo. Gli offriamo del formaggio, ma dobbiamo cambiare il coltello e tagliatore (Stefano…) perché sono "contaminati" dalla carne. Finito di mangiare risaliamo a bordo del battello e incontriamo due elefanti che nuotano e giocano nel mezzo del bacino. Prendiamo la strada del ritorno e il barcaiolo si sporge e beve l'acqua del fiume. Dice che è buona. Non oso pensare cosa ci può succedere se proviamo a berla noi! A Monica, che sta sul tetto della barca, scivola un pacchetto di batterie ricaricabili della macchina fotografica che, prima di cadere in acqua, rimbalza sulla testa di Dario, il quale accusa la nostra famiglia di attentare alla sua incolumità (rifacendosi allo "spintone" mio alle Victoria Falls...). Sbarchiamo e torniamo al campo, smontiamo le tende, carichiamo i trailers e siamo pronti a partire per Maun. Arriviamo quasi al tramonto al campeggio Sedia che si trova alle spalle dello stabile dell'albergo con bar e ristorante all'aperto con tanto di piscina. Io, Carlo ed Emanuela piantiamo le tende assurdamente molto vicine, visto lo spazio esteso del campeggio. Stefano ce lo fa notare. Gli rispondiamo che ci garba così, perché ci vogliamo bene! Prenotiamo un tavolo per la cena e poi andiamo a fare la doccia. Il menu del ristorante non è molto vario e prendiamo della carne ai ferri. Beviamo del vino sudafricano (in pratica l'unico di qualità che si trova qui, come in Namibia). La serata è fresca. C'è un po' di vento e un continuo gracidare di rane. Passiamo il resto della sera al bar dove Stefano gioca al biliardo. Andiamo a letto molto tardi. 11 settembre Ci alziamo con calma. Questa mattina andiamo in centro a Maun per fare la spesa. Un gruppo va al supermercato mentre io, Monica e altri visitiamo un negozio d’articoli vari dove acquistiamo delle cartoline (i francobolli ci dicono li troveremo solo all'aeroporto...) e poi ascoltiamo alcuni cd di musica locale. Alla fine ne acquistiamo un paio. Ci sono in vendita delle confezioni d’extension di capelli già pronti in piccole trecce, allora si scherza con Andrea che, come me, ha un taglio cortissimo. Nel sottoportico fuori dei negozi vediamo una donna Herero nel suo costume tipico stile '800. Monica accenna ad inquadrarla con la macchina fotografica (è risaputo che molte di loro non amano farsi fotografare... alcune solo dietro ricompensa...), ma non scatta. Non si è accorta che la donna parlava con un militare che si avvicina infuriato. Monica cerca di spiegare che non ha scattato la foto e fa scorrere le immagini della digitale, ma il militare continua a protestare nella sua lingua (incomprensibile!). Per fortuna interviene Simon che riesce a calmare il tipo (anche se poco prima aveva lui stesso fatto una scenata con Stefano al supermercato... sono proprio esplosivi questi botswani...). Arrivano i carrelli colmi di cibo e acqua (dobbiamo andare verso il Kalahari e non avremo possibilità di approvvigionamenti per alcuni giorni). Carichiamo tutto in auto e poi continuiamo a visitare le botteghe lungo la strada. C'è un negozio all'aperto di batik molto belli, ma anche molto grandi che non saprei dove appendere a casa. Andrea comincia una contrattazione per un paio di questi e altri oggetti. Lo lasciamo a mercanteggiare e ci dirigiamo ad un altro mercato dove ci sono molti articoli di legno intagliato. Qui Carlo acquista un paio d’orecchini di legno a Marta che ama sfoggiarne ogni giorno un modello diverso. Ci dirigiamo verso il parcheggio dove abbiamo lasciato le auto. Torniamo verso il campeggio. Sulla strada vediamo l'insegna rudimentale (che colpisce Carlo per deformazione professionale) di un medico tradizionale africano. Rientriamo al campo per pranzare, fa caldo e cerchiamo di sistemare il tavolo sotto alcuni alberi vicini alle tende. Approfittiamo del sole cocente e del fatto che resteremo qui due notti per lavare la biancheria. Con Carlo stendiamo un filo tra due alberi e poi ci rechiamo ai bagni con i nostri sacchetti e il sapone. Ci mettiamo in coda, visto che ci sono già Stefano e Andrea. Quest’ultimo sta lavando tanti di quei vestiti che pare ne abbia portati di sporchi anche da casa. E’ impossibile che abbia consumato tutta quella roba in pochi giorni. Alla fine, quando è il nostro turno, è quasi finita l’acqua e dobbiamo attendere che la pompa ne accumuli dell’altra. Mentre lavo arriva Monica con la macchina fotografica perché, dice, vuole immortalare questo momento storico (in effetti, siamo tutti uomini a lavare…), ma alla fine si trova a darci una mano (poteva restarsene seduta a tavola…). Steso il bucato (che si asciugherà molto velocemente…) ci prepariamo per andare all'aeroporto di Maun, da dove partiremo per il volo sul delta dell'Okawango. Visto che la nostra auto perde dell'olio sotto il piantone dello sterzo sui pedali (non si sa da dove...) decidiamo di salire tutti e undici sull'auto di Kenny, per dare modo a Simon di portarla dal meccanico. La strada per l'aeroporto è breve. Stefano e Kenny vanno all'agenzia a comprare i biglietti, noi intanto acquistiamo i francobolli nell'ufficio postale interno, scriviamo le cartoline e le imbuchiamo in una cassetta di legno piuttosto artigianale. Alle 16.00 arriva il responsabile dell'agenzia che ci fa passare una sorta di check in e ci fa accomodare in una sala d'attesa dalla quale usciamo quasi subito direttamente all'esterno in prossimità della pista. Ci dirigiamo verso dei piccoli cessna divisi in tre gruppi ognuno al seguito del proprio pilota: Io, Monica, Marta ed Emanuela (con l'unica pilota donna, Britta...); Mauro, Antonella, Dario e Stefania; Stefano, Carlo e Andrea. I piloti c’indicano su una mappa l’area che sorvoleremo in un'ora sopra la zona sud orientale del delta, che è enorme e si estende nell'interno del Botswana (non sfocia nel mare...) in un territorio altrimenti desertico. Il fiume Okawango, che nasce in Angola e passa per la Namibia, con la sua piena, che arriva alcune settimane dopo le grandi piogge, porta una seconda ondata di vita e permette a queste terre di conservare un ecosistema unico al mondo. Il pilota ci fa salire e ci da le ultime istruzioni, compreso il posto dove si trovano i sacchetti in caso ci venisse da vomitare. Ci spiega che per mostrarci il panorama farà delle virate a destra e a sinistra e in caso di nausea basta avvertirla e lei si riporta in posizione. E’ la prima volta che volo in un aereo così piccolo, quindi non ho idea quanto siano fastidiose queste evoluzioni e gli eventuali vuoti d'aria. Accende il motore e lentamente si porta all'inizio della pista, accelera e in breve ci troviamo sopra i tetti delle baracche di Maun. L'abitacolo è rumoroso e caldo, anche se dell'aria entra da dei bocchettoni sibilanti. Pian piano la vegetazione sotto di noi comincia a cambiare colore, dal giallo della savana al verde più intenso e si cominciano a vedere una serie di canali più o meno larghi e profondi che si snodano formando delle isolette dove vediamo degli animali, bufali, elefanti, intenti a bere o a bagnarsi. Uno strano spettacolo sono i termitai, che spesso incontriamo quasi solitari lungo le strade a terra, che visti dall'alto sono numerosi e disposti in modo che sembra quasi regolare ed equidistante. Assomigliano ai coni che si creano in spiaggia facendo scivolare dalle mani la sabbia intrisa d'acqua, solo che alcuni sono più alti di una persona e a volte inglobano l’intero fusto di un albero. S’intravedono anche i mokoro, le imbarcazioni tipiche scavate in un tronco e portate spingendo una lunga pertica sul fondo dei canali. Il volo è piacevole e per niente fastidioso. Faccio delle riprese con la telecamera e scattiamo parecchie foto. Viriamo per tornare verso Maun ed intravediamo alla nostra destra l'aereo che porta Carlo, Stefano e Andrea. Britta alza la quota per allinearci, così ci scattiamo a vicenda delle foto. Sulla nostra sinistra ad un certo punto vediamo la pista di Maun. L'atterraggio è veloce e delicato. Come tutte le belle esperienze (in particolare questa...) il tempo è "volato". Scendiamo e ci fermiamo a scambiare commenti e impressioni entusiastiche ma siamo invitati a lasciare l'area interna dell'aeroporto. Continuiamo a chiacchierare all'esterno dove nel frattempo è arrivato anche Simon con l'altra auto. Faccio notare che anche l'anno scorso ero in volo l'11 settembre (data nefasta per l'aeronautica…) per tornare dalla Namibia, ma non sono superstizioso e penso che ogni giorno è buono per volare... o cadere. Notiamo che di fronte all'aeroporto c'è un negozio (chiaramente per turisti...) dove gli oggetti hanno dei prezzi molto sopra la media, ma contiene anche una bellissima galleria d’immagini del territorio e d’animali africani che vale la pena vedere. Ammiriamo queste foto quando Emanuela, passando tra dei pannelli che delimitano il percorso della mostra, urta una famiglia di giraffe di legno facendole capitolare con effetto domino. Nulla può Dario nel tentativo di fermare il crollo. Io, Monica e Carlo, che siamo leggermente più avanti, una volta accertato che il frastuono non annuncia niente di grave ci mettiamo a ridere. Carlo addirittura fugge fuori del negozio sbellicandosi. Risaliamo sulle auto dividendoci di nuovo nei due equipaggi distinti. Sulla strada di ritorno facciamo fermare Simon ad un laboratorio di batik che però ha appena fatto una svendita e non ha molto da mostrarci. Arrivati al campeggio prenotiamo un tavolo per la sera al ristorante e ci sediamo a bere qualche cosa nell'attesa che arrivi Irene (corrispondente dell'agenzia che ci ha fornito auto e autisti qui in Botswana) con la quale Stefano, supportato da Carlo nella veste di cassiere, contratterà per qualche ora uno sconto per i guasti e i disagi dei giorni precedenti. Irene parla per conto di Clint, proprietario dell'agenzia, personaggio che diventerà un mito per la sua "invisibilità" (Sta sempre nel bush e Stefano lo sentirà solo al telefono...). Noi andiamo ad assistere alla discussione (che si svolge mentre a turno facciamo la doccia fino a che ne abbiamo la possibilità… domani saremo nel Kalahari...), che a sprazzi ha del comico per le sparate di Stefano e di Carlo. Alla fine riusciamo ad ottenere una serie di rimborsi (come le telefonate...) e qualche sconto sui noleggi. Stefano ritira la richiesta di cambiare gli autisti, anche se i rapporti continuano ad essere per lo meno strani. In campeggio notiamo una tenda con una moto parcheggiata vicino. E’ un turista canadese che ha già girato l’America, ora sta viaggiando per l’Africa e intende raggiungere per la costa orientale lo Yemen e proseguire per la Tahilandia, l’Indonesia, per poi imbarcarsi per l’Australia, un giro che complessivamente durerà qualche anno. Dice di mantenersi insegnando inglese, ma credo abbia le spalle ben coperte per permettersi di abbandonare tutto per un viaggio così dispendioso. Per cena, al ristorante, ci avevano promesso un piatto locale. Ora ci dicono che è finito (davvero non è facile capire i ritmi e i pensieri africani... ) e ci dobbiamo accontentare di quello che, a più riprese, la cameriera ci dice essere rimasto in cucina. Per fortuna c'è sempre il buon vino sud africano. Dopo cena gironzoliamo nel giardino del ristorante e beviamo qualche cosa nel bar dove alcuni di noi sfidano i locali (con scarsi risultati) a biliardo. Si usa così: due giocatori si stanno cimentando in una partita, lo sfidante appoggia sul bordo del tavolo una pula (la moneta locale che significa "pioggia", mentre i centesimi, thebe, stanno per "gocce", questo per capire il valore che qui é tributato all'acqua) e aspetta di battersi con il vincente della gara in corso. Ci si può accodare in quanti si vuole, la notte è lunga. Per la nuova partita, la pula viene inserita nel tavolo per riavere le boccette, così che lo sfidante paga e chi è più bravo praticamente gioca gratis. Le ore passano e andiamo a dormire tardissimo (due in particolare più tardi degli altri...). 12 settembre Sveglia relativamente presto. Facciamo colazione poi smontiamo le tende e carichiamo i bagagli sulle auto. Partiamo e dopo un po' ci fermiamo ad un distributore per fare il pieno ai serbatoi e alle taniche visto che poi ci allontaneremo dai centri urbani. Compriamo qualche stuzzichino e delle bibite fresche e Andrea acquista un pallone bianco rosso e verde al supermercato SPAR. Nell'attesa palleggiamo sullo spiazzo in fianco alle pompe di benzina: siamo o non siamo i campioni del mondo? (Come ci ricordano molti di quelli che incontriamo, che conoscono i nomi dei giocatori della nazionale e ce li snocciolano come in un rosario... ). Arriva una guardia dei negozi vicini, Carlo chiede se vuole giocare anche lui, ci fa capire che lì non si può giocare. Finito il rifornimento percorriamo qualche altro chilometro di strada asfaltata e giriamo per una pista in corrispondenza di una rete veterinaria. Si tratta di una doppia rete, una delle quali elettrificata (come ce ne sono tante in Botswana e che fanno parte di quelle prevenzioni tipo la disinfezione di ruote e suole al confine...). Proteggono il bestiame da contatti e contagi con animali selvaggi. Alcune associazioni ambientaliste internazionali sollevano l'obiezione che questi chilometri di rete non permettono le naturali migrazioni che da sempre le mandrie selvatiche hanno intrapreso in questi territori (soprattutto nella stagione secca, alla ricerca delle rare pozze d'acqua), provocando grossi squilibri e, a volte, anche la morte di molti capi. Costeggiamo la rete per molti chilometri in una savana arsa punteggiata qua e la da acacie e da cespugli completamente coperti dalla paglia portata dal vento. Assumono così una forma strana di piccole capanne probabilmente abitate da piccoli animali. Trovato un albero abbastanza grande lungo la pista ci fermiamo per il solito pranzo a base di pane in cassetta, formaggio, affettati, mele. Prendiamo anche qualche sedia dal trailer e ci accomodiamo, un po' come nella vecchia pubblicità di Calindri, proprio al centro della pista. L'unica differenza è che manca assolutamente il traffico caotico della città. Il sole è cocente, anche se all'ombra si resiste visto il basso tasso d’umidità. Dario ha un orologio con termometro e lo appende alla rete dove non c'è ombra. In pochi secondi i 40 gradi sono superati. Ripartiamo ancora lungo la rete e incontriamo anche un paio d’auto che procedono in senso inverso. Com'è d'uso in questi paesi poco popolati si rallenta, ci si saluta e ci si scambia qualche informazione o curiosità sulla strada percorsa. Ad un certo punto un cartello c’indica un posto di blocco veterinario. Avvistiamo Qualche casetta, la pista compie una larga curva che ci porta perpendicolarmente alla rete, proprio di fronte ad un cancello. Alcune persone sono sedute nel cortile tra le casupole. Uno di loro si avvicina e parla con Kenny. Un cane bianco tutto ossa mi viene vicino e accetta con noncuranza una carezza. Il guardiano ci chiede di aprire il trailer per una ispezione. Gli interessa particolarmente il contenuto del contenitore degli alimenti, visto che non si può passare con carne di manzo. Guarda il salame, lo rimette giù, poi prende lo spek e la lonza ancora sotto vuoto. C’indica un bidone e ci spiega che dobbiamo gettarli via. Io assicuro che il salame è di porco e anche gli altri due pezzi (nonostante l'aspetto da carne cruda...) "are the same". Il tipo tentenna e chiama "il capo". Stefano ed io ci guardiamo ed esprimiamo il nostro pensiero comune: "Questo si vuole garantire il pranzo?". Ce li fa buttare e poi se li recupera, quando siamo andati! Stefano dice: "Piuttosto me li affetto qui e me li mangio". Arriva l'altro guardiano e gli ripetiamo, anche con l'aiuto di Kenny, che non è carne di manzo. Ancora qualche istante di tentennamento poi ci fa un vago segno di semiapprovazione, noi gettiamo il tutto di nuovo dentro il trailer e lo chiudiamo, prima che cambi idea siamo a bordo delle jeep. Ci aprono il cancello e siamo di nuovo sulla pista che ci porta al gate della Central Kalahari Game Reserve. Scendiamo a sgranchirci le gambe, mentre Stefano va negli uffici dei rangers per il pagamento d'accesso. Siamo ad un incrocio nel nulla tra la strada che abbiamo percorso noi e quella che uscendo dal parco prosegue fino al paese di Rakops (c'è persino un cartello che indica le destinazioni...). Scattiamo qualche foto di gruppo di fronte al cartello del parco. Risaliamo sulle auto e, passando sotto la costruzione del gate ci dirigiamo verso la Deception Valley, dove pianteremo il campo. Arriviamo nell'area dove campeggeremo (ad una quarantina di chilometri dal gate...). Si tratta di un'area come altre nella zona, con un disco di cemento dove fare il fuoco, due costruzioni di legno senza tetto fatte a chiocciola. Una contiene un water che da direttamente su una buca della quale non s’intravede il fondo e dalla quale esce un puzzo soffocante. L'altra contiene la doccia, ovvero un secchio da riempire con la propria acqua che poi va issato con una corda all'altezza desiderata e che sul fondo ha un rubinetto con un erogatore a forellini. Piantiamo le tende a semicerchio a qualche metro dalla base per il fuoco, infastiditi dalle faraone che ci girano intorno senza il minimo timore. Per scherzo ipotizziamo una cena a base di questi volatili e Carlo, celere, lancia il suo coltello e quasi ne colpisce una. Kenny "impallidisce" e si mette ad imprecare! E' chiaro che dentro il parco non si può assolutamente cacciare. Carlo chiede scusa e l'episodio si chiude qui. Ceniamo alla luce delle lampade a paraffina, che si anneriscono subito e quasi ogni sera vanno ripulite con cura. La paraffina poi è oleosa e ha un odore fortissimo. E' già capitato che abbia macchiato dei bagagli nel trailer e quindi nei trasferimenti svuotiamo le lampade e le trasportiamo con la tanica dentro un sacchetto di nylon sull'ultima panca della nostra jeep. L'acqua non è molta, oltre alla preziosa scorta da bere. Abbiamo riempito due grosse taniche e alcuni bottiglioni vuoti da cinque litri riconoscibili dallo scotch da pacchi che abbiamo sovrapposto all'etichetta per non confonderla con quella potabile. Laviamo quindi le stoviglie centellinandola. Ci sediamo attorno al fuoco, in silenzio, con il naso per aria a cercar di vedere le stelle cadenti. Stefano si apparta vicino al tavolo, gli occhiali sul naso, a scrivere chissà quale racconto o copione alla luce della lampada (ha fatto l’attore di teatro…). Qualcuno si sposta dietro le jeep, per mascherare la luce del fuoco, senza allontanarsi troppo: sarebbe pericoloso. E' indescrivibile il cielo notturno nelle zone desertiche, così fitto di stelle, con la via lattea visibilissima e le stelle cadenti numerose, con una scia lunghissima che sembrano al rallentatore, tanto che una notte ero di spalle, quando Stefania ha detto:"Eccola!". Ho fatto tempo a girarmi e vederla ancora morire nel buio. Riusciamo a vederne molte, poi la stanchezza comincia a farsi sentire e chi prima, chi dopo, si ritira in tenda. Prima però bisogna fare la pipì, che poi se scappa di notte ti tocca uscire da solo. La latrina è fuori discussione. Mi allontano un poco vicino ai cespugli, sposto la pila da fronte come un faro per controllare che non ci sia alcun animale. Nel buio si possono notare degli occhi luccicare, ma non si avvicinano. In particolare in mezzo ad un cespuglio vedo il riflesso di un occhio piccolino che avanza lentamente e regolarmente a livello terra: un serpente o solamente un topolino? Meglio non pensarci. Mi avvio alla tenda, prima di aprire la cerniera allontano con la ciabatta un bel ragno peloso che si aggirava davanti all'ingresso. Finalmente il meritato riposo, buona notte. 13 settembre Come deciso ieri sera ci alziamo prestissimo per un game drive. Stiamo facendo una veloce colazione, quando udiamo alcuni ruggiti che vengono dalla Deception Valley. Nascondiamo il cibo, prendiamo il minimo indispensabile e saltiamo a bordo delle auto. La nostra stenta a partire. Scendiamo e spingiamo fino a che va in moto. Raggiungiamo la savana cosparsa qua e la di piccoli boschetti d’acacia. Ci sono alcuni sciacalli e un orice solitario non molto lontano (c’era anche ieri in quella stessa posizione… che sia di cartone?...). Di predatori nemmeno l’ombra. Simon però ci mostra lungo la pista sabbiosa delle chiare impronte di felino (come illustrato anche nel bel libro sulla fauna africana che ha con se…) che però potrebbe essere passato questa notte. E’ risaputo che i ruggiti, nel silenzio della savana, si propagano anche a chilometri di distanza. Nel breve giro che facciamo ci rendiamo conto che l’auto ha qualche problema. Non parte facilmente e il più delle volte ha bisogno di una spinta , che in un game drive non è proprio la cosa migliore! Torniamo a finire la colazione per poi riprendere la visita del parco. Ci spingiamo per una serie di sentieri a nord senza però avere molta fortuna. Incontriamo piccoli animali, xero del Sud Africa (simili a scoiattoli) che vivono in delle tane scavate nel terreno con molte via d’accesso. L’anno scorso li ho fotografati nel campeggio all’Etosha, in Namibia. Erano abituati ai campeggiatori e correvano a prenderti i bocconi di pane dalle mani alzandosi sulle zampette posteriori. Poi ci sono alcuni impala, gruppi di femmine con il solo maschio dominante (…e via battute sul fortunato possessore dell’harem…) e gruppi isolati di maschi perdenti (sfigati…) che non attendono altro che il momento di sfidare e soppiantare l’avversario. Poi ancora molti uccelli che Simon conosce bene e c’indica pronunciando di volta in volta il nome (mitici il Segretary bird, che i locali dicono somigliare ad una segretaria truccata e ben vestita… E il Cory bastard). Proseguiamo senza spegnere il motore per evitare di dover scendere ogni volta, ma un game drive rumoroso non è il massimo, ogni tanto ci si dovrebbe appostare a motore spento per non agitare gli animali. L’auto si spegne a più riprese, allora ci rendiamo conto che il guasto è più grave di quello che pensavamo. Non si tratta solo della batteria, che a questo punto dovrebbe essersi ricaricata. Decidiamo che è il caso di rientrare alla base. Lo facciamo con difficoltà perché la macchina ci muore su una pista sabbiosa in salita. Ci vuole tutta la nostra buona volontà per riuscire a farla ripartire e, con ansia, torniamo al campeggio. Girando la chiave dell’accensione non da segni di vita e se, faticando, riusciamo a metterla in moto, non tiene il minimo. Appena si lascia l’acceleratore muore. Stefano propone di far andare gli autisti fino al gate per comunicare via radio il problema all’agenzia (sono circa 40 chilometri di pista che spacca la schiena…). Gli faccio notare che non sono così affidabili e preferirei che ci andasse lui, mi offro di accompagnarlo e Monica si aggrega. Ci prepariamo al volo un panino e partiamo con Kenny (sono più o meno le 13.00). Impieghiamo circa un’ora e mezza per arrivare all’entrata del parco. Spieghiamo la situazione al ranger e dobbiamo ancora una volta sottostare ai ritmi africani. Seduti all’ombra, con molta calma e tatto. Il ranger sostiene che la radio va usata per casi di estrema necessità (stare nel deserto con l’auto rotta e l’acqua razionata qui è normale…), che poi lui non chiamerebbe direttamente Maun, ma una base intermedia che poi avviserebbe quella di Maun che a sua volta andrebbe ad avvisare l’agenzia, il tutto senza possibilità di certezza che il messaggio venga recepito. Poi, sempre con molta flemma c’indica l’incrocio fuori del gate e ci assicura che a Rakops (altri 40 chilometri…) c’è il telefono. Ok, non ci resta altro da fare. La mia scelta di non lasciare andare gli autisti da soli si rivela giusta, sono certo che sarebbero tornati indietro per dirci che non si poteva usare la radio, punto. Stefano mi da ragione e dice a me e Monica: “Ormai siete in ballo, si va a Rakops!”. Di nuovo una pista spaccaossa (per fortuna non come la pericolosa febbre Dengue…). Siamo in prossimità di Rakops (incontriamo delle mandrie di bovini al pascolo e intravediamo il centro abitato all’orizzonte…), quando ci accorgiamo che i telefoni cellulari hanno campo. Kenny chiama l’agenzia che gli assicura che a breve saremo richiamati da Clint in persona. Aspettando abbiamo anche l’esperienza di essere investiti da una di quelle piccole trombe d’aria che di solito si notano in lontananza nella savana. Sono delle colonne di polvere che si spostano velocemente. La vediamo nascere dalla strada, alzarsi lentamente e venire verso di noi. Abbassiamo la testa e chiudiamo gli occhi. Per qualche secondo ci troviamo al centro di un turbinio di vento e sabbia che poi passa e prende sempre più velocità. Clint ci richiama e Stefano spiega la situazione minacciando che quando rientreremo sarà costretto a parlare di questi contrattempi con Paolo (uno dei capoccia di AnM…) che lui conosce bene. Clint ci promette che farà partire subito un’auto con i meccanici. Kenny ci fa notare che questi spostamenti non previsti ci fanno consumare carburante, allora ci dirigiamo verso il centro di Rakops. Raggiungiamo un distributore di benzina d’altri tempi. Le uniche due pompe funzionanti (una è guasta e ci sono attorno degli operai che ci lavorano) sono “a mano”, nel senso che una va a manovella, l’altra, quella che utilizzano per la nostra auto, ha una leva che deve essere spinta avanti e indietro con energia, tanto che per il pieno si alternano il benzinaio, una ragazza esile con tuta blu da meccanico e un cappello di paglia e alla fine anche Kenny. Noi scendiamo dalla jeep per sgranchirci e scattiamo increduli delle foto. Ultimate le operazioni di rifornimento ci dirigiamo ad un market dove Kenny compra una aranciata da un litro e mezzo per il ranger (infatti gli aveva consegnato del denaro quando siamo partiti…). Noi ne approfittiamo per acquistare delle bistecche di manzo e delle costicine di agnello per la cena e, con grande soddisfazione per le nostre gole riarse, ci scoliamo una bibita gelata. Ora non ci resta che rifare gli 80 chilometri al contrario. Per strada riusciamo a vedere qualche animale, una mangusta gialla, un gatto selvatico, degli orici. Incontriamo anche un guidatore solitario con la jeep in panne che attende aiuti. Arriviamo nei pressi del campeggio che è il tramonto e ci fermiamo per scattare qualche foto. Una volta raggiunti i nostri compagni raccontiamo il nostro viaggio e loro la giornata passata ad attenderci (hanno provato a fare un giro con l’auto guasta per fotografare il tramonto e hanno spinto a dovere…). Carlo ci accoglie con baci e abbracci, soprattutto perché ha visto la carne che abbiamo portato. Facciamo una breve riunione e decidiamo a maggioranza di saltare la puntata a Piper Pan, che in fondo non è molto diverso da dove ci troviamo ora, per recuperare un po’ del tempo perso per le varie vicissitudini, ma anche perché un altro problema alle auto in un posto così lontano dai centri abitati comprometterebbe definitivamente il viaggio. Organizziamo la grigliata nell'attesa dell’arrivo dei meccanici. Finito di mangiare siamo di nuovo intorno al fuoco, Stefano continua a scrivere prima di darci la buona notte: il viaggio fino a Rakops ci ha sfiancato. Noi comunque continuiamo ad attendere i soccorsi. Ad un certo punto sentiamo un motore, ma si tratta di un furgone di turisti che abbiamo incrociato oggi. Poi un altro motore, Andrea corre verso il bivio che porta alle nostre tende, gli gridiamo di stare attento, ma lui avanza nel buio sbracciandosi. Sono loro, i nostri meccanici. E’ circa mezzanotte, gli offriamo da mangiare, poi cominciano a controllare l’auto. Riescono a farla partire e tutto sembra risolto, comunque Andrea li convince a lasciarci i cavi con le pinze per fare ponte nel caso dovesse verificarsi ancora qualche inconveniente con l’accensione. Ci ritiriamo nelle nostre tende. 14 settembre Al mattino partenza per un altro game drive. Questa volta scendiamo a sud, ma la macchina ricomincia a fare le bizze. La riavviamo un paio di volte facendo ponte con l’altra e alla fine decidiamo di rientrare al campo, prima che i meccanici se ne vadano via. Questa volta sostituiscono lo start up e pare che tutto sia risolto. Facciamo colazione, smontiamo le tende, carichiamo le auto. Si parte, direzione Rakops (chissà perché mi sembra di conoscere la strada…). Stefano convince i meccanici ad accompagnarci almeno fino alla strada asfaltata. Prima di uscire dal parco incontriamo ancora il tipo con l’auto ferma che abbiamo visto ieri. Stanno aiutandolo a ripararla, ma si trova in mezzo alla pista in un tratto chiuso tra delle dune. Lo superiamo salendo con la jeep su un lato quasi rovesciandoci sulla sua. Arriviamo al gate, il ranger ci saluta e ci domanda se ora l’auto funziona bene. Imbocchiamo la strada di fronte all’uscita e arriviamo a Rakops. Facciamo una breve sosta e ripartiamo verso il Makgadikgadi National Park. Ormai siamo sulla strada asfaltata e i meccanici ci sorpassano e ci salutano. Lungo la strada, al riparo di un albero, un gruppo di persone sta cercando un passaggio. Ci fermiamo, Simon (il solito simpaticone…) monta in groppa ad un asino e si cimenta in una cavalcata nel bel mezzo della strada (qui il traffico non è poi così fitto…). Facciamo salire un paio di donne con alcuni bambini divisi tra le due auto, alcuni davanti in fianco all’autista e altri dietro vicino a noi. Ad un certo punto uno di loro, visto Carlo, scoppia a piangere e tutti partono in coro e vogliono raggiungere la donna che sta davanti. Ne resta solo uno con noi, ma che si guarda bene dal darci la minima confidenza. Andrea comincia a distribuire biscotti che i piccoli accettano con timidezza. Noi, per rompere il ghiaccio, cominciamo a cantare in coro: “Ci son due coccodrilli ed un orango…”. I bambini ci guardano seri con gli occhioni fissi. Scegliamo un dignitoso silenzio. Il bambino che si trova davanti a me e Monica, dormendo in piedi, comincia a scivolare di lato. Le dico di provare a prenderlo in braccio. Un pianto disperato! Simon si gira e, sgarbato come al solito, grida a Monica:“Lascialo, che sei una bianca!”. Lei, che non ha capito che cosa gli abbia detto in inglese, gli risponde per le rime in italiano, con tono alterato (questa volta Simon proprio se lo meritava…). Allora, con più calma Simon spiega che non sono abituati a vedere i bianchi (per fortuna, al primo momento l’avevo presa per una frase razzista…). Arrivati nei pressi del loro villaggio facciamo scendere le donne e i bambini e proseguiamo. Per strada raccogliamo dei tronchi per il fuoco che leghiamo sopra il trailer assieme alla tavola e alla griglia. Arriviamo ad un campeggio privato che sta all’interno della doppia recinzione elettrificata che delimita il parco. Superato il cancello, proseguiamo fino ad una costruzione dove c’è la reception/bar con una piccolissima piscina dall’acqua opaca (un po’ come tutte le piscine che abbiamo visto nei campeggi o nei lodge). Chiediamo informazioni e ci facciamo indicare il posto dove pianteremo le tende. Non c’è molta ombra, fa caldissimo e scelgo uno spiazzo a caso tra quello di Andrea e quello di Emanuela. Poi vado a vedere dove si trovano i bagni e le docce. Non sono molto lontani, ma ci consigliano, quando sarà notte, di andarci almeno in due e con una pila molto forte e, in caso d’incontri inaspettati, non correre ma retrocedere lentamente. Ci facciamo poi accompagnare da Kenny al punto d’avvistamento vicino ad una pozza. Si tratta di un luogo all’ombra separato da una ringhiera di legno da un vasto spazio dove ci sono alcune pozze d’acqua, una delle quali non molto distante. Lontano vediamo tante zebre e gnu. Sugli alberi intorno ci sono parecchi avvoltoi, ce n’è anche uno per terra che cammina con la tipica andatura ondeggiante. Arrivano poi degli elefanti e restiamo per un po’ così ad osservare questo angolo di natura. Le zebre temono gli elefanti e non si recano a bere fino a che non si sono allontanati. Allora cercano di entrare tutte nella piccola pozza e chiaramente l'ha vinta chi è più forte. Volano delle scalciate con gli zoccoli posteriori che impattano sull’avversario producendo un suono secco che rimbomba fortissimo. Ad osservare queste scene ci sono anche un paio di coppie anzianotte di turisti, forse sud africani, attrezzati con seggiolini, binocoli e macchine fotografiche. Rientriamo presto perché oggi faremo il game drive notturno. Dobbiamo quindi mangiare presto e prima fare una doccia, visto che nel Kalahari non l’avevamo (ci siamo arrangiati come potevamo, con le salviette umidificate…). Per fare prima Monica ed io facciamo la doccia assieme nel bagno delle donne. Dopo cena arrivano due auto del campeggio dotate di faro a mano per illuminare gli animali. Partiamo per il game drive. La prima cosa che vediamo è: un gatto selvatico che da la caccia ad un topo (serviva venire in Africa per questo?...). Poi incontriamo anche animali più tipici come le zebre, gli gnu e perfino qualche leone sdraiato nell'attesa di cominciare la caccia notturna. Vediamo anche alcune carcasse (se ne trovano spesso vagando per la savana…) e in particolar modo suscita ilarità quella di una zebra quando Emanuela, fingendo di tradurre quello che dice la guida, dice che probabilmente è morta di infarto. Monica chiede: ”Come fa a sapere che è morta di infarto?”. Il game prosegue senza altre grosse sorprese e la stanchezza comincia ad avere il sopravvento. Siamo tutti mezzo abbioccati e il ritorno al campeggio è un sollievo. Tutti a nanna. 15 settembre La mattina, dopo colazione, Usciamo dal campeggio, attraverso i cancelli, per raggiungere l’entrata del parco Makgadikgadi. Attraversiamo anche un cancello elettrificato che Stefano apre e richiude con molta attenzione. Al gate, dove ci fermiamo per il pagamento, ci sono una serie di ossa di animali, da quelle piccole fino a quelle grandi e pesanti di elefante, appoggiate ad un espositore fatto con alcuni rami legati tra loro. Proseguiamo all’interno del parco e presto arriviamo vicino a dei cespugli dove ci sono un gruppo di leoni. Giriamo attorno alle piante e scattiamo una serie di foto. Ci dirigiamo poi verso la pozza degli ippopotami. Il parco si snoda sul letto di un fiume in secca, corriamo sul fondo di una trincea molto larga delimitata ai lati da pareti che, nella stagione delle piogge, diventano argini. L’acqua si può vedere in alcune pozze dove qualche elefante, zebre e antilopi si recano per bere e bagnarsi. Alcuni ippopotami sono, come il solito, stesi ai bordi di un laghetto, altri sono immersi e si possono notare le orecchie, gli occhi e le narici sbuffanti che ogni tanto emergono dal fondo. Torniamo accompagnati da una mandria di zebre che timorose come sempre corrono al nostro fianco tenendoci d’occhio fino a che trovano il coraggio di attraversarci la strada per proseguire verso la loro meta. Ci dirigiamo verso il campeggio seguendo la rete elettrificata, vediamo un paio d’operai che la stanno riparando dall’interno. Di fronte ci sono dei piccoli anfratti davanti ai quali osserviamo dei coccodrilli così secchi e impolverati da sembrare quasi bianchi, sono molto grandi. Poco vicino ce ne sono altri, più piccoli, sempre di colore chiarissimo. Un altro meraviglioso spettacolo lo offre un enorme stormo d’uccelli. Sono tantissimi e si muovono all’unisono provocando un gioco frusciante d’onde, fughe e ritorni. Rientriamo al campeggio per il pranzo. Nel pomeriggio invece di Clint, che aveva promesso una visita a Stefano, arriva sua sorella Dee. Noi decidiamo di tornare all’osservatorio di fronte alla pozza. Ci appostiamo lungo la staccionata e osserviamo prima un elefante che ci viene incontro e si ferma come in posa per farsi fotografare, poi una mandria di zebre che con le loro solite spinte e scalciate alla fine prosciugano completamente l’acqua. Torniamo alle tende per avviarci ad un game drive pomeridiano al parco. Visto che l’acqua delle bocce è calda, Andrea ha la trovata di riempire la sua bottiglietta e poi aggiungerci un paio di filtri di the, così da renderla più appetibile. Non giriamo molto, visto che alle 18.00 dobbiamo uscire dal gate, riusciamo comunque a vedere ancora degli animali. Rientrando questa volta è Marta ad aprire e chiudere il cancello elettrificato e toccando inavvertitamente il ferro prende la scossa. Arrivati al campeggio usciamo nuovamente con Stefano, Carlo, Andrea e Kenny a raccogliere la legna per il fuoco. Raggiungo Monica, che si è già avviata, per fare insieme la doccia, questa volta nel bagno degli uomini. Ma la trovo all’esterno e mi dice che non è il caso che lei entri. Ha visto un uomo nero completamente nudo! Le chiedo chi era, ma non sa rispondermi e allora capisco che non l’ha guardato propriamente negli occhi. Decido di fare la doccia da solo e incontro Kenny che si sta asciugando. Chiediamo ad un addetto se il bar sarà aperto la sera. Ci risponde negativamente, ma chiama un collega perché venga a venderci ora delle bibite fresche per la cena. Stiamo mangiando, quando sentiamo distintamente il ruggito di un leone e, in risposta, il barrito di un elefante. Probabilmente si tratta di una “discussione” sulla precedenza d’accesso alla pozza d’acqua. Finiamo la giornata, come il solito, attorno al fuoco, poi ci ritiriamo nelle nostre tende. E’ proprio in questa notte che, mentre Monica ed io facciamo l’amore (silenziosamente per non farci sentire da chi è ancora sveglio vicino al fuoco…) proviamo quello che credo poche persone possono vantare di aver provato: nel culmine dell’orgasmo un leone rompe il silenzio della notte con un ruggito forte e ripetuto. Un brivido, non di paura, ma di piena coscienza d’essere parte della natura. Ora possiamo abbandonarci serenamente al riposo. 16 settembre Alla mattina Andrea ci chiede se abbiamo sentito… Il leone? Non solo! Nella notte ha sentito frusciare dietro la nostra tenda e pensava fossi io. E’ uscito con la testa dalla tenda e ha visto un elefante che stava mangiando alcune frasche di un albero. Facciamo colazione, smontiamo le tende e carichiamo i bagagli. Partiamo per Kubu island (isola degli ippopotami). Il nome è dovuto al fatto che sorge nel mezzo del Makgadikgadi pan, un sistema estesissimo di laghi salati asciutti che diventano degli acquitrini nella stagione delle piogge. Gli ippopotami non ci sono più, ma probabilmente in passato abitavano numerosi questa zona che era anche un centro di riti iniziatici per i bush men (boscimani…). Percorriamo qualche chilometro di strada asfaltata per poi imboccare l’ormai famosa pista sterrata all’inizio della quale ci fermiamo a vedere alcuni scorci di una partita di calcio che si gioca ai margini del paese. Proseguiamo per un dedalo di stradine che s’incrociano e s’intrecciano tra alberi bassi e terra bruciata. La temperatura comincia ad alzarsi col passare dei minuti e nemmeno l’aria che c’investe correndo all’aperto riesce a darci la minima tregua. Boccheggio e a momenti è come se avessi un phon che mi spara direttamente l’aria sul viso. La vegetazione si fa sempre più rada e vediamo dei cavalli che cercano refrigerio all’ombra delle poche piante. Ad un certo punto arriviamo al bordo del pan. Ci fermiamo per sgranchirci le gambe. Davanti a noi si estende una distesa bianca senza fine fatta di una crosta salata che scrocchia sotto i nostri passi. In alcuni punti il bianco è puntinato da alcuni sassi neri, ruvidi, che sembrano d’origine vulcanica. Stefano, Andrea e Carlo (quest’ultimo a petto nudo per il caldo che fa…) si cimentano in alcuni passaggi col pallone, che spinto dal vento, li costringe a delle rincorse nel biancore del pan. Io me ne sto all’ombra a bere, mangio anche una barretta energetica perché anche la fame comincia a farsi sentire. Per parare un tiro di Stefano Carlo si esibisce in un tuffo e, sfiorata miracolosamente la portiera dell’auto, finisce a terra grattandosi la spalla sul terreno. Forse è meglio proseguire, prima che qualcuno s’infortuni sul serio. Arriviamo a Kubu island e già cominciamo ad intuire la magica atmosfera del luogo. E’ un’altura dalla quale spuntano delle rocce lisce ed è tutta costellata di magnifici baobab. Il campeggio, come il solito, è un’area aperta con la base per il fuoco. Piantiamo le tende e piazziamo il tavolo all’ombra di un grosso albero. Un’asta della tenda di Carlo è rotta così Stefano ed io la disassembliamo e la risistemiamo con pazienza certosina. Non contenti dei palleggi precedenti Stefano, Dario, Emanuela (resto del mondo…) sfidano Carlo, Andrea e Marta (Veneto…) in una partita dove, come documentato dal filmato di Stefania, sono validi anche i colpi bassi. La partita termina con la vittoria per 2 a 1, contestata, da parte della squadra “resto del mondo”. Io e gli altri razioniamo le energie per andare ad ammirare il tramonto. Ci avviamo tutti assieme in senso antiorario alla base dell’isola. Da un lato abbiamo l’altura con i baobab, dall’altro il “mare” bianco con i miraggi lontani nell’aria che vibra di calore. All’avvicinarsi del tramonto ci dirigiamo verso la cima. Ci sediamo in una sorta di meditazione, ognuno sulla sua roccia, ad ammirare il silenzioso panorama che si sta arrossando man mano che il sole si abbassa all’orizzonte. Scattiamo le nostre foto e quando il sole è quasi nascosto ci avviamo di corsa verso le tende, prima che il buio ci renda difficile individuare la strada. Prepariamo la cena alla luce delle lampade, mangiamo e poi “facciamo fuori” una bottiglia di Amarula. La notte non è fredda e il cerchio attorno al fuoco è ampio. Chiacchieriamo un po’ prima di andarcene a dormire. Decidiamo, accertata la disponibilità degli autisti, di saltare la tappa di Nata (che sarebbe servita solo a spezzare il ritorno…) e dirigerci direttamente a Kasane per riuscire a recuperare una giornata intera di game drive nel Chobe. 17 settembre Dopo una veloce colazione partiamo per questa tappa che sarà piuttosto lunga. Percorriamo ancora un tratto di pan per poi raggiungere la strada asfaltata. Da qui il paesaggio si fa noioso. Di corsa lungo una strada poco frequentata, a parte un po’ d’animazione nei pressi di qualche centro abitato, alterniamo momenti di chiacchiere ad altri di silenzio, frastornati dal vento che ci soffia addosso. Arriviamo a Nata, un piccolo centro che sorge attorno ad un incrocio, e ci fermiamo giusto per rifornirci di carburante e acquistare qualche cosa da mangiare e da bere. La cittadina è spazzata da un forte vento che a tratti alza un fitto polverone. Ripartiamo, ma Stefano, che aspetta una chiamata dall’agenzia di Maun (per accordarci sul trasferimento in Zimbawe che andrà anticipato visto il nostro arrivo a Kasane con un giorno di anticipo), propone di attendere lungo la strada prima che il segnale del cellulare scompaia completamente. Aspettiamo un po’, poi decidiamo di non perdere ulteriormente tempo: contatterà lui Irene, quando arriviamo. Stiamo correndo lungo la strada quando io e Andrea ci guardiamo: entrambi sentiamo uno strano rumore che viene dal sedile che ci sta davanti, in fianco a Simon. Gli facciamo cenno di fermarsi. Ci sono scintille dietro il sedile (non lontano dal serbatoio… e poi siamo carichi di taniche di carburante!). La solita mania di Simon di mettere la pala stesa dietro il sedile dove c’è la batteria dell’auto così da fare ponte tra i due poli (era già successo l’altro giorno e forse è stata una concausa nei problemi d’accensione…). Proseguiamo e la strada si fa sempre più frequentata, il territorio più abitato. Simon c’invita ad una sosta presso un bar molto grande e abbastanza moderno dove lavora una delle sue tante “sorelle” (non abbiamo capito il significato che da a questa parola…). Acquistiamo delle bibite fresche e io trovo e compro una bottiglietta di sidro uguale a quelle che beveva Tonino lo scorso anno in Namibia. Siamo rimasti un po’ indietro e raggiungiamo l’altra auto all’ennesimo controllo sanitario. Dobbiamo scendere e passare le suole sul disinfettante. Ormai non manca molto a Kasane e il paesaggio è privo di interesse se non perché piombiamo in una atmosfera irreale. Il sole è mascherato e l’aria ha un colore rosa arancione. Man mano che proseguiamo si fa sempre più intenso un odore acre di bruciato. Ci hanno spiegato che qui usano incendiare ampi tratti di savana per facilitare la crescita dell’erba nuova ora che arriveranno le piogge, ma ne avevamo visto solo gli effetti a cose fatte, quando delle zone annerite presentavano già ciuffetti di germogli verdi. In questo caso percorriamo decine di chilometri in mezzo a distese completamente bruciate che ancora emanano calore fino ad arrivare al fronte del fuoco, vastissimo, e passare per pochi istanti attraverso una nube irrespirabile. Ci lasciamo alle spalle questa visione infernale e il cielo comincia a riacquistare il suo colore naturale. E’ quasi il tramonto, quando arriviamo al campeggio e ci facciamo assegnare la stessa area dell’andata, raccomandando Dario di evitare di forare le tubature coi picchetti. Il tempo pare incerto. C’è vento e a tratti si alza della polvere. Alcune nuvole corrono veloci e lontano si sente il rumore di tuoni. Piantiamo le tende mentre cadono alcune gocciolone di pioggia calda, ma tutto finisce li. Prenotiamo una cena a buffet al lodge e poi ci dedichiamo alla meritata doccia. Stefano incontra un altro gruppo di AnM che è appena arrivato dallo Zimbawe. Scambia con loro qualche informazione e da alcuni consigli per il proseguimento del viaggio. Cerca anche di barattare con loro i nostri bidoni, le lampade e ciò che resta del cibo in cambio di una bottiglia di Amarula e una di rum. La capogruppo assicura che ne parlerà con gli altri. Il buffet è abbondante e di qualità, o forse a noi sembra così dopo giorni di zone desertiche. Dopo cena ci spostiamo al bar per il solito giro di Amarula e rum. Siamo gli stessi dell’andata, questa volta però amalgamati e segnati dai giorni di viaggio e dagli eventi che abbiamo subito. Torniamo alle tende e andiamo a dormire. Per tutta la notte soffia il vento e sento l’odore di polvere, con la sensazione che s’insinui all’interno dalle zanzariere. 18 settembre Ci svegliamo presto e appena vedo Monica mi scappa da ridere. Ha il volto coperto di una finissima polvere nera tanto che sembra un marine mimetizzato. Dobbiamo andare a farci una doccia, dopo aver sbattuto sacchi a pelo e zaini e ripulito per bene la tenda. Il vento si è calmato, ma per precauzione chiudo con lo scotch da pacchi le finestrelle di rete. Questa volta nel campeggio, oltre al solito grosso facocero, ci sono gruppi di scimmie e manguste alla ricerca di cibo. Così, fatta colazione, chiudiamo tutto nel trailer. C’è una scimmia che si mangia un barattolo di yogurt, rubato ai vicini tedeschi, beatamente appollaiata in cima ad un albero. Stefano sperimenta i suoi serpenti di pezza (qualcuno gli aveva assicurato che sono sufficienti ad impaurire le scimmie…), ma a quanto pare la strategia non sortisce alcun effetto. Partiamo per il game drive acquatico (che all’andata Stefano aveva saltato…) lungo il fiume Chobe. Questa volta abbiamo più tempo e la navigazione è più tranquilla. Riusciamo a gustarci il paesaggio e gli animali, scattando molte foto d’elefanti, ippopotami, coccodrilli, bufali e gazzelle varie e anche qualche bellissimo esemplare di volatile, dalle fish eagles ad altri coloratissimi esemplari. Torniamo al campo per il pranzo e poi partiamo per il game drive via terra, ma questa volta andiamo con le nostre auto. E’ l’ultima occasione che ci resta per vedere quegli animali che non siamo ancora riusciti ad incontrare (ghepardo e leopardo…) che sono difficilissimi da avvistare per numero e abitudini, anche se nella lavagna del lodge sono segnati i loro avvistamenti nei giorni scorsi. Non riusciamo nemmeno a rivedere i leoni. In compenso ci dirigiamo verso l’uscita al tramonto con degli elefanti lungo il fiume e un gruppo di giraffe che si abbeverano nella loro buffa posizione a gambe allargate. Il sole, sfera arancione all’orizzonte, è contornato dal fumo dell’incendio che abbiamo incontrato arrivando qua a Kasane. Usciamo dal parco, ma non sappiamo se l’altra auto ci ha preceduto o meno. Visto che si parlava di una grigliata per cena diciamo a Simon di andare al supermercato (tanto la cassa l’ha Carlo…). Compriamo la carne e la carbonella e torniamo al campeggio. Poco dopo ci raggiungono anche gli altri che si erano attardati al parco. In fianco a noi si è accampata una coppia, proprio vicino al disco di cemento per il fuoco. Constatato che l’altro posto utile è troppo vicino alla mia tenda e a quella di Dario, decidiamo di chiedere al gruppo di tedeschi di fronte se possiamo usufruire del loro fuoco già acceso. Si tratta di una dozzina di “anzianotti” super attrezzati, con un camion, cuoco, cameriere, tovaglie e stoviglie. Cuciniamo la nostra carne, affumicandoli quando il vento cambia direzione. In fondo se lo meritano perché, commentando gli ultimi mondiali di calcio, sostengono che l’Italia non ha meritato di vincere, facendo imbestialire il nostro ultras vicentino Andrea. Stiamo cenando quando ripassa la capogruppo dei nuovi arrivati. Le chiediamo cosa hanno deciso, ma sembra tentennare. Insomma, se vuole le lasciamo il materiale, altrimenti si arrangi. Andiamo al bar per l’ultimo giro di rum in Botswana. Domani si torna in Zimbawe. 19 settembre Facciamo colazione presto, così possiamo sfruttare meglio la giornata a Victoria Falls. Decidiamo di lasciare ciò che resta di materiale e di cibo a Kenny, visto che gli italiani dell’altro gruppo forse trovavano troppo costose la bottiglia di Amarula e quella di rum (che taccagni…). Arriviamo in breve tempo alla frontiera, salutiamo Kenny e Simon, poi entriamo negli uffici dell’immigrazione per il controllo del visto. Dall’altra parte c’è già il furgone dell’agenzia di Victoria che ci attende. Dobbiamo attraversare il cancello con i bagagli in spalla per poi caricarli sul nuovo mezzo. Torniamo al lodge dell’andata, però non negli stessi bungalow. Questa volta sono tutti da due posti. Usciamo subito per prenotare un’attività per il pomeriggio. Monica ed io scegliamo un giro a cavallo di due ore all’interno del parco. Mauro e Antonella prenotano il volo in elicottero sopra le cascate (100 dollari per 10 minuti…). Carlo, Emanuela e Marta andranno a fare rafting sullo Zambesi. Stefano e Andrea noleggiano una dumbaghy per girare nei dintorni e, con l’occasione, cercheranno un ristorante per l’ultima cena in terra d’Africa. Dario e Stefania invece si dedicheranno ad un giro in paese per acquistare gli ultimi regali. Cosa che Monica ed io facciamo subito, dopo aver prenotato la cavalcata (ci verranno a prendere al lodge nel pomeriggio…). Visitiamo tutti i negozi del centro, acquistiamo qualche souvenir e facciamo una pausa per pranzo presso un localino dove ordiniamo un panino e una coca cola. Cerchiamo di spendere gli ultimi spiccioli dello Zimbawe. Tornando al lodge incontriamo un ragazzo che ci offre degli oggetti in cambio delle nostre scarpe o delle magliette. Gli spiego che sono le uniche scarpe che ho e che devo tornarci a casa. Ci dice che aspetta fuori dal lodge se gli portiamo delle magliette (la guardia al cancello non vuole che si avvicinino troppo i venditori…). Torniamo con qualche maglietta sporca dal viaggio e alla fine si forma un capannello. Si tratta, si guardano le mercanzie. Alla fine rientriamo con un a serie di oggetti in pietra e in legno. Un riposino e poi all’entrata per l’appuntamento. Ci viene a prendere un autista con un pickup per portarci alla fattoria da dove partiremo. Ci fanno accomodare sotto un gazebo dove ci offrono dei biscotti e del succo di frutta. Poi proviamo e scegliamo degli elmetti antidiluviani (il mio sembra un residuato bellico…) e delle giacche lise e foracchiate. Alla Monica, che indossa dei pantaloncini corti, forniscono dei paragamba in pelle. Firmata la liberatoria per eventuali incidenti possiamo avviarci vicino alle stalle. Come il solito, la proprietà appartiene a bianchi. In questo caso ad una signora, non più giovane, di probabile origine teutonica. Almeno così sembra dal modo di parlare e gesticolare. Ci chiede il nostro livello di conoscenza equestre, ci fornisce alcune istruzioni e ci affida a due guide, di colore, che ci accompagneranno nel nostro giro. Per due ore cavalchiamo per il parco e avvistiamo alcuni animali, guadiamo dei torrenti, raggiungiamo le rive della Zambesi. E' una passeggiata rilassante e piacevole che si conclude quasi al tramonto. Torniamo alla fattoria attraverso dei campi di terra rossa resa ancora più intensa dal sole che sta calando. Smontati da cavallo ci togliamo indumenti ed elmetti e ci riaccompagnano al lodge. Vado a fare la doccia e incontro Andrea che mi racconta che la dumbaghy si è fermata quando erano in un paesetto lungo la strada per l’aeroporto. Per fortuna alcuni ragazzi li hanno aiutati a spingere (tanto per non perdere l’abitudine…) e sono riusciti a ripartire. Poi sentiamo anche i racconti di Carlo, Marta ed Emanuela. Si sono divertiti malgrado, o proprio per, il rovesciamento del canotto e si sono trovati completamente in ammollo tra le rapide. Molto suggestivo, anche se breve, il volo in elicottero di Mauro e Antonella. Vado in stanza di Stefano per farmi prestare il riduttore per ricaricare il cellulare. L’ho usato solo per qualche sms, anche perché erano poche le zone dove c’era campo. Domani mi servirà al rientro in Italia per ricontattare “la civiltà”. Stefano mi dice di aver prenotato la cena in un lodge non lontano che, per la felicità di Monica che da giorni continua a dire che vuole mangiare “bestie strane”, ha nel menu il coccodrillo, il kudu, il bisonte, il facocero, eccetera. E’ sera, quando il pulmino del ristorante viene a prenderci. Arriviamo in un bellissimo lodge. Il ristorante è all’aperto, anche se i tavoli sono coperti dalla tipica struttura di travi e paglia. La forma è quella dell’ansa dello Zambesi (sulle quali rive ci troviamo…) e al centro si esibiscono vari gruppi di musicanti e danzatori tipicamente turistici. Comunque la cucina è ottima, la cena a buffet. Ci alziamo a più riprese per assaggiare vari tipi di pietanze che sono cucinate all’istante. Non ci facciamo mancare anche la frutta, il dolce, il caffè e i superalcolici. In fondo è l’ultima cena qui in Africa. Da domani mangeremo in aereo o in aeroporto prima di un pasto decente a casa. Siamo in pratica gli ultimi ad alzarci dal tavolo. Saliamo a bordo del pulmino che ci riporta al nostro lodge assieme all’ultimo gruppo che si è esibito in alcuni canti e danze popolari. E’ proprio la cantante che ci scatta l’unica foto di gruppo dove siamo tutti e undici (stanchi e un po’ bevuti…). Andiamo a dormire dopo aver organizzato il grosso dei bagagli. 20 settembre Visto che il volo è in tarda mattinata facciamo colazione nel lodge molto presto e poi, in ordine sparso, andiamo a barattare le ultime magliette rimasteci. Il mercato è oltre la linea ferroviaria, alle spalle delle case allineate lungo la strada principale. Ci sono oggetti disseminati per terra dentro alcune costruzioni, ma anche sotto delle tettoie e per strada. Sosteniamo l’ultima serie di trattative estenuanti per racimolare qualche altro ricordo. Poi torniamo al lodge e chiudiamo i borsoni nel sacco con tenda, sacchi a pelo e materassini, compatti per il viaggio aereo e le cose utili e fragili nello zaino che portiamo come bagaglio a mano. Arrivano due pulmini, uno dei quali con un trailer (che persecuzione…) per i bagagli. Carichiamo tutto e partiamo per l’aeroporto. Stefano ha preso in consegna dall’agenzia locale del materiale di proprietà di AnM da riportare a Roma, quindi decide di fare un check in complessivo di tutti i bagagli per restare dentro il limite di 20 kg a testa. Purtroppo superiamo lo stesso il limite ma Stefano riesce a pagare un extra relativamente basso che si farà rimborsare da AnM. Alcuni problemi invece per i bastoni e le giraffe di legno di Marta e Andrea. Al controllo imbarco non li fanno passare e devono etichettarli e caricarli nella stiva. Ci avviamo a piedi verso il nostro aereo che ci aspetta a motori accesi nella desolata pista del Victoria Falls Airport. In un paio d’ore siamo a Johannesburg. Il volo per Parigi partirà la sera ed è segnalato in ritardo. Alcuni decidono di noleggiare un taxi e fare un giro in centro città, mentre io e altri restiamo a gironzolare per i molti negozi di questo aeroporto che ormai conosco come le mie tasche, visto che è la quarta volta in due anni che ci faccio scalo (l’anno scorso ci ho pure dormito una notte intera…). Facciamo qualche altro acquisto e cerco anche una cintura che avevo vista l’anno scorso senza acquistarla. Purtroppo non trovo la mia misura. In ogni caso acquisto altri oggetti e anche delle scatolette di vari patè di coccodrillo, di kudu, eccetera. Ritornano anche Stefano e gli altri che sono andati in centro. Ci raccontano di aver visitato la casa natale, ora adibita a museo, di Nelson Mandela e qualche altro punto caratteristico della città. Ci raccogliamo tutti nei pressi del gate d’imbarco, e constatiamo che il volo subirà un ulteriore ritardo. Niente male, tanto avremmo dovuto aspettare lo stesso alcune ore a Parigi i voli per l’Italia. La trasvolata si svolge normalmente con i suoi riti e le ore interminabili che cerchiamo di consumare dormendo con mascherina e la tipica coperta rossa a righe gialle (simile a quelle Masai…) della South African Airways. 21 settembre Arriviamo a Parigi che è giorno, ormai il continente africano è lontano molte miglia e si respira aria di casa. Raggiungiamo i gate d’imbarco dei voli Alitalia per Milano e per Roma. Devo ammettere che mi sento più fuori posto qui che nella savana. In effetti, pur lavati e cambiati, abbiamo l’aspetto più “selvaggio” degli altri viaggiatori che ci circondano e al check in ci fanno togliere pure le scarpe, oltre ad aprire il bagaglio a mano (tanta pignoleria e poi a bordo ti servono il pranzo con le posate di metallo…). Già s’incontrano volti più familiari, anche se in Francia il numero delle persone di colore è elevato, i bianchi ora sono in maggioranza e alcuni parlano italiano (individuo pure, seduto non lontano da noi, il magnifico rettore che è spesso ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”). Trovo anche il Corriere della sera che mi fa ripiombare nelle cazzate e nelle beghe italiche. Leggo che il presidente della camera Bertinotti ha commemorato Oriana Fallaci. Che? E’ morta? Sapevo solo che era morto il presidente dell’Inter, Giacinto Facchetti, sempre per merito dell’ultras Andrea che riceveva sms di carattere sportivo. Il nostro volo parte per primo, così Stefano, Mauro e Antonella ci accompagnano per il primo “distacco” dopo tanti giorni passati insieme. Ci abbracciamo prima di dirigerci dalle hostess che, fa un certo effetto, parlano la nostra lingua. Si parte e in breve sorvoliamo le Alpi per arrivare sul cielo nuvoloso di Milano. Almeno non piove. L’anno scorso al ritorno dalla Namibia qui a Milano grandinava. Ora comincia il problema bagagli. Li attendiamo inutilmente prima di recarci a chiedere informazioni allo sportello adeguato. Sostengono che probabilmente arriveranno con il prossimo volo. Decidiamo di aspettare tutti assieme e ci mangiamo nel frattempo un pezzo di pizza. All’arrivo del volo successivo non abbiamo miglior fortuna, a parte un paio di zaini. Sentiamo anche i “romani” che hanno lo stesso nostro problema. Alla fine salutiamo Dario e Stefania e prendiamo la navetta per la stazione centrale (il resto dei bagagli ci arriveranno a rate nei giorni successivi all’aeroporto Marco Polo…). Arriviamo che c’è un treno per Venezia che sta per partire. Il tempo di fare i biglietti agli sportelli automatici e via di corsa con in spalla i pochi bagagli (per fortuna non sono arrivati tutti!) e senza nemmeno il tempo di salutare Emanuela. Eccoci di nuovo, i cinque veneti di ritorno a casa. Invadiamo uno scompartimento dove un ragazzo (probabilmente uno studente di ritorno a casa…) cerca inutilmente di dormire, disturbato dai nostri strani discorsi di reduci da avventure inverosimili. Abbiamo ancora dei residui di biscotti e acqua che consumiamo fraternamente prima di lasciare, nell’ordine, Andrea a Vicenza e Marta a Padova. Io, Monica e Carlo arriviamo alle 23.00 circa a Mestre, dove ci aspetta il papà di Carlo che ci accompagna a casa. La prima notte sul mio letto, dopo molti giorni di tenda. Il primo pensiero al risveglio: mi faccio un tè, ma… ho l’acqua?... Ah, ho il rubinetto!