Viaggio nella mente criminale

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Viaggio nella mente criminale
"Così come c'è una base biologica per la schizofrenia, per i
disturbi d'ansia e per la depressione, anche per le condotte
violente sono presenti elementi neurobiologici che ne
spiegano le recidive...Credo che i detenuti non sono motivati a
cambiare perchè pensano di essere cattivi, malvagi. Ma se il
comportamento criminale recidivo venisse reinterpretato
come un disturbo, sarebbe possibile rendere i criminali stessi
più propensi al trattamento" (Raine A., 2013).
Bruno Carmine Gargiullo, psicologo-psicoterapeuta cognitivocomportamentale. Coordinatore dell'Unità di Psicologia e Psicoterapia
(psicopatologia, psicosessuologia e neuropsicologia) e dell'Unità di
Analisi Vittimologica/Criminologica (violenza domestica, sessuale e atti
persecutori). Membership dell'American Psychological Association
(Washington, DC), del National Center for Victims of Crime (Washington,
DC), del National Center on Domestic and Sexual Violence (Austin,
Texas), del World Association for Sexual Health (San Paolo, Brasile) e
della Società Italiana di Criminologia (SIC). International scientific
reviewer del Journal of Sexual Medicine (Boston, Massachusset) e del
Journal of Men's Health & Gender (Vienna, Austria).
Rosaria
Damiani,
psicologa-psicoterapeuta
cognitivocomportamentale, psicologa forense, esperta in psicodiagnosi,
consulente tecnico d'ufficio (CTU) e Perito del Tribunale civile e penale di
Tivoli. Diretta collaboratrice delle medesime Unità con sede in Roma.
Membership dell'American Psychological Association (Washington, DC),
del National Center for Victims of Crime (Washington, DC), del National
Center on Domestic and Sexual Violence (Austin, Texas), del World
Association for Sexual Health (San Paolo, Brasile) e della Società
Italiana di Criminologia (SIC).
5 800120 830366
Viaggio nella mente
criminale
Bruno Carmine Gargiullo e Rosaria Damiani
Bruno C. Gargiullo e Rosaria Damiani
Viaggio nella mente criminale
2017
Progetto
Realizzato in occasione della
Settimana Mondiale del Cervello
in collaborazione
con Hafricah.NET, partner Dana Foundation
Copyright © 2017 by Bruno Carmine Gargiullo e Rosaria Damiani, Roma, Italy
Prima Edizione 2017
ATTENZIONE. Chi riproduce questo manuale, senza l’espressa autorizzazione dei suoi autori,
commette un reato!
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Sezione Italiana NCVC
Roma
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Dott. Bruno C. Gargiullo - D.ssa Rosaria Damiani
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e-mail: sezione [email protected]
www.psicocom.it
Stampato il 01.02.2017
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Progetto
realizzato in occasione della
Settimana Mondiale del Cervello
in collaborazione con
Hafricah.NET, partner Dana Foundation
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Indice
Introduzione
1. Gli albori della criminologia: la fossetta occipitale mediana
1.1. Il cervelletto
2. Adrian Raine e l’anatomia della violenza
2.1. Correlati psicofisiologici e antisocialità
3. Phineas Gage
3.1. Antonio R. Damasio: un moderno Phineas Gage
4. Mattiello: pediatra pedofilo
4.1. Michael: insegnante pedofilo
4.2. Klüver Bucy syndrome e ipersessualità
4.3. Krafft-Ebing e iperestesia sessuale
5. Geni, cervello e criminalità
5.1. Jeffrey Timothy Landrigan
5.2. Brunner syndrome
5.3. Ruolo della MAOA nei tribunali
5.4. Stefania Albertani
5.5. Il caso della donna S.H.
5.6. James H. Fallon e il suo cervello
5.6.1. Psicopatia: brevi cenni
5.7. Considerazioni conclusive
6. Ormoni e neurotrasmettitori
7. Influenze prenatali e perinatali
7.1. Fattori teratogeni
8. Conclusioni: la plasticità neuronale
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“Viaggio” nella mente criminale
Introduzione
Criminali si nasce o si diventa? Ci sono individui “nati per il crimine”, come titola Mary
Gibson un suo lavoro del 2002? Le sole anomalie strutturali e/o funzionali del cervello possono essere dei predittori di una futura delinquenzialità? Che ruolo svolgono i fattori genetici,
ormonali, neurotrasmettitoriali e psicofisiologici nel favorire un’antisocialità? E i fattori socio-ambientali ed esperienziali (famiglia, contesto socioculturale, avverse circostanze della
vita) quanto incidono nel processo causativo della criminalità?
Pensare che la risposta sia nel mezzo è riduttivo quanto semplicistico.
Stabilire, quindi, se il ruolo delle variabili neurobiologiche sia maggiore, minore o uguale
agli altri elementi (socio ambientale, momento contingente, personalità) è cosa non facile. Né
tantomeno è possibile stabilire quali di questi fattori siano determinanti nell’insorgenza, nel
mantenimento o nell’esacerbazione del comportamento deviante. Sicuramente il loro impatto
su detto comportamento è diverso da caso a caso (Gargiullo B.C. e Damiani R., 2010).
Prima di proseguire nella lettura di questo lavoro, è importante tenere ben a mente quanto
segue:
- le caratteristiche psico-comportamentali di ciascun individuo sono espressioni di una
struttura neuro-anatomica che si sviluppa sotto l’influsso delle determinanti ambientali
e socioculturali. Ciò significa che anche il “fondamento organico” può subire significative modificazioni nel corso della vita;
- la vera “natura” dell’uomo, ovvero la sua inclinazione a trasgredire.
In conclusione, se solo prestassimo attenzione a quanto accade intorno a noi e, soprattutto,
se avessimo la consapevolezza della nostra propensione ad un agire ingannevole e predatorio,
capiremmo che “l’esperienza del male” è così forte da imporsi da sé.
1. Gli albori della criminologia: la fossetta occipitale mediana.
Così, il medico italiano Cesare Lombroso rappresentò il brigante calabrese Giuseppe Villella (“Annali Universali di Medicina”, 1874):
«Uomo di cute scura, scarsa e grigia la barba, folti i sopraccigli e i capelli, di colore nero-grigiastro,
naso arcuato, alto della persona (m. 1,70) però in grazia non so bene se di acciacchi reumatici, o che
altro, era tutto stortilato, camminava a sghembo, ed aveva torcicollo, non so bene se a destra o a sinistra. Ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di religiose pratiche, negava di avere commesso alcuna
disonesta azione, ma infatto era così appassionato al furto che derubava fino i compagni di carcere».
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Il medico italiano, suggestionato dalle teorie evoluzionistiche di Darwin, giunse ad ipotizzare che nel comportamento violento ed impulsivo del “criminale nato” si manifestassero gli
antichi tratti caratteriali delle scimmie antropomorfe (es., orango, scimpanzé, gorilla).
L’idea centrale del suo lungo lavoro di criminologo positivista gli venne in quel “nuvoloso
giorno di dicembre” del 1870 proprio mentre eseguiva l’autopsia del corpo del brigante calabrese.
Cosa vide Lombroso, da stravolgerlo così tanto, nel cranio del Villella?
Egli evidenziò, alla base del cranio, una inusuale incavatura (che chiamò fossetta occipitale mediana) che interpretò come il riflesso di un piccolo cervelletto, o “piccolo cervello”, situato al di sotto dei due grandi emisferi cerebrali. La presenza della fossetta occipitale mediana (o fossetta vermiana) è propria degli stadi embrionali degli animali inferiori o di un individuo filogeneticamente arretrato, ovvero un atavico. Il medico italiano così descrisse questa
straordinaria scoperta:
«mi sembra di vedere tutto in una volta, distinguendosi chiaramente illuminato come in una vasta
pianura sotto un cielo fiammeggiante, la questione della natura criminale, che riproduce nel tempo civilizzato le caratteristiche non solo dei selvaggi primitivi, ma di tipi ancora più lontanamente bassi come i carnivori».
Da questa singolare e quasi macabra osservazione, il Lombroso divenne il padre fondatore
della criminologia, generando una teoria alquanto controversa che suscitò enorme scalpore in
tutto il continente. La sua teoria ebbe due punti cardini: esisteva una base del crimine, che originava nel cervello, ed i criminali rappresentavano un ritorno a specie più primitive.
Inoltre, il Lombroso, a seguito di studi fatti sul comportamento dei delinquenti comuni,
tracciò un parallelo tra caratteristiche somatiche e comportamento deviante del criminale nato, affermando che
«molti dei caratteri che presentano gli uomini selvaggi, le razze colorate, sono, anche, propri dei
delinquenti abituali»:
- stigmate somatiche (..., poca capacità cranica, fronte sfuggente, seni frontali molto sviluppati,
frequenza maggiore delle strutture medio-frontali, ..., spessore maggiore dell'osso cranico, sviluppo enorme delle mandibole e degli zigomi, obliquità delle orbite, ..., orecchie ad ansa o voluminose, ...);
- stigmate comportamentali (ipoalgesia ovvero diminuzione della sensibilità al dolore, completa
insensibilità morale, accidia, mancanza di ogni rimorso, imprevidenza che sembra a volte coraggio, coraggio che si alterna alla viltà, grande vanità, facile superstizione, suscettibilità esagerata del proprio io e perfino il concetto relativo della divinità e della morale) (Lombroso C.,
1878).
In sintesi, i criminali, credeva il Lombroso, potevano essere identificati sulla base delle
“stigmate ataviche”, o caratteristiche fisiche.
Nel corso delle revisioni dell’Uomo delinquente, Lombroso fonde i «rei-nati» con i pazzi
morali e gli epilettici:
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«L’analogia e l’identità completa tra il pazzo morale ed il delinquente nato pone in pace per sempre un disiddio ch’era continuo, fra moralisti, guiristi e psichiatri, anzi fra l’una e l’altra delle scuole psichiatriche, dissidio in cui per istrano caso tutti avevano ragione, perché da un lato era giusta
l’obbiezione che i caratteri che si annettevano al pazzo morale erano quelli dei criminali, come
dall’altro era giusto che i caratteri dei delinquenti-nati si riscontrassero esattamente nei veri pazzi morali.
Così si comprende perché uomini, al certo rispettabili per dottrina, siansi trovati discordi nel diagnostico di un delinquente e abbiano dichiarato criminali individui che certamente erano pazzi o mattoidi come Guiteau, Menesclou, Verzeni, Prunier, Agnoletti, Lawson, Militello, Garayo, Passanante; e
che Gacopardo concludesse dall’esame dei casi di follia morale di Pinel che si trattava di criminali,
come criminali sono quasi tutti i folli anomali di Bigot. … Il vero è che tutti avevano ragione perché costoro erano l’uno e l’altro insieme….
Ma una fortunata serie di circostanze e l’aiuto di egregi colleghi mi ha spinto ad un passo più innanzi in questo problema, mostrandomi nel pazzo morale una varietà del delirio epilettoide.
Come si vedrà in seguito ho trovato tra il pazzo morale e l’epilettico parallelismo completo nel cranio, nella fisionomia, con una proporzione perfettamente eguale nelle anomalie degenerative e nelle
malattie cardiache, tanto che la fisionomia dell’epilettico, anche non criminale, specie per
l’asimmetria, assomiglia assolutamente a quelli dei criminali e ne assume il tipo….
Ma è soprattutto lo studio psicologico che ce ne mostra la perfetta analogia nell’egoismo,
nell’irritabilità morbosa che fa passare ai due eccessi opposti dell’abbiezione e della megalomania,
della passione fantastica e dell’odio senza causa, nell’assenza completa, nella anestesia del senso
morale, nella religiosità paurosa, selvaggia e quasi feticia, in quel carattere singolarissimo
dell’intelligenza che varia in tanti, e spesso anche nello stesso individuo, dall’imbecillità più completa
fino ai lampi di genio, così d’averci fornito doumenti per dimostrare essere il genio uno stato epilettoide…
Con questa fusione si completa e si corregge la tearia dell’atavismo del crimine, coll’aggiunta della
mala nutrizione cerebrale, della cattiva conduzione nervosa; s’aggiunge, insomma, il morbo alla mostruosità …
L’atavismo resta, quindi, malgrado o meglio insieme alla malattia, uno dei più costanti caratteri dei
delinquenti-nati…» (Lombroso C., V ed., 1986, vol. II, pag. 55-59).
In breve,
«la pazzia morale designava gli individui che, dotati di un’intelligenza e di un fisico apparentemente normali, erano però incapaci di distinguere tra il comportamento buono e quello cattivo. Generalmente classificati come casi al limite tra la normalità e la pazzia, i pazzi morali erano considerati da
Lombroso identici ai delinquenti atavistici nell’impulso a fare del male agli altri e nell’assenza di rimorsi» (Gibson M., 2004, pag. 31).
1.1. Il Cervelletto
E’ importante rappresentare brevemente, con le parole di A.R. Damasio, l’anatomia del sistema nervoso centrale:
«Considerando il sistema nervoso nella sua interezza, è facile separarne le divisioni centrali e periferiche. … Oltre al cervello con i suoi due emisferi cerebrali destro e sinistro, uniti dal corpo calloso
(un fitto aggregato di fibre nervose che collegano bidirezionalmente i due emisferi), il sistema nervoso
centrale comprende anche il diencefalo (una formazione di nuclei, nascosta sotto gli emisferi, sul piano mediano, comprendente il talamo e l’ipotalamo), il mesencefalo, il midollo allungato, il cervelletto e
il midollo spinale.
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Il sistema nervoso centrale è “neuralmente” connesso con
pressoché ogni angolo e recesso del resto del corpo, tramite i
nervi: l’insieme di questi costituisce il sistema nervoso periferico. I nervi convogliano gli impulsi dal cervello al corpo e dal
corpo al cervello…. Cervello e corpo sono anche interconnessi chimicamente, mediante sostanze quali gli ormoni1 e i
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tidi , che sono emessi dall’uno e raggiungono l’altro attraverso
il flusso sanguigno» (Damasio A.R., L’errore di Cartesio –
Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995,
pagg. 58 e 59).
Quel che ci preme approfondire in questo sottoparagrafo è il cervelletto (cerebellum) che
richiama alla memoria quanto “scoperto” da Cesare Lombroso nel cranio del brigante Villella. Questo piccolo cervello, collocato nella parte inferiore dell’encefalo (apparato nervoso
centrale contenuto nel cranio), sebbene costituisca solo il 10% della massa cerebrale, contiene
più della metà dei neuroni del cervello umano, occupando la maggior parte della fossa cranica posteriore (Kandel E.R. et al., 2000).
In passato, il cervelletto non ha ricevuto molte attenzioni negli studi scientifici sugli aspetti
non motori del comportamento umano, quali la cognizione e le emozioni. Tuttavia, alcuni
scienziati, alla fine degli anni ’70, hanno iniziato a dimostrare l’importanza del cervelletto nei
disordini emozionali (Snider R.S. e Maiti A., 1976; Heath R.G., 1977). A questa conclusione
era giunto, due secoli prima, Franz Joseph Gall (1758-1828) che si spinse a considerare il
cervelletto la “sede dell’amore”.
Una svolta significativa la si deve agli studi condotti da Jeremy Schmahmann che estese il
ruolo funzionale del cervelletto ai domini della cognizione e delle emozioni (Schmahmann
J.D., 1991). Successivamente, il legame cervelletto-emozioni venne confermato da diversi
studi clinici che posero in evidenza una significativa presenza delle anomalie cerebellari nei
disturbi emozionali, inclusa la schizofrenia e la depressione (Schmahmann J.D., 2004).
Ulteriori studi, sugli aspetti neurali delle emozioni, hanno confermato l’importanza del
cervelletto nella regolazione e nel controllo degli stati emotivi, oltre alla coordinazione motoria, alla postura e al linguaggio (Baillieux H. et al., 2008). E’ da sottolineare che il cervelletto
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«Sostanza che, prodotta da una cellula endocrina, cioè a secrezione interna, viene liberata nel circolo sanguigno, provocando risposte funzionali in cellule localizzate a varia distanza dalla sua sede di produzione. Per l’espletamento dell’azione ormonale sono necessari, oltre alla
sintesi e alla secrezione, il trasporto nel circolo sanguigno e la destinazione nei tessuti bersaglio dove sono presenti i recettori, strutture specializzate che riconoscono lo stimolo specifico e ne traducono il messaggio. La comunicazione affidata agli ormoni avviene per la maggior
parte attraverso il circolo ematico (azione endocrina), ma, in parte minore, anche mediante altre modalità. Alcuni ormoni agiscono infatti
sulle cellule immediatamente circostanti la cellula che li produce (azione paracrina); in altre evenienze, invece, interagiscono con la stessa
cellula secretrice (azione autocrina); altri ormoni, infine, sono prodotti dai neuroni del sistema nervoso (azione neurocrina, che in realtà rappresenta una forma specializzata di azione paracrina)» (http://www.treccani.it/enciclopedia/ormone/).
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«Composto organico risultante dall’unione di due o più molecole di amminoacidi, legati fra loro da legami peptidici: un legame chimico di
tipo ammidico che si forma tra il gruppo α-carbossilico di un amminoacido e il gruppo α-amminico di un altro amminoacido con la perdita
di una molecola di acqua. I peptidi si ottengono non soltanto per mezzo di processi di sintesi, ma anche per idrolisi parziale, chimica o enzimatica, delle proteine. Molti peptidi hanno una notevole attività biologica, svolgendo le funzioni di ormoni, antibiotici, neurotrasmettitori
ecc. Tra i peptidi con attività ormonale i più noti sono l’insulina, il glucagone e l’ACTH, o corticotropina (➔ polipeptide). Alcuni ormoni
sono costituiti da un esiguo numero di residui, come l’ossitocina, la bradichinina (ambedue di 9 residui) e il fattore di rilascio della tireotropina (3 residui). Tra i peptidi brevi sono da ricordare le encefaline e le endorfine, peptidi cerebrali con attività oppiacea, presenti nella struttura primaria della β-lipotropina. Anche alcuni veleni molto tossici sono dei peptidi, come l’amantina. Infine, un esempio di peptide ad azione antibiotica è la gramicidina S» (http://www.treccani.it/enciclopedia/peptide/).
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presenta innumerevoli connessioni bidirezionali con diverse aree della corteccia cerebrale, o
neocorteccia (frontale, parietale e temporale – BOX1) che modulano le emozioni (Turner
B.M. et al., 2007; Middleton F.A. et al., 2001; Clausi S. et al., 2009).
BOX1
La corteccia frontale, parte anteriore del cervello, contiene l’area corticale motoria e la corteccia premotoria. Il lobo frontale è responsabile, in particolare, delle funzioni cognitive esecutive che includono
il problem solving, il ragionamento astratto, la concentrazione, la spontaneità e la direzionalità dei
comportamenti finalizzati (Giancola, Martin, Moss, Pelham e Tarter, 1996; Griffin e Tsao, 2012; Longo, Kerr e Smith, 2013).
La corteccia parietale, localizzata nella parte superiore del cervello, contiene l’area somestesica primaria, o area sensitiva primaria, a cui afferiscono gli stimoli tattili, dolorifici, pressori e termici. Data la
sua vicinanza con la corteccia motoria primaria, influenza le attività motorie volontarie, inclusi i movimenti intenzionali e la manipolazione di oggetti (Kandel, Schwartz e Jessel, 1991).
La corteccia temporale, situata nella parte inferiore degli emisferi cerebrali, è sede del riconoscimento
visivo (giro paraippocampale), della percezione uditiva e della memoria. In particolare, il lobo temporale sinistro (area di Wernicke) è deputato alla comprensione del linguaggio parlato e alla scelta delle
parole, mentre il destro permette di comprendere l’intonazione del discorso e la sequenza dei suoni.
La prosopagnosia è una interessante manifestazione di una lesione al lobo temporale che si traduce
in una marcata difficoltà nel riconoscere i volti. Detto fenomeno è stato frequentemente legato alla
criminalità e alla psicopatia (Suchy, Whittaker, Strassberg e Eastvold, 2009).
Ad anomalie strutturali del “cervelletto limbico” (verme e nucleo del fastige) in adulti e
bambini con disfunzioni congenite (agenesia cerebellare, displasia, ipoplasia) o acquisite (ictus cerebellare, tumore, cerebelliti, trauma e disturbi degenerativi) ne consegue una disregolazione degli affetti, definita da Schmahmann J.D. e Sherman J.C. (1998) Sindrome Cognitivo Affettiva Cerebellare (Cerebellar Cognitive Affettive Syndrome - CCAS). I
comportamenti osservati da Schmahmann,
Weilburg e Sherman (2007), e descritti dagli stessi pazienti e loro familiari, includevano: distraibilità, iperattività motoria, disinibizione, ansietà, comportamenti ritualistici e stereotipati, pensieri illogici, assenza di empatia, ruminazioni e ossessioni,
disforia e depressione, atteggiamento difensivo (distanza fisica dall’altro), iperattivazione sensoriale, apatia, comportamenti regressivi e evidenti difficoltà socio-relazionali, così come aggressività e irritabilità. Questi profili
neuro-comportamentali sono stati raggruppati in cinque domini: disturbo del controllo
dell’attenzione, disturbo del controllo emozionale, disturbo delle abilità sociali, disturbo dello
spettro autistico e disturbo dello spettro psicotico.
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2. Adrian Raine e l’anatomia della violenza
Gli uomini non nascono uguali ed il loro diverso destino, almeno sotto il profilo della propensione alla violenza, non dipende unicamente dalle influenze familiari, sociali ed esperienziali.
Da quando la brain imaging ha permesso ai ricercatori di esplorare il cervello dei criminali
violenti, comparandolo con quello delle persone “normali”, nuovi orizzonti si sono aperti alla
ricerca in campo neurocriminologico, mettendo in risalto l’esistenza di basi neurobiologiche
nel comportamento criminale e richiamando l’attenzione dei giudici sulla possibile applicazione delle neuroscienze in ambito penale.
Adrian Raine, professore presso l’Università della Pennsylvania ed autore di un nuovo lavoro The Anatomy of violence - The Biological Roots of Crime, può essere considerato un pioniere nell’ambito della neurocriminologia. Raine ha dedicato molti anni allo studio di imaging cerebrali di assassini (es., Donta Page, Antonio Bustamante) e, ancora oggi, sta dedicando tempo ed energie allo studio del cervello dei criminali violenti e degli psicopatici.
Nel suo lavoro, l’autore fornisce una descrizione delle anomalie neurobiologiche che sono
in stretta relazione con il comportamento criminale, considerando anche i fattori genetici ed
ambientali che possono concorrere a tali anomalie. Pur non minimizzando l’influenza delle
variabili sociali ed ambientali sul comportamento violento, lo studioso sottolinea
l’importanza delle basi biologiche quali predittori di un futuro crimine e di un atto violento:
«Così come c’è una base biologica per la schizofrenia, per i disturbi d’ansia e per la depressione,
anche per le condotte violente sono presenti elementi neurobiologici che ne spiegano le recidive».
«Credo che i detenuti non sono motivati a cambiare perché pensano di essere cattivi, malvagi. Ma se
il comportamento criminale recidivo venisse reinterpretato come un disturbo, sarebbe possibile rendere i criminali stessi più propensi al trattamento» (Raine A., 2013).
Nel paragrafo Mercy or justice – Should Page be executed? (Grazia o giustizia – Page dovrebbe essere giustiziato?) del capitolo The brain on trial (Il cervello come prova) l’autore
riporta il caso di Donta Page, afroamericano, che, all’età di 24 anni, rapinò, stuprò ed uccise
una graziosa sua coetanea di razza caucasica (Peyton Tuthill).
Donta Page
Peyton Tuthill
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Donta venne ritenuto colpevole di stupro e di omicidio volontario di primo grado e, per
questo capo di imputazione, divenne un “candidato” alla pena capitale. Come perito di parte,
Raine sostenne il modello biosociale per spiegare la violenza perpetrata dal periziando. La
storia del giovane afroamericano è costellata di violenze ed abusi di ogni tipo (es., totale trascuratezza fisica ed emozionale materna; violenze fisiche materne per futili motivi con conseguenti traumi cerebrali; ripetute e gravi violenze fisiche e sessuali, compresa la penetrazione anale, perpetrate a danno del piccolo Donta da “predatori” del quartiere), assenza di una
figura maschile di riferimento e, da non trascurare, la sua esposizione ad agenti neurotossici
(piombo), di essere stato concepito da una madre adolescente affetta da gonorrea e di presentare difficoltà di apprendimento, scarso funzionamento cognitivo (compromissione della memoria e della funzionalità esecutiva), bassa attivazione fisiologica (bassa frequenza cardiaca a
riposo: assenza di paura e comportamenti a rischio) e scarsa funzionalità della corteccia orbitofrontale e prefrontale mediale con ridotta funzionalità del polo temporale (mancanza di autocontrollo, difficoltà decisionali e di pianificazione). Presentava, inoltre, una storia familiare
di disturbi mentali (nonno materno incestuoso: abusava sessualmente della figlia, madre di
Donta, sin dall’età di quattro anni), padre tossicodipendente e con precedenti penali.
La tesi difensiva di Raine, secondo la quale le radici del comportamento criminale di Page
erano da ricercare nella combinazione di fattori biologici e sociali (multicausalità), venne accolta dal collegio giudicante, composto da tre giudici, che condannarono l’imputato
all’ergastolo e non più alla pena capitale.
Per meglio comprendere l’idea centrale del suo lavoro, si riporta ciò che Raine stesso ha
scritto:
«[…] Un bambino non chiede di nascere con delle complicazioni biologiche o con una disfunzionalità all’amigdala o con un gene responsabile del basso livello di MAOA (monoaminossidasi-A). Se
questi fattori predispongono bambini innocenti ad una vita criminale, possiamo considerarli pienamente responsabili di future azioni violente - condannandoli per i reati commessi? Essi hanno libertà di
scelta nel senso stretto della parola?» (Raine A., 2013).
Non andrebbe incontro ad un identico destino, aggiungiamo noi, anche un bambino che,
pur senza fattori neurobiologici predisponenti (“attitudine alla violenza”), nasce e cresce in
un ambiente familiare e culturale gravemente degradato, ovvero senza fattori protettivi? Di
certo, la combinazione di fattori biologici e sociofamiliari avversi potrebbe “condannare” un
individuo all’antisocialità.
Può un fattore protettivo (es., una famiglia amorevole) preservare un bambino (“a rischio”)
dal possibile sviluppo di un comportamento antisociale/violento?
É bene sottolineare che l’organismo e l’ambiente forniscono gli elementi e le condizioni di
base per la costruzione dell’organizzazione psichica e che quest’ultima regola l’azione di entrambi e le interazioni tra loro (meccanismo di feedback). Comunque, le caratteristiche cognitivo-comportamentali di ciascun individuo sono “espressioni” di una struttura neuroanatomica che è il prodotto dell’interazione tra “natura e cultura”. Pertanto, tutti i comportamenti sono multifattorialmente determinati e l’eterogeneità riflette l’intervento di più fattori
di rischio o di tutela.
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In The Anatomy of Violence, Raine si tuffa nel cervello dei criminali violenti e degli psicopatici per scoprire le cause della violenza e dei comportamenti antisociali, giungendo alla
conclusione che alla base dei comportamenti criminali, oltre all’elemento sociale ed ambientale, vi è un terzo elemento (l’altra faccia della medaglia) ovvero il neurobiologico (neurobiological marker). Fornisce un’ampia disamina di come la genetica, la biologia, le strutture e le
funzioni neurali, la socializzazione e l’ambiente possano influenzare la violenza e ne sono, a
loro volta, influenzate (feedback o retroazione).
«Noi oggi – scrive lo studioso - sappiamo che questo chilo e mezzo di materia grigia sovrintende a
tutto quello che facciamo - vedere, sentire, toccare, muoversi, parlare, emozionarsi, pensare, tastare
e leggere. E se tutte le azioni ed i comportamenti derivano dal cervello, perché non lo possono essere
anche i comportamenti violenti? Perché non l’omicidio?».
A conclusione di questo paragrafo, si riporta quanto scritto da Platone circa duemilacinquecento anni fa (Platone, Timeo, 86 d-e, IV sec. a.C.)
«Perché malvagio nessuno è di sua volontà, ma il malvagio diviene malvagio per qualche prava disposizione del suo corpo, e per un allevamento senza educazione, e queste cose sono odiose a ciascuno e gli capitano contro sua voglia».
2.1. Correlati psicofisiologici e antisocialità
Data l’importanza degli argomenti che qui verranno trattati, è utile riportare quanto scritto
da Antonio R. Damasio nel suo lavoro “Emozione e Coscienza” (1999, pagg. 59, 60):
«Le emozioni e i sentimenti delle emozioni sono, rispettivamente, l’inizio e la fine di una progressione, ma la condizione relativamente pubblica delle emozioni e l’assoluta intimità dei sentimenti che
ne seguono indicano che in questa progressione operano meccanismi piuttosto diversi. Per un indagine approfondita di tali meccanismi, è utile rispettare la distinzione tra emozione e sentimento. Io ho
proposto di riservare il termine sentimento per l’esperienza mentale, privata di una emozione e di impiegare il termine emozione per designare la collezione di risposte, in gran parte osservabili pubblicamente. In pratica, questo significa che non è possibile osservare un sentimento in un’altra persona,
benché sia possibile osservare un sentimento in noi stessi quando, in quanto esseri coscienti, percepiamo i nostri stati emozionali. Allo stesso modo, nessuno può osservare i nostri sentimenti, ma alcuni
aspetti delle emozioni che danno origine ai nostri sentimenti sono palesemente osservabili da altri».
In sintesi, quando proviamo un’emozione si verificano cambiamenti a livello somatico
(es., viscerali, muscolo-scheletrici), prodotti dal sistema nervoso autonomo, di cui alcuni (es.,
tachicardia, problemi gastro-intestinali, assenza di salivazione) sono intimi e personali mentre
altri visibili ad un osservatore esterno (es., dilatazione/restringimento pupillare, pallore/rossore del volto, sudorazione, tremori, iperventilazione, eccessiva salivazione).
Queste “particolari” risposte neurovegetative (autonomiche) costituiscono il focus della
psicofisiologia, ovvero lo studio della cognizione, del comportamento e delle emozioni nelle
loro manifestazioni corporee. Gli indici psicofisiologici dell’attività autonomica (attività elettrica cerebrale, attività muscolare, movimenti oculari, attività elettrica del cuore, risposta galvanica/conduttanza cutanea, frequenza respiratoria, pressione arteriosa e venosa), misurati
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con modalità di registrazione non invasiva, forniscono un immediato quadro dei cambiamenti
fisiologici in risposta a stimoli esterni.
In questa ultima parte, verrà posta particolare attenzione a tre (frequenza cardiaca, tono
vagale e conduttanza cutanea) dei diversi indici psicofiosologici, correlati al comportamento
antisociale, indagati da alcuni studi scientifici (Scarpa A.L., Raine A., Psychophysiology of
anger and violent behavior, Psychiatr Clin North Am. 1997, Jun, 20(2):375-94):
1) Frequenza cardiaca a riposo
La bassa frequenza cardiaca a riposo, indice di registrazione del grado di attivazione del
sistema nervoso autonomo, è stata considerata un correlato biologico del comportamento antisociale in bambini e adolescenti (es., disturbo del controllo degli impulsi, disturbo della
condotta). Detto indice è stato anche associato con il comportamento antisociale negli adulti,
considerandolo uno dei fattori di rischio sia nei maschi che nelle femmine (Ortiz e Raine,
2004). Molti studi longitudinali hanno confermato il ruolo di detto indice nel predire, per
l’appunto, lo sviluppo di una possibile antisocialità negli adulti (Baker et al., 2009; Farrington, 1997; Raine, Venables e Mednick, 1997). Secondo la Stimulation-seeking Theory o
Sensation Seeking Theory (Zuckerman, 1979), una bassa frequenza cardiaca e uno stato di inquietudine, indici di un basso livello di arousal (ipoattività), potrebbero indurre un adolescente ipoattivo ad adottare condotte a rischio (antisociali) come attivatori del proprio sistema
neurovegetativo (omeostasi = equilibrio psicofisiologico) (Quay, 1965; Raine, 1993). Inoltre,
una bassa frequenza cardiaca, associata ad una bassa reattività, potrebbe non indurre un soggetto a sottrarsi a stimoli ansiosi o minacciosi. Infatti, un bambino non pauroso potrebbe essere più refrattario alle punizioni (assenza di paure condizionate) e meno incline ad acquisire
regole e norme sociali, ovvero assenza di coscienza sociale (fearlessness theory; Raine, 1993,
2002).
Di contro, altre ricerche hanno individuato nell’alta frequenza cardiaca a riposo una funzione protettiva. Riportando gli studi del Cambridge Study sullo sviluppo della delinquenzialità, Farrington (1997) osservò che soggetti diciottenni con alta frequenza cardiaca, considerati a rischio di azioni violente, non subirono, in età adulta, condanne penali. Ciò fu confermato da altre ricerche, condotte su campioni meno numerosi, che giunsero alle medesime
conclusioni (Lösel e Bender, 1997; Kindlon et all., 1995). Questi risultati avallerebbero
l’ipotesi che una elevata frequenza cardiaca a riposo possa svolgere una funzione protettiva,
impedendo ad un individuo di agire condotte antisociali (alta frequenza cardiaca a riposo =
alto livello di apprensività).
Alle stesse conclusioni sono giunte alcune ricerche svolte su altri indici psicofisiologici
che misurano il livello di reattività emozionale quali, ad esempio, il tono vagale3 (indice di
3
Il nostro sistema nervoso vegetativo o autonomo (indipendente dalla volontà) si basa su un delicato equilibrio di trasmettitori chimici, liberati nei nostri organi, soprattutto nell'apparato cardiocircolatorio, respiratorio e digestivo. Il rilascio chimico è opera di una fitta rete di terminazioni nervose che costituiscono il "sistema simpatico". Il sistema simpatico si divide in ortosimpatico e parasimpatico (o vagale), in
relazione alle sostanze prodotte e liberate dalla terminazione nervosa: acetilcolina nel caso del parasimpatico e sostanze adrenergiche per
l'ortosimpatico. Se viene stimolato il sistema vagale (es., emozione, trauma, forte sensazione di dolore) si può avere una "crisi vagale" con
abbassamento della pressione arteriosa fino allo svenimento (lipotimia), diminuzione della frequenza cardiaca, aumento della sudorazione,
della salivazione, della lacrimazione e della secrezione gastrica, incremento della peristalsi intestinale, nausea e talora conati di vomito). In
breve, l’alto livello del tono vagale indica uno stato di calma ed una capacità di gestire al meglio le situazioni, mentre un ridotto tono vagale
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regolazione parasimpatica = modulazione degli stati affettivi e del comportamento sociale) e
la conduttanza cutanea (misura diretta dell’attività simpatica, ovvero variazione della resistenza elettrica della pelle provocata dai diversi stimoli emozionali).
2. Tono vagale
Il tono vagale è legato alla flessibilità autonomica, ovvero alla capacità del Sistema Nervoso Parasimpatico (SNP) di adattarsi ai diversi cambiamenti ambientali (interni ed esterni)
modificando l’arousal (attivazione neurofisiologica), la respirazione, la frequenza cardiaca e
l’attenzione (Porges, 1995; Friedman e Thayer, 1998). Le persone, con un alto livello di attivazione del tono vagale, presenterebbero una maggiore adattabilità alle varie circostanze della vita (Block e Kremen, 1996) in quanto dotate di notevole duttilità cognitiva (abilità prestazionali), inclusa la memoria di lavoro (Hansen et al., 2003), l’attenzione selettiva (Suess et
al., 1994) e la procrastinazione della risposta (Johnsen et al., 2003; Mezzacappa et al., 1999).
Inoltre, questi soggetti reagirebbero, ai diversi eventi stressanti, con una contenuta affettività
negativa, ovvero con un basso livello di ansietà, depressività, colpa, vergogna e rabbia (ElSheikh et al., 2001), con efficaci abilità nel controllare emozioni e comportamenti e nel modulare l’espressività facciale (Demaree et al., 2004, 2006; Kettunen et al., 2000).
In merito, invece, ad un basso livello di attivazione del tono vagale, diverse ricerche hanno
posto in evidenza che detto livello potrebbe rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo
di un comportamento antisociale (Beeauchaine, Hong e Marsh, 2008; De Wied, Van Boxstel,
Posthumus, Goudena e Matthys, 2009; Mezzacappa et all., 1997; Pine et all., 1998). Di contro, altri studiosi hanno rilevato l’infondatezza di tali conclusioni, mettendo in evidenza un
incremento, piuttosto che un decremento, del tono vagale in soggetti antisociali (Dietrich et
all., 2007; Scarpa, Fikretoglu e Luscher, 2000; Scarpa, Haden e Tanaka, 2010). Ciò ha messo
in dubbio l’esatta natura dei rapporti tra tale indice psicofisiologico e comportamento antisociale. Tuttavia, nonostante ancora oggi non sia ben chiaro il ruolo assunto dal basso livello
del tono vagale come fattore di rischio, l’alto livello del predetto indice, comunque, viene
considerato un fattore protettivo proprio per il suo ruolo nella regolazione emozionale finalizzata al perseguimento di un obiettivo (adattamento sociale). Infatti, secondo alcuni studi, un
alto livello del tono vagale proteggerebbe un bambino dal possibile sviluppo di problemi
comportamentali esternalizzati (aggressività, impulsività, oppositività) in presenza di un ambiente familiare avverso (es., marcata conflittualità parentale, maltrattamenti, problemi alcolici genitoriali - El-Sheikh et al., 2001, 2005)4. In sintesi, una stabile regolazione emozionale
è indicatore di molte malattie e complicanze (es., cardiovascolari, dismetaboliche, psicologiche, comportamentali, gastrointestinali, degenerative). Porges, in uno studio condotto nel 1992 presso l'Università americana del Maryland (Research methods for measurement of heart
rate and respiration), ha proposto di stimare la forza del tono vagale dalla misura dell'aritmia del seno respiratorio (RSA) e di usare questo
dato nella clinica quale indice di vulnerabilità allo stress. Egli mostrava come la RSA (modificazione della frequenza cardiaca correlata alla
frequenza respiratoria) abbia un'origine neurale e rappresenti la forza del tono vagale nei confronti del cuore (Porges, 1992).
4
Qualsiasi forma di maltrattamento in età evolutiva, indipendentemente dalla natura (trascuratezza fisica ed emozionale, abuso psicologico,
violenza psicologica, sessuale, fisica ed emozionale, disfunzionalità del legame di attaccamento parentale, conflittualità genitoriale),
dall’intensità (lieve, moderata e grave) e dalla frequenza (situazionale, generalizzata) incide negativamente sullo sviluppo psicofisico del
bambino e sulla modalità relazionale, producendo effetti devastanti che si possono tradurre in problemi comportamentali ed emozionali,
includendo l’aggressività, la delinquenzialità e la depressione (Kendall-Tackett, Williams e Finkelhor, 1993; Margolin e Gordis, 2000; Widom, 1989). In breve, il maltrattamento si concretizza “in atti ed in carenze che turbano gravemente i bambini, attentano alla loro integrità
corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o
psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di terzi", come da definizione del IV Seminario Criminologico (Consiglio d'Europa, Stra-
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favorirebbe nel bambino una efficace capacità di “resistenza” a condizioni familiari avverse
(es., alta conflittualità genitoriale), di acquisizione di adeguate competenze sociali, di trarre
beneficio (supporto affettivo ed emotivo) da contesti ambientali extrafamiliari (es., nonni, zii
e/o insegnanti) che lo proteggerebbero dallo sviluppare seri problemi comportamentali (resilience o resilienza). Viceversa, un basso livello del tono vagale, combinato con una qualsiasi
forma di maltrattamento, aumenterebbe il rischio di favorire lo sviluppo di un comportamento
aggressivo e violento proprio per la combinazione dell’esperienza avversiva con la disregolazione emozionale e comportamentale e con le limitate abilità sociali.
3. Conduttanza cutanea
«La cute, per le sue funzioni di difesa meccanica e immunitaria, per la sua importanza nella termoregolazione e nella eliminazione dei rifiuti del metabolismo e per la sua attività sensoriale può essere
considerata un organo complesso con importanti funzioni adattive e difensive. In quanto tale, esso
possiede una ricca innervazione vegetativa e reagisce in modo estremamente sensibile a stressor di
varia natura che comportino un’attivazione emozionale, ed è per questa ragione che l’attività vegetativa della cute è stata utilizzata da molto tempo come una misura di attività neurovegetativa cerebrale.
Una delle prime misure ad essere utilizzate è stata la valutazione delle variazioni della resistenza o
della conduttanza elettrica cutanea. Questa misura è ottenuta applicando a due punti della cute una
corrente elettrica continua di debole intensità e misurando le variazioni di voltaggio che si verificano a
varie stimolazioni. Questa risposta, denominata GSR (Galvanic Skin Response) impiega da 0.5 a 5
secondi per manifestarsi e da 1 a 30 secondi per estinguersi, può essere misurata sia attraverso variazioni di resistenza che di conduttanza cutanea, e compare in conseguenza di stimoli estremamente
vari che vanno da un semplice rumore improvviso ad una stimolazione emozionale di carattere psicosociale» (tratto da Pancheri P., “Stress, emozioni, malattia. Introduzione alla medicina psicosomatica,
Mondadori, Milano, 1989).
In merito all’attivazione del sistema nervoso simpatico, Adrian Raine (2013) ha revisionato alcuni studi che hanno posto in evidenza la relazione esistente tra bassa frequenza di conduttanza cutanea e comportamenti antisociali. Ciò significa che un basso livello di attivazione della conduttanza cutanea (SCL – Skin Conductance Level), in presenza di stimoli emozionali, potrebbe essere considerato un indicatore psicofisiologico (marker) di assenza di paura, di scarsa inibizione degli impulsi aggressivi e di difficoltà nel trarre insegnamento
dall’esperienza (processo attenzionale), ovvero come evitare una punizione (Raine, 2005;
Shannon et al., 2007; van Goozen et al., 2007).
sburgo 1978). Si precisa che l’insorgere di un disagio o di un vero e proprio disturbo (ovvero di una condizione psicopatologica), a partire da
una condizione di abuso o di grave trascuratezza, dovrebbe essere interpretato come l’esito di un processo complesso legato alla mancanza
di equilibrio tra i fattori protettivi ed i fattori di rischio, dove i secondi risultano essere prevalenti e preponderanti rispetto ai primi nel corso
della storia evolutiva di un individuo ed in un particolare momento del suo sviluppo. Comunque, non tutti i giovani maltrattati esibiscono
problemi comportamentali ed emozionali. Molti studi hanno approfondito il ruolo di modulazione, svolto dal Sistema Nervoso Autonomo
(SNA), degli effetti di esperienze stressanti (Katz e Gottman, 1995; Raine, 2005) in relazione all’aggressività ed al comportamento antisociale. E’ noto che un maltrattamento può interferire negativamente sulla regolazione affettiva e può indurre un bambino ad interpretare erroneamente, in chiave di minaccia, stimoli sociali ambigui rispondendo ad essi in modo aggressivo (Cullerton-Sen et al., 2008). Inoltre, un
abuso traumatico può produrre rabbia e timori relazionali nonché una necessità di ricreare il trauma con l’aggressività (Haapasalo e Pokela,
1999).
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Raine nel 2005 ha affermato che una bassa attività del sistema nervoso simpatico (decremento dell’attività e della reattività autonomica), come indicato dal livello di conduttanza cutanea, combinata con uno stile familiare abusivo, aumenterebbe il rischio di condotte aggressive. Mentre, l’alto livello di conduttanza cutanea potrebbe svolgere un ruolo protettivo. Erath, El-sheikh e Cummings (2009) hanno individuato, soprattutto nei ragazzi, una significativa relazione, in presenza di una bassa reattività del livello di conduttanza cutanea, tra stile
familiare disfunzionale e problemi comportamentali esternalizzati. Pertanto, la combinazione
di un qualsiasi tipo di maltrattamento con un basso livello di conduttanza cutanea potrebbe
rappresentare un fattore di rischio per un minore (sviluppo di uno scarso controllo comportamentale), in quanto detto livello indicherebbe ridotta ansietà e disinibizione. Di contro, la
presenza di una elevata attivazione autonomica ridurrebbe lo sviluppo di una condotta antisociale o criminale in un individuo, potenzialmente a rischio, per una sua marcata apprensività
nei confronti di una eventuale punizione sociale. E’ da precisare che gli studi condotti sugli
effetti protettivi di tale livello di attivazione autonomica sono limitati ed ancora poco esplorati.
3. Phineas Gage
Ciò che manca allo psicopatico è la paura, l’empatia ed alcune abilità interpersonali dovute
a compromissioni neurali simili a quelle presenti in pazienti con danni al lobo frontale.
«I pazienti che hanno riportato una lesione in regioni quali il lobo frontale ventromediale appaiono
incapaci di cooperazione. Essi non riescono ad esprimere emozioni sociali; il loro comportamento non
è più rispettoso delle regole sociali e le loro prestazioni, nei test che richiedono una competenza sociale, appaiono del tutto anomale. Nell’individuo normale, l’adozione di strategie cooperative coinvolge le regioni frontali, ventromediali, come mostrano le immagini funzionali ottenute nel corso
dell’esperimento che prevedeva la soluzione del Dilemma del prigioniero – un test quanto mai efficace
nel discriminare gli individui cooperativi da quelli inclini alla defezione. Recentemente si è scoperto
che la cooperatività porta anche all’attivazione di regioni coinvolte nella liberazione di dopamina e nei
comportamenti associati al piacere – il che indica che la virtù ricompensa se stessa. … I risultati relativi a pazienti adulti con danno al lobo frontale, e le loro interpretazioni, diventano particolarmente
convincenti alla luce della recente descrizione di giovani – non ancora o da poco ventenni – portatori
di danni simili dall’infanzia. I miei colleghi Steven Anderson e Hanna Damasio stanno riscontrando
che questi pazienti, per molti versi, assomigliano a quelli che subiscono la lesione in età adulta. Proprio come loro, infatti, non mostrano compassione, imbarazzo o sensi di colpa, e sembrano non aver
mai avuto, in vita loro, quelle emozioni e i relativi sentimenti. Esistono tuttavia notevoli differenze. I
pazienti nei quali il danno cerebrale si instaura nei primi anni di vita presentano, nel comportamento
sociale, difetti ancora più gravi; inoltre, cosa più importante, sembrano non aver mai appreso le convenzioni e le regole che poi infrangono». (A.R. Damasio, 2003, pag. 184, 185 e 186).
Il primo caso di lesione alla corteccia prefrontale ventromediana risale al 1848: Phineas
Gage, operaio esperto nell’uso della dinamite, si trovava a lavoro e stava armeggiando con
una barra d’acciaio per collocare una carica esplosiva in un buco trapanato nella roccia. Improvvisamente la carica esplose scagliandogli contro la barra che, penetrando nella guancia
sinistra e forando la scatola cranica, attraversò la parte frontale del cervello e fuoriuscì dalla
sommità del capo. Sorprendentemente, Gage non morì ma divenne un altro uomo: prima
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dell’incidente era una persona seria, operosa ed energica; a seguito dell’incidente divenne infantile, irresponsabile ed irriguardoso nei confronti degli altri. Era incapace di intraprendere o
portare a compimento un progetto e le sue azioni apparivano infantili e stravaganti.
L’incidente gli aveva procurato, infatti, un danno molto esteso in corrispondenza della corteccia orbitofrontale (Damasio et al., 1994). Negli anni successivi furono descritti numerosi
casi analoghi a quello di Phineas Gage. Quello che emerse è che le persone, la cui corteccia
orbitofrontale viene danneggiata, sono ancora in grado di valutare con precisione il significato di particolari situazioni, ma solo da una prospettiva teorica. Eslinger e Damasio (1985), ad
esempio, hanno descritto il caso di un paziente che presentava una lesione bilaterale della
corteccia orbitofrontale (causata da un tumore benigno, poi rimosso con successo) e che mostrava un’eccellente capacità di giudizio sociale. Quando doveva valutare in maniera ipotetica
delle situazioni che implicavano dei dilemmi morali (sia etici che pratici), che prevedevano la
valutazione delle reazioni di specifiche persone coinvolte, forniva sempre delle risposte sensate e logiche; nella sua vita privata, al contrario, dimostrava irresponsabilità (es., perdeva un
lavoro dopo l’altro o dilapidava i propri risparmi per investimenti disastrosi) e risultava incapace di distinguere tra decisioni banali e decisioni rilevanti.
3.1. Antonio R. Damasio: un moderno Phineas Gage
Al prof. Damasio (docente di neuroscienze, psicologia e neurologia - Università del Southern California di Los Angeles) fu chiesta una consulenza in merito ad un paziente che presentava un danno all’area prefrontale.
«Elliot (lo chiamerò così) era allora trentenne; non più in grado di tenere un posto di lavoro, viveva
affidato alla custodia di un fratello; ma ora si poneva il problema che a Elliot non veniva riconosciuto il
diritto a riscuotere l’assegno di invalidità. Per quel che si poteva vedere, egli era un individuo intelligente, capace, sano: doveva tornare in senno e rimettersi a lavorare. Diversi professionisti avevano
dichiarato che le sue facoltà mentali erano integre, intendendo con questo che Elliot era nella migliore
delle ipotesi un pigro, e nella peggiore un simulatore.
Lo visitai subito, e ne fui colpito: era una persona piacevole e interessante, dotata di un fascino
profondo ma controllata nelle sue emozioni. Mostrava una compostezza riguardosa e piena di tatto,
appena contraddetta da un lieve sorriso ironico indicante una saggezza superiore e una blanda condiscendenza verso le follie del mondo; appariva freddo, distaccato, imperturbabile, anche nel discutere di vicende personali che avrebbero potuto metterlo in imbarazzo» (ibidem pagg. 71,72).
Elliot era stato un buon marito ed un buon padre e un professionista affermato sino a
quando, per i suoi continui mal di testa e difficoltà di concentrazione, venne sottoposto ad accertamenti medici per un sospetto tumore al cervello. Dette indagini neurologiche rilevarono
la presenza di un meningioma (tumore benigno, che se non rimosso chirurgicamente può divenire fatale poiché può raggiungere dimensioni tali da distruggere il tessuto cerebrale), così
chiamato perché si sviluppa dalle meningi, ovvero dalle membrane che rivestono la superficie
del cervello. Durante l’intervento chirugico, il meningioma fu rimosso e fu asportato anche il
tessuto dei lobi frontali danneggiati. L’intervento ebbe esito positivo, ma infauste furono le
conseguenze sulla personalità del paziente (inaffidabilità, incapacità decisionale e a trarre in-
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segnamento dai suoi errori) sebbene fisicamente abile e integre, in larga parte, le sue facoltà
cognitive.
«L’analisi mediante tomografia computerizzata e mediante risonanza magnetica consentì di capire
che erano stati lesi entrambi i lobi frantali – destro e sinistro – e che il danno era molto più grande a
destra che a sinistra … il danno era localizzato all’interno dei settori orbitario e mediano … Quindi il
danno era confinato alle cortecce prefrontali, … più esteso sul lato destro che quello sinistro» (ibidem
pagg. 77,78).
In breve Elliot, come il caso del noto Phineas Gage e degli altri dodici pazienti osservati
da Damasio con le stesse lesioni prefrontali, presentava un deficit della capacità decisionale
con un appiattimento delle emozioni e dei sentimenti (cecità emotiva).
«I poteri della ragione e l’esperienza dell’emozione declinano insieme, e la loro menomazione si
inquadra in un profilo neuropsicologico nel quale l’attenzione di base, la memoria, l’intelligenza e il
linguaggio appaiono intatti, tanto che sarebbe impossibile invocarli per spiegare i deficit di giudizio dei
pazienti» (ibidem, pag. 97).
4. Mattiello: pediatra pedofilo
Domenico Mattiello, stimato pediatra sessantenne, è stato arrestato nel giugno del 2011 in
flagranza di reato per aver molestato una bambina di un asilo durante una visita medica.
L’arresto venne eseguito dalle forze dell’ordine, allertati da precedenti episodi sospetti, dopo
aver filmato l’accaduto con telecamere nascoste. Dalle indagini è emerso che il medico ha
abusato sessualmente di almeno sette piccole pazienti. Il pediatra, che non si è sottratto alle
sue responsabilità, è stato processato con rito abbreviato per violenza sessuale aggravata
compiuta a danno di minori e per produzione e detenzione di materiale pedopornografico. Il
rito abbreviato è stato richiesto dai consulenti della difesa alla luce delle risultanze di una perizia di parte. I periti, chiamati a valutare lo stato mentale del professionista, si accorgono di
alcune evidenti anomalie neurologiche:
«Ci siamo trovati di fronte a un uomo che aveva delle anomalie neurologiche evidenti, come il
pianto spastico. All'improvviso, senza motivi, si metteva a piangere per poi ritornare in sé come se
nulla fosse”, racconta Pietro Pietrini, psichiatra, ordinario di Biochimica e Biologia Molecolare Clinica
all'Università degli Studi di Pisa, che insieme a Giuseppe Sartori, ordinario di Psicologia fisiologica e
Psicobiologia all'Università di Padova, ha curato la perizia. Gli specialisti vogliono capirne di più, e
fanno degli accertamenti: il pediatra scopre così di avere un tumore di 4 centimetri che gli preme sulla
corteccia orbitofrontale. Un cordoma del clivus, una rara forma di cancro. Per i periti di parte è questa
la causa del cambiamento di personalità del pediatra. “La moglie ci ha raccontato che da alcuni mesi
aveva cominciato ad agire in maniera infantile, magari divertendosi a rubare cose di poco conto, oppure in maniera irascibile”, dice ancora Pietrini: “Una frattura comportamentale che doveva avere una
ragione specifica”. Durante il dibattimento i periti dettagliano le loro ragioni: la pedofilia di Mattiello può
essere spiegata a partire dal tumore che, premendo su specifiche aree del cervello, legate alla gestione degli impulsi e del comportamento sessuale, ha indotto il paziente a compiere azioni a lui estranee prima del formarsi della massa tumorale. E per questo non può essere considerato pienamente responsabile di ciò che ha fatto. Il giudice però non accetta la tesi e non riconosce il nesso di
causa effetto fra la malattia e il comportamento. Era il 2013» (Redazione VicenzaPiù, Domenica 8
Giugno 2014).
20
Mattiello è stato condannato a 5 anni di reclusione, oltre all'interdizione dai pubblici uffici,
a conclusione dell’udienza davanti al Gup di Venezia (il giornale di Vicenza, 24.01.2013).
La Corte d'Appello di Venezia, a cui si era rivolta la difesa, ha dimezzato la condanna di
primo grado a 2 anni e 8 mesi, assolvendo il professionista dall’accusa di produzione di materiale pedopornografico perché il fatto non sussiste (Corriere del Veneto, 17.12.2013).
In appello furono riconosciute delle attenuanti, ma il tumore non venne considerato la causa del comportamento pedofilico (Archivio Penale 2016, n. 1, pag. 6).
4.1. Michael: insegnante pedofilo
Il caso del medico vicentino presenta molte analogie con quello dell’americano Michael,
insegnante di 40 anni, felicemente sposato ed amorevole con la figliastra non ancora adolescente. Non aveva precedenti penali né una storia pregressa di comportamenti devianti. Nel
2000, Michael iniziò a cambiare: aggressivo con sua moglie, divoratore di materiale pedopornografico e sessualmente abusante con la figliastra. Fu scoperto dalla moglie e denunciato
per molestie sessuali a danno della minore. L’uomo venne affidato ad un programma di riabilitazione, ma fu espulso a causa delle ripetute avances al personale femminile. La notte prima di essere trasferito in prigione fu ricoverato al pronto soccorso per un tremendo mal di testa, e qui continuò a richiedere favori sessuali allo staff medico femminile. Esperti neurologi
(Russel Swerdlow e Jeffrey Burnes) del Virginia Medical Center richiesero per Michael una
risonanza magnetica per non aver mostrato alcun imbarazzo durante un episodio di incontinenza urinaria. Detto accertamento evidenziò la presenza di un tumore alla base della corteccia orbitofrontale destra. Con l’asportazione del tumore, il comportamento di Michael tornò
normale, ed egli si riunì a sua moglie e alla figliastra. Alcuni mesi dopo, la moglie scoprì materiale pedopornografico nel suo computer. Michael fu sottoposto a nuovi accertamenti che
misero in luce una nuova formazione tumorale. La massa tumorale fu nuovamente rimossa e
per almeno 6 mesi il suo comportamento ritornò alla normalità.
Questo caso può essere considerato una prova dell’esistenza di una connessione causale
tra una patologia nella corteccia prefrontale ventromediale (VPC) e il comportamento deviante.
«Che cambiamenti o deviazioni del comportamento sessuale possano essere legati a disfunzioni e
alterazioni del cervello è un dato noto ai ricercatori. Ictus, epilessia, tumori o altre lesioni cerebrali
possono provocare sconcertanti mutamenti, un forte aumento dello stimolo sessuale e un allentamento dei freni inibitori, come ricorda il neurobiologo olandese Dick Swaab nel saggio Noi siamo il nostro
cervello» (Elliot Edizioni) (Panorama, 23.11.2011).
4.2. Klüver-Bucy syndrome e ipersessualità
Un uomo all’età di trentanove anni, dopo un precedente intervento chirurgico per
l’asportazione di un ganglioglioma (tumore cerebrale primitivo raro, il cui esordio avviene in
età giovanile con crisi epilettiche spesso resistenti alla farmacoterapia) localizzato nell’area
temporale destra, venne sottoposto alla resezione temporale posteriore per ridurre i sintomi
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epilettici locali. Dopo un mese dall’intervento, la sua ipersessualità iniziò con un incremento
della masturbazione, dei rapporti sessuali con la propria coniuge e, successivamente, con la
raccolta compulsiva di materiale pornografico e pedopornografico. Oltre all’ipersesualità (uso
di un linguaggio osceno, frequenza e durata dell’erezione superiore alle due ore, cambiamenti
nelle preferenze sessuali, ovvero sessualità indiscriminata) manifestò drammatici cambiamenti comportamentali quali irritabilità, distraibilità, iperfagia e perversità polimorfa (es., feticismo 5, frotteurismo 6, voyeurismo 7, zoofilia8, pedofilia9, coprolalia10 e coprofilia11). Tutti i
Attrazione erotica ed eccitamento sessuale verso un oggetto inanimato (“il feticcio”). I feticci (es., mutande, reggiseni, calze, scarpe, stivali, o altri accessori) non sono limitati a capi di abbigliamento femminile utilizzati per il travestimento (come
nel “Feticismo di Travestimento”), o a specifici strumenti progettati per la stimolazione tattile dei genitali (es., vibratore). Il
feticista spesso si masturba mentre tiene in mano, si strofina contro o odora l’oggetto feticistico; inoltre, può chiedere al proprio partner di indossare tale oggetto durante i rapporti sessuali. Nell’uomo, in assenza di un oggetto inanimato fonte di eccitazione, si possono presentare disordini erettivi. Normalmente l’esordio di detta parafilia si colloca nel periodo adolescenziale, sebbene il feticcio possa essere stato investito di un significato particolare già nella prima fanciullezza. Il Feticismo presenta un andamento cronico. (Gargiullo B.C. e Damiani R., 2008).
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La condotta parafilica del frotteur si incentra sul palpeggiare i genitali, le natiche o le mammelle di una persona non consenziente e/o sullo strofinarsi su di essa. Nella maggior parte dei casi, le vittime vengono avvicinate dal parafilico in luoghi
dove può agire senza essere facilmente notato (per es., marciapiedi affollati o mezzi di trasporto pubblico) e da dove può allontanarsi precipitosamente qualora fosse scoperto. Di solito, durante “l’approccio”, fantastica una relazione intima ed esclusiva con la vittima. La maggior parte degli atti di frotteurismo, il cui esordio si colloca quasi sempre nell’adolescenza, fanno
parte del repertorio comportamentale di soggetti giovani (15-25 anni) che, nel tempo, presentano un graduale declino nella
frequenza. Di contro, il frotteur adulto, la cui condotta è tipicamente maniacale, è un soggetto che si “muove” con il preciso
intento di molestare le donne e di trarne il massimo godimento, eiaculazione compresa che, in alcuni casi, viene “contenuta”,
ad esempio, da un “provvidenziale profilattico” (Gargiullo B.C. e Damiani R., 2008).
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La focalizzazione parafilica del voyeurismo comporta l’atto dell’osservare ignari soggetti, di solito estranei, mentre sono
nudi, si spogliano o sono impegnati in pratiche sessuali. Per il parafilico spiare l’altro (es., mentre si spoglia) o gli altri (es.,
mentre fanno sesso) rappresenta di per sé fonte di eccitazione e conseguente gratificazione (masturbazione ed orgasmo) tanto
che, di solito, il “guardone” non si spinge a tentare un approccio sessuale con la persona osservata. L’orgasmo può essere
“rinviato” ad un momento successivo: immaginando, in piena solitudine, di avere un rapporto sessuale con la persona spiata
(masturbazione che, in alcuni casi, può costituire l’unica forma di gratificazione sessuale); fantasticando, nel mentre ha un
rapporto sessuale con il proprio partner, di fare sesso con “l’inconsapevole oggetto dei suoi desideri”. Tale comportamento,
il cui esordio viene fatto risalire a prima dei anni, tende nel tempo a cronicizzarsi (Gargiullo B.C. e Damiani R., 2008).
8
“Nei rapporti sessuali fra un uomo ed un animale, Krafft-Ebing distingueva tre forme: bestialità, zooerastia e zoofilia erotica. Per bestialità intendeva lo stupro di un animale, vale a dire un atto. Alla zoofilia erotica ascriveva i casi in cui gli animali
esercitano su un individuo azione afrodisiaca, e li riconduceva al feticismo (predilezione pronunciata per una parte determinata del corpo dell’animale). Come zooerastia intendeva sceverare dalla bestialità i casi in cui l’atto sessuale è praticato con
animali; ha origine patologica nel senso di una grave tara ereditaria, nevrosi costituzionale, impotenza nel tentativo di coito
con la donna, natura impulsiva, coatta, dell’esecuzione dell’atto contro natura” (Albert Moll, traduzione italiana e rielaborazione di “Psychopathia sexualis” di Krafft-Ebing, 1957). Noi riteniamo, invece, dividere i rapporti sessuali con animali in
due categorie: la zoofilia erotica (e non zoofilia, come riportato dal DSM IV-TR, all’interno delle parafilie non altrimenti
specificate - NAS), ovvero un comportamento sessuale, non di tipo esclusivo, che viene messo in atto da un individuo, in
condizioni di isolamento e di deprivazione emozionale, nei confronti di un animale che funge da sostituto affettivo (es., il
pastorello che, per superare il suo senso di solitudine, ha un rapporto affettivo e sessuale con la pecorella prediletta); la zooerastia (o bestialismo), che è un atto sessuale brutale perpetrato a danno di un animale (pornografia zooerastica: riproduzione
di foto e filmati ritraenti rapporti sessuali tra esseri umani e animali).
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Attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (generalmente di 13 anni o più piccoli). Il soggetto pedofilo deve avere
minimo 16 anni ed essere di almeno 5 anni maggiore del bambino o dei bambini con cui ha attività sessuali. Non viene incluso il soggetto tardo-adolescente coinvolto in una relazione sessuale perdurante con un individuo di 12-13 anni. I pedofili,
di solito, presentano attrazione esclusiva per bambini di una particolare fascia di età. Alcuni di essi preferiscono i maschi
(dai 10 anni in su), altri le femmine (tra gli 8 ed i 10 anni), e altri ancora non fanno distinzione di sesso. Comunque, le vittime di pedofilia sono soprattutto bambine. Inoltre, dobbiamo distinguere la pedofilia di “tipo esclusivo” (attrazione sessuale
solo per bambini) da quella “non esclusiva” (attrazione per bambini e adulti). I comportamenti pedofilici oscillano da forme
più lievi (spogliare il bambino e guardarlo, masturbarsi in presenza del minore, toccarlo con delicatezza e accarezzarlo) fino
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tratti sopradescritti rientrano nella sindrome di Klüver-Bucy (KBS). Arrestato e processato
(2006) per detenzione di materiale pedopornografico, l’uomo venne condannato a 26 mesi di
detenzione, 25 mesi di domiciliari e ulteriori 5 anni di supervisione. La sindrome KBS rientrò
tra le attenuanti generiche (Devinsky J., Sacks O., Devinsky O. 2010. Klüver-Bucy syndrome, hypersexuality, and the law, neurocase 16 (2), 140-145).
In sintesi, “…la resezione chirurgica della parte di lobo temporale contenente l’amigdala
(attore principale, unitamente al cingolato anteriore, delle emozioni primarie) dava origine a
indifferenza affettiva – oltre a svariati altri sintomi” (Damasio A.R. 1995, pag. 195).
Soggetti con sclerosi multipla, con parkinsonismo postencefalico, con traumi cerebrali e a
seguito di interventi neurochirurgici possono presentare la sindrome KBS (Devinsky J., Sacks
O., Devinsky O. 2010).
4.3. Krafft-Ebing e iperestesia sessuale
«Una delle più importanti deviazioni della sessualità è quella costituita da una intensità abnorme
delle sensazioni e rappresentazioni sessuali, causa di violenti e frequenti stimoli al soddisfacimento
sessuale. Si deve all’educazione e alla cultura operanti da molti secoli se l’istinto sessuale, indispensabile alla conservazione della specie e presente in ogni individuo normale, non domina e soffoca tutto il sentire umano. … Effettivamente nell’individuo normale lo stimolo sessuale non giunge mai a tale
intensità da dominare tutta l’ideazione e tutto il sentire, senza lasciar posto ad attività psichiche di altra natura ed esigendo con veemenza incontenibile di venir soddisfatto. … In stati morbosi, invece, lo
stimolo sessuale può manifestarsi in modo impulsivo e coatto, e può avvenire che il coito non spenga
affatto l’appetito sessuale o lo spenga solo per un tempo minimo, così che l’ammalato sia spinto continuamente a consumarsi in un desiderio carnale insaziabile. Uno stimolo sessuale siffatto è decisamente patologico … Episodicamente esso può esacerbarsi fino a dar luogo a una emozione sessuale
di tale intensità, che la coscienza ne sia offuscata, la sensibilità sconvolta e, in uno stato di vera necessità psichica, sotto un impulso irresistibile, abbia luogo un atto di violenza sessuale … Una siffatta
sessualità patologica è un flagello per coloro che ne sono affetti, giacché li pone continuamente a rischio di violare la legge morale e penale e di perdere l’onore civile, la libertà, persino la vita. Specialmente l’alcol può, in tali individui, dar luogo ad accessi vee-menti di iperaffettività sessuale. » (KrafftEbing R. v. Psychopathia Sexualis, Manfredi Eidtore, 1957, pag. 120-121).
Alcuni individui, caratterizzati da un alto grado di eccitabilità (“teste calde”) e dominati da
una spasmodica ricerca di sensazioni forti, non dissimili dagli iperestesici di Kraft-Ebbing,
sono spinti ad agire le proprie rappresentazioni sessuali. Alcune “teste calde”, attraverso le
fantasie sessuali a cui fanno continuamente ricorso, incendiano l’amigdala (“piccola mandor-
ad arrivare ai rapporti sessuali completi messi in atto anche con gravi forme di violenza (sottoporre il bambino a fellatio o
cunnilingus; penetrare la vagina o l’ano del minore con dita, corpi estranei o pene) (Gargiullo B.C. e Damiani R., 2008)
10
É una parafilia atipica (non inserita fra le parafilie classiche) che consiste in un bisogno esclusivo di esprimersi, con una
modalità volgare ed oscena, mediante ripetute telefonate al fine di raggiungere, in pieno anonimato, uno stato di eccitazione
con conseguente masturbazione. Le vittime possono essere estranei o conoscenti più o meno occasionali (Gargiullo B.C. e
Damiani R., 2008).
11
Piacere provato nel toccare, guardare e mangiare le feci (http://www.treccani.it/vocabolario/coprofilia/).
23
la” coinvolta in modo significativo nella “produzione” delle emozioni) che stimola l’attacco
predatorio attraverso l’ippocampo (“cavalluccio marino”, definito da Raine “angelo custode
del comportamento che pattuglia le acque pericolose delle emozioni”) per soddisfare la loro
“bramosia sessuale”. Tre sono i fattori che connotano l’ipererotismo (sessualità esasperata):
compulsività, assenza di controllo e insaziabilità del desiderio anche dopo il soddisfacimento.
In sintesi, questa condizione di ipersessualità, che pone un individuo in uno stato permanente di appetito sessuale, richiede una spasmodica ricerca dell’oggetto dei propri desideri al
fine di placare uno stato di forte attivazione neurofisiologica. Lo stato di piacere, che inizia
con la rappresentazione mentale di un agire finalizzato all’appagamento sessuale (scarica orgasmica) e che aumenta con la ricerca di tale godimento, si trasforma in rabbia quando: la ricerca stessa dura troppo a lungo, si rivela infruttuosa o, ancor peggio, quando, in prossimità
della “meta”, viene inaspettatamente ostacolata.
BOX 2
Il lobo frontale costituisce circa un terzo del tessuto cerebrale totale. Le regioni cerebrali dei lobi
frontali, le più estese ed evolutivamente più recenti, sono deputate a funzioni particolarmente complesse. Appaiono al centro dell’attività nervosa, dalla quale derivano le qualità intellettive e caratteriali
che connotano la personalità dell’individuo e ne determinano lo stile di vita.
«La sezione anteriore del lobo frontale è la corteccia prefrontale responsabile delle cosiddette funzioni
esecutive del cervello, incluso la conoscenza dei ruoli, le decisioni e la memoria a breve termine. Oltre ad essere il centro della volontà, tale corteccia è legata ad una miriade di funzioni considerate particolarmente sviluppate nei primati ed, in special modo, nell’essere umano» (Fallon J.H., 2013).
Il lobo frontale può suddividersi in corteccia prefrontale laterale e corteccia prefrontale mediale.
La corteccia prefrontale laterale, implicata in funzioni quali la memoria di lavoro (working memory),
può essere ulteriormente suddivisa in corteccia prefrontale dorso-laterale (capacità
di astrazione e di pianificazione delle azioni, flessibilità cognitiva, processi di autoregolazione comportamentale tra cui impulsività
e
scarso
controllo,
tipici
dell’antisocialità) e corteccia prefrontale
ventro-laterale/orbito-frontale
(coinvolta
principalmente nella regolazione delle emozioni, nell’apprendimento dai premi o
dalle punizioni e nei processi decisionali).
Si precisa che la corteccia orbito-frontale,
fra le diverse aree della corteccia frontale
(prefrontale dorso-laterale, frontale interna), riveste un ruolo particolarmente importante nella pianificazione e nella regolazione del comportamento in generale (motor level). La sua ridotta funzionalità è associata a disturbi del controllo emotivo (es. instabilità dell’umore) e comportamentale (es., ostinazione, impulsività, iperattività, ipersessualità, oppositività).
Nella parte mediale del lobo frontale possiamo distinguere due aree importanti, ovvero la corteccia
cingolata anteriore (identificazione degli errori di elaborazione e comportamentali, monitoraggio dei
conflitti, apprendimento) ed il giro frontale superiore (selezione e flessibilità di un compito da eseguire,
ovvero task switching).
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Coloro che presentano dei danni nel cingolato anteriore sono più disinibiti ed aggressivi e presentano
difficoltà nel controllo inibitorio e nel processo di elaborazione emozionale (Bellamoli E., Zoccatelli G.
et al., 2014).
Fallon (2013), in proposito, afferma che «la parte dorsale della corteccia prefrontale, e le sue aree subcorticali interconnesse, è associata con la cold cognition, ovvero processi cognitivi (pensieri, percezioni, memoria a breve termine o esecutiva, pianificazioni e decisionalità) privi di coloritura emozionale (“fredde”). La parte ventrale, o bassa, della corteccia prefrontale, in gran parte costituita dalla corteccia orbitale e corteccia prefrontale ventromediale, è coinvolta in funzioni simili a connotazione automatica/affettiva (hot cognition, ovvero calde)». In altre parole, le hot cognition si riferiscono a quei
processi mentali che sono guidati dai nostri desideri e sentimenti (Kunda Z., 1999). Tale distinzione
tra processi cognitivi caldi e freddi è in linea con i sistemi 1 (automatici, intuitivi e affettivi) e 2 (controllati, deliberati e cognitivi) proposti da Daniel Kahneman nel 2003. Pertanto, il sistema 1 svolge un importante ruolo nei processi automatici di elaborazione emotiva delle informazioni, mentre il sistema 2
si basa sul processamento deliberato delle informazioni. I problemi di natura sociale e interpersonale
(es., predire un comportamento o gli stati emozionali di altri individui, decidere come e quando intervenire in una data situazione) sono probabilmente quelli che più facilmente chiamano in causa processi esecutivi “caldi”» (Poletti M., 2007).
In sintesi, le regioni prefrontali controllano i diversi processi cognitivi attraverso:
- la gestione delle risorse attentive (“top-down control”);
- l’attenzione selettiva (selezionare l’informazione rilevante ed inibire quella interferente);
- l’attenzione divisa (dividere l’attenzione tra più compiti da eseguire contemporaneamente);
- la progettazione (prevedere le conseguenze del proprio operare) e la lungimiranza (valutare
l’adeguatezza del proprio comportamento in relazione allo scopo da perseguire);
- la pianificazione (selezionare la strategia migliore allo scopo);
- la flessibilità (capacità di maturare un comportamento in base al contesto) e l’astrazione (cogliere
gli elementi che compongono la realtà e le proprietà che li accomunano o li distinguono);
- la memoria di lavoro (“working memory, ovvero capacità di ritenere e manipolare l’informazione)
(Bellamoli E., Zoccatelli G. et al., 2014).
Definire con chiarezza il concetto di funzioni cognitive superiori non è semplice. Dette funzioni rientrano nelle “funzioni esecutive”, ossia l’insieme dei diversi
sottoprocessi
mentali
necessari
per
l’adattamento a situazioni nuove al fine di “intraprendere con successo azioni indipendenti e finalizzate al proprio vantaggio. Si può affermare che le
funzioni esecutive, essenziali all’adattamento
dell’uomo all’ambiente e, quindi, alla sua stessa sopravvivenza,
raggruppano
processi
come
l’attenzione, la memoria di lavoro, la soluzione dei
problemi (problem solving), la progettazione e la
modificazione del comportamento. Si rilevano deficit
alle funzioni esecutive dopo lesioni ai lobi frontali e
prefrontali (Bellamoli E., Zoccatelli G. et al., 2014).
L’amigdala funziona come «archivio della memoria
emozionale» ed è quindi «depositaria del significato
stesso degli eventi»; la vita senza l’amigdala, pertanto, sarebbe un’esistenza deprivata del suo significato più umano (assenza di coloritura emotiva). Gli adulti ed i giovani con tratti psicopatici, che presentano risposte emotive fredde e forme di aggressività pianificata (proattiva), mostrano un ridotto volume dell’amigdala e della sua funzionalità, mentre gli individui più impulsivi, con una forma di aggressione reattiva, mostrano un’esagerata reattività dell’amigdala. Il ridotto volume dell’amigdala, in individui psicopatici, è stato localizzato nell’area basolaterale, laterale, corticale e nei nuclei centrali
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(regioni coinvolte nel processo emozionale, nella paura condizionata e nella reattività affettiva autonomica agli stimoli). Da notare, che i pazienti che presentano lesioni all'amigdala mostrano una ridotta
percezione del pericolo, sono meno timorosi e presentano deficit nel riconoscimento delle varie espressioni facciali della paura (processo empatico) (Raine A., 2002).
Ippocampo (porzione del lobo temporale che regola apprendimento, memoria ed, insieme
all’amigdala, le emozioni). L’ippocampo, in condizioni di deficit strutturali (parte destra più grande della sinistra), rende una persona incapace di distinguere il “bene dal male” e insensibile agli stimoli ambientali (mancanza di coscienza) (Raine A., 2002).
L’insula ha una funzione fondamentale nel riconoscimento delle violazioni delle norme sociali, nonché nel modo in cui sperimentiamo rabbia, paura, empatia e disgusto. E’ coinvolta, inoltre, nella percezione del dolore (Carlson N.R., 2008).
Lo striato ventrale, struttura sottocorticale che si trova in profondità nel cervello, segnala le gratificazioni e si attiva quando proviamo piacere. Detta area cerebrale gioca un ruolo chiave nel mantenere
l’equilibrio tra il bisogno di gratificazione e la capacità di attendere, tra le azioni impulsive e le scelte
prudenti (Hariri AR, Brown SM et al. Preference for immediate over delayed rewards is associate with
a magnitude of ventral striatal activity. Journal of Neuroscience 2006; 26(51):13213-17). E’ importante
notare come un’anomalia dello striato ventrale produca una percezione alterata degli appagamenti
(Kelley A.E., 2004).
5. Geni, cervello e criminalità
«Giuseppe Musolino, l’ultimo brigante calabrese: “E’ ancora un delinquente nato per l’eredità, avendo criminali lo zio e tre cugini materni, nonno e zio materni apoplettici. Annunziata Romea, figlia
della zia Filasto, è epilettica; il nonno paterno alcolista; il padre di Musolino ha vertigini che costituiscono la forma embrionale della epilessia; delle tre sorelle di Musolino, Vincenza ed Ippolita, soffersero in carcere l’accesso epilettico classico, ed Anna gravi fenomeni nervosi.
Anche la sorella Ippolita è proclive alle risse, carattere che si mostra ancor più spiccatamente nel
fratellino, sì che lo si doveva tempo addietro rinchiudere in una casa di correzione. …
E’ criminale nato, soprattutto perché, come mi risulta da relazioni mediche, va soggetto ad insulti
epilettici, malattia che è, come ho dimostrato (Uomo delinquente vol. II da pag.70 a pag. 201 e pag.
565), la base della criminalità-nata e i cui accessi sofferse sei mesi prima di commettere i due mancati
omicidi pei quali fu condannato; epilessia che in forma motoria si manifestò più spiccata dal 12° al 15°
anno, epoca in cui divenne incorreggibile e crudele contro il padre e così attacca briga che ne acquistò il nomignolo di Peddicchia; e che, essendo quasi sempre preceduta per otto o dieci ore da aura,
gli diede modo di nascondersi a tempo durante l’epoca dell’incoscienza.
Dell’epilessia ha anche, oltre l’agilità straordinaria per cui superava i precipizi più spaventevoli,
l’eccessiva impulsività e il carattere contraddittorio, ora eccessivamente agitato e verboso, ora muto e
istupidito come un idiota, notava il tenente Lovreno; ora sospettoso, diffidente, ora fanciullescamente
ingenuo, e l’intermittente, bestiale ferocia sanguinaria alternante con una certa bonarietà.
E’ criminale-nato, perché la nota più sicura della sua personalità psichica è la vanità morbosa
(Renda). E’ smanioso di sapere se la stampa si occupa di lui; si atteggia a personaggio di grande importanza, vuole che l’universo lo giudichi; pensava persino di farsi eleggere deputato; pretendeva di
essere protetto da un santo speciale, san Giuseppe, anche in grazia di una allucinazione in cui questi
gli sarebbe apparso, nei primordi della sua carriera carceraria, promettendogli assistenza, salvo poi a
dispregiarlo, quando si vide arrestato; …» (Lombroso C., 1902, cit. in Lombroso C., Delitto, genio, follia, scritti scelti, Bollati Boringhieri, 2000, p. 282-283).
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5.1. Jeffrey Timothy Landrigan
Dal brigante Musolino di Lombroso (1902) arriviamo
all’omicida Jeffrey Timothy Landrigan (1982).
Jeffrey Timothy Landrigan, nato il 17 marzo 1962, venne abbandonato dalla madre a otto mesi in un asilo nido. Venne adottato da una
famiglia americana amorevole e di alta borghesia. L’ombra insidiosa
del suo passato però era pronta ad inghiottire il bambino e segnò per
sempre il destino di Jeffrey. Sin da piccolo (2 anni) manifestò un
comportamento burrascoso e imprevedibile. A dieci anni iniziò ad abusare di alcol e a 11 anni subì il suo primo arresto per furto e scasso. Da adolescente iniziò a far uso di droghe e a vent’anni commise il
suo primo omicidio (1982), pugnalando il suo amico d’infanzia Greg
Brown, per il quale venne condannato a venti anni di detenzione. Dopo essere riuscito ad evadere
dalla prigione (1989), Landrigan commise il suo secondo omicidio, strangolando con un cavo elettrico
Chester Dean Dryer di 42 anni, per il quale venne condannato a morte nel 1990 e giustiziato, mediante iniezione letale, nel 2010. Mentre si trovava nel braccio della morte nel penitenziario dell’Arizona,
un detenuto gli parlò di una strana somiglianza tra lui e Darrel Hill, un detenuto che aveva incontrato
nel braccio della morte in Arkansas. Si scoprì che Hill era il padre biologico di Landrigan, un padre
mai conosciuto. Hill, così come suo figlio, era un criminale di professione che aveva fatto uso di droghe e che anche lui aveva commesso due omicidi. Anche il padre di Hill, nonno di Landrigan, era un
criminale istituzionalizzato; morì in un conflitto a fuoco con la polizia durante una rapina ad una farmacia. Il bisnonno di Jeffrey era un noto contrabbandiere (Raine A., 2013; 2014;
www.murderpedia.com).
Come criminale di quarta generazione, il caso Landrigan non documenterebbe solo la trasmissione intergenerazionale della violenza, ma evidenzierebbe l’ininfluenza di una famiglia
adottiva accudente sulla componente genetica.
I criminologi, per decenni, si sono fermamente opposti all’idea dell’esistenza di una predisposizione genetica alla violenza. Recenti studi, condotti su 43.243 adottati e 1.258.826 non
adottati, confermano inequivocabilmente che il figlio biologico di un soggetto, condannato
per un crimine violento, ha maggiori probabilità di commettere a sua volta un crimine (Hjalmarsson R. e Lindquist M.J., 2013; Glenn A.L. e Raine A., 2014). Infatti, i risultati provenienti da più di 100 studi di genetica comportamentale su diversi campioni - incluso gli studi
sui gemelli, sui gemelli allevati da famiglie diverse e sugli adottati - documentano l’esistenza
di una ereditarietà del comportamento aggressivo in bambini, adolescenti ed adulti. Tali risultati pongono in luce l’esistenza di una significativa base genetica nel comportamento antisociale ed aggressivo (Cadoret R.J. et al., 2003; Gadow K.D. et al., 2010). La prevalenza di detto fattore oscilla tra il 40 ed il 60% (Raine A., 2013). Di contro, uno studio di metanalisi non
ha rilevato alcuna variante genetica associata all’aggressività (Vassos E. et al., 2013). In proposito, Raine fa osservare che l’incidenza di ogni singolo gene sul comportamento violento,
come tutti i comportamenti complessi, è minima. E’ la combinazione di un ampio numero di
varianti genetiche che renderebbe possibile l’incremento del rischio di una condotta violenta.
Inoltre, non bisogna trascurare l’ambiente che svolge un’identica influenza; infatti, alcune varianti genetiche predispongono al probabile sviluppo di un comportamento antisociale solo in
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presenza di particolari fattori di rischio ambientale, come ad esempio un abuso subito nella
prima infanzia (Caspi A. et al., 2002). In proposito, la ricerca in epigenetica (Tremblay R.E.,
2008) ha dimostrato che l’ambiente può influenzare il modo con cui i geni vengono funzionalmente espressi in un individuo (e persino in specifiche aree cerebrali); questa constatazione sovverte le tesi tradizionali del determinismo biologico. Terrie Moffitt e Avshalom Caspi,
della Duke University, hanno pubblicato un importante lavoro sulla scienza sociale e comportamentale nella rivista Science del 2002. Essi hanno dimostrato che i fattori genetici e biologici interagiscono con i fattori sociali nel predisporre qualcuno allo sviluppo di un comportamento antisociale e violento. In breve, i geni di un individuo sono importanti ma solo
all’interno di uno specifico contesto sociale.
5.2. Brunner syndrome
Nel 1978 Han Brunner, professore dell’Università di medicina olandese di Nimega, condusse uno studio genetico preliminare su quattordici discendenti maschi di una donna che aveva chiesto un parere in merito a due diverse tipologie di disordine (disturbi mentali e acting-out improvvisi di aggressività). In particolare, uno dei maschi della famiglia aveva violentato la sorella, altri due avevano dato fuoco alla casa ed altri ancora erano tenuti alla larga
da familiari e conoscenti per gli scatti di violenza verbale e, soprattutto, fisica. Sembrava una
replica del caso di Jeffrey Landrigan, trattato nel precedente sottoparagrafo. Un numero così
elevato di soggetti violenti, in uno stesso nucleo familiare, faceva ipotizzare la presenza di
un’anomalia genetica. Han Brunner, nel genotipizzare la famiglia, scoprì un’anomalia sorprendente: i maschi presentavano un gene difettoso, il MAOA che, normalmente, produce
l’enzima monoaminoossidasi A, coinvolto nella regolazione dei livelli di alcuni importanti
neurotrasmettitori monoaminici, fondamentali per la gestione degli impulsi (es., serotonina,
adrenalina, dopamina e noradrenalina). Le mutazioni di tale gene possono determinare una
produzione deficitaria neurotrasmettitoriale favorendo una vasta gamma di anomalie comportamentali (deficit dell’attenzione/iperattività, alcolismo, abuso di sostanze, impulsività ed altre condotte a rischio). In proposito, è stato osservato che detta tendenza a sviluppare comportamenti violenti è relativamente bassa e non differisce di molto tra individui con alta attività
enzimatica (High-MAOA) e quelli con ridotta attività enzimatica (Low-MAOA), a patto che
entrambi i gruppi siano cresciuti in un ambiente psico-sociale sano e accudente; in presenza
di un ambiente socio-familiare maladattivo, la percentuale di coloro che potrebbero manifestare comportamenti antisociali, o violenti, aumenterebbe in entrambi i gruppi, ed in particolare nel gruppo con basso livello di MAOA (MAOA-L), la cui condotta antisociale è stata riscontrata nell’85% dei soggetti (Caspi et al. 2002, 2006). Dunque, possedere la variante a
bassa attività di per sé non determinerebbe lo sviluppo di un comportamento deviante, ma costituirebbe un fattore di maggiore vulnerabilità ad eventi esterni avversi (Gerra et al. 2004;
Volavka, Bilder e Nolan 2004; Nilsson et al. 2006; Craig, 2007). Inoltre, è stato dimostrato
che i portatori di Low-MAOA presentano una maggiore propensione a reagire con violenza
in situazioni socio-ambientali avverse quali, ad esempio, l’esclusione sociale (Eisenberger et
al. 2007) o a seguito di una provocazione (McDermott et al. 2009).
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A tal proposito, Han Brunner ha documentato che i maschi con tale anomalia genetica
tendono ad esibire una forma di aggressività reattiva in risposta a rabbia, paura o frustrazione.
Inoltre, questi individui presentano una spiccata ipersensibilità alla critica che li conduce ad
esplosioni di rabbia incontrollata.
Tuttavia, lo stesso Brunner, in un meeting tenutosi ad Amsterdam nel 2011, affermò che
i suoi risultati dovevano essere presi in considerazione, comunque, con cautela. Egli utilizzò
frasi come “comportamento abnorme” invece di “aggressione” e “associate” al posto di “cause”. Inoltre, precisò che non esiste un singolo gene per il crimine, che l’anomalia genetica,
che aveva scoperto, è estremamente rara e che l’ambiente gioca un ruolo significativo nel determinare una condotta criminale (Raine A., 2013).
5.3. Ruolo della MAOA nei tribunali
Il MAOA salì alla ribalta nelle cronache giudiziarie nel 1994, in Georgia, quando gli avvocati difensori di Stephen Anthony Mobley, rapinatore omicida, condannato alla pena di
morte per l’uccisione di un commesso di una pizzeria, avanzarono la richiesta di una indagine
genetica su Mobley al fine di accertare la possibile presenza della MAOA nella sua variante
“Low” (bassa). Purtroppo il tentativo di appello alla sentenza di condanna fu vano ed il primo
marzo 2005 Mobley venne giustiziato12.
Ma la strada del MAOA, e dei tentativi di introdurlo come argomento di rilevanza nei dibattimenti giudiziari, era ormai aperta.
La MAOA-L cattura l’attenzione mediatica mondiale dopo la sentenza della Corte
d’Assise d’Appello di Trieste del 2009. Detta sentenza ha rappresentato il primo caso italiano
in cui si è fatto ricorso, al fine di determinare il grado di incapacità di intendere e di volere
dell’imputato, all’uso di indagini genetiche e di tecniche di imaging funzionale del cervello
(Corte d’Assise d’Appello di Trieste, 1/10/2009, n. 5, Pres. Rel. Reinotti). Detta sentenza è
stata pubblicata online il 30 ottobre del 2009 dalla rivista internazionale Nature.
Il caso: nel 2007 l’algerino Abdelmalek Bayout, da anni residente in Italia, aggredì ed accoltellò a
morte il colombiano Walter Felipe Novoa Perez nei pressi della stazione ferroviaria di Udine, colpevole di averlo deriso in pubblico apostrofandolo “omosessuale” per gli occhi truccati con il kajal.
Nel corso del giudizio di primo grado (Tribunale di Udine, 10 giugno 2008), all’esito della perizia
espletata, veniva riscontrata una «patologia psichiatrica di stampo psicotico e, in particolare, un disturbo psicotico di tipo delirante in un soggetto con disturbo della personalità con tratti impulsivi - asociali e con capacità cognitive - intellettive nei limiti inferiori alla norma». L’imputato veniva, quindi, ritenuto una persona socialmente pericolosa e parzialmente incapace d’intendere e di volere, fondando
tale parziale incapacità (al posto di quella totale richiesta dalla difesa) sui seguenti elementi di giudizio
acquisiti nel corso del processo: comportamento antecedente al delitto, sostanzialmente immune da
indici di incapacità o di disturbo mentale, consapevolezza dell’antigiuridicità del proprio comportamento, indifferenza mostrata dopo il delitto. Ne seguiva la condanna dell’imputato alla pena di anni 22 e
mesi 6 di reclusione, ridotta per le attenuanti generiche ad anni 18 di reclusione, ulteriormente ridotta
per la diminuita imputabilità ad anni 13 e mesi 6 di reclusione, aumentata per la ritenuta continuazione
12
Per un approfondimento su detto caso si rinvia al sito http://www.nature.com/nrn/journal/v7/n4/box/nrn1887_BX1.html.
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ad anni 13 e mesi 9 di reclusione e, infine ridotta per il rito prescelto a quella finale di anni 9 e mesi 2
di reclusione.
La sentenza veniva appellata dalla difesa dell’imputato che lamentava l’erronea valutazione in ordine
alla capacità di intendere e di volere e la mancata applicazione della riduzione della pena per la seminfermità mentale nel suo massimo non essendo stato conferito rilievo adeguato alla gravità della
patologia di cui era affetto l’imputato.
Nel corso del giudizio di secondo grado (Corte di Appello di Trieste, 1 ottobre 2009) vennero espletate ulteriori perizie, all’esito delle quali, la capacità di intendere e di volere dell’imputato risultava
grandemente scemata dalla presenza di un quadro psichiatrico caratterizzato da una tipologia di personalità di tipo dipendente – negativistico con un evidente disturbo ansioso – depressivo accompagnato da pensieri deliranti ed alterazione del pensiero associata a disturbi cognitivi di interpretare correttamente la situazione nella quale si trovava pur non risultando tali deficit di livello talmente grave da
abolire la capacità di intendere. In particolare, l’organo giudicante proprio al fine di valutare la capacità
di intendere e di volere dell’imputato, tra i vari test ed indagini peritali ai quali lo sottoponeva, faceva
effettuare anche delle indagini genetiche alla «ricerca di polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni a variabili ambientali fra i quali (…) l’esposizione ad eventi stressanti ed a reagire agli
stessi con comportamenti di tipo impulsivo». Quest’ultima indagine che, come evidenziato dalla stessa Corte d’Assise, è «del tutto innovativa rispetto al livello di approfondimento degli accertamenti giudiziari», ha consentito di accertare che l’imputato risultava «possedere, per ciascuno dei dimorfismi
esaminati, almeno uno e non tutti e due gli alleli che, in base a numerosi studi internazionali riportati
sinora in letteratura, sono stati riscontrati conferire un significativo aumento del rischio di sviluppo di
comportamento aggressivo, impulsivo (socialmente inaccettabile). In particolare l’essere potatore
dell’allele a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L) potrebbe rendere il soggetto maggiormente
incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente». Ad avviso della Corte, tale
“vulnerabilità genetica” renderebbe l’imputato “particolarmente reattivo in termini di aggressività – e,
conseguentemente, vulnerabile – in presenza di situazioni di stress”. Pertanto, la Corte ha ritenuto di
poter applicare, per la parziale incapacità di intendere e di volere, la riduzione della pena nella misura
massima di un terzo. Non sono state concesse, nella misura massima, le attenuanti generiche considerata l’efferatezza della condotta dell’imputato, che aveva avuto uno “spazio di tempo non trascurabile per riflettere, pur tenuto conto dei limiti in ordine alla sua capacità, sull’azione che andava a compiere». Il diverso contesto religioso e sociale, in cui l’imputato era cresciuto (radicate tradizioni culturali della famiglia d’origine e regole comportamentali connesse alla fede islamica professata), non rappresentava un’attenuante sia perché le differenze culturali e la fede religiosa professata non potrebbero in alcun caso costituire «fondamento giustificativo per un’aggressione a fini omicidi», sia perché
trattasi di azione che, comunque, non troverebbe né giustificazione né comprensione neppure nella
società da cui l’imputato proviene.
In definitiva la Corte d’assise di Trieste ha condannato l’imputato alla pena di anni 22 e mesi 6 di reclusione, ridotta ad anni 18 per le concesse attenuanti generiche e ulteriormente ridotta ad anni 12
per diminuita imputabilità. Ai quali aggiungere 3 mesi per la contravvenzione data dall’aver portato
fuori della propria abitazione il coltello appositamente acquistato per commettere l’omicidio. Sulla pena così determinata di 12 anni e 3 mesi è stata infine operata la riduzione per il rito prescelto, con determinazione della pena finale di 8 anni e 2 mesi di reclusione (tratto da “Il Giornale, 9 novembre 2009
e La Stampa, 25 ottobre 2009; "Biomedical Sciences and the Law", 2010. Santosuosso A., Garagna
S., Bottalico B., Redi C.A., IBIS).
5.4. Stefania Albertani
Arriviamo alla vicenda giudiziaria italiana destinata a fare storia: il caso di Stefania Albertani, condannata il 20.05.2011 a vent’anni di reclusione anziché all’ergastolo, riconoscendole
un vizio parziale di mente per la presenza di “alterazioni” in “un’area del cervello che ha la
30
funzione” di regolare “le azioni aggressive” e, dal punto di vista genetico, di fattori “significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento”. Stefania Albertani fu dichiarata colpevole dell’omicidio e occultamento di cadavere
della sorella e per il doppio tentato omicidio di entrambi i genitori.
Reati a lei ascritti: omicidio della sorella, preceduto dalla somministrazione massiccia di
benzodiazepine (o bdz)13 tali da indurre nella vittima uno stato confusionale; soppressione e
distruzione di cadavere (il corpo della sorella è stato carbonizzato e poi nascosto nel retro
dell’abitazione di famiglia); utilizzo indebito delle carte di credito di appartenenza della vittima; procurata incapacità di intendere e di volere del padre mediante somministrazione di
psicofarmaci contenenti promazepam14; tentato omicidio della madre mediante strangolamento con una cintura in pelle; tentato omicidio di entrambi i genitori inserendo uno straccio intriso di benzina nel tubo di scappamento dell’auto dei predetti genitori (tratto da Settimanale
di documentazione giuridica – www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com).
Entità della pena:
«Non resta, a questo punto, che determinare la pena che si ritiene congruo irrogare all’imputata
per avere commesso i fatti di reato appena descritti.
Non si ritiene di potere concedere all’imputata le attenuanti generiche perché la estrema gravità
dei fatti commessi e degli eventi provocati, l’intensità del dolo, la progressione delle condotte illecite
protrattesi per molti mesi, sono tutti elementi che non consentono di attenuare la sanzione che qui si
intende irrogare.
La diminuente per il vizio parziale di mente, riconosciuta sulla base delle considerazioni appena
esposte, viene valutata equivalente alle contestate aggravanti.
Può essere riconosciuto il vincolo della continuazione tra tutti i reati commessi perché tutti ricompresi, sin dall’inizio dell’esecuzione dell’omicidio della sorella, in un’unica progettazione delittuosa
quanto meno nei loro elementi essenziali, poiché sicuramente gli attentati alla vita anche dei genitori
(fortunatamente non arrivati a pieno compimento) fossero anch’essi parte di un unico progetto criminale.
La pena che si ritiene congruo irrogare, dunque, tenuto conto di tutti i criteri sopra richiamati di
cui all’art. 133 c.p. è di anni trenta di reclusione. …
In ragione del rito prescelto, la sanzione come sopra irrogata deve essere ridotta ad anni venti di
reclusione come prescritto dall’art. 442 c.p.p.» (ibidem).
I nuovi consulenti (Prof. Pietro Pietrini, genetista molecolare e psichiatra - Università di
Pisa e Prof. Giuseppe Sartori, psicologo e docente di neuroscienze cognitive - Università di
Padova), nominati dalla difesa dell’Albertani, dopo che le due precedenti perizie erano giunte
a conclusioni contrapposte e inconciliabili sullo stato mentale dell’imputata, sottoposero la
perizianda ad un approfondito esame
13
Principio attivo di farmaci con proprietà sedative e ansiolitiche, indicati nel trattamento a breve termine dell'ansia e
dell'insonnia.
Hanno
anche
altri
usi,
come
rilassanti
muscolari
e
antiepilettici
(http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=benzodiazepina).
14
Farmaco della famiglia delle benzodiazepine. Possiede proprietà ansiolitiche, anticonvulsivanti, ipnotiche e miorilassanti
(https://it.wikipedia.org/wiki/Bromazepam).
31
«attraverso i tradizionali colloqui clinici, la raccolta dell’anamnesi, la testistica neuropsicologica,
nonché, a completamento, gli accertamenti tecnici sulla struttura e la funzionalità cerebrale
dell’indagata e sul suo patrimonio genetico.
(…) In particolare è stata analizzata la morfologia dei lobi frontali deputati, tra le altre cose, al
controllo del comportamento e all’inibizione degli impulsi, al giudizio critico, al senso morale, alla discriminazione tra bene e male. (…) è emerso che la perizianda presenta delle differenze nella morfologia e nel volume delle strutture cerebrali prese in esame: in particolare sono emerse … alterazioni
nella densità della sostanza grigia, in alcune zone chiave del cervello, in particolare nel cingolo anteriore … un’area del cervello che ha la funzione di inibire il comportamento automatico e sostituirlo con
un altro comportamento e che è coinvolto anche nei processi che regolano la menzogna, oltre che nei
processi di suggestionabilità ed autosuggestionabilità e della regolazione delle azioni aggressive» (ibidem).
Il volume della materia grigia del cervello dell’Albertani era differente da quello del gruppo di controllo (dieci coetanee in buone condizioni di salute) nel giro cingolato anteriore e
nelle aree dell’insula coinvolte nel comportamento aggressivo (nature.com, 1.9.2011).
«All’esito di tali analisi (accertamenti genetici) è emerso che … possiede tre alleli sfavorevoli, ovvero alleli che conferiscono un significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo,
impulsivo»
(tratto
da
Settimanale
di
documentazione
giuridica
–
www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com).
Come precisato nella sentenza,
«Le informazioni scientifiche in tal modo ottenute consentono, dunque, di giungere ad un quadro
più preciso dell’eventuale infermità di mente dell’imputato ma non consentono certo di giustificare deterministicamente la causazione di un reato» (Guida al diritto, il sole-24 ore, numero 5, 28.01.2012).
In conclusione
«… Tutti i rilevati aspetti diagnostici hanno, quindi, condotto i consulenti, secondo un percorso logico che appare condivisibile, ad una diagnosi finale di “pseudologia fantastica in persona affetta da
disturbo dissociativo di identità”, una patologia composita in cui prende piede sia un quadro psichiatrico caratterizzato dalla menzogna patologica, a spiegazione del fatto che l’imputata mente spesso, anche inutilmente e crede nella verità delle sue fantasie (…), sia una sindrome dissociativa che
spiega come l’imputata a fronte di eventi stressanti agisca in modo automatico secondo modalità disadattive, aggressive - personalità alter – per poi tornare a regime normale – personalità ospite: con
la particolarità che l’elemento che fa trasformare la personalità dall’una all’altra, è il rischio che possa
essere lesa l’immagine di sé e che l’imputata non conserva il ricordo delle azioni realizzate nel corso
di queste fasi dissociative».
Quindi, «in tema di imputabilità non resta che ribadire in questa sede che l’imputata deve essere
considerata persona socialmente pericolosa ovvero persona a rischio di reiterazione di condotte
criminose violente … Per giurisprudenza costante la pericolosità sociale va intesa come modo
d’essere del soggetto da cui dedurrà la probabilità che egli commetta nuovi reati e deve essere desunta oltre che dalle condizioni psichiatriche del soggetto anche dalla gravità del reato commesso, dai
motivi che hanno indotto a delinquere e dalla personalità del reo stante l’espresso richiamo che l’art.
203 c.p. opera all’art. 133 c.p. » (ibidem)
32
5.5. Il caso della donna S.H.
Nel 2012, la Corte d'Appello di Leeuwarden (Paesi Bassi) ha affrontato il caso di una giovane donna, S.H., accusata di aver soffocato i suoi quattro figli appena nati, durante il parto o
subito dopo, coprendo il naso e la bocca dei piccoli con un cuscino. In seguito, ha occultato i
corpicini delle quattro vittime rinchiudendoli in piccole valige riposte nella soffitta della casa
dei suoi genitori. Inizialmente, hanno attribuito le cause di questa condotta criminale al contesto sociofamiliare. Il giudice di primo grado, infatti, ha condannato la donna a 12 anni di
reclusione per infanticidio adducendo la seguente motivazione: S.H. ha deciso di uccidere i
suoi figli per nascondere le sue gravidanze.
In Corte di Appello, l'imputata è stata esaminata da uno psichiatra, da uno psicologo e da
un neurologo comportamentale. Il collegio giudicante, nelle sue motivazioni, ha riportato parte delle conclusioni a cui sono giunti gli esperti che hanno esaminato il caso da un punto di
vista neurobiologico: è stato stabilito che la convenuta è affetta da un disturbo della personalità in comorbilità con un danno organico cerebrale, ovvero un disturbo frontale (Frontal Lobe Syndrome). Detto disturbo ha limitato, in misura considerevole, il ragionamento e le sue
capacità decisionali. Pertanto, gli esperti hanno ritenuto che la responsabilità della convenuta,
per i reati a lei ascritti, sia grandemente scemata. Inoltre, al fine di evitare una possibile recidiva è stato ritenuto necessario che l’imputata fosse sottoposta a trattamento obbligatorio con
verifiche di follow-up. La Corte d'Appello, sulla base delle considerazioni peritali ed in contrasto con il giudice di primo grado, oltre ad averne disposto il ricovero obbligatorio, ha condannato l’imputata alla pena detentiva di anni tre per omicidio colposo in danno dei quattro
neonati. Il ricovero può essere imposto a quei soggetti le cui condizioni psichiatriche sono tali
da far scemare (totalmente o parzialmente) la loro responsabilità penale per il reato a loro ascritto o nei casi in cui vengano ritenute persone socialmente pericolose (Kogel de C.H., Westgeest E.J.M.C., 2015).
Questo caso illustra come i danni alla corteccia frontale, in particolare al prefrontale, possono causare problemi nell’organizzazione e nella pianificazione nonché scarsa capacità decisionale e di autoriflessione. Queste disfunzionalità cognitive e comportamentali, associate ad
una “cecità affettiva” (appiattimento emotivo), opportunamente indagate da esperti, possono
essere di ausilio al giudice per valutare il grado di responsabilità penale di un imputato (capacità di intendere e di volere) e la pena che ritiene congruo irrogare.
5.6. James H. Fallon e il suo cervello
Analizziamo brevemente un caso riportato su BrainFactor il 26 luglio 2010 che vede protagonista il professor James H. Fallon, neuroscienziato americano, docente di psichiatria e del
comportamento umano presso l’Università di Medicina Irvine School della California. Da
anni Fallon tenta di comprendere le radici del male, ovvero di rintracciare cause, ragioni e
motivazioni neuroscientifiche alla base del comportamento criminale. Con le sue ricerche ha
posto in evidenza l’esistenza di una scarsa funzionalità in un’area dei lobi frontali e temporali
che spiegherebbe sia l’assenza di moralità che la difficoltà a contenere gli impulsi. I vari studi
condotti dal neuroscienziato statunitense sulle scansioni del cervello di decine di assassini
psicopatici lo condussero a queste conclusioni: rispetto a un cervello sano, i cervelli degli as-
33
sassini presentavano una ridotta attività nella corteccia orbitofrontale e in tutta l'amigdala aree che impediscono l'azione impulsiva e controllano il comportamento sociale, l'inibizione,
la morale e l'etica. Ed è proprio la mancanza di autocontrollo a far diventare gli psicopatici,
questi freddi ed abili calcolatori, dei folli assassini. “Queste sono alcune delle persone più pericolose che si possa immaginare”, afferma lo scienziato. “Avevano commesso atrocità nel
corso degli anni, che farebbero rabbrividire chiunque”.
Tuttavia, la strada della sua ricerca lo ha condotto ad una sorpresa: anche il suo cervello,
compiutamente scannerizzato, è risultato essere simile a quello di un serial killer. Il cervello di Fallon
presenta tutte le tipiche caratteristiche di uno psicopatico omicida. Questa scoperta incredibile avvenne
nel mese di ottobre del 2005, mentre lo scienziato
stava esaminando i test genetici e le scansioni cerebrali dei malati di Alzheimer, confrontandoli con un
gruppo di controllo costituito da partecipanti sani,
fra i quali c’era anche il suo e quello dei suoi familiari (moglie, figlio, fratello e due sorelle).
L’incredulità del ricercatore fu quella di aver notato
che tra le brain imagin del gruppo di controllo ve ne
era una “fuori posto”, ovvero quella di un soggetto
psicopatico. Come avviene da prassi, quando si
svolge uno studio, nessun nome era riportato su
quella scansione. Per risalire all’identità c’era un
codice.
Dopo aver attentamente esaminato le varie
Fallon J., 2013, p. 63
scansioni cerebrali dei soggetti psicopatici, che appartenevano ad un’altra ricerca, scoprì che quella incriminata era proprio la sua. Il suo cervello
presentava macchie scure di bassa attività nell’area appena dietro gli occhi, in quella zona
cruciale della corteccia orbitofrontale. “Le persone con bassa attività in quella zona del cervello sono sociopatici o criminali a ruota libera”.
Lo scienziato, di 66 anni, felicemente sposato e padre di tre figli, che conduceva un'esistenza esemplare, con una carriera di grande successo nel suo campo, dovette accettare l'evidenza.“Io sarei fondamentalmente una persona normale, tranne che per una cosa. Sono uno
psicopatico prosociale”. Ma questa è solo una parte della verità, poichè esaminando il DNA
della sua famiglia di origine Fallon scopre che dal punto di vista genetico solo lui è portatore
del cosiddetto “gene guerriero”, ovvero il gene MAOA, che è coinvolto, tra l’altro, nel metabolismo cerebrale della serotonina. Si ribadisce che il MAOA è deputato alla sintesi di numerosi neurotrasmettitori, implicati nel controllo degli impulsi, nell’attenzione ed in altre funzioni cognitive, includendo la dopamina, la norepinefrina e la serotonina. Le mutazioni del
gene, che codifica la sintesi dell’enzima MAOA, possono determinare una produzione deficitaria che influenza negativamente la normale funzionalità dei neurotrasmettitori, producendo
34
una serie di anomalie comportamentali (es., deficit dell’attenzione/iperattività, alcolismo, abuso di sostanze, impulsività ed altre condotte a rischio).
Indovinate un po’! Ogni membro della sua famiglia aveva una struttura genetica a “bassa
violenza”, tranne uno: il professor Fallon, se stesso. “Sono sicuro al 100 per cento – afferma ho un modello genetico ad alto rischio. In un certo senso, sono un assassino nato”.
Ma le scoperte non finiscono qui: sette dei suoi antenati avrebbero commesso degli omicidi.
Un giorno, mentre stavano preparando una grigliata, la madre ottantottenne si lasciò
sfuggire un oscuro segreto di famiglia. “Jim, perché non vai ad indagare fra i parenti di tuo
padre? Ci sono stati alcuni cuculi nel passato, cuculi abbastanza violenti, anzi troppo violenti”.
La strategia mafiosa del cuculo: punisce chi non accetta le sue regole
«Se esistessero leggi umane anche tra gli animali, il cuculo potrebbe essere accusato di estorsione.
Una specie particolare di questo uccello infatti, la "clamator glandarius" (cuculo dal ciuffo), viene definita da alcuni biologi evolutivi "mafiosa" perché si comporta con gli altri volatili proprio come gli affiliati
delle associazioni criminali che intimidiscono e usano la violenza per ottenere obiettivi illeciti.
La teoria dell'estorsione e il condizionamento operato dal cuculo nei confronti di altri pennuti sono
confermati da un modello matematico evolutivo realizzato dai ricercatori del Max Planck Institute for
Evolutionary Biology di Plön, in Germania. Questa specie di cuculo appartiene a un insieme di pennuti
che gli studiosi chiamano "parassiti", uccelli che non provvedono a nutrire i propri piccoli e non costruiscono il loro nido. Preferiscono deporre le loro uova di nascosto in quello di altri volatili come la
gazza ladra o la protonotaria citrina, un passeriforme dalle piume gialle e grigie. Se questi ultimi (ospiti) riconoscono l'uovo estraneo e lo gettano fuori, possono subire terribili conseguenze da chi, oltre ad
essere un parassita, è pure un 'mafioso': il cuculo dal ciuffo ed altre specie, come il vaccaro testabruna, possono infatti tornare a controllare dove hanno lasciato le uova e se non le ritrovano si vendicano devastando con il loro becco il nido dell'ospite e la sua intera covata»
(http://www.repubblica.it/scienze/2014/04/24/news/strategia_cuculo_mafioso-84338102/#galleryslider=84339045).
Tra i sette presunti assassini, vi è Lizzie Borden, o “cugina Lizzie”, che nel 1892 (Massachusetts), venne processata e assolta dall'accusa di aver ucciso il padre e la matrigna con
circa quaranta bastonate.
Il Professor Fallon, però, nonostante una predisposizione genetica e neurale di tipo psicopatico, non ha mai fatto male a una mosca.
Questa sua inclinazione, mai agita, ha modificato le sue convinzioni riguardanti il rapporto
esistente tra cervello e personalità. Prima di questa sorprendente verità, egli considerava determinante il ruolo della genetica nell’influire sul comportamento e sulla personalità
dell’individuo.
Ora, dopo questa scoperta, ritiene che un’amorevole accudimento parentale possa ovviare ad una predisposizione genetica e neurale che orienterebbe un individuo ad un agire malvagio. Secondo lo scienziato, l'amore dei suoi genitori (definito da Adrian Raine fattore protettivo), a quanto pare, lo avrebbe salvato da una vita criminale e lo avrebbe guidato verso
una carriera di grande successo.
35
A proposito dei fattori protettivi, Raine (2013) rappresenta se stesso quale possibile candidato ad un comportamento antisociale (bassa frequenza cardiaca a riposo, malnutrizione
nell’infanzia, tratti antisociali adolescenziali, scansione cerebrale simile ad un serial killer) se
non vi fossero stati dei fattori protettivi come, ad esempio, una famiglia amorevole, accudente
e stabile.
Fallon conclude: “Non siamo semplicemente il prodotto della biologia. La scienza ci può
dire solo una parte della nostra storia. I nostri geni, quindi, non determinano il nostro destino,
e non hanno il potere di orientarci in una certa direzione. E’ consolante che il male può essere
sconfitto da una più grande influenza - l'amore di un genitore”15.
Inoltre, aggiunge Raine (2013):
«Non possiamo utilizzare il brainimaging come se fosse uno strumento altamente tecnologico in
grado di capire chi è un serial killer, chi ammazzerà una persona e basta, ecc. Allo stesso tempo, però, stiamo cominciando a raccogliere importanti indizi sulle regioni del cervello che, in caso di malfunzionamento, possono causare violenza».
5.6.1. Psicopatia: brevi cenni
Malgrado i difetti della letteratura sulla personalità esiste un campo che si è dimostrato
promettente per quanto riguarda l’identificazione delle più importanti caratteristiche di personalità degli aggressori. Questo settore di studi è quello della personalità psicopatica. La psicopatia è un costrutto di matrice clinica che contempla una varietà di caratteristiche interpersonali, affettive e di stile di vita (Cleckley, 1976; Hare, 1999).
Dal punto di vista interpersonale, gli psicopatici sono “grandiosi, arroganti, insensibili,
dominanti, superficiali e manipolativi”. In termini affettivi, sono “irascibili, incapaci di creare
forti legami affettivi e di provare senso di colpa e ansia”. Il loro stile di vita è socialmente deviante, tanto che gli psicopatici tendono ad ignorare le convenzioni sociali e a mettere in atto
comportamenti impulsivi e irresponsabili. Anche se non tutti gli psicopatici sono criminali, la
costellazione dei tratti, tipica della psicopatia, è certamente “nota al sistema giudiziario”. La
psicopatia è, inoltre, un forte predittore di recidività sia di reati a sfondo sessuale sia di comportamenti violenti, specialmente se accompagnata da eccitazione sessuale deviante. Inoltre,
una psicopatia, che si accompagna a eccitamento sessuale deviante, sembra predire non solo
un aumento di recidive ma anche una maggiore rapidità nel metterle in atto.
Vale la pena rammentare che la psicopatia, al pari di altri tipi di disordini comportamentali (antisocialità, narcisismo maligno, sadismo sessuale, necrofilia, ecc.), viene associata alle
condotte di maggiore gravità (Crime Classification Manual, Tabella 4.2 – Diagnosi legate ad
azioni criminali depravate).
Per quanto si possa essere “addestrati” a riconoscere uno psicopatico, incontrarne uno
“faccia a faccia” è sempre inquietante. Il suo modo apparentemente socievole di porsi e, allo
15
http://www.dailymail.co.uk/news/article-2514670/Scientist-James-Fallon-hes-brain-psychopath-related-Lizzie-Borden.html.
36
stesso tempo, quel suo sguardo indifferente e distante da ciò che lo circonda è abbastanza
sconcertante. Non per niente una delle caratteristiche più sconvolgenti di uno psicopatico è
proprio la sua incapacità di porsi in sintonia con l’altro (mancanza di empatia), che è espressione di una tonalità emotivo-affettivo-sentimentale scarsamente sviluppata se non addirittura
inesistente. Non prova emozioni per cui mentire, manipolare e usare l’altro a proprio beneficio lo lascia totalmente indifferente (mancanza di scrupoli e di senso di colpa).
La freddezza emotiva (assenza di ansia, di vergogna, di colpa, di imbarazzo), unitamente
ad una intelligenza tecnica inalterata, consente ad uno psicopatico di nascondersi dietro un fascino accattivante. Proprio questa sembianza di normalità - la cosiddetta maschera di sanità
mentale – lo rende particolarmente pericoloso perché è in grado di porsi come l’altro vuole
che esso sia e, prima che venga scoperto, può essere troppo tardi. Benché colpevole di condotte distruttive e violente, non mostra chiare manifestazioni psicopatologiche (es., allucinazioni, deliri, stato confusionale) ed il suo agire rifletterebbe il suo modo di pensare (forma
mentis o mens rea). Sa distinguere il bene dal male (capacità di intendere e di volere), sceglie
consapevolmente di fare del male (stile di vita) e il suo comportamento criminale persisterà
per tutta la vita.
Ma se è quasi impossibile immaginare uno psicopatico non criminale è altrettanto impensabile definire psicopatici tutti i criminali. Infatti, numerose ricerche, condotte nei penitenziari statunitensi, hanno rilevato che la percentuale di psicopatici criminali detenuti non supera il
35% (percentuale che oscilla tra il 15% e il 35%) dell’intera popolazione carceraria (Kiehl
K.A. e Buckholtz J.W., 2010). Questo sta a significare che la restante percentuale di criminali
è composta da tipologie diverse da quella degli psicopatici (es., paranoidi, psicotici, alcolisti,
tossicodipendenti, emarginati sociali e individui che hanno sviluppato, nel tempo, una mentalità delinquenziale).
5.7. Considerazioni conclusive
E’ bene ribadire che i risultati di tutte le ricerche in genetica comportamentale non devono essere letti come l’incontrovertibile dimostrazione che è dai geni - o dalle loro alterazioni che dipende in toto il comportamento umano. Il comportamento, come più volte sottolineato
nei nostri precedenti lavori (Il Crimine sessuale tra disfunzioni e perversioni, lo stalker ovvero il persecutore in agguato, Vittime di un amore criminale – storie di ordinaria violenza), è
il prodotto dell’interazione sinergica di una molteplicità di fattori, siano essi genetici che ambientali (multicausalità). È per questo motivo che è preferibile parlare di vulnerabilità e non
di causazione genetica. Infatti, l’individuo, portatore di una particolare variazione allelica,
come ad esempio il polimorfismo, responsabile della bassa attivazione della MAOA, non può
(e non deve) essere pregiudizievolmente considerato socialmente pericoloso.
In proposito Pietrini fa osservare che:
«Questi studi indicano come alterazioni di una funzione così complessa e multiforme, quale è
appunto il comportamento, che richiede l’integrazione di fattori cognitivi, emotivi, morali e sociali, non
possono essere meramente attribuite alla variazione di un singolo gene. Un’assunzione di questo tipo, oltre ad essere scientificamente infondata, potrebbe avere serie implicazioni anche dal punto di
vista della responsabilità individuale e dell’imputabilità dell’individuo. Risulta invece evidente come e-
37
sista una vulnerabilità genetica che può rendere un individuo più suscettibile all’effetto di fattori ambientali negativi» (Pietrini in De Cataldo Neuburger, 2007, pag. 331).
6. Ormoni e neurotrasmettitori
Osservare il comportamento degli adolescenti lascia facilmente dedurre che gli ormoni
giocano, in questi soggetti, un significativo ruolo nella condotta sociale. Per esempio, la dominanza (la dominanza è una motivazione di tratto che guida un’ampia varietà di azioni,
mentre l’aggressività è una condotta finalizzata) può avere un potente impatto sul comportamento e sul funzionamento sociale ed essere meglio compresa grazie al livello di concentrazione del testosterone (van Honk, Schutteer, Herman e Putman, 2004).
L’importanza del testosterone e del cortisolo (ormoni steroidei) è stata ampiamente approfondita in merito alla relazione di questi due ormoni con il comportamento antisociale. Le
anomalie dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), che regola il rilascio del cortisolo in risposta ad una condizione di stress, sono state ripetutamente indagate negli antisociali. Recenti
studi suggeriscono che l’associazione tra livelli di cortisolo e antisocialità può variare in relazione al tipo di comportamento antisociale, al modello di apprendimento e a forme di maltrattamento subite nell’infanzia (condizioni ambientali familiari avverse); in particolare, la
trascuratezza fisica ed emozionale (assenza di accudimento = mancanza di modellamento
comportamentale) la si riscontra maggiormente nei soggetti che presentano una personalità
antisociale. I risultati indicano l’esistenza di due precoci modalità di comportamento antisociale in relazione alla presenza o meno dei tratti di insensibilità/freddezza emotiva (es., limitata empatia, scarso senso di colpa, emozionalità ristretta). Si ipotizza che la negligenza (trascuratezza fisica ed emozionale), subita nella prima infanzia, possa costituire un fattore determinante nello sviluppo di un persistente comportamento antisociale in bambini che presentano moderati tratti di insensibilità/freddezza emotiva e iperattività dell’asse HPA. Di contro,
tratti elevati di insensibilità/freddezza emotiva, combinati con una ipoattività dell’asse HPA,
caratterizzano un particolare gruppo di bambini che svilupperà un comportamento antisociale, talvolta, indipendentemente dalla presenza di una condizione familiare avversa. É bene
precisare che dette caratteristiche, considerate inizialmente precursori del tratto distintivo
(temperamento) della psicopatia, possono condurre allo sviluppo di un comportamento antisociale diverso da quel tipo di antisocialità maggiormente associata ad un temperamento emozionalmente disregolato/iperreattivo. I bambini che mostrano comportamenti antisociali,
con tratti di insensibilità/freddezza emotiva, presentano un modello comportamentale antisociale particolarmente grave e persistente che, con molta probabilità, condurrà a forme di aggressione strumentale/proattiva (pianificate al fine di ottenere un vantaggio personale, materiale o economico) e reattiva (impulsiva, non programmata, in risposta ad uno stimolo reale o
supposto tale). È opportuno sottolineare che alcuni recenti studi hanno suggerito che bassi livelli di cortisolo possono fungere da rivelatore (marcatore biologico) della presenza di un
comportamento antisociale nel sottogruppo di persone con tratti di insensibilità/freddezza
emotiva.
Lo stress psicologico, vissuto in diverse fasi dello sviluppo, può produrre cambiamenti duraturi nel funzionamento dell’asse HPA e predisporre, quindi, un individuo ad un comporta-
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mento antisociale. Bassi livelli di cortisolo nell'infanzia potrebbero essere predittivi di un
comportamento aggressivo nell’adolescenza. A tal proposito, uno studio condotto da McBurnett et al. (2000) ha esaminato il rapporto tra basso livello di cortisolo salivare e persistente
aggressività in ragazzi, che dopo due anni di follow-up (verifiche a distanza), hanno manifestato condotte distruttive.
Oltre al cortisolo, l'aumento del livello del testosterone è stato frequentemente associato
allo sviluppo del comportamento aggressivo negli adulti (triade dominio, potere e controllo).
Peterson C.K. e Harmon-Jones E. (2012), con una loro recente ricerca, hanno voluto esplorare la relazione esistente tra testosterone ed esperienza soggettiva della rabbia. Per validare tale ipotesi, i livelli di testosterone e di cortisolo salivare sono stati misurati prima e dopo un
esperimento di induzione dello stato di rabbia. In linea con l’ipotesi iniziale, formulata dai ricercatori, la rabbia è stata associata ad un incremento dell’ormone testosterone, ma non del
cortisolo. Ciò ha rappresentato un primo risultato che ha posto in evidenza il legame tra esperienza emotiva soggettiva e cambiamento nei livelli di tale ormone (testosterone). Le normali
concentrazioni endogene del testosterone e del cortisolo (livelli ormonali di base), misurate
alla stessa ora del giorno, sono sostanzialmente stabili per diverse settimane (Liening, Stanton, Saini, & Schultheiss, 2010). La stabilità dei profili ormonali può essere considerata una
delle dimensioni costituzionali, ovvero temperamentali, su cui si sviluppa una personalità; ciò
spiegherebbe, in parte, le differenze individuali nell’aggressività, nella dominanza o nella sottomissione (Newman & Josephs, 2009; Sellers, Mehl, & Josephs, 2007). Ad esempio, la costante elevazione del livello di testosterone, combinata con la persistente riduzione della concentrazione di cortisolo, è stata considerata un indicatore di attivazione comportamentale, tipica dell’estroverso (es., ostinazione, ricerca del piacere, ribellione, scarsa tolleranza alla noia
e alla monotonia, tendenza alla dominanza, scarso senso di responsabilità, difficoltà ad apprendere dalle esperienze). Dobbiamo considerare che dette concentrazioni, particolarmente
sensibili all’influenza delle esperienze ambientali quotidiane, subiscono delle fluttuazioni che
si traducono in stati umorali transitori (di stato o situazionali).
Si rammenta che il testosterone, ormone steroideo secreto dall’asse ipotalamo-ipofisigonadi, può favorire nel maschio (sensibilizzazione androgena) comportamenti aggressivi e
di dominanza. Poiché un giovane maschio, rispetto ad una giovane donna, è più incline ad agire con impulsività e veemenza (Archer, 2004), e poiché i livelli di testosterone endogeno
raggiungono un livello massimo all’età di 30 anni, detto ormone androgeno può essere considerato uno dei fattori di rischio per la messa in atto di condotte aggressive in età adulta. Infatti, ricerche condotte su offender violenti e adolescenti delinquenti suggeriscono che la concentrazione endogena del testosterone presenta una forte correlazione positiva con la violenza
agita dai maschi che presentano bassi livelli di cortisolo.
Una ricerca, condotta da Thomas Denson et al. (2012), ha inteso validare l’ipotesi che i livelli di testosterone e di cortisolo dovrebbero interagire, in maniera del tutto simile, con
l’attivazione di specifiche aree neurali che sono coinvolte nel processo di autoregolazione
della rabbia in risposta ad una provocazione. A tale scopo, ai diciannove partecipanti, maschi
asiatici in buone condizioni di salute, veniva chiesto, dopo essere stati insultati, di controllare
la loro rabbia durante la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Risultò che, quando i livelli
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di cortisolo erano bassi, il testosterone si correlava positivamente con l’attivazione della corteccia prefrontale dorso laterale (processo di autoregolazione, incluso attenzione e flessibilità
cognitiva; può essere connessa, tuttavia, ai tratti antisociali di impulsività e di scarso controllo comportamentale) e del talamo (area intermedia tra la regione limbica emozionale e quella
corticale di controllo), ma lo stesso risultato non veniva confermato nel caso in cui i livelli di
cortisolo erano alti. Recenti teorie e dati provenienti da ricerche supportano l’ipotesi del dualismo ormonale, ovvero che l’effetto del testosterone sull’aggressività viene modulato dalle
concentrazioni di un altro ormone: il cortisolo (Dabbs, Jurkovic e Frady, 1991; Popma et al.,
2007). Si ribadisce che il testosterone, ormone steroideo secreto dall’asse ipotalamo-ipofisigonadi (HPG), è coinvolto nell’aggressività e nella dominanza (Eisenegger et al., 2011). Di
contro, il cortisolo, ormone glucocorticoide, viene secreto dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene
(HPA) in risposta allo stress. Il cortisolo è stato associato ad un comportamento sottomesso,
alla dipendenza emotiva, all’inibizione comportamentale e a bassi livelli di aggressività (van
de Wiel et al., 2004; Oosterlaan et al., 2005; Denson et al., 2009). Il cortisolo, inoltre, attenua
gli effetti del testosterone sul comportamento riducendo l’attività dell’asse HPG e bloccando i
recettori androgeni nella corteccia prefrontale (Tilbrook, Turner e Clark, 2000. Perciò, in accordo con l’ipotesi del dualismo ormonale, gli effetti del testosterone sull’aggressività negli
esseri umani viene modulato dal cortisolo, ovvero il testosterone è associato positivamente
con l’aggressività solo quando le concentrazioni di cortisolo sono basse. Due studi supportano tale ipotesi. Nel 1991, Dabbs et al. hanno riscontrato che il testosterone endogeno si correlava positivamente con la gravità della violenza fra gli offender adolescenti maschi solo
quando il cortisolo era basso. Successivamente, Popma et al., (2007) hanno confermato la
medesima reciprocità interattiva (dualismo ormonale) che metteva in evidenza il ruolo del testosterone con l’aggressività impulsiva in adolescenti maschi delinquenti, in presenza di un
basso livello di cortisolo.
Dunque, riprendendo lo studio di Denson et al., si sottolinea che durante il controllo dello
stato di rabbia indotto, la connettività cerebrale funzionale (ricezione e trasmissione degli impulsi) era più alta nei circuiti neurali, deputati alla regolazione emozionale, che collega amigdala (valutazione degli stimoli sensoriali e generazione di reazioni emotive) e regione corticale prefrontale. Inoltre, la connettività amigdala-PFC (corteccia prefrontale) era più forte fra i
partecipanti che presentavano alti livelli di testosterone e bassi livelli di cortisolo. Questa ricerca fornisce un importante contributo sui possibili meccanismi neurali mediante i quali il
testosterone ed il cortisolo possono influenzare il controllo della rabbia. In uno studio prospettico, condotto su 208 ragazzi, provenienti da quartieri disagiati, gli studiosi Tarter et al.
(2009) hanno voluto esplorare il ruolo predittivo del livello del testosterone per lo sviluppo
del disturbo da abuso di cannabis. I ricercatori hanno ipotizzato che un alto livello di testosterone, correlato a circostanze ambientali avverse (es., quartiere delinquenziale, competitivo),
potenzia lo sviluppo di comportamenti antisociali che predispongono al consumo di cannabis
e, successivamente, alla diagnosi del disturbo da abuso di detta sostanza. Inoltre, un alto livello di tale ormone, all’età di 10-12 anni, potrebbe essere predittivo dello sviluppo di un comportamento aggressivo all’età di 12-14 anni, della tendenza a violare le norme sociali all’età
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di 16 anni, dell’uso di cannabis all’età di 19 anni e della diagnosi di un disturbo da abuso di
sostanza all’età di 22 anni.
É importante sottolineare che attualmente le determinanti biologiche ed ambientali del
controllo della rabbia sono divenute tematiche di interesse e di approfondimento per scienziati, professionisti della salute mentale e legislatori, anche se non si ha una chiara conoscenza
dei sottostanti meccanismi neurali ed ormonali. Inoltre, gli ormoni influenzano il comportamento, subendo a loro volta le influenze del comportamento medesimo e dei fattori ambientali; ormoni, comportamento ed ambiente si influenzano reciprocamente (Mazur e Booth,
1998). Per maggior chiarezza, gli ormoni influenzano il comportamento, il comportamento
influenza l’ambiente, i cambiamenti dell’ambiente causano temporanee fluttuazioni nei livelli
ormonali in circolo e queste temporanee fluttuazioni, a loro volta, influenzano ulteriormente
il comportamento, e così via.
In riferimento all’aggressività ed al comportamento violento, oltre ai fattori genetici e ormonali, meritano particolare attenzione i neurotrasmettitori (o mediatori chimici) fra i quali la
serotonina (uno dei più potenti modulatori corporei dell’umore, dell’appetito, del sonno e della percezione della sofferenza, con elevato effetto sul cervello) e la dopamina (controllo delle
funzioni cognitive - es., attenzione, memoria e apprendimento - e motorie).
Molte ricerche hanno esplorato la funzionalità serotoninergica nell’interazione sociale violenta sia negli animali (dal 1960) che negli esseri umani (dalla fine del 1970). La maggior
parte di questi studi indicano una relazione inversa tra il livello di serotonina (5-HT) e
l’aggressività, in particolare per quella impulsiva o reattiva nelle diverse specie, anche se i risultati non sono ancora chiari per gli esseri umani. Attualmente si sta cercando di fare più luce sull’impatto dei sottostanti meccanismi serotoninergici nell’aggressività reattiva. L'influenza della serotonina è stata studiata in relazione al suo ruolo nell’inibizione degli impulsi,
nella regolazione emozionale e nel funzionamento sociale (dimensioni dell’aggressività). Infatti, un basso livello di serotonina, nel liquido cerebrospinale, può fungere da rivelatore
(marcatore biologico) particolarmente significativo di una possibile condotta impulsiva ed
aggressiva. Inoltre, in uno studio sperimentale si è osservato che i bassi livelli di serotonina
nel cervello producono una riduzione del funzionamento della corteccia orbito-frontale (apprendimento da ricompense e punizioni, flessibilità comportamentale, controllo degli impulsi,
processi decisionali emotivi e sociali) durante la prestazione di un compito di inibizione motoria. Si precisa che la corteccia orbito-frontale, fra le diverse aree della corteccia frontale
(prefrontale dorso laterale, frontale interna), riveste un ruolo particolarmente importante nella
pianificazione e nella regolazione del comportamento in generale (motor level); la sua ridotta
funzionalità è associata a disturbi del controllo emotivo (es., instabilità dell’umore) e comportamentale (es., ostinazione, impulsività, iperattività, ipersessualità, oppositività). In breve,
«meno serotonina si ha, più è facile essere scontrosi… mescoliamo un basso livello di serotonina
a una situazione sociale irritante…e la miccia si accende in un attimo» (Raine A., 2013, pag. 67)
A proposito della dopamina (DA), importante modulatore chimico della funzionalità neurale (Depue e Collins, 1999; Blum et al., 2000; Gray e McNaughton, 2003; Van Gaalen et al.,
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2006; Patrick et al., 2009), è stata osservata una iperproduzione del predetto mediatore in adolescenti, cresciuti in un ambiente familiare violento, che presentano seri disturbi della condotta (Galvin et al., 1991; 1995; 1997; Gabel et al., 1993). Stessa considerazione viene fatta
per persone che esibiscono condotte antisociali, le quali evidenzierebbero un elevato rilascio
(produzione), sino a quattro volte superiore alla norma, di tale neurotrasmettitore (Chambers
et al, 2003; Solanto, 1998). E’ noto che i circuiti dopaminergici rappresentano i principali
neurotrasmettitori del cervello emotivo ed, in particolare, dei processi emozionali del piacere
e della ricompensa. Infatti, la gravità di un disturbo della condotta sembra essere riconducibile ad una disinibizione del sistema di ricompensa, che normalmente si attiva nel momento in
cui una persona persegue un obiettivo e soddisfa un bisogno. Questo si estrinseca, a livello
metabolico encefalico (reazioni chimiche cerebrali), in incremento di specifici neurotrasmettitori responsabili delle sensazioni soggettive di piacere (dopamina) o dell’attenuazione di
stimoli dolorifici (serotonina). Ne consegue che il cervello delle persone, che presentano alti
livelli di dopamina, ricerca il piacere ad ogni costo (es., psicopatia, abuso di droghe o di alcol), senza considerarne le conseguenze. Pertanto, i comportamenti ad alto rischio, per questi
soggetti, non sono solo eccitanti ma possono rappresentare una “droga irrinunciabile”.
In sintesi, i predetti modulatori chimici (serotonina e dopamina), così come tutti i neurotrasmettitori, vengono regolati da molti geni responsabili della loro sintesi, del loro trasporto,
della loro ricezione e del loro riassorbimento. L’alterazione del livello di tali modulatori produrrebbe un cambiamento cognitivo, emotivo e comportamentale, ed i geni, che condizionano
la funzionalità neurotrasmettitoriale, potrebbero predisporre allo sviluppo di pensieri, stati
emotivi e comportamenti aggressivi. Tuttavia, la vulnerabilità al comportamento aggressivo
sembra accentuarsi in presenza di condizioni ambientali stressanti (Caspi et al. 2002).
Un caso esemplificativo dello sbilanciamento biochimico dei livelli neurotrasmettitoriali
serotoninergici e dopaminergici è quello del quarantunenne James J. Filiaggi, condannato alla
pena capitale il 10.08.1995 (giustiziato il 24.04.2007, mediante iniezione letale) per
l’omicidio della ex moglie Lisa Huff di anni 27 avvenuto nel 1994.
«James Filiaggi aveva da sempre mostrato un temperamento
piuttosto irritabile (da bambino staccò con un morso un pezzo di
dito di suo fratello Tony ed un brandello di mano ad
un’insegnante) pur essendo un ragazzo molto intelligente e studioso. Laureatosi con il massimo dei voti fece carriera nel mondo
della finanza.
Nel dicembre del 1991 Filiaggi e Lisa Huff si sposarono ed
ebbero due bambine, Alexis e Jasmine. Nell’agosto del 1992, la
coniuge chiese il divorzio che venne ufficializzato nel febbraio del
1993. Lisa Huff ebbe la custodia delle minori, mentre Filiaggi ottenne il diritto di visita e fu obbligato a versare un contributo per il
mantenimento delle figlie. I rapporti tra i due divennero sempre
più burrascosi. Nella primavera del 1993, Lisa Huff, con le due
figlie, si trasferì nell’appartamento del suo nuovo compagno Eric
Beiswenger (Lorain - Ohio). La coppia ben presto divenne oggetto di ripetute molestie telefoniche, di atti vandalici e di aggressioni verbali e fisiche da parte del Filiaggi, il tutto debitamente regitsrato dalla Huff.
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Una notte Filiaggi, fatta irruzione nell’abitazione della sua ex e dopo un’accesa e violenta discussione, le sparò alla testa uccidendola.
I consulenti della difesa, per evitare a James la pena di morte, cercarono di dimostrare la non colpevolezza per infermità mentale, poichè “al momento della commissione del reato, non era consapevole dell’illeicità dei suoi atti, come risultato di una malattia mentale grave o di un difetto” (State v.
Brown, 1983, 5 Ohio St.3d 133, 5 OBR 266, 449 N.E.2d 449).
I quattro periti della difesa (Marc R. Pagano, psicologo clinico; Alexander J. Bodkin, Paul J. Markovitz e Emil F. Coccaro, psichiatri) erano concordi nel ritenere il Filiaggi non in grado di intendere e
volere, al momento della commissione del crimine, in quanto affetto da un disturbo esplosivo intermittente e da un disturbo bipolare. Ciò che fece scalpore fu la testimonianza resa dal perito di parte Dr.
Coccaro, eminente studioso nel campo dei neurotrasmettitori, che, nell’esaminare i referti medici e gli
esami biochimici, concluse che l’imputato presentava uno squilibrio, ovvero bassi livelli di serotonina
ed alti livelli di dopamina, che lo avrebbe indotto, la sera dell’omicidio, a reagire con incontrollata vio16
lenza nei confronti della donna ».
«L’aggressione impulsiva (o reattiva), che assume un ruolo critico nei comportamenti violenti e che
viene considerata una delle significative manifestazioni psicopatologiche di numerosi disturbi mentali
quali il borderline e l’antisociale di personalità (Coccaro e Siever, 2000; Linnoila & Virkkunen, 1992), è
prodotta da una scarsa regolazione degli impulsi aggressivi ed è in comorbidità con altri disturbi mentali tra cui la depressione, il comportamento suicida e l’abuso di sostanze (disturbo esplosivo intermittente).
Il disturbo esplosivo intermittente è un serio disordine del controllo degli impulsi che crea problemi
nel modulare le emozioni e gli impulsi aggressivi, che si traducono in accessi comportamentali ricorrenti (aggressione verbale o fisica verso proprietà, animali o altre persone) ed esagerati rispetto alla
provocazione o a qualsiasi fattore psicosociale stressante precipitante, che inducono un individuo a
violare le norme sociali e gli altrui diritti. Le ricorrenti esplosioni di aggressività non sono premeditate
(cioè sono impulsive e/o generate dalla rabbia) e non hanno lo scopo di raggiungere qualche obiettivo
concreto (es., denaro, potere, intimidazione) (DSM-5, 2013).
La revisione dei più rilevanti studi di biochimica, di imaging cerebrale e di genetica indicano che le
interazioni disfunzionali tra i sistemi serotoninergici e dopaminergici, nella corteccia prefrontale, possono rappresentare un importante meccanismo alla base del legame tra aggressività impulsiva e i
suoi disturbi in comorbidità. In particolare, l’ipofunzione serotoninergica, combinata con un’alta funzionalità dopaminergica, può rappresentare una caratteristica biochimica che predispone un individuo
ad un’aggressione impulsiva (non pianificata e non premeditata). Detta iperfunzionalità della dopamina contribuisce, in maniera additiva, al deficit serotoninergico. Questa disposizione impulsiva sottostante si può manifestare in aggressività comportamentale auto ed etero diretta in presenza di eventi
stressanti precipitanti. L'abuso di sostanze, associate con l'aggressività impulsiva, viene intesa nel
contesto della disregolazione della dopamina, derivante da carenza di serotonina» (Dongju S., Christopher J. P., Patrick J. K., 2008, Coccaro EF, 2011; 2012, Raine A., 2013) «Inoltre, la maggior parte
dei dati, provenienti dagli studi sui danni cerebrali e sulle neuroimmagini strutturali e funzionali, indicano che un comportamento aggressivo reattivo viene regolato da aree cerebrali frontolimbiche, ed in
particolare dalla corteccia orbito frontale (OFC), corteccia prefrontale ventromediale (mPFC), amigdala e ippocampo. Pertanto, gli individui con aggressività impulsiva, con diagnosti di Disturbo esplosivo
intermittente, mostrano un ridotto volume della materia grigia proprio nelle strutture frontolimbiche sopraelencate» (Coccaro E.F., Fitzgerald D.A., Michael McCloskey R.L., e Luan Phan K., 2016).
16
THE STATE OF OHIO, APPELLEE, v. FILIAGGI, APPELLANT. [Cite as State v. Filiaggi (1999), 86 Ohio St.3d 230.]
Criminal law — Aggravated murder — Death penalty upheld, when — Verdicts on noncapital offenses reversed and cause
remanded to three-judge trial panel when only presiding judge entered the verdicts. (No. 98-287 — Submitted April 13, 1999
— Decided July 29, 1999). APPEAL from the Court of Appeals for Lorain County, No. 95CA006240.
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7. Influenze prenatali e perinatali
Le determinanti biologiche possono influenzare la propensione di un individuo a sviluppare un comportamento violento in adolescenza o in età adulta? La “specializzazione criminale”, ovvero la tendenza a commettere lo stesso tipo di reato nelle successive azioni criminali
(Wolfgang M. et al., 1972), viene messa in relazione con i fattori congeniti (caratteristiche ereditarie e fattori perinatali, quali ad esempio dieta inappropriata, assunzione di droghe e alcol, comportamenti dannosi per la gestante ed il proprio feto) per valutare l’incidenza di detti
fattori su tale predisposizione. Va precisato che se i fattori perinatali non sono cosi gravi, da
produrre serie malformazioni fetali, potrebbero non venire all’attenzione dei ricercatori. Viceversa, le severe cause perinatali, che possono causare al feto gravi malformazioni o morte,
sono oggetto di indagine da parte degli studiosi. Queste anomalie sono state messe in relazione con patologie gravidiche (malattie preesistenti alla gravidanza, o che insorgono accidentalmente durante la gravidanza come, ad esempio, la nefropatia, o che compaiono esclusivamente in gravidanza come, ad esempio, la preeclampsia, nota anche come gestosi, caratterizzata dalla presenza, singola o in associazione, di segni clinici quali edema, proteinuria o ipertensione). In breve, le embriofetopatie sono un gruppo di anomalie congenite che si manifestano non per cause intrinseche (genetiche), ma per ragioni estrinseche (ambientali) durante
lo sviluppo del feto. Le alterazioni possono avvenire durante lo sviluppo dell'embrione (5ª10ª settimana), durante l'organogenesi (fase dello sviluppo embrionale durante la quale si
formano i tessuti e gli organi definitivi e si determina l’accrescimento del corpo
dell’embrione) o ancora in momenti successivi. Le anomalie (comunemente dette "malformazioni") possono essere anatomiche, funzionali, o spesso anatomo-funzionali (es., difetti di
sviluppo del sistema nervoso). Le cause possono essere: biologiche (danno causato da microrganismi patogeni quali virus, batteri, funghi e parassiti), metaboliche (es., diabete), nutrizionali (denutrizione o malnutrizione), chimiche (farmaci, sostanze quali droghe o alcol, ambientali quali solventi o metalli pesanti) e fisiche (es., radiazioni). Come afferma Raine
(2013)
«[...] nel periodo perinatale o neonatale possono verificarsi molti eventi che influenzerebbero la salute e che potrebbero spiegare la violenza [...] Complicazioni alla nascita, interruzione dello sviluppo
cerebrale del feto, esposizione al fumo e all’alcol rappresentano elementi significativi nella genesi della violenza. Inoltre, questi segni, pur avendo una matrice biologica sono essenzialmente processi ambientali - non genetici».
Le minori anomalie fisiche, sottolinea Raine (2013), richiamerebbero alla memoria le note
stigmate ataviche di Lombroso, delle quali almeno tre (singola piega palmare, maggiore distanza dell’alluce dal secondo dito del piede, linea mediana della lingua più marcata) potrebbero essere individuate in un soggetto con comportamenti antisociali («mark of Cain – o
marchio di Caino»).
Anche il sistema nervoso centrale può essere influenzato dai fattori responsabili delle lievi
anomalie fisiche poiché il suo sviluppo è concomitante con lo sviluppo degli organi che presentano tali anomalie. Poiché i deficit neurologici sono noti per essere associati con problemi
comportamentali (Moffitt T.E., 1990), le lievi anomalie fisiche possono rispecchiare i fattori
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di rischio del sistema nervoso centrale per lo sviluppo di un disturbo comportamentale. Diversi studi hanno dimostrato la presenza di un buon numero di minori anomalie fisiche in
soggetti con diagnosi psichiatriche quali la schizofrenia (Green M.F. et al., 1994), l’autismo
(Walker H.A., 1977), l’iperattività (Fogel C.A. et al., 1985; Rapoport J.L. et al., 1974) e in
soggetti con comportamenti aggressivi (Kandel E. et al., 1989).
Tuttavia, le minori anomalie fisiche (MPAs) da sole non sono sufficienti nel predire adeguatamente una delinquenzialità futura. Infatti, in accordo con i modelli biosociali dello sviluppo psicopatologico, una chiara predizione del rischio potrebbe essere trovata guardando
alle MPA in combinazione con i fattori ambientali (Raine A. et al., 1998). In proposito, tre
studi hanno posto in evidenza che gli effetti di un ambiente psicosociale deprivato influenzerebbero il legame tra presenza di minori anomalie fisiche e sviluppo di un disturbo comportamentale (Mednick S.A. e Kandel E., 1988; Sandberg S. T. et al., 1979). In sintesi, i fattori
genetici e biologici interagiscono con i fattori sociali avversi nel predisporre un individuo a
future azioni criminali (Raine A., 1998).
Anche le complicazioni neonatali, in associazione con un ambiente familiare avverso quale può essere il rifiuto materno, rappresenterebbero una utile chiave biosociale che può aiutare a comprendere meglio le cause della violenza. Prendiamo ad esempio un blue baby (bambino dal colorito cianotico alla nascita) che ha sofferto di una complicazione alla nascita definita ipossia, ovvero parziale assenza di ossigeno. Il nostro cervello necessita di ossigeno per
metabolizzare il glucosio essenziale per fornire energia alle cellule cerebrali. Senza ossigeno
le cellule cerebrali inizieranno a morire in pochi minuti. Particolarmente sensibile a questo
processo degenerativo è l’ippocampo, una parte del cervello centralmente coinvolta in abilità
spaziali così come nella memoria a breve termine. Dette capacità risulterebbero deficitarie in
coloro che persistono nelle loro azioni criminali (Raine A. et al. 2005). L’ipossia alla nascita
è stata considerata, in uno studio, il miglior predittore dell’assenza di autocontrollo, un fattore
di rischio comportamentale chiave per il crimine ed in particolare per l’aggressività esplosiva/impulsiva (Beaver K.M. e Yright J.P., 2005). Altre complicazioni neonatali, quali la preeclampsia o un’infezione materna, causerebbero una riduzione dell’afflusso ematico alla placenta producendo la necrosi cellulare non solo nell’ippocampo ma anche in altre aree cerebrali inclusa la corteccia frontale.
7.1. Fattori teratogeni
Interessante è soffermarsi sugli agenti teratogeni e sui loro effetti neurali e comportamentali in assenza di un’alterazione anatomica dimostrabile (teratogenesi neurocomportamentale). La neuroteratogenesi viene definita un danno morfologico e funzionale
del Sistema Nervoso Centrale che deriva dall’esposizione ad agenti chimici, biologici o fisici.
La teratologia comportamentale è quel settore che studia gli effetti dell’esposizione a potenziali agenti tossici sullo sviluppo del comportamento (Cantelli F.G. et al. 2005). Dunque, il
termine teratogenesi (dal greco “generare mostruosità”) si riferisce a quelle sostanze (droghe
legali quali alcol, nicotina e caffeina; farmaci quali antibiotici, steroidi, tranquillanti; droghe
illegali quali cocaina, eroina e marijuana; agenti inquinanti ambientali quali piombo e metilmercurio) che, a seguito di un’esposizione avvenuta in epoca prenatale, possono produrre di-
45
sfunzionalità neurocomportamentali (es., alterazione della coordinazione motoria, deficit delle funzioni cognitive, aumentata reattività a stimoli inaspettati). Chiaramente, le conseguenze
della tossicità delle sostanze di abuso sono diverse in funzione della specificità di azione della
sostanza, della posologia e dell’eventuale interazione tra le varie sostanze contemporaneamente assunte (Cantelli F.G. et al. 2005).
Sia il consumo materno di nicotina che di alcol, durante la gravidanza, sono stati considerati fattori che possono predisporre gli individui a commettere atti violenti in età adulta - risultati che sono stati confermati in molti studi replicati in diverse parti del mondo. Anche piccole quantità di alcool, assunte durante la gravidanza (una bevanda a settimana), sono state
associate con una maggiore aggressività nell’infanzia. Attualmente si sta ancora vagliando se
l’esposizione alla nicotina rappresenti un fattore predisponente alla commissione di un reato,
causando un’ipossia fetale con conseguente insufficienza cerebrale o se, invece, questa associazione sia mediata geneticamente (Glenn A.L. e Raine A., 2014).
Nicotina
La donna che fuma in stato di gravidanza non danneggia solo se stessa ma anche il piccolo
che porta in grembo. Questa pessima abitudine può tradursi in una “potenziale violenza” nei
confronti del futuro nascituro. E’ ormai noto che il fumo non solo produce conseguenze dannose sullo sviluppo neurale del feto, ma potrebbe aumentare la probabilità che il proprio figlio sviluppi nel futuro un disturbo della condotta e dell’aggressività. Ma qual’è il nesso di
causa-effetto tra esposizione fetale alla nicotina e comportamento antisociale?
Dei numerosi studi longitudinali su maschi, figli di donne fumatrici, si riportano quelli
condotti in Danimarca su 4.969 (Brennan P. et al., 1999), in Finlandia su 5966 maschi con
reati commessi dall’età di 22 anni (Rantakaglio P. et al., 1992; Räsänen P. et al., 1999) e negli USA su ragazzi, con disturbi della condotta, figli di donne che avevano fumato dieci sigarette al giorno durante la gravidanza (Weissman M. et al., 1999).
Queste ricerche sono giunte alla medesima conclusione: l’esistenza di un rapporto tra
l’esposizione del feto al fumo materno e sviluppo di un comportamento antisociale.
A tal proposito, Nadja Reissland, ricercatrice del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Durham (Regno Unito),
ha guidato la conduzione di uno
studio pilota, pubblicato sulla
rivista
Acta
Paediatrica,
sull’effetto del fumo di sigarette
nel feto. Con l’ecografia a ultrasuoni in 4D, i ricercatori hanno
voluto immortalare la prova
schiacciante degli effetti nocivi del fumo in gravidanza. I bambini che “ricevono” il fumo inalato dalla madre si portano le manine al viso, fanno smorfie strane, simili quasi a quelle che
noi adulti facciamo quando ci troviamo nostro malgrado a respirare passivamente il fumo
46
prodotto dalla sigaretta di altri fumatori. In realtà, hanno spiegato i ricercatori, le smorfie sarebbero dovute ad una questione neurologica. Le madri che fumano rallentano lo sviluppo del
sistema nervoso centrale dei loro bambini (Reissland N., Francis B., Kumarendran K., Mason
J., Ultrasound observations of subtle movements: a pilot study comparing foetuses of smoking and nonsmoking mothers, Acta Pediatrica, 2015, 104, pp. 596-693).
Ma qual è il nesso tra l’esposizione fetale alla nicotina e lo sviluppo di un comportamento
antisociale?
Le ricerche condotte su animali hanno chiaramente dimostrato gli effetti neurotossici di
due composti della sigaretta: il monossido di carbonio e la nicotina (Olds D., 1997). La nicotina attraversa la barriera placentare esponendo direttamente il feto alla sua tossicità. Ciò produce una riduzione della circolazione sanguigna uterina con conseguente minore apporto di
ossigeno (cronica ipossia) e di sostanze nutritive al feto (Lampl M., Kuzawa C., Jeanty P.,
Growth patterns of the heart and kidney suggest interorgan collaboration in facultative fetal
growth. Am J Hum Biol, 2005; 17:178–94). Si ribadisce che senza ossigeno le cellule cerebrali inizieranno a morire in pochi minuti con conseguenti danni neurali (es., riduzione della circonferenza cranica e, conseguentemente, dello sviluppo cerebrale - Jaddoe V.W.V. et al.,
2007) e disfunzionalità neurocognitive (es., attenzione selettiva, memoria e velocità di produzione del linguaggio - Cornelius MD e Day N.L., 2009). Le brain imaging di adulti, esposti al
fumo materno nel periodo prenatale, hanno mostrato la presenza di una sottile corteccia orbito-frontale ed un ridotto volume del giro frontale medio. Dette aree svolgono un ruolo importante nel predisporre un individuo allo sviluppo di un comportamento violento (Toro R. et al.,
2008).
Inoltre, l’esposizione precoce alla nicotina, persino a livelli relativamente bassi, produrrebbe una ridotta funzionalità noradrenergica con conseguente ipoattivazione del sistema nervoso simpatico (es., bassa frequenza cardiaca a riposo, ridotta risposta elettrodermica alla paura) (Raine A., 2013; Glenn A.L., Raine A., 2014).
Secondo la Stimulation-Seeking Theory (Zuckerman N., 1979), alcuni adolescenti presentano un basso livello di arousal (ipoattività) e tale condizione psicofisiologica potrebbe essere
un indicatore di bassa frequenza cardiaca e di stato di inquietitudine. Per far fronte a questo
stato di disagio, l’adolescente sarebbe spinto ad adottare strategie comportamentali antisociali
volte ad aumentare il livello della frequenza cardiaca di base e a raggiungere una condizione
più confortevole (Quay N.S.W, 1965; Raine A., 1993).
Conseguenze del fumo di tabacco in gravidanza.
Tabacco (droga legale, come l’alcol, può avere effetti negativi sul nascituro se assunto in gravidanza. I componenti del tabacco attraversano facilmente la placenta e raggiungono nel feto
concentrazioni del 15% superiori a quelle materne – Cantelli Forti G. et al., 1976).
COMPLICANZE NEONATALI
SINDROME DI ASTINENZA (SAN)
Ipertono
(Minnes S. et al., 2006)
tremori
COMPLICANZE IN ETÀ EVOLUTIVA
OBESITA’ (DiFranza J.R., 2004)
maggiore spessore delle pliche cutanee
maggior rischio di sovrappeso
DISTURBI NEUROCOMPORTAMENTALI
disturbi cognitivi
47
(Williams G.M., 1998; Fried P.A. et al., 2003;
DiFranza J.R., 2004)
COMPORTAMENTO DI ABUSO
(Porath A.J. e Fried P.A., 2005)
disturbi di attenzione
disturbi di memoria
disturbi di apprendimento
iperattività
impulsività
disturbi del comportamento
comportamenti antisociali e criminali
dipendenza da nicotina
dipendenza da marijuana
Alcol
Se il fumo è dannoso durante la gravidanza, possiamo immaginare quali possono essere le
conseguenze dell’uso smodato di sostanze alcoliche? Anche l’alcol, assunto dalla madre durante la gestazione, può causare numerosi e seri danni al cervello in via di sviluppo e detta disfunzionalità predisporrebbe allo sviluppo della violenza. A tal proposito si riportano quattro
caratteristiche della sindrome alcolica fetale (fetal exposed spectrum disorder o FEsD), così
come identificate dal pediatra Kenneth Jones nel 1973 (Jones K.L. e Smith D.W., 1973): esposizione all’alcol durante la gravidanza, malformazioni cranio facciali, ritardo della crescita
e disfunzionalità del sistema nervoso centrale (vedi figura sottostante) evidenziabile dai disturbi dell’apprendimento o dalla presenza di un basso Quoziente Intellettivo (QI o ritardo
cognitivo).
Cervello bambino normale sette settimane
Cervello bambino sette settimane
con Sindrome Alcolica Fetale
Una revisione scientifica, sul tema dell’esposizione prenatale all’alcol, è stata pubblicata
da alcuni ricercatori dell’Università della California (Lebel C. et al., 2011) al fine di mettere
in luce le anomalie cerebrali mostrate da soggetti esposti all’alcol prima della nascita. Dalla
predetta revisione sono emerse delle anomalie o malformazioni strutturali che includono una
riduzione del volume totale del corpo calloso (struttura cerebrale mediana, ovvero fasce di fibre nervose che connettono tra loro i due emisferi cerebrali importanti nella coordinazione
delle varie funzioni come ad esempio quelle motorie bimanuali, l’attenzione sostenuta, la visione e la memoria di lavoro visuo-spaziale - Devinsky O., 2004). L’analisi morfometrica del
corpo calloso può, dunque, offrire un valido contributo all’identificazione dei soggetti con
esposizione alcolica prenatale (Sowell E.R., 2008).
48
Conseguenze dell’abuso di alcol in gravidanza.
Alcol (rapidamente trasportato dalla madre al feto e attraversa liberamente la barriera placentare).
COMPLICANZE NEONATALI
SINDROME DI ASTINENZA (SAN)
agitazione
(Minnes S. et al., 2006)
tremori
irritabilità
opistotono
convulsioni
COMPLICANZE IN ETÀ EVOLUTIVA
DISTURBI NEUROCOMPORTAMENTAdisturbi di apprendimento
LI
disturbi di memoria
(Chiriboga C.A ., 2003; Eustace L.W. et
disturbi di attenzione
al., 2003; O’Leary C.M., 2004; Cuzon
disturbi di linguaggio: produzione e comprensioV.G. et al., 2008)
ne
ritardo mentale
iperattività
irritabilità
disturbi del comportamento alimentare
disturbi di socializzazione
aggressività
comportamento antisociale
impulsività
COMPORTAMENTO DI ABUSO
tossicodipendenza
(Eustace L.W. et al., 2003)
alcolismo
DISTURBI PSICHIATRICI
depressione
(Chiriboga C.A., 2003; Elliott E.J. e Bopsicosi
weer C., 2004)
Agenti inquinanti
In almeno sei studi, i livelli di piombo sono stati associati con la delinquenza giovanile ed
il comportamento aggressivo. Da un punto di vista prospettico, alti livelli di piombo nella
madre, durante il primo e il secondo trimestre di gravidanza, aumentano il rischio per il bambino di essere arrestato per crimini violenti in età adulta. Ad elevati livelli di piombo, diagnosticati all'età di 6-9 anni, ne conseguono un maggior rischio di commettere un atto violento,
tra i 14 e i 21 anni di età, e una scarsa funzionalità cognitiva. Alcuni studi, che hanno attentamente valutato i potenziali fattori di disturbo (es., povertà, fumo materno, uso di alcol e uso
di droghe), hanno dimostrato che questi risultati possono essere replicati per entrambi i sessi.
Alimentazione
Una scorretta alimentazione, nel primo o nel secondo trimestre di gravidanza, potrebbe
aumentare di due volte e mezzo (2,5) la probabilità che il nascituro sviluppi, in età adulta, un
disturbo antisociale di personalità. La malnutrizione nella prima infanzia predispone ad un
aumento dei disturbi della condotta in adolescenza e ad un basso quoziente di intelligenza
(QI). Ugualmente, i bambini, che all’età di tre anni mostrano evidenti segni di malnutrizione,
presentano un più elevato tasso di probabilità di sviluppare comportamenti aggressivi e antisociali all’età di 8, 11 e di 17 anni, al di là dell’influenza dei fattori di rischio sociale. Questo
rapporto viene mediato anche da un basso quoziente intellettivo.
49
Infine, alti livelli di manganese nella madre, durante la gestazione, intensificano i disturbi
comportamentali esternalizzati (comportamento aggressivo, distruttivo e provocatorio) nei
bambini che rientrano nella fascia di età compresa fra gli 8 e i 9 anni.
Uso di sostanze
L’abuso di sostanze, da parte di una madre gravida, rappresenta una tipica situazione di rischio. Ciascuna droga può causare effetti negativi sullo sviluppo del futuro nascituro sia direttamente, attraversando la barriera placentare, che indirettamente, influenzando la salute
materna. In realtà, il rischio ostetrico associato alla tossicodipendenza, oltre ad avere effetti
negativi (dovuti alle sostanze di abuso) sull’organismo materno e fetale, comporta anche le
conseguenze di un comportamento inadeguato che caratterizza la donna tossicodipendente e
che influenza inevitabilmente anche la gestazione. Il rischio non dipende esclusivamente dagli effetti negativi che le sostanze di abuso possono determinare direttamente sull’organismo
materno e fetale, ma spesso si associa anche ai comportamenti e agli stili di vita inadeguati e
alle patologie associate alla condizione di tossicodipendenza (Ministero della Salute, Dipartimento della Prevenzione e della Comunicazione, Ufficio VII - Tutela della salute dei soggetti più vulnerabili - Rilevazione attività nel settore tossicodipendenze, Anno 2006, 38-112).
Si precisa che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) definisce la tossicomania
come:
«uno stato di intossicazione periodica o cronica, prodotta dalle ripetute assunzioni di una sostanza
naturale o sintetica» (O.M.S., Organisation Mondiale De La Santé, Definition de la toxicomanie et de
l’accoutumance, Bulletin de l’Organisation Mondiale de la Santé, 1957, pag.40).
Conseguenze dell’abuso di ecstasy in gravidanza.
Ecstasy (sostanza in grado di attraversare liberamente la barriera placentare – Campbell NG et
al., 2006)
COMPLICANZE NEONATALI
SINDROME DI ASTINENZA (SAN)
(Minnes S. et al., 2006)
disturbi del sonno
anoressia
tremori
tachipnea
pianto stridulo
COMPLICANZE IN ETÀ EVOLUTIVA
DISTURBI NEUROCOMPORTAMENTALI (Ga- disturbi di memoria
lineau L. et al., 2005)
disturbi di apprendimento
depressione
Conseguenze dell’abuso di cannabinoidi in gravidanza.
Cannabinoidi (marijuana e hashish in grado di attraversare liberamente la barriera placentare)
COMPLICANZE NEONATALI
SINDROME DI ASTINENZA (SAN)
pianto stridulo
(Fried PA e Smith AM, 2001)
tremori
disturbi del sonno
irritabilità
alterata risposta agli stimoli
COMPLICANZE IN ETÀ EVOLUTIVA
DISTURBI NEUROCOMPORTAMENTALI
disturbi di memoria
(Fried P.A. e Smith A.M., 2001; Hurd Y.L. et
disturbi di linguaggio
50
al., 2005)
COMPORTAMENTO D’ABUSO
disturbi di attenzione
alterazione delle funzioni esecutive
iperattività
comportamenti antisociali
dipendenza da nicotina
dipendenza da marijuana
Conseguenze dell’abuso di oppioidi in gravidanza.
Oppioidi (sostanze in grado di attraversare liberamente la barriera placentare).
COMPLICANZE NEONATALI
SINDROME DI ASTINENZA (SAN)
(Minnes S. et al., 2006)
tremori, pianto
aumento del tono muscolare
irritabilità
diarrea
difficoltà respiratoria
starnuti
aumento della temperatura. arrossamenti,
sudorazione
difficoltà di suzione e deglutizione
COMPLICANZE IN ETÀ EVOLUTIVA
DISTURBI NEUROCOMPORTAMENTALI
disturbi di attenzione
(Dole V.P., 1992)
disturbi del sonno
irritabilità
iperattività
aggressività
Conseguenze dell’abuso di cocaina in gravidanza.
Cocaina (sostanza in grado di attraversare liberamente la barriera placentare)
COMPLICANZE NEONATALI
SINDROME DI ASTINENZA (SAN)
(Minnes S. et al., 2006)
tremor
disturbi del sonno
iporeflessia
iperreattività
anoressia
COMPLICANZE IN ETÀ EVOLUTIVA
DISTURBI NEUROCOMPORTAMENTALI
(Delaney-Black V. et al., 2000; Singer LT et al.,
2001; Chiriboga CA et al., 2003,2007)
disturbi del linguaggio: espressione e
comprensione
disturbi motori: attività motorie fini, utilizzo
della mano e coordinazione oculare
ipertono
disturbi dell’attenzione
disturbi della memoria
irritabilità
impulsività
iperattività
disturbi del comportamento
aggressività
In conclusione, questi risultati dimostrano che una serie di precoci fattori ambientali possono aumentare nei bambini il rischio di sviluppare da adulti comportamenti antisociali, quasi
certamente a causa degli effetti di detti fattori ambientali sui sistemi biologici.
51
8. Conclusioni: la plasticità neuronale
E’ dal nostro cervello, un insieme di almeno 100 miliardi di neuroni (cellule nervose) interconnessi, che hanno origine bisogni (fame/sete, sonno/veglia, accoppiamento/procreazione), percezioni, emozioni, pensieri e azioni. L’essenza della nostra identità è
racchiusa nella peculiarità di queste connessioni cerebrali e nell’interazione tra organismo ed
ambiente. Sembra incredibile che da questo organo, che pesa circa 1400 grammi, il 2% in
media del nostro peso corporeo, possano dipendere
«… le gioie, i piaceri, le risa e gli svaghi, e i dispiaceri e le angosce, lo scoramento e le afflizioni. E
grazie a ciò, in special modo, noi acquisiamo la saggezza e la conoscenza, e vediamo e udiamo e
sappiamo ciò che è giusto e ciò che è infame, ciò che è buono e ciò che è cattivo, ciò che è dolce e
ciò che è insipido … E per mezzo dello stesso organo diventiamo pazzi e deliriamo, e le paure e il terrore ci assalgono … Tutte queste cose sopportiamo dal cervello, quando esso non è in salute» (Ippocrate - La malattia sacra – “De morbo sacro” – a cura di Roselli A., Marsilio Editore, 1996).
Vale la pena rammentare che il nostro cervello è continuamente esposto al flusso delle
stimolazioni ambientali che influenzano, ad esempio, le nostre capacità di percepire gli stimoli, di compiere movimenti, di pensare, di apprendere, di ricordare e di pianificare strategie
comportamentali. Nel corso della nostra vita, questo instancabile organo, nonostante sia contenuto all’interno di una scatola cranica ed avvolto da tre strati protettivi (partendo
dall’esterno verso l’interno, dura madre, aracnoide e pia madre), si modifica continuamente
(sia strutturalmente che funzionalmente) mediante un processo definito “neuroplasticità”
(Gogtay N., Thompson P.M., 2010).
La parte del cervello che presenta maggiore plasticità è la corteccia frontale, sede delle
funzioni cognitive ed esecutive.
La plasticità neuronale è presente solo durante lo sviluppo e a seguito di una lesione cerebrale, o è anche una caratteristica del cervello dei soggetti in età adulta?
Tenere bene a mente che la neuroplasticità è presente, anche se ridotta, nel cervello di un
adulto e che la neurogenesi (processo di formazione di nuove cellule nervose) non si arresta
inesorabilmente con il completamento dello sviluppo neuronale (a partire dalla prima settimana, dopo il concepimento, sino al superamento del ventesimo anno di età, periodo in cui la
corteccia cerebrale raggiunge la sua piena maturità – Bricolo F., Zoccatelli G. e Serpelloni
G., Elementi di Neuroscienze e Dipendenze 2° edizione, Dipartimento delle Dipendenze
ULSS 20 – SerD, 2010); anche in età avanzata, infatti, il cervello ha la capacità di creare
nuovi neuroni, di riprogrammare le proprie reti neurali e di superare danni derivanti da traumi, lesioni o malattie (Begley, 2007; Bartels, 2008). Inoltre, come afferma Stiles (2000), non
bisogna pensare alla plasticità solo come una “risposta” del cervello a una lesione o a una
condizione psicopatologica (situazioni in cui è più evidente), ma come una proprietà fondamentale del normale funzionamento neuronale e cognitivo. In sintesi, secondo la visione plastica dell’attività cerebrale, un sistema di strutture e di meccanismi neurali, influenzato da fattori interni ed interattivo con gli stimoli dell’ambiente esterno, genera di continuo processi
mentali che, a loro volta, modificano la struttura cerebrale stessa. Secondo la teoria della plasticità neuronale, quindi, i neuroni si modificano costantemente per effetto degli stimoli am-
52
bientali, dell’apprendimento, delle esperienze e del programma genetico. La vulnerabilità genetica di base è in grado di modulare (rinforzare e/o estinguere) la probabilità di sviluppare
un dato comportamento. Tale effetto non è diretto, ma viene a sua volta modulato da alcune
variabili socio-ambientali. La più importante di quest’ultime è l’esposizione ad eventi stressanti, in periodi critici dello sviluppo, che produce un effetto potenziante sulla originaria predisposizione genetica a sviluppare un dato comportamento. In breve, la plasticità declina in
età adulta, ma la capacità del cervello di rispondere agli stimoli ambientali permane per tutta
la vita (Stiles J., 2000; 2005). In proposito, si sottolinea che la psicoterapia, proprio grazie a
questa neuroplasticità, produce dei significativi cambiamenti cognitivo-comportamentali nei
soggetti in trattamento (LeDoux J., 1996; Schnell K. e Herpertz S.C., 2007; Beutel M.E. et
al., 2010; Karlsson H., 2011).
Per completare questa sintetica panoramica sulla plasticità, è bene ribadire che essa rappresenta la capacità dei circuiti nervosi di sfuggire alle restrizioni imposte dal corredo genetico e di variare la loro struttura e funzione in risposta agli stimoli esterni, alle modificazioni
ambientali, all’esperienza e anche ai fattori intrinseci del soggetto (Blundo, 2007; Ansermet e
Magistretti, 2008). In breve, i circuiti cerebrali sono programmati geneticamente e dipendenti
dall’esperienza (Siracusano A., Sarchiola L. e Niolu C., 2008). Ciò significa che i geni “guidano” le prime fasi dello sviluppo cerebrale e la formazione iniziale delle connessioni neurali,
ma sono le interazioni con l’ambiente a completare, in maniera appropriata e specifica, la maturazione dei circuiti deputati al controllo della maggior parte delle funzioni cerebrali (Johnson, 2001; Thatcher, 1992; Stiles J., 2005). Infine, riprendendo Malabou (2007), vi sono tre
“ambiti di azione” della plasticità: di sviluppo (genesi e conformazione della rete neurale
nell’embrione e nel bambino), di riparazione (compensazione di una lacuna prodotta, ad esempio, da un trauma, e rinnovamento neuronale), di modulazione dell’effetto sinaptico (modificabilità delle connessioni neuronali nel corso della vita).
Unità centrale del sistema nervoso.
«Il neurone è costituito da tre importanti componenti: il corpo cellulare; il
prolungamento principale in uscita,
una fibra nervosa detta assone o cilindrasse; i prolungamenti in entrata,
le fibre nervose dette dendriti. I neuroni sono collegati tra loro in circuiti in
cui si riconoscono gli equivalenti dei
fili conduttori (le fibre degli assoni) e
dei connettori (le sinapsi, cioè i punti
in cui gli assoni sono in contatto con i dendriti di altri neuroni). Quando i neuroni divengono attivi
(“scaricano” o “sono eccitati” nel gergo delle neuroscienze), dal corpo cellulare si propaga lungo
l’assone una variazione di potenziale elettrico o potenziale di azione. Arrivato ad una sinapsi, questo
innesca l’emissione di particolari sostanze chimiche note come neurotrasmettitori. ... A loro volta, i
neurotrasmettitori operano sui recettori. In un neurone eccitatorio, l’interazione in cooperazione con
molti altri neuroni le cui sinapsi sono adiacenti, e che possono liberare oppure no i propri neurotrasmettitori, determina se il prossimo neurone sarà eccitato oppure no, cioè se esso produrrà il proprio
53
potenziale di azione, con la conseguente emissione dei propri neurotrasmettitori, e così di seguito»
(Damasio A.R., 1995, pp. 64-65).
Per concludere questo viaggio nella mente criminale, si ribadisce quanto già detto
all’inizio di questo lavoro: lo studio di un comportamento violento richiede l’esame delle
molteplici cause (biologiche, psicologiche e socio-ambientali) che si accompagnano alla genesi ed allo sviluppo di ogni singolo episodio criminoso. Da ciò ne consegue che lo studio
della eziologia del comportamento deviante è quanto mai complesso dal momento che la personalità del criminale è il risultato dello stretto rapporto esistente tra le variabili individuali e
biologiche e quelle ambientali e socio-culturali.
54
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