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La Mostra del Nuovo
Cinema di Pesaro:
Un Festival d’Autore
di Roberto Pecci
hi è legato alle Marche anche da vincoli affettivi, non
può mancare di farsi abbracciare il prima possibile
dalle dolci colline dell’entroterra, là dove ancora non si è
dovuto pagare un tributo troppo alto alla commercializzazione del territorio.
Il connubio della natura con le vicende storiche ed artistiche trova oggi nuova linfa da una intelligente promozione culturale e, se gli appassionati di musica possono
rivolgersi al Rossini Opera Festival, al festival Pergolesi
Spontini, alla stagione lirica dello Sferisterio di Macerata e
ad un prezioso nucleo di concerti di musica antica proposti dal festival del Cantarlontano in fascinose localizzazioni
tra antiche pievi e grotte, per gli appassionati di cinema è
di richiamo il Festival del Nuovo Cinema di Pesaro che,
fondato da Lino Miccichè nel 1965, porta con baldanza i
suoi 48 anni, rispondendo con l’intelligenza della programmazione alle limitazioni finanziare che impone la
nuova austerità.
La direzione di Giovanni Spagnoletti e di Bruno Torri,
affiancati da altri validi promotori ed organizzatori culturali, dopo avere negli anni più recenti indagato la produzione cinematografica di Israele e Russia, ha quest’anno
rivolto il proprio interesse alla esplorazione del Documentario italiano degli ultimi anni.
Secondo asse portante di questa edizione del Festival
C
Barbara
è stata la presentazione dell’intero corpo cinematografico
di Nanni Moretti, dai suoi primi aurorali impegni in superotto fino ad Habemus papam, con piacevoli sorprese
anche per chi può nutrire qualche riserva sull’opera dell’autore romano, che si è anche presentato ad un partecipato ed intenso incontro con il pubblico nella sua veste di
operatore cinematografico a 360 gradi (regista, attore, produttore, distributore, esercente di sale cinematografiche).
Il Festival, che propone le sue programmazioni nelle
sale del Teatro Sperimentale, riservando la limitrofa centralissima Piazza del Popolo alle proiezioni all’aperto, ha
poi centrato il suo interesse sulla scadenza del cinquantenario del cosidetto “Manifesto di Oberhausen”, redatto
nel 1962 da un gruppo di allora giovani direttori tedeschi
(A. Kluge, E. Reitz, P. Shamoni), che proponeva linee direttive per un nuovo cinema tedesco nel periodo del boom
economico, dopo le macerie della guerra. Attorno a quel
nucleo di autori si posero anche W. Herzog, J.M. Straube
e lo stesso Fassbinder, dando origine inizialmente ad
opere soprattutto documentarie qui oggi riscoperte.
Si richiama a quelle esperienze il regista Christian Petzold (n.1960), che ha portato a Pesaro il suo film Barbara,
insignito quest’anno dell’Orso d’Argento a Berlino dopo
avere conteso ai Taviani la vittoria finale. Nel film, che ha
inaugurato le proiezioni all’aperto, si narrano le vicende di
una dottoressa che nella Germania Est del 1960 viene trasferita dal suo ospedale di Berlino ad una struttura sanitaria di provincia per avere manifestato l’intenzione di
lasciare il paese di origine. La ri-visione di questa opera,
che non ci entusiasmò a Berlino, ci porta a dare atto all’autore di una sincera ispirazione, potendo anche contare
sulla intensa interpretazione di Nina Hoss.
Gli interessanti workshop sul cinema documentario e
sul cinema di animazione, con particolare riferimento all’opera del disegnatore Simone Massi, hanno poi fatto
ulteriore corollario al quarto asse portante della manifestazione pesarese: il concorso al premio dedicato al fondatore del Festival Miccichè, dove sono state presentate
sette opere di autori alle prime mature opere di lungometraggio, giudicate dalla giuria composta da Antonietta De
Lillo, Francesca Inaudi e Boris Sollazzo.
Vincitore è risultato il film dell’autrice bosniaca Aida
Begić (Sarajevo 1976) Djeca (Children of Sarajevo, con
riferimento ad una intensa scena del film in cui a festeg-
Djeca
giare il capodanno ci sono solo bambini) che, già apprezzato alla sezione del Certain Regard di Cannes 2012, ha
conquistato a Pesaro anche il premio della Giuria Giovani
ed il premio Amnesty per il Cinema e Diritti Umani. In una
città, che forse non ha ancora trovato una via di uscita dal
tunnel della guerra, la giovane Rahima convertita all’islamismo cerca di dare un futuro a sé e all’adolescente inquieto fratello Nedim invischiato in losche attività.
A noi accreditati del Circolo del Cinema è piaciuto
anche il film del thailandese Wichanon Somumjarn (1982)
Sin maysar fon tok ma proi proi (Nell’aprile dell’anno seguente c’è stato un incendio). Titolo criptico che prelude ad
un film dove presente e passato, ricordi, rapporti famigliari,
amori mancati, realtà e fantasia, narrazione e documentario sono fusi con felice semplicità dal giovane autore che
esplicita il riferimento al cinema di A. Weerasethakul,
noto ai nostri soci per la visione l’anno scorso della Palma
d’oro Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti, con
la sua misteriosa natura ed i legami con l’imprescindibile
mitologia nel racconto.
La Giuria Giovani, che ha premiato Djeca, ha voluto assegnare una menzione speciale a Sharqiya dell’israeliano
Ami Livne (1975). Il titolo allude al vento del deserto che
spira nel villaggio di poche baracche dove vive il protagonista beduino nel sud di Israele. Egli lavora come guardia
di sicurezza alla stazione dei bus della cittadina di Be’er
Un disegno del 2001 di Simone Massi
Sheva ed è qui che appronta un finto attentato per attirare
su di sé l’attenzione delle autorità, che hanno deciso la
demolizione delle baracche del deserto dove vive con i famigliari. Forse il film non riesce a trascendere la storia personale in una visione più collettiva, ma anche in questo
caso la presenza del regista ci fa partecipi di gustose vicende produttive, con il provino per il protagonista improvvisato di notte sotto il ponte di un’autostrada alla luce
dei fari dell’auto.
La Jubilada (La pensionata), film cileno di Jairo Boisier
Olave (1975), racconta di Fabiola, attrice di film porno che,
abbandonata l’attività, torna al paese di origine per recuperare i rapporti con i famigliari e con le proprie radici in un
nuovo progetto di vita, scontrandosi però con una difficile
realtà. La sincera partecipazione del suo autore non riesce a dare vita ad un’opera completamente convincente
per un eccessivo pauperismo, che non appare riscattato
dai richiami a Kaurismäki, e che risulta pertanto lontana
dagli esiti di Pablo Larraín, le cui opere abbiamo visto al
Circolo del Cinema negli ultimi anni.
Cassavetes appare il riferimento del cinema di Nicolas
Wackerbarth che in Unten Mitte Kinn (Montante basso)
mette sulla scena una classe di studenti dell’ultimo anno
della scuola di recitazione impegnati a prepararsi per
l’esame finale con una rappresentazione teatrale da Gor’kij.
A rappresentare il Giappone, il film Tokyo Playboy Club
di Yosuke Okada (1986): una storia di bassifondi e malavita con movenze tra Tarantino, Kitano e Miike senza una
propria anima unificante.
Resta di dare ragione dell’opera italiana in concorso:
Un consiglio a Dio di Sandro Dionisio, prodotto da Gianluca Arcopinto. Ispirato da un monologo teatrale di Davide
Morganti, l’attore Vinicio Marchionni interpreta la figura di
un recuperante di cadaveri di extracomunitari riportati a
riva dal mare che li ha inghiottiti durante i loro viaggi della
disperazione. Una commistione di linguaggi: cinema di
poesia, documentario, teatro e l’esperienza didattica rappresentata dal montaggio affidato agli allievi di una scuola
di cinema napoletano fanno di questo film un’opera “apolide”, come con proprietà la definisce sul Web Michele
Faggi, che merita rispetto.
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A Pesaro una valida selezione di
cinema documentario, luogo privilegiato
di sperimentazione audiovisiva
di Gigliola Bellinato
erché andare a Pesaro? Perché piccolo è bello. Pesaro
ti accoglie al ritmo lento della provincia. Non ci si perde
nel quadrilatero garbato e un po’ prevedibile delle sue vie,
non si fatica a trovar parcheggio, e non si riesce ad arrivare mai in ritardo a Pesaro, né si fanno code per gli accrediti o i biglietti, e c’è sempre un buon posto in platea
che ti aspetta. Ma piccolo non vuol dire minore: Pesaro è
un salottino colto ed elegante ma senza supponenza,
anzi, e la sua Mostra Internazionale del Nuovo Cinema,
giunta quest’anno al 48° appuntamento, nonostante i noti
tagli ai finanziamenti, è una bella realtà di cui andar fieri.
Questo Festival è infatti uno dei momenti più significativi
per la diffusione e la conoscenza della cultura cinematografica, in particolare per quelle opere che sono solitamente
penalizzate dai circuiti commerciali, come i cortometraggi,
i film di ricerca e i documentari. Proprio al nuovo documentario italiano Pesaro dedica quest’anno la sua più
corposa sezione, giustamente intitolata L’Italia allo specchio, in quanto mira a mostrare un ritratto dell’Italia
contemporanea attraverso la nutrita schiera di ben 19 titoli.
Tra le tante cose sorprendenti che si imparano girando tra
le rassegne e sfogliando i cataloghi, mi ha molto impressionata che, nonostante la crisi economica che attanaglia
ogni comparto produttivo e ancor più quello dell’industria
audiovisiva, c’è un settore che non conosce contrazione,
anzi registra un vero boom, ed è quello del documentario.
Negli ultimi 7 anni la produzione di documentari in Italia è
addirittura quadruplicata con ben 519 opere censite nel
2011. Secondo la critica specialistica, accanto ad operine
non indimenticabili, ci sono molti lavori assai degni di considerazione sia per l’innovazione sintattico-linguistica di
cui si sono dimostrati capaci gli autori, sia per l’ibridazione
di generi sperimentata che per la pregnanza dei temi trattati. Le ragioni di tanto successo sicuramente partono dall’accessibilità dei costi, che rappresenta per tante giovani
leve un motivo più che sufficiente per cominciare a mettersi alla prova. Ma da solo il low budget non spiega completamente il fenomeno: altro fattore determinante deve
essere che il documentario oggi rappresenta il campo
principale della sperimentazione in ambito cinematografico, essendo ormai evidente che il cinema di finzione è
un po’ ripiegato su sé stesso e incline alla ripetizione in
quanto meno coraggioso e sicuramente meno libero di
sbagliare al botteghino. Come infine ci fa notare Giovanni
Spagnoletti, direttore artistico della Mostra cinematografica di Pesaro, sempre più gli autori di documentari sono
passati da un’assertività oggettiva ed un po’ apodittica, com’era tipico nel film ideologico di propaganda o com’è nel
reportage, ad un atteggiamento soggettivo dell’io-regista
che non offre risposte o soluzioni preconfezionate, ma
lascia domande aperte e si pone quindi in maniera problematica nella descrizione del reale. A mo’ di esemplificazione, ecco cosa risponde in un’intervista il regista
Davide Ferrario a una domanda sulla “verità”: «La verità
P
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sta in un posto inattingibile e quello che può fare il Cinema
è solo prendere atto della propria ambiguità. Si dice
spesso che il Cinema è lo specchio della verità. No, è
molto di più, un prisma. E questo prisma più facce ha, più
riflette, più forse si avvicina a quella cosa inafferrabile che
è la verità. Il Cinema deve mettere in discussione le certezze dello spettatore, e per farlo il regista deve mettersi in
discussione per primo». Da territorio un po’ residuale il
documentario è diventato un campo appetibile anche per
i registi affermati più sensibili che desiderano rinnovare il
loro linguaggio espressivo. E in fondo non è uno straordinario documentario l’Orso d’oro 2012 degli ottuagenari fratelli Taviani Cesare deve morire? E forse che Olmi, che
dopo 100 chiodi - ricordiamo - aveva espresso l’intenzione
di tornare a dedicarsi solo ai documentari, non ci ha regalato Terra madre? Non posso infine non ricordare a questo punto Michelangelo Frammartino col suo intenso Le
quattro volte, proiettato a Verona solo al nostro Circolo il 4
novembre 2010, al quale possiamo riconoscere una paternità nei documentari di Vittorio De Seta, purtroppo non
ancora abbastanza visti. E sempre a Pesaro, inoltre, nell’ambito della retrospettiva dedicata a Nanni Moretti, si è
potuto gustare un suo delicatissimo e singolare documentario di 23’ The last customer girato a New York nel
2003, molto gradevole e fresco, per una volta non appesantito dal suo solito ego (ed alter ego), dalle caricate ossessioni a cui ci ha abituato il nostro. Il film mostra la pena
struggente di un intero quartiere per la chiusura forzata di
una farmacia, i cui proprietari erano riusciti a costruire nel
tempo, con la loro amorevole attitudine, una rete amicale
di spontanea solidarietà senza pregiudizio alcuno, in una
metropoli dove usualmente queste relazioni di buon vicinato sono rare a incontrarsi. Lo sguardo scivola dagli scaffali zeppi di flaconi colorati alle fasi di demolizione
dell’edificio, dai muri di mattoni rossi che si accartocciano
come cartapesta ai tipi più bizzarri, come solo a New York
se ne possono incontrare, che vanno a render omaggio ai
loro farmacisti l’ultimo giorno di apertura, si sofferma sulle
loro lacrime e sui loro abbracci ma la morale è positiva:
l’ultima cliente, che è la più anziana ma anche forse la più
saggia, dice che bisogna guardare avanti, finita un’epoca
della vita ne comincia un’altra e non è detto sia peggiore.
Tra i principali filoni tematici, attraverso i quali si dipana
il racconto dell’Italia d’oggi nei documentari selezionati a
Pesaro, dominano riflessioni su emigrazione e integrazione: con Ferrhotel di Barbanente (aggiudicatosi una
menzione speciale) si affrontano i problemi di giovani rifugiati somali a Bari; in Giallo a Milano di Basso, che è costruito come un romanzo giallo, viene presentata la
comunità cinese a Milano; Come un uomo sulla terra di
Segre,Ymer e Biadene è la storia delle vicissitudini di un
emigrato etiope. Un altro problema molto sentito concerne il dissesto ambientale e l’aggressione al territorio:
con Magog o epifania del barbagianni di Ferri si assiste
ad una visionaria sequela di immagini padane assurte a
insensati non luoghi, in A Nord Est di Adami e Scivoletto
si fa un viaggio dal Garda a Venezia lungo la Statale 11 e
le ferite subite dal quel paesaggio, in Land of joy di Lazzarin il Veneto è ritratto come un teatro tragi-comico, Noi
dobbiamo deciderci di D’Agostino e Lavorato è sull’alluvione del luglio 2006 a Vibo durante i mondiali di calcio,
Ju tarramutu di Pisanelli racconta l’Aquila del dopo-terremoto medializzata e mistificata. Anche il tema del lavoro
tocca molti nervi scoperti: con Thyssenkrupp Blues di
Balla e Repetto si fa il punto sul drammatico incendio dell’acciaieria in cui persero la vita sette operai a Torino, mentre in Grandi speranze di D’Anolfi e Parenti si racconta
l’Italia dei giovani imprenditori.
Tra tutti vorrei soffermarmi a dire qualche parola in più
su quelli che mi hanno maggiormente colpita. Il passaggio
della linea (2007) del pluripremiato Pietro Marcello, autore
che già abbiamo apprezzato per La bocca del lupo visto
al Circolo nel maggio 2010, deriva il titolo da un’opera di
Simenon di cui in apertura cita una frase chiave. Si può
sostenere paradossalmente che sia diventato già un film
storico, essendo infatti ormai quasi completamente dismessi quei treni espresso notturni a lunga percorrenza,
con i vagoni a scompartimenti e i corridoi laterali con gli
strapuntini, che hanno fatto da set e da contenitore ai personaggi del film e alle loro storie, ritmate dallo sferragliare
sulle rotaie e dallo stridere delle frenate nelle stazioni
quale prevalente colonna sonora, e illuminate dal frammentario lampeggiare dai finestrini delle luci della notte.
Così come sono frammentarie le storie narrate, le considerazioni, i desideri, le valutazioni espresse da questi
viaggiatori nell’universo claustrofobico e onirico del treno
notturno, ma pur tuttavia sufficienti ad aprire squarci significativi sulle loro esistenze. La penombra che domina
l’intera pellicola sembra invitare alla confidenza e a serbarla come un dono prezioso. Le persone selezionate, tra
quelle incontrate dal regista sui treni nelle sue perlustrazioni, hanno tutte un naturalissimo talento a stare davanti
alla macchina da presa ed emozionano per la loro verità.
Reggono primi piani ravvicinati che ne evidenziano la pelle
lucida e i capelli spettinati, pieghe e imperfezioni del volto
che stanno lì a testimoniare le loro esperienze e parlano
senza imbarazzo nella lingua che gli è familiare. L’opera, ci
informa il regista, era stata progettata come inchiesta sociale sul flusso migratorio notturno dei lavoratori che tuttora percorrono l’Italia da sud a nord in cerca di
un’occasione migliore. Per 6-7 mesi ha viaggiato di notte
ogni fine settimana a raccogliere il suo materiale. Molte le
vicende sovrapponibili poiché simile è il precariato, finché
non ha incontrato l’anziano Arturo che aveva deciso di vivere sui treni e che è divenuto il «genietto del film». Arturo
sembra un barbone bizzarro un po’ mitomane, ma fu davvero un radicale europeista ante litteram, un utopista, un
cittadino del mondo come ama definirsi, che da ricco borghese e forte contribuente in quel di Bolzano subì innumerevoli processi e condanne per le sue idee libertarie
negli anni ’50, fu sodale di Altiero Spinelli e condivise il
carcere con Guareschi ed ora vive sui treni viaggiando
giorno e notte in lungo e largo per l’Italia munito di regolare biglietto a lunga percorrenza.
Dei tre registi, Alessia Porto con Ester Sparatore e Stefano Savona, che firmano Palazzo delle Aquile (2011) era
presente a Pesaro ad interloquire con il pubblico in sala il
solo Savona che è il più anziano nonché il più conosciuto
(nella foto in alto). Classe 1969, archeologo di formazione
con molti scavi alle spalle in Africa e in Medio Oriente, co-
mincia la carriera di videoinstallatore e documentarista alla fine degli
anni ’90 per approdare
a significativi riconoscimenti dal 2005, sempre
per opere molto impegnate. La sua cifra peculiare è la tempestività,
ossia la capacità di esser presente con la sua telecamera
a documentare i piccoli e grandi eventi della storia lì dove
avvengono mentre avvengono. Basta pensare al film Primavera in Kurdistan (presentato a Pesaro nel 2006), alla
Gaza di Piombo fuso (2009) fino al documentario in presa
diretta sulla rivoluzione egiziana di quasi un anno fa intitolato Tahrir Liberation Square, selezionato per Locarno.
In Palazzo delle Aquile si filma l’occupazione durata un
mese, nell’autunno del 2007, del Palazzo del Comune di
Palermo, da parte di 18 famiglie prive di casa, esasperate
da anni di promesse mancate e di colpevoli ritardi, esauste per gli sfratti a catena da parte degli alberghi dove
erano confinate in un’attesa infinita e priva di dignità. Con
un ribaltamento delle forze contrapposte in gioco, le 18 famiglie con i loro vecchi e i loro bambini forzano la situazione con una risolutezza mai sperimentata prima per
ottenere il diritto ad un alloggio popolare, rifiutando un’ennesima soluzione temporanea di compromesso. Il film
mette in evidenza la scoperta e la presa di coscienza da
parte di persone comuni ed umili della dialettica politica,
spendibile per un bene comune. Non è facile, ha confessato il regista, lavorare in gruppo quando si ha l’abitudine
a fare da soli, anche se è indubbiamente molto stimolante.
Inizialmente Palazzo delle Aquile aveva coinvolto una decina d’autori, ma solo tre sono rimasti fino a compimento
del progetto. La fatica più grossa si è dimostrata cercare di
armonizzare il girato, tentando di mantenere la specificità
dello sguardo di ciascuno. Il lavoro si è svolto in questo
modo: ogni autore girava per suo conto secondo la sua
sensibilità, ma tutte le sere i tre si incontravano per riguardare insieme pazientemente che cosa e come avevano ripreso per commentare e trarne spunti.
Per concludere, a chiosa di tante appassionate chiacchiere sul cinema, vorrei riportare letteralmente il pensiero
di Marco Bertozzi, docente di cinema alla IUAV di Venezia,
storico del cinema e documentarista, espresso nel suo recente saggio Di alcune tendenze del documentario italiano nel terzo millennio (reperibile nel Quaderno n° 73
della Mostra Nuovocinema/Pesaro edito per i tipi della
Marsilio nel giugno 2012), perché mi sembra illuminante
su cosa potrebbe attenderci in un prossimo futuro se non
correremo ai ripari: «…nel momento in cui il linguaggio audiovisivo diviene così importante, e si affianca a quello verbale sin dalla più tenera età, è fondamentale che
l’educazione alle immagini non sia lasciata in mano ai televenditori di professione. La capacità di leggere un testo
filmico o televisivo, di smontarlo e di rimontarlo, di comprendere il mutare del senso al variare del montaggio, dovrebbe essere insegnata sin dai primi anni di scuola (…)
oggi godere degli strumenti di base per affrontare un
mondo dominato dalle immagini dovrebbe essere un atto
pedagogico “naturale”. Un atto che nel nostro paese diviene profondamente politico. E sottrarsi al “teleschiavismo” assurge a pratica rivoluzionaria non violenta, una
linea difensiva che non è solo barricata tecnica o consapevolezza linguistica. Ma, soprattutto, atto estetico di civiltà e democrazia».
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