La ràgola del Pozzo - La Memoria dei Luoghi

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La ràgola del Pozzo - La Memoria dei Luoghi
Alcuni anni fa Chiara è tornata a San Bonaventura per
rivedere i luoghi della giovinezza. Non ha più ritrovato la
casa natale, abbattuta per far posto a una villa, ma in un
angolo, buttata per terra come un rottame, era rimasta la
ràgola del pozzo. Chiara ha accarezzato quella carrucola e quanti pensieri si sono risvegliati! È stato come se la
ràgola girasse ancora, portando alla luce, dal pozzo della
vita, l’acqua limpida degli affetti e dei ricordi.
(…) Il racconto di Chiara è straordinariamente ricco di
umanità e di cultura, che a tratti raggiunge esiti di alta
poesia. (…) Il racconto stupisce fin dalle prime battute per
la capacità narrativa di Chiara, apprezzabile appieno nel
dolce dialetto marchigiano, ma godibile anche nell’attenta
“traduzione” di Bruno Morbidelli
Leggendo mi veniva di fare un confronto con la rude
espressività lombarda (in particolare bergamasca): poveri
noi, non arriveremo mai a una capacità di comunicare
così coinvolgente!
Marino Anesa
La ràgola del Pozzo
Bruno Morbidelli, nato ad Ostra
(An) nel 1942, si è laureato con la tesi
in storia medioevale “Montalboddo
(oggi Ostra) nel periodo delle signorie”. Nel 1995 ha pubblicato il libro
di carattere storico “Ostra – I tre
conventi dei cappuccini”, nel 1996
ha curato il volume “Don Antonio
Morganti - Apostolo della carità”.
Intanto era iniziata per caso e continuata con passione la sua ricerca
sulla cultura popolare contadina, che
lo ha portato a dare diffusione, in
collaborazione con il circolo culturale “La Gioconda” di Ostra, a varie
raccolte: “I dittadi di Montalbòdo”
(1993), “Io de stornelli ne so mille”
(1994), “Io de stornelli ne so mille più
mille (1996), “Evviva evviva l’Anno
nòvo e la Pasquella” (1996), “Le preghiere delle pôre vecchiette nostre”
(1998).
Chira Rina Eletta da San Bonaventura
Copertina di Andrea Crostelli e Paolo Mancini
Ostra 2000
Ostra 2000
Chiara Rina Eletta da San Bonaventura
La ràgola del pozzo
Memorie e ragionamenti di una del “branco”
a cura di
Bruno Morbidelli
Prefazione di Marino Anesa
Trascrizioni musicali di Piercarlo Fontemagi
Ostra 2000
Illustrazioni:
Disegni di Chiara Rina Eletta da San Bonaventura
Quattro disegni dell’artista Andrea Crostelli
Inserto fotografico:
Giorgio Selva
Fotografie d’epoca gentilmente concesse da:
Antici Giuseppe, Balducci Gabriele, Barchiesi Carlo, Barchiesi Giancarlo,
Casci Gioacchino, Cioci Romano, Conti Stefano, Ferraris Luigi Vittorio,
Lucentini Flaviana, Manoni Enzo, Manoni Patrizio, Marcantognini Lucio,
Pirani Giorgio, Ricciotti Tarcisio, Sagrati Sante, Sellari Giuliano,
Staccioli Paola, Verzolini Renato.
Impaginazione e stampa:
Tecnostampa - Ostra Vetere
© Tecnostampa Edizioni Luglio 2000
Tutti i diritti riservati
È vietata la riproduzione anche parziale di immagini e testo
La ràgola del pozzo
Memorie e ragionamenti di una del “branco”
Corso Mazzini, 93 - Ostra
Filiali: Senigallia - Morro D’Alba - Passo Ripe
di M. Fiscaletti & C.
Via E. Mattei, 13 - 60030 Serra de’ Conti
Prodotti ortofrutticoli
Via delle Selve, 26 - 60010 Ostra
Sapori tipici delle Marche
Presso la Cantina Vicoma
SS. Arceviese, 55 – Pianello di Ostra
SCAC Soc. Coop. Agricola Conserviera
Via Cesano Bruciata – Cesano di Senigallia
Via Direttissima del Conero – 60021 Camerano
Presentazione
U
na vera figlia della nostra campagna marchigiana, di queste colline
belle ed ospitali. In barba alle guerre, alle miserie, alla fame. I suoi
sono paesaggi umani, pennellati a tinte più o meno forti; racconti
tragicomici, escono a getto continuo disegnando una fitta trama intrisa di
saggezza e sincerità.
È una testimone preziosa, Chiara Rina Ele tta da San Bonaventura. Presa
per mano dal paziente Bruno Morbidelli c’introduce al “branco”, a quando
“Comannàa mussolini” (volutamente citato con la minuscola), alle “fàa coi
bugaròzzi e le pastarèlle col pane”...
Le sue parole arrivano diritte e, dal cuore della memoria, portano storie,
appunti di una vita scolpiti nell’intimo della protagonista. Sgorgano pure,
da una sorgente che vorremmo non si estinguesse mai ma che purtroppo è
destinata a prosciugarsi. Quella cultura popolare contadina, infatti, non potrà
resistere ancora a lungo, se non grazie a pubblicazioni come questa.
Che strani effetti fa, la memoria. Ci fa sentire piccoli piccoli, al cospetto del
tempo implacabile. In quella “scatola nera”, ficcata in chissà quale parte del
cervello, sono racchiuse vite, passioni, speranze, dolori, amori che si avvicendano senza una logica apparente, che s’imprimono indelebilmente nell’animo
umano. E quelle vite, passioni, speranze, quei dolori, straripano prepotenti,
magari proprio nell’attimo in cui la vita si fa più corta.
Un libro che si fa leggere con penetrante curiosità, quella stessa con cui è
stato pensato, scritto, assemblato e dato alle stampe.
E quanto netti si stagliano i contrasti, le differenze che si fanno stridenti con
la nostra società tecnologica, individualista, iperconsumista. Due mondi che
si guardano da lontano, separati da un breve lasso di tempo, e fanno fatica a
trovare dei nessi, a riconoscersi.
Oggi c’è Internet, ci sono mezzi sofisticati - “robba da Merécani”, direbbe
Chiara – che farebbero impallidire i semplici contadini di allora.
Siamo più ricchi, moderni, disinvolti ma anche uniformati, sempre più
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appiattiti sulle stesse consuetudini, gli stessi gusti. È un po’ come se vi fosse
un’unica umanità, dalla collina al mare, dalla montagna alla città. Lo squittio
dei telefonini, gli hamburger, la corsa delle utilitarie e degli scooter ci fanno
un po’ tutti uguali, senza distinzioni geografiche, appartenenze. Confrontiamo
questo nostro universo con il mondo, piccolo ma intenso, di San Bonaventura
e siamo proprio noi a sentirci minuti, prigionieri di quello stesso portentoso
Golem che siamo stati capaci di creare.
Quei dialetti (le lingue, necessariamente al plurale) che distinguevano una
contrada dall’altra e fornivano a ciascuno la sua precisa identità, non fanno
il paio con il grigio italiano della tv o l’inglese standardizzato di finanza e
computer.
Un libro, questo, che va centellinato, come un buon vino d’annata, riuscendo
ad assaporare, pagina dopo pagina, la sua genuinità, le istantanee perfettamente a fuoco di quella gente che aveva, con dignità, “la terra ‘ntéll’ogna”.
Alessandro Giambartolomei
Direttore della rivista Agrifoglio
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Prefazione
Q
uanti cambiamenti nei modi di vivere e di pensare e con quale rapidità
avvengono nella società contemporanea! C’è da rimanere disorientati.
Qualcuno si ribella al vortice, spesso insensato, delle “novità” e sente
l’urgenza di riaffermare scelte e punti di vista, storie e saperi che un malinteso
progresso disprezza o, nel migliore dei casi, dimentica.
Così ha fatto Chiara Rina Eletta da San Bonaventura che, aiutata dalla vigile
e affettuosa presenza di Bruno Morbidelli, ha narrato e scritto la sua vita: gioie
e dolori, come si dice, ma soprattutto orgoglio della propria cultura e difesa dei
valori di solidarietà e sensibilità che consolano il cuore e la mente.
I risultati dei numerosi incontri tra la “narratrice” e il “ricercatore” sono raccolti in questo volume, che si fa leggere come uno straordinario racconto e
stupisce fin dalle prime battute per la capacità narrativa di Chiara, apprezzabile
appieno nel dolce dialetto marchigiano, ma godibile anche nell’attenta “traduzione” di Bruno Morbidelli.
Con grande attenzione e mano sicura, che gli deriva anche dalla sua professione di insegnante, Bruno ha raccolto col registratore la storia di Chiara,
limitandosi a “guidare” lo scorrere dei ricordi ed eliminare qualche passo ripetitivo. Il compito più faticoso (posso ben comprenderlo, avendo fatto lo stesso
tipo di ricerche) è stato il successivo lavoro di trascrizione del testo dialettale
e di traduzione in lingua italiana. La parola passa ora ai lettori, che non possono
purtroppo vivere l’emozione del racconto diretto, ma hanno comunque la possibilità di cogliere dalle pagine del libro la ricchezza poetica e culturale delle
memorie e dei ragionamenti di Chiara.
Cos’è, se non poesia, un brano come questo, uno fra i tanti disseminati come
perle nelle trame della narrazione:
Una volta il sole si lamentava perché la luna di notte andava, e ci va anche
adesso, via nuda, lo tradisce il sole. Ogni tanto, quando vede passare una nuvola
lì vicino, si nasconde di dietro. Però è inutile che si faccia vedere a poco a poco,
tanto ormai lo sappiamo tutti come si comporta con il sole: lui è stufo dopo un
giorno di duro lavoro, va a letto e s’addormenta subito; lei poco dopo si alza
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e si approfitta. Il pensiero corre al grande poeta recanatese, che pure parlava
alla luna, e il paragone non sembri irriverente: la differenza sta negli strumenti
a disposizione, non certo nella potenza espressiva.
Alcune tecniche narrative usate da Chiara sono tipiche del racconto popolare, come questo bellissimo epilogo, che richiama l’immagine di una fabulatrice
alla fine della storia e del pubblico rapito all’ascolto:
Cuèste era dell’anno che succedìa nigò
e po’ troppe ne so!
L’arconterò?
Sci la morte non m’aritròa
l’arconterò a paja nòa.
Il testo è impreziosito da orazioni, stornelli, filastrocche, indovinelli e proverbi popolari, patrimoni delle passate generazioni, conservati come reliquie.
Chiara non si limita a parlare: spesso ritiene necessaria la scrittura, per fissare i pensieri in modo più ordinato. Questo vale soprattutto per le spiegazioni
di alcune tecniche di lavoro agricolo, che, con piglio didattico, illustra anche
con disegni. Il libro diventa così una specie di sussidiario scolastico, quasi una
compensazione per gli studi che Chiara non ha potuto continuare dopo la terza
classe delle elementari, chiamata dall’urgenza del lavoro per sopravvivere.
Una vita dura, passata a capo chino con le mani nella terra, ognuno “con l’attrezzo suo”, invocando il soccorso della “divina pazienza” e rivolgendo all’Altissimo gli interrogativi sulla giustizia e il senso della vita:
O Dio del cielo, o Dio del Paradiso
perché n’avéde fatto lo mondo paro
Avéde fatto ‘l povero e lo ricco
chi avéde dato il dolce a chi l’amaro.
Alcuni anni fa Chiara è tornata a San Bonaventura per rivedere i luoghi
della giovinezza. Non ha più ritrovato la casa natale, abbattuta per far posto a
una villa, ma in un angolo, buttata per terra come un rottame, era rimasta la
ràgola del pozzo. Chiara ha accarezzato quella carrucola e quanti pensieri si
sono risvegliati! È stato come se la ràgola girasse ancora, portando alla luce dal
pozzo della vita l’acqua limpida degli affetti e dei ricordi.
Marzo 2000
da Bergamo, col cuore nelle Marche Marino Anesa*
* Di Cazzaniga (Bergamo), è uno dei più affermati studiosi e ricercatori della cultura popolare.
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Nota introduttiva del ricercatore
C
hiara Rina Eletta da San Bonaventura è una donna di campagna, nata
negli anni ’20 (del secolo scorso!). Ha studiato solo fino alla terza elementare, ma ha saputo ugualmente scrivere o dettare o incidere in cassette queste pagine, dimostrando lucidità, perspicacia e, spesso, anche una
notevole autoironia.
Ai tempi di Chiara, in campagna, si viveva in branco: il branco della famiglia patriarcale o quello più ampio del vicinato o della contrada. E Chiara Rina
Eletta è una del branco delle bambine, delle ragazze e delle mogli che vivevano
in campagna tra gli anni ’20 e gli anni ’60. In branco si lavorava nei campi, in
branco si stava attorno al camino o al caldo della stalla, in branco si andava a
lavare i panni o ad imbiancare il corredo al fiume, in branco ci si recava alla
Messa, alle fiere, ai mercati, alle feste. Chiara, perciò, non racconta tanto una
vicenda individuale, quanto la storia, le abitudini quotidiane, le usanze e le
credenze del branco dei contadini, che erano allora la stragrande maggioranza
della popolazione del nostro territorio. Gli argomenti da narrare o da approfondire li ha scelti lei; perché lei sa quali erano i problemi diffusi e reali del suo
tempo (la fatica, il mangiare, il vestire…), lei sa su quali valori il suo mondo
fondava la propria esistenza (la fede, il lavoro, la sobrietà, la solidarietà…).
Chiara vive ed osserva la gente, la vita e il mondo, con uno sguardo attento,
lucido e perspicace; e le vicende di ieri, di cui ella è testimone e custode, sono
solo apparentemente e temporalmente lontane da noi ed estranee alla realtà
d’oggi, tanto che lei è portata regolarmente a stabilire dei confronti. Infatti il
suo sguardo va oltre la superficie e le apparenze, penetra nel mondo interiore,
suo e della sua gente, ne coglie i sentimenti e le emozioni, le attese e le delusioni, i valori e le mediocrità, senza infingimenti, con naturale, spontanea semplicità. E li affida al suo narrare, seguendo il ritmo, ora lento, ora pressante,
della memoria. Come una vera affabulatrice, secondo il costume e l’arte di un
tempo in cui, attorno al narratore, la gente condivideva il piacere dell’ascolto
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e dello stare insieme.
Da parte mia ho invitato Chiara, che in realtà sa parlare correntemente
l’italiano, ad esprimersi nel suo dialetto, perché nella sua gioventù la lingua
usata era quel dialetto che ormai se ne sta andando, portando con sé tutto il
suo sapore e il suo mondo. Il suo vernacolo ci restituisce così l’atmosfera del
passato e richiama l’attenzione sulla vita quotidiana di quel branco rurale che
conosceva soltanto la fatica.
Pur vivendo Chiara nel territorio di Ostra, il suo linguaggio risente della
vicinanza di Belvedere e Morro d’Alba e quindi subisce l’influenza del dialetto iesino. Come ho scritto in altra occasione, ho avuto modo di rilevare
differenze dialettali da contrada a contrada, tra famiglie della stessa contrada
e, perfino, all’interno della stessa famiglia. Questo fenomeno si riscontra un
po’ ovunque: basti ricordare che il fiorentino Dante sapeva ben distinguere le
differenze dialettali degli abitanti di Borgo San Felice e dei cittadini di Strada
Maggiore della città di Bologna.
Ho voluto aggiungere al racconto in vernacolo la traduzione in italiano per
dare la possibilità di comprendere la storia di Chiara sia a coloro che sono
lontani dal nostro territorio, sia alle giovani generazioni che oggi, incuranti
delle loro radici, non conoscono più né le storie, né il modo di esprimersi dei
loro antenati.
Nella traduzione ho cercato di mantenere il più possibile intatto il registro
colloquiale e familiare, lasciando invariate le pause ed eliminando la ripetizione superflua, solo quando giovava a rendere meno faticosa la narrazione. Ho
riportato in corsivo parole dialettali più difficili da comprendere intuitivamente e, per la loro spiegazione, rinvio al piccolo vocabolario posto in appendice.
I termini e le locuzioni che, tradotti letteralmente, avrebbero assunto un significato ambiguo, sono stati resi a senso.
Ho aggiunto al testo, poi, alcune note per spiegare ciò che a me, per primo,
non era chiaro: anche per queste devo ringraziare l’ineguagliabile pazienza di
Chiara Rina Eletta da San Bonaventura.
Ostra, 31 gennaio 2000
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Bruno Morbidelli
P arte P rima
Sott’al crì’
So’ nada a San Bonaventura
Sono nata a San Bonaventura
So’ nada ’nté ’na casa che stèra
da cima de ’n cocuzzolo, lassù a
San Bonaventura, ’nté i confini de
Montalbò’, Belvedé’, Morro d’Alba
e Senigaja.
La contradia pìa ’l nome da ’na
chiesetta, ’ndó ce venìa ’n frade
ca­puccìno, Padre Gerardo, a di’ la
Sono nata in una casa che stava
in cima ad un cocuzzolo, lassù a San
Bonventura, ai confini di Montalboddo,
Belvedere, Morro d’Alba e Senigallia.
La contrada prende il nome da una
chiesetta, dove veniva un frate cappuc­
cino, Padre Gerardo, a dire la Messa
la domenica. Ce lo portava il vetturi­
no Duilio de Gioan­nétto col cavallo.
D’estate, durante la mietitura, diceva
la Messa alle cinque di mattina, per­
ché i contadini della contrada miete­
vano tutti anche di domenica, sennò
il grano andava tutto ai passeri e alle
formiche. Sapete che cosa si diceva: “
Finché la roba è al campo tutti hanno
parte tanto!”
Una mattina una bambinetta, che
abitava lì vicino, quando si è svegliata
e la madre assisteva alla Messa, è entra­
ta dentro la chiesetta completamente
nuda. Gli uomini dicevano: “Bambi­
netta, se avessi avuto quindici o sedici
anni...!”
Dunque avete capito il luogo dove
sono nata: erano tutti contadini, quali
più rozzi, quali meno. Si sapeva tutto di
tutti, eravamo affiatati perché si face­
vano assieme le faccende più grosse, si
giocava a bocce, all’inverno a carte den­
tro la stalla e si stava al caldo; si man­
giavano anche due semi di zucca, la
fava bruscata e si beveva un bicchiere
di “ammezzato”. A casa nostra c’erano
le giovani non sposate e babbo col fiasco
del vino: per questo ci veniva la gente!
Ebbene io sono nata, ultima della
Anni ‘20. Ersilia Tinti Bordini con bimba
(coll. Gabriele Balducci).
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Messa la doménniga. Ce ’l portàa
’l vetturì’ Duilio de Gioànnetto col
cavallo. D’istàde, durante le mededùre, dicìa la Messa alle cinque de la
madìna, perché i contadì’ della contradia medìa tutti anca la doménniga, scinó ’l gra’ gìa tutto ai passeri e
alle formìghe. Sapéde que se dicìa:
“Finché la robba al campo tutti ci’ha
parte tanto!”
’Na madìna ’na monelletta, che
stèra lì vicino, quanno s’è svejàda e
la madre era a la Messa, è boccàda
drendo la chiesetta tutta nuda. ’Sti
òmmini dicìa: “Monel­letta, sci avessi ûdo quindici o sedici’ anni...!”
Donca éde capìdo ’l pòsto ’ndó
so’ nada: era tutti contadì’, quali più
ruzzi e quali meno. Se sapìa nigò
de tutti, fumma affiadàdi, perché
se facéa le facenne grosse assieme, se giogàa a bocce, all’inverno
a carte drendo la stalla e se stèra
càlli; se magnàa anca du’ becche e
fàa brusca e se bevìa ’n bicchiero
d’ammezzado1. A casa nostra c’era
le giovane e babbo col fiasco del vi’:
appòsta ce nìa la gente!
Embè io so’ nada, ultima della
coàda, pròpio ’nté cuélla casa lassù
da cima, che adè ha buttado giù pe’
fàccene una nòva. M’arcòlto Paolì’,
Ileana Contardi. Anni ‘30 (coll. Gabriele
Balducci).
covata, proprio in quella casa lassù in
cima, che adesso hanno buttato giù per
costruirne una nuova. Mi ha raccolto
Paolino, un vicino, perché la levatrice
non aveva fatto in tempo ad arrivare.
Quando ero più grande, Paolino mi
diceva continuamente: “Figlia mia, ti
1 Ammezzàdo: mezzovino, vinello. Dopo la pigiatura dell’uva, allora fatta con i piedi, sopra i
vinacci che rimanevano in fondo al tino, si versavano acqua calda e un po’ di zucchero. Si chiudeva il tino e si faceva bollire per cinque giorni circa. Quindi si cavava il liquido ottenuto e lo si
metteva in una botte, versandovi sopra la “grana”, ossia acini di uva fresca. Dopo una ventina di
giorni l’ammezzado era pronto, un mezzovino a bassa gradazione.
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un vicinàdo, perché la mammàna
nìa fatto in tempo ’rivà’. Quann’ero
più grànna, Paolì’ me dicìa sempre:
“Fija mia, t’ho ’rcòlto io, eri brutta
e piccola, le feccétte. Sci non passi
’nté ’l sacco, vèni più bòna del vi’”1
E a mamma ié dicìa sempre: “Marì’,
ce la farémo ’na donna?” Dicìa cuscì
perché io non magnàa gnè, non me
piacìa: ero ’na stécchia!
M’arcordo pogo de quann’ero
piccola e ’n ci’ho mango n’arsomèjo,
prò me ’rcontàa ’sti genidóri e nonni
che io da quattro anni già sapìa le
laude. Era piccola, secca, me mettìa
su dritta sopra ’l camì’ e lóra stèrene a sentì’, anca le padrone. ’Mpò’
m’arcordo che, dobo fatto, me battìa le ma’.
M’arcòrdo che io alla madìna
d’inverno gèra sempre ’nté ’l letto
de nonno e nonna a ’mpàrà’ le preghiere, cansó’, stornelli, ’mpo’ de
nigò. Nonna cìa pacènsia: quanno
me lìa ditte due vo’, già lìa ’mparàde. Cuélla vo’ cìa la testa bòna,
n’è como adè’ che non m’arcordo
de gnè.
Dobo, quanno ho comensàdo la
scòla, dicìa la maestra a mamma:
“Sta monella bécca subbedo!”
ho raccolto io, eri brutta e piccola, le
feccette. Se non passi nel sacco, vieni
più buona del vino”. E a mamma dice­
va sempre: “Maria, ce la faremo una
donna?” Diceva così perché io non
mangiavo niente, il cibo non mi piace­
va: ero uno stecchino!
Mi ricordo poco di quando ero pic­
cola e non ho neppure una fotografia,
però mi raccontavano i miei genitori e
i miei nonni che a quattro anni io già
sapevo le litanie. Ero piccola, secca; mi
mettevano in piedi sopra il camino e
loro mi stavano ad ascoltare, anche le
padrone. Un po’ mi ricordo che, dopo
che le avevo recitate, mi battevano le
mani.
Mi ricordo che la mattina d’inver­
no andavo sempre nel letto di nonno
e nonna mi insegnava le preghiere, le
canzoni, gli stornelli, un po’ di tutto.
Nonna aveva pazienza: quando me
l’aveva detti due volte, già li avevo
imparati. A quell’età avevo la testa
buona, non è come adesso che non mi
ricordo di niente.
Dopo, quando ho cominciato ad
andare a scuola, la maestra diceva
a mamma: “Questa bambina capisce
subito!”
1 Quando si mutava il vino, le fecce in fondo alla botte venivano messe in un sacco della
farina per farle scolare, finché non erano completamente asciutte. Quelli che avevano più vino
nonmettevano le fecce nel sacco, ma le facevano depositare in una grande bigoncia, che poteva
contenere anche un ettolitro. Questo sistema di decantazione dava un vino più buono di quello
normale.
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La scola
La scuola
Ai tempi nostri se gèra a scòla a
pìa, coi soccolòni ’nté i pìa d’inverno, d’istade e de primavera gèmma
scalsi, già de febbraro c’era cuélle
giornade calle, anc’à gennaro se scalsamma, se pïàa le scarpe su le ma’ e
via a scòla co’ ’na fetta de pa’ ’nté la
borcia, qualche vo’ anca muffa; pe ’l
companadigo non c’era gnè.
Se partìa a digiù, tante le vo’
gèmma a magnà’ cuélla fetta drendo
’l cesso, ché émma fame, e non iéla
fèmma a spettà’ fina le ùnneci.
Quanno rivàsci giù drendo cuèlla
scòla ’n c’era mango la stufa ’ccésa,
’n c’èra mango la bidella. Cuélla
scòla era como ’na cadapécchia, su
per giù de ’na cappanna a pianteré’:
fortuna che dangià venìa comensànno la scòla nòa.
A mezzogiorno ce lassàa, ma la
Ai tempi nostri si andava a scuola
a piedi, con gli zoccoloni nei piedi d’in­
verno, mentre all’estate e in primavera
andavamo scalzi; già da febbraio c’era­
no quelle giornate calde, anche a genna­
io ci scalzavamo, si prendevano le scar­
pe in mano e via a scuola con una fetta
di pane, qualche volta anche ammuffi­
ta, nella borsa; come companatico non
c’era niente. Si partiva a digiuno, tante
volte andavamo a mangiare quella fetta
di pane dentro il gabinetto, perché ave­
vamo fame e non gliela facevamo ad
aspettare fino alle undici.
Quando arrivavi nella scuola non
c’era nemmeno la stufa accesa, nem­
meno la bidella. Quella scuola era come
una catapecchia, era una capanna a
pianterreno: fortuna che già venivano
costruendo la scuola nuova.
A mezzogiorno ci lasciava tornare
Scuola di Massa San Giacomo (Tirassegno). Anno 1925 (coll. Giuliano Sellari).
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a casa, ma io la prima elementare l’ho
fatta di sera laggiù al “Tiras­segno”.
Pensate un po’! Ci lasciava alle quattro
di sera, c’erano da fare quattro chilome­
tri di strada.
Già in autunno, quando il cielo era
nuvoloso e pioveva, si prendevano certe
paure! Io, che avevo tanta paura delle
civette, le sentivo cantare, stridere, mi
mettevo a correre quando rimanevo
sola, perché la mia era l’ultima casa ai
confini di Montalboddo. Fino alla fonte
Ragosto c’erano altri scolari, ma dopo
ero sola. Tante volte i genitori mi man­
davano incontro mio fratello, ma lui
sapeva che io avevo paura, allora si met­
teva dietro una fratta e scagliava sassi
sulle querce. Dopo io correvo anche di
più e lui si metteva a ridere forte. Allora
dicevo a mamma: “È meglio che non ce
lo mandate quel somaro!”
Anzi è come oggi che i bambini
vanno all’asilo, a scuola con i pulmini:
prima la fèra de sera: io la prima l’ho
fatta giù ’l “Tirassegno”. Pensade
’mpò vuà! Ce lassàa alle quattro de
sera, c’émma da fa’ quattro chilometri de strada.
Già d’autunno, quann’èra ’rnuvolado e pioéa, certe paure se piàa.
Io, ch’io tanta paura delle cioétte,
le sentìa a cantà’, a stride’, me mettìa a cure quanno armanìa sola,
perché la mia era l’ultima casa sui
confini de Montalbò’. Finànta giù
la fonte Ragosto c’era l’altri scolari,
ma dobo era sola. Tante le’ ò ce
mannàa a ’ncontramme mi’ fradello,
ma lu’ sapìa ch’io paura, se mettìa
drèdo la fratta e tiràa le sassade ’nté
le cerque. Dopo io curìa anca de più
e lu’ se mettìa a rìde’ forte. Allora
ié dicìa a mamma: “È meio che non
ce’l mannàde a cuél somaro!”
Anzi è como adè che i monelli va
Fonte di Ragosto (coll. Giancarlo Barchiesi)
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Anno scolastico 1931- 32: classi prima, seconda e terza della Scuola Elementare di Pianello, presso
l’abitazione Giombini. In prima fila: Paolino Paolinelli – Severino Romagnoli – Duilio Silvestrini –
Gilberto Cimarelli - Elio Pirani – Augusto Berta – Gino Berta – Secondo Camerucci – Lino Peverieri
– Rinaldo Pianelli – Sestilio Ricciotti. In seconda fila: Ida Bartolini - Velia Ricciotti – Anna Maria Leoni
– Anna Maria Cucchi – Milena Leoni – Vera Pasqualini – Gina Berta – Lena Bartolini. In terza fila: (?) –
Gina Pirani – Rita Giombini – Ferruccio Marchetti – Augusto Perini – (?) Pirani – Alma Ricciotti. (coll.
Gabriele Balducci).
all’asilo, a scòla coi pulmini: monta
su avanti casa e li ’rporta lì. Anca sci
piove, l’ombrella non ié serve; a me
l’ombrella me la dèra sempre quanno pioìa, perché la tenìa a conto,
ma qualche monello dispettoso le
rompìa. Allora ié dèra un corpetto
vecchio co’ le pezze: ’l mettìa su
la testa e via! Podìa mèttelo anca
davanti all’occhi, tanto le maghine
non c’era, al più cuàlca biscighétta
o cuàlche cavallo se ’ncontràa, ma
n’era tanti fitti!
Donca, la prima l’ho fatta lì ’l
tirasegno che era vicino al ponte
della Massa, e la maestra se chiamàa
salgono davanti casa e sono riportati lì.
Anche se piove l’ombrello non gli serve.
A me davano sempre l’ombrello quando
pioveva, perché lo tenevo a conto, invece
qualche monello dispettoso lo rompeva
e allora gli davano una giacca vecchia
con le pezze: la metteva sulla testa e via!
Avrebbe potuto metterla anche davanti
agli occhi, tanto le macchine non c’era­
no, al più si incontrava qualche bici­
cletta o qualche cavallo, ma questi non
erano tanto fitti. Dunque, la prima l’ho
frequentata lì, al Tirassegno, che si
trovava vicino al ponte della Massa, e
la maestra si chiamava Dome­nighelli
Tina, una supplente si chiamava Alba
20
Domenighelli Tina, e ’na suplènte se
chiamàa Alba Sturba, e ’n’antra Bice
Baranca. La prima classe, como v’ho
ditto, era de sera: alla madina fèra la
II e la III.
Dobo ha fatto la scòla nòa e lì
ci’ho fatto la seconda e la terza.
La maestra era Angeletti Laura in
Olivetti: me volìa tanto be’. Era la
prima a finì’ i compidi e me mannàa
a guardà’ ’l monello sua, Omero;
cuéll’altri due, Graziella e Gigi, era
a scòla lì co’ noà. Me mannàa anca
su alto a pïà’ latte e caffè. Cìa ’na
serva che se chiamàa Desdèmola.
Quanno piàa cuélla bella colazió’,
co’ la fame che cìa, l’averìa pappàda
’nté ’n momento. Noà cuélla robba lì
non se podìa magnà’, mango quanno
stèsci male. Scì, te fèra ’n goccio de
caffè col grà’ bruscàdo ’nté ’l carbó’,
mezzo bruciacchiàdo. Chi cìa i guadrì’ bruscàa l’orzo mónno, era più
bòno, ma ’n se podìa piantà’ che
anca lì volìa la parte ’l padró.
Era chiamado ‘monno’ perché ’n
cìa la camicia de pula come l’altro
orzo ed era anca più dolce. Era ’na
qualità che se battìa col bastó’ e
po’ ié se dèra ’na scroellàda co’ la
croellétta e po’ se bruscàa: se mettìa
nté ’na latta sul forno o scinó su
la servapadella vicino a la fiàra o,
sempre sul trepìa sul carbó’. Arpìo
la parola della maestra: ce mannàa
in due, col cariòlo e la damigiana,
a pïà’ l’acqua u la pompa ’ndó stèra
Roscetto. Po’ ce fèra scarpì’ l’erba
’nté ’l giardì’, ce fèra fa’ ’l teadro e
Sturba, un’altra Bice Baranca.
La prima classe, come vi ho già detto,
era di sera: la mattina si insegnava alle
classi seconda e terza.
In seguito hanno costruito la scuola
nuova e lì ho frequentato la seconda e la
terza. La maestra era Angeletti Laura
in Olivetti: mi voleva molto bene. Ero
la prima a terminare i compiti e mi
mandava a badare al figlioletto suo più
piccolo, Omero; gli altri due, Graziella
e Gigi, erano a scuola lì con noi. Mi
mandava anche al piano di sopra, (dove
era la sua abitazione), a prenderle il
caffellatte. Aveva una domestica che si
chiamava Desdemola. Quando prendevo
quella bella colazione, con la fame che
avevo, l’avrei pappata in un momento.
Noi quella roba lì non potevamo man­
giarla, nemmeno quando stavi male. Sì,
ti facevano un goccio di caffè col grano
bruscato sui carboni, mezzo bruciac­
chiato. Chi aveva i quattrini bruscava
l’orzo ‘monno’, che era più buono, ma
non si poteva piantare perché anche in
quello il padrone pretendeva la parte.
Era chiamato ‘mondo’ perché non aveva
la camicia di pula come l’altro orzo ed
era anche più dolce. Era una qualità di
orzo che si batteva con il bastone e poi
gli si dava una stacciata con la ‘croel­
letta’. Veniva quindi messo ad abbru­
stolire sopra una latta nel forno o sul
treppiedi vicino alla fiamma o sopra i
carboni accesi. Riprendo a parlare della
maestra: ci mandava in due, col ‘cariòlo’
e la damigiana a prender l’acqua sul
pozzo con la pompa, dove stava di casa
Roscetto. Altre volte ci faceva carpire
21
dobo ce regalàa ’na caramella. Me
mannàa anca a portà’ via la monnezza giù ’l grasciàro del contadì’.
Me volìa be’ ’mbelpò’. Dicìa sempre
a mamma: “ ’Sta monèlla fàdela studià’!”
Oste, scì che m’averìa piaciudo:
sarìa gida a Montalbò’ a pìa anca
du’ ’olte al giorno, envéce non cìa
mango da pensà’, co’ nantri cinque
fradelli e sorelle che cìa dannànse
a me. Dicìa ’sti genidori:- La scòla è
fatta pei fiji dei signori, vuà bisogna
che ’mparàde a fadigà’ sci voléde
magnà’ ’n pezzo de pa’.
E lì non te podìsci ribellà’: o bevi
o ’ffòghede!
l’erba nel giardino; ci faceva fare anche
il teatro e dopo ci regalava una cara­
mella. Mi mandava anche a portar via
l’immondizia giù il letamaio del conta­
dino. Mi voleva molto bene. Diceva sem­
pre a mamma: “Questa bambina fàtela
studiare!” Oh sì che mi sarebbe piaciu­
to: sarei andata a Montalboddo a piedi
anche due volte al giorno, invece non
ci dovevo neppure pensare, con altri
cinque fratelli e sorelle che erano nati
prima di me. Dicevano i miei genitori:
“La scuola è fatta per i figli dei signori,
voi dovete imparare a lavorare se volete
mangiare un pezzo di pane!”
E a quel tempo non ti potevi ribella­
re. “O bevi o ti affoghi!”
’Gnuno l’attrezzo suo
Ognuno l’attrezzo suo
Finìda la scòla, già te portàa a
fadigà’ giùppe ’l campo. Te fèra l’attrezzi adatti pe’ l’età e litta dovìsci
sta’ col brango; quanno pròpio non
iéla fèsci più, te mannàa ’mpezzetto
sotta ’na meriggia, ma piano piano
dovìsci ’rpïà’ ’l via.
Noà c’émma i genidori troppo
bòni, alla madina te lassàa dormì’
’mpo’ de più quanno non c’era ’l fié,
i baci, ma quanno c’era da ’rcòje
la spiga toccàa alsàsse prima della
levàda del sole e quanno era callo,
vèro le nove e mezza, se lassàa gi’.
Cuélla vo’ era orario del sole, non
era como adè’! ’Nté le faméje tutti
cìa ognuno l’attrézzo sua, anca i
Finita la scuola, già i genitori ti
portavano a lavorare per il campo.
Ti costruivano gli attrezzi adatti per
l’età e lì tu dovevi stare con il branco;
quando proprio non gliela facevi più,
ti mandavano per un po’ all’ombra, ma
piano piano dovevi riprendere il via.
Noi avevamo i genitori troppo
buoni; la mattina ti lasciavano dor­
mire un po’ di più quando non c’erano
i bachi, il fieno, ma quando c’era da
raccogliere la spiga, bisognava alzarsi
prima del sorgere del sole e poi, quan­
do era caldo, verso le nove e mezza si
smetteva di lavorare. A quel tempo si
seguiva l’orario del sole, non era come
adesso! Nelle famiglie ognuno aveva
22
grànni: oramai cìi pïàdo ma’.
Solo chi nìa tanta voja de fadigà
dicìa: “E sa a cuéllo i’ariesce, ci’hà
l’attrezzo mejo!” E babbo dicìa:
“Serà ’l sopramànnigo che non funsióna!”
Sci cualchidù’ te pïàa l’attrezzo
tua, te fèra ’ncaolà’, sìa da tené’
ognuno ’l sua, ce se scrivìa anca ’l
nome. C’era uno vicino casa nostra,
sa que ìa fatto? ’Nté ’l mànnigo cìa
scritto col ferro ’nfôgàdo: “Oggi
non l’amprèsto, domà’ serve a me.
Era ròspo ’mbelpo’:’n t’averìa dàtto
mango ’na corda pe’ strozzàtte! Prò
è morto anca lu’, l’attrézzi s’è scordàdo de pïàlli e mango i soldi. “Iè
’rmàsti sotta la guanciale” – se dicìa
coscì.
Adè ve n’arcónto una da ride’,
basta che non pensàde male, ve ’l
digo prima.
Pare schifosa, ’nvéce noliè pe’
gnè’. ’Na ò la farina, ’l gra’, tigàmi
de robba ’vansàda se tenìa ’nté le
càmbore, perché le case era pîne
de monelli, dormìane anca cinque
sei ’nté ’na càmbora. ’Sta donna cìa
’l marìdo morto sul letto e lìa stèra
a sède’ sopra al sacco della farina
de granturco. Piagnìa e sbattìa le
ma’’nté ’l mezzo ai ginocchi, dìmo
coscì, ’ndó c’era la farina pe’ la
pulènta.
E stade a sentì’ que dicìa: “Pôro
marìdo mia, ié piacìa tanto cuésta
ma chì sotta! È morto e n’ha polùdo
fanne mae ’na stufàda!” E piagnìa
piagnìa, ma alla gente che stèra lì
l’attrezzo suo, anche i grandi: ormai ci
avevi preso mano.
Solo chi non aveva tanta voglia di
faticare diceva: “E sa che a quello gli
riesce, ha l’attrezzo migliore!” E babbo
diceva: “Sarà il soprammanico che non
funziona!”
Se qualcuno ti prendeva l’attrezzo
tuo, ti faceva incavolare, ognuno dove­
va tenere il suo, ci scriveva anche il
nome. Un vicino di casa nostra sa che
cosa ha fatto? Aveva scritto sul mani­
co con il ferro infuocato: “Oggi non lo
presto, domani serve a me!” Era molto
tirchio: non ti avrebbe dato nemmeno
una corda per strozzarti. Però è morto
anche lui, si è scordato di prendere gli
attrezzi e anche i soldi. “Gli sono rima­
sti sotto il guanciale!” – si diceva così.
Adesso ve ne racconto una da ride­
re, basta che non pensate male, ve lo
dico prima.
Pare schifosa, invece non lo è per
niente. Una volta la farina, il grano,
i tegami con la roba avanzata si tene­
vano nelle camere, perché le case erano
piene di monelli, dormivano anche
cinque sei in una camera. Una donna
aveva il marito morto sul letto e lei
stava a sedere sopra il sacco della fari­
na di granturco. Piangeva e sbatteva
le mani in mezzo ai ginocchi, diciamo
così, dove c’era la farina per la polen­
ta.
E state a sentire che cosa diceva: “
Povero marito mio, gli piaceva tanto
questa qui sotto! È morto e non ha mai
potuto farne una stufata!” E piange­
va piangeva, ma alla gente che stava
23
ié venìa da rìde’, perché chi podìa
sapé’ che parlàa de pulènta!
Fàmo basta co’ le mattidà de
le donne, adè v’arcónto de ’n’ômo.
i’èra morta la moje, piagnìa e dicìa:
“Pôra mojé’ mia, cuànte le vo’ t’ho
guardàdo drendo al comò, alla cassetta per véde’ que c’era! Cuànte
’olte te volìa buttà’ da la finè’ e po’
m’artenìa! Cuànte le ò t’ho ditto
da mazzàtte, adè’ sai morta da per
te! Tìa messo a spendoló giù pe’ la
finè’ e te m’hai ditto: “Làsseme! Làs­
semme!” Me so’ commosso e t’ho
lassàdo! Adè como fô?
C’era ’l prède che ié fèra coraggio, ié dicìa: “Campo io, che non ce
lo ûda mae! Te la tròo una!” “No,
sapé! Sto be’ coscì!” Quanno ’l prède
era riàdo da pìa de le scale l’archiàma: “Sor curàdo, m’arcomànno, non
ve scordàde de cuéllo che m’éde
ditto!”
Cuéste era dell’anno che succedìa
nigò e i sorci portàane la farajolìna.
E po’ troppe ne so! L’arconterò? Sci
la morte non m’aritròa, l’arconterò
a paja nòa.
lì veniva da ridere, perché chi poteva
sapere che parlava della polenta!
Facciamo basta con le mattità delle
donne, adesso vi racconto di un uomo.
Gli era morta la moglie, piangeva e
diceva: “Povera moglietta mia, quan­
te volte ti ho guardato dentro il comò,
la cassetta per vedere che cosa c’era!
Quante volte ti volevo buttare dalla
finestra e poi mi trattenevo! Quante
volte ho detto d’ammazzarti, adesso sei
morta da per te! Ti avevo messo a pen­
zoloni dalla finestra e tu mi hai detto
‘lasciami lasciami!’ Mi sono commosso
e t’ho lasciato! Adesso come faccio?”
Il prete gli faceva coraggio, gli dice­
va: “Campo io, che non ce l’ho avuta
mai! Te ne trovo una!” “No, sapete! Sto
bene così!” Quando il prete era arriva­
to a piedi delle scale, (quest’uomo) lo
richiama: “Sor curato, mi raccoman­
do, non vi scordate di quello che mi
avete detto!”
Queste erano dell’anno che succe­
deva ogni cosa e i topi portavano la
mantellina. E poi troppe ne so! Le rac­
conterò? Se la morte non mi ritrova le
racconterò a paglia nuova.
’Na faméja da ’mirà’
Una famiglia da ammirare
Serà d’artornà a ’rcontà’ le cose
serie. Per di’ la veredà ’n tra sorelle,
e anca tra fradèlli, se gèra d’accordo perché, quanno c’è la pace ’n
tra la coppia, dobo i fjòli vène su
be’. Mamma sopportàa nigò; quanno
Sarà di tornare a raccontare le cose
serie. A dire la verità andavamo d’ac­
cordo tra sorelle, e anche tra fratelli,
perché, quando c’è armonia nella cop­
pia, dopo i figli crescono bene. Mamma
sopportava tutto; quando qualcosa non
24
La famiglia Ricciotti Emiliano al completo, con tre figli, cinque figlie, generi, nuore, nipoti. 25 aprile
1955. (coll. Tarcisio Ricciotti).
cualchicò’ ’n gèra be’, dicìa:” Divina
pacènsia aiudàdeme!” Babbo cuàlche vo’ luccàa, prò sfogàa da per
lu’, non la pïàa né co’ mamma, né co’
noà. Volìa be’ a tutti sei, prò le fémmene - dicìa sempre - ié dèra tanta
soddisfazió’. Non rispondémma mae
male, fadigàmma tutte d’accordo.
C’era ’l maschio più piccolo (era
cinque anni più granno de me) era
’mpo’ tignosétto, ma cuéllo più granno era ’n santo. Me dicìa a me:
“M’arlùstri le scarpe, te regàlo ’n
soldo”: Io sùbbedo. “ E po’, sci me
pulisci la biscighétta, te regàlo du’
soldi”: Allora scì, iè lavàa anca le
ròde, i pedàli, ié mettìa ’l fazzolétto
pulìdo ’nté la sella per no’ sporcà’
le càlse.
Ma più de nigò è che non era ’na
dittadura a casa nostra: per fadigà’
andava bene, diceva: “Divina pazienza
aiutatemi!” Babbo qualche volta gri­
dava, però si sfogava da solo, non la
prendeva né con mamma né con noi.
Voleva bene a tutti sei, però le femmine
- diceva sempre - gli davano maggiore
soddisfazione. Non rispondevamo mai
male, lavoravamo tutte d’accordo.
Il maschio più piccolo (era di cin­
que anni più grande di me) era un po’
capriccioso, ma quello più grande era
un santo. Mi diceva: “ Se mi lucidi le
scarpe, ti regalo un soldo”. Io subito. “E
poi, se mi pulisci la bicicletta, ti regalo
due soldi”. Allora sì, gli lavavo anche le
ruote, i pedali, gli mettevo il fazzolet­
to pulito sopra la sella, perché non si
sporcasse i pantaloni.
Soprattutto a casa nostra non c’era
una dittatura: nel lavorare facevi quel­
lo che volevi, non erano lavori forza­
25
facéi cuéllo che volìsci, n’èra laóri
forsàdi, como ’nté tante case, e dobo
vène spontanea la volontà de fadigà’.
Anca quanno se falciàa ’l gra’, ’l fiè’,
sappàa ’l gra’, ’l granturco, se mettémma ’n pezzetto sotta la merìggia.
Dicìa babbo: “Dobo rèsce de più,
quanno uno s’è ’rposàdo ’mboccó’!”
Envéce mi’ sòcero dicìa: “Sci uno
s’arpòsa, dobo è peggio, l’ossi dôle
de più!” La testa ié ragionàa luscì.
Prò anca ’nté la fameja nostra
c’era la severidà: non se bastignàa,
se gèra sempre alla Messa, se dicìa
lo rosario alla sera. Finànta che c’era
’ste sorelle gióvene era ’na faméja da
’mirà’. Noà c’émma solo sei èttri de
terra, dieci persone, s’ajudàmma da
tutte le vie, tenémma tante bèstie.
Quann’èra agosto, settèmbre fèmma
la fòja d’ólmo, mòro, caccìa, àrbori,
salce, foje de figo quanno ’n c’era
più ’l frutto, pàmpene d’ûa, brollì’
dell’óppi finida l’ûa, po’ finida la
jànda le brance de cerqua. A di’ la
veredà fumma peggio delle cavallètte: quanno fùmma passàdi noà,
pulìmma tutti i fossi, le sélve che
c’era lì dentórno.
Quann’era ’l sàbbedo e sera
c’era’na fila de crinelle pîne de ’sta
foja. Le bestie magnàa be’ e babbo
tutto contento, perché ’l padró’ ’l
lodàa che cìa ’na stallàda de bestie
bèlle. Fumma tutti d’accordo a fadigà’, ognùna c’émma l’attrezzo addattado all’edà. Quanno c’è ’n capo che
dirige be’, t’aggùsta a fadigà’.
Dobo magàra per premio te por-
ti come in tante famiglie e così viene
spontanea la volontà di lavorare. Anche
quando si falciava il grano, il fieno, si
zappava il grano, il granturco, ci met­
tevamo per un po’ sotto l’ombra. Diceva
babbo: “Il lavoro riesce di più, quando
uno si è riposato un pezzettino!”. Invece
mio suocero diceva: “Se uno si riposa,
dopo è peggio, perché le ossa dolgono di
più!”. La testa gli ragionava così!
Però anche nella famiglia nostra
c’era la severità: non si bestemmiava,
si andava sempre alla Messa e la sera
si recitava sempre il rosario. Fino a
quando c’erano le mie sorelle non spo­
sate era una famiglia d’ammirare. Noi
avevamo solo sei ettari di terra, dieci
persone, ci aiutavamo in tutti i modi,
tenevamo tante bestie. Nei mesi d’agosto
e di settembre facevamo la foglia d’olmo,
di moro, d’acacia, degli alberi, di salice,
le foglie di fico, quando non c’era più
il frutto, i pampini della vite e le foglie
degli oppi, una volta che si era vendem­
miato; in seguito, raccolta la ghianda,
le foglie di quercia. In verità eravamo
peggio delle cavallette: dove passavamo
noi, pulivamo tutti i fossi, le macchie
che c’erano dintorno.
Il sabato sera c’era una fila di ‘cri­
nelle’ piene di questa foglia. Le bestie
mangiavano bene e babbo era tutto con­
tento, perché il padrone lo lodava perché
aveva una stalla piena di bestie belle.
Eravamo tutti d’accordo nel lavorare e
ognuno, come ho già detto, aveva l’at­
trezzo adattato all’età. Quando c’è un
capo che dirige bene, ti piace lavorare.
Dopo, magari, per premio ti portava
26
tàa al mare ’mpàr de vo’ all’anno e
como c’era ’na puzza de ’na festa te
ce mannàa e quanno gèmma in giro
de domenniga o a ’na festa (cuélla
vo’ ’n se ne perdìa una!), mercàdi e
fiére (ce n’era anca du’ al mese), se
devertémma, almànco finànta che
non c’è stada la guerra. Fumma
tutti d’accordo. Como de Pasqua
c’èra i sercìzzi a Santa Croce; prima
fèmma ’mbiròccio de faétta o granturchétto pe’ le bestie, custodìmma
pùi cunìi e via tutti alle funsió’.
Pe’ la cena magnàmma ’mpezzo de
pa’ camminànno; delle vo’ c’era la
créscia ch’émma fatto ’l pa’. E via
tutt’an brango!
La domenniga, po’, venìa i vicinàdi
a giogà’ a bòcce, a carte d’inverno;
c’émma l’ara bella piana, se giogàa
be’ e babbo era sempre lì di ò col
fiasco del vì’. Ce venìa anca pe’ cuéllo. C’era’n vicinàdo che dicìa: “Da’
’mbicchierétto de vi’ a uno, comènça
a èsse’ quattro soldi!” Era tirchio!
Noà dicémma: “Spellarìa ’l pidocchio per pïàje la pèlle!” Cuélli ròspi
’l vi’ ’l vendìa; noà, envéce, ce ’l volìa
tutto per casa.
Prò cuéllo ce lìa da vende’ e bevìa
l’amezzàdo: appòsta cìa ’l fónno del
sua: al padró’ non ié dèra gnè, era
tutta robba sua.
Col passà’ dell’anni s’è sposàde
tutte ’ste sorelle: dal ’30 al’40 cìa
ûdo du’ morti e quattro sposarìzzi:
tre maridade e uno ’mojàdo. Pôri
genidori! s’è datti da fa’, accompagnàdi col male: la vecchiara dei
al mare un paio di volte l’anno; come si
sentiva odore di festa, ti ci mandava e,
quando andavamo in giro la domenica
o per una festa (quella volta non se ne
perdeva una!), mercati e fiere (ce n’era­
no anche due al mese), ci divertivamo,
almeno fino a quando non è iniziata la
guerra. Ad esempio a Pasqua c’erano gli
‘esercizi’ a Santa Croce; prima faceva­
mo un biroccio di favino o di grantur­
chetto per le bestie, custodivamo i polli
e i conigli e via tutti alle funzioni. Per
cena mangiavamo un pezzo di pane
camminando; qualche volta c’era la cre­
scia perché avevamo fatto il pane. E via
tutti in branco!
La domenica poi venivano i vicini
di casa a giocare a bocce, a carte d’in­
verno; avevamo l’aia bella piana, vi si
giocava bene e babbo era sempre lì din­
torno con il fiasco del vino. Ci venivano
anche per quello. C’era un vicino che
diceva: “Dare un bicchieretto di vino a
uno comincia ad essere quattro soldi!”
Era tirchio! Noi dicevamo: “Spellerebbe
il pidocchio per prendergli la pelle”.
Quelli avari il vino lo vendevano; noi,
invece, lo consumavamo tutto per casa.
Quello ce l’aveva da vendere e beveva l’
‘ammezzàdo’: per questo aveva il podere
di sua proprietà: al padrone non doveva
dare niente, era tutta roba sua.
Col trascorrere degli anni si sono
sposate tutte le mie sorelle: dal ’30 al ’40
la nostra famiglia ha avuto due morti
e quattro sposalizi: tre maritate e uno
ammogliato. Poveri genitori, si son dati
da fare, accompagnati dal male: la vec­
chiaia dei nonni. A quel tempo non si
27
nonni. Cuélla vo’ ’n se pïàa la pensió’, se pagàa tutte le medicine,
l’ospedale. Del ’40, che non c’era i
soldi per pagà’ l’ospedale, c’è venudi
a sequestrà’ le vacche: ha toccàdo
a troà’ i soldi per pagà’ l’ospedale.
Ottan­talire a cuéi tempi!
prendeva la pensione, si pagavano tutte
le medicine e l’ospedale. Nel ’40, quando
non c’erano i soldi per pagare l’ospeda­
le, son venuti a sequestrare le vacche: si
son dovuti trovare (in prestito) i soldi
per pagare l’ospedale. Ottanta lire a
quei tempi!
I fradelli
I fratelli
Io ci’avìa anca du’ fradelli: io
volìa be’ a tutti due uguale, ma era
uno più bòno e uno meno bòno. Uno
non volìa manco gi’ a scòla. ’Na ò
mamma i’ha datto ’na magnàda de
fàa per portalla alla maestra e lu’
sa que ha fatto? La fàa l’ha datta al
porchetto de ’n compagno sua e po’
s’è messi tutti due a giogà’ a piàstre1
intanto ’l porco magnàa la fàa. S’è
fatto mezzodì, è ’rvenudo a casa e
mamma i’ha ditto: “Que t’ha ditto la
maestra della fàa? E lu’ i’hà risposto:
“M’ha ditto ‘ringrazzia tanto alla tua
mamma della fava!’ ”. Ma pensade
vuà como l’ha comedada be’! ’L porchetto l’avìa magnada, ma cuéllo,
perdéro, comedàa be’ quattr’ovi ’nté
’n piatto!
Non gli piacìa né a gì a scòla
né a fadigà’. Quann’era piccolo, mi’
Avevo anche due fratelli: volevo bene
a tutti e due allo stesso modo, ma uno
era più buono e uno meno buono. Uno
non voleva neppure andare a scuo­
la. Una volta mamma gli ha dato una
mangiata di fava perché la portasse alla
maestra e lui sa che cosa ha fatto? La
fava l’ha data al maiale di un compa­
gno suo e poi si sono messi tutti e due
a giocare a ‘piastre’, mentre il maiale
mangiava la fava. È arrivato mezzo­
giorno, è ritornato a casa e mamma gli
ha domandato: “Che cosa ti ha detto la
maestra della fava? E lui le ha risposto:
“Ringrazia tanto la tua mamma per la
fava!” Ma pensate voi come l’ha siste­
mata bene! Il maiale l’aveva mangiata,
ma quello, veramente, sistemava bene
quattro uova in un piatto!
Non gli piaceva andare né a scuo­
la, né a lavorare. Quando era piccolo,
1 piastre: gioco con le stesse regole delle bocce, che sono sostituite da mezzi mattoni
o ciottoli schiacciati. Questi, una volta lanciati dai giocatori, devono avvicinarsi ad uno più
piccolo, che funge da boccino.
28
padre dicìa: “Chi fadìga magna, chi
non fadìga non magna!”. Allora lu’
ch’era piccolino non spiegàa ’ncó,
dicìa: “ Chi fìga magna, chi non
fìga non magna! Io magno scì, figo
no!”. E s’è mantenudo sempre con
cuéll’idea. Adè, poretto, è morto,
però non ié piacìa a fadigà’. S’è fatto
tutta la guerra in Albania, Russia, ha
perso ’n occhio al fronte russo, e a
sessant’anni è morto.
Io m’arcordo che è partido l’11
aprile 1939, e po’ ha scoppiado la
guerra. È ’rmasto sotta finànta al
1943, e po’ l’ha ’rmannàdo, perché
’n cìa più n’occhio.
mio padre diceva: Chi fatica mangia,
chi non fatica non mangia!” Allora lui,
che era piccolino e ancora non parlava
bene rispondeva: “Chi fìga mangia, chi
non fìga non mangia! Io mangio sì, figo
no!” Ed è rimasto sempre con quell’idea.
Adesso, poveretto, è morto, però non gli
piaceva lavorare. Ha combattuto tutta
la guerra in Albania, in Russia, ha per­
duto un occhio sul fronte russo e, a ses­
sant’anni, è morto.
Io mi ricordo che è partito l’11 apri­
le 1939, e poi è scoppiata la guerra. È
rimasto sotto le armi fino al 1943 e poi
l’hanno congedato, perché non aveva
più un occhio.
Le tre Messe della pôra mamma
Le tre Messe della povera mamma
La doménniga mamma ce
chiamàa vèro le cinque, perché lìa
volìa scontà’1 ’mpo’ de Messe. Alle
sei se partìa da là San Bonaventura.
Cuéi granni gèra alla Messa tardi,
noà monelli, como ce chiamàa noà
tre più piccoli (io, mi’ fradello e mi’
sorella), ce portàa la pôra mamma a
’ste Messe.
Ce alsàmma ’mpo’ de fuga, a
lavàsse con cuéll’acqua jàccia e po’
se partìa co’ ’mpàr de zoccoli ’nté
i pìa, sci fèra pròpio freddo, e le
scarpe su le ma’. Sci c’era la malta,
La domenica mamma ci svegliava
verso le cinque, perché lei voleva ‘sconta­
re’ qualche Messa. Alle sei si partiva da
San Bonaventura. Quelli grandi anda­
vano alla Messa tardi, noi ‘monelli’,
come ci chiamavano noi tre più piccoli
(io, mio fratello e mia sorella), ci porta­
va a queste Messe la povera mamma.
Ci alzavamo un po’ in fretta, ci lava­
vamo con quell’acqua fredda e poi si
partiva con un paio di zoccoli nei piedi,
se faceva proprio freddo, e le scarpe sulle
mani. Se c’era il fango, questo schizza­
va; fino sulla testa arrivavano gli schiz­
1 Scontàre: assistere ad una Messa per liberare dalle pene del purgatorio un caro
defunto.
29
sguilsàa; ànta su la testa ’rivàa i stùl­
si, tutta la vesta sguilsàda, che po’
pe’ pulìlla c’era da fadigà’ ’n’ora co’ la
scopétta mollàda ’ntéll’àqua: sci era
de terra gèra be’, ma sci era de strada
’ndó se butta la bréccia, facìa como ’l
cimènto e la calce dràuliga.
Dónca gèmma a Montalbò’ a pìa:
du’ o tre ne partìa da casa nostra,
altre du’ tre da Marietta de Panaro, e
po’ gèmma giù, cominciàmma a chia­
mà’ a Fonte Ragosto a Quinta, po’ più
in qua c’era la Tambùra, chiamamma
la Tambura, e po’ la Santóna, e po’
Daniela del Bar­chie­se. Cualcun’altra
s’accompagnàa per­ché ce sentìa a
chiacchierà’: cualchidùna coi monelli, cualchidùna no.
Po’ quanno ’rivàmma a Montalbò’
se lavàmma i pìa ’nté la cannella de
Roscetto: c’era cuélla ròda grossa
col manfro che se giràa a ma’. Scinó,
quanno n’era móllo, ’rivàmma fina
su le scalette de la Palandróna. Per
quanno ’rivàmma su, vèro le sei e tre
quarti le sette, lìa era già arlevàda.
Cuélla vo’ c’era la luma, ’n s’accendìa la luce como adè’.
Lì le scalette, lì de giù ce lassàmma i zòcchi a bocca sotta, perché sci
pioìa ’n s’ammollàa, e ce mettémma
le scarpe, anca i calsétti d’inverno.
All’istàde ce lavàmma, ma d’inverno
no: ’n c’émma gnè per sciuccàcce.
Pensade vuà... con cuéi pìa, tutti
sguilsàdi!
Po’ tutte alla Messa. Cuélla pôra
mamma ne piàa due e anca tre: prima
gèra a Santa Croce, po’ al Crocifisso,
zi, tutta la veste era schizzata e poi, per
pulirla, bisognava lavorare per un’ora
con la spazzola bagnata nell’acqua: se
la veste si era sporcata di terra, andava
bene, ma se s’era sporcata sulla strada
dove si butta la ghiaia, ci si formava
come il cemento o la calce idraulica.
Dunque andavamo a Montalboddo
a piedi: due o tre ne partivano da
casa nostra, altre due tre da Marietta
de Panaro, e poi andavamo giù e, a
fonte Ragosto, cominciavamo a chia­
mare Quinta, e poi più in qua c’era
la Tambura, e la chiamavamo, poi
la Santona e Daniela del Barchiese.
Qualcun’altra si accompagnava perché
ci sentiva chiacchierare: qualcuna con i
‘monelli’, qualcuna da sola.
Quando arrivavamo a Montalboddo,
ci lavavamo i piedi nel pozzo di Roscetto:
c’era quella ruota grossa col manico che
si girava a mano. Sennò, quando la stra­
da non era bagnata, arrivavamo fino
sulle scalette della Palandrona. Quando
arrivavamo lassù, verso le sei e tre quar­
ti le sette, lei si era già alzata. Quella
volta c’era il lume, non si accendeva la
luce elettrica come adesso.
Lì per le scalette lasciavamo gli zoc­
coli rovesciati, così se avesse piovuto
non si sarebbero bagnati. Ci metteva­
mo le scarpe, d’inverno anche le calze.
D’estate ci lavavamo, ma d’inverno no:
non avevamo niente per asciugarci.
Pensate voi... con quei piedi tutti schiz­
zati! Poi tutte alla Messa. Quella pove­
ra mamma ne prendeva due e anche
tre: prima andava a Santa Croce, poi
al Crocifisso, poi a San Francesco. Io
30
po’ a San Francesco. Io fèra le tigne
perché començàa a èsse’ stufa, avìa
fame. La prima Messa cercàa da
sta’ bòna, ma po’ me stufàa. Allora
mamma me compràa ’n cavallùccio; c’era cuéi cavallùcci de pasta
che li fèra cuélla ciambellàra vèro
santa Croce. Ce gèra apposta io alla
Messa, pe’ magnà’ ’n cavallùccio.
Sgaggiàa anca la ciambellara: “Tre
caramelle ’n soldo, tre caramelle ’n
soldo!” Allora mamma tante le ò me
compràa cuélle, scinó ’n cavallùccio
che costàa du’ soldi, cuélli grossi
quattro.
facevo i capricci perché cominciavo a
stancarmi, avevo fame. La prima Messa
cercavo di stare buona, ma poi mi stan­
cavo. Allora mamma mi comprava un
‘cavalluccio’; c’erano quei ‘cavallucci’ di
pasta che li preparava quella ‘ciambel­
lara’ vicino a Santa Croce.
Alla Messa ci andavo proprio per
questo: per mangiare un ‘cavalluccio’.
Gridava pure la ciambellara: “Tre cara­
melle un soldo, tre caramelle un soldo!”
Allora mamma qualche volta me le com­
prava, sennò un ‘cavalluccio’ che costa­
va due soldi, quelli grossi quattro.
’N brango vèro Montalbò’
In branco verso Montalboddo
Quanno fumma ’mpo’ più granni
a la Messa a Montalbò’ ce se gèra
da per noà. Fumma ’n brango, otto
dieci fedàcce. Ce se chiamàa da ’na
casa all’altra, perché cuélla vo’ ’n
c’era l’invidia; scì c’era anca cuélla
ò ’mpo’ de rabbia, sci una era ’mpo’
più bella, ci’avéa ’na vesta ’mpo’
più bella..., ma se stèra be’ tutt’an
branco.
Partémma da là San Bona­
ventura e vène ’mpo’ a pìa finànta
a Montalbò’! C’émma da fa’ ’n’ora
de strada. Piàmma le scarpe su le
ma’, i calsetti all’inverno con l’àsti­
ghi (cuélla ò ’n c’era i colànte, c’era
l’àstighi!), ’l velo per su la testa,
’l fazzoletto da naso. Solo cuélle
che facìa l’amore cìa la borscét-
Quando eravamo un po’ più grandi,
alla Messa a Montalboddo ci andavamo
da sole. Eravamo un branco, otto dieci
ragazze... Ci si chiamava da una casa
all’altra, perché a quel tempo non c’era
l’invidia; sì, c’era anche quella volta un
po’ di rabbia, se una era un po’ più bella,
se aveva un abito un po’ più bello..., ma
si stava bene tutte in branco.
Partivamo da San Bonaventura
e vieni un po’ su fino a Montalboddo!
Dovevamo percorrere un’ora di strada.
Prendevamo le scarpe sulle mani, le
calze d’inverno con gli elastici (a quel
tempo non c’erano le collant, c’erano
gli elastici!), il velo per mettere sulla
testa, il fazzoletto da naso. Solo quelle
che facevano l’amore avevano la borset­
ta. Mamma diceva: “Prendi la borsetta,
31
ta. Mamma dicìa: “Pìa la borscétta,
métte nigò lì drendo!” Ma cuélle che
non fèra l’amore la robba ce nìa
tanta uguale: tutta su le ma’.
Oh, c’era con noà una de ’ste
amighe, che era bèlla eh!, ma cìa le
ma’ ’mpo’ prégne, cìa le mane lasche:
se perdìa ’na vo’ n’àstigo, ’na vo’ ’n
calsetto: ’na vo’ anca ’na scarpa s’è
persa! Toccàa artornàsse anca pe’
mezzo chilometro a cercàje ’sta scarpa. Co’ ’na scarpa ’n ce fa gnè nisciù,
ma sci trovàa n’àstigo la gente non
l’ardèra perché era soldi cuélla vo’.
Quanno passàmma pe’ la Massa,
como v’ho ditto, ce fermàmma da
Palandró’, envece pe’ ’l Paradiso
c’era la Bianchétta. Quanno fumma
rivàdi lì, ’st’amiga s’è ’ccòrta che non
cìa più n’àstigo, ’n cìa più ’n calsetto:
’n calsétto ne ’l mettìsci, ma senza
n’àstigo come fèsci? ’L legàvi co
’n fazzoletto da naso. Cuélla vo’ le
gonne n’era tanto curte, n’è como
adè’ che c’è le minigónne!
’St’amiga se vergognàa perché ni
tanto perdìa cualchicò’. Tante le ò
dimannàa: “C’éde ’l lènso?” ’L lènso
sarìa ’n pezzo de pezza vecchia strisciada: ce se legàa le gambe de’ puj,
quanno se portàa a vende’. Qualche
vo’ ié dèra ’l lènso la Palandróna o la
Bianchetta. Quanno se perdìa ’l fazzoletto da naso toccàa a domannàllo
a ’n’amiga tua e... ’n c’era como adè
cuélli de carta! E a pensà’ che cualchidù’ cìa le bóje ’nté ’l naso, ma ’n se
guardàa a gnè. Noà ié dicémma: “La
testa ’n te la perdi mae?”
metti tutto lì dentro!” Ma quelle che non
erano fidanzate di roba ne aveva tanta
ugualmente: tutta sulle mani!
Oh, c’era con noi una di queste mie
amiche, che era bella eh!, ma aveva le
mani un po’ come quelle delle donne
gravide, aveva le mani che lasciavano
cadere tutto: una volta si perdeva un
elastico, un’altra volta una calza, una
volta addirittura una scarpa s’è persa.
Bisognava ritornare indietro anche per
mezzo chilometro a cercarle la scarpa.
Con una scarpa non ci fa niente nessu­
no, ma se trovava un elastico la gente
non lo restituiva perché a quel tempo
erano soldi!
Quando passavamo per la Massa,
come vi ho detto, ci fermavamo da
Palandró, invece per il Paradiso c’era
la Bianchetta. Arrivate lì questa mia
amica si è accorta che non aveva più
un elastico, non aveva più una calza: la
calza non la mettevi, ma senza un ela­
stico come facevi? Legavi la calza con il
fazzoletto da naso. Quella volta le gonne
non erano tanto corte, non era come
adesso che ci sono le minigonne!
Questa amica si vergognava perché
ogni tanto perdeva qualcosa. Qualche
volta chiedeva: “Ce l’avete il ‘lenso’?” Il
‘lenso’ è una striscia di un pezzo di stof­
fa vecchia: ci si legava le gambe dei polli,
quando si portavano a vendere. Qualche
volta le dava il ‘lenso’ la Palandrona o la
Bianchetta. Quando si perdeva il fazzo­
letto da naso, bisognava domandarlo ad
una tua amica e.. non c’erano come oggi
quelli di carta! E pensare che qualcuno
aveva le croste nel naso, ma non si guar­
32
Po’ se gèra alla Messa, la Messa
cantada a Santa Croce. Cuélla lì ce
piacìa tanto, c’era la chiesa pîna
pîna. Cuélla vo’ piacìa a gi’ a la
Messa tardi, po’ sgappài dalla chiesa, te fèri quattro passeggiade giuppe la piazza e po’ ’rpïài la via de
casa: arcavài le scarpe, le pïài su le
ma’ e litta, quanno boccài giuppe
’l Paradiso o giuppe la Massa, di’
pure che quanno c’era ’ste sorelle
più granni, c’era sempre cualchidù’ che le venìa accompagnà’, perché dimannàa amore: non se fèra
como adè’, magara ’nté le balère!
Cuélla vo’, alle feste, se gèra apposta alla Messa tardi e se fèra i quattro giri de piazza, perché te dimannàa l’òmmini. Allora noàltri sempre
più addrèdo per vede’, pe’ cridigà’,
magàri sci era bello o brutto, sci
gèra magàra insieme... E po’, quanno ’rivài a casa, ’rcontài a mamma
quanno se magnàa, che c’era stado
cuéllo c’avìa dimannàdo a cuélla, a
cuéll’altra e noaltri ’mpo’ più monellòtti fumma più addrèdo.
Noàltri co’ mamma fumma como
sorelle, s’arcontàa nigò. A me magari me ne fèra sapé’ poghe, perché
era la più piccola, e ’ste sorelle,
quanno c’era da di’ cualco’ de più
da nascosto gèra là la càmbora e
la chiudìa la porta. A me non me
ce facìa boccà’, perché spargìa le
saette. Sapéde... no? “I puj, i monelli
e i vecchi è cuélli che smèrda la
casa!” Dobo, quanno so’ doventada
più granna anch’io, se gèra sempre
dava a niente. Noi le dicevamo: “La testa
non te la perdi mai?”
Poi si andava alla Messa, la Messa
cantata a Santa Croce. Quella lì ci pia­
ceva tanto, la chiesa era piena piena.
Quella volta piaceva andare alla Messa
tardi, poi uscivi dalla chiesa, facevi
quattro passeggiate per la piazza e poi
riprendevi la via di casa: toglievi le scar­
pe, le prendevi sulle mani e lì, quando
iniziavi la discesa del Paradiso o della
Massa, di’ pure che, quando c’erano le
sorelle mie più grandi, c’era sempre
qualcuno che le veniva ad accompagna­
re, perché chiedeva di fidanzarsi: non si
faceva come adesso, magari nelle bale­
re!
A quel tempo, nei giorni di festa si
andava di proposito alla Messa tardi e
si facevano i quattro giri di piazza, per­
ché ti chiedevano gli uomini. Allora noi
restavamo più indietro per vedere, per
criticare, magari se era bello o brutto,
se per caso andavano assieme... E poi,
quando arrivavi a casa, raccontavi a
mamma, mentre si mangiava, che c’era
stato quello che aveva domandato quel­
la, quell’altra e noi un po’ più giovani
eravamo ancora indietro.
Noialtri con mamma eravamo come
sorelle, si raccontava ogni cosa. A me
forse me ne facevano sapere poche, per­
ché ero la più piccola, e queste sorelle,
quando c’era da confidare qualcosa di
più nascosto andavano nella camera e
chiudevano la porta. Non mi ci facevano
entrare, perché spargevo le chiacchiere.
Lo sapete... no? “I polli, i monelli e i vec­
chi sono quelli che smerdano la casa!”.
33
alla Messa tardi con cuéll’amighe
mia: Cardìna de Gresta, Righetta
del Frate, Linda del Panaretto, e po’
c’era Isola e Antonia de Pacente...
Gèmma via tutte ’n mucchio.
Cuélla vo’ c’era anca cuàlche
maschio, prò c’era sempre la rónda
sa... De una de ’ste fjòle c’era sempre
cuàlca madre: sole le fjòle ’n ce se
mannàa manco alla Messa tardi, perché avìa paura che le rapìa... chissà
che ié succedìa!
Dopo tante vo’, quanno fumma
giù ’l ponte della Massa s’encontràa
cuélle del Loredèllo e anca uno che
me volìa... Cuéllo me vedìa venì’ giù
pe’ la còsta de Manó’ e lu’ aspettàa
giù da pìa eh, giù ’l ponte! Quanno
che fumma lì, s’encrociàa: c’era anca
la sorella sua che venìa su col branco co’ noà.
Noà miga ci’anvergognàmma co’
le scarpe su le ma’, po’ sci era d’istade, como ho ditto, lì da Roscétto
c’era la pompa, lì se lavàmma be’
e po’ ’spettamma ’nté ’l sole che
se sciuccàa i pìa e po’ ce mettemma i zoccoli, cuélli fatti da per
noà co’ l’arvànzi, col ferretto ’nté ’l
tacco e su la pónta. Noàltre, quanno
se caminàa, fumma ’mpo’ ariàde:
ce pïàmma pe’ le mane, lì oltra la
piazza, e fèmma ’mpo’ le gallettèlle.
Allora se caminàa con cuéi zoccoli...
popón popón popón ‘nté cuéi madù’
oltra la piazza chioppàa... Mamma
mia, quanto saremmo stade ruzze!
Prò envéce dicìa ch’eravamo cuélle
’mpo’ più fini de cuél’altre, perché
In seguito, quando sono diventata più
grande anch’io, si andava sempre alla
Messa tardi con quelle amiche mie:
Cardina di Gresta, Righetta del Frate,
Linda del Panaretto, e poi c’era Isola e
Antonia de Pacente...
Andavamo via tutte assieme. Quella
volta c’era anche qualche maschio, però
c’era sempre la ronda sa! C’era sempre
qualche madre di una di queste ragaz­
ze: non mandavano le figlie da sole
neppure alla Messa tardi, perché aveva­
no paura che le rapivano... chissà che
cosa sarebbe potuto mai succedere loro!
Dopo, tante volte, scendendo, quando
eravamo al ponte della Massa, incon­
travamo quelle del Loretello ed anche
uno che mi voleva... Quello mi vedeva
venir giù per la discesa di Manó’ e lui
mi aspettava giù in fondo, sul ponte!
Quando eravamo lì, ci incrociava:
c’era anche sua sorella che si univa al
branco assieme a noi. Noi mica ci ver­
gognavamo con le scarpe sulle mani;
poi, se era d’estate, come ho detto, lì
da Roscetto c’era la pompa: ci lava­
vamo bene, aspettavamo al sole che si
asciugassero i piedi e poi ci mettevamo
gli zoccoli, quelli fatti da noi con gli
avanzi, col ferretto sotto il tacco e sulla
punta. Quando si camminava, noi ci
davamo delle arie: ci prendevamo per
mano, lì per la piazza, e facevamo un
po’ le vanitose. Allora si camminava
con quegli zoccoli... popón popón popón
su quei mattoni nella piazza facevano
rumore... Mamma mia, quanto saremo
state rozze! A pensare che dicevano che
eravamo quelle un po’ più fini delle
34
c’era anche de peggio, eh!
Dentro la chiesa cuélla pôra
mamma ce dicìa: “Monelle, stade
’mpo’ attenti! Caminàde in pónta de
pìa, che chioppa ’mpo’ meno”. E che
chioppa meno, anca da cima c’era ’l
ferro, come ’l ferro da cavallo, tanto
da pìa ’nté ’l tacco quanto da cima
’nté la pónta. Cuélle scarpe duràa
’mbelpo’, ’n se finìa mae perché per
tèra ’n ce toccàa la sòla, ce toccàa’l
fèro: cambiài ’l fèro, sci tante le
ò se staccàa perché le teste delle
bollétte se consumàa, ma le scarpe
’n se consumàa mae. La gioventù le
cambiàa ’mpo’ più spesso, ma l’anziani le portàa anche trent’anni! E
po’ chi cìa i pìa fatti be’, le scarpe ’n
se storcìa. Io, digo la veredà, n’è che
so’ fatta be’, prò i pìa era fatti be’: le
scarpe anche adè’, è vent’anni che
ce l’ho n’è storte pe’ gnè, non è che
pènde da ’na via o dall’altra, perché
quann’ero monella i pìa era corretti
be’: ’n paro de scarpe le dovìsci
portà’ sei o sett’anni. Pensa ’mpo’
i pìa era tutti gricciadi, da cima i
dédi era tutti mucchiàdi, ce fèra i
lupì’, ’nté ’l calcàgno se facéa tutte
biscìghe e bóje... e lì se gèra avanti.
altre, perché ce n’erano anche di peggio
eh!
Nella chiesa quella povera mamma
ci raccomandava: “Ragazze, state un po’
attente! Camminate in punta di piedi,
che fa un po’ meno rumore!” E che face­
vamo meno rumore! Anche sulla punta
c’era il ferro, come il ferro di cavallo,
tanto in fondo sotto il tacco, quanto in
cima sulla punta. Quelle scarpe dura­
vano molto a lungo, non finivano mai,
perché la suola non toccava per terra, ci
toccava solo il ferro: cambiavi il ferro,
se tante le volte le teste delle bullette si
consumavano, ma le scarpe non si con­
sumavano mai. I giovani le cambiava­
no un po’ più spesso, ma gli anziani le
portavano anche trent’anni. E poi chi
aveva i piedi benfatti, le scarpe non si
sformavano. Io, dico la verità, non è
che sono fatta bene, però i piedi erano
benfatti: le scarpe anche adesso sono
vent’anni che ce le ho e non sono stor­
te per niente, non pendono né da una
parte né dall’altra, perché quand’ero
piccola i piedi erano corretti bene: un
paio di scarpe le dovevi portare sei o
sette anni. Pensa un po’: i piedi erano
tutti raggrinziti, in cima le dita erano
tutte ammucchiate, ci venivano i calli;
nel tallone si formavano tutte vesciche e
croste... e lì si andava avanti!
’N salto avanti: da San Girolamo
Un salto avanti: da San Girolamo
Adè’ fô n’antro salto avanti e
po’ como ’l gambero ne farémo due
all’indrìa. Quanno me so’ sposàda,
Ora faccio un altro salto in avanti
e poi, come il gambero, ne faremo due
all’indietro. Quando mi sono sposata,
35
lajù ’ndo’ stèmma de casa, giù cuélla buga, giù ’l Trapónsio, anca lì se
gèra alla Messa. Me piacìa a gi’ a
la Messa a Montalbò’, perché c’ero
’bituàda... e po’ vidìa anca i parenti,
’ste sorelle, vidìa spesse vo’ a babbo
a mamma, zio, zia... Ce gèra anca
apposta, ma n’era tanto contenti che
gèmma alla Messa tardi sa...
All’inverno te ce mannàa ma
all’istàde, capirai quanno c’era da
fa’, ’n te ce mannàa manco! Allora
io cercàa sempre a tirà’ via a fa’ da
magnà’: prima facìa quattro o cinque sfoje de maccarù’; d’inverno se
facèa i maccarù sens’ovi, ce ne volìa
quattro o cinque sfoje perché fumma
in dieci, facèa l’intingolo, alla sveltra
facéo la càmbora e po’ dopo se gìa a
Montalbòdo. Le scarpe anche cuélla
vo’ se piàa su le ma’; fino a che ’n
ci’avéo i monelli piccoli, gìo be’, perché me vestìo io, vestìi tutti. Gìa su
Montalbòdo sempre con mi’ marido,
gèmma su a pìa... e anca lajù cìa le
compagne: c’era Elvia de Barigello,
c’era le fjòle del Vesco... Nadia e
altre du’ e tre ragazze, c’era le fjòle
de Sacchettóne, c’era le Piermatteo,
c’era anca Gaetano de Piermatteo,
n’amigo de scòla che ce fumma gìdi
insieme giù ’l Tirassegno...
Allora ce gèmma su insieme...
quanno fumma lassù, su la chiesetta
delle Grazie, lì ce stèra de casa la
Primavera: ce mettémma le scarpe.
Scinónca ce le mettémma da l’altra
mane, ’ndó c’era ’na casetta piccola
-adè manco m’arcordo chi ce stèra,
laggiù dove stavamo di casa, giù quella
buca, giù vicino al Triponzio, anche lì
si andava alla Messa. Mi piaceva anda­
re alla Messa a Montalboddo, perché
c’ero abituata... e poi vedevo anche i
parenti, le sorelle mie, spesse volte vede­
vo babbo e mamma, zio, zia... Ci anda­
vo anche per questo, ma i suoceri non
erano tanto contenti, eh, che andavamo
alla Messa tardi...
All’inverno ti ci lasciava andare, ma
all’estate, capirai quando c’era da fare,
manco ti ci mandava. Allora io cercavo
di affrettarmi a preparare da mangiare:
prima stendevo quattro o cinque sfoglie
di maccheroni; d’inverno si facevano i
maccheroni senza le uova, ci volevano
quattro o cinque sfoglie perché eravamo
in dieci. Preparavo il sugo, alla svel­
ta riordinavo la camera e poi dopo si
andava a Montalboddo. Le scarpe anche
quella volta si prendevano sulle mani;
fino a quando non avevo i figli piccoli,
andavo bene, perché vestita io vestivi
tutti. Andavo a Montalboddo sempre
con mio marito, andavamo su a piedi...
e anche laggiù avevo le compagne: c’era
Elvia di Barigello, c’erano le figlie del
Vesco... Nadia e altre due e tre ragaz­
ze, c’erano le figlie di Sacchettó, c’erano
le Piermatteo, c’era anche Gaetano di
Piermatteo, un amico di scuola per­
ché c’eravamo andati assieme giù al
Tirassegno...
Allora andavamo su assieme... e
quando eravamo lassù, sulla chiesetta
delle Grazie, lì abitava la Primavera: ci
mettevamo le scarpe. Oppure ce le mette­
vamo dall’altra parte della strada, dove
36
- lì ce facéa boccà’ drendo casa,
pôretta! Cuélla ce dèra ’no straccio
pe’ pulì’ i pìa, mettémma le scarpe
lì. Dobo per paga, quanno venìa
arcoje ’mpo’ de legna, ié se dèra
’mpar de fascine, scindó al tempo
dell’ua, ’na golùppa d’ua, al tempo
del granturco ié se dèra pe’ ’na
magnàda de polenta, al tempo del
grane - passàa capace - ié se dèra
’mpiatto de grane... se cosàa sempre, s’arconoscìa ’ste persone che
ce fèra métte’ le scarpe.
Cuélla lì, poretta, ié se dicìa la
Moscétta, - vedéde c’adè’ m’arcòrdo - era ’na vecchietta piccoletta,
’mpo’ curva, ma era deligatìna sa,
aveva ’na bella cucinetta calda, cìa
’l fôgo, ce facéa boccà’ sempre
drendo cuélla, poretta. Dopo l’arconoscémma: quanno venìa giù casa
ié se dèra anca’n goccio de vi’.
Dobo se partìa, se gèra a la
Messa: a me me piacèa anca dobo
sposàda, perché tenìa la moda di
quann’ero giovena, de fa’ ’na passeggiada giuppe la piazza. Te guardàa la gente, prò ormai sapìa ch’ìo
preso marido, non è che te guardàa
più tanto. Prò anca pe’ guardà’ le
vedrine, guardà’ le mode... ma cuélla vo’ le mode m’ha toccàdo a lassàlle gì’ tutte.
c’era una casetta piccola - adesso non
mi ricordo chi ci abitava -, lì ci faceva
entrare dentro casa, poveretta! Quella
ci dava uno straccio per pulire i piedi,
mettevamo le scarpe lì. Dopo, come
paga, quando veniva a raccogliere un
po’ di legna, le si dava un paio di fasci­
ne, oppure al tempo dell’uva, un involto
di uva, al tempo del granturco le si dava
per una mangiata di polenta, al tempo
del grano di solito passava e le si dava
un piatto di grano... ci cosava sempre,
si era riconoscenti con queste persone
che ci facevano mettere le scarpe.
Quella lì, poverina, era chiamata la
Moscetta -vedete che ora mi ricordo!- era
una vecchietta piccolina, un po’ curva,
ma era delicatina, sa! Aveva una bella
cucinetta calda, aveva il fuoco; quella,
poverina, ci faceva entrare sempre den­
tro. Le eravamo riconoscenti: quando
veniva giù casa, le si dava anche un
goccio di vino.
Dopo si partiva, si andava alla
Messa: a me piaceva anche dopo spo­
sata, perché tenevo la moda di quando
ero giovane, fare una passeggiata per
la piazza. La gente ti guardava, però
ormai sapeva che avevo preso marito,
non è che mi guardava più tanto. Però
anche per guardare le vetrine, guarda­
re la moda... ma quella volta ho dovuto
lasciarle perdere tutte le mode.
37
“Giuppe ‘l campo ogni porco ruma”
Per il campo ogni porco ruspa
A casa nostra ce fèmma la robba
per conto nostro: compràmma la
pezza e po’ la portàmma a tajà’
dalla Santarella, la sarta nostra. Lìa
ce la strongàa e noà la cucémma:
venìa be’. Po’ la stiràmma col ferro a
carbó’. Ce dicìa mamma: “Sta’ ’tènto
fija, che casca giù ’l carbó’!
’Ste sorelle più granne se facéa
la vesta per cónta de lóra e con la
dèlma che ci’avìa fatto la sarta. Cuscì
tajàa la vèsta pe’ noà più piccole,
tajàa le camicie da ômo, le calse, le
mudanne pe’ l’òmmini. Facìa ’mpo’
de nigò. ’L pôro babbo sapède che
dicìa? Dicìa: “Fjòle giuppe ’l campo
ogni porco ruma, drendo casa la
donna ha da sapé’ fa’ nigò! Quanno
se bócca ’nté le case e ’n s’arcàva le
gambe, se va a finì’ male: s’è malvisto da tutti!”
Allora ’ste sorelle avìa ’mparado
a fa’ nigò: merletti, calzetti, solette,
maglie, ricamà’, tajà’ i linsòli, foderette, pagni addosso. Quanno vidìa
a tajà’, mamma dicìa: “Fjòle, cento
misure e ’n tajo solo!”
Nelsò ’ndó avìa ’mparado ’ste
sorelle; me sa che gèra a tajà’ veste,
calze e camicie pe’ l’òmmini e po’
con cuél modello lì, pei più grossi
l’allargàa, i più piccoli l’ampiccolìa.
Se fèra da per noà anca i fazzoletti da
naso. Pe’ l’òmmini compràa la pezza
a scacchi, pe’ le donne bianghi, rosa.
Cuélli da ômo più granni, da donna
anca piccoletti. Se fèra anca cuélli
A casa nostra ci facevamo i vestiti
per conto nostro: compravamo la stof­
fa e poi la portavamo a tagliare dalla
Santarella, la sarta nostra. Lei ce la
tagliava e noi la cucivamo: veniva bene.
Poi la stiravamo con il ferro a carbone.
Mamma ci raccomandava: “Stai attenta
figlia, che cade giù il carbone!”
Le sorelle mie più grandi si faceva­
no il vestito da sole e con il modello che
aveva tagliato la sarta. Così tagliavano
la veste per noi più piccole, tagliavano le
camicie da uomo, i pantaloni, le mutan­
de per gli uomini. Facevano un po’ di
tutto. Il povero babbo sapete che cosa
diceva? Diceva: “Figliole per il campo
ogni porco ruspa, dentro casa la donna
deve saper fare tutto. Quando si entra in
una casa e non si riesce a sbrigarsela, si
va a finire male: si è malvisti da tutti!”
Allora le sorelle mie avevano impa­
rato a far tutto: merletti, calze, solette,
maglie, a ricamare, tagliare le len­
zuola, le federe, i vestiti da indossare.
Quando vedeva tagliare, mamma dice­
va: “Fi­gliuole, cento misure e un taglio
solo!”
Non so dove avevano imparato que­
ste sorelle; penso che andavano a farsi
tagliare le vesti, i pantaloni e le camicie
per gli uomini e poi con quel modello lì,
per i più grandi l’allargava, per i più
piccoli lo rimpiccioliva. Facevamo da
sole anche i fazzoletti da naso. Per gli
uomini si comprava la stoffa a scacchi,
per le donne bianca e rosa. I fazzoletti
da uomo erano più grandi, da donna
38
da saccoccì’ per l’òmmini, laoràdi
col filo de madassìna.
La pôra mamma, pe’ fa’ amparà’
noà più piccoli, dicìa: “Daje ’n fazzoletto da naso, faje fa’ l’urèllo a
giorno!”
anche piccoletti. Si facevano anche quelli
da taschino per gli uomini, lavorati con
il filo di matassina. La povera mamma,
per far imparare noi più piccoli, diceva:
“Dagli un fazzoletto da naso, fagli fare
il giornino!”
Cresima e Comugnió’
Cresima e Comunione
’Na ò la cresima se fèra a 6 anni.
La sàntola era mi’ sorella, cuélla più
granna. Cuélla vo’ era guasci como
adè: del 1929 se fèra ’na vestina
bianga co’ ’no spolverì’ blu sopra,
che l’ho portado pe’ parecchi anni,
finànta che boccàa i bracci ’nté le
mannighe.
Semo gidi a pìa a Montalbò’ a
cresimàsse, po’ sémo ’rvenùdi a
casa. Ìa invidado ’mpo’ de parenti,
’n pranzetto, e ’n tra tutti ìa fatto ’no
scudo! Cuélla vo’, prò, era muntubè.
Babbo me l’ha messi da parte e me
l’ha ’rdàtti quanno ho sposàdo.
Cuél vestido lì, della Cresima, era
’l primo che m’ìa fatto nòo. Quanno
del 1930 ha sposàdo mi’ sorella,
cuélla più granna, con cuél vestido
i’hò portado ’l mazzo dei fiori: tanto
non ce fèra la paccóna!
A 7 anni se fèra la Comugnió’, e
lì ce volìa tutto nòo! Dicìa mamma:
“Speràmo che questa è l’ultima!”
Ce volìa l’ànnima sensa nisciuna
macchia e io era vestida tutta de
biango: la veste lónga, biànga anca
la camicia sotta, de cottó’, che tessìa
Un tempo la Cresima si faceva a sei
anni. La madrina era mia sorella, quel­
la più grande. Quella volta era quasi
come adesso: del 1929 si indossava
una vestina bianca con uno spolverino
sopra, che ho portado per parecchi anni,
fino a quando le braccia entravano nelle
maniche.
Siamo andati a piedi per la Cresima
a Montalboddo e poi siamo ritornati a
casa. Avevano invitato alcuni paren­
ti, un pranzetto, e tra tutti avevo fatto
uno scudo. Quella volta, però, era molto.
Babbo me l’ha messo da parte e me l’ha
ridato quando ho sposato.
Il vestito della Cresima è stato
il primo che mi hanno fatto nuovo.
Quando nel 1930 ha sposato mia sorel­
la, quella più grande, con quel vestito le
ho portato il mazzo dei fiori: tanto non
ci facevo la vanitosa! A sette anni si
faceva la Comunione ed allora ci voleva
tutto nuovo. Diceva mamma: “Speriamo
che questa sia l’ultima!”
Ci voleva l’anima senza alcuna mac­
chia e io ero vestita tutta di bianco: la
veste lunga, bianca anche la camicia
sotto, di cotone, che tesseva mamma (la
39
mamma (la cannùttiera non c’era in
circolazió’): le calsòle coi lacci (non
c’era l’àstigo per noà), e la sottoveste sempre de cottó’, laoràde a ma’
da ’ste sorelle, sul collo ’na cèntine
o ’n merlettì’, davanti qualche disegnetto carino, fatto col filo molinè
sempre biàngo pe’ la Comugnió.
canottiera non c’era in circolazione):
le calze con i lacci ( non c’era l’elastico
per noi) e la sottoveste sempre di cotone,
lavorate a mano da queste sorelle mie,
sul collo una cèntine o un merlettino,
davanti qualche piccolo disegno carino,
ricamato col filo molinè sempre bianco
per la Comunione.
Bambine e bambini (cresimini e non) nel chiostro di San Francesco il 20 aprile 1937, festa del Corpus
Domini. In prima fila da sinistra: -?- , Arturo Mallucci, Marcella Mannarini, -?-, Fedora Fratoni, Anna
Diamantini, Guido Novelli (bambino seduto a terra), Egle Sgariglia, Emilietta Diamantini, Corinna
Galli, -?- ,Oliviero Migliorelli, Oliviana Olivi, Franceschina Marchetti. In seconda fila da sinistra: Rossana
Micci,ElenaManoni,FernandaFermi,LinaMallucci,GraziellaMarcellini,?Mannarini,-?-,AlfaBonazza,
Miranda Micci, -?- , Giuseppina Catalani, Lidia Bramucci. In terza fila da sinistra: Mario Marcellini, -?- ,
Fabio Cecchetti, -?- , Adelino Pellegrini, Adalberto Bruschi, Giancarlo Bedini, Flora Frulla, Marcella
Trillini, Nazzarena Della Vedova, Anna Bacchiocchi, Mirella Migliorelli. In quarta fila da sinistra:
Gabriele Paglialunga, ? Coacci, Rodolfo Luzi, Innocenzo Berrettini, Floriano Frulla, Alfonsina Pettinari
(con fascio littorio, scudo sabaudo e stella in testa, rappresenta l’Italia), Bruna Abbrugiati, Giuliana
Olivi, Floriana Ferretti, Delfina Paglialunga, Carla Barchiesi, Renza Sellari. Nella fila in alto da sinistra:
Carlo Carbini, Tarcisio Bedini, Manlio Bedini, ? Coacci, Agnese Marcellini, -?- , Elena Paradisi, Maria
Teresa Bedini, Marisa Benni (coll. Carlo Barchiesi).
40
Per me anca le prime scarpe
nòe, scinó me le compràa sempre
vecchie. I calzolari arvendìa anca
cuélle vecchie: era sotta de gomma
e sopra de pezza. Se compràa ’n par
de nùmberi o tre più granne e duràa
finànta 11-12 anni. Le portàa solo su
la piazza o drendo la chiesa: como
facìa a consumasse?
Per me anche le prime scarpe nuove,
sennò me le comprava sempre vecchie.
I calzolai rivendevano anche quelle vec­
chie: erano sotto di gomma e sopra di
pezza. Si compravano di un paio di
numeri o tre più grandi e duravano
fino a undici dodici anni. Si portava­
no solo sulla piazza o dentro la chiesa:
come facevano a consumarsi?
Eulalia
(nata 1924)
ed Elena Pianelli
(nata 1925) nel giorno della loro prima
Comunione.
(coll. Gabriele Balducci).
41
Vestidi per altre occassió’
Vestiti per altre occasioni
Pe’ altre occassió’ envéce se fèra
’sti laorétti, ’sti merlettì, ’ste cèntine col filo coloràdo de tutti i colori
che volìsci. C’era ’l filo a madassìne
che ’ncó’ ce l’ho da 60 anni, anca
da 80 anni fa. Era chiamàdo filo
perlè, molinè, segrinè. Quest’ultimo
era tanti fili fini messi assieme. Dobo
fèmma tutte agàde e ’sti fili i spartémma e ce se laoràa robba fina como
lino, ’l mùsciolo, la pelle d’ôvo: questa però la usàa i signori!
Quanno ce sposàmma. se fèra ’sta
robba chì, perché la pagàa lo ragazzo,
midà del vestido da sposa, midà della
càmbora, delle scarpe, del velo o ’l
cappelletto. La donna, envéce, allo
sposo ié pagàa la camicia, le mudànne, i calzetti, du’ fazzoletti da naso,
’l ciurlì o la gravàtta, le cannuttiere
non le portàa nisciù de’ contadì, non
so mango sci c’era in circolazió’.
Mango le mudànne l’òmmini non portàane tutti; tante le ò succedìa le
calse stroppe. C’era uno che stèra
a sède ’nté ’na sedia buga como le
calse sua: s’ènne accorti che ié ce
giogàa ’l gatto. Era ’mpo’ vecchiotto:
ve lo ’mmaginàde vua, che scenàda è
venuda fòra?
Ne succedìa delle belle, ma anca le
brutte. Pure le calse se tajàa e se cucìa
’nté ’n casa, ma tante le ò la maghina
per cùce’ era vecchia ’mbelpò’, fèra
’nté la righetta la cadenèlla, e sci tiràa
’mpo’ quando se mettìane a cosció’,
brau!.. se scucìa! I poretti armanìa
Per altre occasioni invece si faceva­
no questi lavoretti: merletti e centine,
col filo colorato di tutti i colori che vole­
vi. C’era il filo a matassine che conservo
da sessant’anni, anche da ottant’anni fa.
Era chiamato filo perlè, molinè, segrinè.
Quest’ultimo era di tanti fili fini messi
insieme. Dopo li tagliavamo tutti in ‘agate’
(di una lunghezza adatta per un’infilatura
nell’ago), li dividevamo e ci si lavorava la
stoffa delicata come il lino, il ‘musciolo’,
la ‘pelle d’ovo’: questa però la usavano i
signori.
Si preparava questa roba qui per quando
ci si sposava, perché il ragazzo ne pagava la
metà; pagava anche la metà del vestito da
sposa, metà dei mobili della camera, delle
scarpe, del velo o del cappelletto. La donna,
invece, pagava allo sposo la camicia, le
mutande, le calze, due fazzoletti da naso, il
papillon o la cravatta; le canottiere non le
portava nessuno, non so neppure se c’erano
in circolazione. Neanche le mutande erano
portate da tutti gli uomini e capitava, a
volte, che i pantaloni fossero bucati. C’era
uno che stava seduto in una sedia bucata
come i suoi pantaloni: si sono accorti che
gli ci giocava il gatto! Era un po’ vecchiotto:
ve lo immaginate, voi, che scenata è venuta
fuori?
Ne capitavano delle belle, ma anche delle
brutte. Pure i pantaloni si tagliavano e si
cucivano in casa, ma talvolta la macchina
da cucire era molto vecchia, faceva nella
cucitura la ‘catenella’, e se tirava un po’
quando gli uomini si mettevano accoscia­
ti... brau... si scucivano! I poveretti rima­
42
co’la vergogna scuperta! Mamma ci
dicìa:- ’Nté ’l cavallo fàdece du’ tre
righette, coscì non sa da sdruge’!”
Scinó, anca de battidure i sforsi era
tanti, sci non era cucìdi col filo de
réfe bòno, se sdrucìa fàciole. Era
tutti rigadì’ tessudi ’nté ’n casa: sci
n’era manganàdi be’, erane duri che
sci li mettìi ’mpiazzadi be’, stèrene su
dritti da per lóra. Podede ’maginàvve
como era mòrbedi addosso! E po’
dobo sei sette anni che li portàane ce
se ’taccàa pezze sopra pezze, tante le
ò non se sapìa qual era la vera sorte.
E i linsòli? Li vedìsci stesi ’nté
qualche faméja ruzza, era pezze
so­pra pezze, tre ’olte una sopra l’altra, magàri anca cucìdi a ma’, col filo
co­lorado. De cuélle mamma dicìa:
“Donne pénce, n’hanne mai toccado
l’ago!” Ma la colpa era sempre de
cuéi più granni che non ìa ’mparàdo.
’N tra la susta e le pezze pesàa quanto ’na cupèrta, e lì quanno boccàa
’na sposa, ’nté ’na fameja luscì, che
magàra a casa sua era ’na diferenza
como al giorno e la notte, se crepàa
dalla pasció’!
A cuéi tempi la donna non c’era la
moda a gì’ a casa del ragazzo prima
de sposà’, era ’na donna finida sci pe’
le sorte che non la sposàa. Quanno
ha toccàdo a me avìa ’mpo’ cambiado: io ce so’ gida ’mpar de ò. Mamma
per otto giorni ha portado ’l muso,
me dicìa:- Sci te lassa gì’, armàni
giódiga... sai contenta? Io non ce
pensàa per gnè: me volìa tanto be’!!!
nevano con ‘la vergogna’ scoperta! Mamma
ci diceva: “Nel cavallo fateci due tre cuci­
ture, così non si scuciono!” Sennò anche
durante la trebbiatura gli sforzi erano
tanti, se non erano cuciti col filo de réfe
buono, i pantaloni si scucivano facilmen­
te. Erano tutti di rigatino, tessuti in casa:
se non erano stati manganati bene, erano
così duri che se li mettevi piazzati bene,
stavano diritti da soli. Potete immaginare
come erano morbidi una volta indossati! E
poi, dopo sei o sette anni che li portavano,
ci si attaccavano pezze sopra le pezze, tante
le volte non si sapeva più quale era la stoffa
originale.
E le lenzuola? Le vedevi stese in qualche
famiglia rozza, erano pezze sopra pezze,
tre volte una sopra l’altra, magari anche
cucite a mano col filo colorato. Di quelle
mamma diceva: “Donne disordinate, non
hanno mai toccato l’ago!” Ma la colpa era
di quelli più grandi che non glielo avevano
insegnato. Tra il luridume e le pezze quel­
le lenzuola pesavano quanto una coperta;
quando in una famiglia così entrava una
sposa e magari, rispetto a casa sua, c’era
una differenza come tra il giorno e la notte,
quella crepava dalla sofferenza!
A quei tempi non c’era l’usanza che la
donna andasse a casa del fidanzato prima
di sposare, sarebbe stata una donna finita
se per caso non l’avesse sposata più. Quando
è toccato a me, era un po’ cambiato: io ci
sono andata un paio di volte. Mamma per
otto giorni mi ha portato il muso, mi dice­
va: “Se ti lascia andare, rimani zitella... sei
contenta?”
Io non ci pensavo per niente: mi voleva
tanto bene!!!
43
La tèssédùra
La tessitura
Adè che sémo su ’st’argumento ve
digo como se facìa a tesse’ ’nté’n casa.
Quanno che mamma ce fèra la
dòda, al venardì gèra al mercado a
Montalbòdo e compràa ’n pacco de
cottó’, fatto tutti madassù’, cuscì.
Adesso che siamo su quest’argomen­
to vi parlo di come si tesseva a casa
nostra. Quando mamma preparava
la dote, il venerdì andava al mercato
a Montalboddo e comprava un pacco
di cotone, raccolto in grandi matasse,
così.
Dobo se mettìa uno per vo’ ’nté ’l
dopanadóre. C’era prepràdi, tajàndo
tra ’n nòdro e l’altro ’na canna, grossa tre centìmedri de diàmedro, tanti
‘cannellù’ lónghi ’na venticinquìna
de centimedri.
Lì col mulinèllo ce se ’nvuricchiàa ’sto filo de cottó’; se ne mettìa
la quinta parte del madassó’, se dividìa per cinque cannellù’.
Dopo le si mettevano, una alla volta,
nel dipanatoio. Intanto erano già stati
preparati, tagliando, tra un nodo e l’al­
tro, una canna grossa tre centimetri di
diametro, tanti ‘cannelloni”, lunghi una
venticinquina di centimetri. Attorno a
questi, aiutandosi con il mulinello, si
avvolgeva questo filo di cotone: si distri­
buiva ogni grande matassa in cinque
‘cannelloni’.
E dobo c’era n’antro aggéggio
quadràdo, alto ’n medro, diviso in
quattro parte, che cìa tutti buganèlli
e lì c’era tutti fil de fèri o cannùcce fine fine, e se ficcàa drendo ’sti
E dopo c’era un altro attrezzo qua­
drato, alto un metro, diviso in quattro
parti, che aveva tanti piccoli buchi; lì
c’erano tutti fili di ferro o canne sottili
44
cannellù’ pîni de filo, anca quaranta
cannellù’ ce stèra ’nté ’st’aggéggio,
ch’era chiamàdo ‘l’urdidóre’. E po’
’sti fili li dovìsci ficcà’, uno per uno,
’nté i bughi de ’na tàolétta, che stèra
bollàda sopra l’urdidóre e ci’avéa
tanti buganelli quanti i cannellù’. Po’
dovìsci pïà’ tutti i fili dei cannellù’
‘nté ’na ‘olta, spartìdi a midà (20
x 20) e ce se fèra il nòdro, che po’
mettìsci sul becchedèllo da cima
de n’antro aggeggio, alto più de du’
medri, spartìdo in du’ parte, era
gemelli, e fissate una da cima e una
da pìa della cappànna.
Questo aggeggio ci’avéa tutti
piri o becchedèlli, da lóngo quattro
dédi da uno co’ l’altro, fatti be’ co’
la carta vedràda: dovìa èsse’ lisciàdi
be’. Lì se cominciàa da cima a legàcce ’sto mazzo de filo sul piro da
cima, e po’ ’na donna caminàa alla
drìa sempre co’ ’sti fili e gèra finànta
da pìa della cappànna e lì ce n’èra
l’altro aggeggio uguale.
sottili e lì venivano infilati questi ‘can­
nelloni’ pieni di filo: anche quaranta
‘cannelloni’ entravano in questo attrez­
zo, che era chiamato orditoio.
E poi si prendeva il filo di ogni ‘can­
nellone’, uno per uno, e lo dovevi far
passare in un buco di una tavoletta che
stava fissata sopra l’orditoio e che aveva
tanti buchi quanti erano i ‘cannelloni’.
Poi dovevi prendere tutti i fili assieme,
divisi a metà (20 x 20) e farci un nodo
per appoggiarlo sul primo cavicchio di
un altro attrezzo, alto più di due metri,
diviso in due parti e sistemate (rispetti­
vamente) in cima e in fondo alla capan­
na.
Questo attrezzo aveva tutti cavic­
chi o pioli, lontani quattro dita l’uno
dall’altro. Questi pioli dovevano essere
stati lisciati molto bene con la carta
vetrata. Così si cominciava da cima a
legarci il mazzo di fili sul primo piolo e
poi una donna camminava all’indietro,
sempre con questi fili e andava fino in
fondo alla capanna, dove c’era un altro
E sempre coscì, avanti e drìa,
finànta che ’n s’èra voidàdi tutti
attrezzo uguale.
Si andava sempre così, avanti e
45
’sti cannellù’. Una stèra sempre lì
l’urdidóre: scì se ne finìa uno, dovìa
sùbbedo argiontà’ ’l filo co’ n’antro
cannelló’ pîno. Dovìsci sta’ sveja,
no’ ’ncantàda, ché scì ’l mettìsci
’ndó l’ìsci messo la ’olta prima, fèsci
’n cavallo. Era chiamàdo coscì, e
sùbbedo bisognàa rimedià’, scinó
perdìsci la pendìgola, e sci ’n se
rimediàa, gèra spregàdo tanto filo.
Te dicìa: “Sai ’mbranàda! Pensa lì:
scì sai svojàda, dillo! Chì ce vôle
l’occhi sveltri e la mente aperta!”
Dovìsci pensà’ sempre lì; ogni dieci
viaggi avanti e drìa fèra ’n segno ’nté
’l filo co’ le brance dei càoli, che
marcàa be’ e, lavandolo, va via.
’Sto laòro se fèra sempre d’inverno, ché c’era più tempo. Dobo, voidàdi i cannellù’, se cavàa tutto ’sto
filo da ’sti piròli e se ’nvuricchiàa
’ntorno al collo pe’ non fàllo ’ntreccià’; po’ ’l portàa su casa, mettìa ’l
cennéràle per terra e ’l poggiàa lì
sopra. Dobo in due se giràa ’l subbio, fatto de legno con du’ ingranàggi. Una, a sède’ per terra, tiràa forte
’sto po’ po’ de madassó’ como ’na
treccia, pe’ fàllo ’nvuricchià’ be’
’nté ’l subbio del telaro. Tutto dogajàdo be’, ce se fèra ’n gran nòdro,
e po’ se mettìa per liccio e po’ per
dente.
Lì scì che ce volìa l’occhi fini e
bòni: i denti del pèttene era tutti
vicini, ce volìa ’na stecchia de canna
d’India, fina como ’na lama de rasó­
re, con tre dentìni. Lì te ce mettìa
’n filo per vo’ e ’l tirài verso te.
indietro, fino a quando non si erano
svuotati tutti i ‘cannelloni’. Una stava
sempre vicino al portacannelloni: se uno
se ne finiva, doveva subito aggiuntare
il filo con quello di un altro cannelllone
pieno. Dovevi stare sveglia, non incan­
tata, perché se lo mettevi dove l’avevi
messo la volta prima, facevi un ‘caval­
lo’. Era chiamato così, e subito bisogna­
va rimediare, sennò perdevi il bandolo,
e se non si rimediava, andava sprecato
tanto filo. Ti diceva: “Sei imbranata!
Pensa a quello che fai: se sei svogliata,
dillo! Qui ci vogliono gli occhi svelti e
la mente aperta!” Dovevi fare attenzio­
ne; ogni dieci viaggi avanti e indietro si
faceva un segno nel filo con le foglie dei
cavoli, che marcavano bene e, lavando
(la tela), il segno va via.
Questo lavoro si faceva sempre d’in­
verno, perché c’era più tempo. Dopo,
svuotati tutti i ‘cannelloni’, si toglieva
tutto il filo da quei pioli e lo si avvolgeva
attorno al collo per non farlo intreccia­
re; poi lo si portava in casa, si stende­
va il ‘cennerale’ sul pavimento e vi si
appoggiava sopra il filo. Quindi in due
si girava il subbio, fatto di legno e che
aveva due ingranaggi. Una, a sedere
per terra, tirava forte questo po’ po’ di
grande matassa come una treccia, per
farlo avvolgere bene nel subbio del tela­
io. Tutto uguagliato bene, ci si faceva
un gran nodo e poi si metteva per liccio
e poi per dente. In quel lavoro sì che ci
volevano gli occhi aguzzi e buoni: i denti
del pettine erano tutti vicini, occorreva
una scheggia di canna d’India, tagliente
quanto la lama del rasoio, con tre den­
46
Questo sempre in due. Sci saltài ’n
dentì’, ce fèra ’n fallo: dovìsci guastà’ nigò e ’rgì’ arèdo, scinó ’l fàllo
’nté la pezza, oltra che fèra brutto,
se stroppàa prima.
Era tutto calcolàdo!
tini. Lì ci mettevi un filo per volta e lo
tiravi verso di te. Questo sempre in due.
Se saltavi un dentino, si formava un
fallo: dovevi guastare tutto e ritornare
indietro, sennò il fallo, oltre ad essere
brutto, faceva strappare prima la pezza.
Adè su ’sto telàro ve digo anca ’n
indovinello:
Quattro còsce’nté ’n bel lètto
tutte quattro fa n’affètto,
trìcche- tràcche dàje dàje
gira gira le sonaje;
la sorcétta senza pelo
tricche-tràcche ié dà daéro,
c’è n’affare senza barba
più se calsa e più s’allarga.
Pe’ ’n fàvve pensà’ male ve digo
sùbbedo che le quattro còsce è le
bande del telàro, ’l letto è tutti i fili
bianchi vicini vicini; ogni vo’ che
se càlsa la pèdiga, c’è du’ ’ncan­
nàbule che fa rimóre; la sorcétta è
la trughèlla fatta a conca con due
buganìni, ’ndó è stada messa la cannellina del filo, cuéllo per tèsse’;
l’affàre sensa barba è la pèdiga, e
Era tutto calcolato.
Adesso su questo telaio vi dico anche
un indovinello:
Quattro cosce in un bel letto
tutte quattro fa un effetto
tricche tracche dagli dagli
girano girano i sonagli;
la sorcetta senza pelo
tricche tracche gli dà davvero;
c’è un aggeggio senza barba
più si spinge più si allarga.
Per non farvi pensare male vi dico
subito che le quattro cosce sono le ‘bande’
del telaio, il letto sono tutti i fili bianchi
vicini vicini; ogni volta che si spinge la
calcola, ci sono due rotelline, chiamate
‘ncannabule’ che fanno rumore; la ‘sor­
cetta’ è la spoletta fatta a conca con due
piccoli buchi, dove è stata messa la can­
nellina del filo, quello per tessere; ‘l’affare
47
più ce se càlsa più allarga la pàsa,
che sarìa tutti i fili de cottó’ che sta
formànno la pezza.
Co’ ’sto telaro mamma tessia le
lintime, i linsoli, i rigadì’, i sciuccamà’, le veste, le calse pe’ l’ommini, i toaiàdi, ’mpo’ de nigò, finànta i
pagnùcci pe’ le donne.
Alla madina d’inverno se alsava
alle 5, fèra le faccenne, piccìàa ’l
fôgo e po’ ne portàa ’na scallinàda
’ndó tessìa, perchè era freddo.
Quanno era ora de colazió’, vèro le
9, già ìa scòsso ’n segno: che sarìa
sette bracci dal naso alla pónta dei
senza barba’ è la calcola e più ci si spinge
e più si allarga la ‘pasa’ (ossia le fila
dell’ordito), che sono tutti i fili di cotone
che stanno formando la pezza.
Con questo telaio mamma tesseva le
tele del materasso e dei pagliericci, le len­
zuola, i rigatini, gli asciugamani, le vesti,
i pantaloni per gli uomini, i tovagliati,
un po’ di tutto, perfino i pannolini per le
donne. La mattina d’inverno mamma si
alzava alle cinque, sbrigava le faccende,
accendeva il fuoco e poi ne portava uno
scaldino dove tesseva, perché era fred­
do. Quando era ora di colazione, verso
le nove, aveva già superato un ‘segno’:
Giselda Luzietti (al fuso),
Ileana Contardi (arcolaio)
e, sullo sfondo, Armanda
Luzietti. Anno 1952 (coll.
Gabriele Balducci).
48
dìdi. I segni li fèra, como v’ho ditto,
co’ le brance dei càoli: quanno
urdìa, cuélle ’nté ’l filo biango macchiàa ’mbelpo’ be’.
Mamma era bràa muntubè’, dèra
i colpi giusti, parìa ’na campanella.
Anca noà ce pròvàmma, ma non
fumma bràe como lìa.
Dobo finido ’l subbio del filo
che lìa tessudo tutto, quanno era
rivado ’l filo ’nté i licci, ce fèra un
gran nodo e po’ la ’nvuricchiàa ’nté
’n basto’ stretto bembè, e po’ mettìa
la tàola, che ce se mettìa ’l pa’ pe’
fallo levidà’, sopra ’l taolì e lì ce
spianàa ’sto rodolo de tessudo e
sopra ’n’antra tàola con peso.
Pe’ ’sto peso ce fèra montà a
me e mamma co’ mi’ sorella tiràa
una per vo’, una da cima e una da
pìa co’ ’sta tàola e io sopra cascàa
’na olta de qua ’na olta de là: me
piacìa muntubè’. Era chiamado “a
manganà” per fallo doventà’ più
mòrbedo.
che sarebbero sette braccia dal naso alla
punta delle dita. I segni li faceva, come vi
ho detto, con le foglie dei cavoli: quando
‘urdìa’, cioè tesseva, quelle foglie nel filo
bianco macchiavano molto. Mamma era
molto brava, dava i colpi giusti, pareva
una campanella. Anche noi ci provava­
mo, ma non eravamo brave come lei.
Quando aveva tessuto tutto il filo del
subbio e il filo era arrivato nei ‘licci’, ci
faceva un gran nodo, avvolgeva la pezza,
molto stretta, in un bastone. La metteva,
poi, sulla tavola, dove ci si metteva il pane
per farlo lievitare, appoggiata sopra il
tavolo e lì ci stendeva questo rotolo di tes­
suto e sopra ci appoggiava un’altra tavo­
la con un peso sopra. Al posto di questo
peso ci faceva salire me: mamma e mia
sorella tiravano questa tavola una per
volta, una da una parte e una dall’altra
e io, che stavo sopra, cadevo una volta di
qua e una volta di là e mi divertivo tanto.
Questa operazione era chiamata ‘manga­
natura’ e serviva per far diventare il tes­
suto più morbido.
49
A biancà’ i linsoli al fiume
Ad imbiancare le lenzuola al fiume
Quanno ’sti genidori nostri col
telàro tessìa ’l panno per fa’ i linsòli, se gèra a biancà’ ’nté ’l fiume.
Prima scarpémma l’erba e co’ ’na
scopa lavàmma la breccia, po’ móllàmma le pèzze del panno; quanno
le tiràmma su ’nté la banchetta,
fèmma tutte pieghette, ’na spèce
a organetto, e dobo una tenìa ’sto
panno piegado e cuéll’altra pïàa la
pezza co’ ’na ma’ per parte e tiràa.
E coscì se stendìa per terra sopra
Quando i nostri genitori avevano
tessuto il panno con il telaio per fare
le lenzuola, si andava ad imbiancar­
lo al fiume. Prima toglievamo l’erba e
con una scopa lavavamo la ghiaia, poi
bagnavamo le pezze del panno; quando
le tiravamo su nella ‘banchetta’, faceva­
mo tutte pieghette, come fosse un orga­
netto, e poi una teneva il panno piegato
e l’altra lo prendeva con una mano per
parte e tirava. E così si stendeva per
terra sopra la ghiaia lavata e, quan­
Veneranda Chiappetti (nata nel
1903) sciacqua le lenzuola nel
fiume Misa.
Foto anni ’30 (coll. Lucio
Marcantognini).
50
a ’sta breccia lavada e, quanno col
mese d’agosto se sciuccàa spesso,
dovìsci ’rmollàllo ’n’antra ô, anca 7
o 8 ’olte al giorno.
Qualche ’olta s’ernuvolàa e
tronàa: toccàa a’rcòjelo de fuga,
scinó podìa ’rivà’ la pianara e portàa via anca a noà. ’Sti genidori cìa
spaurìdo, perché ’na ô è venuda la
pianara de Sant’Anna, chiamada
coscì perché era 26 de lùjo, pròpio
’l giorno de la santa. Ha ditto ’sti
genitori che giù pe’ ’l fiume ha portàdo via nigò: cadaste de legna...
C’era i contadì’ che cìa la mandria
dei porci vicino al fiume ié l’ha portadi via tutti. Uno che ’traérsàa col
biroccio e le vacche è ’riàda ’st’aqua
’nté ’na ô, era alta como ’n muro e
l’ha strascinàdo via. A pensà’ che
c’era ’l sole chì da noà, ma in montagna nìa fatta muntabe’.
Ma pensàde vuà: noà c’émma ’l
cariòlo, carcàmma ’ste canè’ pîne
de panno e via a casa. Una pïàa
’l timó’ e cuéll’altra spegnìa sotta
l’aqua sette otto chilomedri a pìa,
scalse, troni e lampi, anca sensa
ombrella. Quanno ’rivàsci a casa
mezza morta, magnàsci ’mpezzo de
pa’ duro, co’ ’n capo d’ûa o ’mpòmmidoro; delle ’olte caminanno fèsci
l’uno e l’altro, e cuél lavoro lì toccàa a fallo pe’ ’na quarantina de
giorni finché non era bello biango.
’Na ’olta per settimana, al sàbbedo, se buttàa su, se dicìa coscì. Se
fèra bóje’ ’n callàro d’aqua e po’ con
pezzo de ninsòlo vecchio se fèra ’l
do con il mese di agosto si asciugava
spesso, dovevi bagnarlo di nuovo, anche
sette o otto volte al giorno.
Qualche volta il cielo si annuvolava e
tuonava: bisognava raccogliere i panni
alla svelta, sennò sarebbe potuta arri­
vare la fiumana, che portava via anche
noi. I genitori ci avevano spaventati,
perché una volta è venuta la fiumana di
sant’Anna, chiamata così perché era il
26 luglio, proprio il giorno della santa.
Hanno raccontato i genitori che giù
per il fiume ha portato via tutto: cata­
ste di legna... C’erano i contadini che
avevano la mandria dei porci vicino al
fiume, glieli ha portati via tutti. Uno
che attraversava il fiume con il biroc­
cio e le vacche, è arrivata quest’acqua
all’improvviso, era alta come un muro,
e l’ha trascinato via. E pensare che da
noi c’era il sole, ma in montagna ne
aveva fatto tanta di acqua.
Pensate voi: noi avevamo il ‘cariòlo’,
caricavamo queste ‘canestre’ piene di
panno e via a casa. Una prendeva il
timone e l’altra spingeva sotto l’acqua
per sette otto chilometri a piedi, scalze,
tuoni e lampi, anche senza ombrello.
Quando arrivavi a casa mezza morta,
mangiavi un pezzo di pane duro con
un grappolo d’uva o un pomodoro; delle
volte camminando facevi l’uno e l’altro.
Quel lavoro lì bisognava farlo per una
quarantina di giorni, finché il panno
non era bello bianco.
Una volta per settimana, il sabato,
si ‘buttava su’: si diceva così. Si faceva
bollire una caldaia d’acqua e poi con
un pezzo di lenzuolo vecchio si face­
51
cenneràle, che se poggiàa su la secchia de la boccàda. Se stacciàa ’na
callaròla de cénnera lì sopra e giù
l’aqua boìda.
Da pìa de la secchia c’era ’n bugo
co’ ’no spinèllo de legno e se cavàa
la ranna, speciale pe’ lavà’ i pagni e
lavàcce anca la testa: rescìa de più
a ’mbiancàsse ’sto panno facènno
coscì.
Finido a ’mbiancà’ se fèra tutte
pieghétte e po’ ’l torcèllo, ma ’l
panno dovìa èsse’ sciucco be’. Uno
da cima uno da pìa ’nté ’l taolì’, uno
tiràa forte e cuéll’altro giràa tónno
per fa’ ’l torcèllo.’Sti torcelli dovìa
èsse’ fatti be’: non ce dovìa esse’
mango ’na griccia.
E all’inverno se cucìa i linsòli
coll’ago per ’taccà’ i teli insieme, da
cima e da pìa l’urèllo a giorno, ’nté
cuélli per sopra ce se mettìa ’l merletto o ’na bella sfiladùra. Ce se fèra
anche i lavori col telarìno: se portàa
a disegnà’ da ’na ricamadrìge e,
quanno non c’era da fadigà’ giùppe
’l campo chi ricamàa, chi ’l merlétto,
chi ’l giornino, chi le maje, chi i calsetti, solette coi ferri, chi col crocè:
disoccubadi non ce stera nisciù: sìa
da fadigà’ sci volìsci magnà’!
Quanto tempo e fadìga se dovìa
fa’ pe’ trasformà’ la cànnipa e ’l
cottó’ a linsòli: c’era da fadigàcce
più de n’anno. Adè è sparìdo nigò,
’sta mistigànza: c’è tutto prònto...
basta il dio quadrì’!
va il ‘cennerale’, che si metteva sopra
la secchia del bucato. Si stacciava una
calderella di cenere lì sopra e vi si but­
tava l’acqua bollente.
In fondo alla secchia c’era un buco
con una spina di legno, da dove si
toglieva il ranno, ch’era speciale per
lavare i panni e per lavarci anche la
testa: facendo così il panno imbianca­
va prima.
Finito d’imbiancare, si facevano
tutte pieghette e poi il ‘torcello’, ma il
panno doveva essere ben asciutto. Uno
si metteva in cima ed uno in fondo al
tavolino, uno tirava forte e l’altro gira­
va attorno per fare il ‘torcello’. Questi
‘torcelli’ dovevano essere fatti bene: non
ci doveva essere neppure una grinza.
E all’inverno si cucivano le lenzuo­
la con l’ago, per attaccare i teli insie­
me: in cima e in fondo il giornino, in
quelli per sopra si metteva il merletto
o un bello sfilato. Ci si facevano anche
i lavori col telaio da ricamo: si portava
(il lenzuolo) a disegnare da una rica­
matrice e, quando non c’era da lavorare
per il campo, chi ricamava, chi il mer­
letto, chi il giornino, chi le maglie, chi
le calze, chi le solette con i ferri, chi col
telaio da ricamo, chi con l’uncinetto:
senza far niente non ci stava nessuno:
si doveva lavorare se volevi mangiare!
Quanto tempo e fatica si doveva fare
per trasformare la canapa e il cotone in
lenzuola: c’era da lavorarci più di un
anno. Adesso è scomparso tutto, questa
mesticanza (di lavori): c’è tutto pron­
to... basta il dio quattrino!
52
La cannipa
La canapa
Dado che adè v’ho ditto che,
oltra al cottó, se ’dopràa la cannipa,
ve digo che se piantàa de marso e
aprile; quanno era d’agosto se scarpìa: da ’na parte se mettìa i maschi,
ch’era più alti e ci’avìa ’l fiore che
cascàa, e da ’na parte le fémmene,
più basse e ci’avìa la somènte.
Se fèra tutti mannocchietti, e se
portàa a madurà ’nté ’l fiume, tutta
sott’acqua e sopra ce se mettìa
’n peso e sopra anche ’no stratto
de breccia. Bisognàa pontàlla be’
scinó, sci venìa la pianàra, la portàa via e dopo ’ndó c’era ’l fiume
stretto, c’era la gente che l’aspettàa
per portalla via e così fèra le corde
e cuélla bòna per la tela, senza fadigàcce tanto.
Dato che ora vi ho detto che oltre
il cotone si usava la canapa, aggiun­
go che questa si piantava in marzo o
aprile; quando era d’agosto si sradica­
va: da una parte si mettevano i maschi,
che erano più alti e avevano il fiore che
stava cadendo, e dall’altra le femmine,
più basse, che avevano il seme.
Si facevano tutti piccoli mannoc­
chi, che si portavano a maturare al
fiume, tutti sott’acqua, perché sopra ci
si metteva un peso ed anche uno strato
di ghiaia. Bisognava fissarla bene (la
canapa), sennò, se veniva la fiumana,
la portava via e dopo, dove il fiume si
restringeva, c’era la gente che l’aspettava
per portarla via e così faceva le corde e,
con la canapa più buona, la tela, senza
faticare tanto.
53
Dopo otto giorni se gèra a tiràlla
fòra: se mettìa a sciuccà’, e po’ se
portàa a casa, e lì se pïàa la macìgna, la ’ngràmbola e la cincija e po’,
quanno era finida, se levàa cuélle
lische ’rmaste co’ le ma’ e se facéa,
como che c’era la moda da fa’, tutte
madàsse, che dobo se mettìa ’nté la
conocchia per filà’.
Adè ve fô vede’ como era fatta la
cincija, la macìgna e la ’ngràmbola.
Vedede ’sti disegni è ridigoli perché me trema ’mpo’ le ma’, ’na olta
me venìa anche be’, ma adè non me
dice più ’l vero gnè, mah... sarà la
gioventù!
Dopo otto giorni si andava a tirarla
fuori: la si metteva ad asciugare e poi
la si portava a casa. Lì si pigliavano la
‘macìgna’, la ‘’ngràmbola’ e la ‘cincija’ e
po’, quando era finita, si toglievano con
le mani le lische rimaste e si facevano,
come era usanza di fare, tutte matasse,
che poi si mettevano sulla conocchia per
fare il filo.
Adesso vi faccio vedere come erano
fatte la ‘cincija’, la ‘macìgna’ e la ‘
’ngràmbola’.
Vedete, questi disegni sono ridico­
li, perché mi tremano un po’ le mani.
Un tempo mi venivano anche bene,
ma adesso niente mi dice più il vero,
mah... sarà la gioventù!
‘L Museo dell’agricoltura
Il museo dell’agricoltura
Chi è vecchi como me, ’l sa be’
como era fatti ’st’attrezzi, io l’ho
dopràdi ’mbellepò de vo’ da monella, e anca dobo maridàda perché
anche ’ndó so’ boccàda c’era cinque fémmene, se ’dopràa ’mbelpò’ la
cannipa.
E sci volede vede ’st’attrezzi, giù
le Grazie de Senegaja c’è nigò, tutto
a disposizió’, c’è dalla a alla zéta. Io
ce so’ gida per meredo de ’n amigo
nostro e non ci’ha fatto pagà’ niè,
ma io so ’rmasta matta, perchè m’ha
’rcordado tutte le cose che ’dopramma quanno ero monella. Ogni attrezzo c’è ’na tabella suppe ’l muro pe’
Quelli che sono vecchi come me, lo
sanno come erano fatti gli attrezzi, io
l’ho usati molte volte quando ero ragaz­
zetta, e anche dopo sposata, perché
anche nella famiglia nella quale sono
entrata c’erano cinque femmine, e si
usava molto la canapa.
E se volete vedere gli attrezzi, alle
Grazie di Senigallia c’è tutto, tutto a
disposizione: dalla a alla zeta. Io ci sono
andata grazie ad un nostro amico e non
ci ha fatto pagare niente, ma io sono
rimasta stupita, perché mi ha ricorda­
to tutte le cose che usavamo quando ero
bambina. Per ogni attrezzo c’è una tabel­
la sul muro che dà spiegazioni a quelli
54
spiegà’ a cuélli che non ha fatto mai
i contadì’. ’St’amici nostri è persone
astùde, ’struìde; a pensà’, prò, che io
spiegàa a lóra, sensa lègge’ la tabella
sapìa tutti i nomi de nigò: ma quanto
m’ha piaciudo! Gìdece, po’ vedrede
sci è bello ’mbelpò’, sarìa “ ’L Museo
dell’agricoltura”, ma c’è certe cose
che te fa ’rmane a bocca aperta. C’è
certe bótte grosse che tenerà 60-70
tòllidri, c’è anca ’l nome. M’arcordo
de una, sarìa del Conte Ferraris,
che ci’hà ’na tenuda là per la via del
Vaccarìlle.
che non hanno fatto i contadini. Questi
amici nostri sono persone sveglie, istru­
ite.... Pensate, però, che ero io che davo
spiegazioni a loro; senza leggere la tabel­
la conoscevo i nomi di tutti gli attrezzi:
ma quanto mi è piaciuto!
Andateci, poi vi renderete conto se è
molto interessante; è il “Museo dell’agri­
coltura”: certe cose che ti lasciano a
bocca aperta. Ci sono alcune grosse
botti che conterranno 60-70 ettolitri,
c’è anche il nome (del proprietario). Mi
ricordo di una, del conte Ferraris, che
ha una tenuta sulla via del Vaccarile.
Galline e maccarù’
Galline e maccheroni
A me nonna me ’nsegnàa a fa’
da colazió’, da magnà’ a mezzogiorno, tajolì’o quadrelli, ’na olta
al giovedì maccarù, ma all’inverno
senza ôi non me venìa be’. Quanno
cominciàa ad èsse’ vèro carnoàle,
allora le galline fedàa. Cuélla vo’
se tenìa fòra, fedàa in giro, ’nté le
coàrole non ié piacìa perché c’era i
pidocchi pullì’.
Gèra giù pe’ le fratte, sotta le
cadàsse, ’nté i pajàri fèra la buga­
nella, anca ’nté le bughe dell’olmi,
i mori, ’ndó ià ’ncontràa; tante le
ò, sci c’era ’l gallo, non se ’rtroàa
’ndó fedàa, scappàa fòri le coàde
de pulcinelli.
Allora quanno i ’rtroàsci ’st’ôi,
me dicìa nonna: “Rómpeli prima ’nté
’mpiàtto: sci ’l ventèllo se squintèr­
Nonna mi insegnava a preparare la
colazione, il mangiare a mezzogiorno,
‘tajolìni’ e ‘quadrelli’, una volta, il gio­
vedì, i maccheroni, ma d’inverno senza
uova non mi venivano bene. Quando si
avvicinava il carnevale, allora le galline
facevano le uova. Quella volta venivano
tenute all’aperto, facevano le uova in
giro, a loro non piacevano le ‘covarole’
perché c’erano i pidocchi dei polli. (Le
galline) andavano (a far le uova) nelle
fratte, sotto le cataste (di legna), facevano
una piccola buca nei pagliai, anche nelle
buche degli olmi, dei gelsi, dove capita­
va. Talvolta, se c’era il gallo, se non si
ritrovava dove facevano le uova, usciva­
no fuori delle nidiate di pulcinelli.
Quando le si ritrovavano queste
uo­va, nonna mi diceva: “Rómpele prima
in un piatto: se il tuorlo si squaglia,
55
na vôl di’ che è tristi valli!”
A me a falla co’ l’ôi la pasta me
piacìa ’mbelpo’, ma volìa che li
impastasse duri. Dicìa: “Coscì te
vène mejo la sperna!” Ma ’na fadiga!
E po’ dobo fatto cuélla faccènna lì,
sùbbedo prònta ’n’antra, magari a
staccià’ pe’ ’l pa’ ’na olta per settimana. Cuéllo non me piacìa per
gnè: dovésci staccià’ ’n sacco de
farina per vo’ con due stacce: ce
volìa muntube’, guasci tre ore.
Quél laòro lì ’l facìa controgenio, ma cuélla vo’ le donne avìa da
sapé’ fa’ nigò e sta sotta al comanno
sensa fiadà’. Ansi è como adè: sci ié
comanni qualcò’ te risponne male e
te manna ’nté cuél paese. Io a nonna
non ié risponnéa mai male, e po’ sci
sentìa ’sti genitori che dicìsci ’na
parola storta, sgaggiàa muntubè’.
vuol dire che le uova sono marce.
Mi piaceva molto fare la pasta
con le uova, ma (nonna) voleva che le
impastassi dure. Diceva: “Così ti viene
meglio la sfoglia!” Ma era una fatica!
Appena sbrigata quella faccenda lì,
subito pronta un’altra, magari a stac­
ciare (la farina) per il pane una volta la
settimana. Quella non mi piaceva affat­
to: dovevi stacciare un sacco di farina
per volta con due stacci: occorreva molto
tempo, quasi tre ore. Quel lavoro lì lo
facevo controvoglia, ma a quei tempi le
donne dovevano saper far tutto e obbedi­
re senza fiatare. Anzi è come adesso: se
gli comandi qualcosa, ti risponde male
e ti manda a quel paese. Io a nonna non
rispondevo mai male. E poi, se aves­
sero sentito i miei genitori che dicevo
una parola storta, mi avrebbero molto
sgridato.
Le caramelle de frutta
Le caramelle di frutta
E po’ nonna ce volìa be’ ’mbelpo’. All’istàde preparàa le pròìste pe’
l’inverno, mettìa a seccà’ sul forno o
’nté ’l sole fighi, bregnù, ùa; e le mela
fèra le fettarèlle e po’ le fèra passì’
e le ’nfilsàa co’ ’no spago, le ’taccàa
’nté ’n chiodo al sole e po’ le mettìa
’nté ’na sacchetta bianga. All’inverno
per regàlo ce dèra cuélla robba lì al
posto delle caramelle e cioccolade e
noà fumma tutti contenti. Tante le ò
non era pròpio secchi be’ tanto i fighi
como i bregnù, ce fèra ’mpo’ de muf-
E poi nonna ci voleva molto bene.
D’estate preparava le provviste per l’in­
verno: metteva a seccare sul forno fichi,
prugne e uva . Tagliava a fettine le mele
e le faceva appassire, le infilzava in uno
spago e le appendeva ad un chiodo al
sole e poi le conservava in una sacchetta
bianca.
All’inverno per regalo ci dava quella
roba lì al posto delle caramelle e dei cioc­
colatini e noi eravamo contenti. Qualche
volta non erano ben seccati tanto i fichi
come le prugne, vi si formava un po’ di
56
fetta, ma nonna ce dicìa: “Cuélla è la
zuccarina che butta fòra ’l frutto”.
Anca quanno era ’l tempo delle
ceràse, che facìa cuéi vermini drendo, ce dicìa che non fèra male perché s’erane ’ncreàdi lì drendo... e
po’ bastàa che non fusse stado de
venardì!
muffa, ma nonna diceva: “Quella è la
‘zuccherina’ che mette fuori il frutto”.
Anche quando era il tempo delle cilie­
gie e dentro vi si formavano dei vermi,
(nonna) ci diceva che non facevano
male, perché erano nati lì dentro... e poi
bastava che non fosse stato venerdì!
Visita ai tremodàdi
Visita ai terremotati
Una de ’ste domenighe semo
gidi a véde’ ’ndó è passado ’l trémòdo, a Belvedé’ de Fabriano, co’
’l prede nostro: è stada ’na ’speriènsa. Va be’ che s’è visto anca
’nté la televisió’, prò dal vero è più
comprensivo.
’Na faméja ci’ha ospidado e ci’ha
spiegado tutta la situazió’. Pôretti,
fèra compasció’: poga robba ha
podudo arpìà’! Cuélla faméja lì se
la passàa anca be’, cìa le vacche, le
pegore, i pòrci, poi pui e cunìi.
Pensade ’mpo’ vuà a lassà’ nigò.
Cualchicò’ ha ’rpreso, ma è fadìga
anca a gìcce per güernàlle, perché
c’è sempre i vigili del fôgo che
non vôle, ma tanto lóra ce vanne
listésso.
Adè’ cìa ’na bella casetta tutta
de legno, gliel’ha dàtta Merloni,
perché ci’ha ’n fjòlo che fadìga da
Merloni, ma ce n’è muntebè’ de
cuélle casette. Sci vedede vuà: è
fatte be’ ’mbelpo’, c’è callo drendo
Una di queste domeniche siamo
andati, con il nostro prete, a vedere
dove è passato il terremoto, a Belvedere
di Fabriano: è stata un’esperienza. Va
bene che si è visto anche in televisione,
però dal vero si comprende meglio. Una
famiglia ci ha ospitato e ci ha spiegato
tutta la situazione. Poveretti, facevano
compassione: poca roba hanno potuto
riprendere. Quella famiglia lì se la pas­
sava anche bene, aveva le vacche, le peco­
re, i porci, poi polli e conigli. Pensate
un po’ voi a lasciare tutto. Qualcosa
ha ripreso, ma è faticoso anche andare
a governare (le bestie), perché ci sono
sempre i vigili del fuoco che non voglio­
no, ma tanto loro ci vanno ugualmen­
te.
Adesso (quella famiglia) ha una
bella casetta tutta di legno, gliel’ha data
Merloni, perché ha un figlio che lavora
da Merloni, ma ce ne sono diverse di
quelle casette. Se vedeste: sono costru­
ite molto bene, c’è caldo all’interno di
più che qui da noi, ci sono due came­
57
più che chì da noà, c’è due cambore
grànne, ’na cucina e lôgo còmedo,
se capisce! La casa sua, per quanto
fusse stada più brutta, tanto era
avezzi a sta’ lì, adè’ non ce s’artròa
e po’ è da lóngo dalle bestie. Alla
madina sentìa a cantà’ i galli, a stride’ i porchetti, a sbelà’ le pegore.
Adè’ è da lóngo, ha da caminà’
’mpo’ pe’ gìlli a güernà’; adè non
sente a radà’ le vacche! Se tròa lì
sotta ’na montagna, émo visto anca
i cavalli, che lìa messi a pascolà’, e
dobo li portàa drendo ’na baracca
perché cominciàa a èsse’ notte.
C’era ’n vento che te carcàa. M’è
’rmàsta ’na visió’ davanti all’occhi:
quanto fa compasció’, pôra gente!
re grandi, una cucina e il gabinetto, si
capisce! Nella loro casa, per quanto fosse
stata più brutta, tanto c’erano abituati
a stare lì; adesso non ci si ritrovano e
poi (la casetta nuova) si trova lontana
dagli animali. (Prima) la mattina sen­
tivano i galli cantare, stridere i porci,
belare le pecore. Adesso sono lontani
e loro devono camminare un po’ per
andarli a governare. Adesso non sento­
no muggire le vacche! (La casa vecchia)
si trova sotto una montagna; abbiamo
visto anche i cavalli, perché li avevano
mandati al pascolo e dopo li riportava­
no dentro una baracca, perché comin­
ciava ad annottare.
C’era un vento che ti caricava. Mi è
rimasta una visione davanti agli occhi:
quanto fa compassione, povera gente!
’L trémòdo del ’30
Il terremoto del ’30
Io m’arcordo quanno è passado
’sto trémòdo chì da noà, era ’na
monella e m’è ’rmasto ’mpresso ché
cuélla vo’ non fumma asperti, credemma che fusse stado non so que,
adesso envéce ce sta la televisió’,
te spiega be’ che non è ’n gastìgo
dal cielo. Cuélla vo’ pensàmma che
venìa la fine del mónno; anca cuélla
vo’ è stado grosso. Noà c’émma la
casa vecchia coi trài che scappàa e
boccàa dal muro.
Era ’na madina vèro colazió’, lóra
granni somentàa giù ’l campo, a noà
ce lassàa lì casa a guardà’ i nonni
Mi ricordo quando è passato il ter­
remoto qui da noi, ero una bambina e
mi è rimasto impresso perché, quella
volta, non ne avevamo esperienza, cre­
devamo che fosse non si sa che, adesso
invece c’è la televisione, ti spiega che
non è un castigo (mandato) dal cielo.
Quella volta pensavamo che venisse la
fine del mondo: anche quella volta (il
terremoto) è stato forte. Noi avevamo la
casa vecchia con le travi che uscivano e
rientravano dal muro.
Era mattina verso l’ora di colazio­
ne, i grandi seminavano per il campo,
lasciavano noi in casa a badare ai
58
che, pôretti, non ce stèra co’ la
testa. Émma ’ncadorciàdo la porta
da pìa delle scale e non podémma
mango scappà’ via.
Alla notte non volémma mango
gi’ a dormì’, ma fumma spaéndàdi:
un po’ c’émma la casa vecchia muntubè’, émma paura de fa’ la morte
dei sorci.
Cuélla vo’ non c’émma tanti
mobili como adè; c’émma la màtte­
ra, la vedrìna, che la scossa grossa
lìa buttada mezzo alla cucina, e po’
c’émma ’na tàola lónga che ce tenìa
le pigne, i ticèlli, la terìna ’ndó se
buttàa la ménèstra, c’era la scaffa
’ndó i piatti e i bicchieri sonàa a coccio, le brocche ’nté lo sciacquaròlo
sbattìa insieme, sotta a lo sciacquaròlo c’era du’ callàri, uno per còce
la menèstra, cuéllo più granne pe’
coce’ i maccarù. Sotta, ’l callaro è
tónno, no?! Embè’, sdingolava de
qua e de là: parìa che cualichidù lo
smoìa. Le pigne e i tiscèlli rotti ’nté
’l mezzo del piangìdo, era un sacco
de cocci.
Dicìa babbo che le vacche s’èrene messe tutte a gambe larghe e
radàa co’ l’occhi sbranàdi, ’l ca’
baiàa, e lóra che stèrene a sède’ per
terra che fèra colazió’, tremàa la
terra, ha ditto che se sentìa de più.
’Nté la chiesa lì vicino anca ié l’ha
fatta a fa’ sonà’ le campane: pensade
vuà como era grosso.
Se sentìa la gente che sgaggiàa
da Montalbò’ e casa nostra, cascàa
giù i madù’ dal camì’. C’era zia
nonni che, poveretti, non ci stavano con
la testa. Avevamo messo il catorcio alla
porta a piedi delle scale e non potevamo
neppure scappare fuori.
La notte non volevamo neanche
andare a dormire, perché eravamo spa­
ventati, anche perché avevamo la casa
molto vecchia e avevamo paura di fare
la morte dei topi.
A quel tempo non avevamo tanti
mobili come adesso; avevamo la madia,
la vetrina, che la scossa l’aveva buttata
in mezzo alla cucina, e poi avevamo una
lunga tavola dove tenevamo le pignatte,
i tegami di coccio, la terrina dove si
serviva la minestra, c’era lo scaffale
dove i piatti e i bicchieri suonavano a
coccio, le brocche nel lavello sbattevano
insieme; sotto il lavello c’erano due cal­
dai, uno per cuocere la minestra e quel­
lo più grande per cuocere i maccheroni.
Sotto il caldaio è tondo, no? Ebbene,
dondolava di qua e di là: sembrava che
qualcuno lo smuovesse. Le pignatte e i
tegami di coccio in mezzo al pavimento
erano un sacco di cocci.
Diceva babbo che le vacche si erano
messe tutte a gambe larghe e muggiva­
no con gli occhi sbarrati, il cane abba­
iava e loro, siccome stavano seduti per
terra per fare colazione, hanno sentito
di più la terra tremare. Nella chiesa lì
vicino (il terremoto) è riuscito a far
suonare le campane: pensate voi come
è stato forte!
Si sentiva la gente che gridava da
Montalboddo a casa nostra, cadeva­
no giù i mattoni dal camino. Alla zia
nostra, che scaldava la polenta nel fuoco
59
nostra che scaldàa la pulenta ’nté
’l fôgo co’ la padella sopra ’l tre­
pìa, che sarìa stada la servapadèlla,
iè cascado giù ’n madó’ drendo la
padella, squilzàa fòri la pulenta.
Adè’ pare che fa rìde’, ma a trovasse lì non era tanto sbaffante. È
como quanno se dice: “Belvede’ è
’mbel paese, ma Montefà è ’mbrutto
passà”. Sta’ a véde’ è bello, ma a fàlle
le cose, gambia sòno!
con la padella sopra il treppiedi, che è
chiamato ‘la servapadella’, le è cadu­
to un mattone dentro la padella e la
polenta è schizzata fuori. Adesso sem­
bra far ridere, ma trovarsi lì non era
per niente divertente. E come quando
si dice: “Belvedere è un bel paese, ma
Montefano è un brutto passare”. Stare
a guardare è bello, ma a farle le cose,
cambia musica!
’L maremodo de Senigaja
Il maremoto di Senigallia
Dobo ’mpo’ d’anni è passado ’l
maremodo a Senigaja e noà c’émma i parenti che stèra vicino al
maro. Ha buttado fòri ’l maro e
i’ha ’llagàdo tutta la casa. Cìa i letti
drendo la cambora stèra a galla.
È venudi a dormì’ su da noà pe’
’mbelpo’, finché non s’è sciuccada
la casa. Noà ’l posto ce l’émma, c’era
anche le càmbore ’nté ’l palazzo de
le padróne, tanto lóra stèra ’nté la
casa sua a Jesi. Cìa qualche cambora vòdia perché ’l palazzo era a tre
piani e lóra era du’ zidèlle, ce capìa
be’ drendo.
Allora ’nté ’sta càmbora babbo
ci’ha messo du’ tréspoli con quattro
tàole, con pajareccio de paja e lì ha
dormido, i linsoli se l’ha portadi.
Sci era d’agosto se podìa méttece le
brance del granturco al posto della
paja, ma con cuélla situazió’ tutto
gèra be’.
Dopo qualche anno è passato il
maremoto a Senigallia e noi avevamo
i parenti che abitavano vicino al mare.
È uscito fuori il mare e gli ha allagato
tutta la casa. I letti dentro la camera
galleggiavano. Quei parenti sono venu­
ti a dormire su da noi per parecchio
tempo, finché non s’è asciugata la casa.
Noi avevamo lo spazio, c’erano anche le
camere nel palazzo delle padrone, tanto
loro stavano nella propria casa a Jesi.
C’era qualche stanza vuota, perché il
palazzo era a tre piani e loro erano due
zitelle: c’entravano bene dentro!
Allora in quella camera babbo ci
aveva messo due trespoli con quattro
tavole, con un pagliericcio di paglia e
lì hanno dormito (i parenti nostri): le
lenzuola se le sono portate loro. Se fosse
stato di agosto si sarebbe potuto metter­
ci le foglie di granturco al posto della
paglia, ma con quella situazione tutto
andava bene.
60
Anch’io ci’ho dormido ’nté
la paja, almeno ’ndrìzza la schìna. Finànta che ’n s’è sposada mi’
sorella, quattro ’nté ’n letto non ce
se capìa; dobo anca dormì’ in tre
n’era fàciole. Fusse stadi i letti piani
como adè’ tanto passa, ma i scartocci del granturco finànta che non
s’era manganàdi ’mpo’, ’ndó c’era
’l monte ’ndó ’na buga: ce dormerìa
questi d’adè’?
Anch’io ho dormito nella paglia,
almeno raddrizza la schiena. Fino a
quando non si è sposata mia sorella,
quattro in un letto non ci si entrava;
dopo anche a dormirci in tre non era
facile. Fossero stati i letti piani come
adesso, sarebbe stato passabile, ma i
cartocci del granturco, fino a quando
non si erano ammorbiditi un po’, dove
lasciavano un monte e dove una buca: ci
dormirebbero questi d’adesso?
’L pôro nonno
Il povero nonno
Quann’ero piccola, como v’ho
ditto, a me me toccàa armàne su
casa a guardà’ cuélla pôra nonna e
cuél pôro nonno.
I nonni è stadi lucidi fina
ottant’anni, dobo nonno gèra via de
testa, pôretto. Cuélla vo’ se dicéa
che gèra via de testa, adè’ la chiama l’artèrosclerósi. Toccàa a sta’
’tenti che scappàa via. Ha toccàdo a
méttelo a dormì’ solo, perché pôra
nonna non ié dèra pace. Babbo
ìa messo ’l lettino ’nté ’l magazzì’:
c’era ’mpo’ de sacchi como gra’,
farìna de granturco pei pòrci, la
somènte della spagna, lupinella,
trafojo, sémbola. Tutto da ’na parte
ben messo.
Sapé que ha fatto ’na notte? Ha
sciolto tutti i sacchi, ha tiràdo fòra
i cartòcci che c’era drendo al pajariccio (cuélla vo’ ’l madaràzzo non
usàa), la coperta ha fatto 25 pezzi,
Quando ero piccola, come vi ho
detto, mi toccava rimanere in casa per
badare a quella povera nonna e a quel
povero nonno.
I nonni sono stati lucidi fino a
ottant’anni, dopo nonno andava via di
testa, poveretto. A quel tempo si diceva
che ‘andava via di testa’, adesso (quella
malattia) viene chiamata ‘arterioscle­
rosi’. Occorreva stare attenti, perché
scappava via. È stato necessario met­
terlo a dormire da solo, perché non
lasciava mai in pace la povera nonna.
Babbo gli aveva sistemato il lettino
nel magazzino: c’era un po’ di sacchi
come di grano, farina di granturco per
i porci, il seme dell’erba medica, della
lupinella, del trifoglio, la semola. Tutto
ben messo da una parte.
Sapete che cosa ha fatto una notte?
Ha sciolto tutti i sacchi, ha tirato
fuori i cartocci che c’erano dentro il
pagliericcio (allora il materasso non si
61
ha sbrégàdo nigò, ha mistigàdo tutto
assieme, anca le penne del guanciale, ìa fatto como ’na condidèlla.
Pensàa mamma: “Stanotte envèce
babbo ha dormìdo!” Scinó tutta la
notte dicìa forte: “La mamma e la
mimma! La mimma e la mamma!” E
po’ luccàa forte “Babboooo!” Duràa
qualche minùdo a sgaggià’. Per tre
anni, giorno e notte era sempre
luscì. Era anca cégo!
Quanno s’è alzado babbo pe’
gìllo a véde’, nonno tutto tranquillo i’hà ditto: “Nenè, stanotte ho
fadigàdo sempre!” “Ma que averéde fatto babbo mia? Que m’éde
fatto? Guarda chì!” S’è messo le
ma’ sulla testa, era da doventà’
scémi! Pensàde ’mpo’ arcapà’ nigò!
E nonno tranquillo: “Io n’ho fatto
niè! booh!! Ma chi è stadi?”
Pôro babbo! Con la santa pacènsia l’ha vestido e po’ tutti d’accordo ce sémo messi all’opra: ci’ha
volsùdo ’na settimana per sistemà’
nigò e po’ la somènte gèra be’, passàa ’nté ’l croèllo la croèllétta, ma
fasciòli, cece, cicerchia, gra’, sémbola, robba dei pòrci: ìa mischiado
nigò. Pensàde quanto s’è dàtto da
fa’ tutta la notte! I genidóri dormìane ch’era stufi, lu’ stèra zitto, non
luccàa.
Pôra nonna! Lìa ìa perso le
gambe, caminàa con du’ bastù’, non
se podìa fa’ più dormì’ insieme al
marido, perché nonno la scoprìa
sempre, non la fèra dormì’ mae.
Dicìa la notte: “Nenè, chì vicino c’è
usava), della coperta ha fatto venticin­
que pezzi, ha strappato tutto quanto,
ha mischiato tutto assieme: aveva fatto
come un’insalatina mista.
Pensava mamma: “Stanotte invece
babbo ha dormito!” Sennò per tutta la
notte diceva sempre: “La mamma e la
mimma! La mimma e la mamma!” E
poi gridava forte “Babboooo!” Durava
qualche minuto a gridare. Per tre anni,
giorno e notte, era sempre così. Era
anche cieco.
Quando babbo si è alzato per andar­
lo a vedere, nonno tutto tranquillo gli
ha detto: “Nenè, stanotte ho faticato
sempre!” “Ma che cosa avrete fatto,
babbo mio? Che cosa mi avete fatto?
Guarda qui!” Si è messo le mani sulla
testa: era da diventare scemi! Pensate
un po’ a dover capare di nuovo tutto!
E nonno, tranquillo: “Io non ho fatto
niente! Booh!! Ma chi è stati?”
Povero babbo! Con la santa pazien­
za l’ha vestito e poi tutti d’accordo ci
siamo messi al lavoro: ci è voluta una
settimana per sistemare tutto. Il seme
andava bene, passava nel “croèllo’ e
nella ‘croellétta’, ma fagioli, cece, cicer­
chia, grano, semola, roba per i porci:
aveva mischiato tutto. Pensate quanto
si era dato da fare per tutta la notte! I
genitori dormivano perché erano stan­
chi, lui stava zitto, non gridava.
Povera nonna! Lei aveva perso
l’uso delle gambe, camminava con due
bastoni, non si poteva più farla dormi­
re col marito, perché nonno la scopri­
va sempre, non la faceva dormire mai.
Diceva la notte: “Nenè, qui vicino c’è
62
’na madràna!”
Lìa, pôretta, è stada lucida
scinànta su l’ultimo, ma nonno non
ce stèra co’ la testa. Noà monelli
ié dicémma: “Nonno, que me lassàde a me, quanno moréde?” E lu’
risponnìa: “Sci môro coi sentimenti, te lasso i pendenti! Sci môro co’
la paròla, te lasso la pistòla!” Scinó
dicìa anca: “ A te te lasso ’l creapòpolo coi pendenti!” E noà non
sapémma mango que volìa di’.
Nonna ’nvéce dicìa a me: “Te
lasso la cupèrta da sposa e i cerchiù’ d’oro!” La cupèrta era guàsci
nòa perché se mettìa sul letto solo
quanno c’era ’n prànso lì casa e
quanno passàa l’Aqua santa. A me
chissà quanta ’mportànsa me dèra,
me parìa ch’era più calcolàda de
cuél’altre, perchè io pel campo ’n
ce gìa, ’ncó’ era piccola, e me fèra
guardà’ ai nonni.
una scrofa!”
Lei, poverina, è stata lucida fino
alla fine, ma nonno non ci stava con
la testa. Noi più piccoli gli dicevamo:
Nonno, che cosa ci lasciate quando
morite?” E lui rispondeva: “Se muoio
con i sentimenti, ti lascio i penden­
ti! Se muoio con la parola, ti lascio
la pistola!” Sennò diceva pure: “A te
lascio il ‘creapopolo coi pendenti’!” E
noi non sapevamo neppure che cosa
volesse dire.
Nonna invece mi diceva: “Ti lascio
la coperta da sposa e i cerchi d’oro!”
La coperta era quasi nuova, perché si
metteva sul letto solo quando c’era un
pranzo e quando passava l’acquasan­
ta.
Chissà quanta importanza mi
dava, mi sembrava di essere rispetta­
ta più delle altre, perché io non andavo
per il campo, ancora ero piccola e mi
facevano badare ai nonni.
Nonna mia
Nonna mia
Arvenìa da la scòla e sùbbedo
me fèra alsà’ ’mpezzetto a nonna
mia. La vestìa, ’mpo’ fèra da sola,
le mudànne non le portàa, ié mettìa
i calsetti, lacciàa le scarpe, e lìa da
sède’ sul letto mettìa i sottanèlli
(chiamàdi coscì), tutti grètti su la
vida co’ ’na fascia e ’n gancio che
lìa non ci’arriàa a ’ggancià’; prima
la camicia de cottó’, po’ ’l busto.
Cuéllo ’l portàa tutte le donne pe’
Ritornavo da scuola e subito mi
facevano alzare per un po’ nonna mia.
La vestivo, un po’ s’aiutava da sola, le
mutande non le portava, le mettevo le
calze, allacciavo le scarpe, mentre lei da
seduta sul letto indossava i ‘sottanelli’
(chiamati così), tutti arricciati sulla
vita con una fascia e un gancio che lei
non arrivava ad allacciare; prima la
camicia di cotone, poi il busto. Questo
lo portavano tutte le donne per fare la
63
’rfà’ la vida più schiantàda, anca
cuélli fèmma da per noà. Se compràa
le battecche de canna d’inda, e du’
bacchette d’acciàro per dannànse
coi uncinèlli e l’occhièlli; po’ la pezza
la tessìa mamma.
Dobo sopra, sci era istàde, se
mettìa solo ’l sacchétto e ’l sottanèllo, all’inverno du’ tre sottanèlli e
la maglia fatta coi ferri da per noà:
prima la camicia de cottó’, po’ ’sta
maja, po’ ’l sacchetto; sulle spalle,
sci era pròpio freddo, ’no scialpó’
grèo, nero grande, che se tiràa per
dòda: solo cuéllo era de lana scindó
la lana n’èra fatta pei contadì’.
vita più snella: anche i busti facevamo
da sole. Si compravano le battecche di
canna d’India e due battecche d’acciaio,
per davanti, con i ganci e gli occhielli;
poi la pezza la tesseva mamma. Dopo
sopra, se era estate si indossavano solo
la camicia e il ‘sottanello’, all’inverno
due o tre ‘sottanelli’ e la maglia fatta
con i ferri da noi: prima la camicia di
cotone, poi questa maglia, poi il ‘sac­
chetto’; sulle spalle, se era proprio fred­
do, uno scialle pesante, nero e grande,
che si portava in dote: solo quello era
di lana, sennò la lana non era fatta
per i contadini. Quando era sistemata
bene, prendevo nonna a braccetto e la
Po’ a nonna, quann’èra custodìda
bembè’, la pïàa a braccetto e la
portàa ’nté la cucina, ié dèra cualchicò da magnà’. A lìa ié piacìa ’l
pa’ condìdo col sale, ajo, ojo, erbette, acédo: sarìa la suppa lombarda.
Dicìa: “ Questa scì che m’abbìtta, me
guzza l’appedido!”
Era fresca roscia como ’na rosa,
io ié dèra certi baciòtti col chiòppo, e
portavo in cucina, le davo qualcosa da
mangiare. A lei piaceva il pane condito
con sale, aglio, olio, prezzemolo, aceto:
la ‘zuppa lombarda’. Diceva: “Questa sì
che mi piace, mi stuzzica l’appetito!”
Era fresca, rossa come una rosa, io
le davo certi bacioni con lo schiocco, e
lei mi diceva: “Tu hai tanta voglia di
scherzare, io per niente!” Io vi dico la
verità: volevo più bene a nonna che a
64
mi dicìa: “Te ci’hai tanta fantasia, io
pe’ gnè!” Io ve digo la veredà: volìa
più be’ a nonna che a mamma! Farò
male a dillo, ma perché co’ nonna
fumma più ’taccàde, me ’scoltàa,
envéce mamma, pôretta, cìa altri
pensieri, cìa le cose più ’mportànte:
a me non me calcolàa como nonna.
Anca i monelli ha bisogno d’èsse’
calcoladi, envéce ’na ò i fèra i fjòli e
li mettìa lì da ’na parte finché n’era
granni. Dobo l’ho capìdo, che me
volìa be’ como a cuél’altri. Dicìa
babbo: “ I fjòli è como i dèdi delle
ma’: quale dédo te taii, te fa dòle
tutti uguali!” Ìa ragió’. Adè che ce
so’ rïàda anch’io, ce n’ho tre e per
me è tutti uguali. Sci senti a dì’ a
uno che uno ié vôi be’ e uno meno,
te dà pasció’, perché ’na madre che
l’ha portàdi per nove mesi, i’ha dàtto
’l latte per più de du’ anni, non pôle
non voléje be’! Po’ ’na madre ci’ha
tre parte de ’n fjòlo, anca ’l padre
ci’ha parte ma, a pròporsió’, ’l padre
i’hà dàtto ’na parte sola.
C’è anca ’sta cansoncina pei fjòlini che dice:
“Saper voléde di chi son io?
Io son del babbo e la mamma mia.
Ecco vedéde: questa gambìna
è pròpio tutta della mia mammì­
na.
Poi quest’altra eccola qua:
è pròpio tutta del mio papà.
Così le braccia, così l’occhietti
le paroline, i sorrisétti
son divisi tutti a metà
fra la mia mamma e il mio papà.
mamma! Farò male a dirlo, ma perché
con nonna eravamo molto affezionate,
mi ascoltava, invece mamma, poveret­
ta, aveva altri pensieri, aveva preoccu­
pazioni più importanti: non mi dava
importanza come nonna.
Anche i bambini hanno bisogno di
essere calcolati, invece un tempo si face­
vano i figli e li si metteva da una parte
finché non erano grandi. In seguito l’ho
capito che (mamma) mi voleva bene
come a quegli altri. Diceva babbo: “I
figli sono come le dita delle mani: quale
dito ti tagli, ti fanno male tutti allo
stesso modo!” Aveva ragione. Adesso ci
sono arrivata anch’io: ne ho tre e sono
tutti uguali. Se senti dire a qualcuno
che ad uno gli vuoi bene e ad un altro
meno, ti fa soffrire, perché una madre,
che li ha portati per nove mesi, gli ha
dato il latte per più di due anni, non
può non volergli bene. Poi una madre
ha tre parti di un figlio, vi ha parte
anche il padre ma, in proporzione, il
padre gli ha dato una parte sola.
C’è anche questa canzoncina per i
bambini che dice:
“Saper volete di chi son io?
Io son del babbo e della mamma mia.
Ecco vedete: questa gambina
è proprio tutta della mia mammina.
Poi quest’altra eccola qua:
è proprio tutta del mio papà.
Così le braccia, così l’occhietti
le paroline, i sorrisetti
son divisi tutti a metà
fra la mia mamma e il mio papà.
Non può nessuno portarmi via:
io son del babbo e della mamma mia”.
65
Orfane Sbriscia con la nonna. Foto fine ’800 (coll. Flaviana Lucentini).
66
Non può nessuno portarmi via:
io son del babbo e della mamma
mia”.
Prò per me la madre n’ha messe
de più de sostanse: sbajarò, ma la
testa me porta coscì!
Non me so’ ’rcordàda de di’ che
cuélla vo’ le donne portàane tutte
’l sinàle: anca a nonna ié ’l mettìa
sempre. C’è anca la cansó:
Mamma me l’ha fatto lo sinale
io me l’ho misuràdo e me sta
bene.
L’amor la vô fa’ con chi me pare,
con chi me pare e poi piace a
méne.
L’amor con chi me pare la farìa
con chi me pare e dal par mia.
E po’ se dicìa:
Avéde le bellezze che v’abbónda
più lóngo lo sinale che la gonna.
’Na ò un sinàle costàa 30 centè’.
Fade ’l vostro conto: 1 soldo era 5
centè’. Fatta l’operazió’? Sci volìsci fa’ ’n sinàle a una era ’n gran
regàlo, como a n’ômo regalàsci ’na
gravàtta. Ma stade a sentì’ che educazzió’ che c’era ’na vò’. Le donne,
como v’ho ditto, portàa tutte ’l sinàle dannànse, se dicìa la paranànse,
e ce nascondìa anca i frutti e cualca
tozzétto de pa’: mi’ sòceri i chiamàa
‘i rodèlli’! prima de comensà’ la
fila ’dopràmma i rodèlli e non se
spregàa gnè!
Allora, ’n ve l’ho finìdo de di’,
se mettìa nnigò, anca oltra pe’’l
campo, ’nté ’sta paranànsa e, quanno se vedìa una co’ la trippa gros-
Però per me la madre ne ha messe di
più di sostanze: sbaglierò, ma la testa
mi fa pensare così!
Non mi sono ricordata di dire che
un tempo tutte le donne portavano il
grembiule: anche a nonna glielo mette­
vo sempre. C’è anche lo stornello:
“Mamma me l’ha fatto lo sinale
io me l’ho misurato e me sta bene.
L’amor la vô fa’ con chi me pare,
con chi me pare e poi piace a méne.
L’amor con chi me pare la farìa
con chi me pare e dal par mia”.
E poi si diceva:
“Avéde le bellezze che v’abbónda
più lóngo lo sinale che la gonna”.
Una volta un ‘sinale’, ossia un grem­
biule, costava trenta centesimi. Fate il
vostro conto: 5 centesimi facevano 1
soldo. Fatta l’operazione? Se volevi fare
un ‘sinale’ a una, era un gran regalo,
come se avessi regalato una cravatta ad
un uomo. Ma state a sentire quanta edu­
cazione c’era una volta. Le donne, come
vi ho detto, portavano tutte il grembiu­
le davanti, si diceva “la paranànse”,
e ci si nascondevano anche i frutti e
qualche tozzettto di pane: i miei suo­
ceri li chiamavano “ i rodèlli”! Prima
di cominciare il filone, mangiavamo “i
rodelli” e non si sprecava niente.
Allora, non ve l’ho finito di dire, si
metteva ogni cosa, anche per il campo,
in questo grembiule ma, quando si
vedeva una con la pancia grossa (per­
ché incinta), lo si doveva lasciare scen­
dere aperto, perché gli angoli in fondo
si tenevano puntati nella cintura, così
il grembiule faceva da bisaccia, sennò
67
sa, sia da spontà’, perché se tenìa
pontàdi i spigoli da pìa ’nté la cinta,
coscì che fèva da goluppa, scinó ’sta
porétta ch’era gravida, pensàa che
c’era cualchiccò’ de iottonerìa. Ié
se fèra sentì’ cuel che ci’avìsci, ma
guai quanno ‘nté ’l brango ce n’era
una luscì, non podìsci nomminà’
niè’ de le robbe che ’n se troàa,
scinò nascìa i fiòli macchiàdi, sci
ci’avìa proprio vòja ’rbuttìa. E que
era como adè’ che c’è de nigò. anca
le ’ngurie e melù’ ’l mese de gennàro
se tròa, co’ ’sti caluriferi, frigoriferi
c’è nigò tuttto l’anno, solo che i fiòli
ce n’è poghi.
’Na ò, quanno se gèra a troà’ ’na
’nfantàda ié se portàa sùccaro, pasta
como fidelini, ’na dozzina d’òi, cuélli parenti ’na gallina, chi ce fèra da
compare e commàre, oltra de regàlo
all’infante, anca ’mpàr de cappù’,
come l’hanne portàdi a me solo del
maschio prò, perché era ’na faméja
stimàda che ié fumàa i cojó’:’l sapìa
la moda che curìa! E como era bòno
cuel brodo del cappó’!
quella poveretta che era gravida pensa­
va che ci fosse qualche ghiottoneria. Le
si faceva assaggiare quello che avevi,
ma guai quando nel branco ce n’era
una così, non potevi nominare niente
delle cose che non di trovavano, sennò
nascevano i figli macchiati, se (la
donna) aveva proprio voglia (di quella
cosa)abortiva.
E che era come adesso che c’è di
tutto, anche le angurie e i meloni si
trovano nel mese di gennaio: con questi
caloriferi, frigoriferi c’è ogni cosa tutto
l’anno, solo che ci sono pochi figli. Una
volta, quando si andava a trovare una
puerpera le si portava zucchero, pasta
come i fedelini, una dozzina di uova, i
parenti una gallina, chi faceva da com­
pare o comare, oltre al regalo per il neo­
nato, anche un paio di capponi, come li
hanno portati anche a me, solo quando
mi è nato il maschio però, perché era
una famiglia stimata, alla quale fuma­
vano i coglioni: la conoscevano la moda
che c’era! E com’era buono quel brodo
di cappone!
“Magnàde e beéde e badàde a
campà’!”
“Mangiate, bevete e badate a
campare!”
Adè prò artornàmo alla pôra
nonna. M’arcòrdo, quanno ’st’òmini
giogàa a carte giù la stalla, io giogàa a carte co’ lìa, pôretta, se stèra
d’accordo sa, e lìa a me me volìa be’
’mbelpò’. E io quanto ié volìa be’:
Adesso, però, ritorniamo alla pove­
ra nonna. Mi ricordo che, quando gli
uomini giocavano a carte nella stalla,
io giocavo a carte con lei, poveretta: era­
vamo d’accordo eh, e lei mi voleva molto
bene. E io quanto gliene volevo di bene:
68
stèra sempre co’ nonna che, pôrétta, stèra sul letto, perché cuélla vo’
’n c’era la sedia a rodèlle; è stada
tre anni inferma sul letto, prò era
sempre bella pulìda, la lavàmma, io
la pettenàa, ié fèra le trecce, tajàa
l’ógna ’nté le ma’ e i pìa, ié lavàa la
faccia... po’ certi baci ié dèra! Lìa,
pôretta, stèra a sède ’ttorno a cuél
fôgo bella fresca, perché magnàa e
bevìa e ’n fadigàa: sa ch’era bella
fresca quanno stèra alzada. Quanno
stèra a letto, ci’avìa ’l letto sempre
bello arfàtto, i linsòli pulìdi. Cuélla
pôra mamma ce tenìa, perché capidàa sempre la gente...
Po’ cuélla nonna di fjòli ne avéa
fatti otto, ma vivi ce nìa solo tre:
c’era armàsti babbo, zio e ’na fémmena. Lìa dicìa: “N’è venudi be’
solo tre!” Dicìa como quanno se
mette ’na coàda de pulcì’. Se dicìa:
“ ’Mpò n’ènne ’rivàdi, ’mpo’ è morti
’ntéll’ovo”. De ventiquattro venticinque pulcì’, ne venìa avanti tre
quattro, e tante le ò cinque sei: sa,
per fòrsa, cuélli che venìa avanti
era ’mpo’ racchidinìdi, perché da
beccà’ cuélla vo’ n’era tanto como
adè che c’ènne i mangìmi. Quélla
vo’ ié se dèra n’àceno de gra’, du’
mollìghèlle de pa’ pe’ fàlli ’mparà’
a beccà’ e tante ’olte, quann’èra
d’istàde li lassài fòri, gìa lì ’ttorno al
grasciàro, ’ndó c’era i vèrmenétti,
prò pôre bestie venìa su’ mpo’ secchettèlle... prò era bòni, oste s’èra
bòni! Adè li chiàmane ‘i ruspanti’!
Ma adè ’n se tròa più, mango ’nté le
stavo sempre con nonna che, poverina,
stava sul letto, perché quella volta non
c’era la sedia a rotelle; è stata tre anni
inferma sul letto, però era bella pulita,
la lavavamo, io la pettinavo, le facevo le
trecce, le tagliavo le unghie nelle mani e
nei piedi, le lavavo la faccia...poi certi
baci le davo! Lei, poveretta, stava a sede­
re intorno a quel fuoco bella fresca, per­
ché mangiava, beveva e non lavorava:
per forza era bella fresca quando stava
alzata. Quando stava a letto, il letto era
sempre ben riordinato, le lenzuola puli­
te. Quella povera mamma ci teneva, per­
ché capitava sempre la gente...
Quella nonna aveva partorito otto
figli, ma vivi ne aveva solo tre: erano
rimasti babbo, zio e una femmina. Lei
diceva: “Ne son venuti bene solo tre!”
Diceva come quando si mette una covata
di pulcini. Si diceva: “Alcuni non sono
arrivati, altri sono morti nell’uovo!” Di
ventiquattro venticinque pulcini, ne
crescevano tre quattro, qualche volta
cinque sei. Per forza, quelli che cresce­
vano erano un po’ rachitici, perché il
beccare quella volta non era abbondan­
te come adesso che ci sono i mangimi.
Quella volta gli si dava un chicco di
grano, due mollichette di pane per farli
imparare a beccare e tante volte, quan­
do era d’estate, venivano lasciati fuori,
andavano attorno al letamaio, dove
c’erano i vermicelli, però, povere bestie,
crescevano un po’ magrette... però erano
buone, osteria se erano buone! Adesso
li chiamano ‘ruspanti’! Ma adesso non
si trovano più, nemmeno nelle case dei
contadini, proprio quelli rozzi rozzi;
69
case de’ contadì’, pròpio cuélli ruzzi
ruzzi; n’ènne più como cuélla vo’.
E cuélla pôra nonna stèra su cuél
letto, come ’na rosa, bella, pulìda,
fresca... e io ero sempre lì vicino, de
giorno arcontàa sempre le storièlle...
Ma quanto ié voléo be’: se rispettàa i
vecchi ’na volta, sa! Babbo e mamma
pe’ nonno e nonna ci’avéano ’no rispètto, tutti e due. Dicìa : “Magnàde e
beéde e badàde a campà’!”
Benànche non pïàa la pensió’,
l’ansiani ’na ’olta erane trattadi be’
listesso. Mi’ padre, quanno gèmma
a magnà’, il primo piatto ’l dèra a
nonno e nonna. E ’l governo non
dèra ’na lira de pensió’, però non ié
fèra mancà’ gnè, benànche non c’era
tanta possebeledà. Alla sera, prima
de gì’ al letto, ié mettìa ’l madó’ giù
i pìa per fàjeli scaldà’: quanno era
stado mezz’ora vicino al carbó’, ’l
madó’ s’enfogàa e mantenìa ’l caldo
per qualche ora. Intanto s’andormìa
be’ e la notte era tranquilli.
Io alla madina alle quattro, como
v’ho ditto sul principio, gèra sempre ’nté ’l letto co’ lora pe’ ’mparà’
tutte ’ste cansoncelle e preghiere
che ’nco’ ce l’ho ’nté ’l cervello. Le
’mparàa subbedo e nonno me dicìa:
“ Chi te l’ha fatta ’sta ’mbrolletta, ’l
pioà della Grancetta? Chi te la guasterà, il pioà de Comborà?”
Envece nonna me dicìa: “Te sai
como la donna ’studa, che scioje
la fascina e brucia la legadura”. Io
non sapìa que volìa di’, e mango lìa
me la spiegàa. Quanno cominciàa a
non sono più come quelli di una volta.
E quella povera nonna stava su quel
letto, come una rosa, bella pulita, fre­
sca... e io ero sempre lì vicino, di gior­
no raccontava sempre le storielle... Ma
quanto le volevo bene: si rispettavano i
vecchi una volta, eh! Babbo e mamma,
tutti e due, avevano rispetto per nonno
e nonna. Dicevano: “Mangiate, bevete e
badate a campare!”
Benché non prendessero la pensio­
ne, gli anziani un tempo erano trattati
bene ugualmente. Mio padre, quando
andavamo a mangiare, il primo piatto
lo dava a nonno e nonna. E il governo
non dava una lira di pensione, però
non gli si faceva mancare niente, seb­
bene non ci fossero tante possibilità. La
sera, prima di andare a letto, gli mette­
vo il mattone giù ai piedi per farglieli
riscaldare: quando era stato mezz’ora
vicino al carbone, il mattone si infuoca­
va e manteneva il caldo per qualche ora.
Intanto (i nonni) si addormentavano
bene e la notte stavano tranquilli.
Io la mattina alle quattro, come vi
ho detto all’inizio, andavo sempre sul
letto insieme a loro per imparare tutti
questi stornelli, e preghiere, che anco­
ra conservo nel cervello. Le imparavo
subito e nonno chiedeva: “Chi te l’ha
fatta questa linguetta, il pievano della
‘Grancetta’? Chi te la guasterà, il pieva­
no di ‘Comborrà’?”
Invece nonna mi diceva: “Tu sei come
la donna astuta, che scioglie la fascina
e brucia la legatura”. Io non sapevo che
cosa volesse dire e nemmeno lei me lo
spiegava. Quando cominciavo a capire,
70
capì’, arpensào: me’l dicìa perché
cìa ’l cervello aperto, pïàa subbedo
cuéllo che me ’nsegnàaa lìa.
ci ripensavo: me lo diceva perché avevo
il cervello aperto, che apprendeva subito
quello che mi insegnava lei.
La Comugnió’ ’nté ’n casa
La Comunione in casa
M’arcòrdo che cualche vo’, a ’sti
nonni, ié portàa la Comugnió’ ’nté
casa nostra. ’Na ò, quanno portàa la
Comugnió ai maladi, partìa ’l prede
dalla chiesa e c’era sempre ’l sagrestà’ co’ l’ombrella e ’l campanello.
’L prede portàa l’Ostia giù pe’ lo
stòmigo, drendo ’na scatoletta, e
sempre sonànno rivàa ’nté ’n casa, a
pìa. Iè se preparàa ’n altarì’ co’ due
Mi ricordo che qualche volta a questi
nonni gli portavano la Comunione in
casa nostra. Una volta, quando portava
la Comunione ai malati, il prete partiva
dalla chiesa e c’era sempre il sagrestano
con l’ombrello e il campanello. Il prete
portava l’Ostia sullo stomaco, dentro
una scatoletta, e sempre scampanel­
lando arrivava in casa, a piedi. Gli si
preparava un altarino con due cande­
71
candelette, ’nté ’l mezzo un santo,
co’ ’n mazzo de fiori e ’na toajétta
sotta e lì ce poggiàa l’Ostia, finànta
che confessàa l’ammalado.
E po’ sapede le candele con que
le fèmma? C’era cuélla vo’ la cera
vecchia de quanno gèmma a compagnà’ i morti, tutta la gente a pìa co’
’na candela su le ma’. Quanno c’era
’l vento, colava giù e cuélla sa ’rpiàa
e po’ se colava ’nté ’n bossolo pe’
falla lentà’. Se preparàa ’na canna
longa ’n palmo e mezzo, tajàndola
sotta dal nodo e dobo buttamma ’sta
cera sciolta drendo. ’Nté ’l mezzo ce
mettemma ’no stoppì’ fatto col filo
de cottó’ doppio tre quattro vo’.
All’inverno la mettemma fòri
della finè’ per fa’ stregne’ la cera;
all’istade ’n tra l’acqua iàccia. Dobo
con cortello spaccàmma la canna
e... fatto ’l candelotto! Cuélla vo’ se
studiàa tutte, non se spregàa niè.
line, in mezzo un santo, con un mazzo
di fiori e una tovaglietta sotto e lì ci
appoggiava l’Ostia, fino a quando ( il
prete) confessava l’ammalato.
E po’ sapete con che cosa facevamo le
candele? C’era quella volta la cera vec­
chia di quando andavamo ad accom­
pagnare i morti, tutta la gente a piedi
con una candela in mano. Quando c’era
vento, (la cera) colava giù e quella si
riprendeva e poi si colava in un bosso­
lo per farla allentare. Si preparava una
canna lunga un palmo e mezzo, taglian­
dola dopo il nodo, e quindi la riempi­
vamo con questa cera sciolta. Nel mezzo
ci mettevamo uno stoppino formato con
il filo di cotone raddoppiato tre quattro
volte. All’inverno la mettevamo fuori
dalla finestra per far solidificare la
cera; all’estate nell’acqua fredda. Dopo
con un coltello spaccavamo la canna ed
ecco fatto... il candelotto! Quella volta
se ne studiava di tutte, non si sprecava
niente.
Fàa, bécche e vèrmode pe’ la
conoscenza
Fava, semi di zucca e vermouth
per la conoscenza
Scusade che adè ’rcambio argomento: como me vène pensado cualchicò, bisogna che la scrivo subbedo, ’mpezzo al giorno quanno ci’ho
tempo. Me pare d’èsse’ como una
vicino casa mia che pïàa da ’ na montagna all’altra; dicìa coscì: “Adè ho
fatto la sperna, mó fô l’intingolo col
ticello co’ ’l carbó’, accanto al fôgo.
Scusate se ora cambio argomen­
to: come mi viene in mente qualcosa,
bisogna che la scrivo subito, un pezzo
al giorno, quando ho tempo. Mi sembra
d’essere come una mia vicina di casa
che prendeva da una montagna all’al­
tra; diceva così: “Adesso ho fatto la sfo­
glia, ora preparo il sugo con il tegame
di coccio sul carbone, accanto al fuoco.
72
Coscì bóie piano piano ’l pomidoro, dopo la sperna sa sciuccada
e trido i tajolì, prima ho messo l’acqua’nté i pui, ieri so’ gida al mercado,
ho portado a vènde’ l’ôi e ’mpar de
picciù. L’ôi era ’n soldo e du’ centè,
i picciù envece 15 soldi”. Manco ’na
lira non c’era a cuéi tempi! ’Na lira
ce lìa solo ’l capoccia.
Quanno gèmma in giro in qualche sido, ’nté ’na festa e chi cìa mai
’n soldo ’nté la saccò? Chi era ’mpo’
ricchi compràa le becche, i lupì’, la
fàa; cualchidù anca le caramelle.
Que cìa ’mparado mamma? Bru­
scamma la fàa, le becche co’ ’na
padella ’nté ’l fôgo e le portamma
’nté ’no scartoccio e le magnamma
lassù la festa: coscì fumma dal paro
con cuéi più fortunadi de noà. Tante
le ò anche i lupì’: ’na ’olta all’anno
i compràa secchi e po’ li mettìa a
móllo. È coscì che se fèra ’na ò, la
studiàa mèjo che podìa.
Quanno a tempo dei morti se
gèra al Camposanto, se mettìa due
o tre con cuélle bancarelle pe’ la
strada tra Montalbò e ’l cimidero e
sgaggiàa: “Calde aròste!”
E noà bardascétte, rabbide de
fame, fèmma le tigne fina che non
tìa datto 5 soldi che ce venìa solo
6 o 7 castagne: una era fràdia, una
bruciacchiàda, e... ’na ripinezza ’n
se pïàa de scigùro!
Apposta cuélla vo’ ’n c’era né
colisterolo, né tigliceridi! Sci ìsci
séde, te dicìa: “Adesso la prima can­
nella che trovàmo, beéde!” E coscì
Così il pomodoro bolle piano piano;
intanto la sfoglia si è asciugata e taglio
i ‘tajolini’. Prima ho messo l’acqua nel
pollaio, ieri sono andata al mercato, ho
portato a vendere le uova e un paio di
piccioni. Le uova si vendevano a un
soldo e due centesimi, i piccioni inve­
ce quindici soldi”. Nemmeno una lira
c’era a quei tempi! Una lira ce l’aveva
solo il capoccia.
Quando andavamo in giro in qual­
che luogo, ad una festa, chi aveva mai
un soldo in tasca? Quelli un po’ ricchi
compravano i semi di zucca, i lupini, la
fava, qualcuno anche le caramelle.
Che cosa ci ha insegnato mamma?
Bruscavamo la fava, i semi di zucca con
una padella sul fuoco e li portavamo in un
cartoccio e li mangiavamo lassù du­rante
la festa: così eravamo alla pari con quel­
li più fortunati di noi. Talvolta anche
i lupini: una volta l’anno (mam­ma) li
comprava secchi e poi li metteva a bagno.
È così che si faceva un tempo: (mamma)
la studiava meglio che potesse.
Quando al tempo dei morti si anda­
va al Camposanto, per la strada tra
Montalboddo e il cimitero c’erano due
o tre con le bancarelle che gridavano:
“Caldarroste!”. E noi ragazzette, sem­
pre affamate, facevamo i capricci fino a
quando non ti avevano dato cinque soldi
con i quali si compravano 6-7 castagne:
una era fradicia, una bruciacchiata
e... una indigestione non si prendeva
di sicuro! Per questo a quel tempo non
c’era né il colesterolo, né i trigliceridi.
Se avevi sete, ti diceva: “Adesso il primo
rubinetto che troviamo, bevete!” E così
73
ce contentàa.
L’omini c’era ’sta moda chì: sci
uno vidìa ’n’amigo, dicìa: “Gimo a
be’ ’nté l’osteria un bicchiero de vi’
”. Anca uno che cìa lo ragazzo della
fiòla, per la conoscenza coi genidori
de lu’, e de lìa, gèrene a be’ ’n bicchiero de vi’, e cuélli che podìa de
più pagàa ’n bicchierì’ de Vèrmode o
de Marsala, cuélli ’mpo’ più paccù’:
questo era solo i genidori dell’ômo,
per faje vede’ che la fiòla boccàa ’nté
’na fameja ricca. Dobo envéce era
peggio dell’altri, io ne so cualchico’,
perché ci’avìa sbattùdo.
A cuéi tempi era bello, perché
quanno venìa ’na festa, e lì c’ogni
tanto te venìa a troà i parenti: se
rispettàmma con cugini, zii. Como
c’era ’na puzza da parente, se gèra a
troà, se magnàa ’na smaccaronàda e
un cuniàccio insieme, anca ’n gallo.
Non è como adè che coi parenti te
vedi solo quanno môre ’na persona
cara, e cuàlche sposarìzzio.
Ma anca cuélli, quanno se sposa,
anvìta solo all’amici, comincia a
scancellà’ anca lì i parenti. Per conto
è mejo, che adè ce vôle centomila
anche de più per persona, e chi ci’ha
’sta pensió’ como la mia, te fa gì fòri
strada.
Po’ adè c’è n’antra moda: quanno
émo sposado noà, non c’era la moda
che la madre della sposa gèsse al
pranso, ’rmanìa a casa da sola, a
piagne; cualchidùna piagnéa perdéro. C’era ’na vicina de casa che
non gèra d’accordo co’ la fiòla, e
ci accontentava.
Gli uomini avevano questa usanza. Se
uno vedeva un amico, diceva: “Andiamo
all’osteria a bere un bicchiere di vino!”
Anche uno che aveva la figlia fidanzata,
per fare conoscenza con i genitori di lui,
e di lei, andavano a bere un bicchiere
di vino; e quelli che avevano maggiori
possibilità pagavano un bicchierino di
Vermouth o di Marsala, specialmente
quelli un po’ boriosi. Si comportavano
così soltanto i genitori del fidanzato, per
far vedere che la figlia entrava in una
famiglia ricca. Dopo, invece, era peggio­
re delle altre: io ne so qualcosa, perché
mi ci sono imbattuta.
A quei tempi era bello, perché,
quando arrivava una festa, ogni tanto
ti venivano a trovare i parenti: ci si
rispettava con cugini, zii. Come c’era
un odore di parentela, si andava a tro­
vare: una mangiata di maccheroni e un
conigliaccio insieme, anche un gallo.
Non è come adesso che con i parenti ti
vedi solo quando muore una persona
cara, e per qualche matrimonio.
Ma anche quelli, quando si sposa­
no, invitano solo gli amici, comincia­
no anche a cancellare i parenti. Per un
conto è meglio, perché adesso ci vuole
centomila lire e anche di più per per­
sona, e a chi ha una pensione come la
mia, lo manda fuori strada.
Poi adesso c’è un’altra moda: quando
abbiamo sposato noi, non c’era l’usan­
za che la madre della sposa andasse al
pranzo, ma rimaneva a casa da sola a
piangere, qualcuna piangeva davvero.
C’era una vicina di casa che non anda­
74
gli dicìa la fiòla: “Sci piagni quanno
me sposo, te sputo addosso!” E la
madre i’hà risposto: “Te non sai sci
piàgno dal dispiacé’ o dalla contentezza!”
Alla domeniga appresso se ’nvidàa alla madre per véde’ ’ndó era
boccàda la fiòla, per faje véde’ la
càmbora, perché cuélla vo’ non ce
se gèra prima de sposà’ a casa del
ragazzo, ché sci te lassàa gì’, era
fadìga artroànne ’n antro: s’armanìa
zitella.
va d’accordo con la figlia. Le diceva la
figlia: “Se piangi quando mi sposo, ti
sputo addosso!” E la madre le ha rispo­
sto: “Tu non sai se piango dal dispiace­
re o dalla contentezza!”
La domenica successiva si invita­
va la madre della sposa, perché vedesse
dove era entrata la figlia, per farle vede­
re la camera, perché quella volta non si
andava a casa del ragazzo prima di spo­
sarsi, perché, se ti lasciava, era difficile
trovarne un altro: si rimaneva zitelle.
In brango alle feste
In branco alle feste
Gémo più annànse. Cuélla vo’
n’era como adè’, non c’era bisogno a
gì ’nté la palestra, spèce quanno tirài
’n giorno la falce fenàra. Se cominciàa a maggio col fié’ e se duràa
fina agosto, anche quindici giorni a
falciàa ’l gra’!
Eppure, quann’èra la sera, c’era
la voja a gi’ a ballà’. Questo quanno
non c’era la guerra. Quando era più
granna, io gèra co’ ’ste sorelle, che
gèrene a ballà de scannafojadùre,
de carnoàle a Montalbò’ sulle scòle
vecchie, e po’ anca se gèra a pìa fina
a Monsanvido: de Carnoàle ’nté le
piazzette, como c’era ’mpo’ de spazio se mettìa uno co’ l’organetto e
via... se ballàa. C’era anca i gruppi
che ballàa: quanto me piacìa a me!
Ballàa anca chi non sapìa fa’.
Venìa a chiamà’ anca a me e chissà
Andiamo più avanti. Quella volta
non era come adesso: non c’era il biso­
gno di andare in palestra, specialmen­
te quando tiravi tutto il giorno la falce
fienaia. Si cominciava a maggio con il
fieno e si durava fino ad agosto: anche
quindici giorni a falciare il grano!
Eppure, quando scendeva la sera,
c’era la voglia di andare a ballare. Questo
(accadeva) quando non c’era la guerra.
Quando ero più grande, io andavo con
le mie sorelle, che andavano a ballare
durante le scartocciature, il carnevale a
Montalboddo sulle scuole vecchie, e poi
si andava a piedi fino a Montesanvito:
a Carnevale nelle piazzette, come c’era
un po’ di spazio si metteva uno con l’or­
ganetto e via... si ballava. C’erano anche
i gruppi che ballavano: quanto mi pia­
ceva!
Ballavano anche quelli che non sape­
75
quanto era contenta, benànca che
’nté i pìa cìa le zàndole fatte a ma’ da
’sti fradelli coi cupertù’ vecchi delle
biscighette, con du’ cinte sopra e...
avanti popolo!
Le scarpe cuélle della Comugnió’
non m’era più bòne, anca se mamma
me lìa fatte ’mpo’ de nùmberi più
granne, prò era ’l pìa che crescìa
’mbelpò’. D’inverno portàa anca
cuélle delle sorelle con ’mpar de
calzétti nèrti fatti coi ferri, anca du’
pari pe’ rîmpì’ le scarpe. A volte prò
non c’era manco le scarpe!
Quanno se gera alla festa de sera,
’nté le strade se vedìa certi branghi como le pegore: òmmini, donne,
monelli. E dopo se ’rvenìa a casa de
notte, se fèmma compagnia l’uno co’
l’altro.
Quanno fumma giovene, c’era
sempre cuéllo che ce venìa a domannà amore, appena piài la strada de
casa, da cima della Massa, scinó
cuélla del Paradiso, perché ’ndó passamma la casa nostra era da lóngo
uguale. Come v’ho ditto, fumma ai
confini de Montalbò.
Tanto alle feste, le fiere, i mercadi, non se mancàa mae, perché
mamma ce nìa de ’ste femmene quattro: una sul forno e una ’nté la pala,
como se dicìa ’na’ò, e due ’ncó sotta
al crì!
E lì se filàa dritto como volìa
mamma; te mettìa su, quanno volìa
lìa. A me m’è toccado ’mpò tardi:
avìa diciassette anni quanno ha sposado la penultima e lì fina a cuélla
vano ballare. Venivano ad invitare an­che
me e chissà quanto ero contenta, ben­ché
ai piedi avessi i sandali fatti a mano
dai miei fratelli con i vecchi co­pertoni
delle biciclette, con due strisce sopra e...
avanti popolo! Le scarpe, quelle della
Comunione, non erano più buone per me,
anche se mamma me le aveva comprate
di qualche numero più grandi, perché era
il piede che cresceva tanto. D’inverno cal­
zavo anche quelle delle sorelle con un paio
di calze grosse lavorate con i ferri: anche
due paia (ne occorrevano) per riempire
le scarpe. A volte, però, non c’erano nep­
pure le scarpe!
Quando si andava ad una festa di
sera, nelle strade si vedevano certi bran­
chi come le pecore: uomini, donne e
bambini. E dopo si ritornava a casa di
notte, ci facevamo compagnia l’uno con
l’altro.
Quando eravamo non sposate, c’era
sempre quello che veniva a domandarci
amore, non appena prendevi la strada
di casa, in cima alla Massa o in cima
al Paradiso, perché la nostra casa, dove
passavi, era lontana uguale. Come vi ho
detto abitavamo ai confini di Montal­
boddo. Non si mancava mai, tanto alle
feste quanto alle fiere e ai mercati, per­
ché mamma ne aveva quattro di queste
femmine: come si diceva una volta, una
sul forno, una sulla pala (per infornare)
e due ancora sotto il ‘crino’.
E lì si filava diritto come voleva
mamma; ti metteva in mostra, quando
voleva lei. A me è toccato un po’ tardi:
avevo diciassette anni quando ha sposa­
to la penultima e lì, fino a quel momen­
76
vo’ toccàa a sta’ sotta al crì. Non è
como adè: sci ’na madre ci’hà du’
fémmene, una da venti e una da sei,
anca cuélla piccola vôle fa’ i pagni
e cuéi scarpó’, le ‘calte’ ié dìcene,
come cuélla granna!
to, bisognava rimanere sotto il ‘crino’.
Non è come adesso: se una madre ha due
femmine, una da vent’anni e una da sei,
anche quella piccola vuole i vestiti e que­
gli scarponi, le “calte” le chiamano, come
quella grande.
Le scarpe
Le scarpe
Appròposito di scarpe, i calzolari
fadigàa muntubè, perché le scarpe
dovìa durà finànta che n’èra pròpio
finìde. L’arsolàa, ce mettìa i sopra
tacchi, coscì chi non crescìa più ’l
pìa, le finìa.
Chi era ricchi, quanno non i’èra
più bòne, le portàa a vènde’ a midà
prezzo da cuélli che vendìa le scarpe, e cuélli le ’rvendìa e ce guadagnàa. A me vecchie non me piacìa
per gnè’, prò finànta che crescìa ’l
pìa non cìa tornaconto a falle, ché
diedro a me non cìa più nisciù’.
Dobo che era la volta mia, cioè
sgappàda dal crì, ha cominciado le
guerre, prima cuélla dell’Africa, e
po’ in continuaziò’, e la robba bella
chi ce lìa la piattàa. Allora, sapéde
que se dicìa? “L duce ha fatto la sala
d’ingegno, monéde de carta e scarpe
de legno!” Certi zoccoloni alti, che
noà li chiamàmma “i cariarmàdi”.
Cualchidù’ ce cascàa ancó’; ‘scarpe
ortopedighe’, chiamade anca coscì
ché sotta era tutte a ’mpezzo, ’rcoperte col camoscio sindèdigo, pelle
sindèdiga, e pezza e i ferri ’nté ’l
A proposito di scarpe i calzolai lavo­
ravano molto, perché le scarpe doveva­
no durare fino a quando non erano
consumate del tutto. Le risuolavano,
ci mettevano i soprattacchi, così quelli
che non crescevano più le finivano.
I ricchi , quando (le scarpe) non
gli andavano più bene, le davano a
metà prezzo a quelli che le rivendevano
, guadagnandoci. A me quelle vecchie
non piacevano, però fino a quando mi
cresceva il piede non avevo il tornacon­
to a farle, dal momento che dietro di
me non c’era più nessuno.
In seguito, quando è arrivato il
turno mio, ossia sono uscita da sotto il
‘crino’, sono iniziate le guerre: prima
quella d’Africa e poi in continuazione.
E chi aveva la roba bella, la nasconde­
va. Sapete che cosa si diceva allora? “Il
duce ha fatto la sala d’ingegno, mone­
te di carta e scarpe di legno!” Certi
zoccoloni alti che noi chiamavamo “i
carrarmati”. Qualcuno ci cadeva pure.
Scarpe ortopediche, chiamate anche
così, perché sotto erano tutte un pezzo,
ricoperte con il camoscio sintetico, pelle
sintetica, pezza e ferri nel tacco e sulla
77
tacco e la pónta: quanno caminàsci
giù pe’ ’l corso o drendo la chiesa fèsci rimóre como tanti cavalli
che gèra al galoppo. C’era a vènde’
anca solo ’l sotta de ’ste scarpe e
dobo se fèra le cinte co’ i’artài dei
pagni, scinó sci cìsci ’n cappello de
feltro vecchio ce se fèra la tomàra
sopra e, dentórno, le ’mbollàmma
con cuélle bollette ’rlustre, color
d’oro. Oh, non ce crederéde... venìa
ganze! S’adattamma co’ nigò, tutto
fèra brodo.
punta: quando camminavi giù per il
corso o dentro la chiesa facevi rumore
come tanti cavalli al galoppo.
C’era a vendere anche solo il sotto
di queste scarpe e dopo si facevano le
strisce con i ritagli dei vestiti; sennò,
se avevi un vecchio cappello di feltro
ci si faceva la tomaia e la fissavamo
tutt’intorno con quei chiodini lucidi,
color oro. Oh, non ci crederete... (quelle
scarpe) venivano belle! Ci adattavamo
a tutto, tutto faceva brodo!
Como s’arlustràa le scarpe
Come si lucidavano le scarpe
Adè’ v’arcónto como se ’rlustràa
le scarpe ’na ò. Cuélle de la gioventù se compràa ’na scattolétta
d’arlùstro, ma questo chì ’n se podìa
’doprà’ pe’ cuélle dei vecchi e monèlli: se fèra ’ntè n’antro modo.
Dovéde sapé’ che all’inverno
era pîne de tèrra perché le strade
de campagna, scì, c’era ’mpo’ de
breccia grossa como i mezzi madù’
o prède, ma era più cuélle che c’era
la ciógàja, e tutta cuélla malta se la
magnàa, ’mpregnàa nigò, perché ce
passàa vacche e biròcci guàsci tutti
i giorni.
I contadì’ dovìa gì’ al mulì’ a
macenà’ ’l gra’ pe’l pa’, che se fèra
’na ’olta ogni otto giorni: mezzo
quintàle de farina ’gni volta. Po’ a
segondo le faméje como era ’mpopolàde, anca 25 persone, e lì ce
Adesso vi racconto come si lucida­
vano una volta le scarpe. Per quelle dei
giovani si comprava una scatoletta di
lucido, ma questo non si poteva usare
per quelle dei vecchi e bambini: si faceva
in un altro modo.
Dovete sapere che d’inverno (le scar­
pe e gli zoccoli) erano pieni di terra, per­
ché le strade di campagna, sì, c’era un
po’ di breccia grossa come i mezzi mat­
toni o le pietre, ma erano di più quelle
con la ‘ciógàja’ e tutto quel fango se la
mangiava, impregnava tutto, perché ci
passavano vacche e birocci quasi tutti i
giorni. I contadini dovevano andare al
mulino a macinare il grano per il pane,
che si faceva una volta ogni otto gior­
ni: mezzo quintale di farina ogni volta.
Poi a seconda di come erano numerose
le famiglie, anche venticinque persone,
e lì ne occorreva un quintale, compresa
78
ne volìa anca ’n quintàle ’n tra fa
la pasta nigò. Cuélla vo’ non se
podìa magnà’ la pasta cómpra, ’na
ò al mille, quanno c’era cualchidù’
’mportante, che po’ sci era contadì’;
sci era paesà’, gradìa de più le tajadèlle fatte co’ rasagnòlo, benànche
co’ poghi ôi.
E po’, oltra a macenà’ ’l gra’, se
portàa i panetti del granturco: sarìa
cuéllo scartàdo muffo, se macenàa
i tùdoli, nigò pei porchétti; envéce
cuéllo scelto se spartìa col padró’, e
dobo se dèra ai pùi e pe’ la pulènta,
che se comensàa da ottobre finànta
a Pasqua, anca tre o quattro ’olte la
settimana, condìda co’ le cipolle e
pómmidòri, sarìa ‘la pacchia’.
E anca co’ ’l vincòtto1, quanno
c’era ’l porco fresco ’mpezzo de
salciccia, du’ costarèlle; qualche vo’
col toccafìsso, qualche vo’ ’l lardo
e ’mpo’ de cacio. Como se fèra era
sempre bòna, anca coi fiori de càoli,
cuélli a palla: nigò fèra brodo.
Allora squsàde: comenso ’na
cosa e vô a finì’ ’nté ’n’antra. Dobo
se gèra al mulì’ pe’ macenà’ la
venàccia, la jànda, l’orzo, la somènte dei spì’ chiamadi ’i spì de scànci:
fa cuélle piastrèlle grànne como
’n bottó’ dei cappotti. Anca cuélle
se coìa pe’ macenà’ ai porci: adè’
mango se véde più ’nté le fratte, ha
belle che fatto sparì’ nigò, mango i
rùghi non se véde più, ’na ò ce scal-
1
quella per fare la pasta. Quella volta non
si poteva mangiare la pasta comprata,
se non una volta al mille, quando c’era
qualcuno importante, e poi se era un
contadino; se era un paesano, questo
preferiva le tagliatelle fatte con il matte­
rello, sia pure con poche uova.
E poi, oltre che a macinare il grano, si
portavano i tutoli del granturco, i panet­
ti scartati perché ammuffiti: si macina­
va tutto per i porci. Invece il gran­turco
scelto si spartiva con il padrone, e dopo
si dava ai polli e per la polenta, che si
cominciava a mangiare da ottobre fino
a Pasqua, anche tre o quattro volte la
settimana, condita con cipolle e pomo­
doro, che si chiamava ‘la pacchia’. E
anche con il ‘vincotto’; quando c’era il
porco, ammazzato da poco, un pezzo di
salsiccia, due costine; qualche volta con
lo stoccafisso, qualche altra volta con il
lardo e un po’ di formaggio. In qualun­
que modo si facesse, era sempre buona,
anche con i cavolfiori o le verze: tutto
faceva brodo.
Scusate: comincio un argomento e
vado a finire in un altro. Dopo si anda­
va al mulino per macinare le vinacce, la
ghianda, l’orzo, il seme degli spini, chia­
mati ‘gli spini scanci’: (questi) fanno
quelle piastrelle grandi come un bottone
dei cappotti. Anche quelle si coglievano
per macinarle per i porci: adesso nep­
pure si vedono più nelle fratte. Hanno
quasi fatto sparire ogni cosa, nemmeno
i rovi si vedono più, mentre una volta ci
vincotto: mosto bollito, fino a ridursi ad un terzo e, quindi, usato come condimento.
79
dàmma ’l forno; adè’ c’è ’rmàsta la
caccìa, cuélla ’ncó’ s’è salvàda, anca
cuélle téghe lì è bòne pei porchétti
da ’ngràsso.
’Na ò più era grassi e più ’l padró’
e ’l contadì’ era contenti, ché cìa ’l
lardo quattro o cinque déda, anca
’n palmo: lo spartémma pe’ tutto
l’anno, ’l colisteròlo era de sótta, giù
fónno dei pìa.
Coscì arvô a finì’ ’nté le scarpe: sa
co’ fèra ’sti ansiàni? Pïàa la scopétta,
l’ammollàa e po’ l’integnéa lì ’nté la
fulìgina del camì’, anca ’nté ’l ténto
del callàro, e con cuéllo arlustràa le
scarpe, cuélle per gi’ in giro.
Pei zòccoli d’inverno li morbidìa co’ la sógna del porchétto.
Mi’ sòcero la chiamàa ‘la grascia’:
pïàa ’mpezzo de grasso, cuéllo del
distrutto, e pïàa ’n carbó’ ’ccéso e
ce’nvuricchiàa dentorno ’sto grasso,
como ’na lonzétta. Bruciàa finànta
che non s’era smorciàdo ’l carbó’.
E l’attaccàa co’ ’na cordèlla ’nté ’n
chiodo, su ’n trào e quanno era passàdi ’mpo’ de mesi doventàa anca
rancia.
Questa servìa pe’ ’rpulì, ’ngrassà’
le scarpe e i zoccoli ; quanno te passàa vicino ’n ca’, ’n gatto, te venìa a
liccà’: cuélla era fame, eh!!!
scaldavamo il forno. Adesso c’è rimasta
l’acacia, quella ancora si è salvata, anche
quelle teghe sono buone per i porci da
ingrasso. Una volta più (i porci) erano
grassi e più erano contenti il padrone e
il contadino, perché avevano il lardo alto
quattro o cinque dita, anche un palmo:
lo spartivamo per tutto l’anno, il coleste­
rolo era giù in basso, sotto i piedi. Così
vado a finire di nuovo nelle scarpe: sa
cosa facevano questi anziani (per luci­
dare le scarpe e gli zoccoli)? Prendevano
una spazzola, la bagnavano e poi la
intingevano nella fuliggine del camino,
anche nel ‘nero’ del caldaio, e con quello
lucidavano le scarpe, quelle per andare
in giro.
Gli zoccoli d’inverno li ammorbidi­
vano con la ‘sogna’ del porco. Mio suoce­
ro la chiamava ‘la grascia’: prendeva un
pezzo di grasso, quello dello strutto, e un
carbone acceso e vi avvolgeva dintorno
questo grasso, come una piccola lonza.
Bruciava fino a quando non si fosse
spento il carbone. E con una piccola
corda l’appendeva ad un chiodo, fissato
ad una trave, e dopo qualche mese diven­
tava anche rancida. Questa (‘sogna’) ser­
viva per ripulire e ingrassare le scarpe,
gli zoccoli; quando ti passava vicino un
cane, un gatto, questo ti veniva a lecca­
re: quella era fame, eh!
La sógna pe’ bestie e... cristià’
La ‘sogna’ per bestie e... cristiani
La sógna, prò, se ’dopràa anca
pe’ biscigóni che venìa alle vacche,
La ‘sogna’, però si usava anche per i
vesciconi che venivano alle vacche, per
80
pe’ ógne’ ’l collo quanno se spizzigàa col giógo; l’ognìa co’ ’sta sógna
anca quanno cìa l’ernia billigàle;
servìa anca pe’ le ciaccadùre sotta i
pìa, tanto le bestie anca ai cristià’.
Otto o nove mesi dell’anno, anca
de più, gèmma scalsi, ce fèra le
ciaccadùre sotta i pìa, ce fèra la
madèria che sarìa l’infezió’.
Ce mettémma cuélla sógna per
fàlla madurà’, scindó i ’mpiàstri co’
le nàlbe. Quann’era madùro ce ’l
foràa co’ l’ago e lì se guarìa. Vallo a
fa’ adè’, sa quante le ò tocca a tajà’
la gamba!
ungere il collo quando si irritava con
il giogo; le ungevano con questa ‘sogna’
anche quando (le vacche) avevano l’ernia
ombelicale; (la ‘sogna’) serviva anche
per le ammaccature sotto i piedi, tanto
per le bestie quanto per i cristiani.
Per otto o nove mesi all’anno, anche
di più, andavamo scalzi, venivano delle
ammaccature sotto i piedi, ci si for­
mava la “materia” che è l’infezione. Ci
mettevamo quella ‘sogna’ per farla matu­
rare, sennò gli impiastri con la malva.
Quando la piaga era matura, ce la fora­
vano con l’ago e a quel punto si guariva.
Se lo si facesse adesso, sai quante volte
toccherebbe tagliare la gamba!
La Madonna Montagnòla
La Madonna Montagnola
Noà,’na ò, se caminàa sempre a
pìa: a Senigaja, a Jesi, a Chiaravalle.
Ce alsàmma alle due de notte per gì’
alla Madonna Montagnòla, la festa
la segónda domeniga de maggio.
Passàmma a campi co’ le scarpe su
le ma’, se lavàmma i pìa giù ’l ponte
delle Prède, a Chiaravalle. E lì spettàmma la Pròcisció’ che venìa dalla
Montagnòla d’Ancona, a pìa finànta
all’Albarigi. Cuélle vecchiette scalse
drìa la Pròcisció’ ì’ha’rcavàdo ’sta
cosa chì:
È tanto tempo che caminàmo
è più le scarpe che lugràmo
che ’l guadàgno che ci’avémo,
Padarnostro...
Ma sci era scalse, como fèra a
Noi, una volta, camminavamo
sempre a piedi: a Senigallia, a Jesi, a
Chiaravalle. Ci alzavamo alle due di
notte per andare alla Madonna Monta­
gnola, la festa (cadeva) la seconda dome­
nica di maggio. Passavamo a cam­pi con
le scarpe sulle mani, ci lavavamo i piedi
giù al ponte delle Pietre, a Chiaravalle.
E lì aspettavamo la processione che
veniva a piedi dalla Montagnola di
Ancona fino agli Alberici. Quelle vec­
chiette scalze in processione avevano
inventato questa canzone qui:
“È tanto tempo che camminiamo
son più le scarpe che consumiamo
che il guadagno che ci abbiamo.
Padrenostro”...
Ma, se erano scalze, come facevano a
81
lugrà’ le scarpe?
Dòbo, ’rivàda la statua della
Madonnina, l’ha messa lì l’altàre e
tutti i credenti ce gèra a sfregà’ ’n
fazzoletto, ’na scialbétta, ’n cappello,
’mberétto: se chiama la Madonna
della Mercède, che si venera nella
chiesa parrocchiale della Montagnòla
nel supùrbio d’Ancona. Non so sc
’ncó’ fa ’ste funzió’.
consumare le scarpe?
Una volta arrivata, la statua della
Madonnina l’hanno messa sull’altare e
tutti i fedeli ci andavano a strofinarci
un fazzoletto, una sciarpina, un cappel­
lo, un berretto: si chiama la Madonna
della Mercede, che si venera nella chie­
sa parrocchiale della Montagnola nel
suburbio d’Ancona. Non so se ancora si
facciano queste funzioni.
La gida al maro
La gita al mare
Adè m’arcòrdo che, quann’èro
monella, cuél pôro babbo dicéa: “
Domènniga, bardàsci, ve porto al
maro!” Mamma mia, le contentezze!
Iè s’aiudàa a fadigà’ tutti contenti:
“Doménniga ce porta al maro, gimo
al maro!” I’obbèdìmma, ce se alsàa
presto a ’rcòje la spiga. “Dàdeje
fedù, fedàcce! D’accordo diméniga
ve porto a Senigaja, gémo a fa’ ’l
bagno!”
S’alsàmma a la madìna vero le
cinque e gèmma giù a pìa, scalsi
giù pe’ le strade con cuéi còdeni,
’nté cuélle strade segondàrie. Ci’avìa
sotto i pìa la pelle dura come le sòle,
a caminà’ sempre scalsi, capirai!
Anca all’invèrno gèmma scalsi, sa;
dicìa che facéa be’ pe’ le bugànse,
c’adè’ li chiama ‘i gelóni’.
Babbo chiappàa su anca i bardàsci de zio, sempre cuélli più piccoli; cuélli grànni, oltra che fèrane
l’amore, se vergognàa a venì’ con
Adesso mi ricordo che, quando ero
bambina, quel povero babbo diceva:
“Domenica, ragazzi, vi porto al mare!”
Mamma mia, che contentezza ! Lo
si aiutava a lavorare tutti contenti:
“Domenica ci porta al mare, andiamo
al mare!” Gli obbedivamo, ci si alzava
presto a raccogliere la spiga. “Forza,
ragazzi, ragazze! D’accordo, domenica
vi porto a Senigallia, andiamo a fare il
bagno!”
Ci alzavamo la mattina verso le cin­
que e andavamo giù a piedi, scalzi giù
per quelle strade con quei sassi grossi,
in quelle strade secondarie. Avevo sotto
i piedi la pelle dura come le suole, capi­
rai, a camminare sempre scalzi! Anche
all’inverno andavamo scalzi, eh; dice­
va che faceva bene per le ‘buganze’, che
adesso chiamano i geloni.
Babbo prendeva con sé anche i figli
di zio, sempre quelli più piccoli. Diceva
babbo: “Adesso facciamo la scorciatoia!”
Passavamo giù per San Martino, anda­
82
noà. Dicìa babbo: “Adè’ fàmo la
scórtadóra!” Passàmma giù pe’ San
Martì’, gèmma a finì’ giù ’l Trapónso,
pïàmma d’in su là ’l Grottì’, e po’ la
strada della Romana, Sant’Angiolo.
’Gni tanto dicémma: “Ma quanno
s’arìa a ’sto Senegàja? Ma quant’è da
lóngo? E babbo rispónnìa: “ ’N’an­
tr’oretta!”
Arcaminàsci, arcàminàsci tutti
contenti, ma ’n s’ariàa mae. Tanto
d’in giù gèra be’, sempre d’annanse
a babbo, lu’ a drédo con bastó’ su
le spalle, ’ndó cìa legàda la goluppa
del pa’, ’na bottija d’amezzàdo, ’n
pomidòro, ’na fetta de lónza o presciùtto per fa’ colazió’.
Ce fermàmma a sède’ per terra pe’
riposàsse ’mpo’... e via n’antro po’.
Quanno arrivàsci giù ’l maro, vèro
le otto, n’è che cìsci voja da ’spettà’:
boccàmma sùbbedo ’ntell’aqua, coi
pìa solo prò. Dobo babbo ce pïàa
’n costumo a noléggio e via ’n tra
l’aqua finànta a mezzogiorno.
Anca babbo mettìa’l costumo,
ma c’era cuéi montagnòli pròpio
gèrane’n tra l’aqua vestidi, sci era
fresco anca’l corpétto. Tiràa su le
calse finànta ’nté ’l ginocchio, co’
le scarpe legade assieme l’una co’
l’altra, po’ una per parte su la spalla,
una d’annanse una drìa; col bastó
’ndó cìa legàdo lo scorsadàrbolo
(cuéi più fini ’l chiamàa ’l fazzoletto
da spesa’), co’ ’sta golùppa ce mettìane ’mpo’ de nigò e via... caminàa
’n tra l’aqua. Quanno riàa cuéll’onde
grosse, se mollàa fina ’n tra ‘losimo
vamo a finire giù il Triponzio, poi pren­
devamo d’in su là verso il Grottino, e poi
la strada della Romana, Sant’Angelo.
Ogni tanto chiedevamo: “Ma quando
si arriva a questa Senigallia? Quant’è
lontana?” E babbo rispondeva: “Un’altra
oretta!”
Riprendevi a camminare, cam­
minavi di nuovo, ma non si arriva­
va mai. Tanto d’in giù andava bene;
sempre avanti a babbo e lui indietro
con un bastone sulle spalle, dove aveva
legato l’involto del pane, una bottiglia
d’ ‘ammezzàdo’, un pomodoro, una
fetta di lonza o prosciutto per fare cola­
zione.
Ci fermavamo seduti a terra per
riposarci un po’... e via un altro po’.
Quando arrivavi al mare, verso le
otto, non è che avevi voglia d’aspettare:
entravamo subito nell’acqua, con i piedi
soltanto, però. Dopo babbo ci prendeva
un costume a noleggio e via nell’acqua
fino a mezzogiorno.
Anche babbo metteva il costume, ma
quelli proprio montagnoli andavano
nell’acqua vestiti, se era fresco anche
con la giacca. Tiravano su i pantaloni
fino al ginocchio, con le scarpe lega­
te insieme, l’una con l’altra, una per
parte su una spalla: una davanti e una
di dietro, con il bastone dove avevano
legato lo ‘scorzadarbolo’ (quelli più fini
lo chiamavano ‘fazzoletto da spesa’),
con questa ‘goluppa’, dove ci mettevano
un po’ di tutto, e via... camminavano
nell’acqua. Quando arrivavano quelle
ondate grosse, si bagnavano tra ‘losi­
mo e il guaio’: pareva che l’avessero
83
e guaio’: parìa che se lìa fatta addosso. Quanto ci ’aérà riso chi stèra
sdraiàdi sotta cuéll’ombrellù’! Sci
ce fusse stada ’na cinaprésa como
ci’hanne adè’, tiràa fòra ’mbel cinema treàdo, sensa caminà’ tanto!
Ma ’rtornàmo al maro: era mezzogiorno e gné la facìa a tiràcce fòra
cuél pôro babbo. C’émma tutti i labbri neri, ma tanto como sia stésci ’n
tra l’aqua, perché ’n bagno luscì nésci
fatto mae. Da quanno eri nado ’l fèri
’nté ’na bacinèlla e dobo, capirai, te
lavàvi ’nté ’na caldaròla. Quann’èra
d’istàde boccàvi giuppe ’l granturco
a lavàtte, all’inverno ’n te lavàvi mae:
fatta addosso. Quanto ci avranno riso
quelli che stavano sdraiati sotto quegli
ombrelloni! Se ci fosse stata la cinepre­
sa, come ce l’hanno adesso, ne avrebbero
ricavato un bel cinema o teatro, senza
camminare tanto!
Ma ritorniamo al mare: era mezzo­
giorno non gliela faceva a tirarci fuori
quel povero babbo. Avevamo tutte le lab­
bra nere, tuttavia restavi nell’acqua,
perché un bagno così non l’avevi fatto
mai. Da quando eri nato lo facevi in
una bacinella e, in seguito, capirai, ti
lavavi in una calderella. D’estate entra­
vi in mezzo al granturco per lavarti,
d’inverno non ti lavavi mai: ti davi
Giornata al mare. Foto anno 1938 (coll. Giorgio Pirani).
84
te davi ’na bòtta giù la stalla, ma
capisci che ’nté ’na caldaròla te ce
lavi pogo! L’aqua sempre jàccia, se
mettìa a scallà’ ’mpo’ ’nté ’l callàro,
ma dovìsci giontàlla ’mpo’, perché
cuélla del callàro ’n bastàa. Ce sarìa
volsùdo ’na stufétta de cuélle che
ce s’ammazzàa i porchetti, allora scì
che te podìsci lavà’ be’, ma ’n c’era
mango la possibilidà, ’n c’era gnè!
Intanto babbo gèra a comprà’ ’na
cartàda de pesce fritto: sarà stado
du’ giumèlle, du’ ciangàde, ma como
era bono! E ce dicìa: “Daje sgàppa
fòri, oh, sgàppa fòri!” Oh, niente da
fa’! Badavi a sta’ lì drendo.
Alla fine te tiràa fòri, te mettìi a
magnà’ lì ’n tra cuélla sabbia. N’è
che se guardàa tanto tovàja e tovajòli, c’era solo ’n boccó de tovaja
’ndó era poggiàdo ’l pa’.
E lì magnàvi cuél pesce fritto
’nté la carta,’nté cuél pesciolìno
piccolo piccolo ce fésci anca tre
mòschi. Col pa’, quant’era bòni! Ma
noà magnàmma pogo, per gì’ n’antra ò dréndo al maro. E quanno mae
se fèra ’mbagno luscì!
una lavatina giù la stalla, ma , capisci,
che in una calderella ti ci lavavi poco!
L’acqua sempre fredda, la si metteva a
riscaldare un po’ sul caldaio, ma dove­
vi aggiungerne un po’, perché quella del
caldaio non bastava. Ci sarebbe voluta
una stufetta di quelle che (si usavano
quando) si ammazzava il porco, allora
sì che ti saresti potuto lavare bene, ma
non c’era neppure la possibilità, non
c’era niente!
Intanto babbo andava a comprare
una cartocciata di pesce fritto: sarà
stato due ‘pugnelli’, due ‘ ciangàde’, ma
come era buono! E ci diceva: “ Forza
esci fuori! Oh, esci fuori!” Oh, niente
da fare! Badavi a rimanere lì dentro.
Alla fine ti tirava fuori, ti mettevi
a mangiare lì, su quella sabbia. Non è
che si guardava tanto alla tovaglia e ai
tovaglioli, c’era solo un pezzo di tova­
glia, dove era appoggiato il pane. E lì
mangiavi quel pesce fritto nella carta:
in quel pesciolino piccolo piccolo ci
facevi tre morsi. Con il pane, quanto
erano buoni (quei pesciolini)! Ma noi
mangiavamo poco, per andare un’altra
volta dentro il mare. E quando mai si
faceva un bagno così!
La via de casa... coraggio e vida
lesta!
La via di casa... coraggio e
camminiamo svelti!
Vèro le cinque arpïàvi la via de
casa... Allora scì ch’èra dura! Solo
a pensàcce, con cinque o sei ore a
’mmóllo, le gambe gné la fèra più.
Verso le cinque riprendevi la via di
casa... Allora sì che era dura! Solo a
pensarci, dopo essere stati cinque o sei
ore a bagno, le gambe non ce la facevano
85
Dice che l’aqua del maro fa be’, ma
quanno uno ne ’l fa mae ’l bagno, ’l
maro te’ndebolìa.
Caminàsci a pìa, vinìsci su tutto
smòrto, sfinìdo,’n tra cuélla breccia,
tra i sassi grossi: ’gni tanto pròvàsci
a cascà’. Sci la strada era mólla,
perché scìa pioùdo, ce dicìa: “Pas­
sàde’ndó c’è le prède, i còdeni, che
non sbiscia!” Noà’nvéce, como’l
somaro, ce l’ha la strada bòna...
embè sempre a fossi! Dobo ce sporcàmma, ’nté ’na cannèlla ce lavàa e...
avanti popolo!
Ma le gambe ’n ce la fèra più,
ma bisognàa fa’ “ ’l core in pace el
culo in péce” - se dicìa ’na ò! Babbo
ce dicìa: “Coraggio e vida lèsta, più
ne famo e meno na resta!” A cuél
pôro babbo ié dicìa ’gni tanto: “‘Ndó
sémo’riàdi? “Sémo chì al Valló’!”
Questo, quanno passàmma là, giuppe’l Filetto. “’Ndó sémo riàdi, bab­
bo?” “Sémo a Sant’Àngiolo!” “’Ndó
sémo riàdi babbo?” “Sémo a San
Silvestro!” “Sémo al Grottì!”
Pensa ’mpo’, ancó’ dal Grottì a
casa nostra i chilomedri che c’era
da fa’! E lì al Grottì babbo se fermàa
e ce compràa’na gazzosa: como era
bòna! ’N se bevìa mae. E po’ via...
passàmma giù pe’ cuéi trapónsi. ’Gni
tanto a cuél pôro babbo ié dicéa:
“Babbo, chi ce sta chì?” “Ce sta cuéllo!” “Babbo, chi ce sta qua?” “Ce sta
cuél’altro!” Sicché era anca ’na noja
dobo tutto sa, perché lu’, pôretto,
caminàa, ci’avìa ’l bastó’ sulle spalle
co’ la golùppa. Sottovoce pregàa
più. Dicono che l’acqua del mare faccia
bene, ma quando uno non lo faceva mai
il bagno, il mare ti indeboliva.
Camminavi a piedi, avanzavi tutto
smorto, sfinito, tra quella breccia. tra i
sassi grossi: ogni tanto stavi per casca­
re. Se la strada era bagnata, perché aveva
piovuto, (babbo) ci diceva: Passate dove
ci sono le pietre, i ‘ciocci’, perché non sci­
vola!” Noi, invece, come il somaro, ce l’ha
la strada buona... ebbene sempre a fossi!
Dopo ci sporcavamo, in una fontanella
(babbo) ci lavava e... avanti popolo!
Le gambe non ce la facevano più, ma
bisognava fare “il cuore in pace e il culo
in pece” - si diceva un tempo. Babbo ci
diceva: “Coraggio e vita lesta, più ne
facciamo e meno ne resta!” A quel pove­
ro babbo domandavo ogni tanto: “Dove
siamo arrivati?” “Siamo al Vallone!”
Questo quando passavamo la per la
strada del Filetto. “Dove siamo arriva­
ti, babbo?” “Siamo a Sant’Angelo! “Dove
siamo arrivati, babbo?” “Siamo a San
Silvestro! “Siamo al Grottino!”
Pensa un po’, ancora dal Grottino a
casa nostra, quanti chilometri c’erano
da fare! E lì, al Grottino, babbo si fer­
mava e ci comprava una gassosa: come
era buona! Non si beveva mai. E poi
via... passavamo giù per quei Triponzi.
Ogni tanto a quel povero babbo chiedevo:
“Babbo, chi abita qui?” “Ci abita quel­
lo”. “Babbo, chi ci abita qua?” “Ci abita
quell’altro!” Sicché, dopo tutto, era una
noia eh, perché lui, poveretto, cammi­
nava, aveva il bastone sulle spalle con
l’involto. Pregava anche sottovoce.
Arrivavamo a casa più morti che
86
ancó’. Rivàmma a casa più morti
che vivi, pròpio finìdi, ’n tra l’Ave
Maria. Mango ié la fèmma a parlà’.
Ce dicìa cuélli più granni: “E que
éde leàdao anca ’l battesimo? A sta’
’n tra l’aqua tutto ’sto tempo!”
N’è c’aspettàvi pe’ magnà’, pïài e
gìi a letto; lì dormìvi fino alla madìna
alle nove alle dieci. ’Na cotta luscì:
pensa ’mpo’ a gi’ a fa’ ’l bagno giù
’l maro, pe’ gìsse a lavà, pe’ boccà’
’ntéll’aqua, ’n ce se boccàa mae: ce
boccàvi scì pïài l’aqua quanno piòìa,
te facévi la doccia, cuélla vo’ mango
’l sapìi co’ era, noà la chiamàa ‘la
goccia’!
Daéro’l popolo è gambiàdo muntubè al mejo, no’ como salùde, ma
como ’l magnà’, ’l vestì’, ’l divertì’,
tutti i còmedi che volémo, solo che
adè s’arvà alla drèdo, s’è lentàdi i
freni, chi era impostàdi be’ ’ncó ne
’l sente, ma cuélli spregù’, cuélli
che non s’èe ’rcàade mae le gambe,
che n’ha sapùdo giostrà’, comènsa a
gi’ male, ié sta riànno l’aqua ’nté la
góla, con cuél pogo che guadàgna
tutte ’ste tasse, medicine, dal medigo sci paghi te sta ’mpo’ a sentì,
scinó hai da spettà’ n’anno prima
de fa’n’analise: sai quante le ò fai a
tempo a morì’!
Dicìa babbo: “Fjòi, gìmo a rotta
de collo!” E sci ce fusse adè, chissà
che avrìa ditto!
vivi, completamente sfiniti, all’ora
dell’Avemaria. Nemmeno ce la facevamo
a parlare. Ci dicevano quelli più grandi:
E che, avete levato anche il battesimo? A
restare nell’acqua tutto questo tempo!”.
Non è che aspettavi per mangiare, pren­
devi e andavi a letto fino alla mattina
dopo alle nove, alle dieci. Una cotta così:
pensa un po’ ad andare a fare il bagno
al mare, per andarsi a lavare, per entra­
re nell’acqua. Non ci si entrava mai: ci
entravi solo se prendevi l’acqua quando
pioveva, ti facevi la doccia; quella volta
neppure lo sapevi cos’era, noi la chia­
mavamo la “goccia”!
Davvero il popolo è molto cambiato
in meglio, non come salute, ma come
il mangiare, il vestire, i divertimenti,
tutte le comodità che vogliamo; soltanto
che ora si ritorna indietro, si sono allen­
tati i freni: quelli che si erano imposta­
ti bene ancora non lo risentono, ma gli
spreconi, quelli che non hanno mai
cavato fuori le gambe, che non hanno
saputo giostrare, cominciano ad andare
male: gli sta arrivando l’acqua alla gola.
Con quel poco che guadagnano (devono
pagare) tutte queste tasse, le medicine;
dal medico se paghi ti sta un po’ a senti­
re, sennò devi aspettare un anno prima
di fare un’analisi: sai quante volte fai a
tempo a morire!
Diceva babbo: “Figlioli, andiamo a
rotta di collo!” E se ci fosse adesso, chis­
sà che cosa direbbe!
87
Breccia, còdeni e biròcci
Breccia, ciocci e barrocci
Parlàmo sempre de gì’ scalsi:
’nté cuélle strade segondarie era
tutta malta; quanno pioìa ce fèra
tutte pescóle, tutti cuéi scadafòssi.
La breccia de fiume non ce se podìa
portà’, perché la malta la ingollàa
tutta; allora ce se buttàa còdeni grossi, mezzi madù’ per mette’ i pìa
quanno pioìa tanto, scinó era perigolo che te ’nfilsài lì e ce volìa due a
’rtiràtte fòra. Anca quanno passàsci
col biroccio e le vacche, era coscì,
te ’ffonnàsci.
’Nté le strade comunale envéce
’l Comù’ te obligàa a fatte portà’ la
breccia ’mpo’ più fina, ma anca lì,
quanno gèsci co’ la biscighétta toccàa ’rcapà’ i punti più bòni, scinó
cascàsci perché la breccia era grossa, che tanto c’era le ròde dei birocci
che la ciaccàa. D’istàde tutti i contadì’ careggiàa la breccia, chi quattro
medri, chi sei, a segondo l’èttri de
terra che ci’avìa.
I birocci ce passàa muntubè ’nté
le strade perché, oltra che gi’ al mulì,
dovìa careggià’ l’aqua presa dalle
fonte co’ le bótte pe’ le bestie, portà’
a pilà’ la sulla, ’l trafòjo, la spagna.
Non gèra le maghine ’nté le case:
solo la maghina per batte’ ’l gra’ e,
pe’ portàlla su pe’ la costa, che noà
fumma ’ntéll’alto, ce volìa avanti la
macchina da bàtte’ sei o sette pari
de vacche o bua. Pel levadóre envéce bastàa du’ pari de vacche: era
leziéro.
Parliamo sempre dell’andare scal­
zi: in quelle strade secondarie era tutto
fango; quando pioveva ci faceva tutte
quelle pozzanghere. tutti quei solchi! La
breccia di fiume non ci si poteva porta­
re, perché il fango la inghiottiva tutta;
allora ci si buttavano ciocci, mezzi
mattoni per poggiare i piedi quando
pioveva tanto, sennò c’era il pericolo
che affondavi e bisognava essere in due
per tirarti fuori. Anche quando passa­
vi con il biroccio e le vacche, era così:
affondavi.
Nelle strade comunali, invece, il
Comune ti obbligava a portare la brec­
cia un po’ più fina, ma anche lì, quan­
do andavi in bicicletta toccava scegliere
i punti migliori, sennò cascavi perché
la breccia era grossa, perché tanto,
poi, c’erano le ruote dei barrocci che la
schiacciavano. D’estate tutti i contadi­
ni carreggiavano la breccia: chi quattro
metri, chi sei, a seconda degli ettari di
terra che avevano.
I barrocci passavano spesso sulle
strade perché, oltre ad andare al muli­
no, dovevano carreggiare, con le botti,
l’acqua per le bestie, presa dalle fonti,
portare a pilare la lupinella, il trifoglio,
l’erba medica. Le macchine (per la pila­
tura) non andavano nelle case: solo la
macchina per trebbiare il grano e, per
portarla su per la salita, perché noi abi­
tavamo sull’alto, ci volevano sei o sette
paia di vacche o buoi. Per il ‘levatore’,
invece, bastavano due paia di vacche:
era leggero.
88
Cuélla vò’ ’na fameja su cento
cìa ’l cavallo, cualchidù’ ’l somaro,
scinó pe’ strada c’era solo vacche
col biroccio. Quanno s’è cresimade ’ste sorelle, che l’ha tenude per
Cresima du’ signore de Montalbò’,
non ié la fèra a caminà’ a pìa. Allora
babbo ha ’nfioccado le vacche, i’ha
messo le coperte, e po’ ha messo
du’ sedie per ’ste sàntole e le monèlle stèra a sède’’nté le bande del
biroccio. Toccàa tenésse forte con
cuéi codeni! Se dice per dittado: “
’Na breccia po’ arbaltà’ ’n carro!” È
vero! perché le bighe che era lezziére succedìa da ’rbaltasse.
Sci s’arvedésse adè sarìa bello
gnè a gìsse a gresimà’ col biroccio
e le vacche! Ma ’ndó vai... anche
’nté le strade segondarie passa le
maghine! Me ’rcontàa mamma mia
che lìa ha sposado del 1908 co’ la
pariglia de cavalli. Io ié dicìa perché
non ci’hà fatto ’no ritratto, è perché
cuélla vo’ i fottografi non gèra fòri
dalla bottega. L’arsomejo l’ha fatto,
però drendo: fortuna, almeno li vedo
sempre, è ’no ricordo bello.
A quel tempo una famiglia su cento
aveva il cavallo, qualcuno il somaro,
sennò per strada c’erano solo vacche col
biroccio. Quando si sono cresimate le
mie sorelle, l’hanno tenute per cresima
due signore di Montalboddo, che non
gliela facevano a camminare a piedi.
Allora babbo ha infioccato le vacche
gli ha messo le coperte, e poi ha messo
due sedie per queste madrine, mentre
le bambine stavano sedute sulle bande
del biroccio. Bisognava tenersi forte con
quei ciocci! Per proverbio si dice: “Una
breccia può ribaltare un carro!” È vero,
perché alle bighe, che erano leggere,
capitava di ribaltarsi.
Se si rivedesse adesso, sarebbe pro­
prio bello andarsi a cresimare con il
biroccio e le vacche. Ma dove vai... anche
nelle strade secondarie passano le auto­
mobili! Mi raccontava mamma mia che
lei aveva sposato nel 1908 con la pari­
glia di cavalli. Io le chiedevo perché non
ci avesse fatto una fotografia, ma quella
volta i fotografi non uscivano dalla bot­
tega. Il ritratto l’ha fatto, però dentro:
è una fortuna perché almeno li rivedo
sempre: è un bel ricordo!
La gentàja
La gentaglia
’Sti genidóri mia ’rcontàene che
ai tempi de lóra la gentàja c’è stada
sempre; te chiamàa per nome fòra
de notte, sci uno ce lìa con te,
chiamàa como amìgo, envéce te
sparàa e non se sapìa chi era stado.
I miei genitori raccontavano che ai
tempi loro c’è stata sempre la genta­
glia; se uno ce l’aveva con te, di notte
ti chiamava fuori per nome, chiamava
come amico, invece ti sparava e non si
sapeva chi era stato. A quel tempo nelle
89
Cuélla vo’ ’nté le finè’ non c’era le
pursiàne, c’era i scurétti, sarìa i
sportèlli. Alla sera i chiudìa sci c’era
cualchidù’ presi sott’occhio.
’Nté le finè’ cìa le gattaròle che
adè’ mango se véde più ’nvèlle: era
fatto de madù’ messi ’mpo’ spari,
’gni tanto c’era cualche fessùra per
véde’ de fòra e cuélli fòra non podìa
véde’ a cuélli drendo, che li spiàa.
L’ho viste anch’io ’nté cuàlca casa
vecchia.
Ié domannàa a babbo: “Com’è
che’nvéce della finè’ c’è cuéi madù’?”
E lu’ me rispondìa: “È ’na sigurézza!”
Dicìa babbo mia: “Male non fa’ e
paura n’avé’!” Prò, tante le ò, anca
sci uno era ’nocènte, pe’ sbàjo s’artroàa ’nté i guai. Nonno mia gèra
de notte a casa de cuéll’altro fjòlo
che ié fedàa ’na vacca; iè scappàdo
uno da drèdo ’na fratta, i’ha datto
’na bòtta ’nté la testa co’ la cassa
dello schioppo. Nonno luccàa, ma
questo i’ha ditto: “Sta’ sitto, scinó
t’abbrugio.
Bada a caminà’ ché n’era per te,
è stado ’no sbajo!” Intanto lu’ ha
’rleàdo, è gido ’mbelpò’ co’ ’no sfri­
gio sulla fronte. M’arcòrdo che cìa
’na cigadrìce, noà volémma sapé que
ìa fatto e lu’ ce l’arcontàa. Ce dicìa
che ’l be’ e ’l male c’è stado sempre.
Anca le donne che armanìa pregne da gióvene o che scappàa via
de notte ’n se portàa be’. Arcontàa
nonna che una lìa fatto da niscòsto
dei genidóri e po’ lìa messo drendo al grasciàro: è morto, porettì’!
finestre non c’erano le persiane, c’erano
gli scuri, che sarebbero gli sportelli: se
qualcuno era preso di mira, la sera li
chiudeva. Nelle finestre c’erano le ‘gat­
taiole’ che adesso non si vedono più in
nessun luogo: erano fatte con mattoni
messi un po’ dispari, non ben allineati
in modo che ogni tanto ci fosse qualche
fessura per vedere di fuori, mentre quel­
li di fuori non potevano vedere quelli che
stavano in casa, che li spiavano. Le ho
viste anch’io in qualche casa vecchia.
Domandavo a babbo: Come mai,
invece della finestra ci sono quei matto­
ni?” E lui mi rispondeva: “È una sicu­
rezza!” Diceva anche, però, il mio babbo:
“Male non fare e paura non avere!” Però,
talvolta, anche se uno era innocente, per
sbaglio si ritrovava nei guai. Mio nonno
andava di notte da quell’altro suo figlio,
perché gli figliava una vacca: gli è usci­
to fuori uno da dietro una fratta, gli ha
dato una botta in testa con la cassa dello
schioppo. Nonno gridava, ma quello gli
ha detto: “Sta’ zitto, sennò faccio fuoco.
Bada a camminare perché non era per
te, è stato uno sbaglio!” Intanto lui ha
buscato, è andato per parecchio tempo
con una ferita sulla fronte. Mi ricordo
che aveva una cicatrice, noi volevamo
sapere che cosa aveva fatto e lui ce lo
raccontava. Ci diceva che il bene e il
male ci sono sempre stati.
Anche le donne che rimanevano incin­
te senza essere sposate o che scappavano
via di notte, non si comportavano bene.
Raccontava nonna che una aveva parto­
rito di nascosto dei genitori e poi aveva
messo (il neonato) dentro il letamaio: è
90
’N’antra lìa buttado drendo al bugo
della ladrìna; una medìa (cuélla vo’
co’ le falcétte), è gida drèdo a ’n
cavallétto, ha fatto ’l fjòlo e po’ è
’rgìda a mède’, prò s’ènne ’corti tutti
benànca che cìa le gonne lónghe. Fa
ribrezzo a ’rcontàllo, allora è mejo
como fanne adè’ che pïa la pìndola
e vanne a ròde levàde. I fjòli non
ci’hanne più tempo nisciù’ a fàlli, se
fa nigò currènno, non c’è più tempo
mango de fa’ da magnà’, se compra
nigò cotto e tutto, anca i monèlli
se tròa fatti e tutto: e que volémo
da Dio?
Dobo è venudo ’l duce, mussolì’:
lo scrìo accuscì, ve sta be’? Quella
vo’ ’sta brigàja ’n c’era più, era sparìdo nigò, non c’era mango bisogno
de ’ncadorcià’ le porte. Se dicìa: “
’L re col soldàdo, ’l duce col bastó’,
’l prède co’ l’inferno tutto ’l popolo
tène fèrmo!” Prò n’è che se stèra
tanto be’, sapé’!
morto, poverino! Un’altra l’aveva buttato
dentro il buco della latrina; una, men­
tre mieteva (quella volte con le falci), è
andata dietro ‘un cavalletto’, ha fatto il
figlio e poi è ritornata a mietere; però
si sono accorti, sebbene avesse la gonna
lunga. Fa ribrezzo a raccontarlo, allora è
meglio come fanno oggi che prendono la
pillola e vanno a ruota libera. Nessuno
ha più il tempo di fare i figli, si fa tutto
correndo, non c’è più tempo neppure per
preparare da mangiare, si compra tutto
cotto e pronto, anche i bambini si tro­
vano fatti e tutto: e che cosa vogliamo
da Dio?
In seguito è venuto il duce, musso­
lini: lo scrivo così, vi sta bene? Allora
questa gentaglia non c’era più, era tutto
sparito, non c’era neppure bisogno di
chiudere le porte con il catorcio . Si
diceva: “Il re con il soldato, il duce con
il bastone, il prete con l’inferno tutto il
popolo tiene fermo!”. Però, non è che si
vivesse tanto bene, sapete!
Comannàa mussolini
Comandava mussolini
Adè’ che v’ho mentovado ’l duce,
digo che quanno so’ nada e cresciuda io, comannàa mussolini (scusade
sci ’sto nome ’l fô a lettra minuscola
perché ’nté cuéi anni n’ha cominàde
troppe). Io so che ha cominciado a
comannà de millenovecentoventidue: io ’ncò’ non c’era al mónno, ma
per como m’arcontava ’sti genidori,
non era tanto mòrbedo.
Ora che vi ho nominato il duce, vi
debbo dire che, quando sono nata e cre­
sciuta io, comandava mussolini (scusa­
te se questo nome lo scrivo con la lettera
minuscola, perché ne ha combinate trop­
pe). Io so che ha cominciato a comanda­
re nel 1922: io ancora non ero al mondo
ma, per come mi raccontavano i miei
genitori, non era tanto morbido.
Appena ha iniziato a comandare
91
Appena ha cominciado a co­mannà’
c’era ’n fradello de mam­ma che non
se volìa fa comannà’ da cuéi fascisti
più piccoli de lu’, allora j’hà toccado a
gi’ via in Ameriga, ché j’ha dàtto tante
de cuélle snerbàde che lìa coppàdo!
Ha ditto mamma, che cìa drìa la schina tutta rigada roscia, che jé ci’avìa
fatto i solchi, con cuéi nervi che era
più grossi delle corde che ce se legàa
i tori e le vacche. Dicìa babbo che
era ’n materiale insapevole: non era
né fèro né corda, ’n materiale molto
be’ resistente. E lì toccàa a fa’ cuéllo che dicìa lora, scì non volìi morì
torturàdi.
c’era un fratello di mamma che non
si voleva far comandare da quei fasci­
sti più giovani di lui. Allora è dovuto
andare in America, perché gli hanno
dato tante di quelle nerbate che l’ave­
vano accoppato! Ha detto mamma che
aveva la schiena tutta rigata, rossa, che
gli ci avevano fatto i solchi, con quei
nervi che erano più grossi delle corde,
con cui ci si legavano i tori e le vacche.
Diceva babbo che erano di un materiale
sconosciuto: non era né ferro né corda,
un materiale molto resistente. E lì toc­
cava fare quello che dicevano loro, se
non volevi morire torturato.
Lupetti e Balilla
Lupetti e Balilla
In seguito, quando cominciavo a
diventare grande, io lo vedevo che, se
non facevi quello che dicevano loro (i
fascisti), erano guai grossi! Anche a
scuola toccava vestirsi come volevano
loro. Allora noi femmine avevamo la
gonnella nera pieghettata, la camicia
bianca, le calze bianche, le scarpe nere e
il berretto nero in testa. I maschi, inve­
ce, chiamati i “Balilla”, pantaloni neri
fino al ginocchio, la camicia nera con
gli spallini dove ci si infilava un fazzo­
letto giallo e che era fermato davanti con
un cerchietto rotondo di metallo e sulla
testa un berretto nero con una nappa
nera che penzolava giù per la schiena,
scarpe nere e calzini bianchi.
Prima, però, c’erano i “ Lupetti” da
tre fino a sei anni: quelli erano vestiti
Dobo, quanno comensàa a fàmme
granna, io ’l vedìa che sci non fèsci
cuéllo che dicìa lóra, era guai grossi!
Anche a scòla toccàa a vestìsse como
che volìa lóra. Allora noà femmene
c’émma la gonnella nera pieghettada,
la camigia bianga, i calzetti bianghi,
le scarpe nere e la beretta nera su
la testa. I maschi ’nvece, chiamàdi “i
Balilla”, calse nere finànta al ginocchio, la camicia nera coi spallìni che
ce ’nfilava un fazzoletto giallo, davanti era fermàdo con cerchietto tónno
de metallo e sulla testa ’na beretta
nera con mappo che spendolava giù
pe’ la schina, scarpe nere e calsetti
bianghi.
Prima, prò, c’era i Lupetti da 3
anni fina a 6: cuélli era vestidi uguale
92
ai Balilla, ma ’ntorno alla vida ci’avìa
’na fascia granna gialla, allora era
chiamadi “i Lupetti”, po’ “i Balilla”,
po’ “i Giovini Avan­guardisti”, po’
i “ Fascisti”; le fémmene “Piccole
Italiane”, “Giovane Avanguardiste”.
allo stesso modo dei Balilla, ma intor­
no alla vita avevano una fascia gran­
de gialla. Allora la gioventù era chia­
mata così: i “Lupetti”, poi i “Balilla”,
poi i “Giovani Avanguardisti”, poi i
“Fascisti”; le femmine “Piccole italiane”
93
E daje a canta’ “Fischia ’l sasso”,
“Giovinezza”, “Il Carso era una pròra”
e “Noi siamo i squadristi e sotto a chi
tocca, noi siamo per Mussolini e guai
a chi lo tocca!” E po’ gènno in avanti,
co’ la guerra d’Africa, è sgappàda
fòra anca questa:
e “Giovani Avanguardiste”. E forza a
cantare “Fischia il sasso”, “Giovinezza”,
“Il Carso era una prora” e “Noi siamo gli
squadristi e sotto a chi tocca, noi siamo
per mussolini e guai a chi lo tocca!”
E poi, andando avanti, con la guerra
d’Africa, è uscita fuori anche questa:
Co’ la testa del Negus ce fâmo
l’orinale,
per fa’ piscià’ ’l fascista nazionale.
Con la testa del Negus ci facciamo
l’orinale,
per far pisciare il fascista nazionale.
Con la pelle del Negus ce fâmo lo
scendiletto
per fa’ pistà’ i fascista quanno va
a letto.
Con la pelle del Negus ci facciamo lo
scendiletto
per far pistà’ il fascista quando va a
letto.
C’era chi dicìa anca questa; era
como se facéa ’l segno de croce:
Nel nome del duce
la fame se redùce
la sera sensa luce,
la notte coi ’rioplà’
la madìna sensa pa’.
Quanno se dicìa ‘bongiorno’
se magnàa ’na volta al giorno
adè che salutàmo alla romana
’n se magna mango ’na ò la
settimana.
C’era chi diceva anche questa; era
come se si facesse il segno di croce:
“Nel nome del duce
la fame si riduce
la sera senza luce
la note con gli areoplàn
la mattina senza pan.
Quando si diceva ‘buongiorno’
si mangiava una volta al giorno
adesso che salutiamo alla romana
non si mangia nemmeno una volta la
settimana”.
Se facéa anca coscì:
Si faceva anche così:
Cuésto è pel duce, (saluto alla
romana)
cuésto è pel re, (saluto militare)
cuésto pel papa, (ma’ ’nté lo
stòmmigo)
e cuésto per te. (segno dei corni)
S’arcóntàa anca che uno léa fatta
“Questo è pel duce, (saluto alla romana)
questo è pel re, (saluto militare)
questo pel papa, (mano sullo stomaco)
e questo per te”. (segno delle corna)
Si raccontava pure che uno l’aveva
fatta in mezzo alla piazza e ci aveva
lasciato scritto:
94
ammèzzo la piazza e ci’aìa lassàdo
scritto:
Chì la faccio e chì la lascio
Per il duce e per il fascio.
Sci le tasse na ridùce
gnènte al fascio, tutt’al duce!
“Qui la faccio e qui la lascio
per il duce e per il fascio.
Se le tasse non le riduce
Niente al fascio, tutta al duce”!
Balilla e Figlie della lupa formano la M, indicante Mussolini: al centro l’Italia, rappresentata dalla
fanciulla con stella del regno in testa, fascio littorio e stemma sabaudo. La foto è stata scattata, in
Ostra, nel cortile dell’oratorio S. Cuore, adiacente alla chiesa di Santa Croce. Sono riconoscibili nella
prima fila a sinistra di “figlie della lupa”:1ª Alfa Bonazza – 2ª Marcella Tigrini – 3ª Redenta Sartini – 4ª
Nazzarena Della Vedova -5ª Marisa Benni – 6ª Maria Teresa (Sesetta) Bedini – 7ª Agnese Marcellini.
Seconda fila di bambine: 1ª Graziella Marcellini - 2ª Anna Bacchiocchi - 3ª Floriana Ferretti. 4ª Fiorisa
Bedini - 5ª Mirella Migliorelli - 6ª Elena Paradisi – 7ª Bruna Abbrugiati - 8ª Renza Sellari. Prima fila di
“balilla” al centro: 1° Mario Marcellini – 2° Oliviero Migliorelli 3ª (?) - 4° Giorgio Monticelli – 5° Carlo
Carbini – 6ª Floriano Frulla – 7° Bedini Attilio – 8° Gabriele Paglialunga – 9° Lamberto Massioni. Fila a
destradei“balilla”:1°PierluigiCatozzi–2°LubranoAbbrugiati–3°MarcelloCarbini–4°?–5°Lorenzo
Catalani – 6° Rodolfo Luzi – 7° Albo Pettinari - 8° Tarcisio Bedini (pittore). L’Italia è rappresentata da
Alfonsina Pettinari. Anno 1936 (Coll. Aldo Paglialunga).
95
Inaugurazione del Monumento ai Caduti in Piazza Vittorio Emanuele (ora Piazza dei Martiri). Ostra,
anno 1925 (coll. Giuseppe Antici).
Gli Avanguardisti al sabato fascista al Mercatale. Ostra 1939 (coll. Giuliano Sellari).
96
108ª Legione Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale “Stamura”. Autorità ed istruttori del
Corso Premilitare – Ostra 24 maggio 1933. In prima fila: Gino Casci – Cristanziano Nardi- Maresciallo
CC. – Massimiliano Bosi – Federale(?) – Arrigo Osti – Ercole Osti; -(?) – (?) – (?). In seconda fila: Oddo
Massioni – Argentino Argentati – Nello Massioni – (?) – Rodolfo Boschetti – (?) - Adelelmo Chiodi. In
terza fila: Roberto Francoletti – Gioacchino Mazzanti – Romano Ruggini – Riccardo Frattesi – Mario
Brillanti – Angelo (Otello) Paradisi – Marino Frulla – (?) - (?). In ultima fila: Gino Primavera – (?) – Italo
Panni – Vincenzo Sagrati – Giuseppe Catozzi - (?) – Antonio Manoni – Rocchegiani Luigi (coll. Gabriele
Balducci).
Manifestazione in Piazza Vittorio Emanuele. Ostra, anni ’30 (Coll. Patrizio Manoni).
97
I figli della Lupa: 24 maggio 1935. In prima fila da sinistra: Lena Olivetti - Carlo Carbini - Aurelio
Stefanelli - Augusto Frattesi - Aldo Barchiesi - Ciro Casci Ceccacci - Emiliano Mencucci - Francesco
Cioci - Maestra Sig.na Santinelli. In seconda fila: Carlo Grilli - Massimo Manoni - Lino Staccioli - Ivano
Cappannari - Filippo Papalini - Enzo Mazzanti - Rolando Paglialunga - Fabio Cecchetti. In alto: Ines
Figini (ragazza) - Giuliano Coacci – Ezio Bacchiocchi - Alvaro Ambrosini - Carlo Animali (Alighiero) Alfredo Ambrosini - Ornello Olivetti – Giuseppe Paglialunga (coll. Romano Cioci).
98
Anniversari e medàje
Anniversari e medaglie
E como c’era ’n anniversario de
cualcò, mussolini facìa vestì a tutti
in divisa e fa’ ’l corteo pe’ la piazza
de Montalbòdo e gèra a finì lì davanti al monumento che cuélla ’olta era
lì in piazza, dannànse all’orlògio. E i
combattenti como babbo, zio e tanti
altri che è stadi feridi la guèra del
quìnnici, ma è ’rtornadi a casa salvi,
se mettìa lì davanti al monumento:
due portàa ’na grillànda de bacca­
ròlo e la banda sonàa la cansó’ “ ’L
Piave”.
A babbo ’l mettìa guàsci sempre
de guardia al monumento, in quattro: uno pe’ spigolo, perché lu’ era
stado ferido tre vo’: ’na volta’ nté la
testa, ’na scheggia de ’na bombarda
nemiga; quanno è morto, ancò lìa
drendo alla testa. Benànca ferido
gravemente ha aiudado a ’n’amigo
che lìa coperto la tèra; lu’ l’ha ’rtirado fòri e j’ha dàtto tante medaje al
valor militare.
‘N’antra ’olta jè boccada ’na
scheggia ’nté ’n ginocchio, ’n’antra
’olta j’hà spezzado ’na recchia e,
quanno è ’rvenudo per sempre, ’l
governo j’ha dàtto ’l diploma firmado da Re Vittorio Emanuele III, che
adè n’el so ’ndò ‘ndó sta: prima era
’taccado su, lì la càmbora, ma dopo
io ho sposado, c’è stada ’n’antra
guèra del ’43, boh ’ndó sarà gido a
fenì’... Tanto io ’l so a mente, però sci
c’era era mejo. Lu’, poretto, ’l tenìa
tanto acconto.
E come c’era l’anniversario di
qualcosa, mussolini faceva indossa­
re a tutti la divisa, andare in corteo
per le vie di Montalboddo e si anda­
va a finire lì davanti al monumento,
che a quel tempo stava lì in piazza,
davanti all’orologio. E i combattenti
come babbo, zio e tanti altri, che sono
stati feriti durante la guerra del ’15,
ma sono ritornati salvi a casa, si met­
tevano lì davanti al monumento: due
portavano una ghirlanda d’alloro e la
banda suonava la canzone “Il Piave”.
Babbo lo mettevano quasi sempre
a guardia del monumento, (erano) in
quattro, uno per angolo, perché lui era
stato ferito tre volte: una volta sulla
testa, una scheggia di bombarda nemi­
ca. Quando (babbo) è morto, ancora
l’aveva dentro alla testa. Benché ferito
gravemente, ha aiutato un amico che
era stato coperto dalla terra; lui l’ha
tirato fuori ed ha ricevuto, per questo,
tante medaglie al valor militare.
Un’altra volta gli è entrata una
scheggia in un ginocchio, un’altra volta
gli ha spezzato un orecchio e, quando è
ritornato per sempre, il governo gli ha
dato il diploma, firmato dal re Vittorio
Emanuele III, che adesso non lo so
dove sta: prima era appeso su (una
parete) della camera. Dopo io ho spo­
sato, c’è stata un’altra guerra nel ’43,
boh dove sarà andato a finire... Tanto
io lo ricordo a memoria, però se fosse
rimasto sarebbe meglio. Lui, poveret­
to, lo teneva tanto a conto.
99
Le medaje l’ha volsùde drendo
la cassetta quanno è morto. ’Gni vo’
che c’era ’na cerimonia, ’l 4 maggio, ’l
quattro novembre e l’altre festicciòle
che c’era a Montalbòdo, se le ’taccàa tutte davanti. Ce gèmma sempre
anche noà monelli, pe’ vedéllo como
stèra de guardia: parìa ’na guardia
del papa non battìa manco l’occhi.
Le medaglie le ha volute dentro la
bara quando è morto. Ogni volta che
c’era una cerimonia , il 4 maggio, il 4
novembre e le altre festicciole che c’era­
no a Montalboddo, se le appendeva tutte
davanti. Ci andavamo anche noi picco­
li, per vederlo come stava di guardia:
sembrava una guardia del papa e non
batteva neppure le palpebre.
’Na creatura pe’ l’esònero
Una creatura per l’esonero
Babbo ’rcontàa spesso de la guerra del quìnnici. ’Na sera era de guardia alla polveriera co’ n’antro, amìgo
como ’n fradèllo. S’èra ’ndormentàdo ’sto pôretto. Passa la spezió’,
l’ha ’rtroàdo che dormìa: e i’hà leàdo
l’arme. Cuél disgrazziàdo, como
òpre l’occhi, se tròa co’ du’ persone
avanti l’occhi, sens’arme, s’è messo
a urlà’, piàgne forte, dicènno: “Pôro
fijo de mamma mia!” Era della bassa
Italia. Quanno babbo spesso l’ar­
cóntàa, ce piagnìa e dicìa: “Io a casa
e lu’, pôrìno, a Gaeda!”.
Cuéll’altro, cuéllo che lìa scoperto che dormìa, ha ’vansàdo de grado,
ma a tempo de guerra i gradi non
era bello avècceli, perché, ’l dicìa
anca ’sti fradèlli mia, chi cìa i gradi
al fronte dovìa gi’ annànse, in prima
lìnia. Allora fèra i cagnolì’, se fèra
chiappà’ i pidocchi dai soldàdi.
Babbo dicìa che a Gaéda c’era le
carcere penale che ’nté le celle c’era
sempre l’aqua che, sci non la buttà-
Babbo raccontava spesso della guer­
ra del ’15. Una sera era di guardia alla
polveriera con un altro, amico come
fratello. Questo poveretto si era addor­
mentato. Passa l’ispezione, l’hanno
trovato che dormiva e gli hanno levato
l’arma. Quel disgraziato, come apre gli
occhi, si trova due persone avanti agli
occhi, (era) senza armi, si è messo
ad urlare, a piangere forte, dicendo:
“Povero figlio di mamma mia!” Era
della bassa Italia. Quando babbo spes­
so lo raccontava, ci piangeva e diceva:
“Io a casa e lui, poverino, a Gaeta!”
Quell’altro, quello che l’aveva sco­
perto che dormiva, è avanzato di
grado, ma al tempo di guerra non era
bello avere i gradi perché, lo dicevano
anche i miei fratelli, quelli che al fron­
te avevano i gradi dovevano andare
avanti, in prima linea. Allora faceva­
no i cagnolini, si facevano acchiappa­
re i pidocchi dai soldati.
Babbo diceva che a Gaeta c’erano
le carceri penali, dove, nelle celle, c’era
100
sci via, te lagàa la stansa. Su dritto
non ce podìsci sta’, perché la càmbora era molto bassa e dovìsci sta’
curvo. Apposta, quanno uno fa ’n
laóro brutto da sforsàsse muntubè’,
se dice: “E qu’è como le carcere de
Gaéda?”
Mi’ padre ha fatto ’l milidàre in
Sardegna; ’nté l’isola de Caprera ha
fatto anca la guardia al monumento
de Garibaldi. Arcóntàa ancó’ che
c’era ’n soldàdo che stèra tanto male,
marcàa vìsida, l’ha messo in lista, e
lu’ stèra cólco che non iéla fèra a sta’
su dritto. È passàdo ’n graduàdo e
gli ha ditto, mentre ié dèra ’n calcio:
“Àlsade poltróne, ché tu stai mèjo de
me!” I’hà risposto ’l tenente medigo:
“Scusi capitano, quando dice che il
soldàto sta mèglio di lei, io smetto
di fare il tenente medico!” Era le
due del pomeriggio, alle quattro cuél
soldàdo è morto.
Quanno ’rcontàa ’ste cose, mi’
padre ié se rîmpìa l’occhi de lagrime.
È passàdi tantissimi anni e ’ncó’ me
’rcòrdo. Noà monelli fumma sempre
curiosi a fàje ’rcóntà’ della guerra,
a pensà’ che dobo ce sèmo passàdi
anca noà, ’nté cuéi disastri, ma ’sti
genidóri n’ha passàde tre de guerre.
Anca du’ sorelle e ’n fradèllo mia
n’ha viste tre, era fjòli prò s’arcorda
de quanno babbo era in convaliscènsa e dovìa ’rpartì’ in guerra. Lassàa
a mamma incinta, s’è svenùda, è
cascàda giù per terra, e babbo i’hà
ditto: “Io bisogna che parto, scinó
vô a finì’ a Gaeta como disartóre.
sempre l’acqua che, se non la buttavi
via, ti allagava la stanza. Non pote­
vi stare su dritto, perché la camera
era molto bassa e dovevi stare curvo.
Apposta, quando uno fa un lavoro
brutto e si deve sforzare molto, si dice:
“E che è come le carceri di Gaeta?” Mio
padre ha fatto il militare in Sardegna;
nell’isola di Caprera ha fatto anche la
guardia al monumento di Garibaldi.
Raccontava pure che c’era un soldato
che stava tanto male, marcava visita,
l’ha messo in lista e lui stava sdraia­
to perché non gliela faceva a stare su
dritto. È passato un graduato e gli
ha detto, mentre gli dava un calcio:
“Alzati poltrone, perché tu stai meglio
di me!” Gli ha risposto il tenente medi­
co: “Scusi capitano, quando dice che il
soldato sta meglio di lei, io smetto di
fare il tenente medico!” Erano le due
del pomeriggio, alle quattro quel solda­
to è morto.
Quando mio padre raccontava que­
ste cose, gli si riempivano gli occhi di
lacrime. Sono passati tantissimi anni
e ancora mi ricordo. Noi monelli era­
vamo sempre curiosi a fargli raccon­
tare della guerra, e pensare che dopo ci
siamo passati anche noi, in quei disa­
stri, ma i genitori ne hanno passate
tre di guerre.
Anche due sorelle e un fratello mio
ne hanno viste tre; erano bambini, però
si ricordano di quando babbo era in
convalescenza e doveva ripartire per
la guerra. Lasciava mamma incin­
ta, (questa) è svenuta, è cascata per
terra, e babbo le ha detto: “Bisogna che
101
Sci vène avanti ’sta creatura avrò
l’esonero. Con quattro fjòli, scì Dio
me ce fa rigà’, starò a casa per sempre!” Parole confortanti pe’ genidóri
e pe’ la moje: lo ’nsumbio sua, per
fortuna, è venùdo a luce!
io parta, sennò vado a finire a Gaeta
come disertore. Se viene avanti questa
creatura, avrò l’esonero. Con quattro
figli, se Dio mi ci fa arrivare, starò
a casa per sempre!” Parole confortan­
ti per i genitori e per la moglie: il suo
sogno, per fortuna, è venuto alla luce!
Le fede delle donne alla patria
Le fedi delle donne alla patria
A babbo j’ha scocciàdo quanno mussolini ha datto l’ordene de
consegna’ tutte le fede delle donne
(l’ommini cuélla volta non ce lìa).
Lu’ cuélla non gné la volìa pròpio
da’ alla patria; dicìa: “Io jé l’ho messa
’nté ’l dedo quanno ho sposado, e
adesso l’ho da da’ a lóra?” Ma tanto
cuélla vo’ toccàa a fa’ coscì e zitti,
scinó ’n te podìsci presenta’ manco
sul comù a domanna’ cualchiccò...
e po’ te pïàa sott’occhio e dopo era
càoli amari.
A babbo gli ha scocciato quando
mussolini ha dato l’ordine di consegna­
re tutte le fedi delle donne (gli uomi­
ni quel tempo non ce l’avevano). Lui
quella non la voleva proprio dare alla
patria; diceva: “Io gliel’ho messa nel
dito quando l’ho sposata e, adesso, la
devo dare a loro?” Ma tanto quella volta
bisognava fare così e zitti, sennò non ti
potevi presentare nemmeno sul Comu­
ne a domandare qualcosa… e poi ti
prendevano sott’occhio e dopo… erano
cavoli amari!
Armàmoce e gìdece
Armiamoci e andateci
Dicìa babbo mia: “Prima mussolini te dà i soldi per fatte fa’ i monelli, e po’ quanno è granni te li mànna
a ’mmazzà’ ”. A lu’ a la guèra del ’15
ié dicìa che, sci ci’avéi quattro fiòli,
te dèra l’esonero”.
Allora lu’ ce nìa 3 e, quanno è
’rvenudo a licensa ché era stado
ferido, n’è stato co’ le mane in ma’,
Diceva il mio babbo: “Prima musso­
lini ti dà i soldi per farti fare i figli, e
poi, quando sono grandi te li manda ad
ammazzare!” A lui durante la guerra
del ’15 gli dicevano che, se avevi quattro
figli, ti davano l’esonero. Allora lui ne
aveva tre e, quando è tornato in licenza
perché era stato ferito, non è stato con
le mani in mano, ma ne ha messo al
102
ma n’armésso al monno n’antro:
coscì era quattro. Dopo, finìda la
guèra, da magna’ gli dovìa da’ lu’.
Po’ mussolini, quando è sòrto lu’,
dicìa che ’nté ’n metro de tèra ce
podìa campà’ quattro persone: pensade vuà quanto se podìa magna’!
E po’ mussolini a tutti i soldadi che gèra per terra, per mare e
per aria, prima della guerra, dicìa:
“Fjòli, armàmoce e gìdece!”
mondo un altro: così erano quattro.
Dopo, finita la guerra, però, gli dove­
va dare lui da mangiare. E poi mussoli­
ni, quando è andato al potere lui, diceva
che in un metro di terra potevano cam­
pare quattro persone: pensate voi quan­
to si poteva mangiare!
E poi Mussolini, a tutti i soldati che
andavano per terra, per mare e per aria,
prima della guerra diceva: “Figlioli,
armiamoci e andateci!”
Ojo de rìgeno
Olio di ricino
M’arcordo che ’na ò babbo era
gido a Jesi a porta’ l’oî e i puji a le
padrone che all’istade stèra lassù
’nté ’l palazzo accosto a noà, ma
quanno c’era la scòla gèra giù ’l
palazzo a Jesi: era due ’nsegnanti.
Allora sentide che scena! Passàa
i fascista giù pe’ la piazza cantanno e
a questa donna “jé facea ’mpo’ schifo”, ha ditto. Vedi ’n po’ che ce n’era
uno in giro lì che ha ’nteso! L’ha
presa in dui, l’ha portada dréndo ’na
trattoria, i’ha fatto magnà due piatti
de fasciòli. Po’ uno è gido a pïà un
lidro d’ojo de rìgeno e jé l’ha fatto
be’ tutto.
Po’ j’ha tiràdo su la gonna de
drìa, l’ha pontàda su la cinta e l’ha
portada a spasso accuscì giù pe’ la
città. Pensàde ’mpo’ vu’! ’Sta poretta
j’èra morto ’l marìdo in guèra: j’èra
scappado ditto perché ’n polìa sentì’
tutto ’sto casì.
Mi ricordo che una volta babbo era
andato a Jesi a portare le uova e i polli
alle padrone che d’estate stavano lassù
nel palazzo accanto a noi, ma, quando
c’era la scuola, andavano giù nel palaz­
zo a Jesi: erano due insegnanti.
Allora sentite che scena! Passavano
i fascisti giù per la piazza cantando e
a questa donna “le faceva un po’ schifo”,
ha detto. Vedi un po’ che ce n’era uno lì
in giro che ha sentito! L’hanno presa in
due, l’hanno portata dentro una tratto­
ria, le hanno fatto mangiare due piatti
di fagioli. Poi uno è andato a prendere
un litro d’olio di ricino e glielo hanno
fatto bere tutto. Poi le hanno tirato su
la gonna di dietro, gliel’hanno puntata
sulla cintura e l’hanno portata a spas­
so per la città in quella condizione.
Pensate un po’ voi! A quella poveretta le
era morto il marito in guerra: le erano
scappate dette (quelle parole), perché
non poteva sentire tutto quel casino.
103
Viva ’l duce, viva ’l re, eia eia
alalà!
Viva il duce, viva il re eia eia
alalà!
N’avemo viste e ’ntese de le brutte, ma cuélla ’olta scì te stèra be’,
era coscì, scinó te convenìa a fa’
como ha fatto zio che, scì aspettàa
’n’antro po’, jé facìa la buccia: j’ha
convenudo a gi’ ann’Ammèriga.
Cuélla vo’, prò, ’n c’era la delinquenza como adè, solo che dovésci
fa’ nigò, cuéllo che dicea lora. Io
m’arcordo, quanno gèra a scòla,
anche a noà ci’ha ’mparado la
maestra a di’ “viva ’l duce, viva
’l re eia, eia, alalà!” C’era dréndo
la scola ritratti granni che pïàa
mezzo muro, c’era ’l re con tutta la
fameja: la moje se chiamàa la regina Èllena, nata a Montenegro, con
le fìje Jolanda, Mafalda, Umberto,
Giovanna e Maria, che po’ ha sposado a re Boris d’Ungheria.
E po’ c’era mussolini: ’ndò guardàsci c’era la faccia sua e ’l fascio
de torcoli ’nté i muri, ’nté i ponti,
’nté le figurette delle strade. ’Ndò
guardàsci c’era lu’ e po’ non jé
bastava la moje, cìa anca l’amante,
Claretta Petacci. Ci’avìa anca due
fioli ’sto Benito: a ’na parènte mia,
che ha fatto n’antro monello ’mpo’
tardi, e me pare che avìa 44 o 45
anni, e j’hà messo nome Benìdo,
allora scì che j’hà dàtto per premio
500 lire! A cuéi tempi butteli via!
Dopo, quanno è venuda la guerra ultima, le donne gèra a pròtesta’
che non ce la fèra a gi’ avanti co’
Ne abbiamo viste e sentite delle brut­
te, ma a quel tempo, se ti stava bene,
era così, sennò ti conveniva fare come
ha fatto zio che, se aspettava ancora un
po’, gli avrebbero fatto la pelle: gli è con­
venuto andare in America.
In quel periodo, però, non c’era la
delinquenza come adesso, soltanto che
dovevi fare tutto quello che dicevano loro
(i fascisti). Io mi ricordo che, quando
andavo a scuola, anche a noi la maestra
ci aveva insegnato a dire “Viva il duce,
viva il re eia eia alalà!” C’erano, dentro
la scuola, ritratti grandi che prendeva­
no mezza parete, c’era il re con tutta la
famiglia (reale): la moglie si chiamava
la regina Elena, nata nel Montenegro,
con le figlie Jolanda, Mafalda, Umberto,
Giovanna e Maria, che poi ha sposato
il re Boris d’Ungheria. E poi c’era mus­
solini: ovunque guardassi, nei muri,
sui ponti, nelle ‘figurette’ delle strade
c’era la faccia sua e il fascio di basto­
ni. Ovunque guardassi c’era lui e, poi,
non gli bastava la moglie: aveva anche
l’amante Claretta Petacci. Aveva anche
due figli questo Benito (mussolini): a
una mia parente che ha fatto un altro
figlio un po’ tardi, mi pare che avesse 44
o 45 anni, e gli ha messo nome Benito,
allora sì che le ha dato per premio cin­
quecento lire! A quei tempi buttale via!
In seguito, quando è venuta l’ultima
guerra, le donne andavano a protestare
che non ce la facevano ad andare avanti
con la tessera, che i bambini volevano
104
la tessera, allora i monelli volìa
magna’, e quanno era la sera, non
s’andormentàa perché avìa fame.
Allora dicìa: “Compràdeje i giogàttoli e vedréde che dopo s’andormènta!”. Ma cuélla vo’, prò, i fjòli
ne morìa ’mbelpo’, era como ’l terzo
monno adè. Non c’era manco le
medicine è vero, ma se morìa anche
dalla racchìa, se campava col latte
della madre fino a 3 anni e, dopo
sdovezzato, un pezzo de pa’ mollo
col vi’. ’Mpo’ cuélla vo’ i fiòli ne
nascìa muntibè’, n’ è como adè che
dìcene “è troppo uno!”.
mangiare e, quando era la sera, non si
addormentavano perché avevano fame.
Allora diceva (mussolini): “Com­pra­
tegli i giocattoli e vedrete che dopo si
addormentano!”
Quella volta, però, i bambini ne
morivano tanti, era come il terzo
mondo di adesso. Non c’erano nemmeno
le medicine, è vero, ma si moriva anche
di rachitismo. Si campava con il latte
della madre fino a tre anni e, dopo, tolto
il latte, un pezzo di pane bagnato con il
vino. Un po’ che a quel tempo di figli ne
nascevano parecchi, non era come ades­
so che dicono: “È troppo uno!”
’N muso, ’na cagnara... se gìa a
letto e se passàa
Un muso, un litigio… si andava a
letto e passava
’Sti giorni su la televisio’ ha ditto
che noà d’Ancona sémo cuélli che
cémo meno fjòli, adè fa cualchicò,
per fàjene fa’ de più, ma inùdole: ha
messo la legge che le donne pòlene
arbottì, è como la legge della separaziò’.
Ma perché a tempo nostro se
gèra sempre d’accordo col marido?
no! Tante vo’ se portàa ’l muso, chi
era più aperti facìa a cagnara, se
menavene ’ncò’. A me non m’è mae
capitado, le bastonade, ma ’l muso
tante le ô. Quanno vedìsci cualcò
stòrto, io n’era capace de maltrattallo, allora se mettìa ’n magò ’nté
lo stòmmigo e se facìa ’l muso, ma
In questi giorni alla televisione
hanno detto che noi di Ancona siamo
quelli che abbiamo meno figli; ades­
so fanno qualcosa per fargliene fare
di più, ma è inutile: hanno messo la
legge che le donne possono abortire, è
come la legge del divorzio.
Ma perché al tempo nostro si anda­
va sempre d’accordo con il marito?
No! Tante volte si portava il muso:
quelli che erano più aperti litigava­
no, si menavano pure. A me non sono
mai capitate le bastonate, ma il muso
tante volte. Quando vedevi qualcosa
storto, io non ero capace di maltrat­
tarlo, allora mi si metteva un magone
nello stomaco e si teneva il muso ma,
105
dopo ’mpo’, quanno se gìa a letto se
passava.
Ah sa, sci ’gni volta che fai a
cagnara, te vène la voja de gi’ via,
ahivoja quante ’olte cambi prima de
morì! Ma cuéllo allora non è vero
be’: è solo polìdiga!
dopo un po’, quando si andava a letto,
passava.
Eh, se ogni volta che litighi, ti
viene la voglia di andare via, hai
voglia quante volte cambi (marito)
prima di morire! Ma quello, allora,
non è vero bene: è solo politica!
Léttre ridigole e la censura
Lettere ridicole e censura
Io magari, quanno facìo l’amore,
con la penna ié ’l dicìo tante le vo’
che jé volìo be’, ma quanno c’era
lu’ presente non ci’avìa ’l coraggio,
doventào róscia come ’mpomodoro.
’Nté le léttre scì che ié ’l dicìa, che
po’ le lettre era tutte censurate giù
Ancona, e lóra sa quanto ce ridìa!
E po’ le rispappolàa cuélle ridigole,
come questa:
“Cara Terè’ mia,
môro per te! Me brillo de qua,
me brillo de là, ma a te non te vedo
’nvèlle! Sci tu vedi quajù c’è certi
negòzzi e certe bottéghe, altro che
’ndó t’ho pagàdo la vesta róscia, io,
lì da Nocè! E po’ tra treni, càmi,
ottomòbboli e tranvàai, è peggio de
la fiera su da noà.
Cara Terè, non ci’ho più gnènte
da dìtte. Te mànno tanti baci como
cuélli che t’ho dàtto diédro al pajàro
della pula. Questo è ’l più bello
como cuélla vo’ che passàa lo ’rop­
làno c’arluzzicàa como ’n vitrio:
t’arcordi? Ciao Terè”
Antògnio
Io, quando ero fidanzata, magari
con la penna glielo dicevo tante volte
che gli volevo bene, ma quando lui
era presente non n’avevo il coraggio,
diventavo rossa come un pomodoro.
Nelle lettere sì che glielo dicevo, ma
poi le lettere erano tutte censurate in
Ancona, e loro sa quanto ci ridevano! E
poi diffondevano quelle ridicole, come
questa:
“Cara Teresa mia,
muoio per te! Mi giro di qua, mi
giro di là, ma non ti vedo in nessun
luogo! Se tu vedessi quaggiù, ci sono
certi negozi e certe botteghe, altro che
dove ti ho pagato la veste rossa, lì da
Nocè! E poi fra treni, camion, automo­
bili e tranvai, è peggio della fiera su
da noi.
Cara Teresa, non ho più niente da
dirti. Ti mando tanti baci come quelli
che ti ho dato dietro al pagliaio della
pula. Questo è il più bello come quel­
la volta quando passava l’aeroplano
che luccicava come il vetro: ti ricordi?
Ciao Terè
Antonio”
106
Cuélla vo’, quanno uno saludàa,
c’era chi dicìa “ciao!”, ma più che
parte se dicìa “nanno”... “nanno”
come ai monellétti co’ la manina.
Se’mparàa: “Fa’ ’mpo’ nanno!” Allora
aprìa e chiudìa ’l pugno, come quanno se fa le ’ntevenóse.
’N’antro scrivìa al padre, s’è sbajàdo: ’nvéce da scrìve’ “caro padre”,
ha scritto:
“Caro schiòppo,
te fô sapé’ che so’
boccàdo drèndo al corpo dei cavalli,
so’ cascàdo e me so’ rótto ’na gamba,
altrettànto spero de vuà tutti in
faméja. Te fô sapé’ che hai da rómpe’
’l muso alla vacca da sólco, Faòrì,
Galantì no. La faétta là da bòra
ormai sarà bella! Dìje a mamma sci
fa ’l minchió’, ’l fèsse ’nté la padella
de mezzo, che quanno l’ha fatto ne
mannàsse ’mpezzo anca a me. Te
fô sapé’ che fô ’l soldàdo in Ancona,
ma co’ ’sta guerra prima da ’rnì in
Italia ce serà tempo. Saludi e baci
paga la multa e taci”.
Cuélla vo’, cioè al tempo de guerra, anca chi era fòri d’Italia perdaéro,
non tutti francàa le léttre. Sa que ce
scrivìa ’nté la busta:
“Mezza lira non la móllo
pe’ comprà’ ’l francobollo,
metteremo a spese guerra
tanto paga l’Inghilterra”
Però i’ha risposto coscì:
“Son d’accòrdo co’ l’Inglese,
che dovrà pagà’ le spese,
ma fintànto santo Iddio
il bollìn lo metto io”.
A quel tempo, quando uno salutava,
c’era chi diceva ‘ciao!’, ma più spesso si
diceva ‘nanno’, ‘nanno’ come i bambi­
netti con la manina. Si insegnava: “Fai
un po’ ‘nanno’!” Allora (il bambino)
apriva e chiudeva il pugno, come quan­
do si fanno le endovenose.
Un altro scriveva al padre, si è sba­
gliato: invece di scrivere “caro padre”
ha scritto:
“Caro schioppo,
ti faccio sapere che sono
entrato dentro il corpo dei cavalli, sono
caduto e mi sono rotto una gamba,
altrettanto spero di voi tutti in fami­
glia. Ti faccio sapere che devi rompere il
muso alla vacca “da solco”, Favorì non
Galantì. Il favino, là dalla parte rivolta
a nord, ormai sarà bello! Di’ a mamma
che se mi prepara il “minchione”, lo fac­
cia nella padella, ne mandasse un pezzo
anche a me. Ti faccio sapere che faccio
il soldato in Ancona, ma con questa
guerra, prima che io ritorni in Italia
passerà del tempo. Saluti e baci, paga la
multa e taci”.
Quella volta, cioè al tempo di guerra,
anche chi si trovava fuori dell’Italia per
davvero, non tutti affrancavano le lette­
re. Sa che cosa si scriveva sulla busta?
“Mezza lira non la mòllo
Per comprare il francobollo,
metteremo a spese guerra
tanto paga l’Inghilterra”.
Però gli si rispondeva così:
“Son d’accordo con l’inglese
che dovrà pagar le spese,
ma fintanto santo Iddio
il bollìn lo metto io”.
107
Dobo toccàa a pagà’ la tassa a
noà; anca mi’ fradèllo ce fèra perché
era prima in Albania, po’ in Russia. I
soldi che ié mannàmma no’ iè ’riàa:
era costretti a fa’ luscì, però ce fèra
pagà’ la sopratassa, sci volìsci sapé’
le nodizie (’n’antra vo’: ‘béve o ’ffògade’).
Embè, sémo nadi ’nté n’èppoga
brutta, ma ’n fradèllo mia e du’
sorelle anca peggio: ha subìdo tre
guerre, la spagnòla, la venùda del
fascio (l’hanne vissudo dal principio
e la fine), n’ha passàde anca più de
me, ma... finché s’arcónta va sempre
be’.
Ah, me so’ scordàda de una che
dicìa: “Mi marido non ha volsùdo
lassà’ la moje e i fiji, sindó sotta
l’arme ormai podìa èsse’ stado
colonnello, anca caporale!” La scala
gilàrchica sua gèra alla rèdo, ’nvéce
da gi’ all’avanti!
Dopo dovevamo noi pagare la tassa;
anche mio fratello faceva così, perché
prima si trovava in Albania, poi in
Russia. I soldi che gli mandavamo non
gli arrivavano: (i soldati) erano costret­
ti a fare così, però a noi facevano pagare
la soprattassa, se volevi avere le notizie.
Un’altra volta: “Bevi o affogati”.
Ebbene siamo nati in un’epoca brut­
ta, ma un fratello mio e due sorelle anche
peggio: hanno subito due guerre, la
spagnola, l’avvento del fascismo (l’han­
no vissuto dal principio alla fine), ne
hanno passate anche più di me, ma…
finché le si racconta va sempre bene.
Ah, mi sono dimenticata di una
che diceva: “Mio marito non ha voluto
lasciare la moglie e i figli, sennò sotto le
armi ormai sarebbe potuto essere stato
colonnello, anche caporale!” La sua
scala gerarchica andava all’indietro,
invece di andare in avanti!
Quanno cambia vento...!
Quando cambia il vento…!
Adè che m’arcòrdo, n’ho saltàdo ’mpezzo de cuélla donna che
i fascista lìa purgada. Hanne ditto
che quanno è gida a casa ’ncò gìa
de corpo. Sapéde que ha fatto?
L’ha messa drendo ’na bottìja e
l’ha chiusa bembè e po’ ’l marido, che ha’rpïàdo dopo, ha ditto:
“Lassela sta’, che quanno cambia
vento, scì ci’arivo, ancò i’rconóscio:
jela fô be’ tutta a ’na ’ngozzada!
Adesso che mi ricordo, ne ho salta­
ta una parte (del racconto) di quella
donna che i fascisti avevano purgata.
Hanno detto che, quando è tornata a
casa, ancora andava di corpo. Sapede
che cosa ha fatto? L’ha messa dentro
una bottiglia e l’ha chiusa perbene e poi
il marito, che aveva ripreso più tardi,
ha detto: “Lasciala stare perché, quando
cambierà il vento, se ci arrivo, ancora
li riconosco: gliela farò bere tutta con
108
Pensàde ’mpo’ vuà che rinvècchio è
’nudo fòra! Altre che lo sciampàgne
ch’emo compràdo quanno semo gidi
alla gida ’nté la Francia! A sta’ lì più
de vent’anni como s’era formentato
be’!
una ingozzata!” Pensate un po’ voi che
invecchiamento ne è derivato! Altro
che lo champagne che abbiamo com­
prato quando siamo andati in gita in
Francia! Come si era fermentato bene a
star lì per più di vent’anni!
De que ce nutrémma noà
Di che cosa ci nutrivamo
Scusade che ne pïo pezzo ’n qua
e pezzo in na. Adè ve vojo parlà’ de
que ce nutrémma noà. D’inverno
cece, fasciòli, càoli, cicerchia, foje
de campo, fava lessa, grespìgni, làssene, melanciàne, peverù’, bisèlli,
scarciòfeni, zucche fresche d’istàde
e secche d’inverno, cuélle tónne,
zalle che magna i porchétti. Se piàa
le becche, se bruscàa sul forno per
magnà’ quanno c’era cualchidù’ alla
diménniga e po’ la buccia dura de
fòra se cocìa como ’n pastó’ ai porci
e cuéllo de mezzo la lessàa e po’ la
condìa co’ lardo, ajo e rosamarì’:
bòna perché ’n c’era mejo.
’Sti nonni e genidori conservàa
nigò pe’ l’inverno: pomidòri se mettìa
al sole le pacche secche, po’, quando
le ’dopràa, le mettìa a móllo. La conserva lìa colàda e seccada sopra la
tàola della salada al sole finànta che
n’èra stretta e po’ la maneggiàa, ce
fèra tutti panetti e, quanno scartocciàa ’l granturco, se levàaa ’l panetto
de granturco, ’l cartòccio se pulìa
bembè’ e po’ ce se mettìa ’sti panetti
de conserva; se legàa da cima con
Scusate se ne prendo un pezzo di qua e
un pezzo di là. Adesso vi voglio parlare di
che cosa ci nutrivamo noi. D’inverno cece,
fagioli, cavoli, cicerchia, foglie di campo,
fava lessata, crespigni, rafani, melan­
zane, peperoni, piselli, carciofi, zucche
fresche d’estate e secche d’inverno, quelle
gialle e rotonde che mangiavano i porci e
che si lasciavano per l’inverno. Si prende­
vano i semi, si abbrustolivano sul forno
per mangiare la domenica, quando c’era
qualcuno, e poi la scorza dura di fuori
era cotta come un pastone per i porci e la
parte interna veniva lessata e poi condita
con lardo, aglio e rosmarino: buona per­
ché non c’era di meglio.
I miei genitori e i nonni conserva­
vano tutto per l’inverno: i pomodori,
tagliati a metà, si mettevano a seccare
al sole, poi, quando si usavano, venivano
messi a bagno. La conserva veniva cola­
ta e seccata al sole sopra la tavola della
salatura, fino a quando non si era con­
densata, e poi la si lavorava. Si facevano
tutti panetti e, quando si scartocciava il
granturco, si pulivano perbene i cartocci
e poi si mettevano (all’interno, al posto
del tutolo asportato) questi panetti di
109
filo e se conservàa fresca como ’nté
la carta oliàda, ma quanno la gèsci
a magnà’ n’era ’n granché! Toccàa
a méttela a móllo e sfaràlla co’ ’na
furcina prima de ’dopràlla, quattro
pezzi de lardo con po’ de cuélla era
un pastó’, quasci como quello del
porchetto. Dobo è venudo fòra ’l
salecìdio, se trovàa dallo spizziàle,
ma tutti non ne ’l podìa comprà’.
Po’ se conservàa i peverù’
sott’acédo, sani, anca spezzàdi; po’
l’ulìa nera ’nté ’na brocca, vettìna,
ticèlli, cuéllo che cìsci: sale ajo e
finocchio salvadigo. A Nadale, quanno se compràa ’n chilo de melarance, ce se mettia le scòrse per daje
’l prefùmo. L’ulìa vèrda se tenìa a
móllo ’nté ’na secchia 40 giorni,
cambiàje l’aqua spesso e po’ sotto
salamòra e se magnàa a maggio e
giugno, condìda co’ ’na cipólla: era
bòna. D’istàde che fedàa de più le
galline, se mettìa l’ôi sotto calce. I
contadì’ fèra ’na buga sotta terra,
larga ’n mèdro e mezzo, fónna du’
medri e lì ce smorciàa ’na mezza
quintalàda de calcìna: servìa per
da’ ’l verdoràmo alle vide, ce se
’mbiancàa le case dréndo, ma chi ié
piacìa la pulizìa, perché le case era
dei padrù’ e ’l contadì’ svojàdo non
ce consumàa la calcìna. Dicìa “tocca
al padró’!”, ma i padrù’ se ne fregàa
e cualchidù’ dréndo casa era como
’na topàra e ’ndó c’era le gióvene
tante le ò, perdaéro, non ci’averìsci
magnàdo mango le noce e l’ôi tosti.
conserva; si legavano in cima con un filo
e (la conserva) si manteneva fresca come
nella carta oleata, ma quando andavi a
mangiarla, non era un granché! Prima di
usarla bisognava metterla a bagno e smi­
nuzzarla con una forchetta: quattro pezzi
di lardo con un po’ di quella (conserva)
veniva fuori un pastone quasi co­me quel­
lo per il porco. In seguito è uscito l’a­cido
salecidico, si trovava dallo speziale, ma
tutti non avevano i soldi per comprarlo.
Poi si conservavano i pe­peroni sott’ace­
to, interi, anche spezzati; poi l’oliva nera
in una brocca, anfora, tegami, in quello
che avevi: sale, olio e fi­nocchio selvatico.
A Natale, quando si com­prava un chilo
d’arance, vi si ag­giun­­gevano le scorze (di
queste) per darle il profumo. L’oliva verde
si teneva a ba­gno quaranta giorni in una
secchia, si cam­biava spesso l’acqua e poi
in salamoia; si mangiava a maggio e giu­
gno, condita con una cipolla: era buona.
D’e­state, quando le galline depositano
più uova, queste venivano messe sotto la
calce. I contadini facevano una buca sot­to
terra, larga un metro e mezzo, profonda
due metri e lì si spegneva un mezzo quin­
tale di calcina: serviva per dare il verde­
rame alle viti, ci si imbiancava l’interno
della casa, ma soltanto quelli ai quali
piaceva la pulizia, perché le case appar­
tenevano ai padroni e il contadino svo­
gliato non ci sprecava la calcina. Di­ce­va:
“Tocca al padrone!”, ma i padroni se ne
infischiavano. La casa di qualche (con­
tadino) all’interno era una to­pa­ia e, dove
c’erano le giovani da ma­ritare, talvolta
non ci avresti mangiato neppure le noci
e le uova sode.
110
L’ôi sotta calce e lo gnométto
dei carceràdi
Le uova sotto calce e il gomitoletto
dei carcerati
Allora ’st’ôi sotta calce: se fèra
’n solàro d’ôi e uno de calcìna; i
contadì’ grossi ce ne mettìa anca
sopra a cento. Anche cuélli, quanno
i rompìsci, se squinternàa, ma se
magnàa listesso, ce se fèra i maccarù’ all’inverno, quanno c’era cualchidù’. Qualche vo’ la domeniga la frittàda co’ la golétta del porco, co’ ’na
salciccia, du’ costarelle, la cipolla.
Quanno de Carnoàle du’ castagnòli e
cresciòle; po’ le pónte dei vidàlbeni,
col mentrasto, coll’ajétto fresco, co’
la farina de granturco: venìa zalla la
frittada! Po’ mollìghe de pa’, farina
de gra’ e ’mpò’ d’aqua fèra piatto:
tutt’ôi non se podìa fa’.
Po’ se conservàa i fighi seccàdi al
sole o sul forno, bregnù’, ùa, fette de
mela, l’ulìa nera e po’, quanno secche be’, como v’ho ditto’n’antra ò, li
mettìa ’nté ’na sacchettina bianga.
Coi fighi secchi ce se fèra anca le
lonze o salami de figo, se macenàa
co’ la maghinétta delle salcicce e ce
mettemma le noce, ma spezzettade
col cortello, ’mpò’ de mistrà che se
fèra col vì’ e la somènte dell’anice. Cualchidù ce mettìa la somènte
del finocchio salvadigo: chi era più
pôrétti.
Dobo se mischiàa bembè, se
smenàa como ’l massòlo de pa’,
se fèra tutte lonzétte e se magnàa
all’inverno, ’mpar de fette perù’: era
bòni, lì non c’era né conservanti né
Allora queste uova sotto calce: si face­
va un solaio di uova ed uno di calcina; i
contadini, che avevano un podere gran­
de, ce ne mettevano anche più di cento.
Anche quelle (uova), quando le rompe­
vi, si squagliavano, ma si mangiavano
ugualmente, ci si facevano i macche­
roni all’inverno quando c’era (ospite)
qualcuno. Qualche volta la domenica
la frittata con la ‘goletta’ del porco, con
una salsiccia, due costine, la cipolla. A
carnevale due castagnole e le ‘cresciole’;
poi con le punte delle vitalbe, mentastro,
aglietto fresco e farina di granturco: la
frittata veniva gialla. Poi molliche di
pane, farina di grano e un po’ d’acqua
faceva piatto: (una frittata) soltanto
con le uova non si poteva fare.
Si conservavano, poi, i fichi seccati
al sole o sul forno, le prugne, l’uva, fette
di mele, l’oliva nera: quando era tutto
seccato bene, come vi ho detto un’altra
volta, si metteva in un sacchetto bian­
co.
Con i fichi secchi ci si faceva­
no anche le ‘lonze’ o salami di fico: si
macinavano (i fichi secchi) con la mac­
chinetta delle salsicce, ci mettevamo le
noci, spezzettate con il coltello, un po’ di
mistrà, che si preparava con il vino e il
seme dell’anice. Qualcuno ci metteva il
seme del finocchio selvatico: quelli più
poveretti. Dopo si mischiava perbene,
si lavorava come l’impasto del pane, si
facevano tutte ‘lonzette’, che si mangia­
vano d’inverno, un paio di fette per uno:
111
coloranti; de fòra ce mettémma le
brance de figo per falli mantené’
teneri e per la pulizia, legàdi co’ lo
spago. Nonna dicìa: “Pïa lo gnomét­
to dei carceradi!” Coscì li legamma
e li taccàmma su come i salami, e lì
se tenìa pe’ l’inverno. Appropòsito
cuéllo spago era chiamàdo cuscì
perché ’l fèra i carceràdi, che ié toccàa a fadigà’ li drendo: n’era como
adè’ che ci’hà televisió’, mùsica e
donne a piacé’!
erano buoni; non avevano né conservan­
ti né coloranti. Di fuori ci mettevamo
le foglie di fico, legate con lo spago, per
farli mantenere teneri e per la pulizia.
Nonna diceva: “Prendi il gomitoletto dei
carcerati!” Così li legavamo e li appen­
devamo in alto come i salami, e lì si
conservavano per l’inverno.
Quello spago era chiamato così, per­
ché lo facevano i carcerati, che doveva­
no lavorare lì dentro (il carcere): non
era come adesso che hanno televisione,
musica e donne a piacimento.
Fàa coi bugaròzzi e le pastarèlle
col pane
Fava con i bacherozzoli e i biscotti
con il pane
Quanno all’inverno se magnàa la
fava, c’era i bugaròzzi anca due per
àceno: buttàsci via ’l bugarozzo, che
chioppàa sotta i denti, e se magnàa
lo stesso. Ve digo la verédà almeno
lì non c’era i conservanti como adè,
fumma como cuélli che ’nté cuélla nazió’ magnàa anca formìghe e
bugaròzzi: ’l dicìa ’n giorno la televisió’ e po’ anca i serpenti, cuélli
scì ch’era bòni, pe’ lóra! Ma sci vuà
ce fade caso anca i monelli vène su
mejo che chi da noà, como cuélli
dei zingari è tutti belli e baffudelli,
benànche enne scalsi, ’n se lava mai
e magna male.
Envéce chì da noà ’ste donne ié
basta un fjòlo solo, cualchidù’ vène
su pure padìdo, benànche ci’ha tutti
i ben di Dio. Ié compra tutti i biscotti che se tròa ’nté la circolazió’; a
Quando all’inverno si mangiava la
fava, c’erano anche due bacherozzoli
per acino: buttavi via il bacherozzolo,
che schioccava sotto i denti, e si man­
giava ugualmente. In verità almeno non
c’erano i conservanti come oggi; erava­
mo come gli abitanti di quella nazione
che mangiano anche le formiche e gli
scarafaggi: lo diceva un giorno la tele­
visione. E poi (mangiano) anche i ser­
penti: quelli sì che sono buoni, per loro!
Ma se voi ci fate caso, anche i bambini
crescono meglio che qui da noi, come i
figli degli zingari: sono tutti bei paf­
futelli, benché (vadano) scalzi, non si
lavano mai e mangiano male. Invece
qui da noi alle donne basta un figlio
solo e qualcuno (di questi) viene su
anche patito, nonostante che abbia tutti
i ben di Dio. (I genitori) gli comprano
tutti i biscotti che si trovano sul mer­
112
pensà’ che io quanno era monella c’era le padrone ’nté ’l palazzo
’taccado ’nté la casa nostra, e me
chiamàa a portà’ fòra la cenera del
gatto ’ndó fèra ’l bisogno, e me regalàa due pastarelle. E io, sa que fèra?
Le magnàa col pa’, me servìa come
companadigo.
Quanno ìsci séde, c’era l’acqua
della brocca. Pensade vuà, cuélla vo’
non c’era l’inquinamento. Quanno
gèmma giù ’l fiume a pïà’ la breccia
pe’ ’mbreccià’ le strade de campagna o a mette’ a madurà’ la cànnipa,
mollàmma ’l pa’ co’ l’acqua del fiume
e, per bé’, fèmma ’na bughetta e lì
bevemma.
cato; e pensare che, quando ero bambi­
na, le padrone che stavano nel palazzo
unito a casa nostra, mi chiamavano
per portare fuori la cenere, dove il gatto
faceva i suoi bisogni, e mi regalavano
due biscotti. E io sa che cosa facevo? Li
mangiavo con il pane, mi servivano da
companatico.
Quando avevi sete, c’era l’acqua della
brocca. Pensate voi: a quel tempo non
c’era l’inquinamento. Quando andava­
mo giù al fiume a prendere la ghiaia per
imbrecciare le strade di campagna o per
mettere a maturare la canapa, bagnava­
mo il pane con l’acqua del fiume e, per
bere, facevamo una buchetta e lì beve­
vamo.
’L pa’ sopra nigò
Il pane sopra ogni cosa
Le pastarèlle era bòne, ma anca’l
pa’ era bòno, sapé! ’L pa’ per noà
era sopra nigò; sènsa ’l pa’ ’n sarìa
qua! Quanno c’era ’l pa’ e ’na rénga
taccàda ’nté ’l camì, eri appòsto: ’gni
tanto gèsci là co’ ’na fetta de pa’,
ié dèsci ’na sfregàda e lì magnàsci.
La rénga armanìa lì, giorni e giorni,
finànta c’èra’mpo’ de sale.
Pïo de qua e zómpo de là, prò
adè volìa ’rcóntà’ de ’na ò, quanno
se fèra ’l pa’ de casa. Quanno pioìa,
io, ch’ero la più piccola, non sapìa
fa’ ’ncó’ a rigamà’, a fa’ cuéi laóretti deligàdi. Allora mamma tessìa,
’ste sorelle rigamàa, a me che era
più scartarèlla, me toccàa a staccià’
I biscotti erano buoni, ma anche
il pane era buono, sapete! Il pane era
sopra ogni cosa, senza il pane non sarei
qua! Quando c’era il pane e un’aringa
attaccata nel camino, eri a posto: ogni
tanto andavi là con una fetta di pane,
gli davi una sfregata (nell’aringa) e lì
mangiavi. L’aringa rimaneva lì giorni
e giorni, fino a quando c’era un po’ di
sale.
Prendo di qua e salto di là, però
adesso volevo raccontare di una volta,
quando si faceva il pane di casa.
Quando pioveva, io, che ero la più pic­
cola, non sapevo ancora ricamare, fare
quei lavoretti delicati. Allora mamma
tesseva, le mie sorelle ricamavano; a
113
pe’ ’l pa’, ma era ’n laóro che non
me gèra a cicerchia. Allora sa que
fera? Envéce de buttà’ ’mpiàtto de
farina pe’ staccia, ce ne buttàa du’
pe’ staccia, coscì me s’è sfonnàda
la staccia e ho ’rtroàdo ’l modo,
almanco pe’ ’na ’olta, per lassà’ gi’
de staccià’. Dobo, co’ ’na staccia
sola, ha toccàdo a finì’ a nonna, ché
alla madìna dobo c’era da fa’ ’l pa’.
Po’, finìdo de staccià, toccàa a
tirà’ giù ticèlli, pigne, cupèrchi, mortale, macenetto del pepe, del caffè,
cioè del’orzo, e spolverà’ nigò, leà
le ragnadéle: era ’na rottura ogni
otto giorni. Prima de fa’ ’l pa’, a
casa nostra, c’era sempre da fa’ ’sto
laóro; apposta adè’ n’ho più voja
de pulì’, perché troppo presto m’ha
toccàdo a comincià a pulì’ la casa.
Prò la fecènna che me’rmanìa
de più’nté lo stòmmigo era sempre a staccià pe’ ’l pa’. Anca dobo
sposàda me toccàa guasci sempre,
me salvàa solo i quaranta giorni
da ’nfantàda: cuélle vo’ me rispettàa perdéro: sarìa ’na buciàrda sci
dicesse che non me sparagnàa le
fecènne grosse.
’L pa’ era ’na fécènna che giva
fatta bembè. Quattro cinqu’ore
prima de sera se dovìa métte’ a
móllo ’l lèvido; quanno era tutto
móllo be’, se fèra ’na buga granna drendo la conca della màttera,
’ndó c’era la farina già stacciàda,
e co’ ’mpo’ d’aqua càlla se mettìa
giù ’sto lèvido sfaràdo bembè: ’n
cìa da ’rmàne’ nisciù’ granèllo e
me, che ero la carta meno utile, toc­
cava stacciare (la farina) per il pane,
ma era un lavoro che non mi andava
a cicerchia (non sopportavo). Allora sa
che facevo? Invece di buttare un piatto
di farina per staccio, ce ne buttavo due
per staccio, così mi si è sfondato e ho
trovato il modo, almeno per una volta,
per lasciare andare di stacciare. Dopo,
con uno staccio solo, è toccato a nonna
finire (di stacciare), perché la mattina
dopo c’era da fare il pane.
Poi, finito di stacciare, toccava tira­
re giù i tegami, le pignatte, coperchi,
mortaio, macinino del pepe, del caffè,
cioè dell’orzo. E spolverare ogni cosa,
levare le ragnatele: era una rottura
ogni otto giorni. Prima di fare il pane,
a casa nostra, c’era sempre da fare que­
sto lavoro; apposta adesso non ho voglia
di pulire, perché troppo presto mi è toc­
cato incominciare a pulire la casa.
Però la faccenda che mi rimaneva di
più sullo stomaco era sempre stacciare
per il pane. Anche dopo sposata mi toc­
cava quasi sempre, mi salvavano solo
i quaranta giorni di puerperio: quelle
volte mi rispettavano per davvero: sarei
una bugiarda se dicessi che non mi
risparmiavano le faccende grosse.
Il pane era una faccenda che andava
fatta perbene. Quattro cinque ore prima
di sera si doveva mettere a bagno il lie­
vito; quando era tutto ben bagnato, si
faceva una buca grande dentro la conca
della madia, dove c’era la farina già
stacciata, e con un po’ di acqua calda
si metteva giù questo lievito sfarinato
perbene: non ci doveva rimanere nes­
114
l’aqua dev’èsse’ stàda càlla, ma no’
a scottà’, scindó ’l pa’ venìa bréncio.
Dobo messo giù ’sto lèvido e l’aqua
calla, ce se mettìa ’mpo’ de farina,
se mistigàa ’mpo’ lento e se ’rcoprìa
co’ ’na sfiòràda de farina e ce se fèra
’na croce.
La madìna dobo toccàa alsàsse
presto, d’istàde vèro le tre, d’inverno
vèro le cinque. Toccàa piccià ’l fôgo,
métte’ a scallà’ l’aqua ’nté ’l caldàro,
no’ boìda, ma càlla be’, sìa da riscallà’ nigò, lèvido e farina, ch’era drendo la màttera,’mpastà’ be’ e dobo
se smenàa bembè, po’ s’armettìa
drendo la conca, tutt’ammùcchio, se
coprìa co’ ’na toàja e ’na cupèrta pe’
’na mezz’ora; po’ s’arfèra ’l massòlo,
’mpo’ per vo’ sa smenàa finànta che
n’era fina ’sta pasta, e via le file ’nté
le tàole co’ ’na tovàja e ’n tra ’na
fila e ’n’antra se fèra ’na pieghetta
co’ ’sta tovàja, pe’ no’ falla taccà’ e
s’arcoprìa co’ la tovàja e cuperta,
all’inverno anca due cupèrte: ’nté le
case c’era freddo muntubè, spèce
sci la cucina n’era sopra la stalla.
Ah, m’è nûdo ammènte: finìdo
de fa’ le file o pagnotte del pa’, da
ùltimo se lassàa a règola ’na pagnotta pe’ fa’ le cresce e ’na pagnottella
per fa’ ’l lèido: sopra cuèsta chì ce se
fèra ’na croce col cortèllo e se mettìa ’nté ’mpiàtto pe’ la volta che s’arfèra ’l pa’ drendo la conca. Quanno
se fèra ’l pa’ de Sant’Antò’, se fera
’na croce anca su tutte le pagnotte.
Fra tanto ’n’ômo scallàa ’l forno
e, quann’era callo, tutto bell’anfo-
sun granello e l’acqua doveva essere
calda, ma non scottare, sennò il pane
veniva aspro. Dopo, messo giù questo
lievito e l’acqua calda, ci si metteva un
po’ di farina, si mischiava un po’ lenta­
mente e si ricopriva con una spolverata
di farina e ci si faceva una croce.
La mattina dopo toccava alzarsi
presto, d’estate verso le tre, d’inverno
verso le cinque. Toccava accendere il
fuoco, mettere a scaldare l’acqua nel
caldaio, non bollita, ma calda bene, si
doveva riscaldare ogni cosa, lievito e
farina, che era dentro la conca, impa­
stare bene e dopo si lavorava perbene,
poi si rimetteva dentro la conca, tutto a
un mucchio, si copriva con una tovaglia
e una coperta per una mezz’ora, poi si
rifaceva la massa, poi si lavorava un
po’ per volta fino a quando non era una
pasta fine, e via i filoni nelle tavole con
una tovaglia e, tra un filone e l’altro,
si faceva una pieghetta per non farle
attaccare e si ricopriva con la tovaglia
e coperta, all’inverno anche due coperte:
nelle case c’era molto freddo, specie se
la cucina non era sopra la stalla.
Ah, mi è venuto in mente: finito di
fare i filoni o pagnotte del pane, in ulti­
mo si lasciava di solito una pagnotta per
fare le cresce e una pagnottella per fare
il lievito: sopra questa qui ci si faceva
una croce con il coltello e si metteva in
un piatto per la volta che si rifaceva il
pane dentro la conca. Quando si faceva
il pane di Sant’Antonio, si faceva una
croce anche su tutte le pagnotte.
Frattanto un uomo scaldava il forno
e, quando era caldo, tutto bell’infuocato,
115
gàdo, tiràa via i carbù’ pe’ facce
la carbonella, pulìa la piana co’ ’l
móndolo e infornàa, quanno le file
s’era sollevàde be’. Rîmpìdo ’l forno
bembè, se mettìa ’l chiùso e, co’
la pala che se’nfornàa, se fera ’na
croce sopra, ’nté i madù’ de sopra
al chiuso.
tirava via i carboni per farci la carbo­
nella, puliva la piana con il ‘móndolo’ e
infornava, quando i filoni si erano ben
lievitati. Riempito il forno perbene, si
metteva il ‘chiuso’ e, con la pala con cui
si infornava, si faceva una croce sopra,
nei mattoni di sopra al ‘chiuso’.
Suppa lombarda e sardelle
Zuppa lombarda e sardelle
’N’antra cosa bòna da magnà’
cuélla vo’ era la zuppa lombarda,
che piacìa tanto alla pôra nonna.
Se fèra alle quattro de sera, per
vint’ore1, anca col pa’ muffo: gli
odori e l’acédo iè levàa ’mpo’ ’l
sapore della muffa.
E po’ c’èra le sardèlle. M’arcòrdo
che, quanno se vendegnàa, alla sera
se pistàa l’ua coi pìa, du’ tre omini
dréndo a cuéi tinacci granni, finànta
le undici, anca finànta a mezzanotte
e dobo se magnàa du’ sardelle, no’
alice cuélle che c’è adè’. Era pròpio
sardella, che mango se vede più in
circolazió’, eppure era bòne ’mbelpo’: sarà che c’era anca la fame!
Un’altra cosa buona da mangiare
a quei tempi era la ‘zuppa lombarda’,
che piaceva tanto alla povera nonna. Si
preparava alle quattro di pomeriggio, a
‘vint’ore’, anche con il pane ammuffito:
gli odori e l’aceto gli toglievano un po’ il
sapore della muffa.
E poi c’erano le sardelle. Mi ricordo
che, quando si vendemmiava, la sera si
schiacciava l’uva con i piedi, due o tre
uomini dentro quei tini grandi, fino
alle undici, anche fino a mezzanotte, e
dopo si mangiavano due sardelle, non
le alici che ci sono oggi. Erano proprio
sardine, che nemmeno si vedono più in
circolazione; eppure erano molto buone:
sarà che c’era anche la fame!
1 vint’óre: ossia “venti ore” a partire dal suono dell’Ave Maria del giorno precedente,
che d’estate avviene verso le ore venti. Pertanto la merenda di “vint’óre” cadeva intorno
alle ore sedici.
116
Capanna con forno e porcile (foto Dino Ferro 1968).
’L mortòrio
Il funerale
Co’ ’sto discorso chì, del magnà’,
c’è compreso anca quanno se gèra
a ’ccompagnà’ ’l morto. Quanno
morìa qualche vicinado, due gèra
a chiamà’ ’l morto: uno segnàa la
gente che ce gèra e cuél’altro intanto parlàa del morto, di como era
morto e dicéa l’orario dell’accompagno. Po’ uno gèra a güérnà’ le
vacche o tori o pegore, da magnà’
a conìj, pui, e ’na donna gèra a preparà’ da magnà’ per cuélli de casa e
anca pei parenti.
E guàsci sempre toccafisso o
baccalà. E lì se mucchiàa ’mbèl
branco, era ’l modo pe’ riunìsse
assieme. ’L giorno che fèra ’l mortorio, ’na donna co’ ’na canèstra de
Con questo discorso del mangiare è
compreso anche quando si andava ad
accompagnare un morto. Quando mori­
va qualche vicino di casa, due (persone)
andavano “a chiamà’ ’l morto” (ad invi­
tare per il funerale): uno segnava le per­
sone che ci andavano e quell’altro intan­
to parlava dello scomparso, di com’era
morto, e diceva l’orario del funerale. Poi
uno andava a governare le vacche, i tori,
le pecore, a dare da mangiare ai conigli,
ai polli, e una donna andava a prepa­
rare da mangiare per quelli di casa ed
anche per i parenti. E quasi sempre stoc­
cafisso o baccalà. E in quell’occasione se
ne ammucchiava un bel branco, era il
modo per riunirsi (tutti) insieme.
Il giorno in cui si faceva il funerale
117
fette de pa’, ’n gran piatto de lonza
passàa da magnà’ a tutti, compreso
’l prede e ’l beccamorto. ’N’antra
donna passàa da be’. C’era cualchidù’ se fèra anca quattro bicchieri de
vi’, sci era bòno. Quella vo’ ce volìa
’l beccamòrto pe’ vestì’ i morti,
fusci obligàdo a chiamàllo. Allora
a casa del morto, quanno dèra ’na
fetta de pa’, passàa da be’ con bicchiero solo, a lu’, prò, ié dèra ’n bicchiero per conto sua, perché èrane
schifi. Dalle parte de mi’ marìdo, a
Corinaldo, ’l beccamorto se portàa
drìa ’na mezza palla, sarìa ’n palló’
tajàdo a midà, e bevìa lì. Certo era
’na bella chìcchera!
’L beccamorto anca de battidùre iudàa per pïà’ du’ acini de gra’;
quann’era ora de magnà’ nisciù ce
gèra co’ lu’ a magnà’ ’nté li stesso
piatto. Era ’na porzió’ per due, anca
tre: coscì se magnàa anca per tre.
Lu’ era solo e se pappàa nigò e co’
’sta palla bevìa, fèra Pasqua, prò
fadigàa ’ncó’ eh! E se portàa a casa
’l gruzzoletto del gra’: per lu’ gèra
be’, anca sci duràa quaranta giorni
la battidùra.
Làsso pèrde’ ’sto beccamorto
arpìo ’l mortòrio. Finìdo bembè’
l’accompagno, du’ conoscenti o
vicinadi se mettìa uno per parte,
avanti al cancello del Camposanto,
e a tutti se pagàa, segondo como
podìa: cuélla vo’ se dèra ’na lira a
cuéi granni, i monelli dieci soldi,
e cuélli che portàa la grillanda ié
dèra du’ lire, perché pesàa più della
una donna passava da mangiare a tutti,
compreso il prete e il becchino, con una
canestra di fette di pane e un gran piat­
to di lonza. Un’altra donna passava da
bere. C’era qualcuno che si beveva anche
quattro bicchieri di vino, se (questo) era
buono. Quella volta ci voleva il becchino
per vestire i morti, eri obbligato a chia­
marlo. Allora in casa del morto, quando
davano una fetta di pane, si passava da
bere con un bicchiere solo; a lui, però,
si dava un bicchiere solo per lui, per­
ché ne erano schifi. Dalle parti di mio
marito, a Corinaldo, il becchino portava
con sé una mezza palla, ossia un pallone
tagliato a metà, e beveva lì. Certamente
era una bella chicchera!
Anche durante la trebbiatura il bec­
chino aiutava per prendere due chicchi
di grano; quando era ora di mangiare,
nessuno andava a mangiare con lui
nello stesso piatto. Era una porzione
per due, anche per tre: così (il becchino)
mangiava anche per tre. Lui era solo e si
pappava tutto e con quella palla beveva,
faceva pasqua, però lavorava pure eh! E
si portava a casa il mucchietto di grano:
per lui andava bene, anche se la trebbia­
tura durava quaranta giorni.
Lascio perdere il becchino e ripren­
do il funerale. Finito perbene l’accom­
pagno, due conoscenti o vicini di casa
si mettevano, uno per parte, davanti
al cancello del camposanto, e pagavano
tutti, secondo le possibilità (della fami­
glia del morto): a quel tempo si dava una
lira agli adulti, ai bambini dieci soldi,
e a quelli che avevano portato la ghir­
landa due lire, perché (questa) pesava
118
candela. Cuélla vo’ chi gèra ’compagnà’ ’l morto ’nté le famèje tutte cìa
’na candela chi da ’n chilo, chi da
mezzo chilo, secondo como passàa
la casa.
Sgappàdi da la porta del camposanto, cuélli ch’era gìdi a chiamà’ ’l
morto invidàa a magnà’ lì l’osteria
da Lisa. Chi podìa de più fèra ’l
toccafìsso, i più pôrétti ’na sardèlla. Quanno po’ se magnàa se
dicìa: “Caro Giuà, mentre tu fésci ’l
viaggio delle Tabarnèlle, i tua fedèli
compagni magnàvane ’l toccafìsso
lì da Lisa”. Po’, quanno cualchidù’
’ccendìa la pipa, dicìa: “Caro Giuà,
la tèra che te copre fusse leziéra
como ’l fume della pipa!”
Envéce, quando morìa qualche
angioletto dicìane “’no scudo e
’mpiànto, in paradìso santo” e a noà
monelli ce dèra ’no scudo perù’ perché, sci era ’na fémmena ce li volìa
per fàje la dòda e sci era maschio
cualchidù’ l’apprezzàa anca de
più. A noà monelli, po’ ce dèra da
magnà’, a tutti sul taolì’, perché
c’era da caminà’ a pìa per parecchi
chilomedri, toccàa a rescì’ diedro i
cavalli che portàa ’l carettó’.
Cuéll’angioletti piccolini o portàa la cassettina quattro ma­schietti
più granni o la portàa ’n omo solo e
ié se dèra ogni tanto ’l gàmbio.
Anca cuélla vo’ c’era diferènsa
’n tra ’l pôretto e lo ricco: lo ricco
pïàa ’l carrettó’ de prima che cìa
tutte tendine nere co’ tutte strisce
color d’oro e i cavalli co’ le cuperte
più della candela. Quella volta, per chi
andava ad accompagnare il morto, tutte
le famiglie avevano una candela, chi da
un chilo e chi da mezzo, secondo come se
la passavano.
Usciti dalla porta del camposanto,
quelli che erano andati “a chiamà’ ’l
morto” invitavano a mangiare lì l’oste­
ria da Lisa. Quelli che avevano maggiori
possibilità offrivano lo stoccafisso, i più
poveri una sardella. Mentre, poi, si man­
giava, si diceva: “ Caro Giovanni, men­
tre tu facevi il viaggio delle Tavernelle,
i tuoi fedeli compagni mangiavano lo
stoccafisso lì da Lisa”. Poi, quando qual­
cuno accendeva la pipa, diceva: “Caro
Giovanni, la terra che ti copre sia legge­
ra come il fumo della pipa!”
Invece quando moriva un bambi­
no, si diceva “uno scudo e un pianto,
in paradiso santo” e a noi bambini ci
davano uno scudo per uno perché, se era
una femmina ci volevano (gli scudi) per
farle la dote e se era un maschio lo si
apprezzava anche di più.
A noi bambini , poi, ci davano da
mangiare, a tutti, sul tavolo, perché
c’era da camminare per parecchi chilo­
metri: bisognava riuscire a star dietro
ai cavalli che trasportavano il carretto­
ne. La cassettina degli ‘angioletti picco­
lini’ la portavano quattro maschietti più
grandi o un uomo solo e gli si dava ogni
tanto il cambio.
Anche quella volta c’era distinzione
tra il povero e il ricco: il ricco prendeva
il carrettone di prima (classe) che aveva
tutte tendine nere con le strisce color
oro e i cavalli bardati con coperte nere,
119
nere guarnìde li stesso e su la testa
dei cavalli un bel pennacchio alto
di tutti i colori. Envéce morìa ’n
pôretto, de segonda: carro vecchio
che se vedìa dréndo la cassetta,
i cavalli sensa gnè e tanti anca ’n
cavallo solo. Embè? È ’rmasta solo
la morte giusta, de resto non c’è
niè.
guarnite nello stesso modo, e sulla testa
un bel pennacchio alto di tutti i colori.
Invece, se moriva un povero, (si faceva
il funerale) di seconda: carro vecchio che
lasciava vedere dentro la bara, i cavalli
senza niente e molti anche un solo caval­
lo. Ebbene? È rimasta solo la morte giu­
sta, del rimanente non c’è niente.
Il mortorio: donne con candele. Pianello di Ostra, luglio 1955 (coll. Gabriele Balducci).
La jànda e ’l porchetto grasso
La ghianda e il porco grasso
Babbo, quanno gèra in giro, scì
vedìa ’n chiòdo, ’n dado, ’rcoìa su
nigò. A tempo della jànda, ’rivàa a
casa co’ le saccòcce pîne, benànche che c’émma ’na fila de cèrque e
tutte le madìne se alsàmma presto
Babbo, quando andava in giro, se
vedeva un chiodo, un dado, raccoglieva
tutto. Al tempo della ghianda, ritornava
a casa con le tasche piene (di ghianda),
benché avessimo una fila di querce e
tutte le mattine ci alzavamo presto per
120
arcòjela, scinó c’era cuéll’altri contadì’ che la fregàa: da ’na parte della
strada era la nostra, prò cascàa
anca su cuéllo de lóra e la sua
cascàa da noà. Chi era più svéltri
rîmpìa ’l canè’ o ’l bóssolo. E po’,
quanno tiràa ’l vento se alzàmma
allo scuro, como se vedìa... prònti lì.
Se fèra a nàsta chi n’arcojéa de più.
Quanno era madùra, se montàa su
alto a bàttela o, da per tèra se tiràa
la mazzafrómbola.
La jànda se dèra ai porchétti
d’ingràsso, fresca e secca sul forno.
Cuèsta se portàa a macenà’ pe’ fa’
’mbèl pastó’,’n bel bevéró’ pe’ ’l
porchetto.
E la carne del porchétto era
’mbelpò’ più bòna che adè’, tanto i
magri che ’l grasso: più c’era ’l lardo
bello e più te stimàa ’l padrò’. Vôl
di’ che ìsci datto da magnà’ a stufo,
e lóra se pïàa la pacca bella pulìda,
midà de nigò, anche ’l sangue ié
piacìa. Noà ’l cocémma ’nté ’na
téja de ràmo col fôgo sotta e sopra:
era chiamàdo a smijàccio1. Prò ’l
mazzarèllo, finànta che sgappàa ’l
raccoglierla, sennò gli altri contadini ce
la prendevano: da una parte della stra­
da (la ghianda) era nostra, però casca­
va anche sul terreno loro e la loro cade­
va sulla terra nostra. Chi era più svelto
riempiva il canestro o il bossolo. E poi,
quando tirava il vento, ci alzavamo col
buio: non appena ci si vedeva… erava­
mo pronti lì (sotto le querce). Si faceva a
gara a chi ne raccoglieva di più. Quando
(la ghianda) era matura, si saliva sulla
pianta a batterla con un palo o da per
terra si scagliava la mazzafrombola. La
ghianda si dava ai porci d’ingrasso, fre­
sca e seccata sul forno. Questa si portava
a macinare per preparare il pastone, un
bel beverone per il porco. E la carne del
porco era molto più buona di (quella di)
adesso, tanto il magro quanto il gras­so:
più il lardo era alto, più ti stimava il
padrone. Voleva dire che avevi dato da
mangiare in abbondanza (al maiale),
del quale i padroni si pigliavano una
pacca bella e pulita e metà di tutto, anche
il sangue gli piaceva. Noi lo cuocevamo
in una teglia di rame con il fuoco sotto
e sopra: era chiamato “a smijàccio”. Per
cuocerlo “a smijaccio” con lo zucchero,
1 smijàccio: piatto tipico locale, detto più comunemente “porcellétto”. Si prepara
così: prendere un tegame o una teglia, ungerla con lo strutto, versarvi due mestoli di
sangue, facendolo passare in un colino e tre mestoli di acqua, aggiungere sale, pepe, aglio
a spicchi. Prendere poi dei grassi (es.: omènto) e dei magri (i “rosci” di maiale, ossia la
carne più insanguinata, quella che si trova sotto la gola (il cannàccio), un po’ di milza ecc.)
e metterli a cuocere a pezzetti con un po’ di strutto e cipolla in una padella, salare, un po’
di pepe e farli cuocere bene, affinché venga fuori tutto il grasso liquido, e poi aggiungere il
tutto nel tegame del sangue: fuoco sotto e sopra finché non si forma una crosticina. Se si
dovesse stringere troppo, si aggiunga un po’ di acqua calda, secondo come piace a ognuno:
denso o morbido.
121
sangue, ’l dovìa muscinà’ sensa
fermàsse, scinó doventàa subbedo duro, tutt’an tozzo, ch’era, prò,
bòno pe’ lessà’.
De ’sto sangue a smijàccio ce
ne dèra ’na cucchiajàda perù’ a
colazió’, anca a cena delle vo’; ’l
fèra bastà’ ’na ventina de giorni.
Anca lésso tante le ò ’l fèra co’ ’na
cipollétta: era bònissimo... e coscì
passàmma la vida.
il ‘mazzarello’, finché usciva il sangue,
doveva mescolarlo senza fermarsi, sennò
(questo) diventava subito denso, tutto
un coagulo che, però, era buono per les­
sare. Di questo sangue “a smijàccio” ce
ne davano un cucchiaio per uno a cola­
zione, talvolta anche a cena; lo facevano
durare una ventina di giorni. Qualche
volta lo preparavano anche lessato con
una cipolletta: era buonissimo… e così
passava la vita.
Vento de’ porci, ladri, ranocchie
e ricci
Vento dei porci, ladri, ranocchie e
ricci
Lassù a San Bonaventura d’inverno gelàa nigò, fèra ’nté i coppi
certi bombolù’! ’N tra ’l gelo e la
neve fischiàa’, po’, la bora: se dicìa
’l vento de maro. Altri tempi tiràa ’l
vento dei porci, cualchidù’ ié dice
’l burì, la curina. Adè che se parla
del vento me vène pensado che era
l’occasió’ bòna pei ladri. De notte,
quanno c’era ’l vento grosso, approfittàane: ’l vento fèra rimóre, intanto
nascondìa che lóra sbottàa. Anca
quanno c’era la luna pîna, era ’n’occasió’ bòna: coscì vedìa be’ i pui e i
dindi che dormìa su le piante. Vedìa
be’ anca a gi’ a sbarcà’ i passeri ’nté
i pajàri e i pulàri, ma cuélli almànco
te domannàa paré; te chiamàa e te
dicìa: “Se pôle sbarcà’?” Èrene in tre
quattro: due tenìa lo sbarco granno
e uno o due menàa co’ ’mpàlo a
sfugà’ i passeri e ne chiappàa mun-
Lassù a San Bonaventura d’inverno
gelava ogni cosa, faceva certi ghiaccioli
grossi! Tra il gelo e la neve, poi, fischia­
va la bora: si diceva il vento di mare.
Altri tempi tirava il vento dei porci,
qualcuno lo chiama “il burì”, “la corì­
na” (sciroccco). Adesso che si parla del
vento, mi viene pensato che era l’occasio­
ne buona per i ladri. Di notte, quando
c’era il vento forte, (questi) ne approfit­
tavano: il vento faceva rumore, intanto
copriva i loro colpi. Anche quando c’era
la luna piena (era un’occasione buona
per i ladri): così vedevano bene i polli
e i tacchini che dormivano sulle piante.
Si vedeva bene anche per andare a pren­
dere con lo “sbarco” i passeri nei pagliai
e nei pulari, ma quelli almeno ti chia­
mavano e ti dicevano: “Si può ‘sbarca­
re’? Erano in tre quattro: due tenevano
lo sbarco grande e uno o due menavano
con un palo per mettere in fuga i passeri
122
tibè’, spece quanno c’era la née. Pe’
magnà ié fèra nigò. De notte se gèra
co’ la ciància o co’ la cendilèna a
chiappà’ le ranocchie ’nté le pozze,
’nté ’l fiume; sci venìa bellighènno,
se fermàa ’nté cuàlche casa e se mettìane a giogà’ a carte.
C’era mi’ genero, che gèra dal
nònneso,cìa ’l surbùjo ’nté ’n fosso
granno: sci ce pistàsci te fonnàsci,
como le sabbie mòbbole: sci gèsci
lì te ’ntruffolài, fonnàsci lì e ’n gné
la fèsci a ’rnì’ fòra. Lì ce stèra tante
ranocchie, ’n tra cuélla sbiòbba ce
vivéa be’; po’ quanno pioviggicàa
venìa ’n tra ’l scì e ’l no dell’aqua, se
chiappàa mèjo. Tutto cuésto ’l fèva
pe’ ’rmagnà’ ’mpo’ de carne.
Sa, anca quanno gèmma a ’rcòje
la iànda, sotta la cerqua c’era cuàlche riccio, perché cuélli magna la
iànda, finànta che c’è, dobo magnarà i vèrmini. Allora i pïàmma e po’
quanno s’allóngàa, ié dèra co’mmartèllo. Fintanto che morìa met­témma
a bóje’ ’na padellàda d’aqua; quanno
l’aqua trescàa, se dovìa buttà’ giù
’sto riccio. Po’ ié se fèra la barba co’
lo rasóre e se magnàa anca la pelle:
piccàa ’na massa ’nté la bocca, prò è
bòno, ci’hà ’l sapore della carne del
porchétto. Quanno non c’è mèjo, è
bòno: “Quanno non c’è mèjo, se va
a dormì’ co’ la móje!” Cuéi tempi
bastàa che fusse stàdo carne tutto
era bòno, perché la carne se magnàa
de rado, n’è como adè’ che se magna
tutti i giorni e, po’ cuèlla scelta:’l
grasso tutto via!
e ne acchiappavano molti, specie quan­
do c’era la neve. Per mangiare andava
bene ogni cosa. Di notte si andava con la
‘ciancia’ o con la lampada ad acetilene
ad acchiappare le rane nelle pozze, nel
fiume; se veniva piovigginando, si fer­
mavano in qualche casa e si mettevano
a giocare a carte. Mio genero andava da
suo nonno, che aveva un acquitrino in un
fosso grande: se ci mettevi un piede, ti
affondavi, (era) come le sabbie mobili: e
andavi lì, ti ingarbugliavi, affondavi lì
e non gliela facevi a venirne fuori. Lì ci
stavano tante rane, tra quella melma ci
vivevano bene; poi, quando piovigginava,
venivano tra il sì e il no dell’acqua e le si
acchiappava meglio.
Sa, anche quando andavamo a rac­
cogliere la ghianda, sotto le querce c’era
qualche riccio, perché quelli mangia­
no la ghianda, fino a quando (questa)
c’è, dopo mangeranno i vermi. Allora li
prendevamo e poi, quando (il riccio) si
allungava, gli si dava (una botta) con
il martello. Fintanto che non moriva, si
metteva a bollire una padellata d’acqua;
quando l’acqua bolliva, si doveva butta­
re giù questo riccio. Poi gli si faceva la
barba con il rasoio e si mangiava anche
la pelle: piccava un sacco nella bocca,
però (il riccio) è buono, ha il sapore della
carne di porco. Quando non c’è di meglio,
è buono: “Quando non c’è di meglio, si va
a dormire con la moglie!” A quei tempi
bastava che fosse stato carne, tutto era
buono, perché la carne si mangiava di
rado, non era come adesso che si mangia
tutti i giorni e poi quella scelta: il grasso
via tutto!
123
I frutti bòni de ’na ò
La frutta buona di una volta
Noà de frutti ce n’émma ’mbelpò’. Prima de tutti i mandolì’, che
fiorìa de gennaro. C’è anca la cansona:
Giovanottina che pòsci fiorire
come la mandolella de gennàre
’riverà lo vento primaverile
e da le fronde te farà cadere
E da le fronde te farà cadere
te levarà la palma da le mane.
Te levarà la palma e po’ ’l mazzetto
’rtorna a far l’amor bel giovanétto.
Te levarà la palma e po’ lo fiore
bel giovanétto torna a fa’ l’amore.
Po’ rivàa le ceràse; cuélle prò ’n
ce l’émma. Allora gèmma a rubàlle
da ’n vicinàdo che ce nìa tante de
piante, grosse como le cerque. Mi’
fradèllo montàa su alto, rompìa le
verzèlle e me le buttàa giù. Io arparàa sotta co’ la veste.
Po’ ’rivàa le brùgnole, le pera
de San Giovanno, po’ i bregnù’
zalli, i ventèllétti, cuélli de San
Piedro, cuélli spertigù, i susini,
le pera brutte e bòne, cuélle a
campana, cuélle moscadèlle, cuélle de San Luìge, cuélle sùcchero
a manna, pera William, cuélle de
San Jàgomo e cuélle de Sant’Anna;
po’ i perastrù’ d’inverno, le pera
brénce, po’ le melella de tante
razze che ’ncó’ le ’nsumbio, cuélle
rosétte, cuélle bianchèlle, le mela
codógne, le mela granàde, mela
verde, mela rustiga, mela guanciòla roscia, melella donne, che non
Noi avevamo molta frutta. Prima di
tutti i ‘mandolini’ (mandorle immatu­
re), che fiorivano a gennaio. C’è anche
uno stornello:
Giovanottina che possa fiorire
come la mandolella de gennàre,
’riverà lo vento primaverile
e da le fronde ti farà cadere.
E da le fronde ti farà cadere
ti levarà la palma da le mane.
Ti levarà la palma e po’ ’l mazzetto
’rtorna a far l’amor bel giovanétto.
Ti levarà la palma e po’ lo fiore
bel giovanétto torna a fa’ l’amore.
Poi arrivavano le ciliegie, quelle,
però, non le avevamo. Allora andava­
mo a rubarle da un vicino che ne aveva
tante piante, grosse come le querce. Mio
fratello saliva sull’albero, spezzava i
rametti e me li buttava giù. Io li ripren­
devo da sotto con la veste.
Poi arrivavano (a maturazione) le
prugne, le pere di San Giovanni, poi le
susine gialle (le gocce d’oro), i ‘ventellet­
ti’, le prugne di San Pietro, quelli ‘sper­
tigù’, le susine, le pere brutte ma buone,
quelle a campana, quelle moscatelle,
quelle di San Luigi, quelle ‘zucchero e
manna’, le pere William, quelle di San
Giacomo e quelle di Sant’Anna; poi le
pere grosse d’inverno, le pere aspre, poi
le melelle di tutte le qualità che ancora
le sogno, quelle ‘rosa’, quelle ‘bianchelle’,
le mele cotogne, le mele granate, le mele
verdi, le mele rustiche, le mele a guancia
rossa, le melelle donne, che non ci sono
più in circolazione, rosa gentile e poi i
124
c’è più in circolazió’, rosa gentile e
po’ i fighi della signora, rustighelli. verdacchi, bianchelli, nerelli, a
melanciana, cuéi rodolù’ le noce,
le màndole, i lazzaròli (nome italiano bumbriàli) infine le giuggiole, le
sòrbe, le nespole: “Quando vedéde le
nespole piagnéde, perché è l’ultimo
frutto dell’istàde”: E scì, le se mettìa
a madurà’ ’n tra la paja, era bòne. E
co’ ’sta robba ce se fèra colazió’.
Non v’ho ditto ancó’ dei pèrsi­
chi: pèrsichi spìccia l’osso, persichi
zalli, guanciòla roscia e zalla senza
pelo, rosci, persichi rustighelli, era
tutti cuélli che c’émma noà. Anca i
brecòccoli. Insomma babbo piantàa
nigò e sapìa ’nnestà’ nigò. E tutto
l’anno c’era sempre cualchicò’.
I frutti se portàa anca al padró’, al
fattore, alla sarta, al calsolàro, allo
sparanghino, ’ndó che se lavamma i
pìa quanno gèmma a Montalbò, se’
rcordàmma ’mpò’ de tutti, chi fèra
del be’.
C’era ’mpo’ più amore, adè’ è
tutti affaristi, non te darìa mango
’na corda pe’ strozzàtte: questo è ’n
dittado!
Adè’ hanne buttado giù nigò, ma
non se magna più i frutti bòni como
cuélla vo’ che se maduràa ’nté la
pianta col sole; adè’ n’è finidi de
crésce’... e via ’nté i caloriferi, frigoriferi, comi li volémo chiamà’.
Io quanno ci’arpènso quanto era
bòni ’nté cuélle piante vecchie! È
como se dice per dittato: “È la gallina vecchia che fa bòn bròdo!”
fichi della signora, i rustichelli, i ver­
dacchi, bianchelli, nerelli, a melanzana,
quelli ‘rodolù’, le noci, le mandorle, i
lazzaroli (nome italiano ‘i bumbriàli’);
infine le giuggiole, le sorbe, le nespole.
“Quando vedete le nespole, piangete,
perché è l’ultimo frutto dell’estate”. Eh
sì, le si mettevano a maturare tra la
paglia, erano buone. E con questa frutta
si faceva colazione.
Non vi ho parlato ancora delle
pesche: pesche spiccagnole, pesche gial­
le, pesche guancia rossa e gialla senza
peli, rosse, pesche rustichelle: sono tutte
quelle che noi avevamo. Anche le albi­
cocche. Insomma babbo piantava tutto
e sapeva innestare tutto. E tutto l’anno
avevamo qualcosa.
I frutti si portavano anche al padro­
ne, al fattore, alla sarta, al calzola­
io, al conciapiatti, (alla casa) dove ci
lavavamo i piedi quando andavamo a
Montalboddo: ci ricordavamo un po’
di tutti quelli che ci facevano del bene.
C’era un po’ più amore, adesso sono
tutti affaristi, non ti darebbero neppu­
re una corda per strozzarti: questo è un
modo di dire!
Adesso hanno sradicato tutte le
piante, ma non si mangia più la frut­
ta buona come quella che si maturava
sulla pianta con il sole; adesso (i frutti)
non hanno finito di crescere… e via nei
caloriferi, frigoriferi, come li vogliamo
chiamare.
Io ripenso a quanto erano buoni su
quelle piante vecchie! Come si dice per
proverbio: “È la gallina vecchia che fa
buon brodo!”
125
I conti col padró’
I conti con il padrone
Magàra avessìma portato solo i
frutti al padró’! A cuéi tempi fadigàmma tanto e non se mettìa da
’na parte gnè; era poghi chi cìa la
posció del sua, fumma guàsci tutti
sotto padró’. Noà, quanno ’nco’
c’era vivi i nonni, fumma 10 persone, ’nté sei èttri de terra. ’L padró’
piàa ’l settanta e noà ’l trenta, ma
se dèmma tutti da fa’ e da magnà’
non c’è mangàdo mae. Dicìa babbo:
“Poveri scì, ma ricchi d’onore! È
meio ’n piatto de bòna cera che uno
de maccarù!”. Avìa ragió’!
’Na ò, se portàa la robba al
padró’: 12 ôi al mese, 40 de carnoàle e 50 de Pasqua; po’ ’mpàr de
cappù’ a San Tomàsso, ’mpàro a
Nadale anno nòo, le galline a carnoàle, le pullàstre anno nòo, tutti i
mesi verdura frutti ajo cipolle; agosto, appéna finìdo da mède’, un par
de galli co’ ’n mazzo de spighe de
gra’: tante spighe per quanti cavalletti o barchette. Si diceva: “Porto
’l cónto dei cavalletti al padró’ co’
’sti galli”.
Sci tenìsci dìndi o òga, toccàa
a portàjene una; prò quanno venìa
fòra, non volìa véde’ ’ntorno casa
’l gra’ o l’ùa beccada: e que i’émma
da dàje, le brustolìne? Prò noà non
se podìa fa’ ché all’istàde erane
sempre lì, ma ce volìa be’ perché
le rispettàmma. Tenémma anca i
dindi, ma li gèmma a curà’ ’nté i
campi granni dei vicinadi: quanno
Magari avessimo portato soltanto la
frutta al padrone! A quei tempi fatica­
vamo tanto e non si risparmiava niente;
erano pochi quelli che avevano il podere
in proprietà, eravamo quasi tutti sotto
padrone. Noi, quando ancora i nonni
erano vivi, eravamo dieci persone in sei
ettari di terreno. Il padrone prendeva il
settanta (per cento) e noi il trenta, ma ci
davamo tutti da fare e da mangiare non
c’è mai mancato. Diceva babbo: “Poveri
sì, ma ricchi d’onore! È preferibile un
piatto di buona cera (a testa alta), che
uno di maccheroni!” Aveva ragione!
Una volta si portava questa roba al
padrone: dodici uova il mese, quaranta
a Carnevale e cinquanta a Pasqua; poi
un paio di capponi a San Tommaso, un
paio a Natale e anno nuovo, le galline
a Carnevale, le pollastre l’Anno nuovo.
Tutti i mesi verdura, frutti, aglio e
cipolle; ad agosto, appena terminato di
mietere un paio di galli con un mazzo
di spighe di grano: tante spighe per
quanti ‘cavalletti’ o ‘barchette’. Si diceva:
“Porto il conto dei cavalletti al padrone
con questi galli”. Se tenevi i tacchini o
le oche, bisognava portagliene una; però,
quando veniva (a controllare), non vole­
va vedere intorno casa il grano o l’uva
beccata: e che cosa gli davamo da becca­
re, i brustolini? Però noi non potevamo
tenere i tacchini e le oche attorno casa,
perché d’estate (le padrone) stavano
sempre lì, ma ci volevano bene, perché
noi le rispettavamo. Tenevamo anche
i tacchini, ma li andavamo a “curare”
126
era battudo e ’rcòlto la spiga, non
dicìa gnè, tanto ce lavoràa co’ le
vacche e ’l pertigaro.
Tante le ò se dèra ’na ma’ a fa’
’na faccènna.
A la fine dell’anno ’l fattó’ tiràa
’l conto dell’entrade e delle spese e,
quanno era la fì’ era sempre più le
spese che ne ’l guadagno. E coscì pe’
’l contadì’ c’era la meno parte. Anca
quanno tajàmma la legna giù pei
fossi, fèmma lo scapeccio, podàmma le vide, toccàa a daje sempre
la midà, perché cuélla vo’ non ce
lìa nisciù’ i riscallamenti. Noà che
cémma la casa tutta sbuganàda
como ’na croellétta, mettémma su
’na fascina per vo’, per riscaldasse
’mpo’.
Babbo, quanno ié facìa ’l conto
’l fattó’, dicìa sempre: “C’è qualche
sbajo, prò va be’!”. Tanto ’l sapìa che
su qualcò avìa di scigùro ’mbrojàdo,
ma toccàa a sta’ sittti. Sul fattó’ c’era
’n dittàdo che dicìa: “Lasseme fa’ ’l
fattore ’n anno, sci non m’arricchiscio io, sarà ’l mio danno”.
(farli beccare) nei campi grandi dei
vicini: quando avevano raccolto la spiga
e trebbiato, non dicevano niente, tanto
ormai aravano il campo con le vacche.
Qualche volta si dava loro una mano a
fare una faccenda.
Alla fine dell’anno il fattore tira­
va il conto delle entrate e delle spese e,
alla fine, erano sempre più le spese che
il guadagno. E così, per il contadino,
c’era la parte più piccola. Anche quan­
do tagliavamo la legna giù per i fossi,
facevamo la capitozzatura, potavamo le
viti, toccava consegnare sempre la metà,
perché a quel tempo nessuno aveva i
riscaldamenti. Noi, che avevamo la casa
tutta buchi come una ‘croelletta’, mette­
vamo sul fuoco una fascina alla volta,
per riscaldarci un po’.
Babbo, quando il fattore gli faceva il
conto, diceva sempre: “C’è qualche sba­
glio, però va bene!” Tanto lo sapeva che
su qualcosa di sicuro l’aveva imbroglia­
to, ma bisognava stare zitti. Sul fatto­
re c’era anche un proverbio che diceva:
“Lasciami fare il fattore un anno, se non
mi arricchisco io, sarà il mio danno”.
I baci da séda
I bachi da seta
Adè ve vojo ’rcontà’ ’mpo’ della
fadìga dei contadì’ de ’na ò. Se
comensàa vèro maggio a alsàsse alla
madina vèro le 4 quanno c’era i baci
da seda a daje da magnà’, a mudàlli,
métteli ’nté i cartù pulidi, a fa’ la foja.
Noà fèmma un’oncia e tre e quattro
Adesso vi voglio raccontare un po’
della fatica dei contadini di una volta.
Si cominciava verso maggio ad alzarsi
la mattina verso le quattro, quando c’era
da dare da mangiare ai bachi da seta,
mutarli, metterli nei cartoni puliti, fare
la foglia. Noi ne allevavamo un’oncia e
127
ottavi, ma c’era qualche contadì’ ne
fèra anca due once.
Noà c’émma ’n logàle pei baci
granno e lóngo ’na decina de medri,
com’èra granno e lóngo’l palazzo
sotta, era tutto all’andró. C’émma ’na
bella brigattiéra fatta a castèllo e ’na
ventina de sturì’ per parte; ce volìa
’na scala a libretto per montà’ ’nté
l’ultime file su cima a dàje da magnà’,
mudàlli.
E pensà’ che se gèra a pïàlli co’
’na scatolétta granna pogo più de ’n
pacchétto de sigarette; dobo 4-5 giorni già era 4-5 cartù’ pîni. Dal princìpio
se spezzàa la foja de mòro fina como i
tajolì’, dobo sempre più grossa como
le tajadèlle.
Passàdi i primi quattro giorni, i
baci dormìa tre giorni, gambiàa la
pelle e po’ s’arisvejàa. Coscì pe’ n’antre du’ volte: quattro giorni magnàa
e tre dormìa. Quanno se svejàa cìa
la magnarellétta pe’ quattro giorni,
dormìa n’antri tre e po’ s’arisvejàa e
cìa la magnarèlla. Magnàa notte e dì,
’n se fermàa mae: parìa che piòìa ’nté
la brigattiera. Crescìa sotta l’occhi:
appena nadi è grossi como ’na virgola
e ’nté poghi giorni crescìa ’l triplo,
venìa grossi como ’n dédo mignolo.
Toccàa a mudàlli ’n giorno scì e uno
no, sempre i cartù’ pulìdi e la foja co’
la magnarèlla ié se dèra sana. Dèra
gusto a guardàlli: comensàa la foja
da cima finànta a pìa. Prima da gi’ in
séda, stèra ’n giorno ’ncantàdi, non
magnàa, e po’ arcomensàa a magnà’.
Tenémma la brigattiera ben pulìda,
tre o quattro ottavi, ma qualche conta­
dino ne allevava anche due once. Per
i bachi noi avevamo un locale grande
e lungo una decina di metri, com’era
grande e lungo il palazzo al pianterre­
no: era tutto l’androne. Ave­vamo una
bella bigattiera fatta a castello e una
ventina di ‘sturini’ per parte; ci voleva
una scala a libretto per salire sulle ulti­
me file in alto a dare da mangiare ai
bachi e a mutarli.
E pensare che si andava a prenderli
con una scatoletta poco più grande di
un pacchetto di sigarette; dopo quat­
tro o cinque giorni già erano quattro
o cinque cartoni pieni. Al principio si
spezzava la foglia di gelso, fina come i
‘tajòlini’, in seguito sempre più grossa
come le tagliatelle. Dopo i primi quattro
giorni i bachi dormivano per tre gior­
ni e cambiavano la pelle. Poi altre due
volte mangiavano per quattro giorni e
dormivano per tre. Quando si sveglia­
vano avevano la ‘magnerelletta’ per
quattro giorni, dormivano altri tre gior­
ni e, quando si risvegliavano, avevano
la ‘magnarella’ per otto giorni. Man­
giavano notte e giorno, non si ferma­
vano mai: sembrava che piovesse nella
bigattiera. Crescevano a vista d’occhio:
appena nati sono grossi quanto una
virgola e in pochi giorni crescevano il
triplo, diventavano grossi come un dito
mignolo. Bisognava mutarli un giorno
sì ed uno no, sempre i cartoni puliti, e
la foglia con la ‘magnarella’ gli si dava
intera. Si provava piacere a guardarli:
cominciavano (a mangiare) la foglia in
cima fino in fondo.
128
la foja dovìa èsse’ bella sciucca; sci
pioìa, toccàa a tajà’ le rame ’nté ’l
moro e mèttele a sciuccà’ drendo ’l
magazzì’. A noà i mori non ce bastàa,
gèmma a fa’ la foja ancó’ da qualche
contadì’ che cìa i mori e non fèra i
baci. Chissà che ce parìa a gi’ a casa
d’altri!
’Sti baci a gi’ be’ bisognàa fàlli gi’
in séda drendo ’n mese, ma, sapéde,
c’èra chi non cìa tanta pulizia e ié ne
gèra a male muntibè’. L’ultimi giorni
bisognàa parlà’ piano, non fa’ rimóre;
pïàmma la paletta ’nfôgàda e ce buttàmma l’acédo, ché dicìa che favorìa
de gi’ in séda. Quanno tiràa la curìna non sìa da roprì’ le finè’, non fa’
boccà’ drendo ’l vento scinó i baci se
trasformàa a vacche: sarìa che non
fa ’l bozzo per niè, armanìa lì mezze
morte como ’n vermine, coscì:
Prima d’andare in seta, stavano un
giorno incantati, non mangiavano, e poi
riprendevano a mangiare. Tene­va­mo la
bigattiera ben pulita, la foglia doveva
essere ben asciutta; se pioveva, bisogna­
va segare i rami del moro e metterle ad
asciugare dentro il magazzino. I mori
non ci bastavano, andavamo a fare la
foglia da qualche contadino che aveva i
mori e non allevava i bachi. Chissà che
cosa ci pareva ad andare a casa d’altri!
Bisognava che questi bachi andas­
sero in seta più o meno in trentasei
giorni, ma, sapete, c’era chi non aveva
tanta pulizia, così molti gli andavano a
male. Gli ultimi giorni bisognava par­
lar piano, non fare rumore; prendevamo
una paletta infuocata e ci buttavamo
sopra l’aceto, perché si diceva che favo­
riva l’andare in seta. Quando tirava lo
scirocco non si dovevano aprire le fine­
stre per non fare entrare il vento, sennò
i bachi si trasformavano in ‘vacche’,
ossia non facevano il bozzolo per nien­
te, rimanevano lì morti come un verme,
così: (vedi illustrazione).
Per quando andavano in seta, biso­
gnava aver preparato il ‘bosco’: ci si
mettevano le ‘frattelle’ con la senape
messa a seccare, i rafani, la paglia e
l’intelaiatura esterna era fatta con stri­
sce di canna o con sarmenti d’oppio. In
un giorno, l’ottavo della ‘magnarella’,
se andava bene, (i bachi) salivano tutti
alle ‘frattelle’ a fare il bozzolo. C’erano
sempre, però, alcune ‘fiappe’ e qualche
‘doppione’, ossia due animali in un boz­
zolo solo.
Quelli scelti erano fatti così.
Per quanno gìa in sèda, toccàa avé
fatto ’l bosco: ce se mettìa le frattelle
fatte con la sennipa messa a seccà’, le
lassene, la paja e il casso de fori era
fatto co’ le breghe de canna o le rocce
d’oppio. ’Nté ’n giorno, l’ottavo della
magnarella, sci gèra be’, gèra tutti
129
’nté le frattelle a fa’ ’l bozzo. C’era
sempre, prò, ’mpo’ de fiappe e qualche doppió’, che sarìa due annimali
’nté ’n bozzo solo. Cuélli scelti era
fatti coscì:
Invece le ‘fiappe’ e i ‘doppioni’ così:
E questi valevano meno, passavano
di seconda. Quando i bachi andavano
in seta, c’era sempre qualcuno che ci
veniva ad aiutare, perché in quei giorni
ci incontrava il fieno, l’acqua alle viti,
dare lo zolfo e la foglia tutti i giorni.
Erano giorni duri. Io mi ricordo che,
quando ero piccola, ho preso una decina
di bozzoli e poi l’ho nascosti dentro una
scatola di scarpe per paura che i geni­
tori mi sgridassero, ma non sapevo che,
dopo un po’ di tempo, diventavano far­
falle. Allora una notte si svegliano babbo
e mamma, sentono questo gran rumore,
avevano quasi paura a guardare den­
tro a quella scatola. Quando ci hanno
guardato, hanno visto quelle farfalle che
svolazzavano e i bozzoli tutti bucati;
hanno pensato subito che soltanto io,
che ero una bambina, avevo potuto fare
una pazzia simile. E, allora, riprendo il
filo del discorso di questi bachi. Quando
erano diventati bozzoli, dopo qualche
giorno si staccavano dalle ‘frattelle’, e
si chiamavano anche i vicini, lavora­
vamo insieme perché ci voleva molto a
staccarli. Si mettevano in un lenzuolo
bianco ben puliti e dopo li ritiravano le
filande. Il padrone, che non aveva fatto
niente, andava a riscuotere i soldi e li
metteva nei conti alla fine dell’anno.
I conti li facevano loro (il padrone e
il fattore), che avevano studiato, men­
tre il contadino no: così te la rigirava­
no tanto bene. Babbo, però, era esperto
e non lo imbrogliavano, tanto la scuola
sua valeva come la terza media d’oggi.
Envece le fiappe e i doppiù’ coscì:
E questi valìa meno, passàa de
segonda.
Quanno gèrene in séda c’era sempre cualchidu’ che ce venìa aiudà’,
perchè cuéi giorni lì ci’ancuntràa ’l
fié’, l’aqua a le vìde, da’ ’l sólfo e la
foja da fa’ tutti i giorni. Era giorni
duri. Io m’aricordo quann’ero piccola, ho preso’na decina de bozzi e
po’ l’ho piattadi drendo ’na scàttola
de scarpe per paura che ’sti genidori
me sgaggiàa, ma non sapìa che, dopo
’mpo’ de tempo, doventàa papelle,
allora ’na notte se sveja babbo e
mamma, sente ’sto gran rimóre, avìa
guàsci paura de guardacce drendo a
’sta scattola.
130
Quanno ci’ha guardado vede ste’
papelle che svolazàa e i bozzi tutti
bughi; ha pensado sùbbedo che altro
io che era ’na monella podìa avé’
fatto ’na mattidà coscì.
E allora arpìo la pendégola de ’sti
baci. Quanno era diventadi bozzi,
dobo ’n po’ de giorni se staccàa dalle
frattelle, e se chiamàa anca i vicinadi, fèmma insieme perché ce volìa
muntubè’ a staccàlli.
Se mettìa ’nté ’n linsòlo biango
ben pulidi e dobo li ritiràa le filandre
e ’l padró’, che n’avìa fatto gnè, gèra
a riscòde i soldi e li mettìa a conti
alla fine dell’anno. I conti li fèra lóra
ch’ìa studiàdo, ’l contadì’ no: coscì te
la ’rgiràa tanto be’. Babbo, prò, era
’spèrto e ne ’l fregàa, tanto la scòla
sua valìa como la tersa media adè’.
Colono che rastrella la “lozza”, ossia i rifiuti dei
bachi da seta. San Bonaventura di Ostra 1941
(coll. privata).
Dai baci e dai lòghi còmmedi… a
la tèra e ai Merécani!
Dai bachi e dai gabinetti… alla
terra e agli Americani
A cuéi tempi, como v’ho ditto,
i contadì’ fèra i baci perché valìa
muntubè’ i bozzi scelti: c’era la
prima, la seconda e la tersa scelta.
Le ‘vacche’ n’arendìa gnè, i piàa pei
verminàcci, anca quanno ìa filàdo
la séda del bòzzo bòno: cuéi ch’era
drendo i servìa pe’ l’uccèlli, pe’ la
caccia, pe’ la pesca. Anca lì era
como ’l porco: ’n se buttàa via gnè.
Quella robba dei lètti dei baci
(caccoli e nervi delle fòje, c’è chi
la chiamàa la ‘lòzza’), se stendìa
A quei tempi, come vi ho detto, i con­
tadini allevavano i bachi, perché vale­
vano molto i bozzoli scelti: c’erano di
prima, di seconda e di terza scelta. Le
‘vacche’ non valevano niente, le prende­
vano per i vermacci, anche quando era
stata filata la seta del bozzolo buono:
quelli che erano dentro servivano per
gli uccelli, per la caccia, per la pesca.
Anche in questo caso era come per il
porco: non si buttava via niente. La
roba dei letti dei bachi (feci e nerva­
tura delle foglie, c’era chi la chiamava
131
La sbozzolatura, ossia la ripulitura dei bozzoli, davanti alla porta del Consorzio Agricolo Provinciale di
Casine di Ostra nel giugno 1942. Delle 24 donne attorno al tavolo sono riconocibili a partire da destra:
1ª Ester Reginelli - 2ª Liliana Giancamilli - 3ª Anna Bedini – 4ª Severina Mari – 5ª Natalina Frattesi- 6ª
Mariannina Moretti – 7ª ? – 8ª Lina Pirani - 9ª Giannetta Antoncecchi – 10ª Marcella Paradisi – 11ª Jone
Paradisi - 12ª Irma Olivetti – 13ª Bianca Fabbri - 14ª Nara Cursi – 15ª Bellocchi Elvira – 16ª Augusta Veschi 17ªGinaManoni-18ErsiliaPierpaoli–19ªOrtenziaGalli –20ªAnnaMancini–21ªIldaCandi–22ªStamura
Pachieca – 23ª Rosalia Berrettini – 24ª Elvira Catozzi (coll. Giuliano Sellari).
132
’ntéll’àra co’ lo rastèllo, ’gni tanto
se giràa pe’ fàlla seccà’. Quann’era
secca bembè, se dèra alle bestie.
Como la buttàmma fora, sci
c’era qualche vacca i puj i dindi era
rabbìdi pe’ beccàlle; cuàlca ’olta
magàra ci’armanìa anca ’mbacio
o due, se fèrene a sbezzigòtti ché
tutti ’l volìa. Prò cuéi giorni te fera
schifo a magnà’ l’ôi, non li ’dopràmma, se vendìa a chi ne ’l sapìa! N’è
che l’ôi era tristi, perché tanto,
quanno i puj stèrene fòra, ruspàa
sempre e beccàane nigò: sempre
cercà’ i vèrmini ’n tra la gràscia,
c’era i gabinetti drédo a ’na pianta,
a’mpajàro, nigò in giro; tanto anca ’l
Signore l’ha ditto: “Fumma pólvera
e ’rdoventàmo polvera!”
Quanno se pulìa ’l lògo
còmmedo,’ndó se buttàa? ’Ntéll’orto:
càoli, scarciòfeni e fàa! Chi cìa
’l cagatóre, ’n cappannacio fatto
de cannucciàja, ’gni tanto toccàa
scarcàllo, almanco ’n se fèra alla
pèggio, che tante case toccàa a sta’
’tènti da non pistàcce, quanno era
de battedùre, succedìa ’nté cuàlche
posto e po’ ’ndó c’era ’mbranco de
monelli. Noà per quello tanto gèra
be’: era muràdo sotta a quello del
padró’. L’òpra se divertìa a gìcce,
perché luscì non ce lìa nisciù’.
Dicìa mi’ sòcero, che lóra gèra
a scarcà’ i lòghi còmmedi ’nté ’l
paese de notte, che ié toccàa a
daje cualchicò’ de regalo, perché
te ’l fèra scarcà’: era concime pe’ la
tèra, anca pe’ l’orto.
la ‘lòzza’), veniva stesa sull’aia con il
rastrello, ogni tanto si girava per farla
seccare. Quando s’era seccata perbene,
si dava alle bestie.
Se c’era qualche ‘vacca’, non appena
la buttavamo fuori, i polli, i tacchini
erano rabbiosi per beccarla; qualche
volta, magari, ci rimaneva anche un
baco o due: (i polli e i tacchini) facevano
a beccate, perché tutti lo volevano. Però
in quei giorni ti faceva schifo mangiare
le uova, non li usavamo, si vendevano
a chi non lo sapeva (che cosa avevano
beccato le galline).Non è che le uova
fossero cattive, perché tanto, quando i
polli stavano fuori ruspavano sempre
e beccavano di tutto: sempre a cercare
i vermi nel letame, c’erano i gabinetti
dietro una pianta, un pagliaio, tutto in
giro. Tanto anche il Signore ha detto:
“Eravamo polvere e ridiventiamo pol­
vere!” Quando si puliva il gabinetto,
dove si buttava? Nell’orto: cavoli, car­
ciofi e fava! Chi aveva il ‘cagatore’, un
capannaccio fatto di cannucciaia, ogni
tanto doveva scaricarlo. Almeno non la
si faceva dove capitava, perché in tante
case, al tempo della trebbiatura, biso­
gnava stare attenti a non calpestarla;
capitava in qualche posto, specie dove
c’era un branco di bambini. Noi, in que­
sto, andavamo bene: c’era il gabinetto
in muratura sotto a quello del padrone.
La manodopera si divertiva ad andarci,
perché così non ce l’aveva nessuno.
Diceva mio suocero, siccome insie­
me con quelli di casa andava di notte a
scaricare i gabinetti in paese, che dove­
va regalare qualcosa, perché glielo face­
133
Ha ditto che portàa a vende’
certi fiori de càoli, belli como cuélli
’n ce lìa nisciù’. Adè’ gné se dà più
’ntéll’orti, ché dice che fa venì’
la salmonella. Per forsa, con cuéi
detersivi, cuéi acidi che c’è e peggio
ancó’ cuéi diserbanti, cuéi pesticidi
che c’è in circolazió’!
Adè dai baci so’ gida a fenì’ ’nté
la tèra, anca de cuèsto me piacerìa
a di’. Como ho ditto, adè ’nté la tèra
’l gabinetto ’n ce sa da buttà’ più,
avrà ragió’, ma ’ndó va a fenì? Giù
’l maro! ’L pesce se magna? Cuèllo
non fa male?
Quanno se buttàa ’nté la tèra,
se dicìa: “La tèra purga nigò!” Anca
quanno io compràa cuéi pagni vecchi ’nté cuélle bancarelle, che ce li
mannàa l’Amèrega, quanno fumma
porétti, mìa consijàdo de métteli
du’ tre giorni sotta tèra: era como
disinfettàdi. Po’ i lavàa, dicìa che
’n c’era più perìgolo che s’attaccàa
cualca maladìa a ’sti bardàsci. Io
ce fèra e, grazzie a Dio, non s’è taccàdo gnè.
Adè sèmo doventàdi Merégani
noà, perché ’n vestìdo ’l pòrtane
malappena ’na stagió’ e po’ via…
drendo i sacchi: vestidi, cappotti, pastrani, scarpe, borce, linsòli,
cuperte. Pàssane guàsci ’na ’olta
al mese, ora ’na ditta, ora ’n’antra,
prò la Caritas no’ li pôle mannà’ al
terso mónno, perché hanne paura
delle maladìe: allora noà que sémo
’mpestàdi? ’L so, i soldi è mejo, ma i
soldi è fadìga a scarpìlli: è como leà’
vano svuotare: era concime per la terra,
anche per l’orto. Ha detto che portava a
vendere certi fiori di cavoli: belli come
quelli non ce l’aveva nessuno! Adesso
non si butta più (quella roba) negli orti,
perché si dice che faccia venire la sal­
monella. Per forza, con quei detersivi,
quegli acidi che ci sono e, peggio anco­
ra, quei diserbanti, quei pesticidi che ci
sono in circolazione!
Adesso dai bachi sono andata a
finire nella terra: anche di questo mi
piacerebbe parlare. Come ho detto,
adesso nella terra il gabinetto non ci si
butta più. Avranno ragione, ma dove
va a finire? Giù al mare! Il pesce, si
mangia? Quello non fa male? Quando
si buttava nella terra si diceva: “La
terra purga tutto!” Anche quando io in
quelle bancarelle compravo quei vestiti
vecchi, che ci inviava l’America, quan­
do eravamo poveri, mi era stato consi­
gliato di metterli due o tre giorni sotto
terra: così era come fossero stati disin­
fettati. Poi io li lavavo, dicevano che
non c’era più pericolo che si attaccasse
qualche malattia a questi ragazzi. Io ci
facevo e, grazie a Dio, non si è attacca­
to niente.
Adesso siamo diventati americani
noi, perché un vestito lo portano a mala­
pena una stagione e poi via… dentro i
sacchi: vestiti, cappotti, scarpe, borse,
lenzuola, coperte. Passano quasi una
volta il mese, ora una ditta ora un’al­
tra, però la Caritas non li può inviare
al terzo mondo, perché hanno paura
delle malattie: allora noi… e che siamo
appestati! Lo so, sono preferibili i soldi,
134
’l lardo ai gatti! N’è vero? Coi soldi
ce cómprane la robba cuéi nostri e
dobo du’ mesi no’ ié piace più. Io ’l
vèngo dicènno: “Rego­làdeve, fiòi,
ché dobo ’l tempo bòno vène cuéllo
tristo”. Troppa grascìa! ’Ncó’ ’n ce
sémo ’ccorti, ’ncó questi noèlli ne
’l sa, perché no’ i’è mangàdo mae
gnè.
Sci ’sto scritto ’l lègge la gioventù, me manna’n colpo. Basta che,
sci me ’l manna, fusse ’n colpo de
fortùna!
ma è difficile togliere questi: è come
levare il lardo ai gatti! Non è vero? Con
i soldi comprano la roba quelli nostri
e dopo due mesi non gli piace più. Io
lo vengo dicendo: “Regolatevi, figlioli,
perché dopo il tempo buono viene quel­
lo cattivo!” Troppo spreco! Ancora non
ci siamo accorti, ancora questi pivelli­
ni non lo sanno, perché non gli è mai
mancato niente. Se la gioventù legge
questo scritto, mi manda un colpo.
Basta che, se me lo manda, sia un colpo
di fortuna!
Se magna e se fadìga
Si mangia e si fatica
Arpènso tante le ò quanta fadìga
se fèra cuélla vo’, e como se magnàa
male. La madina a colazzió’ e la sera
a vint’ore se magnàa sempre giù pei
campi, a sède’ per terra.
Quann’era de somenti: ligùmi,
fàa, foje e padàde, mezze iàcce, ’l pa’
anche muffo, ’n bicchiero d’amezzado.
Quann’èra callo e sciucco se
stèra be’ a sède’, ma quanno era
móllo, toccàa a magnà’ da su dritti.
Spesse vo’, de noèmbre e decèmbre, se stèra sotta l’aqua, quanno
fùmma giù pei fossi a tajà’ le legna,
a tajà’ i cannedi, a scapeccià’ como
olmi, mori, cerque, àrbori, caccìa,
spini bianchi, roghi scanci. Se fèra le
legna per tutto l’inverno pe’ ’l fôgo e
pe’ ’l forno. E toccàa a tené’ a conto
le legna como ’l pa’!
Tante volte ripenso a quanta fati­
ca si faceva un tempo, e come si man­
giava male. La mattina a colazione e
il pomeriggio a ‘vint’ore’ si mangiava
sempre per i campi, seduti per terra. Al
tempo della semina: legumi, fava, erbe
di campo e patate quasi fredde, il pane
ammuffito, un bicchiere di ‘amezzàdo’.
Quando era caldo e asciutto, si stava
bene seduti, ma quando era bagnato,
bisognava mangiare in piedi. Spesse
volte, di novembre e dicembre, si stava
sotto l’acqua, quando eravamo giù per
i fossi a tagliare la legna, i canneti, a
capitozzare gli olmi, i gelsi, le querce,
gli alberi, a tagliare l’acacia, gli spini
bianchi, i rovi ‘scanci’. Si faceva la
legna per tutto l’inverno per il fuoco e
per il forno. E bisognava risparmiare
la legna come il pane!
Quella volta si prendevano anche i
135
Cuélla vo’ se piàa anca i cambolù
del granturco, i bistorni i gemma
a fa’ giù pe’ ’l fiume, sempre pe’ ’l
forno, perché ’l pa’ se fèra ogni otto
giorni, cualchidù anca 12 o 13 giorni.
All’inverno se mantenìa ’mpo’ de
più. Sa que dicìa: “Sci se sbaja a fa’
da magnà’ sarà pe ’n giorno, ma sci
se sbaja ’na infornada de pa’ dura
10 o 12 giorni: allora bisogna stàcce
attenti a fa’ ’l fornaro!” Dicìa pure:
“Sci sbai ’na ’nfornada de pa’, sarà
per 10 giorni, ma sci sbai a pià’ moje
o marido è per finché campi!” E ’na
ò non ce se divedìa ’n tra marido
e moje, ma adè ogni piccola scaramucciàda, via! vanne uno per conto
sua! Ié va be’, perchè enne poghi
cuélli che ’n’ ci’hà ’n laòro tanto la
donna che l’omo, como sia càmpane
li stesso. Cuélli che trìbola è cuéi
pôri fiòli.
Adè la moda de oggi chi è che
tribbola più de tutti, oltra i pôri
monèlli, è i vecchi, perché ié tocca a
sta’ sempre soli, ’nté ’n casa!
gambi del granturco, i cardi li andava­
mo a fare giù per il fiume, sempre per
il forno, perché il pane si faceva ogni
otto giorni, qualcuno anche per dodici
tredici giorni. D’inverno (il pane) si
manteneva un po’ di più. Sa che cosa
si diceva? “Se si sbaglia a preparare
da mangiare sarà per un giorno, ma se
si sbaglia un’infornata di pane durerà
dieci dodici giorni: bisogna stare atten­
ti a fare il fornaio!” Si diceva pure:
“Sbagli un’infornata di pane, sarà per
dieci giorni; ma se sbagli a prender
moglie o marito è per finché campi!”.
Un tempo non ci si divideva tra
marito e moglie, invece adesso ogni
piccola scaramuccia… via! Ognuno va
per conto suo. Gli va bene, perché sono
pochi quelli che non hanno un lavoro,
tanto la donna quanto l’uomo: comun­
que sia, campano ugualmente. Chi sof­
fre, però, sono quei poveri figli.
Secondo l’usanza d’oggi quelli che
soffrono di più, oltre i poveri bambi­
ni, sono i vecchi, perché devono restare
sempre soli in casa.
Mazzetti de fiori e… ’na lèndola
Mazzetti di fiori e una sbornia
’Na ò, ’nvéce, fumma sempre
’mbrànco. Quanno se fèra i pajàri
del fiè’, la mìstica, se fèra insieme coi vicinadi. Alla madìna toccàa
alsàsse presto. la vergàra preparàa
da colazió’: la frittada co’ la cipolla,
oppure padàde in umido (pomidori
e cipolla), frittada coi pomidori anca
Una volta, invece, eravamo sempre
in branco. Quando si facevano i pagliai
del fieno, della ‘mistica’, si lavorava
insieme ai vicini. La mattina bisogna­
va alzarsi presto. La ‘vergara’ prepara­
va la colazione: frittata con la cipolla
oppure patate in umido (pomodori e
cipolla), frittata con i pomodori, anche
136
co’ la farina, mollìghe de pa’, anca
co’ ’mpo’ de farina de granturco.
Po’ alle dieci se fèra ’l bocconcèllo: ’na fetta de lónza, ’na bréga de
cipolla, ’n capo d’ajo. A mezzogiorno
maccarù’ co’ l’ôi, ’n pezzo de conìo o
gallo. A vint’òre o la suppa lombarda
o limù’, cuélli da tajo, condìdi co’
l’ojo e ’l sùcchero, e po’ a cena l’ansalàda e n’ovo tòsto.
Questo a casa mia quanno se fèra
i laóri grossi, como a falcià’, fa’ i
pajàri, vangà’ la vigna, vangà’ i filù’,
falcià’ lo stramo. E dobo ’ste sorelle
più granne preparàa tanti mazzétti de fiori como garòfeni, giràni,
lillà, spighetto e ne dèra ’n mazzetto
perù’ a ’sti ômmini. Sci c’era qualche
gióveno che zironzàa ’ntorno casa
avìa ’na speranza, ma ’nvéce cuéllo
era ’n gesto de tenerezza verso tutti.
Mentre se fadigàa, daje a cantà’!
Quanno era la sera ’rivàa qualche
mezza sbòrnia, cualchidù’ se dicìa
qualche parola d’offesa e se ’taccàa
ancó’. Tanto più che se parla de vi’,
cioè de sbornie, ve n’arcónto una. Io
avéa 5 anni e stèro a casa de ’n’amìga
mia. Era capidàdo lì ’n contadì’ nòo
a sappà’ ’l gra’ e sìa portàdo drìa da
magnà’ e ’n buttijóne de vi’ róscio. Io
e ’st’amìga n’émo bïûdo ’mbicchiero
perù’ e ce sémo pïàde tutte due ’na
lèndola!
’Ste sorelle mia piagnìa, dicìa:
“Mamma, questa ce môre!” Fèra i
rudolòtti ’n tra l’erba! Dobo cuélla
vo’ non l’ho pïàda più, prò ’l vi ’me
piàce.
con la farina, molliche di pane, anche
con un po’ di farina di granturco. Poi,
alle dieci, si prendeva un bocconcel­
lo: una fetta di lonza, una tunica di
cipolla, una testa d’aglio. A mezzogior­
no maccheroni con le uova, un pezzo
di coniglio o di gallo. A ‘vint’ore’ o la
zuppa lombarda o i limoni, quelli da
taglio, conditi con l’olio e lo zucchero, e
poi a cena l’insalata e un uovo sodo.
Questo a casa mia quando si faceva­
no i lavori più impegnativi come falcia­
re, fare i pagliai, vangare la vigna, van­
gare i filari, falciare lo strame. Le mie
sorelle più grandi preparavano tanti
mazzetti di fiori come garofani, gerani,
‘lìlla’, lavanda e ne davano uno per uno
agli uomini. Se c’era qualche giovane
che gironzolava intorno casa aveva una
speranza, invece quello era solo un gesto
di gentilezza verso tutti.
Mentre si lavorava… giù a cantare!
La sera arrivava anche qualche mezza
sbornia, qualcuno diceva una parola
offensiva e si attaccavano pure.
Tanto più che si parla di vino, cioè
di sbornie, ve ne racconto una. Io avevo
cinque anni e stavo a casa di una mia
amica. Era capitato lì un contadino
nuovo a zappare il grano ed aveva por­
tato con sé da mangiare e un bottiglio­
ne di vino rosso. Io e questa amica ne
abbiamo bevuto un bicchiere per uno e
ci siamo prese tutte e due una sbornia!
Le mie sorelle piangevano e chia­
mavano: “Mamma, questa ci muore!”
Io facevo i ruzzoloni tra l’erba. Da quel­
la volta non ho preso più una sbornia,
però il vino mi piace.
137
’N fiasco de vi’, ’na bròcca
d’aqua e… i tòri
Un fiasco di vino, una brocca
d’acqua e… i tori
Quanno de falciadùre ’n tra
vicinàdi, se pïàa ’n bel fiasco de
vì’ e ’na brocca d’aqua fresca e se
portàa da be’. Ce gèra la gióvena,
sci c’era, scinó ’na sposa. Se cambiàmma la veste, se lavàmma i pìa,
’na pettenàda che lì te osservàa: era
’na venticinquina anca trenta ômini,
giovini e sposàdi e bevìa anca sci nìa
séde.
Quanno se falciàa i stràmi, le
donne ’n c’era perché era duro;
dovìsci fa tutte mucchiette, parìa le
rose. Non se podìa falcià’ ’l 16 lujo,
Ma­donna del Carmine, se dicìa la
Madonna del vento, perché tiràa ’na
curìna che carcàa ’ste mucchie, le
portàa per aria como le penne de’
puji.
E cure co’ lo rastello: n’arpïài
pogo. Se cercàa allora de falcià’
prima o dobo, sci era finìdo de
mède’, perché c’era cuéi grani alti,
se seccàa tardi e la battidùra gèra a
finì’ agósto. Dobo ce boccàa ’l tempo
e toccàa a falcià’ quanno era bòno,
perché cuéllo stramo ’l magnàa le
bèstie.
Se fèra ’l pajàro della mistigànsa,
se mettìa giù scartòcci del granturco,
battidùre della spagna, sulla, lupinella, presarése, récchie d’èpre, la spe­
ràgna, brance e cime del granturco,
tutta l’erba che nascìa ’nté ’l campo,
el favarìle: fèra ’n mischietto. A
ma’ a ma’ che ’sta robba era secca,
Quando si falciava insieme ai vici­
ni, si prendeva un bel fiasco di vino e
una brocca d’acqua fresca e si portava
da bere. Ci andava una giovane non
sposata, se c’era, sennò una sposa. Ci
cambiavamo la veste, ci lavavamo i
piedi, una pettinata perché ti osserva­
vano: erano una venticinquina o anche
trenta uomini, giovani e sposati e beve­
vano anche se non avevano sete.
Quando si falciavano gli strami, le
donne non c’erano perché era un lavo­
ro pesante; dovevi fare tutti mucchietti:
sembravano rose. Non si poteva falciare
il 16 luglio, Madonna del Carmine, che
era chiamata ‘Madonna del vento’, per­
ché tirava uno scirocco che caricava i
mucchi (di strame), li portava per aria
come le penne dei polli. E voglia a corre­
re con il rastrello: ne riprendevi poco. Si
cercava di falciare allora prima, se ave­
vamo finito di mietere, o dopo, perché
c’erano quelle qualità di grano alto, che
si seccava tardi e la trebbiatura andava
a finire ad agosto. Dopo dipendeva dal
tempo e bisognava falciare quando c’era
bel tempo, perché quello strame lo man­
giavano le bestie.
Si faceva un pagliaio, vi si metteva­
no i cartocci e i pennacchi del grantur­
co, la ‘speràgna’, le trebbiature dell’erba
medica, della lupinella, del trifoglio: si
faceva un mischietto. A mano a mano
che questi foraggi si seccavano, si faceva
un mucchio e, quando era tutto pronto,
si mettevano nel pagliaio, lo aguzzava­
138
fèra ’n mucchio e dobo quann’era
prònto nigò mettemma tutto ’nté ’l
pajàro, ’l guzzàmma bembè’, da cima
la croce.
All’inverno le bestie s’arcoràa,
prò che fusse stada secca e sciucca,
scinó fèsci ’n grasciàro. Quanno ’l
tajàa co’ la tajafié’, leàda la fardèlla,
coprìa ’ndó ìsci tajàdo co’ ’na ’mbàlla e ’na tàola pe’ non fàcce boccà’
l’aqua quanno pioìa. Dicìa babbo:
“Quanno all’inverno è nigò secco, sci
manga ’na fila de pa’ sul taolì’, vai da
’n vicinàdo te la ’mpresta, dobo iéla
’rdésci, ma sci manga da magnà’ pe’
’na stallàda de bestie, anca 15, e que
ié dai le bécche?” Cuélle, quanno è
ora de magnà’, se méttene a radà’
tutte d’accordo, spèce i tori, altro
che la musiga a tutto volù’! Toccàa
a legalli forte: sci sciòìa i tori era
’n macèllo, non gioàa né frusta né
bastó’.
Sci c’era n’omo solo, toccàa a
chiamà’ ’n vicinàdo, scornàa, calciàa. Po’ sci gèra ’n tra le vacche...
addio! Pei tori c’era ’n murétto: le
vacche nìa da véde’, scinó mango
magnàa. Se dice per dittàdo: “Urla
come ’n toro!”
mo perbene e in cima (ci conficcava­
mo) la croce. All’inverno le bestie se lo
godevano, purché i foraggi fossero stati
seccati bene e asciutti, sennò facevi un
letamaio. Quando lo si tagliava con la
tagliafieno, tolta la ‘fardèlla’, si copri­
va dove avevi tagliato con una balla e
una tavola, per non farci entrare l’acqua
quando pioveva. Diceva babbo: “Quando
all’inverno è tutto secco, se manca un
filone di pane sulla tavola, vai da un
vicino e te lo impresta, dopo glielo resti­
tuisci, ma se manca da mangiare per
una stalla piena di bestie, anche quin­
dici, e che cosa gli dai i semi di zucca?”
Quelle, quando è ora di mangiare, si
mettono a muggire tutte insieme, specie
i tori, altro che la musica a tutto volume!
Bisognava legarli forte: se scioglievano i
tori era un finimondo, non bastava né
la frusta né il bastone. Se c’era un solo
uomo, bisognava chiamare un vicino,
perché il toro scornava, calciava. Poi, se
andava tra le vacche… addio! Per i tori
nella stalla c’era un muretto: non dove­
vano nemmeno vederle la vacche, sennò
neppure mangiavano. C’è anche questo
modo di dire: “Urla come un toro!”
’Na vacca per parte e ’l nevone
del’30
Una vacca per parte e la gran
nevicata del ’30
Tanto più che se parla de stalla,
sa que fèra babbo? D’inverno, quanno pioìa o nenguìa, fatto nigò, se
buttàa cólco ’n tra le bestie. Co’ le
Tanto più che si parla di stalla, sa
che cosa faceva babbo? D’inverno, quan­
do pioveva o nevicava, sbrigato tutto
quanto, si sdraiava tra le bestie. Lui
139
vacche lu’ ce parlàa, se mettìa vicino
alla greppia ’n tra la paja, se coprìa
con corpetto, e ’na vacca per parte
col fiàdo lo scallàa. Lì ce stèra anca
’n par d’ore a dormì’. Dicìa che se
stèra càlli.
Noà ié dicémma: “Anca ’l
Bambinello lo scallàa ’l bue e l’asinello!” ’Sti maschi giogàane a carte;
cuàlca vo’, quanno era proprio disoccupàdi, ce venìa anca i vicinàdi, e lì
’l lògo pe’ scolàsse ’n fiasco de vi’. E
me dicìane: “Te, nì, va a bruscà’ du’
àceni de fàa!”
Io la sapìa fa’ be’: quanno la mettìa ’nté ’na padellétta, con goccio
parlava con le vacche, si metteva tra la
paglia, vicino alla greppia, si copriva
con una giacca, e una vacca per parte
lo scaldava con il fiato. Restava lì a dor­
mire anche per un paio d’ore. Diceva che
si stava caldi. Noi gli dicevamo: “Anche
il Bambinello lo scaldavano il bue e
l’asinello!” I maschi di casa giocavano
a carte; qualche volta, quando proprio
non avevano nulla da fare, ci venivano
anche i vicini, e lì era il luogo per sco­
larsi un fiasco di vino. E mi dicevano:
“Tu, nina, vai ad abbrustolire due acini
di fava!”. Io la sapevo preparare bene:
quando la mettevo in una padelletta, con
un goccio d’olio sale e pepe, era un qual­
Ostra, corso Umberto
I (oggi corso Mazzini)
durante il nevone
del 1929 (coll. Renato
Verzolini).
140
d’òjo sale e pepe, era cualchicò’ da
liccàsse i dédi. Ce lassài gi’ anca a
giogà’ a carte, perché ié se ognìa le
carte. Sci la bruscàa sotta la céndra
’nfogàda, me venìa be’ ’mbelpo’. Mìa
’mparàdo nonno, me dicìa: “Faje figo
co’ ’na roccétta!” Cacciàa la roccétta
’nté ’l mucchietto della fàa e quella
gonfiàa, venìa téndra, se staccàa la
buccia dall’aceno, perché pïàa l’aria.
La magnàa anca ’sti nonni che non
cìa più ’n dente: da cinquant’anni
i’èra cascàdi tutti. Sci ié dèsci ’n
dédo drendo la bocca, cìa le gingìlie
dure e tajènte, te fèra ’rcomannà’
l’anima, sci pe’ scherso te moscàa.
cosa da leccarsi le dita. Si smetteva anche
di giocare a carte, perché si ungevano. Se
le abbrustolivo sotto la cenere infuocata,
mi venivano molto bene. Mi aveva inse­
gnato nonno. Mi diceva: “Falle ‘figo’ con
un sarmentino!” Ficcavo il sarmentino
nel mucchietto della fava e quella si gon­
fiava, diventava tenera, si staccava la
buccia dall’acino, perché prendeva aria.
La mangiavano anche i nonni che non
avevano più un dente: da cinquant’anni
gli erano cascati tutti. Se gli davi un dito
dentro la bocca, avevano le gengive dure
e taglienti, ti facevano raccomandare
l’anima, se per scherzo ti mordevano.
Quando c’è stato la grande nevicata
Ostra, Viale del Littorio (oggi Viale G. Matteotti) durante il nevone del 1929 (Coll. Renato Verzolini).
141
Quanno c’è stado ’l nevó’ del
’30, lì da noà cìa fatto i rifìli alti
tre mèdri, rivàa al paro delle finè’ ’l
segóndo piano del palazzo. Nenguìa
col vento de maro che lì casa nostra
ce pïàa perdéro.
Quanno babbo s’è alsàdo alla
madìna è gìdo pe’ roprì’ la porta
della stalla, s’è troàdo dannànse ’n
muro de neve. Ha ditto: “Quanno
l’ho vedùdo, me se chiudìa ’l fiàdo. E
como famo a sgrascià’ la stalla? ’Ndó
passàmo pe’ gì’ a tajà’ la roba: paja,
pula, ’l fié’, la mìstiga?” S’è troàdo
perso.
Dobo s’è alsàdi ’sti fratelli, i’ha
dàtto ’na ma’ a fa’ la rótta co’ le pale,
ma ’ndó la buttasci? Era più alta de
du’ mèdri. I pùj volìa sgappà’, l’òghe
pure, ma ’ndó le mannàsci? Armanìa
infilsàde ’n tra la neve; ’l ca’ drendo
la cuccia non se vedìa, ma sgnattìa
como pe’ di’: “Venédeme a librà’!”
Non me so’ scordàda più del nevó’
e del tremòdo, du’ cose brutte ’mbelpo’ ’nté du’ anni. Del ’32, po’, è morto
nonno. Ricordi bruttissimi.
del ’30, lì da noi si erano formati muc­
chi (di neve) alti tre metri, arrivava­
no all’altezza delle finestre del secondo
piano del palazzo. Nevicava con il vento
di mare e lì casa nostra ci prendeva per
davvero. Quando la mattina babbo si
è alzato ed è andato ad aprire la porta
della stalla, si è trovato davanti ad un
muro di neve. Ha detto: “Quando l’ho
visto, mi si chiudeva il respiro. E come
facciamo a togliere il letame dalla stal­
la? Dove passiamo per andare a tagliare
la roba: paglia, pula, fieno, ‘mistiga’?”
S’è sentito perso. Dopo si sono alzati i
miei fratelli, gli hanno dato una mano a
fare la rotta con le pale. Ma dove buttavi
la neve? Era più alta di due metri. I polli
volevano andar fuori, le oche pure, ma
dove le potevi mandare? Rimanevano
infilzate tra la neve; il cane dentro la
cuccia non si vedeva, ma guaiva come
per dire: “Venitemi a liberare!” Non mi
sono mai dimenticata di quella grande
nevicata e del terremoto: due cose molto
brutte in due anni. Nel ’32, poi, è morto
nonno. Ricordi bruttissimi.
Le laude in latì’, presepi e sepolcri
Le litanie in latino, presepi e ‘sepolcri’
La prima cosa bella che m’arcòrdo, quanno nonno me pïàa a braccio,
me mettìa su dritta ’nté ’l camì’ a
fàmme di’ le laude in latì’ e le cansoncì’, ch’ìa amparàdo da nonna. Ìa solo
quattr’anni, tutti a sta’ sentì’ a me,
anca le padrone.
Chissà que me parìa che tutti
La prima cosa bella che mi ricordo è
quando nonno mi sollevava con le brac­
cia e mi metteva in piedi sul camino per
farmi dire le litanie in latino e le canzon­
cine, che io avevo imparato da non­na.
Avevo solo quattro anni, tutti mi stavano
ad ascoltare, anche le padrone. Chissà
142
me calcolàa. Dobo gèra a recidà’ de
nadàle in tutte le chiese, ché mamma
ce portàa a véde’ ’i presèpi: io miga
me vergognàa! C’era a chi ié piacìa
tanto a sta’ sentì’, me rigalàa un
soldo, allora scì che l’artroàa tutte.
Ce venìa tre caramelle: ’n ve pare
gnè? Dobo de Pasqua la settimana
santa se començàa al giovedì santo
a visidà’ i sepolcri ’nté le chiese; ’l
venardì prima alla madìna se visidàa
’l cadalètto e la Madonna Doloràda
lì ’l Crocifisso e chi n’era polsùdi gi’
a visidà’ i sepolcri al giovedì sera ce
gèra al venardì madìna. Babbo ce
portàa col biroccio nonno e nonna,
finànta che ce stèra co’ la testa, e
ce se grégàa cualchidun’àntro lì di
ó, qualche vecchietto o vecchietta.
Pôro babbo, quante ne fèra pei genidóri, ma pe’ lu’ n’ha polsùdo fa’ gnè
nisciù!
M’arcòrdo anca que se fèra ’nté
le chiese all’Ottavario dei morti.
Preparàa ’n tappédo per tèra e po’ ce
mettìa du’ cavalletti, ’na tàola a forma
de cassa da morto, e po’ ’l coprìa co’
’na cupèrta nera, guarnìda color oro
e le france zalle, po’ du’ candelieri
da capo du’ a fónno: parìa proprio
che c’era ’l morto sotta. Cuàlca ò
c’era perdéro: succède a morì’ anca
’l giorno dei morti. Sapé’, c’era uno
che dicìa al sagrestà’ che sonàa le
campàne a morto: “Chi è morti?”
“Gnènte gnènte, ’n contadì’!” Pensàde
vuà como fumma stimàdi noà contadì’, como ’no suppo de tèra!
che cosa mi sembrava il fatto che tutti
mi davano importanza. A Natale anda­
vo a recitare in tutte le chiese, perché
mamma ci portava a vedere i presepi: io
non mi vergognavo mica! C’era qualcuno
al quale piaceva ascoltarmi e mi rega­
lava un soldo: allora sì che le ritrovavo
tutte (le canzoncine)! Con un soldo ci si
compravano tre caramelle: non vi pare
niente? A Pasqua, durante la settimana
santa, si cominciava al giovedì santo a
visitare ‘i sepolcri’ nelle chiese; il venerdì
santo la mattina si visitava il catafalco e
la Madonna Addolorata lì nella chiesa del
Crocifisso e quelli che non erano potuti
andare a visitare i sepolcri il giovedì ci
andavano il venerdì mattina. Babbo ci
portava con il biroccio nonno e nonna,
fino a quando ci stavano con la testa, e ci
si univa qualcun altro di lì vicino, qual­
che vecchietto o vecchietta. Povero babbo,
quante ne faceva per i genitori, ma per
lui non ha potuto fare niente nessuno!
Mi ricordo anche che cosa si faceva nelle
chiese durante l’Ottavario dei morti. Si
preparava un tappeto per terra e poi ci
si mettevano due cavalletti, una tavola a
forma di cassa da morto, e poi la copriva­
no con una coperta nera, guarnita color
oro con le frange gialle; poi due candelieri
da capo, due in fondo: pareva proprio che
sotto ci fosse il morto. Qualche volta c’era
per davvero: succede di morire anche il
giorno dei morti.
Sapete, c’era uno che diceva al sagre­
stano, che suonava le campane a morto:
“Chi è morto? “Niente niente, un conta­
dino!” Pensate voi come eravamo stimati
noi contadini, come uno ‘zuppo’ di terra.
143
Émo rumàdo sempre ’nté la tèra
Abbiamo ruspato sempre nella terra
Non piace a nisciù’ avé’ la terra
’ntéll’ógna, ma sci finisce i contadì’,
se la passa male tutti, camparà più
allóngo i scignóri, ma là, ’nté cuélle
tabarnèlle da ’mpiano solo, c’è scritto de fòra: “Chìtta alla Gran Madre
antica con legge uguale torna tutti i
viventi”. Noà saremo più ’gnorànti,
perché èmo rumàdo sempre ’nté la
tèra, como fèra ’l porchétto, quanno
’l legàmma sotta ’na cerqua: prima
magnàa cuélla sopra, la jànda la
sfioràa, po’ cuèlla che pistacchiàa
ci’arpassàa dobo, rumàa, boccàa
col muso sotta tèra, finànta che nìa
’rtroàda tutta.
Quanno era móllo se ’ntrociàa
tutto, apposta quanno uno se sporca, se dice: “Te sai sporcàdo tutto
como ’mporchétto!” È da capìllo che
i contadì’ è sporchi e puzza: quanno
cominciàsci a portà’ via la gràscia,
anca otto giorni, c’era i pìa quann’èra
la sera toccàa a tenélli a móllo ’na
mezz’ora, per ’rfarli mòrbedi e po’
tanto ’ntéll’ógna ci’armanìa. ’N c’era
i stiàli, tante le ò t’affonnàsci ’nté
’l grasciàro, boccài giù finànta ’nté
i ginòcchi. Cuélli era stiàli fatti de
gràscia, neri, anca de moda!
Prò, in compenso ’l contadì’ como dicia cuel fradé sci vedìsci ’l
primo frutto, n’aceno d’ua, cìccero
in bocca, ‘nvece i pôri fradicèlli ’na
gallina cotta ’ntéll’aqua! Era coscì,
perché al pôro contadì’ toccàa portàlli a vènde’ l’òi, i pui pe’ ’rvestìsse
Non piace a nessuno avere la terra
nell’unghia, ma se finiscono i conta­
dini, se la passano male tutti, cam­
peranno più a lungo i signori, ma là,
in quelle casette ad un piano solo, c’è
scritto di fuori: “Qui alla Gran Madre
antica con legge uguale tornano tutti i
viventi”. Noi saremo più ignoranti, per­
ché abbiamo ruspato sempre nella terra,
come faceva il porco, quando lo legava­
mo sotto una quercia: prima mangiava
quella (ghianda) sopra, la ghianda la
sfiorava, poi quella che pesticciava ci
ripassava dopo, ruspava, entrava col
muso sotto terra, fino a che non l’ave­
va ritrovata tutta. Quando era bagna­
to, si infangava tutto, apposta quando
uno si sporca, si dice: “Ti sei sporcato
tutto come un porco!” È da capirlo per­
ché i contadini sono sporchi e puzzano:
quando cominciavi a portar via il leta­
me, anche per otto giorni, i piedi la sera
toccava tenerli a bagno una mezz’ora,
per rifarli morbidi e poi tanto nelle
unghie ci rimaneva (il letame). Non
c’erano gli stivali, tante le volte ti affon­
davi nel letamaio fino alle ginocchia.
Quelli erano stivali fatti di letame, neri,
anche alla moda!
Però, in compenso, il contadino come diceva quel frate se vedeva il primo
frutto, un acino d’uva, cicero (subito)
in bocca!,ivece i poveri fraticelli una
gallina cotta nell’acqua! Era così, per­
ché al povero contadino toccava portarli
a vendere i polli, le uova per vestirsi e
comprare il cotone per fare la dote alle
144
e comprà’ ’l cottó’ per fa’ la dòda alle
fémmene. Pôrétti chi ce nìa più de
una! I maschi portàa a casa, envéce
le fémmene sfruttàa la faméja, e i
padrù’ ’ndó c’era i maschi era più
contenti. Ma, santo Dio, sci non c’era
le fémmene, que fèra l’òmmini, se
sposàa ’n tra de lóra? Come fanne
adè’! E i fjòli chi li fèra?
Cuélla vo’ n’era struìdi como
adè’, che i fjòli se compra, se fa
co’ la proétta! Gimo ’mpo’ annànse!
Le vedremo delle belle! Adè’ sci
vede n’attempàdo a fa’ cualchicò’,
sa que ié dice? “Ma va’ a magnà’ ’na
cubétta de pangòtto!” Sente ’mpo’
que émo da sentì’ a di’ prima de
morì’. Pacensia, e que vô’ rispónne’?
Te tappa la bocca! Ènne struìdi,
vanne a scòla pe’ ’mparà’ l’edugazió’
alla rovèrsa. Io tante le ò ce penso:
quanno fumma piccoli noà, guai a
rispónne’ a cuélli più granni de noà!
Ma adè’ no’ sta a sentì’ più a nisciù’,
comènsa a di’: “Che balle!”
femmine. Poveretti quelli che ne ave­
vano più di una! I maschi portavano
a casa, invece le femmine sfruttavano
la famiglia e i padroni erano più con­
tenti dove c’erano i maschi. Ma, santo
Dio, se non c’erano le femmine, che
facevano gli uomini, si sposavano tra
loro? Come fanno adesso! E i figli chi li
faceva? Quella volta non erano istruiti
come adesso, che i figli si comprano, si
fanno con la provetta! Andiamo un po’
avanti! Ne vedremo delle belle! Adesso
se (qualcuno) vede un attempato fare
qualche cosa, sa che gli si dice? “Ma va
a mangiare una scodella di pancotto!”
Senti un po’ che cosa dobbiamo senti­
re a dire prima di morire. Pazienza, e
che vuoi rispondere? Ti tappa la bocca!
Sono istruiti, vanno a scuola per impa­
rare l’educazione alla rovescia. Io tante
volte ci penso: quando eravamo picco­
li noi, guai a rispondere a quelli più
grandi di noi! Ma adesso non stanno a
sentire più nessuno, cominciano a dire:
“Che balle!”
’Na vida ’n tra le bestie… e lì la fine
Una vita tra le bestie … e lì la fine
’L pôro babbo ìa lassàdo ’n vidèllo fòra. Ce fèra sempre: dobo ch’ìa
pocciàdo dalla madre, i lassàa fòra,
quann’èra tempo bòno. Dicìa che
coscì venìa su piano piano più bòni
e, quanno doventàa tori, per portàlli
a vènde’ ie se fèra in due. Cuélli
che ni portàa mae fòra, la prima vo’
quanno i portàa a la fiera, no’ ié la
Il povero babbo aveva lasciato un
vitello fuori. Ci faceva sempre: dopo che
(i vitelli) avevano preso il latte dalla
madre, se era bel tempo, li lasciava
andare fuori. Diceva che così cresce­
vano piano piano più buoni e, quando
diventavano tori, bastavano due persone
per portarli a vendere. Quelli che non li
portavano mai all’aperto, la prima volta
145
La stalla. Da notare come le vacche mansuete sono legate solo con una catena attorno al
collo, mentre le manze ancora “scavèstre”, ossia non ben domate, sono legate anche per
la testiera. (foto Dino Ferro 1968).
fèra mango tre òmmini a tenelli. Sa,
nìa visto mae ’l sole, le piante, le
biscighette… Era spaèndàdi, scor­
nàa, allora toccàa a pïà’ ’l biroccio
co’ le vacche e legàlli drìa al biroccio pe’ ’l collo, ’na cadéna ’nté la
testiéra, ’n’antra cadéna ’nté i corni
e, tante le ô, spostàa anca ’l biroccio.
’Na bestia de sette otto quintàli
ce lìa la forsa, sìa magnàdo tre
quattro quintali de fàa. Se dicìa per
dittàdo. “Ci’hài la forsa de ’n toro!”
Cuélli n’era sfruttàdi, più era grassi
e più valìa. Ié se mettìa i fiocchi,
quanno se portàa a la fiera co’ ’la
frusta de drìa. C’era de cuélli che
quando li portavano alla fiera, non glie­
la facevano a tenerli neppure tre uomi­
ni. Sa, non avevano visto mai il sole, le
piante, le biciclette… Erano spaventati,
scornavano; allora bisognava prendere
il biroccio con le vacche e legarli per il
collo dietro al biroccio: una catena attor­
no alla testa, un’altra intorno alle corna
e, talvolta, spostavano anche il biroccio.
Una bestia di sette otto quintali ce l’ave­
va la forza: aveva mangiato tre o quattro
quintali di fava! C’era anche il modo di
dire: “Hai la forza di un toro!” Quelli
non erano sfruttati, più erano grassi e
più valevano. Gli si mettevano i fiocchi,
quando si portavano alla fiera con la
frusta di dietro, perché alcuni non vole­
146
non volìa caminà’, cuèlli che non
s’era mae portàdi fòra ìa paura de
nigò, toccàa a mascaràlli. Apposta
babbo li portàa fòra da piccolini.
Proprio ’n vidèllo piccolo, prò,
che cìa ’l capostorno, l’ha mannàdo
al cimidèro perché, pe’ tenéllo, a
babbo gli s’è ’nvuricchiàda la corda
’nté le gambe, l’ha fatto cascà’ e lì
per tèra i’hà pistàdo ’nté la pansa
e l’ha rotto drendo. Col biroccio
mi’ cugnàdo l’ha portàdo sùbbedo
all’ospedale, ma ’l pôro babbo è
’rmàsto sotta i ferri.
A pensà’ che stèra sempre ’n tra
le bestie, era como gioièlli per lu’ e
guai chi ié toccàa la stalla! Ce passàa
midà della giornàda. Quanno fedàa
’na vacca, otto giorni prima tutte le
notte se alsàa du’ tre ’olte a gìlla a
véde’, ce parlàa e, quanno ìa fedàdo,
ié dèra ’l beveró’, l’aqua càlla co’ la
sèmbola per otto giorni. Dicìa: “Alle
donne quanno se sgràa ié se mazza
le galline e lóra, pôre bestiòle, ha
bisogno como le donne!”
Le tenìa a riposo ’na mesàda;
quanno le taccàa no’ ié fèra fa’ i sforsi pe du’ mesi. Dicìa: “Vedi, ié manca
la parola! Quanno ié do ’l beveró’,
me licca ’nté le ma’, pare che me
vôle ringrazzià’ ”.
E arcontàa che uno ié menàa alle
bestie col bastó’. ’Na ò i’è capidàdo
a tiro, s’è’mbestialìda, l’ha pïàdo
a scornàde e l’ha stéso morto lì
per tèra: s’è’rcordàdo che ié menàa!
C’era anca le vacche como i tori
che scalciàa, scornàa: toccàa a sta’
vano camminare, quelli che non erano
mai stati portati all’aperto avevano
paura di tutto, bisognava coprire loro
gli occhi. Apposta babbo li portava fuori
da piccolini. Proprio un vitello piccolo,
però, che aveva il capostorno, l’ha man­
dato al cimitero perché, per tenerlo, a
babbo si è attorcigliata la corda attorno
alle gambe, l’ha fatto cadere e lì per terra
(il vitello) l’ha calpestato sulla pancia e
gli ha provocato un’emorragia interna.
Con il biroccio mio cognato l’ha portato
subito all’ospedale, ma il babbo è rima­
sto sotto i ferri.
E pensare che stava sempre tra le
bestie, queste erano come gioielli per lui
e guai a chi gli toccava la stalla! Ci tra­
scorreva metà della giornata. Quando
stava per partorire una vacca, otto gior­
ni prima tutte le notti si alzava due tre
volte per andarla a vedere, ci parlava e,
quando aveva partorito, gli dava il beve­
rone, acqua calda con la semola, per otto
giorni. Diceva: “Per le donne, quando
partoriscono, si ammazzano le galline
e loro, povere bestiole, hanno bisogno
come le donne!”
Le teneva a riposo per una mesata;
quando le aggiogava non gli faceva fare
gli sforzi per due mesi. Diceva: “Vedi, le
manca la parola! Quando le do il beve­
rone, mi lecca nella mano, pare che mi
voglia ringraziare”. E raccontava che
uno menava le bestie con il bastone.
(La vacca), una volta che le è capitato a
tiro, si è imbestialita, l’ha preso a scor­
nate e l’ha steso morto lì per terra: si
era ricordata che la bastonava! C’erano
anche le vacche, come i tori, che scal­
147
’tènti! Quanno gèsci in giro, non te
podìsci fatte véde’ a menà’ le bestie,
te fèra contravensió’. Sci i portàsci
alla fiera, mango co’ la frusta, ié fèra
i segni: dobo no’ le volìa, perché se
maccàa la carne.
Babbo ’rcontàa pure che uno a
Belvedé’ cìa le màghine da bàtte’,
era cinquant’anni che ce lìa. Era
mudorìsta, maghinìsta: sarà stado
pradigo delle màghine? Embè, è
cascàdo drendo al battidóre, l’ha
troàdo tutto spezzàdo sul pajàro
della paja. Cìa la camicia, i’hà preso
la mànniga, po’ ’l braccio e l’ha
tiràdo drendo. Era proprio ’l destino
de fa’ cuélla fine lì. E como ’l pôro
babbo: ’na vida è stado ’n tra le
bestie e lì ha ûdo la fine.
ciavano e scornavano: bisognava stare
attenti! Quando andavi in giro, non ti
potevi far vedere che menavi le bestie, ti
facevano contravvenzione. Se le portavi
alla fiera, neppure con la frusta (le pote­
vi toccare), perché gli lasciava i segni:
dopo non le volevano, perché si ammac­
cava la carne. Babbo raccontava pure
che uno a Belvedere aveva le trebbia­
trici, erano cinquant’anni che le aveva.
Era un motorista, macchinista: sarà
stato pratico di macchine? Ebbene, è
caduto dentro il battitore; l’hanno trova­
to tutto a pezzi sul pagliaio della paglia.
Indossava la camicia, (la trebbia) gli
ha preso la manica, poi il braccio e
l’ha tirato dentro. Era proprio destino
che facesse quella fine lì. Proprio come
il povero babbo: una vita è stato tra le
bestie e lì ha avuto la fine.
Sett’anni d’abbondanza e sette
de carestia
Sette anni di abbondanza e sette
di carestia
Quanta carta e tempo ce vorìa
per ’rcontà’ nigò! Me piacerìa tanto,
ma è la quistió’ che so’ ’témpàda,
ci’ho da pulì’ che n’ho più voja, c’è
da ripulì’ i pantaló’1, c’è l’orto, i pui,
conìi, da gi’ in giro, e fa’ nigò ’n
ci’arièscio più. Più de nigò me piace
a scrìe, prò comènsa a tremà’ le ma’,
spesso sbajo, m’andormènto sopra ’l
Quanta carta e tempo ci vorrebbe­
ro per raccontare tutto! Mi piacerebbe
tanto, ma la questione è che sono attem­
pata, ho da pulire e non ho più voglia,
c’è da ripulire i pantaloni, c’è l’orto, ci
sono i polli, i conigli, c’è d’andare in
giro e a fare tutto non ci riesco più. Più
di tutto mi piace a scrivere, però comin­
cia a tremarmi la mano, spesso sbaglio,
1 L’autrice aiuta i familiari in un lavoro a domicilio, consistente nel togliere i fili superflui ai pantaloni.
148
guadèrno... Eh, n’è passàdi dei compleànni, Nadali e Pasque: la quistió’
è tutta lì! E po’ le cose le scrìo du’
vo’, perché fô da magnà’, m’arvène
pensàdo cualchicò’, me l’appónto, e
dobo finànta alla sera na scrìo più,
me se scancèlla ’nté ’l cervèllo: ce
vorìa ’na maghina davanti all’occhi,
che gira sempre, sci che girìa be’!
E po’ babbo dicìa anca questo:
“Sci vène la carestìa ’nté la bocca
delle bestie è un guai!” È como
adè sci chiude le fabbrighe, finisce
le risorse, cuélla vo’ pel contadì’
c’era la stalla e la terra, gnènte più.
Dicìa sempre cuél pôro babbo: “C’è
sett’anni d’abbondanza e sett’anni
de carestìa, como le sette vacche
magre e le sette spighe vòde, le
sette vacche grasse e le sette spighe
pîne”. Sta scritto anca su la Bibbia,
è vero. Dobo del tempo bòno vène
cuéllo tristo: è sempre ’na ròda che
gira.
Quanno pioìa tanto, fèra le lame
la terra. Dicìa: “Gran lame, gran
fame!” È vero! Di’ppure che cuéll’anno passàa la grandina, portàa via
tutto l’arcòlto, oppure venìa ’na gran
seccarécia, toccàa a gi’ a pïà’ l’aqua
giù ’l fiume pe’ le bestie. Le pozze
se seccàa e i pozzi non ié rèscìa a
venà’. Pensàde ’mpo’ vuà: ’na bestia
all’istàde non ié bastàa mezzo ettòledro al giorno, quanno tiràa ’l pertégàro, s’ardunàa i còi, ’l fié’; coscì
s’attaccàa ’nté la tròcca, se n’engozzàa mezza. Co’ la seccaréccia toccàa
a gi’ tutti i giorni giù ’l fiume co’ ’na
mi addormento sopra il quaderno… Eh,
ne son passati di compleanni, Natali e
Pasque: la questione è tutta lì! E poi le
cose le scrivo due volte, perché preparo
da mangiare, mi viene pensato qualco­
sa, me l’appunto, e dopo fino a sera non
scrivo più, mi si cancella dal cervello.
Ci vorrebbe una macchina davanti agli
occhi, che girasse sempre: sì che andreb­
be bene!
E poi babbo diceva anche questo: “Se
viene la carestia nella bocca delle bestie
è un guaio!” È come se adesso chiudes­
sero le fabbriche, finirebbero le risorse;
quella volta per il contadino c’erano la
stalla e la terra, niente più. Diceva sem­
pre il povero babbo: “Ci sono sette anni
di abbondanza e sette anni di carestia,
come le sette vacche magre e le sette spi­
ghe vuote, le sette vacche grasse e le sette
spighe piene”. Sta scritto anche nella
Bibbia, è vero. Dopo il tempo buono
viene quello cattivo: è sempre una ruota
che gira.
Quando pioveva tanto, la terra fra­
nava. Diceva: “Grandi frane, grande
fame!” È vero. Di’ pure che quell’anno
passava la grandine, portava via tutto
il raccolto, oppure veniva una grande
siccità, bisognava andare a prendere
l’acqua per le bestie al fiume. Le ‘pozze’
si seccavano e nei pozzi l’acqua non ci
riusciva a sgorgare dalla vena. Pensate
un po’ voi: a una bestia dl’estate, quan­
do tirava l’aratro, radunava i covi o il
fieno, non bastava un mezzo ettolitro al
giorno; così s’attaccava nella ‘trocca’, se
ne ingozzava mezza.
Con la siccità bisognava andare
149
botte grossa anca 10 tòllidri, dieci e
più chilomedri de strada, se fèra bé’
lajù, ma per quanno era rïàde a casa,
su per cuélla còsta, arbeìa’n’antra ò.
Du’ tre pari de vacche ce volìa per
’rtirà’ su ’sto biròccio, tanto co’ la
botte dell’aqua anca co’ la breccia.
Embè, como v’ho ditto, la carestìa
’gni tanto venìa.
tutti i giorni al fiume con una botte
grossa anche dieci ettolitri; dieci e più
chilometri di strada, si facevano bere
laggiù, ma, per quando erano arrivate
a casa, su per quella salita, bevevano di
nuovo. Per tirare su il biroccio ci vole­
vano due tre paia di vacche, tanto con
la botte dell’acqua ed anche con la ghia­
ia. Ebbene, come vi ho detto, la carestia
ogni tanto arrivava.
Crocicchi, paure e grandina
Crocicchi, ‘paure’ e grandine
E po’ c’era anca ’sta cridiga chì:
tutti l’anni a Montalbò’ venìa i missionari, gèra anca ’nté le chiese de
campàgna e tutta la settimana c’era
la funsió’. Piacìa tanto, alla fì’ piantàa ’na Croce de ferro ’nté ’n crocicchio, co’ la dàda ’l mese e l’anno.
A San Bonaventura lìa messa ’nté
’no spìgolo, sulla terra del Lanaro:
ìa fatto ’na spiazzòla, lìa messa ’l
quindici de maggio 1935. ’Na ò ’nté
’na contràdia ’na ò ’nté ’n’antra, da
lóngo da le case, ’ndó ce podìa esse’
le paùre: ’na ò dicìa che c’era, sarà
stado anca vero!
Anca mi’ sòcera arcontàa che
de notte se portàa l’ùa col biròccio
ai padrù’; se partìa col sole ma,
fatto nigò (pistàlla, torchià’ i raspi),
gèra a finì’ anca a mezzanotte. E lìa
argèra a casa da sola, perchè mi’
sòcero aiudàa ’nté le cantìne per
pïà’ ’na lira.
Allora ha ditto: “Tutta ’na ò s’è
C’era anche questa critica: tutti gli
anni a Montalboddo venivano i mis­
sionari, andavano anche nelle chiese
di campagna e per tutta una settima­
na c’era la funzione. (Questa) piaceva
tanto, alla fine piantavano una croce
di ferro in un crocicchio, con la data, il
mese e l’anno. A San Bonaventura l’ave­
vano messa in un angolo, sulla terra del
Lanaro: avevano costruito una piazzo­
la, l’avevano messa il 15 maggio 1935.
(Mettevano le croci) una volta in una
contrada una volta in un’altra, lonta­
no dalle case, dove potevano esserci le
‘paure’: un tempo si diceva che c’erano,
sarà stato anche vero!
Anche mia suocera raccontava che,
quando si portava l’uva con il biroccio
ai padroni, si partiva con il sole ma,
sbrigato tutto (schiacciarla, torchiare i
raspi), si andava a finire anche a mez­
zanotte. E lei tornava a casa da sola,
perché mio suocero aiutava nelle canti­
ne per prendere una lira.
150
fermàde le vacche, s’è messe a
gambe larghe e le recchie dritte,
non caminàa mango co’ la frusta;
ho vedùdo ’n’ombra sul biròccio,
’na persóna me parìa (cuélla vo’ sul
biròccio ce volìa la linterna e la luce
’n ne fèra tanta!). Me so’ spaurìda e
ho ditto ‘tanto que c’è ’l deàolo ?’ Ho
vedùdo ’na sfiammàda e le vacche
s’è’rmésse a caminà’ ”. Lì, sci c’ero
io era morta, ma lìa era como ’n
cavalliére, nìa paura de gnè!
Se sentìa a dì’ che cualchidù’
vidìa ’n porchétto, ’na persóna vestida de nero s’affiancàa vecìno e altre
robbe. Uno che era propio pauròso
a caminà’ de notte, ’na vo’ che c’era
la luna, vedìa l’ombra da vecìno: più
curìa e cuélla sempre vecìno, ché
currìa co’ lu’: sa, era la merìggia
sua! È riàdo a casa co’ la léngua
de fòra; dobo che i genidóri iél’ha
spiegàdo, s’è ’mpo’ calmàdo.
Allora artornàmo ai missionari.
C’era ’sta cridiga chì che dicìa: “
’Ndó va i missionari dobo ce fa la
gràndina!” Era vero... ma sarà stado
che lìa da fa’ e ’ncuntràa lì, perché
la gràndina è a raggiàde, ’ndó che
pïa fa dòle, te mànna a male.
E non è per tutto uguale: ’n’anno
l’ha fatta grossa como l’ôi d’òga, c’è
chi lìa pesàda sette etti, tutta sbrozzolósa. Alle padrone nostre i’ha
rotto tutti i vedri delle finè’, toccàa
a chiùde’ i scurétti, scinó boccàa
drendo casa. Sci c’era le maghine
como adè’, sai i danni! Dìcene che
non porta carestia. ’Ndó che non
Allora ha detto: “All’improvviso si
sono fermate le vacche, si son messe a
gambe larghe e le orecchie dritte, non
camminavano neppure con la frusta; ho
visto un’ombra sul biroccio, mi sembra­
va una persona (quella volta sul biroc­
cio ci voleva la lanterna, ma questa non
illuminava molto!). Mi sono spaventata
e ho detto ‘tanto che c’è il diavolo?’ Ho
visto una fiammata e le vacche si sono
messe di nuovo a camminare”. Lì, se ci
fossi stata io, sarei morta, ma lei era
come un cavaliere, non aveva paura
di niente! Si sentiva dire che qualcuno
vedeva un porco, una persona vestita di
nero che ti si affiancava vicino e altre
storie. Uno che era proprio pauroso a
camminare di notte, una volta che c’era
la luna vedeva l’ombra vicina a lui: più
correva e più quell’ombra correva con
lui sempre lì vicina: sa, era l’ombra
sua! È arrivato a casa con la lingua di
fuori; dopo che i genitori glielo hanno
spiegato, si è un po’ calmato.
Allora ritorniamo ai missionari.
C’era questa critica che diceva: “Dove
vanno i missionari dopo ci cade la
grandine!” Era vero… ma sarà stato che
la doveva fare ed incontrava proprio lì,
perché la grandine cade a raggiera, dove
coglie fa male, ti rovina. E non è dapper­
tutto della stessa misura: un anno l’ha
fatta grossa come le uova dell’oca, c’è
chi l’aveva pesata setti etti ed era tutta
bernoccoli. Alle nostre padrone aveva
rotto tutti i vetri delle finestre: bisogna­
va chiudere gli scuretti, sennò entrava
in casa. Se ci fossero state le automobili
come adesso, sai i danni!
151
pïa! Ma ’ndó che pïa te fa piàgne’,
altroché! Anca ’st’anno è passàda
chì da noà, ha portado via ’n tèrso
d’ùa, ha sbranciàdo nigò, la robba
non cresce più gnè; anca i frutti, i
pomidòri è tutti ’ntaccàdi: chi l’ha
da vènde’ ni vôle nisciù, tocca a
vèndeli per pogo. E non porta la
carestia? Noà non c’è mango per
casa.
Dicono che la grandine non porta
carestia. Dove non cade! Ma dove cade ti
fa piangere, altroché! Anche quest’anno
è passata qui da noi, ha portato via un
terzo dell’uva, ha rotto le foglie di tutte
le piante, che non crescono più; anche i
frutti, i pomodori sono tutti ammacca­
ti: nessuno li vuole comprare, bisogna
venderli per poco. E (la grandine) non
porta carestia? Noi non abbiamo (i
pomodori) neppure per casa!
La mededùra
La mietitura
A cuéi tempi la mededùra se
cominciàa vèro ’l dieci de giugno. Sci
c’era bisogno de comprà’ i cappelli
de paja, quanno fumma gióvene, se
gèra tutti alla fiera; dobo sposàda ce
gèra solo ’l capoccia e la vergàra: e
po’ se comensàa a mède’.
Cuélla vo’ i grani c’era de tante
razze e venìa prima. Stade ascoltà’
de quante razze c’era: ’l Mentàna,
Frasinédo Todeno, San Pastóre,
Mara, Gentilrosso, Gentilbianco,
Marzòtto, ’l Funo e ’l Damiano
Chiesa.
Toccàa a mède’ presto, mezzo
barzòtto, scinó cascàa i’àceni.
Quanno s’ardunàa i côi, giù fónno
del biroccio, ogni viaggio ce n’era
’na caldaròla. Gèra be’ al contadì’,
cuéllo non gèra a finì’ ’nté ’l barcó’,
se mettìa da ’na parte pei pùj.
Da che m’arcòrdo io, se tajàa
’l gra’ radènte terra co’ la falcetta,
A quei tempi si cominciava a miete­
re verso il dieci di giugno. Se c’era biso­
gno di comprare i cappelli di paglia,
quando eravamo giovani, andavamo
tutti alla fiera; dopo sposata ci andava­
no soltanto il capoccia e la ‘vergara’: e
poi si cominciava a mietere.
Quella volta c’erano tante qualità
di grano e maturavano prima. Sentite
quante qualità c’erano: il Mentana, il
Frasineto Todeno , San Pastore, Mara,
Gentilrosso, Gentilbianco, Marzòtto, il
Funo e il Damiano Chiesa. Bisognava
mieterlo presto, mezzo verde, sennò
cascavano i chicchi. Quando si radu­
navano i covoni, ad ogni viaggio, sul
fondo del biroccio ne rimaneva una cal­
derella. Andava bene al contadino, quel­
lo non andava a finire nel barcone, si
metteva da una parte per i polli.
Da quando mi ricordo io, il grano si
tagliava rasente il terreno con la falce,
perché era basso, e vedevi la terra di
152
perché era basso, e cuéi contadì’
che fadigàa be’ vedìsci cuélla terra
rasàda como la barba dell’òmmini,
cuéi bei còi pari, legàdi be’, perché
le pegorèlle del gra’ era tajàde pare e
messe be’ ’nté ’l còvo, legàdo sempre
col gra’ e col piretto de legno. Sapìa
legàlli anch’io perché babbo dicìa: “
’Mparàde anca ’sta faccènna, sci c’è
bisogno la sapéde fa’; fàde ’mpo’ de
nigò, ’mparade l’arte e mettédelo da
’na parte: s’arpìa quanno sèrve!”
Allora arpìo a’rcontà’ de ’sto gra’,
quanno ’l medémma per terra. Ha
duràdo pògo perché, quanno era la
sera, camminàmma tutti gobbi, non
se la fèra a ’ndrizàsse. Dicémma ’sta
cansó’1:
C’era ’n gobbo co’ ’na gobba
gobbo era ’l padre,
gobba era la madre,
gobbo ’l fradèllo,
gobba la sorèlla
la faméja dei gobbù’.
Andarono in viaggio
Co’ ’l padró’ de ’n gran battello
era gobbo pure quello,
era gobbo pure quello.
E le féce belle nozze,
ce ’nvidò ’l segretario,
gobbo come ’n dromedàrio,
gobbo come ’n dromedàrio.
E dobo tanto tempo
gli nacque ’mbèl bambino
anche lui col suo gobbìno,
1
quei campi, dove i contadini lavorava­
no bene, rasata bene come la barba degli
uomini, i bei covoni ben pareggiati,
legati bene, perché le ‘pegorelle’ del grano
erano tagliate pari e sistemate bene nel
covone, legato sempre col grano e con
il ‘piretto’ di legno. Sapevo legarli bene
anch’io perché babbo diceva: “Imparate
anche questa faccenda, se c’è bisogno la
sapete fare; fate un po’ di tutto, impa­
rate l’arte e mettetela da una parte: si
riprende quando serve!”
Allora riprendo a raccontare di
quando mietevamo questo grano a
terra. È durato poco perché, quando era
sera, camminavamo tutti gobbi, non ci
si riusciva a raddrizzarci. Cantavamo
questa canzone:
“C’era ’n gobbo co’ ’na gobba
gobbo era ’l padre,
gobba era la madre,
gobbo ’l fradèllo,
gobba la sorèlla
la faméja dei gobbù’.
Andarono in viaggio
col padró’ de ’n gran battello
era gobbo pure quéllo,
era gobbo pure quéllo.
E le féce belle nozze,
ce ’nvidò ’l segretario,
gobbo come ’n dromedàrio,
gobbo come ’n dromedàrio.
E dobo tanto tempo
gli nacque ’mbèl bambino
anche lui col suo gobbìno,
Vedere la trascrizione musicale a p. 493.
153
anche lui col suo gobbìno.
E lo dà ad una balia,
con tre gobbe alte ’n medro
due davanti e una de diedro,
due davanti e una de diedro.
anche lui col suo gobbìno.
E lo dà ad una balia,
con tre gobbe alte ’n medro
due davanti e una de diedro,
due davanti e una de diedro”.
Benanche stufi, cantàmma listesso. Dobo qualche anno ’sto gra’ non
se fèra più radènte, perché chi ce
nìa 5 - 6 èttri ce volìa ’mbelpò’ de
giorni a mède’. I vicinàdi cìa tutti
da mède’ ’l sua. Allora se comensàa
a mèdelo a l’altezza de ’n ginocchio. La razza del gra’ era più alto,
sarìa stado ’l Fraginédo (cuéllo basso
era ’l Mentàna). I gra’ se n’è gambiàdi ’mbellipò’; a mèdelo alto rescìa
’mbelpò’ de più, solo che piccàa le
stóppole. Le gambe, quann’èra la
sera, era tutte sfrigiàde, fèra sangue.
Po’ quanno ardunàmma i còi, anca
peggio; dobo lo stramo se falciàa
quanno era finìdo da mède’: cuéllo
prò era laóro pe’ l’òmmini, perché
era fadìga multubè’. Se duràa anca 15
giorni e con cuélla falcettóna grossa.
Spesse vo’ ce pïàa la manzòla ’nté ’l
polso e dolìa muntubè’. Quann’èra la
sera ce se dèra ’na ónta co’ la sógna
e alla madìna via ’n’antra ò.
Dobo ’mpo’ d’anni émo gambiàdo:
émo pïàdo la falce fenàra co’ l’archétto, pe’ fa’ le pegorèlle pare. C’è
volsùdo ’mpo’ pe’ ’mparàcce co’ l’archétto, ma quanno c’èra pïàdo la
ma’, venìa certe pegorèlle belline,
che dèra gusto a guardàlle e se pïàa
mejo p’abbracciàlle su pe’ méttele
’nté ’l covo.
Benché stanchi, cantavamo ugual­
mente. Dopo qualche anno il grano non
si mieteva più radente (al terreno), per­
ché chi ne aveva cinque o sei ettari ci
voleva molto a mieterlo. I vicini aveva­
no da mietere il loro. Allora si è iniziato
a tagliarlo all’altezza del ginocchio. Era
una qualità di grano che cresceva più
alto, era il Frasineto (quello basso era il
Mentana). Sono state cambiate diverse
qualità di grano; a mieterlo alto riu­
sciva molto di più, solo che piccavano
le stoppie. A sera le gambe erano tutte
graffiate, sanguinavano. Poi, quando
radunavamo i covoni, anche peggio; lo
strame si falciava quando si era finito
di mietere: quello, però, era un lavoro
da uomini, perché era molto faticoso. Si
durava a mietere anche quindici gior­
ni e con quella falce grossa. Spesse volte
si prendeva nel polso la ‘manzòla’, che
faceva molto male. La sera la ungevamo
con la ‘sógna’ e la mattina via un’altra
volta.
Dopo alcuni anni abbiamo cambiato
di nuovo: abbiamo preso la falce fena­
ia con l’archetto, per fare le ‘pegorelle’
pare. C’è voluto un po’ per imparare a
falciare con l’archetto, ma quando uno
ci aveva preso la mano, venivano certe
‘pegorelle’ belline, che dava piacere a
guardarle e si prendevano anche meglio
per abbracciarle e metterle nel covone.
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Pensàde vuà come fùmma pôretti, ma birbi: ’n c’era i soldi pe’ comprà’ l’archetto, allora gèmma ’nté ’na
vengaròla, tajàmma ’n véngo grosso
più de ’n dedo e lì se legàa la pónta
’nté cuél fèro che tène la falce fenàra
e ’l calcagnòlo e ’l culo se legàa ’nté ’l
mànnigo vicino alla cornétta. E coscì
ai soldi s’armediàa co’ la testa fina.
Pensate voi come eravamo poveretti
ma birbi: non c’erano i soldi per com­
prare l’archetto, allora andavamo in un
salice, tagliavamo un vimine più gros­
so di un dito e lì si legava la punta in
quel ferro che tiene la falce fenaia e il
‘calcagnòlo’, mentre la parte più grossa
veniva legata nel manico, vicino alla
‘cornetta’. Così alla mancanza di soldi
si poneva rimedio con la testa fina.
Ognuno la feccènna sua
Ad ognuno il suo compito
Presémpio de mededùre c’era
ognuno la feccènna sua: la falciatùra del gra’ toccàa sempre ai più
ribùsti, più gióvini, perché arcòje le
pegorèlle era capàce tutti, vecchi e
monellotti, cominciànno dai sette
otto anni, sci le pegorèlle n’era tante
grosse e, più de nigò, sci era fatte
be’.
Anca lì c’era chi era esàtti e chi
brodolù’, che le lassàa sciamennàde;
allora ié se dicìa: “Brodoló’, vedi che
sciamennamènto che fai? Arvòltede
de drìa, guarda a quell’altri, como è
fatte be’!”
Io non so’ stada mai ’na fugóna,
’na presciolósa a fa’ le faccènne,
prò, quann’era fatte, era fatte be’,
perlomeno me ’l dicìa anca quanno
gèra a fadigà’ ’nté le rette: ’l poléde
anca domannà’, che ve l’ardìce sci è
veredà. ’L so che a fadigà’ male rèsce
de più, pro dobo ’n c’è risultàdo.
Allora pe’ favve capì’, la mededùra
Per esempio durante la mietitura
ognuno aveva il suo compito: la falcia­
tura del grano toccava sempre ai più
robusti, più giovani, perché a raccoglie­
re le ‘pecorelle’ erano capaci tutti, vecchi
e monellotti, cominciando dai sette otto
anni, se le ‘pecorelle’ non erano tanto
grosse e, più di tutto, se erano fatte per­
bene. Anche in quel lavoro c’erano quelli
esatti e quelli brodoloni che le lascia­
vano sciamannate; allora gli si diceva:
“Brodolone, vedi che ‘sciamannamento’
fai! Voltati di dietro, guarda quegli altri,
come son fatte bene (le ‘pecorelle’)!
Io non sono stata mai una fretto­
losa nel fare le faccende, però, quando
(queste) erano fatte, erano fatte bene,
perlomeno me lo dicevano anche quando
andavo a lavorare nelle ‘rette’: lo potete
anche domandare, che ve lo ridicono se
è verità. Lo so che a lavorare male riesce
di più, però dopo non c’è il risultato.
Allora, per farvi capire, la mietitura
si faceva così: se, per esempio, quattro
155
se fèra coscì: presempio, sci quattro
persone falciàa, de drèdo ce volìa
due arcòje le pegorelle e uno a legà’
i còi: ’na ò, como v’ho ditto, se legàa
col piro e coi balsi de gra’, ma dobo,
vèro l’anni ’40, era venùda fòri la
pressa e legàdi col fil de fèro e lì, a
legà’, era più adatta ’na persona forte
e grossa, che pesàa ’mbelpo’, coscì
la pressa piàa tutti i denti e i còi
venìa più grossi e legàdi più stretti:
pesàa anca quaranta chili, sci ’l gra’
era bello.
persone falciavano, di dietro ce ne vole­
vano due per raccogliere le ‘pecorelle’ ed
una per legare i covoni: una volta, come
v’ho detto, (questi) si legavano con il
‘piro’ e con i ‘balsi’ di grano, ma dopo,
verso gli anni ’40, è uscita fuori la ‘pres­
sa’ e (i covoni venivano) legati con il fil
di ferro e lì, per legare, era più adatta
una persona forte e grossa, che pesava
molto, così la pressa agganciava tutti i
denti e i covoni venivano più grossi e
legati più stretti: pesavano anche qua­
ranta chili, se il grano era bello.
Quann’èra la sera dobo notte, se
’rdunàa ’sti còi, ce se fèra i cavalletti
da 13 còi, da 17, da 21, da 29, sempre de bicco: quello era chiamàdo
“ ’l birro”, perché stèra a cavallo
sopra al cavallétto. Sotta se mettìa
quattro còi grànni in croce, po’ la
segónda fila ’n tantì’ più stretti e,
su su, sempre più stretti: alla fì’
se mettìa ’l birro. Cualchidù’ dicìa:
“Toh, méttelo su te, ’l montó’, che
sai ribùsto!” Spesso, lì da noà, toccàa al montagnòlo, che era ’mpezzo
de salsicció’ alto e grosso, e lu’ era
La sera, dopo notte, si radunavano
i covoni, ci si facevano i ‘cavalletti’ da
13 covoni, da 17, da 21, da 29, sempre
di numero dispari: l’ultimo era chiama­
to ‘il birro’ (montone), perché stava a
cavallo sopra il ‘cavalletto’. Sotto si met­
tevano quattro covoni grandi in croce,
poi la seconda fila, un po’ più stretti:
alla fine ‘Il birro’. Qualcuno diceva:”
Toh, mettelo su tu, il montone, che sei
robusto!” Spesso lì da noi, toccava al
montagnolo, che era un pezzo di salsic­
cione alto e grosso e lui era tutto conten­
to, perché lo stimavamo. ‘Il birro’, messo
156
tutto contento che lo stimàmma.
’Sto birro coprìa tutto ’l cavallétto,
messo a spiòe’: l’aqua sbisciàa via
quanno pioìa.
Po’ se fèra anca le barchétte (mi’
sòcero le chiamàa le ‘coàde’), ch’èra
fatte coscì: tre file de còi su dritti,
tre per tre messi dal paro, se tenìa
uno coll’altro; la fila de mezzo dovìa
èsse’ messa ben dritta, ’mpostàda
be’, allora ’n se sfasciàa. ’Gni barchetta era fatta co’ 70-80 còi, perché
dobo se ne mettia n’antre du’ file
sopra: ’na fila voltàda co’ le teste da
’na parte, la segónda fila da n’antra.
Se ne podìa fa’ tre file; lì ’l birro non
ce volìa, scinó la fila sopra era tanti
birri e dobo fèra a cagnàra! Io scherso. Solo che, quanno se fèra ’ste barchétte, toccàa a careggiàlli ’mbelpo’
’sti còi, perché era rade, n’era como
i cavalletti che i còi erane poghi e
venìa i mucchi più fitti: se fadigàa
de meno.
a spiovente, copriva tutto il ‘cavalletto’:
quando pioveva, l’acqua scivolava via.
Poi si facevano anche le ‘barchette’ (mio
suocero le chiamava le ‘covate’), che
erano fatte così: tre file di covoni su
dritti, tre per tre messi pari: si sostene­
vano l’uno con l’altro. La fila di mezzo
doveva essere messa ben dritta, impo­
stata bene, allora non si sfasciava la
“barchetta”. Ogni barchetta era fatta con
70-80 covoni, perché dopo (la prima) se
ne mettevano altre due file sopra: una
fila rivoltata con le spighe da una parte,
la seconda fila da un’altra. Si potevano
fare tre file; lì ‘il birro’ non ci voleva, se
no la fila di sopra sarebbe stata compo­
sta da tanti ‘birri’, che dopo facevano a
cagnara! Io scherzo, ma solo che, quan­
do si facevano queste ‘barchette’, toccava
trasportarli molto questi covoni, perché
le ‘barchette’ erano rade, non erano come
i ‘cavalletti’ che avevano pochi covoni, i
mucchi venivano più fitti e si faticava
di meno.
Sette otto giorni prima che
venìa la màghina da batte’ ’nté ’n
casa se piàa vacche e biroccio e se
comensàa a ’rdunà’, se portàa ’sti
Sette otto giorni prima che venisse
la trebbiatrice in casa, si prendeva­
no vacche e biroccio e si cominciava a
radunare, si portavano questi covoni
157
còi ’ntéll’ara ben pulìda, preparàda
al giorno prima: se levàa l’erbàccia,
i sassi col sappétto e ’l rastèllo.
Carcàmma nigò ’nté la cariòla e
se portàa via: l’erbaccia quann’era
secca se bruciàa e i sassi se buttàa
’nté le strade de tèra.
Su ’sto biroccio ce se comedàa
anca cinquanta còi: uno comedàa
sul biroccio e ’n’antro buttàa su ’sti
còi col forcó’; ’sti laóri era uguale tanto pe’ l’òmo che la donna.
Tutti ’sti còi era ben messi a scala
sul biròccio, non se podìa guzzà’ ’l
biroccio, perché toccàa a legàlli. ’L
biroccio dovìa traersà’ l’aquaréccio,
’ndó se fèra de somènti pe’ fa’ cùre’
l’aqua, cave, scadafòssi, como i volémo chiamà’. Allora ’l càrco se podìa
’rbaltà’, toccàa a legà’ col cànnipo
dal timó’, ’ndó c’era du’ campanèlle,
al mulinèllo de drèdo.
Passàa sopra a ’sti còi du’ cànnipi
granni e se tiràa finànta al mulinello,
’ndó c’era ’na rodèlla fatta a ’ngranaggio e con du’ ferri lónghi che era
sistemàdi co’ le cadéne e anelli che
servìa pe’ tirà’ più forte ’l cànnipo.
C’è chi i chiamàa ‘torcolacci’, torcoladóri, che se ’nfilàa ’nté ’l mulinèllo,
’ndó c’era quattro bughi per parte,
e du’ persone ribùste tiràa forte più
che podìa finànta che venìa, ’mpo’
era ’no sfòrso grosso, ma coscì ’l
biroccio, carcàdo alto, sbandàa pogo
’nté i scadafòssi, solchi, aquarécci,
che se chiudìa con sei sette vangàde,
scinónca, pe’ no’ fadigà’ a roprìlle,
ce se mettìa du’ tre fascine de cam-
nell’aia ben pulita, preparata il giorno
prima: si levava l’erbaccia, i sassi con
la zappetta e il rastrello. Caricavamo
tutto quanto nella carriola e si portava
via: l’erbaccia si bruciava quando era
secca e i sassi si buttavano nelle strade
di terra.
Sul biroccio si sistemavano anche
cinquanta covoni: uno sistemava sul
biroccio e un altro buttava su i covo­
ni con il forcone: questi lavori erano
uguali tanto per l’uomo quanto per la
donna. Tutti questi covoni erano messi
a scala sul biroccio, però non si pote­
va aguzzare il carico, perché toccava
legarlo. Il biroccio doveva attraversare i
solchi di scolo, ‘cave’, ‘scadafossi’, come
li vogliamo chiamare, che si facevano
durante la semina per far scorrere l’ac­
qua. Allora il carico si poteva ribaltare,
toccava a legarlo col canapo dal timone,
dove c’erano due anelli, al mulinello di
dietro. Passavano sopra questi covo­
ni due canapi grossi e si tirava fino
al mulinello, dove c’erano una rotella,
fatta ad ingranaggio, e due ferri lunghi
che erano sistemati con catene e anel­
li e che servivano per tirare più forte i
canapi. C’è chi li chiamava “torcolàcci”,
‘torcoladóri”, i quali si infilavano nel
mulinello, dove c’erano quattro buchi
per parte. Due persone robuste tirava­
no il più forte possibile finché (il cana­
po) veniva; era uno sforzo grosso, ma
così il biroccio, caricato alto, sbandava
poco nei ‘scadafossi’, solchi, ‘aquaréc­
ci’. Questi venivano chiusi con sei sette
vangate, se no, per non faticare poi ad
aprirli, ci si mettevano tre fascine di
158
bolù’ per ròda del biroccio, coscì
sconcassàa meno ’l biroccio e non
se ’rbaltàa.
Chi n’era prudenti de fa’ luscì
succedìa arbaltàsse ’sto biròccio;
oltra che se sgranàa tanto gra’, sci
era la tèra piana gèra be’, ma sci
era su pe’ ’na costa, anca d’in giù,
succedìa i guai: se podìa strozzà’ ’na
vacca, ’n bua, che buttàa via ’l giógo,
per cuésto se portàa drìa ’n cortèllo
pe’ tajà’ la corda delle taèlle che passàa sotta la gola della bestia, anca ’l
caézzó’, pe’ liberàlla. Anca sci buttàa
via ’l giógo, ié spizzicàa ’nté ’l collo e
se ’ncollàa – se dicìa coscì – e dobo
la bestia finànta che ’n s’era guarìda
non se podìa taccà’ per ’mbelpo’ de
tempo.
Cuésto ’l pô sapé’ uno che ha fatto
’l contadì’, scinónca ce vorrìa tutti
disegni fatti da n‘aspèrto, pe’ fàvve
capì’ como era fatto nigò. Pôretta
a me!, volerìa fa’! ’Nté ’l cervèllo
e ’ntéll’occhi ce l’averìa, ma dobo,
quanno vô a disegnà’ co’ làbbise non
me vène be’. Como ho da fa’? Ve
farò véde’ ’l barcó’ ’ntéll’ara. Sotta se
fèra ’n cerchio granno, tónno, ovale,
guadràdo, como uno piacìa de più
e como c’era ’l posto per métte’ la
màghina da bàtte’, e po’ se rimpìa de
mezzo e se gèra sempre su ’mpo’ più
stretto, fatto be’; chi ce tenìa era ’n
capolaóro.
Sci c’era cuàlche còo ’mpo’ spostàdo , co’ la tàola del biroccio, cuélla de drèdo, che se manéggia mejo,
menàa ’nté ’l culo dei còi: dev’èsse’
‘gamboloni’ per ogni ruota del biroccio,
così il biroccio sconquassava meno e
non ribaltava. A quelli che non erano
prudenti di fare così succedeva che il
biroccio si ribaltava: oltre che si sgra­
nava tanto grano, se il terreno era pia­
neggiante, andava bene, ma se si tro­
vava su per una salita, anche d’in giù,
succedevano i guai: si poteva strozzare
una vacca, un bue che buttava via il
giogo. Per questo si portava dietro un
coltello per tagliare la corda delle golette
che passava sotto la gola della bestia;
(si tagliava) anche il cavezzone per
liberarla. Anche se (la bestia) buttava
via il giogo, si feriva nel collo e se ‘’ncol­
làa’ – si diceva così – ( si gonfiava) e
dopo la bestia, finché non era guarita,
non poteva essere aggiogata per molto
tempo.
Questo lo può sapere uno che ha
fatto il contadino, se no ci vorrebbero
tutti disegni fatti da un esperto, per
farvi capire come era fatto tutto quan­
to. Poveretta me! Nel cervello e negli
occhi ce l’avrei, ma dopo, quando vado
a disegnare col lapis non mi viene bene.
Come devo fare? Vi farò vedere il bar­
cone nell’aia. Sotto si faceva un cerchio
grande, tondo, ovale, quadrato, come a
uno piaceva di più e come c’era il posto
per mettere la trebbiatrice, e poi si riem­
piva in mezzo e si andava sempre su un
po’ più stretto, fatto bene: chi ci teneva
faceva un capolavoro.
Se c’era qualche covone un po’ spo­
stato, con la tavola del biroccio, quella
di dietro che si maneggiava meglio,
menava nel culo dei covi: dovevano
159
stati tutti pari como ’n muro, le spighe tutte drendo, coscì ’n’aquàda ’na
sgrandinàda era salve.
essere stati tutti pari come un muro, le
spighe tutte in dentro, così erano salve
da un’acquata, una grandinata.
Toccàa a bàtte’ presto scinó era
perigolósi ’sti barcù ’ntéll’ara: ’l temporale, cuàlche fùlmino, quanno ’na
faméja era sott’occhio cualchidù’ ié
Toccava trebbiare presto se no erano
pericolosi questi barconi nell’aia: il tem­
porale, qualche fulmine, un dispetto di
notte, se la famiglia era (presa) sott’oc­
160
La mietitura: donne e bambini affaccendati con le “pegorèlle”. Anni ’30 (coll. Luigi Vittorio Ferraris).
La mietitura: breve sosta. Anno 1938 circa. (Coll. Luigi Vittorio Ferraris).
161
Mietitura presso la colonia Pandolfi Vincenzo di Pianello di Ostra. Da sinistra: Pandolfi Vincenzo,
Reginelli Elvio, Pandolfi Graziella, Pandolfi Mario, Conti Sara, Amici Rosa. Anno 1958 circa (coll.
Gabriele Balducci).
Mietitura 1958 circa a Pianello di Ostra. Da sinistra: Rosa Amici, Riccardo Rocchetti, Luigi Amici,
Pandolfi Pasquina con Elvio Reginelli, Sara Conti, Vanda Amici, un bevitore, Latino Pandolfi, che “códa
la falce fenàra”. (coll. Gabriele Balducci).
162
fèra ’n dispetto de notte. Podìa anca
pïà’ fôgo, se stèra tènti anca i monelli coi fulminànti, cualchidù’ che
fumàa, se stèra all’erta cuéi giorni.
C’era chi de notte ’l curàa, perché
era tutta lì la risorsa del contadì’: ’l
gra’ e le bestie.
Alla fì’ che ’sto barcó’ era guzzo,
ce se ’nfilsàa le croce, como ve l’ho
ditto ’n’antra ò, cuélle che se piantàa
’l 3 de maggio giùppe i campi, ’l giorno de Santa Croce.
chio da qualcuno. (Il barcone) poteva
anche prender fuoco, si stava attenti
anche ai monelli con i fiammiferi, a
qualcuno che fumava, si stava all’erta
in quei giorni. C’era chi lo curava di
notte, perché era tutta lì la risorsa del
contadino: il grano, e le bestie.
Alla fine questo barcone era aguzzo,
ci si infilzavano le croci, come vi ho
detto un’altra volta, quelle che si pianta­
vano per i campi il 3 maggio, il giorno
di Santa Croce.
Le battidùre
Le battidùre
Quanno se gèra a bàtte’, toccàa
alsàsse anca le tre della notte; se
sentìa a sonà’ la séréna la prima vo’,
’ntanto mettìa a modo ’l mudóre,
c’era ’l Landìni che gèra avanti a
testa càlla, ce volìa ’l fôgo sotta per
fàllo partì’. Dobo, quanno comensàa a batte’, sonàa du’ ’olte ’na seréna (parìa como la Croce Roscia!):
cuélle era l’avviso per cuélli da
lóngo.
’Ntànto s’era scallàdo ’l mudóre,
cominciàa a girà’ anca la trébbia e
po’, pian piano, partìa anca ’l leadóre, cuéllo della paja; la pula se tiràa
fòri da sotta la trebbia: c’era uno
che fèra ’l pularòlo e tre quattro
donne e monèlli a spégne’ via co’ lo
rastello, uno sul pajàro della pula.
C’era chi cìa ’l pulàro, chiuso
tónno tónno co’ la cannucciaja che
se tajàa giù ’l fiume. La pula coscì ’n
Quando si andava a trebbiare, biso­
gnava alzarsi anche alle tre di notte; si
sentiva suonare la sirena la prima volta,
intanto mettevano in moto il motore,
c’era il Landini che girava a testa calda,
ci voleva il fuoco sotto per farlo partire.
Dopo, quando si cominciava a trebbiare,
la sirena suonava due volte (sembrava
quella della Croce Rossa!): era l’avviso
per quelli che stavano lontani.
Intanto s’era scaldato il motore,
cominciava a girare anche la trebbia e
poi, pian piano, partiva anche l’elevato­
re, quello della paglia; la pula si tirava
fuori da sotto la trebbia: c’era uno che
faceva il ‘pularolo’ e tre quattro donne e
i monelli a spingerla via con il rastrello,
uno sul pagliaio della pula. Qual­cuno
aveva il ‘pularo’ chiuso tutt’intorno con
la cannucciaia che si tagliava giù al
fiume. La pula così non si disperdeva
col vento, per l’inverno era una risorsa
163
se sciammennàa col vento, pe’ l’inverno era ’na risórsa pe’ le bestie:
se mischiàa col granturchetto, ’l
faìno, sènnipa, rape. ’Ste robbe se
piantàa l’ultime settimane d’agósto
che fèra cuéi accuazzù’: se piantàa
a raggio co’ le ma’ como quanno se
sciammennàa ’l concìme.
Sci pioìa, nascìa fitta ’sta verdùra
e se fèra; quanno era ora venìa alto
anca du’ medri tanto ’l faì’ che ’l
granturchétto. Se fèra vèro febbràro
e marso; sci non fèra tanta néve o
gelàde venìa bella muntubè’.
Dobo se tridàa co’ la trida a
ma’: era ’n falció grosso la fattézza
como le falcette che se medìa ’l
gra’, sopra a legno nèrto con tajo
grosso ’nté ’l mezzo. E lì se mettìa
’na bracciàda de ’st’erba e se spezzàa lónga ’n palmo, co’ ’na civiéra
de pula: fèra como ’na condidèlla,
col forcó’ se mischiàa bembè’ e le
vacche s’arcoràa. Era radi chi cìa
la tridaforaggi. Cuélla a ma’ più o
meno era fatta coscì
per le bestie: si mischiava con il gran­
turchetto, il favino, la senape, le rape.
Questi foraggi si piantavano le ulti­
me settimane d’agosto quando faceva
quei grossi acquazzoni: si piantavano
a raggiera con le mani come quando si
spargeva il concime. Se pioveva, questa
verdura nasceva fitta e cresceva bene;
quando era ora veniva alta anche due
metri tanto il favino quanto il gran­
turchetto. Si tagliava verso febbraio e
marzo; se non faceva tanta neve o gelate
questa roba cresceva molto bella. Dopo
si tritava con la trita a mano: era un
falcione grosso e della stessa forma delle
falci con cui si mieteva il grano, fissato
ad un legno spesso con un taglio grosso
in mezzo. Lì si metteva una bracciata di
quest’erba e si spezzava lunga un palmo
e la si mischiava con una ‘civiera’ di
pula: si faceva come una conditella. Si
mischiava perbene con il forcone e le
vacche se la godevano. Erano rari quel­
li che avevano la tritaforaggi. Quella a
mano era fatta così:
164
165
’Ste maghine del gra’
Queste macchine del grano
Adè ve fô véde’ como me le ’rcòrdo io ’ste maghine del gra’. È ’n disegno ridìgolo! Ce volerìa ’l quaderno
del disegno, làbbise, i colori ’mpo’
bembè e più de nigò... il sopramànnigo ché cuéllo che ’dopro io non
funsióna be’! Le ma’ trema; ’na ò ,
quanno coloràa non c’era ’no sbaffo de fòra, i disegni fatti be’ ce li
mannàa all’isposizió’ a Roma. Anca
i dettati sensa sbai li mannàa a
Roma.
Adesso vi faccio vedere come mi
ricordo io queste macchine per trebbia­
re il grano. È un disegno un po’ ridico­
lo! Ci vorrebbe il quaderno di disegno,
il lapis, i colori un po’ perbene e più di
tutto… il ‘soprammanico’, perché quello
che uso io non funziona bene! Le mani
tremano; una volta, quando coloravo,
non c’era uno sbaffo di fuori: i disegni
fatti bene ce li mandava all’esposizio­
ne a Roma. Anche i dettati corretti li
inviavano a Roma.
166
Cuélla ò ’nté le pagelle se pïàa
insuficente, sufficente, lodevole, e
bòno. Io no’ pe’ lodàmme, ma i
vódi era i mijóri. Non guardàde
adè’: metto du’ consonanti ’ndó ce
ne vôle una sola, ne metto una
’ndó ce ne vôle due. ’Mpo’ anca a
scrìve’ non è fàciole! Tante le ò se
dice: “Uno ’mpo’ ruzzo scrive como
parla! Ma que vôi pretènde’? Tre
classe solo e po’ è 69 anni che non
vô più a scòla!
Quella volta nelle pagelle si prende­
va insufficiente, sufficiente, lodevole e
buono. Non per lodarmi, ma i miei voti
erano i migliori. Non guardate adesso:
metto due consonanti dove ce ne vuole
una sola, ne scrivo una dove ce ne
vogliono due. Un po’ che anche a scri­
vere non è facile! Talvolta si dice di uno
un po’ rozzo: “Scrive come parla!” Ma
cosa vuoi pretendere? Tre classi e poi
dopo più di settant’anni che non vado
più a scuola!
Le scannafojadùre
La scartocciatura
De scannafojadure fèmma insieme coi vicinàdi; prima se scannafojàa, po’ se magnàa cuélli che avìa
scannafojaàdo e dobo se ballàa
scalsi con cuéi panni pîni de pólvera.
Chi nìa voja de fadigà’ stèra
piattadi drédo i pajàri, drédo le
fratte. Più che altro era gioventù
che non se volìa sporcà’, ma dobo
mango a magnà’ non se invidàa.
Scappàa fòra quanno sentìa a
sonà’ l’organetto, erane belli pulidi, ma noà c’émma la trippa pîna e
loro vôdia. Cuélla vo’ ’na magnàda
era gradìda più d’adè’, perché non
capidàa tanto spesso.
A cuéi tempi, quanno ’rivàa ’na
festa, se gèra anca a trovà’ i parenti
per magnà’ ’mpezzo de carne e du’
maccarù’ tutt’ovo.
Si faceva la scartocciatura (del gran­
turco) insieme con i vicini; prima si
scartocciava, poi mangiavano quelli che
avevano scartocciato e alla fine si balla­
va scalzi con quei vestiti pieni di polvere.
Quelli che non avevano voglia di lavorare
stavano nascosti dietro i pagliai, dietro
le fratte. Più che altro erano giovani che
non si volevano sporcare, ma dopo non
erano invitati neppure a mangiare.
Uscivano fuori quando sentivano
suonare l’organetto, erano belli puliti,
ma noi avevamo la pancia piena e loro
vuota. Quella volta una mangiata era
gradita più di adesso, perché non capi­
tava tanto spesso. A quei tempi, quando
capitava una festa, si andava anche a
trovare i parenti per mangiare un pezzo
di carne e due maccheroni fatti con le
sole uova (e farina, senza aggiunta di
acqua).
167
Beccùde, schérsi e balle
‘Biccude’, scherzi e frottole
La pôra mamma ’rcontàa che lóra
d’inverno stèra su a filà’ e l’òmmini
chi fèra la sgàrza, chi capàa ’l véngo,
chi fèra le breghe de canna pe’ fa’ le
canè’, i canestrèlli. Questo anca al
tempo mia l’òmmini fèra cualchicò
e, sci proprio ìa finìdo nigò, giogàa
a carte o gèrene al letto prima delle
donne.
Sapéde que fèra le donne quanno armanìa sole? Fèra la beccùda:
’mpastàa la farina de granturco con
l’aqua e sale e po’ la cocìa. Mettìa ’na
brancia de càoli sotta, ’ndó ìa leàdo
la bràcia del fôgo (l’aròla era ’nfogàda), sopra ce poggiàa ’sta specie
de créscia, sopra ci’armettìa ’n’antra
brància de càolo e po’ la coprìa co’ la
bràcia. La pôra mamma dicia ch’era
bòna muntubè, ma ’na vo’ i’è venudo
scupèrto.
C’era ’l fradèllo che ìa magnàdo
la fòja, stèra a senti’ drèdo la porta,
e se vedìa ancó’ perché le porte
era tutte scassàde, ce passàa anca
i gatti. Allora co’è che ha fatto? È
gìdo’ntórno al fôgo, col di’ ch’era
gìdo al letto e no’ ié s’era scallàdi i
pìa; ha pïàdo la paletta, ha començado a sappà’ ’nté ’sta bràcia, ié l’ha
spezzàda tutta. Cuélle donne, anca
mamma (èrane tre sorelle e tre fradèlli – sei fjòli, tutti co’ la fame!) ié
dice: “Ma que fai? o matto!” “Ah scì!
Noà gìmo al letto e vuà magnàde?
Brutte ruffiane, non se fa coscì!” Ié
lìa ’ncenneràda tutta.
La povera mamma raccontava che
loro d’inverno rimanevano alzati per
filare e gli uomini chi faceva la ‘sgar­
za’, chi sbucciava il vimini, chi faceva
le strisce di canna per intrecciare le
canestre, i canestrini. Anche al tempo
mio gli uomini facevano qualcosa e, se
proprio avevano finito tutto, giocavano
a carte o andavano a letto prima delle
donne.
Sapete che cosa facevano le donne
quando rimanevano sole? Cuocevano
la ‘biccùda’: impastavano la farina di
granturco con acqua e sale e poi la cuo­
cevano. Mettevano una foglia di cavolo
sotto, dove avevano levato la brace (l’
‘aròla’ era infuocata), sopra ci posa­
vano quella specie di crescia e sopra
ancora un’altra foglia di cavolo e poi
la coprivano con la brace. La povera
mama diceva che era molto buona, ma
una volta sono state scoperte.
Un fratello aveva mangiato la foglia,
stava a sentire dietro la porta, e si
vedeva pure perché le porte erano tutte
malmesse, ci passavano anche i gatti.
Allora che cosa ha fatto? È andato vici­
no al fuoco con il dire che era andato a
letto e non gli si erano scaldati i piedi;
ha preso la paletta, ha cominciato a
zappare in quella brace e gli ha spezza­
to tutta la ‘biccùda’. Quelle donne, anche
mamma (erano tre sorelle e tre fratelli
– sei figli, tutti con la fame!) gli dico­
no: “Ma che fai? O matto!” “Ah sì, Noi
andiamo a letto e voi mangiate? Brutte
ruffiane, non si fa così!” Gliel’aveva
168
’N’antra ò mamma ìa messo ’l
callàro co’ l’aqua sul cadenàccio,
’n so sci cocìa le péra, le padàde…
boh! Vène oltra uno de ’sti fradèlli
che se magenàa de cualchicò’, lèà ’l
cupèrchio del callàro e dice: “Que ce
fàde la rànna pe’ lavà’? Toh, ce butto
’sti calsétti, ch’è quindici giorni che
li porto!” C’era da rìde’? Le mattidà
c’è stade sempre, ma se gèra anca
d’accòrdo, perché c’èra i genidóri
severi, ma bòni.
Allora ’na ò ’nté ’n casa ce gèra ’l
sartóre, lo spelanghìno, ’l barbiére,
’l maniscalco a tajà’ l’ógna e ferà’
le bestie da laóro, la sarta, la rigamadrìge, ’l calsolàro e, mentre lóra
stèra in casa a laórà’ ié se dèra anca
da magnà’, più che parte padàde,
cipolla e pomidori, fòje e ligùmi. ’N
calsolàro, mentre’rconciàa le scarpe,
alsa l’occhi: ’taccàda su vicino al
camì’ ’nté ’mbecchedèllo c’era ’mpèzzo de códiga. ’Ntórno al fôgo c’era
la pigna dei fasciòli che bollichiàa.
’L calsolàro pïa ’sto pezzo de códiga
e la butta drendo ’n tra i fasciòli.
Era solo, pensàa: “Cuèsti oggi è più
bòni!”
Arìa ’na vecchietta, guardàa,
cercàa… ’L calsolàro ié fa: “Que
cercàde, nonna?” “Ah, c’era lìtta
’mpèzzo de códiga,’nté ’sto barbacà’,
becchedèllo, que volémo di’! Non la
vedo! Stèra chìtta al càllo… Ce ognìa
le moròighe tutte le madìne”. Cuéllo
ié fa: “L’averà magnàda ’l gatto!”
“Macché, era più de du’ mesi che la
’dopràa!”
sporcata tutta di cenere!
Un’altra volta mamma aveva messo
il caldaio coll’acqua sul catenaccio: non
so se cuoceva le pere, le patate… boh!
Si avvicina, uscendo dalla camera, uno
dei fratelli che si immaginava qualco­
sa, toglie il coperchio e dice: “Che fate
il ranno per lavare? Toh, ci butto queste
calze, perché sono quindici giorni che
le porto!” C’era da ridere? Le pazzie ci
sono sempre state, ma si andava anche
d’accordo, perché c’erano i genitori
severi, ma buoni.
Una volta nelle case ci andavano il
sarto, il conciabrocche, il barbiere, il
maniscalco a tagliare l’unghia e a fer­
rare le bestie da lavoro, la sarta, la rica­
matrice, il calzolaio e, mentre questi
stavano in casa a lavorare, gli si dava
anche da mangiare, per lo più patate,
cipolle e pomodori, foglie e legumi. Un
calzolaio, mentre cuce le scarpe, alza
gli occhi: appesa su in alto vicino al
camino, su un gancio c’era un pezzo di
cotica. Intorno al fuoco c’era la pignatta
dei fagioli che bollicchiava. Il calzolaio
prende quel pezzo di cotica e la butta
dentro tra i fagioli. Era solo, pensava:
“Questi oggi sono più buoni!”
Arriva una vecchietta, guardava,
cercava… Il calzolaio le fa: “Che cercate,
nonna?” “Ah, c’era lì un pezzo di cotica,
in questo barbacane, gancio… come lo
vogliamo chiamare! Non la vedo! Stava
qui al caldo… Ci ungevo le emorroidi
tutte le mattine”. Quello le fa: L’avrà
mangiata il gatto!” “Macché, erano più
di due mesi che la usavo!”
Quel calzolaio non vi è rimasto fino
169
’Sto calsolàro non c’è ’rmàsto
finànta a mezzogiorno, ha troàdo ’na
scusa, c’è ’rnùdo ’n’antro giorno. Ma
quante ne succedìa ’na ò! Sarà stàdo
cuell’ànno che se soffiàa ’l naso coi
mezzi madù’? Cuèsto pure se dicéa,
quanno se’rcontàa ’na balla grossa.
Oppure anca: “Me la vôi da’ da bé?
N’ho séde sa!” Scinó: “Gimo fòra
va, ché questa drendo casa non ce
cape!”
a mezzogiorno, ha trovato una scusa,
c’è ritornato un altro giorno. Ma quante
ne succedevano una volta! Sarà capitato
quell’anno in cui si soffiava il naso con
i mezzi mattoni? Questo pure si diceva
quando si raccontava una frottola gros­
sa. Oppure anche: “Me la vuoi dare da
bere? Non ho sete sa!” Sennò: “Andiamo
fuori va, perché questa dentro casa non
c’entra!”
Como se vanga
Come si vanga
A parlà’ non vàlo gnè, ma a scrìe,
quanno comènso, non finìscio più,
magàra vô ’ndó me porta ’l cervello:
è che la pénna l’ho dopràda como
la vanga. ’Na ò se dicìa, quanno se
gèra a vangà’: “Adè pïàmo la pénna
e gimo a scrìe ’n filó!” E pe’ ’na
settimana sana sempre a vangà’ e
vangà’.
C’era uno che volìa sposà’ a la
fija de ’mpadronàle, allora a ’sto
signorino l’ha messo alla pròa. L’ha
messo a vangà’ con bòllide che non
ci’arescìa nisciù’. Uno che ié volìa
be’ i’hà ditto piano: “Sci vôi rèscì’
con esso, tacca pogo e caccia spesso!” E luscì ha fatto: ci’ha rèsciùdo e
l’ha sposàda!
È vero? ’Ncó’ è vivi chi l’arcónta,
que ne so! Ce l’hanne ’rcontàdo,
perché sci uno vanga e tacca grosso, pare che càcci più de rado, ma
’rmàne la terra pe’ la prima sbrozzolósa, l’erba non s’ammànta e ’nté le
A parlare non valgo niente, ma a
scrivere, quando comincio, non finisco
più, magari vado dove mi porta il cer­
vello: il fatto è che la penna l’ho adope­
rata come la vanga. Una volta si diceva,
quando si andava a vangare: “Adesso
prendiamo la penna e andiamo a scri­
vere un filare!” E per una settimana
intera sempre a vangare e vangare.
C’era uno che voleva sposare la figlia
di un proprietario, allora questo signo­
rino l’ha messo alla prova. L’ha messo
a vangare con un ‘bolide’, con il quale
non ci riusciva nessuno. Uno che gli
voleva bene gli ha detto piano: “Se vuoi
riuscirci con lui, intacca poco e caccia
spesso”. Così ha fatto: c’è riuscito e l’ha
sposata!
È vero? Ancora son vivi quelli che lo
raccontano, che cosa ne so! Ce l’hanno
raccontato, perché se uno vanga e intac­
ca grosso, pare che tiri fuori più di rado,
ma la terra rimane per la prima grossa,
l’erba non si copre e nelle viti rimango­
170
vìde armàne i vòdi, bocca giù ’l sole,
‘nsómma ci’arcàccia l’erba. E dobo
’l padró te ’l dicìa che non va be’.
L’erba dentórno alla vide dovésci gi’ a scarpìlla co’ le ma’ e ’n tra
cuélla terra dura te venìa le scar­
pirèlle ’nté l’ógna e ce venìa fàciole
i giradédi, che alla fì’ non se guarìa,
cascàa anca l’ógna, ansi è como adè’
che anca chi fadìga ’nté la tèrra, l’ortolà’ ci’hànne i guànti, gné se roìna
le ma’, se dànne anca la vernìge ’nté
l’ógna, pìane anca le vidamìne, sci
casca i capìi e sci se spèzza l’ógna
è segno che ha bisogno de rinforsàsse, mango scalzi non ce va più
nisciù’, non ié pïa scigùro i giradédi
e segadédi.
no i vuoti, vi entra il sole, insomma ci
rinasce l’erba. E dopo il padrone ti dice­
va che non andava bene. Dovevi andare
a carpirla con le mani l’erba dintorno
alle viti e tra quella terra dura ti veniva­
no le scarpirèlle nell’unghia e venivano
facilmente i giraditi, che alla fine non
si guarivano, cascava anche l’unghia,
anzi è come adesso che anche chi fatica
nella terra, l’ortolano, ha i guanti, non
gli si rovinano le mani, si danno anche
lo smalto nell’unghia, prendono anche
le vitamine, se gli cascano i capelli o
se si spezzano le unghie è segno che ha
bisogno di rinforzarsi, nemmeno scalzi
ci va più nessuno, non gli prendono di
sicuro i giraditi e i segaditi.
Como ce curàa ’sti genidóri
Come ci curavano i genitori
A noà, quanno ce pïàa i giradédi,
ce fèra métte’ ’n filo de lana, legà’ ’l
dédo e, quanno venìa fòra ’mbernòccolo, ce ’l legàa con filo de séda e a
pogo a pogo cascàa. Ma cuélla roba
lì non fa più, io ci’ho fatto la pròa,
ma ho da gi’ a bruciàllo dal dermatologo.
Anca quanno c’era le bugànse, sci
c’era la neve se gèra scalsi ’n tra la
neve, scindó ’na ciangàda, giumèlla,
gèmena, manciàda como la volémo
chiamà’, de sembola la buttàmma
’nté i carbù’ ’cési e lì se mettìa ’l
calcàgno vicino, cuél fume fèra be’
pe’ le bugànse, scindó anca il fume
de le brance de noce, ma sci vô fa’
Quando ci prendevano i giraditi, ci
facevano mettere un filo di lana, legare
il dito e, quando veniva fuori un ber­
noccolo, ce lo legavano con un filo di
seta e a poco a poco cadeva. Ma quel­
la roba lì non fa più, io ci ho fatto la
prova, ma devo andare a bruciarlo dal
dermatologo.
Anche quando c’erano i geloni, se
c’era la neve si andava scalzi tra la
neve, sennó un pugnello, una giumel­
la, una manciata, come la vogliamo
chiamare, di semola la buttavamo sui
carboni accesi e lì si metteva il tallone
vicino, quel fumo faceva bene ai geloni,
sennó anche il fumo delle foglie di noce,
ma se vuoi far tribolare una persona,
171
tribbolà’a ’na persona, la sentènsa
brutta “che te venésse le bugànse
’ntè la léngua o i giràdédi segadèdi”
è a posto. È como la rógna.
Certo che ’na vo’ ce se curàa
’mpo’ a la mèjo, ma tante le ò funsionàa. Quanno c’émma la febbre,
’sti genidori tenìa ’na pìndola (se
pïàa sfuse da lo spiziàle), anca ’na
candelétta, o scinó confettini cannellì’, e còscì passàa la febbre.
Cualchidù’ gèra dallo spiziale,
tiràa ’l prezzo: “Sci me ’l dai per
tanto, be’, scinó non ne ’l posso pïà’”.
Argèra via sensa gnè, prò ne morìa
muntibe’ più d’adè’. Pe’ ’n dolor de
testa c’era ’n cascè: se partìa a pìa
per gìllo a comprà’, non c’era la
cassetta del prònto soccorso como
c’ènne adè’. Se se pïàa ’l tèdeno se
morìa, le donne partorìa a casa, non
c’era la pulizia ’nté le case dei contadì’, ce boccàa l’infezió’. Dobo, già
al tempo mia, fèra bóje’ l’acqua ’nté
’l callàro e drendo ce mettìa ’n fiasco sènsa sgàrza,’l fèra bóje’n’orétta: coscì ’st’aqua era sterilizzàda.
Non c’era i guanti, pe’ disinfettà’
le ma’ c’era ’l ‘supplimàdo’; ’nté ’l
bellighétto del monello ce mettìa 10
soldi: ’sta monedìna ne ’l so a que
servìa, ’l seccàa. Dobo ’l bellighetto
se sotterràa, ma cuél fjòlo non dovìa
artrovàllo mae, scinó se dicìa ch’èra
scarognàdo.
Sci ìsci ’l rafreddore, te mettìa
alla sera, prima de ’ndormentàtte,
’na sacchetta de cénnera ’nfôgada
sopra allo stòmigo; tante le ô c’era
anca ’n carbó’, cuàlca luda, podém-
un’imprecazione brutta “che te venisse­
ro i geloni sulla lingua o i giraditi o i
segaditi” è a posto. È come la rogna.
Certo che una volta ci si curava un
po’ alla meglio, ma talvolta funzionava.
Quando avevamo la febbre, i genitori
avevano una pillola (si acquistavano
sfuse dallo speziale), anche una cande­
letta, sennò i confettini ‘cannellì’, e così
la febbre passava.
Qualcuno andava dallo speziale,
tirava sul prezzo: “ Se me lo dà per
tanto, bene, sennò non lo posso pren­
dere” Andava via senza niente, però ne
morivano molti di più di adesso. Per il
mal di testa c’era un cachet: si partiva a
piedi per andarlo a prendere, non c’era
la cassetta del pronto soccorso come
adesso. Se si prendeva il tetano, si mori­
va, le donne partorivano in casa, non
c’era la pulizia nelle case dei contadini,
c’entrava l’infezione. In seguito, già al
tempo mio, si faceva bollire l’acqua, per
un’oretta, nel caldaio e dentro ci si met­
teva un fiasco senza sala: così l’acqua
del fiasco era sterilizzata. Non c’erano
guanti, per disinfettare le mani c’era il
sublimato corrosivo; nell’ombelico del
neonato ci si mettevano dieci soldi: non
so a cosa servisse questa monetina, lo
seccava. Dopo l’ombelico si sotterrava,
ma quel figlio non doveva più ritrovar­
lo, sennò si diceva che era sfortunato.
Se avevi il raffreddore, ti si mette­
va di sera, prima che ti addormentassi,
un sacchetto di cenere infuocata sopra
lo stomaco; talvolta c’era anche qual­
che pezzetto di brace, avremmo potuto
anche prender fuoco… adesso scherzo,
172
ma anca pïà’ fôgo... adè’ scherso,
però è vero! Sgaggiàmma sci scottàa.
Cuélli più granni mettìa a bóje’
’na pigna de vi’ e po’ ce mettìa anca
’na bella presòtta de pepe. Gèréne a
letto mezzi brilli, alla madina già se
stèra mejo, anca noà monelli. Prò al
vi’ ié dèra fôgo.
Sci te dolìa la trippa, mettìa su
’n tiscellétto d’aqua, ce buttàa ’mpo’
de cuéll’orzo che bruscàmma da per
nòà, ’l macenàa ’nté ’l macenetto:
venìa quattro pacche ’nté ’n aceno.
E lì era ’l caffè co’ ’na cucchiaràda
de succhero e se passàa i dolori. Io
tante le ô ’l dicìa anca sci non me
dolìa, per be’ ’n goccio d’aqua ténta e
dolce, scinó ’l caffè se bevìa solo ’nté
cuéll’occasione lì.
E po’ quanno fumma giùppe ’l
campo scalsi, benànca c’èmma le
piante dei pìa dure come le solette
delle scarpe, ogni tanto te piccàa
cualchicò como stoppole del gra’,
della spagna che sarìa l’erba medica,
’l trafòjo, la lupinèlla che co’ la falce
fenàra era tajàde a sfecchia e te se
’nfilsàa como l’aghi ’ntè i pìa, cuélle
più lónghe te piàa ’nté l’osso pace:
como dèra gusto! Guasci te la fèra
fa’ addosso, po’ ’ndó c’era la bója
ce boccàa l’infezió’, la madèria, che
per mannàlla via ce fèmma impàcchi
co’ l’acqua salàda; sci fusse adè’ toccàa a tajà’ la gamba ché ce bócca ’l
todeno ce se môre ’ncó’. Po’ n’antra
cosa: quanno fumma ’ntèll’edà de
doddici e treddeci anni, su lo sgo­
lùppo no, allora a cualchidù’ ié venìa
però è vero! Gridavamo, se scottava.
Quelli più grandi mettevano a bol­
lire una pignatta di vino e poi ci met­
tevano anche una bella presa di pepe.
Andavano a letto mezzi brilli; alla mat­
tina già si stava meglio, anche noi bam­
bini. Però al vino gli davano fuoco.
Se ti faceva male la pancia, metteva­
no (sul fuoco) un tegamino d’acqua, ci
buttavano un po’ di quell’orzo che bru­
scavamo in casa, lo macinavamo con il
macinino: ogni chicco veniva spaccato
in quattro pezzi. Quello era il caffè con
un cucchiaio di zucchero e i dolori pas­
savano. Io qualche volta lo dicevo anche
se non mi faceva male (la pancia), per
bere quel goccio d’acqua colorata e dolce,
perché il caffè si beveva solo in quell’oc­
casione.
E poi, quando eravamo scalzi per il
campo, benché avessimo le piante dei
piedi dure come le solette delle scarpe,
ogni tanto ti piccava qualcosa come le
stoppie del grano, della ‘spagna’ che
sarebbe l’erba medica, della lupinella
che con la falce fenaia erano tagliate
oblique e ti si infilzavano come gli aghi
nei piedi, quelle più lunghe ti prende­
vano nella caviglia: come dava gusto!
Quasi te la faceva fare addosso, poi
dove c’era la crosta ci entrava l’infezio­
ne, il pus e, per mandarlo via, ci face­
vamo gli impacchi con l’acqua salata;
se fosse adesso toccherebbe tagliare la
gamba, perché ci entra il tetano, ci si
muore pure.
Poi un’altra cosa: quando eravamo
nell’età di dodici e tredici anni, sullo
sviluppo no, allora a qualcuno veniva­
173
i bresciòli grossi como ’na noce,
como è venùdi anca a me, era pîni de
marcia, se fèra madurà’ coi impiàstri
delle nalbe, l’infezió’ dentorno fèra
’na chiazza, e quanno era venùdi a
capo, se bugàa da per lóra, scinó dicìa mamma – “adè’ ’l foràmo, coscì
se guarisce prima”. C’è anca chi ce
mettìa ’l fiore del lardo, lo raschiàa
col cortèllo, e cuél grasso lì ’l fèra
madurà’. ’L dolore finànta che nìa
sfogàdo!! Non c’era calmanti omo
c’è adè’, io ’ncó’ ci’ho i segni. Cuélla
adè’la chiama l’acma giovanile, più
gémo annànse e più se ne sente a
di’, se dicìa ancó’: “Quanno hai preso
marido te va via nigò, dobo s’allatta
se gambia ’l sangue e se sfoga. È
vero!
Sci po’ ci’avésci ’no sfrigio, sapéde
con cuél medigàa? Sci capidàa su
casa ce buttàa un goccio d’ojo ganfì,
cuéllo che se mettìa ’nté la luma per
luminà’; sci capidàa giù pel campo
che fumma sempre scalsi, piccàa ’no
spì’, ’na stóppola, succedìa a tajasse
co’ la falcetta, la falce fenàra, piccàsse col forcó’, tajàsse co’ la sàppa, se
gèra drìa ’na pianta, se fèra la pipì
e se lavàa con cuélla. E sci gèra a
lóngo a guarisse, nonna gèra a còje’
le brance dei rughi, la rapetta, ’n’erba
che se tròa giuppe i fossi. All’inverno
’ste robbe non c’era, era secche,
allora pïàa ’l velo de ’na cipolla e
ce mettìa cuéllo, servìa per non fa’
taccà’ la pezza che ce se legàa sopra.
E giù du’ ’olte al giorno l’aqua bóìda
e salada. Oh, ve dirò: gèra ’mpo’ a
lóngo, ma se ’rguarìa perdéro.
no i foruncoli grossi come una noce,
come sono venuti anche a me, erano
pieni di pus, si facevano maturare
con impiastri di vitalbe, l’infezione
attorno faceva una chiazza e quando
( i foruncoli) erano venuti a matura­
zione si bucavano da soli, sennó - dice­
va mamma - “Adesso lo foriamo, così
guarisce prima”. C’era anche chi ci
metteva il fiore del lardo, lo raschiava
con il coltello, e quel grasso lì lo faceva
maturare. Che dolore finché non aveva
sfogato! Non c’erano calmanti come
adesso, io ancora ho i segni. Quella
adesso la chiamano l’acne giovanile,
più andiamo avanti e più se ne sente
parlare; si diceva ancora: “Quando
hai preso marito, ti va via ogni cosa,
dopo si allatta, si cambia il sangue e si
sfoga”. È vero!
Se poi ti eri procurato un’escoria­
zione, sapete con che cosa la medica­
vano? Se capitava in casa ci buttavano
un goccio d’olio , quello che si mette­
va nel lume per far luce; se capitava
giù per il campo, dove camminavamo
sempre scalzi, piccava uno spino, una
stoppia, capitava di tagliarsi con la
falce, con la falce fenaia, pungersi con
il forcone, tagliarsi con la zappa… si
andava dietro una pianta, si faceva
la pipì e con quella si lavava (la feri­
ta). E se questa ritardava a guarirsi,
nonna andava a cogliere le foglie dei
rovi, la ‘rapetta’, un’erba che si trova
per i fossi. All’inverno queste erbe non
c’erano, perché secche, allora prendeva
il velo di una cipolla e ci metteva quello:
serviva per non far attaccare (alla feri­
174
ta) il pezzetto di stoffa che ci si legava
sopra. E giù due volte al giorno l’acqua
bollita e salata. Oh, vi dirò: andava un
po’ a lungo, ma ci si guariva davvero.
’N c’è mangàda mae la fadìga
Non c’è mancata mai la fatica
’Nté la pozza su casa mia c’era le
ranocchie e ’gni tanto cualchidùna
venìa a galla: scì na’ chiappàsci sul
momento, t’argèra a fónno e n’archiappài più.
Coscì càpida ’nté la testa mia:
quanno me vène pensàda ’na cosa,
la déo di’ sùbbedo, scinó me la scòrdo e chissà quanno ’rtorna a galla!
Adè penso a quanta fadìga émo fatto
’nté la vida e non podìsci riclamà’
quella vo’, toccàa a sta’ lì col culo!
Sci c’è ’na cosa che ’n ce mangàa
mae ’na ò, ma a di’ la veredà anca
adè, è propio la fadìga.
’Sti genitori nostri volìa che ’mparasci a fa’ nigò. Presempio all’inverno, quanno ce se podìa ’rposà’ ’n
boccó’, oltra de l’ago, l’uncinetto,
ferri, ce fèra fa’ anca la sgarza e ìa
’mparado anch’io a sgarzà’ le sedie:
l’òmmini fèra ’l telaro de legno e
po’ ce ’ntessémma la sgarza. Sgra­
nàmma, po’, anca ’l granturco coi
furèlli.
Nuà donne se dovìa filà’, urdì’
e tesse’, fa’ le cannelle, i cannellù,
métte per liccio e per pèttene e po’
tessémma regadì’, panno, la spina
Nella pozza a casa mia c’erano le
rane e ogni tanto qualcuna veniva a
galla: se non la prendevi subito, ritor­
nava a fondo e non la prendevi più.
Così capita nella testa mia: quando mi
ritorna in mente una cosa, la devo dire
subito, sennò me la dimentico e chissà
quando ritornerà a galla! Ora penso a
quanta fatica abbiamo fatto nella vita e
non potevi protestare quella volta, biso­
gnava stare lì e basta. Se c’è una cosa
che non ci mancava mai una volta, ma
a dir la verità anche adesso, è proprio
la fatica. I nostri genitori volevano che
imparassimo a fare tutto. Per esempio
l’inverno, quando ci si poteva riposare
un po’, oltre (i lavori) con l’ago, l’unci­
netto, i ferri, ci facevano fare anche la
“sgarza” e io avevo imparato anche a
“sgarzare” le sedie: gli uomini costrui­
vano l’intelaiatura di legno e poi noi ci
intessevamo la ‘sgarza’. Sgranavamo,
poi, (i panetti) di granturco con i ‘furel­
li’. Noi donne dovevamo filare, ordire e
tessere, preparare le ‘cannelle’ e i ‘can­
nelloni’. Mettere per liccio e per pettine e
poi tessevamo rigatino, panno, la ‘spina’
per gli asciugamani, la tela per i mate­
rassi, per le materassine, i ‘pagnucci’.
175
pei sciuccamà’, le lintime pei madarazzi, pe’ le madrazzine, pagnucci.
Mamma cìa ’mparado nigò. Cuèsto,
prò, me pare d’avèvvelo ditto’n’antra vo’.
L’omini fèra: cri, crinelle, civiere
per portà’ drendo la stalla paja, fié;
canestre e canestri per vendegnà’,
per portà’ a vende’ l’ôi, i pui; le canestre bianche col vengo sbucciado
che se lassàa due vengaròle apposta
e se tajàa quanno ìa cacciado, dopo
se sbucciàa be’ e cuéllo servìa pe’
’na canestra per portà’ da magnà
giù pe ’l campo, per quanno se battìa, per mette’ i pagni lavàdi e ben
cuperti: la cacciàa sotta ’l letto.
’Ste canestre, quanno era fatte,
le mettìa sotta ’na secchia granna
e ce smorciàa ’na coccia de solfo
e venìa bianghe, pogo belle! Ce se
fèra anche sporte e canè per gì a
fa’ spesa, e portà’ a vende’ la robba:
fèra a nàsto chi le fèra più belle!
Mamma ci aveva insegnato (a fare)
tutto. Questo, però, mi pare di avervelo
detto un’altra volta. Gli uomini facevano
crini, crinelle, civiere per portare den­
tro la stalla la paglia e il fieno, canestre
e canestri per vendemmiare, per porta­
re a vendere le uova, i polli; le canestre
bianche con il vimini senza buccia: si
lasciavano due salici appositamente e
il vimini si tagliava quando (la pian­
ta) aveva germogliato. Dopo veniva
sbucciato perbene e quello serviva per la
canestra con cui si portava da mangia­
re per il campo o quando si trebbiava,
per mettere i panni lavati e ben coper­
ti, che cacciavano sotto il letto. Quando
queste canestre erano state intrecciate,
venivano messe sotto una secchia gran­
de e lì si spegneva una ‘coccia’ di zolfo:
diventavano bianche, molto belle! (Con
il vimini) ci si facevano anche le spor­
te e i canestri per andare a fare spesa
e portare a vendere la roba: facevano a
gara a chi le intrecciava più belle!
176
Mesi, feste e santi
Mesi, feste e santi
’Gni mese cìa la sua strofétta:
Ogni mese aveva la sua strofetta:
Gennaro mette ai monti la parrucca,
Febbraro grànni e piccoli in parùcca
Marzo di lieta prigionìa
Aprile di bei colori orna la via
Maggio vive tra musica d’uccelli
Giugno l’uva appesa ai ramoscelli
Luglio falcia le messi al solleone
Agosto avaro assàndo le ripone
Settembre i dolci grappoli arubìna
Ottobre avaro assàndo riempie la
tina
Novembre ride e ammucchia le fòje
in terra
Dicembre l’anno l’ammazza e lo
sottèra.
Gennaro mette ai monti la parrucca,
Febbraro gràndi e piccoli imbacucca
Marzo (libera il sol) di prigionìa
Aprile di bei colori orna la via
Maggio vive tra musica d’uccelli
Giugno (ama i frutti appesi) ai
ramoscelli
Luglio falcia le messi al solleone
Agosto va ansando e le ripone
Settembre i dolci grappoli arrubìna
Ottobre di vendemmia empie la tina
Novembre ride e ammucchia le fòje in
terra
Dicembre ammazza l’anno e lo
sotterra.
Poi de gennàro c’è la Pascuèlla
o Befana, de febbràro ’l Carnoàle,
a marzo, che è pazzerello, nisciù ié
dà fiducia e va a segóndo la luna,
’na ò ce pô ’ncuntrà’ anca Pasqua: ’n
tra marzo e aprile se méttene d’accordo. Maggio va in amore i gatti e
ràja i somàri, prò, in compenso c’è
tante feste; ’n tra maggio e giugno
fiorisce le rose e tanti antri fiori, c’è
la Scènsió’, ’l Corpo Dòmmini, San
Giovanno, San Luige, San Piedro e
San Paolo, ’n so s’ènne gemellàdi
insié’, lujo c’è la Madonna del vento,
al sedece; agosto, envéce, al quìnnece è ’mportante ’l perdó’ de mezzo
agosto; settembre c’è la Natività della
Madonna ai otto (io so tutta la storia); ottobre il quattro San Francesco,
Di gennaio c’è la Pasquella o la
Befana, di febbraio il Carnevale, a
marzo, che è pazzerello, nessuno dà
fiducia; (il mese) va secondo la luna
e talvolta ci può capitare Pasqua: si
mettono d’accordo tra marzo e apri­
le. A maggio vanno in amore i gatti
e ragliano i somari, però, in compen­
so, ci sono tante feste; tra maggio e
giugno fioriscono le rose e tanti altri
fiori, ci sono le feste dell’Ascensione,
del Corpus Domini, di San Giovanni,
di San Luigi, San Pietro e Paolo che,
non so, si sono gemellati.
Al 16 luglio c’è la Madonna del
Vento, invece il 15 agosto è importante
il ‘perdono’ di metà agosto; all’8 set­
tembre c’è la Natività della Madonna
(io ne conosco la storia); a ottobre il 4
177
all’otto c’è la sùplica della Madonna
de Pompei, po’ c’è San Gaudè’ e le
tre fiere. Novembre, embè, bisogna
che l’apprezzamo, tanto chi crede
anca chi non crede: embè i santi non
li crede tutti ma i morti sci: chi venti,
chi trenta… Io, presempio, ’n tra
nonni, nonne, genidóri, fradèlli, sorella, zii, zie, nepódi, cugnàde, cugnàdi,
cugini, sòceri… ce n’ho ’na trentacinquina. Mia non iéla fô a tirà’ ’l conto,
prò me l’arcòrdo be’ tutti quanti.
E po’ c’è ’l quattro novembre che
babbo l’arcordàa sempre e po’ all’11
novembre la nascida de mi’ fjio, la
prima 17 gennàro, l’ultima 1 agosto,
tre passerotti, cioè un passerotto e du’
passerine: è stàda la gioia più grànna
che ci’hò ûdo ’nté la vida. Quanno
l’ho cresimàdi, l’ho comunnigàdi e
s’è sposàdi, como ce fèra la paccóna!
M’ha dàtto solo soddisfazió’, grazzie a
Dio. Adè arvò a finì’ i mesi dell’anno,
scusàde! Pïo chì e zómpo de là, perché quanno ho pïàdo la pendégola,
vorìa finì’ la madàssa, però cualchicò’
m’asfùja sempre. Allora dobo all’11 de
novembre c’è San Martì’ che s’è spezzàdo ’l mantèllo per dàllo a ’n pôrétto
’nfreddolìdo: ce farémma noà? È ’na
leggènda bellissima. Cuél giorno se
pïàa cuàlca sbornia, perché c’era da
sentì’ ’l vi’ nòo, se portàa all’amici
’nté la cantìna, alla sera se fèra festa,
se comensàa a giogà’ a carte. Al 18
San Luga: se pianta ’mpo’ de fàe e
biselli per presto sci non gèla. Al 30 è
Sant’Andrea: “Pìa ’l pòrco e pela! Sci
n’è grasso aspètta a San Tomàsso, sci
c’è San Francesco, all’8 c’è la supplica
della Madonna di Pompei, poi ci sono
San Gaudenzio e le tre fiere. Novembre
deve essere apprezzato da tutti, sia da
chi è credente sia da chi non crede:
ebbene i santi non tutti li credono,
ma i morti sì: chi (ne ha) venti, chi
trenta… Io, per esempio, tra nonni,
nonne, genitori, fratelli, sorella, zii,
zie, nipoti, cognate, cognati, cugini,
suoceri… ne ho una trentacinquina.
Non ce la faccio a tirare il conto, però
me li ricordo bene tutti quanti.
Poi c’è il 4 novembre, che babbo
ricordava sempre; l’11 novembre la
nascita di mio figlio, la prima (figlia)
il 17 gennaio e l’ultima l’1 di agosto:
tre passerotti, cioè un passerotto e due
passerine: è stata la gioia più grande
che ho avuto nella vita. Quando li ho
cresimati, l’ho comunicati e si sono
sposati, come ci facevo la vanitosa! Mi
hanno dato solo soddisfazioni, grazie
a Dio.
Adesso ritorno nei mesi dell’anno,
scusate! Prendo qui e salto là, perché,
quando ho preso il bandolo, vorrei fini­
re la matassa, però qualcosa mi sfugge
sempre. Allora dopo, all’11 di novem­
bre, c’è San Martino che s’è spezzato
il mantello per darlo a un poverello
infreddolito: ci faremmo noi? È una
leggenda bellissima.
Quel giorno si prendeva qualche
sbornia, perché c’era da sentire il vino
nuovo; si portavano gli amici nella
cantina, la sera si faceva festa, si
cominciava a giocare a carte. A San
Luca, il 18 novembre, si piantano un
178
magna ’mpo’ aspètta a Sant’Antò’”.
A dicembre c’è i santi della fàa:
San Biagio dalla gola d’oro, San
Ruffo, Santa Bibiana, Santa Bàrbera.
Oh, adè che semo sul discorso, nonna
mìa spiegàdo della vida de ’sta santa
e mìa ’mparàdo sta cansó’:
Bàrbera bella quanno che nascìa,
subbidamènte la madre morìa.
Quanno fu capo de’ venticinqu’anni
Venne la nòva che Barbera era granna.
Ié dice le monnighe del convento:
“Bàrbera, ecco tu’ padre che te vène a
tròa’,
mannìsceje la sedia e la corona!”
I’ha mannìdo la sedia e la corona
E po’lìa i’ha ditto:
“Co’ c’éde, babbo, che stade pensoso?”
“Non sto pensoso e mango sto a pensà’,
solo che t’ho troàdo a maridà’!”
“Ma io so’ maridàda e son ben
maridàda
dal primo giorno che so’ ’ngeneràda!
“Vòjo sapé’ a chi hai pïàdo!”
“Al Fijo de Maria che m’ha iudàdo!”
“Al Fijo de Maria lo lasceria
e ’no ricco imperadóre pïèrài!”
“Al Fijo de Maria ne’l vojo lassà’
Èno ricco imperadóre non vojo pïà’!”
Se alsa su cuéllo candélo padre
Ié le comença a da’ le bastonàde,
tre volte tónno la fece girà’,
e po’ a tèra la fece cascà’.
E così è morta santa. Pensàde
vua che padre mòrbedo che cìa!
Per Santa Bàrbera se dicìa anca
“Sta’ ’ntórno al fôgo e guàrdela!”,
perché è giorni freddi. Cuél giorno
se fèra festa e se gèra alla Messa e
po’ di fave e di piselli per (averli) pre­
sto se non gela; a dicembre ci sono i
santi della fava: San Biagio, San Rufo,
Santa Bibiana, Santa Barbara.
Oh, adesso che siamo sul discor­
so, nonna mi aveva spiegato la vita
di questa santa e mi aveva insegnato
questa canzone:
Bàrbara bella quanno che nascìa,
subidamènte la madre morìa.
Quanno fu capo de’ venticinqu’anni
Venne la nòva che Barbera era granna.
Ié dice le monache del convento:
“Bàrbera, ecco tu’ padre che te vène a
tròa’,
mannìsceje la sedia e la corona!”
I’hà mannìdo la sedia e la corona
E po’ lìa i’ha ditto:
“Co’ c’éde, babbo, che stade pensoso?”
“Non sto pensoso e mango sto a pensà’,
solo che t’ho troàdo a maridà’!”
“Ma io so’ maridàda e son ben
maridàda
dal primo giorno che so’ ’ngeneràda!
“Vòjo sapé’ a chi hai pïàdo!”
“Al Fijo de Maria che m’ha iudàdo!”
“Al Fijo de Maria lo lasceria
e ’no ricco imperadóre pïèrài!”
“Al Fijo de Maria ne’l vojo lassà’
Èno ricco imperadóre non vojo pïà’!”
Se alsa su cuéllo candélo padre
Ié le comença a da’ le bastonàde,
tre volte tónno la fece girà’,
e po’ a tèra la fece cascà’.
E così è morta santa. Pensate voi
quale padre ‘morbido’ aveva!
Per Santa Barbara si diceva anche
“Sta’ intorno al fuoco e guardala!”, per­
ché sono giorni freddi. Quel giorno si
179
s’arcóntàa ’sta cosa chì. ’Na donna
gèra alla Messa, ha visto ’na vicinàda
che sciacquàa la boccàda e i’ha ditto:
“Oggi ’n se làa, giàmo alla Messa!” E
cuélla i’ha risposto: “Santa Barbera e
Santa Barberìna, oggi vojo sciacquà’
la mia boccadìna!” Oh, è ’rmàsta
taccàda ’nté la banghetta! Questo
l’arcontàa sempre mamma.
Gènno óltra, a decèmbre ’l 6 c’è
San Nicolò da Bari, all’8 ’na fèsta
’mportànte, la Madonna del Con­
cezió’, al 10 “Madonna Loredàna
soccorède a chi ve chiama, chiamà
ve chiamo io, soccorède al bisógno
mio!” Al 13 (tréddece) è Santa Lucia,
’l giorno più curto che ce sia, al 21 è
San Tomàsso: ’rcordàdeve de portà’ i
cappù’ al padró’, scinó ve mànna via
dal fónno!
faceva festa, si andava alla Messa e si
raccontava questa cosa qui. Una donna
andava alla Messa, ha visto una vicina
che sciacquava il bucato e le ha detto:
“Oggi non si lava, andiamo alla Messa!”
E quella le ha risposto: “Santa Barbara,
Santa Barbarina, oggi voglio sciacquare
il mio bucatino!” 0h, è rimasta attacca­
ta nella banchetta. Questo lo raccontava
sempre mamma.
Andando avanti, a dicembre, il 6 c’è
San Nicolò da Bari, all’8 una festa impor­
tante la Madonna della Concezione, al
10 la Madonna lauretana “soccorrete
chi vi chiama, chiamare vi chiamo io,
soccorrete al bisogno mio”.
Al 13 è Santa Lucia, al 21 è San
Tommaso: ricordatevi di portare i cap­
poni al padrone, se no vi manda via dal
fondo!
Muratori. Da sinistra: Nazzareno Gregorini – Enrico Bocchini detto “Zighetto” - Umberto Argentati –
Angelo (Otello) Paradisi – Adriano Evangelisti – Cesare Argentati – Arturo Argentati.
180
’L brodo de Nadàle e Pasqua
Il brodo di Natale e Pasqua
’Po’ ’riva Nadàle: cuéllo scì che
s’aspettàa perdéro, perché sentémma le prime castàgne, melarance,
lupì’, ma non se podìa fa’ ’na scorpacciàda come famo adè’!
La vigilia se fèra ’na gran festa. A
mezzo giorno se preparàa spaghétti
chi podìa, scinó maccherù’ de casa
sens’òi, co’ lo stoccafisso, e po’ cece,
càoli; alla sera lo stoccafisso ’nté
la gradìgola o ’nté ’l ticèllo, con du’
breghe de canna sotta pe’ non fàllo
taccà’, mollìghe, àjo, erbétte, ojo,
aqua, vì’,’l fôgo sotta e sopra ’nté
’l copèrchio: venìa bòno muntubè’.
Scinó ’nté ’l ticèllo, in umido, co’
la cipólla, l’aqua, ’l pomedoro, sale,
pepe, ojo: te fèra liccà’ i dédi. A cena
c’era anca i ragazzi de ’ste sorèlle.
Dobo mezzanotte salsicce o scinó
’na bistecca de porco perù’ co’ l’ansalàda, castagne e melarance: le portàa i ragazzi delle giovene, ansieme
a lo regàlo pe’ la ragazza, e cualche
bottija de liquori e lì si sbibbocciàa
anca finànta le quattro.
Dobo ’l giorno de Nadàle se ’rnoàa
tutti cualchiccò: il ragazzo ié fèra o ’l
buà, o ’l cappotto, o le scarpe, scial­
bétta, borcétta, a segóndo como se la
passàa. E la ragazza a lo ragazzo ié
fera camicia e gravàtta, la spilla d’oro
’nté la gravatta, fazzoletti da naso,
calzetti, segondo que ié servìa; po’ se
fèra ’l regàlo anca a cuéllo che venìa
co’ lo ragazzo, o’l fradèllo o la sorella
o ’n’antro, a portà’ le castagne: ié se
Poi arriva Natale: quello sì che si
aspettava per davvero, perché sentiva­
mo le prime castagne, arance, lupini,
ma non si poteva farne una scorpaccia­
ta come facciamo adesso!
La vigilia si faceva una gran festa.
A mezzogiorno chi poteva preparava
gli spaghetti, sennó maccheroni di casa
senza uova, con lo stoccafisso, e poi
cece, cavoli; la sera lo stoccafisso sulla
graticola o nel tegame, con due strisce
di canna sotto per non farlo attaccare,
molliche, aglio, prezzemolo, olio, acqua,
vino, il fuoco sotto e sopra nel coperchio:
veniva molto buono. Sennò nel tega­
me, in umido, con la cipolla, l’acqua,
il pomodoro, sale, pepe, olio: ti faceva
leccare le dita. A cena c’erano anche i
fidanzati delle mie sorelle.
Dopo mezzanotte salsicce o sennò
una bistecca di porco per uno con l’in­
salata, castagne e arance: le portavano
i ragazzi delle giovani, insieme al rega­
lo per la ragazza, e qualche bottiglia di
liquori e lì si bisbocciava anche fino
alle quattro.
Dopo il giorno di Natale tutti rinno­
vavano qualcosa: il fidanzato le faceva o
il collo di pelo o il cappotto, o le scarpe,
sciarpetta, borsetta, a seconda di come
se la passava. E la ragazza al fidanzato
gli faceva camicia e cravatta, la spilla
d’oro nella cravatta, fazzoletti da naso,
calze, secondo quello che gli serviva; poi
si faceva il regalo anche a quello che
veniva con il fidanzato, o il fratello, o la
sorella o un altro, a portare le castagne:
181
fèra ’na maja, sci era ’na donna ’l fazzoletto da testa o ’na sciàlpa. Coscì
era la moda, prima de la guerra,
envéce a me è gida male anca cuélla
occasió’ lì.
’L giorno de Nadàle ’ntè l’intìngolo ce se mettìa i ventriòri del cappó’
o della dindela, anca li pìa che sarìa
le sàmpe de ’ste bestie, la coradèlla
del cunìo e ’sta carne se spartìa oltra
oltra sinànta anno nòo.
Sci c’era ’l lusso se magnàa’l
brodo de cappó’ o della dindela, ma
che brodo! Se magnàa solo nté ’n’occasió’ luscì, a Nadàle: guadrellétti o
tajolinelli, ma che roba!
Envece a Pasqua le fétte mólle:
se piàa ’l piatto granno, che ce gèra
’n callàro de brodo. Prima se fèra
boìi’ ’nté ’l caldàro e po’ ’nté la pigna
granna accanto al fôgo, se mettìa
giù ’nté ’sto piatto de terra cotta
smaltàdo, o smalto róscio o nero,
po’ sempre ’n solàro de fette de pa’
co’ sopra l’erbétte, el cascio e giù
ramajolàde de brodo, sempre solàri
a segondo quante persone era; anca
tre cupétte de ’ste fette belle, mólle,
’nsuppàde de brodo, prò ’l pa’ era
fatto de casa. Sci fusse stàdo cuéllo
cómpro d’adè’, era ’mpancòtto! Ma
’sto brodo ’l magnàsci du’ ò all’anno,
e le donne quanno era ’nfantàde.
Tante le ò ’n te podìsci fa’ véde’ a
magnà’ ’sto brodo, scinó fèsci languì’ a quell’altri. ’Ndó c’era i monelli
toccàa la ’nfantàda a magnà’ prima.
Cualchidù’ dicìa: “ ’Ste donne fanne i
bardàsci pe’ magnà’ ’l brodo!” Cuélla
gli si faceva una maglia, un fazzoletto
da testa o una sciarpa se era una donna.
Così era la moda, prima della guerra,
invece a me è andata male anche quella
occasione lì.
Il giorno di Natale nel sugo ci si
mettevano i ventrigli del cappone o
della tacchina, anche i piedi, che sareb­
bero le zampe di queste bestie, il fegato
del coniglio e questa carne si divideva
oltre oltre fino all’anno nuovo. Se c’era il
lusso si mangiava il brodo del cappone
o della tacchina, ma che brodo!
Si mangiava solo in un’occasione
così, a Natale: quadretti e tagliolini, ma
che roba!
Invece a Pasqua le fette bagnate: si
prendeva il piatto grande, dove entra­
va un caldaio di brodo. Prima si faceva
bollire nel caldaio e poi nella pignatta
grande accanto al fuoco, si metteva giù
in questo piatto di terracotta smalta­
to, o smalto rosso o nero, poi sempre
un solaio di fette di pane con sopra il
prezzemolo, il cacio e giù ramaiolate di
brodo, sempre solai a seconda di quante
persone erano: anche tre piatti fondi di
queste fette belle, bagnate, inzuppate di
brodo, però il pane era fatto in casa. Se
fosse stato quello comprato di adesso,
sarebbe stato un pancotto! Ma questo
brodo lo mangiavi due volte all’anno
e le donne durante il puerperio. Tante
volte non ti potevi far vedere a man­
giare questo brodo, sennò facevi lan­
guire gli altri. Dove c’erano i monelli,
la puerpera doveva mangiare prima.
Qualcuno diceva: “Queste donne fanno
i figli per mangiare il brodo!”. Quella
182
vo’ era vero brodo! Le galline anca de
tre anni, le dindele li stesso; beccàa
nigò fòra dei mangìmi. Adè le galline,
oltra che a beccà’ ’sta robba moderna, quanno è ’n’anno sci ne mazzi
môre da per lóra, le dindele listésso.
E qui dev’èsse’ bòne, è como a da’
marido a’na bardascia da 10 anni!
Po’ se dice: “’L pa’ de ’n giorno, ’l vi’
de n’anno e la móje de ventun’anno.
Nigò al giusto sua, perché sci falci
l’erba troppa tenera, quanno la vai
a rastellà’ non ci’armàne più gnè.
Listésso è la donna, fenisce prima,
dobo’n ci’armàne gnè. E vuà òmmini que fàde? Gide a’rtroàa’n’antra?
Ma cuélle smuficchiade? Ah!, me sa
che n’è tanto gènnigo a magnà ’nté
’n piatto sporco che ci’hà magnàdo
cuell’altri, n’è vero? Va be’ che adè’,
’ndó te brilli, se véde i guanti in giro!
Ma, tiràmo annànse; dicìa Zighetto:
“Ma li vedrémo a ’sti cagarèlla!”
volta era vero brodo! Le galline anche
di tre anni, le tacchine ugualmente;
beccavano ogni cosa, tranne i mangi­
mi. Adesso le galline, oltre che beccano
questa roba moderna, quando hanno un
anno, se non le ammazzi, muoiono da
sole, le tacchine lo stesso. E qui devono
essere buone, è come dare marito a una
ragazza di dieci anni! Poi si dice: “Il
pane di un giorno, il vino di un anno
e la moglie di ventun anni”. Ogni cosa
al suo momento, perché se falci l’erba
troppo tenera, quando la vai a rastrella­
re, non ci rimane più niente. La stessa
cosa è la donna, finisce prima, dopo non
ci rimane niente, e voi uomini che fate?
Andate a ritrovarne un’altra? Ma quel­
le “smuficchiate”? Ah!, mi sa che non
è tanto igienico mangiare in un piat­
to sporco, dove hanno mangiato quegli
altri, non è vero? Va bene che adesso,
dove ti vòlti, si vedono guanti in giro!
Ma tiriamo avanti; diceva Zighetto:
“Ma li vedremo questi cacarella!”.
Ròsbi, òi e… ròspi
Roast-beef, uova e… avari!
Cuélla vo’ le scorpacciàde se fèra
quanno gèsci a ’n prànso, c’era de
cuélli che ce stèra anca male du’ tre
giorni. Uno che ’l conoscìo be’ ’nté
’mpranso s’è magnàdo diciòtto fettine de ròsbi, sensa di’ prima bròdo,
allésso, tajadèlle: cuèsta era la quarta portàda. Po’ dobo non ve digo
l’arròsto, l’ansalàda, ’l dolce; ’l caffè
n’usàa, mango i frutti. Ma cuésto
Quella volta le scorpacciate si face­
vano quando andavi a un pranzo,
c’erano di quelli che ci stavano male
due tre giorni. Uno che conosco bene in
un pranzo si è mangiato diciotto fetti­
ne di roast-beef, senza dire che prima
(aveva preso) brodo, lesso, tagliatelle:
questa era la quarta portata. Poi dopo
non vi dico l’arrosto, l’insalata, il dolce;
il caffè non si usava, nemmeno la frut­
183
alla notte - l’ha ’rditto la móje - n’ha
dormìdo mae, è gido giù la stalla, ha
pïàdo le mòrse de corda, cuélle che
se guidàa le vacche, e s’è messo a fa’
i massaggi ’nté lo stòmmigo e la trippa con cuélle! È gido be’ che gn’hà
pïàdo ’na paràdise, “’na paranànsa”
se dicìa! È gido liscio, prò s’arcorderà anca dobo morto. ’Na ò tanto
pe’ ’na donna che ’na magnàda ce se
dèra la vida! Embè l’òmmini cualchidù’ fèra compasció’!
Sapéde, quanno se falciàa l’erba
o se tajàa ’na fratta, se podìa ’ltroà
’na coàda d’òi, perché, como v’ho
ditto, le galline fedàa in giro. Allora
cuésto tajàa i spi’, ha ’ltroàdo ’na
coàda de venticinque òi: quìnnici
n’ha biùdi e cuell’altri l’ha piattàdi
pe’ ’n’antro giorno. Ié dicìa la madre:
“Pièdre, non magni oggi? Com’è,
stai male?” E lu’ fèra i rudolozzi per
terra. “Me dôle la trippa!” “Te metto
a bóje’ ’n goccio d’aqua ténta co ’sto
gra’ brusco?” ’L sapìa lu’ perché se
rudolàa ’nté ’l piancìdo, ma quanno ci’ariàa ’nté ’l magnà’ era como
quanno vedìa ’na donna: era rabbìdi
de fame!
Embè n’antro, ch’ìa magnàdo
diciotto pacche de melanciàne,
ha ditto: “Bràa mamma: poghe,
ma bòne!” Po’ lasso gì’ a ’rcontà’
’ste cose che mango ce crederéde:
domannàdelo a cuélli dal tempo
mio, vedréde sci è vero! No ai signori eh, a ’n contadì’ ’mpo’ numberóso
in faméja: vedréde sci ve ’rcónto le
trappole baraónde padàde bugie,
ta. Ma questo alla notte - l’ha detto la
moglie - non ha dormito mai, è anda­
to giù la stalla, ha preso le “morse” di
corda, quelle con cui si guidavano le
vacche, e si è messo a fare i massaggi
nello stomaco e nella pancia con quelle.
È andata bene che non gli ha preso una
paralisi: una ‘parananza’ si diceva.
L’ha scampata liscia, però si ricorderà
anche dopo morto. Una volta tanto per
una donna quanto per una mangiata si
rischiava la vita! Ebbene, qualche uomo
faceva compassione!
Sapete, quando si falciava l’erba o si
tagliava una fratta, si poteva ritrova­
re una covata di uova, perché, come vi
ho detto, le galline facevano le uova in
giro. Allora questo tagliava gli spini, ha
trovato una covata di venticinque uova:
quindici li ha bevuti e quegli altri l’ha
nascosti per un altro giorno. Gli dice­
va la madre: “Pietro, non mangi oggi?
Com’è, stai male?” E lui faceva i roto­
loni per terra:” Mi fa male la trippa!
“Ti metto a bollire un goccio d’acqua
colorata con il grano brusco?” Lo sape­
va lui perché si rotolava sul pavimento,
ma quando (gli uomini) ci arrivavano
a mangiare era come quando vedevano
una donna: erano ‘rabbiti’ (rabbiosi) di
fame! Ebbene un altro, che aveva man­
giato diciotto ‘pacche’ di melanzane, ha
detto: “Brava mamma, poche ma buone!”
Lascio andare dal raccontare queste cose,
perché neppure ci crederete: domandate­
lo a quelli del tempo mio, vedrete se è
vero! Non ai signori, eh, a un contadino
dalla famiglia un po’ numerosa: vedrete
se vi racconto trappole, baraonde, pata­
184
como le voléde chiama’ eh! Quanno
se riàa ’nté la robba bòna, non se
fèra i ruscì como tante le ò fèra
le vacche. Ié se dicìa: “Fai i ruscì
oggi? Li ’rmàgni stasera”. Como ce
fèmma anca noà: cresce tajàde1,
pulènta, frìgoli, tajolì’, guadrèlli,
cece, fàa, fasciòli, càoli s’armagnàa
alla madìna a colazió’, riscallàdi era
bòni. Per dittàdo se dice: “È sempre
càoli riscallàdi!” Quanno s’ariscallàa, toccàa a buttàcce ’n goccétto
d’ojo, scinó se taccàa ’nté la padèlla.
Le padèlle, i callàri, nigò era guasci tutte de ramo. L’ansiàni dicìa:
“Tocca lévallo sùbbedo dallo ramo,
perché doventa verdoramo, gonfia e
fa male!”, ma ’l posto ce n’era tanto
e se dicìa: “Fòri i rospi che non paga
l’affitto!” E po’ ’l dice anche i medighi, che è necessario a fa’ ’sti vènti.
È brutta sci sai sull’ottomòbbole:
ajo e cipolla disinfètta, ma ce vôle
la maschera!
So’ matta? Dicéde la veredà!
Fortuna che non me conoscéde! Le
cose è mèjo dille chiare: “Parole
chiare e micìzzia lónga!”. Un altro
dittàdo, ma sci stàde con me, ve
ci’ha stufàde a sentìlli. Quante me ne
fàde per orgòjo, tanto sapéde ch’io
non me ne pïjo, più me ne fàde e più
bène ve vòjo.
te, bugie, come le volete chiamare eh!
Quando si arrivava nella roba buona,
non si facevano gli scarti come talvolta
facevano le vacche. Gli si diceva: “Fai gli
scarti oggi? Li rimangi stasera!” Come
facevamo anche noi: “cresce tajàde”,
polenta, “frigoli”, quadrucci, cece, fava,
fagioli, cavoli si mangiavano di nuovo
la mattina a colazione. Riscaldati erano
buoni. Per proverbio si dice: “Son sempre
cavoli riscaldati!” Quando si riscaldava
(qualcosa), toccava buttarci un goccetto
d’olio, se no si attaccava nella padella.
Le padelle, i caldai e tutto quanto erano
quasi sempre di rame. Gli anziani
dicevano: Tocca levarlo subito (il cibo)
dal rame, perché diventa verderame,
gonfia e fa male!” Ma il posto (fuori
dalla pancia) ce n’era tanto e si diceva:
“Fuori gli avari che non pagano l’affit­
to!” E poi lo dicono anche i medici, che
è necessario fare questi vènti. Il brutto
è se stai sull’automobile: aglio e cipolla
disinfettano, ma ci vuole la maschera!
Sono matta? Dite la verità! Fortuna
che non mi conoscete! Le cose è meglio
dirle chiare: “Parole chiare e amicizia
lunga!” Un altro proverbio, ma se state
con me, vi ci stancate a sentirli. Quante
me ne fate per orgoglio, tanto sapete che
io non me la piglio, più me ne fate e più
bene vi voglio.
1 Piatto tipico locale. Con farina di granturco si preparano cresce dello spessore di
mezzo centimetro, poi si tagliano a rombi, larghi un centimetro circa. Questi vengono cotti
per tre minuti circa in acqua bollente. Poi, lasciandoli nell’acqua, si condiscono con il sugo
preparato in precedenza: solitamente lardo soffritto con aglio; se si può aggiungere anche
una salsiccia e, se si preferisce, un po’ di conserva.
185
Guardàmma la luna… nuda!
Guardavamo la luna… nuda
’Na ò guardàmma sempre la luna.
Se guardàa quanno ’na dònna partorìa, anca sci aìa finìdo ’l tempo,
finànta che fèva ’l quarto la luna
nòa, pîna; quella vecchia, l’ultimo
quarto, se guardàa pe’ métte’ ’na
coàda de pulcì’, dindi, òghe: se dicìa
che a métteli a luna nòa non gèra
be’, bisognàa spettà’ ’l quarto bòno e
’ncuntrà’ che nascìa a luna crescente. Fa’ ’l conto che i pulcì’ nascìa
dobo ventun giorno, i dindi ventinove giorni e l’oghétte 31 giorno, prò
l’òi dovìa èsse’ stàdi freschi: sci era
stantiòli o morìa ’nté l’òo o doventàa valli. Gèra be’ sci la fiòcca o la
dinda o l’òga che li coàa cìa tanta
febbre, scinó ne venìa abbè poghi,
ma a sapéllo! E chi ié l’ha misuràa?
Mai nisciù!
Allora quelle pôre bestie ’nfebbrìde li fèra nàsce’ anca tutti.
Quanno le gèsci alsà’ la madìna pe’
fàlle beccà’ e bé’ e fa la cacca, la
pïàsci pe’ ’n’ala, sotta vedìsci cuélle bestiòle tutte nade e le scòrse
dell’òi spaccàde a midà, envece scì
la madre cìa poga febbre ne nascìa
mango ’na midà.
C’era anca ’sta moda chì: ’nté
la cóa ce se mettìa, ’n tra la paja,
’mpèzzo de fèro, servìa per quanno
tronàa, scinónca i troni, sci ’l pulcì
era ’ncreàdo ’l fèra morì’ ’ntéll’òo.
Po’, quanno s’era messo ’l crì ’nté
’mpòsto, non sìa da mòve’ scinànta
che n’era nadi. Non sia da fa’ mango
Una volta guardavamo sempre
la luna. La si guardava quando una
donna partoriva: anche se aveva finito
il tempo, (non partoriva) fino a quan­
do la luna nuova, non faceva il primo
quarto; quella vecchia l’ultimo quarto,
si guardava per mettere una covata di
pulcini, tacchini, oche: si diceva che a
metterli a luna nuova non andava bene,
bisognava aspettare il quarto buono
in modo da incontrare che (i piccoli)
nascessero a luna crescente. Fai il conto
che i pulcini nascevano dopo ventun
giorni, i tacchini ventinove, le ochette
trentun giorni, però le uova dovevano
essere state fresche: se erano stantìe o
(il pulcino) moriva nell’uovo o (le uova)
diventavano marce. Andava bene se la
chioccia o la tacchina o l’oca che li cova­
va aveva la febbre, se no pochi venivano
bene, ma a saperlo! E chi gliela misu­
rava? Mai nessuno! Allora quelle povere
bestiole con la febbre li facevano nascere
anche tutti. Quando le andavi ad alzare
la mattina per farle beccare, bere e fare
la cacca, la prendevi per un’ala, sotto
vedevi quelle bestiole tutte nate e i gusci
delle uova spaccati a metà, invece, se la
madre aveva poca febbre, non ne nasce­
va neppure la metà.
C’era anche questa moda qui: nella
cova ci si metteva tra la paglia un pezzo
di ferro, serviva per quando tuonava, se
no i tuoni, se il pulcino era in embrio­
ne, lo facevano morire nell’uovo. Inoltre,
quando il ‘crino’ si era messo in un
posto, non lo si doveva spostare sino a
186
i bòtti, era mejo allo scuro e cuélle
madre rustighe sìa da coprì’ co’ ’na
canè’, scinónca cualca madre snaduràda fujàa via e dobo l’òi doventàa iàcci, morìa’ntéll’òo e coscì gèra
a male nigò.
Parlànno sempre de ’sta luna,
quanno c’era ’l quarto bòno, se tajàa
’na sfiézza de capìji, che crescìa
de più. Ahivoja a’rcontà’ nigò de
la luna! Mango me vène ammènte
nigò. C’era ’na volta ’l sole che se
lamèntàa perché la luna de notte
gèra, e ce va anc’adè, via nuda, ’l
tradisce al sole. ’Gni tanto che véde
passà’ ’n nugolo lì vicino, se piàtta lì
drèdo. Ma que se piatta a fa’? Tanto
ormai ’l sole ’l sa! Per fortuna se fa
véde’ a pogo a pogo e quanno ’ncó
è como ’na falcètta è ’l momento
bòno a fàsse sette segni de croce:
se dicìa che c’è ’na devozió’ ’nté ’sto
primo quarto. Prò è inùdole che se
fa véde’ a pogo a pogo, tanto ormai ’l
sapémo tutti como se comporta col
sole: lu’ è stufo dobo un duro giorno
de laóro, va al letto e s’andormènta
sùbbedo; lia pogo dobo s’arlèa e
s’approfitta no!
Vuà che séde tanto ’struìdi ’nté
’sto paese, troàdeme ’na vecchia che
ha solo un mese! Quanno ’l sapéde
me ’l fade sapé’ che io, sci ’n so
morta, sto chì de casa!
E po’ sentìde questa: “ ’L bimbo
’nté la culla, la terra luna e sole, tutte
’ste cose l’ha creàde ’l Signore!” N’è
vero? Sci vuà sapéde ’n’antro mistero, spiegàdemelo no!
quando (i pulcini) non erano nati. Non
si dovevano fare neppure i botti, era
meglio (tenere la cova) al buio e certe
madri rustiche dovevano essere coperte
con una canestra, se no qualche madre
snaturata fuggiva via e dopo le uova
diventavano fredde, (i pulcini) moriva­
no nell’uovo e così andava tutto a male.
Parlando sempre della luna, quan­
do c’era il quarto buono, si tagliava un
ciuffo di capelli, così (questi) cresceva­
no di più. Hai voglia a raccontare tutto
della luna! Nemmeno mi viene in mente
tutto. Una volta il sole si lamentava per­
ché la luna di notte andava, e ci va anche
adesso, via nuda; lo tradisce il sole.
Ogni tanto, quando vede passare una
nuvola lì vicino, si nasconde di dietro.
Ma che si nasconde a fare? Tanto ormai
il sole lo sa! Per fortuna si fa vedere a
poco a poco e, quando ancora è come
una falce, è il momento buono per farsi
sette segni di croce: si diceva che fosse
una devozione in questo primo quarto.
Però è inutile che si faccia vedere a poco
a poco, tanto ormai lo sappiamo tutti
come si comporta con il sole: lui è stufo
dopo un giorno di duro lavoro, va a letto
e s’addormenta subito; lei poco dopo si
alza e si approfitta, no!
Voi che siete tanto istruiti in que­
sto paese, trovatemi una vecchia che ha
solo un mese! Quando lo sapete me lo
fate sapere che io, se non sono morta,
sto qui di casa! E poi sentite questa: “Il
bimbo nella culla, la terra luna e sole,
tutte queste cose l’ha create il Signore!”
Non è vero? Se voi sapete un altro miste­
ro, spiegatemelo, no!
187
’Ste mòde chì
Queste mode qui
Adè ve vòjo arcontà’ ’mpo’ como
se passàa ’l Nadàle a’ tempi de
quanno era monella io. Allora ’l
giorno de Nadàle se magnàa ’mpo’
de menèstra, ’mpezzétto d’allésso
per uno, po’ dobo du’ castagne, ’na
melarancia per uno, dolci gnènte: a
cuéi tempi ’n c’era né panettó’ e né
ciambelló’, ’n se podìa fa’ gnènte. La
sera de Nadàle s’armagnàa i’arvànzi
del giorno e lì se finìa la seràda co’
du’ castagne cotte sotta la cénera.
Quanno era la vigilia de Nadale,
portàa su ’na capòccia per parte
’nté l’aròla, che dovìa bastà’ finànta
a Pascuélla. C’era ’sta moda chì e la
sera de Pascuélla se portàa fòra ’sto
ciòcco che ancó’ ardìa e se dovìa
mette’ ’nté ’na croce d’oppio, finché
n’era finida.
Andando avanti rivàa ’l carnoàle,
se facìa du’ cresciòle, du’ castagnòli. E lì passàa. Rivàa la quaresima, se cominciàa a magnà’ a
la mèjo, sinànta mezza quarésema.
Cuél giorno se dicìa che s’arinvìda
’l carnoàle con castagnoli e cresciole.
Se gèra casa per casa a segà’ la
vecchia: ’na donna col fazzoletto
legàdo sotta la barba, ’l naso lóngo
de cartó’, la conocchia, ’n fiasco de
vi’ bòno, ’na scopa messa a ramacòllo, ’na collana de fighi como ’na
bracciaròla, e via… se festeggiàa!
S’archiamàa ’l carnoàle, e po’ ’sta
donna, oltra della conocchia ’l fuso
Adesso vi voglio raccontare un po’
come si passava il Natale al tempo in
cui ero bambina io. Allora il giorno di
Natale si mangiava un po’ di minestra,
un pezzetto di lesso per uno, poi due
castagne, un’arancia per uno, niente
dolci: a quei tempi non c’erano né panet­
tone, né ciambellone, non si poteva fare
niente. La sera di Natale si mangiava­
no gli avanzi del giorno e lì si finiva
la serata con due castagne cotte sotto la
cenere. Quando era la vigilia di Natale,
si portava in casa un pedale per parte
sull’ ‘arola’ e questi dovevano bastare
fino a Pasquella. C’era questa usanza
qui e la sera di Pasquella si portava
fuori questo ciocco, che ancora ardeva, e
lo si doveva mettere in una ‘croce’ d’op­
pio, finché non si era consumato tutto.
Andando avanti arrivava il Car­nevale,
si preparavano due cresciole, due casta­
gnole. E lì passava. Arri­vava la quare­
sima e si cominciava a mangiare alla
meglio, sino a mezza quaresima. Quel
giorno si diceva che s’invitava di nuovo
il carnevale con castagnoli e cresciole.
Si andava casa per casa a segare la
vecchia: una donna con il fazzoletto
legato sotto la scucchia, il naso lungo
di cartone, la conocchia, un fiasco di
vino buono, una scopa messa di tra­
verso sulle spalle, una collana di fichi
messa come quella fascia che sostiene
un braccio ingessato, e via… si festeg­
giava. Si richiamava il carnevale, e poi
questa donna, oltre la conocchia, il fuso
e la scopa, aveva anche una collana di
188
e la scopa, ciaìa anca ’na collana de
fighi secchi sul collo, che io’ncó’ li
fô d’istàde seccàdi al sole.
Po’ se gìa avanti rivàa la Pasqua:
se facèa ’l ciambellone, ’na fettarella per uno ’l giorno, ’n’antra fettarella per uno la sera, ’n’antra fettarèlla
’l giorno dobo, se se n’arvanzàa
’mpo’, la spartìa per tutti.
’L sàbbedo santo, quanno alle 10
se scjoìa le campane, sci ’na pianta
da frutto non fèra mae i frutti, c’è
chi ce legàa ’n véngo ’nté ’l pedàle:
quell’anno i frutti i fèra, prò dicìane
ch’era peccàdo. Sempre quanno se
scioìa le campane a chi ié dolìa le
gambe se fèra caminà’ magari a règgeli in due. Chi stèra be’ se mettìa a
cùre’; ai monellétti che ’ncó’ ’n gèra
soli se pïàa ’na manina per parte
e se fèra cùre’: dicìa che fèra be’,
’mparàa a caminà’ prima e ai vecchi
sciòìa le gambe.
Se sonàa anca la raganella, ch’era
fatta co’ ’na canna grossa spaccàda
da cima: ’na bréga s’alsàa su e sotta
ce mettìa ’na rodèlla de legno con
tutte ’ntàcche fatte col cortèllo a
forma de ’ngranàggio. ’L mànnigo
dall’altra parte della canna: se fèra
’n bugo e ce se ’nfilsàa ’sto mànnigo
fatto be’ co’ ’na roccia grossa como
’mpòllice delle ma’. ’Sta roccia era
d’oppio e fèsci rodà ’sta canna e
cuélla rodèlla de legno ’ncastràda
tra le breghe de canna fèra forte
più de ’na raganella quanno canta.
Tutte le faméje cìa i fjòli, ne fèra
una perù’, e fèra ’no rimóre de gnè!
fichi secchi sul collo, che io ancora fac­
cio d’estade, seccati al sole. Poi si anda­
va avanti e arrivava Pasqua: si faceva
il ciambellone, una fettina per uno a
mezzogiorno, un’altra fettina per uno
la sera, un’altra fettina il giorno dopo,
se ne avanzava un po’, veniva spartita
tra tutti.
Il sabato santo, quando alle 10 si
scioglievano le campane, se una pian­
ta da frutto non faceva mai i frutti,
c’era chi ci legava un vimini nel pedale:
quell’anno i frutti li faceva, però dice­
vano che era peccato. Sempre quando si
scioglievano le campane, se a qualcu­
no facevano male le gambe lo si faceva
camminare, magari reggendolo in due.
Chi stava bene si metteva a correre; i
monelletti che ancora non andavano da
soli si prendevano per una manina per
parte e li si faceva correre: si diceva che
faceva bene, imparavano a cammina­
re prima e ai vecchi si scioglievano le
gambe.
Si suonava anche la ‘raganella’, che
era fatta con una canna grossa spaccata
in cima: una parte si alzava e sotto ci
si metteva una rotella di legno con tutte
intaccature, a forma di ingranaggio,
fatte con il coltello. Il manico dall’altra
parte della canna: si faceva un buco e
ci si infilzava il manico fatto con un
sarmento grosso come un pollice delle
mani. Questo sarmento era d’oppio
e (con questo) facevi ruotare questa
canna : la rotella di legno, incastra­
ta nella canna tagliata in due, faceva
(un rumore) più forte (di quello) di
una raganella quando canta. Tutte le
189
Era forte como de cuélle batti­
stràngole che ’na ò sonàa ’l Venardì
Santo giùppe la piazza p’anvidà’ alla
gente alle funsió’: le campàne era
legàde!
C’era anca ’sta moda chì: ’l sabbedo santo se lassàa ’n oppio e ’na
vide da legà’, pe’ legàlla cuél giorno:
c’era ’na devozió. ’Nté la settimana
santa se piantàa le viole, i garofanini, le margheride che venìa doppie,
anca robba de ortaggi venìa più
belli.
De gennaro il 25 c’è San Paolo
dei Segni: sci gela ’nté cuél giorno,
le sèrpe gné la fa a tirà’ fòra la testa
e pe’ cuéll’anno ce n’è poghe de
bisce, sci ’nvéce non gela, all’istàde
ce n’è ’mbellepo’. Se dicìa anca: “Sci
vedi ’na persòna bòna la madìna del
primo maggio, per prima madinàda,
all’istàde vedi poghe bisce; envéce
sci ne vedi muntebè’ vôl di’ che,
per prima madìna, hai vedùdo ’na
persona malamènte”.
E po’ ’n’antro dittàdo: “Sci la
madìna del primo maggio non te
alsi prima della leàda del sole, cualchidù’ te pô métte’, pe’ scherso,
’na rama de spi’ biango ch’è già
spanàdo su la finè’ ”. Cuésto volìa
di’ che fusci dormentóna: “T’ha
messo anca ’l maggio su la finè’!”
Sci piòe ’l 3 de maggio, ’l giorno
de santa Croce, bócca ’l vèrmene
’nté le noce e cuélla madìna, prima
della leàda del sole sìa da piantà’ le
croce giuppe ’l campo.
’L quattro de maggio, San Paolì’ e
famiglie avevano i figlioli, ne facevano
una per uno, e facevano un rumore da
niente! Era forte come quello delle bat­
tistrangole che una volta si suonavano
il Venerdì santo per le vie del paese (
per la piazza) per invitare la gente alle
funzioni: le campane erano legate!
C’era anche questa moda qui: per il
Sabato santo si lasciavano un oppio ed
una vite da legare, per legarla in quel
giorno: era come una devozione. Nella
settimana santa si piantavano le viole,
i garofanini, le margherite che veniva­
no doppie, anche gli ortaggi, perché cre­
scevano più belli.
Il 25 gennaio c’è San Paolo dei segni
(Conversione di San Paolo): se in quel
giorno gela, la serpe non ce la fa a tira­
re fuori la testa e in quell’anno ce ne
saranno poche di bisce, se invece non
gela, all’estate ce ne saranno parecchie.
Si diceva anche: “Se vedi una persona
buona la mattina del primo maggio,
di primo mattino, all’estate vedi poche
bisce; invece se ne vedi tante vuol dire
che, di primo mattino, hai visto una
persona cattiva”.
E poi un altro detto: “Se la mattina
del primo maggio non ti alzi prima
della levata del sole, qualcuno ti può
mettere, per scherzo, un ramo di spini
bianchi, che è già sbocciato, sulla fine­
stra”. Questo voleva dire che eri un’ad­
dormentata: “Ti ha messo anche il mag­
gio sulla finestra!”
Se piove il 3 maggio, giorno di
Santa Croce, entra il verme nelle noci
e, quella mattina, prima della levata del
sole, si doveva piantare le croci giù per
190
San Fiorà’, non se toccàa né farina,
né gra’, non se boccàa drendo all’orto; se coìa la robba al giorno prima:
se stèra attenti de ’rcordàsse.
’L 4 de dicembre ’n se dovìa fa’ la
boccàda: se dicìa che una era ’rmàsta taccàda’nté la banchetta!
Al 24 de giugno c’era la notte de
San Gioànno: ’nté i crocìli de strada
ce gèra le streghe a sbiaccolà’. Uno
curioso c’è gido a véde’ de nascosto
e l’ha sgranfiàdo tutto. Al giorno
dobo i’hà ditto la móje: “E que hai
fatto?” E lu’ ié l’ha ’rcontàdo e la
móje è ’rmàsta secca! Era stada
proprio lìa, era ’na strega! È vero? E
che ne so, se sentìa a ’rcontà’.
Appòsta c’era ’sta moda che uno,
quanno ciaìa ’na fattura, sìa da guastà’ ’l guanciàle e le penne se dovìa
gi’ ’nté ’n crocevia, e dàje fôgo pe’
brucià’ le streghe. ’Na ò ce se credìa
perdéro, ma c’era anca la veredà.
Mi’ cugina, cuélla bella, ciaìa taccàdo ’st’anvìdia: ié dolìa sempre
lo stòmmigo. Ié l’ha scupèrta ’na
chiromànte, i’hà ditto: “Te sai gida
a sappà’ ’l gra’ ’nté ’na casa, ’ndó
che c’era ’n gioveno che te volìa
e te l’hai rispénto, i’hai calciàdo.
A mezzogiorno ci’hài magnàdo la
minè’ coi guadrèlli!” Era proprio
coscì. I’ha ditto: “Fa’ coscì, a ’sto
mo’:” Metti i pagni ’nté ’l caldàro
coll’aqua, pïa ’na furcìna de figo,
falli boje e ’nfìlsa sempre de continuo a ’sti pagni ‘na mezz’ora, po’
te capidarà uno lì casa, perché non
tròa lôgo e te senterài male, t’arve-
il campo.
Il 4 maggio, San Paolino e San
Fiorano, non si toccava né farina né
grano, non si entrava nell’orto, si coglie­
va la roba il giorno prima: si stava
attenti a ricordarsene.
Il 4 dicembre non si doveva fare il
bucato: si diceva che una era rimasta
attaccata nella ‘banchetta’.
Il 24 giugno c’era la notte di San
Giovanni: nei crocicchi delle strade ci
andavano le streghe a chiacchierare.
Uno, curioso, c’è andato a vedere di
nascosto e (una strega) l’ha graffia­
to tutto. Il giorno dopo gli ha detto la
moglie: “E che hai fatto?” E lui glielo ha
raccontato e la moglie è rimasta secca.
Era stata proprio lei: era una strega! È
vero? E che ne so, si sentiva raccontare.
Apposta c’era questa moda che uno
quando aveva una fattura, doveva gua­
stare il guanciale e si doveva andare
in un crocevia a dar fuoco alle penne,
per bruciare le streghe. Una volta ci si
credeva per davvero, ma c’era anche la
verità. A mia cugina, quella bella, aveva
attaccato questa invidia: le doleva sem­
pre lo stomaco. Gliela ha scoperta una
chiromante, le ha detto: “Tu sei andata
a zappare il grano in una casa, dove
c’era un giovane che ti voleva e tu l’hai
respinto, l’hai calciato. A mezzogiorno
ci hai mangiato la minestra coi qua­
dretti!” Era proprio così. Le ha detto:
“Fai così, in questo modo: metti i vestiti
in un caldaio con l’acqua, prendi una
forcella di fico, falli bollire e infilza
sempre di continuo questi vestiti per
una mezz’ora, poi ti capiterà uno lì
191
nerà lo stommigo, i guadrèlli che
hai magnàdo quaranta giorni fa!” E
non ce crederéde: è stado proprio
coscì. Era dieci anni più granna de
me e ’ncó’ è viva, sapè’!
Adè ’n se sente a di’ più gnè.
Dice: “Sci uno non ce crede, non
ci’attàcca ’st’invidia. E anca le paure
pare che sia sparìde, per forsa a pìa
de notte non ce camìna più nisciù’!
’Na ò, de notte, c’era anca chi gèra
a pïà’ ’l tesoro, prò sci n’era fatto
per te, dicìa che dèrene le legnàde
e non se vidìa nisciù’: sarà stadi i
spiridi maligni!
‘Rcontàa nonna che ’na faméja
lìa gido a pïà’ e cìa troàdo ’na campàna d’oro, prò n’era fatto pe’ cuèlli.
Coscì, quanno l’hanne carcàda ’nté
’na maghina de piazza, ié l’ha scassàda tutta e dobo ’n chilomédro de
strada ié cascàda per terra. Cuélli
drendo ha visto ’n gran lampo de
fôgo e s’ertroàdi ’nté ’l mezzo a ’na
fratta de spì’. Dobo ha fatto di’ tante
Messe, pe’ scongiurà’ ’l deàolo: non
podìa troà’ pace.
Dicìane ’sti antennàdi nostri che
’na ò, piattàane soldi e oro sotta
terra, i ricchi dobo morìa e non s’arcordàa a pïàlli. La gente i ’nsumbiàa
e ié dicìa ’ndó era. Uno ìa ’nsumbiàdo ’sto morto che ià ditto: “Va’ lì
cuél punto, ce troarài ’l tesoro, prò
ci’hài da magnà’ sette cresce càlle lì
sopra, dobo scàa che l’artròarài.
Adè v’arcónto la mia. Quanno
ho fatto la prima monella, dormìa
alla rèdo. Tutta ’na ò ho ’ntèso a
casa, perché non trova luogo, e ti sen­
tirai male, vomiterai dallo stomaco i
quadretti che hai mangiato quaranta
giorni fa! Non ci crederete: è stato pro­
prio così. Era dieci anni più grande di
me e ancora è viva, sapete!
Adesso non si sente dire più niente.
Dice: “Se uno non ci crede, questa invi­
dia non ci attacca”. E anche le paure pare
che siano sparite: per forza, a piedi di
notte non ci cammina più nessuno! Una
volta, di notte, c’era anche chi andava a
prendere il tesoro, però se (il tesoro) non
era fatto per te, si diceva che ti davano le
legnate e non si vedeva nessuno: saran­
no stati gli spiriti maligni!
Raccontava nonna che una famiglia
lo era andata a prendere e ci aveva tro­
vato una campana d’oro, però non era
fatta per quelli. Così, quando l’hanno
caricata su una macchina di piaz­
za, gliela ha scassata tutta e dopo un
chilometro di strada gli è cascata per
terra. Quelli dentro hanno visto un
gran lampo di fuoco e si sono ritrovati
in mezzo a una fratta di spini. Dopo
hanno fatto dire tante Messe per scon­
giurare il diavolo: non potevano trovare
pace. Dicevano questi antenati nostri
che una volta nascondevano soldi e
oro sotto terra, i ricchi dopo morivano
e non si ricordavano di prenderli. La
gente li sognava e (le anime) gli diceva­
no dov’era (il tesoro). Uno aveva sogna­
to questo morto che gli ha detto:” Va’ lì
in quel posto, ci troverai il tesoro, però
ci devi mangiare lì sopra sette cresce
calde, dopo scava che lo troverai”.
Adesso vi racconto la mia. Quando
192
rampinàmme suppe ’l letto e me
s’é pusàdo sopra la trippa, che non
ié la fèra né a sgaggià’, né a giràmme, né a chiamà’a mi’ marìdo. Me
sentìa di’ ’nté ’na recchia: “Va’ giù
la Madonna della Rosa, fa scontà’
cinque Messe!” Po’ ho ’ntéso ’n gran
chioppo per terra, parìa ’n madó’,
e me so’ ripresa’. Se dicìa ch’era
’l pesarèllo; c’è chi ’l chiamàa lo
sprevengolo. Dice che sia ’n’ànnima
che n’arpòsa e sta be’ solo lì, ma te
chiude ’l fiàdo. Boh, io l’ho ’ntéso
ormai tre vo’. Mi’ socera mi dicìa
che non è gnè: è ’l sangue ch’è in
movimento. Lo sprevengolo non
podìa èsse’ stàdo perché mi dicìa
delle Messe.
Quante cose c’era ’na ò! Pre­
sempio sci uno sentìa l’arlòggio de
San Vito, parìa n’arlòggio perdéro.
Io, quanno da giovana ero sola,
drendo casa, battìa drendo al muro
drìa a ’n quadro; alla sera stèra ’nté
la càmbora a scrìe a mi’ ragazzo,
’l sentìo de continuo, fèra dieci
o quinneci battùde, po’ se fermàa
e po’ arpìàa. ’Nté cuèlla càmbora
c’era morti ’sti nonni, ma era tanti
bòni!
E po’ mamma del be’ ié ne fèra di’
’mbelpo’, como v’ho ditto: oltra che
l’ascóltàa lìa, le fèra scontà’ anca a
cuélli che spettàa da pìa della chiesa, pe’ avé’ la caridà. Dicìa: “Tante
grazzie, ve sconto ’na Messa per i
morti vostri”. Ce n’era sempre tre
quattro de ’ste persone che aspettàane la caridà.
ho fatto la prima monella, dormivo
supina. Tutto in una volta ho sentito
(uno) arrampicarsi su per il letto e si
è posato sopra la trippa, io non gliela
facevo a gridare, né a girarmi, né a
chiamare mio marito. Mi sentivo dire
in un orecchio: “Va’ giù la Madonna
della Rosa, fa’ scontare cinque Messe!”.
Poi ho sentito un gran botto per terra,
sembrava un mattone, e mi sono ripre­
sa. Si diceva che era il pesarello: c’è chi
lo chiamava lo sprevengolo. Dicono che
sia un’anima che non riposa e che sta
bene solo lì, ma ti chiude il fiato. Boh, io
l’ho sentito ormai tre volte. Mia suocera
mi diceva che non è niente: è il sangue
che è in movimento. Lo sprevengolo non
poteva essere stato, perché mi diceva
delle Messe.
Quante cose c’erano una volta! Per
esempio, se uno sentiva l’orologio di San
Vito, pareva un orologio per davvero. Io,
quando da giovane ero sola dentro casa,
lo sentivo battere dentro il muro, dietro
a un quadro; la sera stavo nella camera
a scrivere al mio ragazzo, lo sentivo di
continuo, faceva dieci o quindici bat­
tute, poi si fermava e poi riprendeva.
In quella camera erano morti i nonni,
ma erano tanto buoni! E poi mamma
del bene gliene faceva dire tanto, come
vi ho detto: oltre che l’ascoltava lei (la
Messa), la faceva ascoltare anche a quel­
li che aspettavano in fondo alla chiesa
per avere l’elemosina. Dicevano: “Tante
grazie, vi sconto una Messa per i morti
vostri”. Ce ne erano sempre tre o quattro
di queste persone che aspettavano l’ele­
mosina.
193
Tre angioletti, Adàmo e ’l lupo
mannàro
Tre angioletti, Adamo e il lupo
mannaro
Adè ve vojo dì anca ’sta moda
chì. Ai tempi nostri quànno nascìa
’n monèllo, dicìa cuélle più granni:
“Adè’ arìa la levadrìge e drendo la
valìce ci’hà ’n monellétto, el porta
a cuélla sposa!” Noà ce credémma.
Po’ dobo è nûda fòra la storia della
cicogna: anca lì ce se credìa, prò
parìa mistèro ’mpossìbole, ma tanto
gèrene annànse co’ sta moda chì.
E dobo ce dicìa anca: “Co’ ’n
fiolìno ce se crèa tre angioletti: l’angioletto bòno è ’l Bambinello, po’ ’l
monellétto e cuéll’altro ’l deaolétto.
Quanno ’l monellétto era grannicèllo
sci era bòno ìa vénto ’l Bambinello,
sci envéce venìa su tristo, sfrenàdo,
ìa vénto cuell’altro coi cornétti. E
noà ce credémma, prò dicìa che ’l
Bambinello tanto ié stèra a pistà’ ’nté
i pìa e ne ’l bandonàa mae. Finànta
che nìa battizzàdo, comannàa de più
cuèllo coi cornétti, e dopo ’l battésemo i’hà leàdo ’l peccàdo originàle, cuèllo se cancèlla col battésemo, pïàa ’l sopravvènto l’Angioletto
Custode e non te lassa più. Apposta
se dice ’l Padarnostro all’Angelo
Custode, che custodìsse l’ànnima
finànta al punto della nostra morte.
E ce se credìa a ’ste storie, ma anca
a la storia della mela… Embè, cuélla
finànta a ’n certo punto ce se credìa. Quanno fusci rïàdo all’uso de
ragió’ (cuella vo’ a ventun’anno),’n
ce se credìa più tanto, fumma tutti
Adesso vi voglio dire anche questa
moda qui. Ai tempi nostri, quando
nasceva un monello, dicevano quelle
più grandi: “Adesso arriva la levatrice
e dentro la valigia ha un monelletto e
lo porta a quella sposa!”. Noi ci crede­
vamo. Poi dopo è venuta fuori la storia
della cicogna, anche lì ci si credeva,
però pareva un mistero impossibile,
ma tanto andavano avanti con questa
moda qui.
E dopo ci dicevano anche: “Con un
figlioletto ci si creano tre angioletti:
l’angioletto buono è il Bambinello, poi
il monelletto e quell’altro il diavoletto”.
Quando il monelletto era grandicello, se
era buono, aveva vinto il Bambinello,
se invece cresceva cattivo, sfrenato,
aveva vinto quell’altro con i cornetti. E
noi ci credevamo, però dicevano che il
Bambinello gli stava tanto a pestare nei
piedi e non lo abbandonava mai. Finché
non lo avevano battezzato, comanda­
va di più quello con i cornetti, e dopo
quando il Battesimo gli aveva levato il
peccato originale, quello si cancella con
il Battesimo, prendeva il sopravven­
to l’angioletto custode e non ti lascia­
va più. Apposta si dice il Paternoster
all’Angelo custode, che custodisca l’ani­
ma fino al punto della nostra morte. E
ci si credeva a queste storie, ma anche
alla storia della mela…embè, a quella ci
si credeva fino a un certo punto.
Quando eri arrivato all’uso della
ragione (quella volta a ventuno anni),
194
più adrìa ’nté cuél lado lì, prò ’sta
mela non confrónta alle parole che
dicìa Gesù Cristo ’nté ’l Paradiso
Terèstre, quanno ha ditto: “Adamo,
perché ti nascondi?” E lu’ i’hà risposto: “Perché so’ nudo!” E lì che te
fa pensà’, che non è la mela! Gimo
annànse va!
Dopo c’era anca ’sta storia chi.
A cuéi tempi lì se parlàa muntubè’
del lupo mannàro. Dicìa ch’era ’na
maladìa e cuélli più granni de noà
’rcontàane che c’era ’n gioveno che
cìa ’sta maladìa e fèra l’amore co’
’na bella bardàscia e, per ditto della
gente, i’èra gido ’nté le récchie de
’sta ragazza. Allora lìa, quanno lu’ è
partìdo da lì casa, i’è gida drèdo, l’ha
seguìdo poco da lóngo, perché ha
visto ch’èra partìdo tanto de fuga,
perché dicìane che quanno dovènta
lupo mannàro, ’mpo’ prima s’accorgìa. Ié pïàa como ’na crisi. È riàdo a
casa, ha comensàdo a urlà’. Allora
la ragazza ìa ’ntéso a di’ che sci uno
ci’hà cualchiccò’ su le ma’, ’na falcetta, ’n martèllo basta ferìllo e fàje
sgappà’ tre gocce de sangue: coscì
arvène normale. E lìa, da drìa ’na
pianta iél’ha fatta a fàje ’n tàjo’nté
’mbràccio e po’ è fujàda via, sensa
fàsse chiappà’. Alla domènniga dopo
l’ha visto co’ ’sto braccio ’nfasciàdo
e i’ha ditto: “Que hai fatto?” E lu’ i’hà
risposto “Gnènte!” Non volìa fàjelo
sapé’ alla ragazza, perché era tanta
bella, ìa paura che sci ’l sapìa ’l lassàa gi’. Envece con cuélle tre gocce
de sangue s’è guarìdo e lìa iél’ha
non ci si credeva più tanto, eravamo
tutti più indietro da quel lato lì, però
questa mela non corrisponde alle paro­
le che diceva Gesù Cristo nel Paradiso
Terrestre quando ha detto: “Adamo,
perché ti nascondi?” e lui gli ha rispo­
sto: “Perché sono nudo!”. È lì che ti fa
pensare che non è la mela! Andiamo
avanti, va!
Dopo c’era anche questa storia
qui. A quei tempi si parlava molto del
lupo mannaro. Dicevano che era una
malattia e quelli più grandi di noi rac­
contavano che un giovane aveva que­
sta malattia, faceva l’amore con una
bella ragazza e, per detto della gente,
(il fatto) era arrivato alle orecchie di
questa ragazza. Allora lei, quando lui
è partito da lì casa, gli è andata die­
tro, l’ha seguito poco da lontano, perché
aveva visto che era partito tanto in fret­
ta, perché dicevano che, quando diven­
ta lupo mannaro, si accorgeva un po’
prima. Gli prendeva come una crisi. È
arrivato a casa, ha cominciato ad urla­
re. Allora la ragazza aveva inteso dire
che, se uno ha qualcosa sulle mani, una
falce, un martello, basta ferirlo e fargli
uscire tre gocce di sangue: così ritorna
normale. E lei, da dietro una pianta,
gliel’ha fatta a fargli un taglio in un
braccio e poi è fuggita via. La domeni­
ca dopo l’ha visto con un braccio fascia­
to e gli ha detto: “Che cosa hai fatto?” e
lui le ha risposto “niente!”. Non voleva
farglielo sapere alla ragazza, perché era
tanto bella, aveva paura che, se l’aves­
se saputo, l’avrebbe lasciato. Invece con
quelle tre gocce di sangue si è guari­
195
ditto e s’è sposàdi. Sempre sci è
vero, ne ’l so, l’arcontàane costora.
to, lei glielo ha detto e si sono sposati.
Sempre se è vero, non lo so, lo racconta­
vano quelli di casa mia.
Invidie, fatture, occhio tristo
Invidie, fatture, occhio cattivo
Ce n’ho ’n’àntre po’ de mòde da
’rcontàvvene. Quanno i santoli o le
santole portàa ’n monèllo a battizzà’
’n se dovìa ’rvoltà’ mae, scinó, pôri
fiolétti, podìa cascà’ o pïà’ le paùre.
’N te dovìsci ’rvoltà’ mae anca sci gìi
a pïà’ l’ovi per métte’ sotto la fiocca,
scinó doventàa tutti valli.
’Na ’olta ai monellétti addosso
ié se fèra portà’ ’mbaerétto fatto de
pezza róscia, drendo ce mettìane ’na
medajòla de qualsiasi santo, segondo chi te stèra più a côre, po’ tredici
acini de gra’, scinó ’mpezzétto de
lèvido del pa’, po’ ’l pelo del tasso.
Se fèra ’sto baerétto e se cucìa dentórno bembè co ’na cèntine: venìa
bellino! Co’ ’na spilla balia ié se taccàa ’nté ’l busto. Cuélla vo’ ’l portàa
piccoli e granni: cuéi granni fèra la
vida più schiantàda e i monelletti ié
reggìa la schina a modo da tenélla
dritta. E ’sto baerétto servìa pe’ non
fàcce taccà’ le invidie e le fattùre.
La medaiòla la portàa anca i granni: all’òmmimi ié se taccàa da cima
della finta delle calse; anca ’nté ’l
portafòjo cìa tutti ’n santarèllo, te
proteggìa dal malocchio e dal male.
Quanno i dindi, i pulcì’, le bestie
non beccàa se gèra a fa’ l’aqua. Ce
Ce n’ho altre ancora di usanze da
raccontarvi. Quando i padrini e le
madrine portavano un monello a bat­
tezzare, non si dovevano voltare mai
indietro, sennò, poveri figlioletti, avreb­
bero potuto cadere o prendere degli spa­
venti. Non ti dovevi rivoltare mai nem­
meno quando andavi a prendere le uova
per mettere sotto la chioccia, sennò (le
uova) diventavano tutte fradicie.
Una volta ai monelletti gli si face­
va portare addosso un baveretto fatto di
pezza rossa; dentro ci mettevano una
medaglietta di qualsiasi santo, secondo
chi ti stava più a cuore, poi tredici chic­
chi di grano, se no un pezzetto di lievito
del pane, poi il pelo del tasso. Si faceva
questo baveretto e si cuciva dintorno
perbene con una centina: veniva bellino!
Con una spilla balia glielo si attaccava
nel busto. Quella volta lo portavano (il
busto) piccoli e grandi: a quelli grandi
faceva la vita più snella e ai monellet­
ti gli reggeva la schiena in modo che la
tenessero diritta. Questo baveretto ser­
viva per non farci attaccare le invidie e
le fatture. La medaglietta la portavano
anche i grandi: agli uomini gli si attac­
cava in cima della finta dei pantaloni;
anche nel portafoglio tutti avevano un
santino: ti proteggeva dal malocchio e
196
n’era una a Montalbò, che stèra vicino alla chiesa del Crocefisso. Mettìa
l’aqua ’nté ’n bicchiero o’na buttijétta, ce buttàa giù ’mpizzighetto de gra’
e dicìa un padarnostro a sant’Anna,
santa Libbràda e a Sant’Antò’ e co’
’st’aqua ce dovìi mollà’ le bestiole e
fàjela be’. Ai monelletti se mollàa ’na
ma’ e se passàa ’nté i braccètti e le
gambétte buttànno via, e su la faccétta buttà’ vèro la testina, dicenno
tre padarnostri a cuéi santi, alla fì’
se buttàa sul fôgo e se dicia tre volte:
“Birbo via!” Oh, a chi cìa fede ié fèra
be’! Ma sarìa mejo ’na benedizió’
annànse a ’n santo, io digo!
’Ntórno a le donne ’nfantàde,
como pe’ ’l monellétto appena nado,
c’era ’n deaolétto, coscì dobo quaranta giorni l’anfantàda argèra alla
Messa co’ ’na candela pe’ da’ alla
chiesa e ce gèra ’n’antra persóna pe’
compagnìa, pe’ scaccià’ ’sto deaolétto. È vero? E que ne so! Pensàde vuà,
quante ce n’è de ’ste baraónde!
Sci se sente a strìde’ la cioétta,
porta disgrazzie. Quanno piagne ’l
ca’ ne succède delle grosse. Anca
’l nostro spesso piàgne quanno è
drendo al recinto, prò, sapéde que
ci’hà? È stàdo sciòlto, ha conosciùdo
’na cagnétta, ha ’ntéso l’odóre, adè,
quann’è legàdo, piagne. Perché ’l sa
lu’! Dobo sci traèrsa ’n gatto nero
dannànse, porta sfortuna. Quanno
le galline canta da gallo, mazzàdele sùbbedo, ché brama la morte al
padró’! Senteréde che brodìno! Po’,
sci è vecchia, anca mejo: “Gallina
dal male.
Quando i tacchini, i pulcini, le bestie
non beccavano si andava a fare l’acqua.
Ce n’era una a Montalboddo, che stava
vicino alla chiesa del Crocifisso. Metteva
l’acqua in un bicchiere o in una botti­
glietta, ci buttava un pizzichetto di grano
e diceva un Pater noster a Sant’Anna,
a Santa Liberata e a Sant’Antonio e
con quest’acqua ci dovevi bagnare le
bestiole e fargliela bere. Per i monelletti
ci si bagnava una mano e si passava
sui braccetti e sulle gambette buttando
via, e sulla faccetta buttando verso la
testina, dicendo tre Pater noster a quei
santi; alla fine si buttava sul fuoco e si
diceva tre volte: “Birbo via!” Oh, a chi
aveva fede gli faceva bene, ma sarebbe
meglio una benedizione davanti a un
santo, io dico! Attorno alla puepera,
come per il neonato, c’era un diavolet­
to, così dopo quaranta giorni che aveva
partorito questa ritornava alla Messa
con una candela per darla alla chiesa e
ci andava un’altra persona per compa­
gnia, per scacciare questo diavoletto. È
vero? E che ne so! Pensate voi, quante ce
ne sono di queste baraonde!
Se si sente stridere la civetta, porta
disgrazie. Quando piange il cane, ne
succedono delle grosse. Anche il nostro
spesso piange, quando è dentro al recin­
to, però, sapete che ha? È stato sciolto,
ha conosciuto una cagnetta, ha inteso
l’odore; adesso, quando è legato, pian­
ge. Il perché lo sa lui! Dopo, se un gatto
nero ti attraversa davanti, porta sfortu­
na. Quando le galline cantano da gallo,
ammazzatele subito, perché brama la
197
vecchia fa bon brodo!”. Sci ’l gallo
canta da gallina, sapéde que succede? La casa va a rovina! Mazzàdelo
sùbbedo e ne ’l mettéde drendo al
surgeladóre: condìdelo co’ ojo ajo
salvia e rosamarì’, sale e pepe; ce
se pô fa’ anca rimpidìccio colle
mollìghe, òi, ’l cacio parmigià’, limó’
grattàdo, nóce moscàda, àjo, erbétte: altro che porta la casa a roìna! Te
fa liccà’ i dédi! Po’ sci sopra ce mettéde ’mpo’ de fettarèlle de pansétta,
allora sci che t’aggùsta!
Si dicìa ancó che c’era cualchidù che cìa l’occhio tristo, chiamàdi
invidiosi. Sci vidìa a ’n monellétto
’l toccàa e dicìa: “Dio te benedìga!”
Coscì no’ ié fèra l’invidia. C’era una
-’rcontàa nonna - che cìa l’occhio
tristo, avvisàa la gente, non volìa fàje
del male. Chiamàa: “Cadarì’, manna
via cuéi dindòli che vengo giù io!”
I dindi è deligàdi como i monèlli, e
n’èra colpa sua sci cìa l’occhio tristo, c’era nada: anca cuèsto poèsse
vero! C’è chi ci’hà ’n pregio che
canta be’, ’n’antro balla be’, ’n’antro
è struìdo, ’n’antro è ’n testó’, ’n’antro
è bello, uno è brutto: e qu’è colpa
sua? Peggio per lu’ che ci’ha da
campà’ tutto l’anno! E po’ ’n’antra:
sci uno se segna col dèdo le maladìe addosso, ha da di’: “Salve me
tòcco!”, scinó ié vène anca a lu’.Non
se pôle fa’ gàccigo ai monelli appena
magnàdo, perché pe lo rìde’ ié vène i
fantiòli. Dicedeme quante ne so ? Ho
ragió’? ’N se finisce mae!
morte al padrone. Sentirete che brodino!
Poi, se è vecchia, anche meglio: “Gallina
vecchia fa buon brodo!” Se il gallo canta
da gallina, sapete che cosa succede? La
casa va in rovina! Ammazzatelo subito
e non lo mettete dentro il congelatore:
conditelo con olio aglio salvia e rosma­
rino, sale e pepe; ci si può fare anche
il ripieno con le molliche, uova, cacio
parmigiano, limone grattugiato, noce
moscata, aglio, erbette: altro che porta
la casa in rovina, ti fa leccare le dita!
Poi se sopra ci mettete alcune fettine di
pancetta, allora sì che ti gusta! Si dice­
va ancora che qualcuno aveva l’occhio
cattivo: (questi) erano chiamati ‘invi­
diosi’. Se vedeva un monelletto, lo tocca­
va e diceva: “Dio ti benedica!” Così non
gli faceva l’invidia. C’era una –raccon­
tava nonna –che aveva l’occhio cattivo,
avvisava la gente, non voleva fargli del
male. Chiamava: “Caterina, manda via
quei tacchini piccoli che vengo giù io!”
I tacchini sono delicati come i monel­
li, e non era colpa sua se aveva l’occhio
cattivo, c’era nata: anche questo può
essere vero! C’è chi ha un pregio che
canta bene, un altro balla bene, un altro
è istruito, un altro è un testone, un altro
è bello, uno è brutto: e che è colpa sua?
Peggio per lui che ci deve campare tutto
l’anno! E poi un’altra: se uno si indica
le malattie addosso, deve dire “salve mi
tocco!”, se no gli viene anche a lui. Non
si può fare solletico ai monelli appena
mangiato, perché dal ridere gli viene la
poliomielite. Ditemi quante ne so! Ho
ragione? Non si finisce mai!
198
Lo Rosario
Il Rosario
Po’ cuélla vo’ tutte le sere se dicìa
lo Rosario in ladì. Ecco como se
dicìa ’l padarnostro:
“Padarnostro così ’ncèlo santo
fi­cèdo nomentùa, adevègnat re­gnen­
tùa, fiàtte volontà stùa, sìgudi in
cèlo e sìgudi in terra, parinòstro
quo­didiàno da nobisòdia, dèbida­
nòbi debidanòstra, sìgude nosse o
demìtibus debitòrimum nòstra, de
indibucàsse in tentazió sedeliba­
nòsse maloàmme”. “Marì, éde chiuso
i pùi?”
“Almarìa, grazzia pîna, domini
stègo, benedetta tu mulieribùsse,
benedetta ’l frutto ventre stoièso.
Santa Maria mader de Dio ora pre­
nòbis peccatorìbusse, nunchetinòra
mòrtese nostràmme”.
“Gloria al Padre, del Figlio e
Spirito Santo com’era in principia
nunca e sempre seculòro ame”.
Mentre se pregàa ce s’arcodàa sci
i’ha datto ’l beveró al porchetto, o
ìsci chiappado i dindòli e altre ròbbe.
Questo qualche vo’ succedìa anca da
noà. Adè ve digo le laude, con cuél
che capitàa da dì’
Crie ellèi so, Criste ellisò.
Padre cilisdèo, ora prònò.
(la mimma la mamma)
Fili rivènda mundi deo, ora prònò.
(la mamma la mimma)
Spiriti santi deo, ora pronò (la
mimma la mamma)
(Stade sitto, babbo!) Santa trinitas­
sonosdèo, ora pronò
Poi a quel tempo tutte le sere si
diceva il Rosario in latino. Ecco come
si recitava il Padre nostro:
“Padarnostro così ’ncèlo santo
ficèdo nomentùa, adevègnat regnen­
tùa, fiàtte volontà stùa, sìgudi in cèlo
e sìgudi in terra, parinòstro quodi­
diàno da nobisòdia, dèbidanòbi debi­
danòstra, sìgude nosse o demìtibus
debitòrimum nòstra, de indibucàsse
in tentazió sedelibanòsse maloàm­
me”. “Maria, hai chiuso i polli?”
“Almarìa, grazzia pîna, domi­
ni stègo, benedetta tu mulieribùs­
se, benedetta ’l frutto ventre stoièso.
Santa Maria mader de Dio ora pre­
nòbis peccatorìbusse, nunchetinòra
moòrtese nostràmme”.
“Gloria al Padre, de Figlio e Spirito
Santo com’era in principia nunca e
sempre seculòro ame”.
Mentre si pregava ci si ricordava
se era stato dato il beverone al porco,
se avevi chiuso i tacchini piccoli e
altre cose. Questo qualche volta succe­
deva anche a casa nostra.
Adesso vi dico le litanie, con quello
che capitava di dire (durante la loro
recita).
Crie ellèi so, Criste ellisò.
Padre cilisdèo, ora prònò. (la mimma
la mamma)
Fili rivènda mundi deo, ora prònò.(la
mamma la mimma)
Spiriti santi deo, ora pronò (la
mimma la mamma)
(State zitto, babbo!) Santa trinitasso­
199
Santa Maria (arcòrdàteve de gi’ a
pagà’ ’l debbedo in farmacia)
(e con cuèl pago, co’ le bèccighe!)
Santa Dei genedri
Santa virgo virgino, ora pronò
Madre di Criste (oh, i’éde dato ’l
beveró al porchetto?)
(scìne) Madre divine grazie, ora
pronò
Madre purissima (éde chiuso be’ lo
stipo?)
(Oh, non m’arcòrdo) Madre gastis­
sima
Madre inviolada (bisogna assicuràsse!)
Madre intemerada (adè badàde a
rispónne’, ce vô dobo!)
Madre amabole (sentìde che musica!)
Madre asmirabole (non sornac­
chiàde, svéjàdeve!)
Madre buon consijo (oprìde l’occhi,
scinò cascàde sul fôgo!)
Madre creadore (attizzàde su be’ ’sta
legna! ’n vedéde che ce rimpîmo de
fume!)
Madre Salvadòre (dade a me, ’n se
fa luscì co la paletta!)
Virgo prudentissima, ora pronò
Virgo veneranda, ora pronò
Virgo prediganda (arcordàdeme
che ci’ho d’arconciàvve le calze!)
Virgo pote (oggi cìo tutto’l culo de
fori: sentìsci che vento!)
(almànco ve scioràsta!) Virgo
cleme, ora pronò
Virgo fedele ora pronò
Specolo ingiustizia, ora pronò
Sède sapiense (al mercàdo ce portà-
nosdèo, ora pronò
Santa Maria (ricordatevi di andare a
pagare il debito in farmacia)
(e con che cosa lo pago, co’ le lacrime
secche!) Santa Dei genedri
Santa virgo virgino, ora pronò
Madre di Criste (oh, avete dato il beve­
rone al porco?)
(si) Madre divine grazie, ora pronò
Madre purissima (hai chiuso bene il
porcile?)
(Oh, non mi ricordo) Madre gastissi­
ma
Madre inviolada (bisogna assicurar­
si!)
Madre intemerada (adesso bada a
rispondere, ci vado dopo!)
Madre amabole (senti che musica!)
Madre asmirabole (non russare, sve­
gliatevi!)
Madre buon consijo (aprite gli occhi,
sennò cascate sul fuoco!)
Madre creadore (attizza su bene que­
sta legna! Non vedi che ci riempia­
mo di fumo!)
Madre Salvadòre (da’ a me, non si fa
così con la paletta!)
Virgo prudentissima, ora pronò
Virgo veneranda, ora pronò
Virgo prediganda (ricordatemi che vi
devo rammendare i pantaloni!)
Virgo pote (oggi avevo tutto il culo di
fuori: sentissi che vento!)
(almeno vi raffreddavate!) Virgo
cleme, ora pronò
Virgo fedele ora pronò
Specolo ingiustizia, ora pronò
Sède sapiense (ci portiamo al mercato
la tacchina?)
200
mo la dinda?)
Causa nostra letizia (fàdela cresce… ce famo de più)
Vaspiri duàle, ora pronò
Vasso norabole (e scì gniéla famo a
vèndela)
Vasso insegno devozione (la magnamo!)
Rosa mistica (te sta’ sitto, bada a
risponne!)
Dure savilliga (sentìde ’sto vento: ce
porta via ’l pajaro de la mistiga)
Dure sebornia (iusso che sbornia!)
Domo nosauria (la mamma la
mimma)
Sède risarca (Se gela la trocca stanotte!)
Diamo macèli (la sciojémo domàne!)
Stella madudina e se fa la neve?)
Saolo sinfirmòro (sciojémo anca
cuélla)
Refuggio mpeccatoro (con que?)
Consolàde san frittòro (col culo
vostro, badàde a rispónne’!)
Ausilio ncristianòro (la mimma e
la mamma)
Regina ngelòro (porca paletta… ve
la fenìde babbo?)
Regina padrieccàro, pronò
Regina pròfettàro, pronò (magnarìa
du’ ranocchie!)
Regina postolòro pronò ( io i passeri
del pulàro!)
Regina màrtiro, nò ( co’è ’sta puzza:
c’avéde fatto nonno?)
Regina confessòro, nò (la mimma la
mamma)
Regina vergìno (éde messo drendo
Causa nostra letizia (fatela crescere…
ci faremo di più!)
Vaspiri duàle, ora pronò
Vasso norabole(e se poi non gliela
faremo a venderla?)
Vasso insegno devozione (la mangia­
mo!)
Rosa mistica (tu sta’ zitto, bada a
rispondere!)
Dure savilliga (senti questo vento: ci
porta via il pagliaio della mistica!)
Dure sebornia (osteria che sbornia!)
Domo nosauria (la mamma la
mimma)
Sède risarca (gela la ‘trocca’ stanot­
te!)
Diamo macèli (domani la scioglia­
mo!)
Stella madudina (e se fa la neve?)
Saolo sinfirmòro (scioglieremo anche
quella)
Refuggio mpeccatoro (con che cosa?)
Consolàde san frittòro (col culo tuo,
bada a rispondere!)
Ausilio ncristianòro (la mimma e la
mamma)
Regina ngelòro (porca paletta… ve la
finite babbo?)
Regina padrieccàro, pronò
Regina pròfettàro, pronò (mangerei
due ranocchie!)
Regina postolòro pronò (io i passeri
del ‘pulàro’!)
Regina màrtiro, nò (cos’è questa
puzza: cos’avete fatto nonno?)
Regina confessòro, nò (la mimma la
mamma)
Regina vergìno (avete messo dentro la
scala, sennò ce la rubano!)
201
la scala, scinò ce la frega!)
Regina santarunònio (Chi, ’l dimònio?)
Regina siniràbboli originali con­
cetta. (spètta alsàtte!)
Regina sacratissimi rosari (me s’è
’nformigàdo ’n pìa!)
Regina pace (slóngalo, te se passa!)
Angiul dei quitoli speccadamùndi,
esàudi nos dominè
Angiul dei quitoli speccadamundi,
esàndi nos dominè
Angiul dei quitoli speccadamundi,
miserere nobi.
Po’, quanno se dicìa ai morti, si
risponnìa “ora pròèi”
Se dicìa: Récchia materna sdo­
mini sdomini, perpetua lucedèi
requiescandimpàce àme.
E se finìa, tutt’insié’, co’ ’sta orazió’:
“Signore V’aringrazio che c’ede
guardado ’sto santo giorno, guar­
dàdece pure ’sta santa notte dalle
disgrazie, dalla mala gente, dai
temporali, dai gastighi del monno.
Signore guardàdece ambraccia
a voe, Ve domanno la santa bene­
dizió’.
Gesù mia, Signor mia, ve dono ’l
côre e l’anima mia”.
Po’ babbo dicìa: “Sai cristiano?”
Tutti responnìa: “Sci, per grazia di
Dio. Qual è ’l segno del cristiano? E
tutti: “ ’L segno della santa croce”.
Po’ se finìa col dimandà’ la santa
benedizió’:
“Nonno, benedizió’!” “Nonna,
benedizió!” “Babbo, benedizió’!”
Regina santarunònio (chi, il demo­
nio?)
Regina siniràbboli originali concet­
ta. (aspetta ad alzarti!)
Regina sacratissimi rosari (mi si è
informicolito un piede!)
Regina pace (allungalo, ti si passe­
rà!)
Angiul dei quitoli speccadamùndi,
esàudi nos dominè
Angiul dei quitoli speccadamundi,
esàndi nos dominè
Angiul dei quitoli speccadamundi,
miserere nobi.
Poi quando si dicevano le pre­
ghiere per i morti, si rispondeva “ora
pròèi”. Si diceva: “Récchia materna
sdomini sdomini, perpetua lucedèi
requiescandimpàce àme”.
Poi si diceva, tutti insieme, que­
sta preghiera:
“Signore, V’aringrazio che c’ede
guardado ’sto santo giorno, guar­
dàdece pure ’sta santa notte dalle
disgrazie, dalla mala gente, dai tem­
porali, dai gastighi del monno.
Signore guardàdece ambraccia
a voe, Ve domanno la vostra santa
benedizió’.
Gesù mia, Signor mia, ve dono ’l
côre e l’anima mia”.
Infine babbo domandava: “Sei
cristiano?” Tutti rispondevamo: “Sì,
per grazia di Dio”.
“Qual è il segno del cristiano?” E
tutti: “Il segno della santa croce”.
Alla fine si domandava la santa
benedizione: “Nonno, benedizione’!”
“Nonna, benedizione!” “Babbo, bene­
202
“Mamma, benedizió!” E lóra responnìa: “Dio te benediga!”
E coscì gèmma al letto.
Cuélla vo’ c’émma ’mpo’ de supestizió’, però a’sto rosario ’ncó’ ce se
guarda finànta che semo vivi noà;
questi d’adè’ ’nvéce, ce ride.
dizione’!” “Mamma, benedizione!” E
loro rispondevano: “Dio ti benedica!”
E così andavamo a letto.
A quel tempo avevamo un po’ di
superstizioni, però al rosario anco­
ra ci teniamo, finché siamo vivi noi;
questi di adesso, invece, ci ridono.
Lo rosario d’istàde e le rogazió
Il rosario d’estate e le rogazioni
D’istàde, proprio quanno fumma
stufi, lo rosario gèra da ’na parte,
dicemma solo le laude in latì’ co’
’mpo’ de padarnostri, prima al
Signore e la Madonna e po’ a San
Vincè che ce guardàsse dalla gràndola, fulmini, collere e tempeste, e po’
a Sant’Antò’ ce guardàsse le bestio-
D’estate, proprio quando eravamo
stufi, il rosario andava da una parte,
dicevamo solo le litanie in latino con
un po’ di Paternoster, prima al Signore
e alla Madonna, e poi a San Vincenzo
che ci guardasse dalla grandine, fulmi­
ni, collere e tempeste, e poi a sant’An­
tonio che ci guardasse le bestiole, a
203
le, a San Sidòro ’l padró’ de contadì’,
e po’ ai morti nostri, a tutti infermi
che se ’rcomànna delle nostre orazzió’, e i poveri agonizzanti che si
tròa in angonìa ’nté’sto giorno e ’sta
notte, Signore libbràdeli delle sue
pene. Questo a casa mia, se ’rcordàa babbo. Po’ all’inverno l’eltroàa
tutte le sante coi santarelli. Dicìa:
“Santantò’ da Padoa che dispensi
treddici grazzie al giorno, fanne una
anca per noà, fa’ sparì ste guerre, fa’
venì’ presto la santa pace per tutto ’l
mónno. Sant’Antò’ del corpo santo
che ’l Signore ti ama tanto, lu’ te
ama io ti prego, fa’ sta grazia che io
te chiedo.
Envece ’ndó so’ boccàda anca
all’inverno ’l fèra più abbreviàdo.
Invece a San Bonaventura, de
maggio, se fèra anca tre giorni de
rogazió’. Li fèra padre Gerardo, cuéllo che venìa a di’ la Messa ’nté la
chiesetta nostra, tre giorni annànse all’Ascensió’. Pïàa ’na croce, ’l
sagrestà’ e via in tutte le strade,
fèra duecento medri ogni stradina
e benedìa tutte le campagne, e noà
tutti in proscisció’ de diedro. ’L frade
nominàa ’l nome dei santi cantànno,
presempio ‘San Vincenzo!.... e noà
‘orate pre nobi’. E po’ dicìa cantanno
“dalla carestia, dalla grandina, dalla
gelada, da tutte le tempeste”, e noà
rispondemma ‘liberanò Domine’. De
santi n’artroàa muntibè’ ’nté tre giorni. Scì c’era tre crocìli de strade, ne
fèra uno per madina, e questo dobo
la guerra è sparido nigò.
Sant’Isidoro il padrone dei contadini,
e poi ai morti nostri, a tutti gli infer­
mi che si raccomandano alle nostre
preghiere, e ai poveri agonizzanti che
si trovano in agonia in questo giorno e
in questa notte. Signore liberateli dalle
loro pene. Questo a casa mia, si ricor­
dava babbo. Poi all’inverno le ritrovava
tutte le sante con i santarelli. Diceva:
“Sant’Antonio da Padova che dispen­
si tredici grazie al giorno, fanne una
anche per noi, fai sparire le guerre, fai
venire presto la santa pace in tutto il
mondo. Sant’Antonio dal corpo santo,
che il Signore ti ama tanto, lui ti ama
io ti prego, fa’ questa grazia che io ti
chiedo”. Invece (nella famiglia) dove
sono entrata anche all’inverno il rosa­
rio lo faceva più abbreviato.
Invece a San Bonaventura di mag­
gio, si facevano anche tre giorni di
rogazioni. Le faceva padre Gerardo,
quello che veniva a dir la Messa nella
nostra chiesetta, tre giorni prima
dell’Ascensione. Prendeva una croce, il
sagrestano e via in tutte le strade, per­
correva duecento metri ogni stradina e
benediva tutte le campagne, e noi tutti
dietro in processione. Il frate nominava
il nome dei santi cantando, per esempio
“San Vincenzo”, e noi “orate pro nobi”.
E poi diceva cantando “dalla carestia,
dalla grandine, dalla gelata, da tutte le
tempeste” e noi rispondevamo “liberanò
domine”. Di santi ne ritrovava moltis­
simi nei tre giorni. Se c’erano tre cro­
cicchi di strade, ne faceva uno per mat­
tina, ma questo dopo la guerra è sparito
del tutto.
204
Processione nella festa annuale presso la chiesa di San Bonaventura (coll. E. Manoni).
Non me credìa mae a girà’ coscì
Non credevo mai di girare così
Anca sci ce rìdene, sai que fô?
Finanta che so’ viva e capìscio ié
’l digo lo Rosario e ié lo ripèdo:
quando so’ morta, ’l tròa scritto, sci
gné dà fôgo! C’è chi è astùdi che
’l tène accónto! Ède capìdo o fàde
Anche se ci ridono, sai che faccio?
Finché sono viva e capisco glielo dico
e glielo ripeto; quando sono morta, lo
trova scritto, se non gli dà fuoco! Quelli
che sono astuti lo tengono a conto! Avete
capito o fate orecchie da tonti? Una volta
205
recchie da tónti? ’Na ò sci non stésci
a sentì’, te dicìa: “Ma que ci’hai le
recchie foderàde de presciùtto? Que
fai de casàdo ‘Menefrègo’?” Oh, nìa
studiàdo, ma cìa sempre ’n dittàdo
pronto; se véde che cìa i talènti più
genuìni de chi ìa studiàdo. Dicìa
mi’ fradèllo, cuèllo che ’n volìa gi’ a
scòla: “Te que dìghi: chi è più struìdi
chi studia o chi gira?” Io risponnìa:
“Chi studia!” Lu’ mi dicìa: “N’è vero,
perché io so’ gido in Albania, in
Russia, ho visto tante cose, come ’l
maro Albàltigo, ’l Danubio, le medetrebbie, che noà ancó’ fèmma la
mededùra co’ la falcetta. Dannànze
vedi ’l grane, drédo i sacchi pîni. Se
ne vedìa tre quattro ’nté ’na distensió’ de tèra, l’elicotteri che dà giù la
ròbba, nave, barcù’ da pesca, tante
cose che vuà l’éde viste solo ’nté le
figùre. Io, envéce, l’ho vedùde e l’ho
toccàde! Allora qu’è mejo: vedélle
dal vero o studiàlle?”
Ma adè la gente studia e ce va anca
a véde’: n’è vero che è coscì? ’Mpo’
del mónno n’ho visto anch’io como ’l
Danubio, la Mànniga, émo traérsàdo
tanti fiumi e ’l mare Adriadigo, émo
visto anca le grotte de Postùmia, ’l
cemidèro di Redipuglia, a Gorizia ’l
cemidèro milidàre con 150.000 morti
e lì, ’nté cuélle zone cìa combattùdo
babbo mia e mi’ fradèllo quello più
grànno, che dobo, pôrìno, l’ha portàdo a morì’ de fame in Germania a
Lisbruch. Mentre caminào ’nté cuéi
posti, ’ncó’ c’è le trincèe, pensàa
“Chitta ci’ha pistàdo babbo, qua mi’
se non stavi a sentire, ti dicevano: “Ma
che hai, le orecchie foderate di prosciut­
to? Come fai di casato ‘Menefrego’?” Oh,
non avevano studiato, ma avevano sem­
pre un detto pronto; si vede che avevano
i talenti più genuini di chi aveva stu­
diato. Diceva mio fratello, quello che non
voleva andare a scuola: “Tu che dici, chi
è più istruito chi studia o chi gira?” Io
rispondevo: “Chi studia!” Lui mi dice­
va: “Non è vero, perché io sono andato
in Albania, in Russia, ho visto tante
cose, come il mare Baltico, il Danubio,
le mietitrebbie, quando noi ancora face­
vamo la mietitura con la falce. Davanti
vedi il grano, dietro i sacchi pieni. Se
ne vedevano tre quattro ( di mietitreb­
bie) in una distesa di terra; gli elicotte­
ri che danno giù la roba, navi, barconi
da pesca, tante cose che voi l’avete viste
solo nelle figure. Io, invece, l’ho viste e
l’ho toccate! Allora che è meglio: vederle
dal vero o studiarle?”
Ma adesso la gente studia e ci va
anche a vedere: non è vero che è così?
Un po’ di mondo l’ho visto anch’io, come
il Danubio, la Manica; abbiamo attra­
versato tanti fiumi e il mare Adriatico,
abbiamo visto anche le grotte di
Postumia, il cimitero di Redipuglia, a
Gorizia il cimitero militare con 150.000
morti e lì, in quelle zone, aveva combat­
tuto il mio babbo e mio fratello, quello
più grande, che dopo, poveretto, l’han­
no portato in Germania a Innsbruck.
Mentre camminavo in quei posti, anco­
ra ci sono le trincee, pensavo: “Qui ci ha
messo i piedi babbo, qua mio fratello!”
Ti faceva venire i brividi!
206
fradèllo!” Te fèra venì’ i brìidi!
E po’ noà sémo gìdi a Cracovia,
’ndó c’è nado ’l papa, Ugoslavia,
Budapest, in Scozia, in Inghilterra, in
Francia, in Svizzera, a Lurdes, a po’
drendo l’Italia sémo gidi ’nté dièrsi
posti, adè mango m’arcòrdo de tutti.
Non me credìa mae a girà’ coscì. Le
montagne sta ferme e le persone
camìna e non se pô di’: “ ’Nté ’sta
strada ’n ce passo più!”
C’era uno ’mbriàgo che stèra
mezzo curvo ’nté la porta de casa
sua… Passa de lì ’n’amigo e ié dimànna: “Que fai, Lisà’?”. “Spetto ’l bugo
de la chiave! Dice tutti (e po’ ’l vedo
anch’io!) che ’l mónno gira e coscì
ha da passà’ chì dannànze!”
Poi noi siamo andati a Cracovia,
dove è nato il papa, in Jugoslavia, a
Budapest, in Scozia, in Inghilterra, in
Francia, in Svizzera, a Lourdes; e poi,
in Italia, siamo andati in diversi posti,
adesso nemmeno mi ricordo di tutti.
Non credevo mai di girare così. Le mon­
tagne stanno ferme e le persone cammi­
nano e non si può dire “in questa strada
non ci passo più!”
C’era un ubriaco che stava mezzo
curvo davanti alla porta di casa sua…
Passa di lì un amico e gli domanda:
“Che fai, Lisandro?” “Aspetto il buco
della serratura! Dicono tutti (e poi lo
vedo anch’io!) che il mondo gira… e
così deve passare qui davanti!”
Erba d’amore e… l’addugazió’!
Erba d’amore e… l’educazione
Non se finisce mae de parlà’.
Da ragazzòtte fumma tutte uguale,
non se pensàa de altro, stèmma a
’ngattù’ ’nté ’l prado per cercà’ l’erba
spigaròla. Sapéde no qual è? Fatta
’na spèce delle spighe del gra’, solo
che è ’n filo d’erba. Allora dicémma:
“Me vò be’, me vò male, me ama, me
dessìdera e me sposa” e pensàmma a
uno che ce piacìa. Sci capitàa che ce
volìa be’, ce amàa, ce dessideràa, ce
sposàa, fumma tutte contènte como
quanno se fa ’l solidàrio co’ le carte:
sci vène, sémo contenti.
Quanno gèmma giuppe ’l campo ,
troàmma l’erba d’amore, pïàmma ’na
Non si finisce mai di parlare. Da
ragazzotte eravamo tutte uguali, non
si pensava ad altro, stavamo a gattoni
nel prato per cercare “l’erba spigarola”.
Sapete no qual è? È simile alle spighe del
grano, solo che è un filo d’erba. Allora
dicevamo: “Mi vuol bene, mi vuol male,
mi desidera e mi sposa!” E pensavamo
ad uno che ci piaceva. Se capitava che
ci voleva bene, ci amava, ci desiderava,
ci sposava, eravamo tutte contente come
quando si fa il solitario con le carte: se
viene, siamo contenti.
Quando andavamo giù per il campo,
trovavamo l’erba d’amore, prendevamo
una foglia, la mettevamo su un braccio
207
brancia, la mettèmma ’nté ’n braccio
e dicémma coscì: “Erba d’amore sci
me vòi be’ fàmme ’n fiore; sci me
voi male fàmme ’na piaga che me
frìge e che me côce!” Dicédeme la
veredà, quanto fumma lusingàde! Sci
ci’armanìa l’amprónta, se vede che
ce volìa be’: sa comm’èra vero! È
como cuèllo che dicìa: “Fô l’amore
de nascosto de lìa, perché non vôle
la madre!”. Caperài, noà pensàmma
a cualchidù’ bello, che cuéllo ’n ce
pensàa per gnè’; cuéll’edà lì ’n se
capisce gnè’.
Capàce fumma su ’n’olmo che
fèmma la frónda, vedémma a passà’
uno giù la strada, ié fèmma ’n fischio;
cuéllo s’arvoltàa a guardà’, non vidìa
a nisciù’: noà drendo all’olmo mude
como ’mpésce. Badàa a caminà’,
arfèmma ’n’antro fischio e cuello
s’arfermàa. Quanno ’n c’era mamma,
sa!, scinó non volìa a fa’ ’sti schérsi.
Anca quanno gèmma pe’ strada che
passàa avanti cualchidù’, guai sci
se ridìa: non volìa che ciucciolàm­
ma piano, perché podìa pensà’ che
dicémma male de cuéllo.
L’addugazió’ ce le ’mparàa
anche quanno magnàmma. Ce dicìa:
“Magnàde a bocca chiusa, non sbia­
sciàde a bocca ropèrta che scinó si
vede l’aggéggi dréndo bocca!”. De
tante raccomandazió’ calchidùna s’è
scancellàda. Sci te vedìa a métte’
’l dédo ’nté ’l naso, allora sgaggiàa:
“Que scàrchi le càmbore? Làvede se
recchie scinó ce nasce ’na buga de
fàa! Stréccede si capìji: me pari ’na
e dicevamo così: “Erba d’amore, se mi
vuoi bene fammi un fiore; se mi vuoi
male fammi una piaga che mi frigge e
che mi cuoce!” Ditemi la verità, quanto
eravamo illuse! Se ci rimaneva un’im­
pronta, si vede che ci voleva bene: sa
come era vero! È come quello che dice­
va: “Faccio l’amore di nascosto da lei,
perché non vuole la madre!” Capirai,
noi pensavamo a qualcuno bello, men­
tre quello non ci pensava per niente; a
quell’età non si capisce niente.
Capitava che eravamo su un olmo
a fare la foglia, vedevamo passare uno
per la strada, gli facevamo un fischio;
quello si rivoltava a guardare, non
vedeva nessuno: noi dentro (il foglia­
me) dell’olmo mute come un pesce.
(Quello) badava a camminare, faceva­
mo un altro fischio e quello si fermava
di nuovo. Quando non c’era mamma,
sa, se no lei non voleva che facevamo
questi scherzi. Anche quando andava­
mo per strada e qualcuno (ci) passava
davanti, guai se si rideva! Non voleva
che parlassimo piano, perché (quello)
poteva pensare che dicevamo male di
lui.
L’educazione ce la insegnava anche
quando mangiavamo. Ci diceva:
“Mangiate a bocca chiusa, non masti­
cate a bocca aperta che se no si vedono
gli aggeggi dentro la bocca!” Di tante
raccomandazioni qualcuna si è can­
cellata. Se ti vedeva mettere il dito nel
naso, allora sgridava: “ Che, scarichi
le camere? Lavati le orecchie se no ci
nasce una buca di fava! Strécciati que­
sti capelli: mi pari una fascina di rovi
208
fascina de rughi tutta scompiciàda!”
C’era una che dicìa: “Non me guardàde che so’ scompïàda, scinó me
pètteno tutti i sàbbedi”: Magari è
vero! A cuéi tempi l’ansiàne che portàane ’l ciùccio se ’l guastàa ’na ò per
settimana, se dèrene ’na rastrellàda
dannànse, ce mettìa ’mpettinì’ e via:
gèra de moda coscì.
tutta scompigliata!”
C’era una che diceva: “Non mi guar­
date che sono scapigliata, se no mi pet­
tino tutti i sabati”. Magari è vero! A
quei tempi le anziane che portavano il
ciuccio se lo guastavano una volta per
settimana, si davano una rastrellata
davanti, ci mettevano un pettinino e
via: andava di moda così.
209
L’onóre è ’na gran bella cosa
L’onore è una gran bella cosa
Cuélla vo’, a forsa da gì a le feste,
a le fiere, ai mercàdi, a ballà’, prima
o poi le fémmene se sestémàa ’mpo’
tutte ma, quanno c’èra li ragazzi de
’ste sorelle, tutte le sante domennighe mi’ padre e mi’ madre dicìa
sempre: “Fjòli, guardàde che l’onore è ’na gran bella cosa!” O l’argiràa
da ’na via o l’argiràa da ’n’antra, gìa
a sbàtte’ sempre lì. Cuélla vo’ se
gèra là la càmbora a ragionà’, prò
quann’era la sera e comensàa’mpo’
a’mbrunì’ l’aria, co’ facéa mamma?
Piàa la luma e l’appicciàa, te la mettìa lì a lo spìgolo della porta. E lì ’n
se sturzàa tanto eh! perché dovìa
esse’ birbi ’mbelpò’ pe’ fregàlla a
mamma, perché lìa sapìa nigò, sapìa
i movimenti, sapìa tutto eh!
E dobo po’, quanno sentìa che
c’era ’mpo’ de silènsio, passàa oltra
lì ’nté ’l corridóre, chiamàa “Artemì’,
Gi’, è ora de scappà’, è ora de cena!”
Envéce ancó’, capirài, c’era da preparà’ ’l taolì’; prò intànto le venìa
mettènno all’erta. E po’, pôrétta, è
stada bràa’mbelpò’, sa, dovémma
dà’ mente a lia, c’era ’l tempo dobo
de fàlle le cose, anzi ce n’era anca
troppo. Sci émma comensàdo magari ’mpèzzo prima se fumma stufàdi
abbastanza presto. Avéa ragió’ sa,
pôretta!
Quanno gèmma alla festa e c’era
li ragazzi de’ ste sorelle, io volìa
caminà’ ’mpo’ alla sveltra, ma lìa
dicìa: “Gìmo piano, gìmo piano, le
Quella volta, a forza di andare alle
feste, alle fiere, ai mercati, a ballare,
prima o poi le femmine si sistemava­
no un po’ tutte ma, quando c’erano i
fidanzati delle mie sorelle, tutte le sante
domeniche mio padre e mia madre
dicevano sempre: “Figlioli, guardate che
l’onore è una gran bella cosa!” O la rigi­
rava da una parte o la rigirava da un’al­
tra, andava a sbattere sempre lì. A quel
tempo si andava nella camera a ragio­
nare (d’amore), però quando era sera
e cominciava un po’ ad imbrunire, che
cosa faceva mamma? Prendeva il lume
e l’accendeva, te lo metteva lì nell’an­
golo della porta. E lì non si scherzava
tanto eh! Dovevano essere birbi tanto per
imbrogliare mamma, perché lei sapeva
tutto, capiva i movimenti, immaginava
tutto, eh! E poi, se sentiva che c’era un
po’ di silenzio, passava lì nel corrido­
io e chiamava: “Artemisia, Gigia, è ora
di uscire, è ora di cena!” Invece anco­
ra, capirai, c’era da preparare la tavola;
però intanto ti veniva avvertendo. E poi,
poveretta, è stata molto brava; sa, dove­
vamo dare retta a lei: ci sarebbe stato
in seguito il tempo per farle certe cose,
anzi ce ne sarebbe stato anche troppo. Se
avessimo magari iniziato un po’ prima,
ci saremmo stancati presto. Aveva ragio­
ne, sa, poveretta!
Quando andavamo ad una festa e
c’erano i fidanzati delle mie sorelle, io
volevo camminare un po’ alla svelta,
ma lei diceva: “Andiamo piano, andia­
mo piano, aspettiamole!” Talvolta nella
210
aspettàmo!” Delle vo’ c’era la strada ’mpo’ curva, allora li ragazzi e
le ragazze gèra ’mpo’ più piano,
capace che giù de diedro schiacciàa
anca ’n bacio, mamma già subbedo s’allarmava, perché era notte.
Se stèra sempre scortàdi, sa: era
peggio d’adesso quanno c’è ’n carico pesante che ci’ha ’na machina
davanti e una de drèdo, scinónca
como ’l papa... ’na robba coscì. Era
sempre scortàde le fjòle, ’n se mannàa mae sole: gèra a ballà’, la madre
era sempre taccàda.
Allora, quanno era la sera, se
gèra accompagnà’ lo ragazzo finànta a pìa de le scale. Cuélla vo’ pure
la gente ’mpo’ maligna c’era, perché
tante le ò lassàvi la biscighetta fòri,
a qualcù’ ié ce facéa rabbia che
venìa a fa’ l’amore lì casa, magari
ié facéa ’n dispetto, bugàa la biscighetta... Allora cuél pôro babbo,
quann’era ’n tra ’l lume e scùro,
pïàa ’sta biscighetta e la mettìa
rampinàda lì dréndo le scale. Allora,
quann’era ’na cert’óra, lo ragazzo de
’ste sorèlle gèra a pìa de le scale, se
gèra a ‘ccompagnà’ no... Ma cuélla
pôra mamma, sempre a sède lì ’l
camì’, facéa finta che tenìa le ma’
su l’occhi, ma i dedi era larghi.. voja
sci vedìa be’ giù pìa de le scale! Le
porte dev’èsse’ stade aperte, perché
sci chiudìa le porte, mmm.... dobo
era càoli amari, eh!
Se stèra lajù a pìa de le scale,
cualche vo’ anca ’n quarto e lìa
caràsciàa ...eeecchè eeecchè eeec-
strada c’era una curva, allora i ragazzi
e le ragazze andavano un po’ più piano,
forse giù dietro (la curva) avrebbe­
ro potuto darsi anche un bacio, allora
mamma subito si metteva in allarme,
perché era notte. Si stava sempre con la
scorta, sa: era peggio di adesso quando
c’è un trasporto eccezionale che ha una
macchina davanti ed una di dietro,
oppure come il papa…. Una cosa così!
Le figlie erano sempre scortate, non si
mandavano mai sole: andavano a balla­
re e la madre era attaccata a loro.
Allora, quando era notte, si andava
ad accompagnare il fidanzato fino a
piedi delle scale. Quella volta c’era pure
della gente un po’ cattiva, perché tante
le volte se lasciavi la bicicletta fuori, a
qualcuno faceva rabbia che (quel ragaz­
zo) si era fidanzato lì casa, magari face­
va un dispetto, bucava la bicicletta… Per
questo quel povero babbo, quando era
sull’imbrunire, prendeva la bicicletta e
la metteva arrampicata lì dentro il vano
delle scale. Allora, quando era una certa
ora, il fidanzato delle mie sorelle anda­
va in fondo alle scale e si andava ad
accompagnarlo, no… Ma quella povera
mamma, sempre seduta presso il cami­
no, fingeva di tenere le mani davanti
agli occhi, ma le dita erano larghe…
Voglia se vedeva bene giù in fondo alle
scale! Le porte dovevano essere lasciate
aperte, perché se chiudevano le porte,
mmm.… dopo erano cavoli amari, eh!
Si rimaneva giù in fondo alle scale,
qualche volta anche un quarto, ma lei
raschiava con la gola… eeecchè eeecchè
eeecchè! Dovevi capire che cos’era quello:
211
chè! Dovìsci capì co’ era cuéllo,
era l’avviso, era stufa de ’spettà’,
avìa paura de qualcò’. Coscì lì ne
combinai poche, perché te vidìa
da su casa, anca sci ié volìi da’ ’n
bacio...’ste sorelle ne ’l so, ma lo
ragazzo mia era sempre sotta l’arme: sci era lì casa embè anch’io
sarìa stada como cuèll’altre...
Pôretta, po’ sci ce stésci anca
dieci minuti o ’n quarto , a lìa parìa
’n’ora: comensàa alsàsse su, mettìa
a posto le sedie, studàa ’l fôgo...
“Adè studo ’l fôgo eh! Dobo sci
hai freddo fa’ como te pare!” Dicìa
coscì, tanto t’avvisàa. Sul fôgo tiràa
giù ’na mezza cadinèlla d’aqua e
giràa, prò a letto ’n ce gìa sa... Giràa
da la cucina a la càmbora, dalla
càmbora alla cucina e dobo a cuéi
pôri disgraziadi ié toccàa a gì via,
perché capìa che dèra fastidio.
era l’avviso che era stufa di aspettare,
che aveva paura che succedesse qualco­
sa. Così lì ne combinavi poche, perché ti
vedeva da casa, anche se gli volevi dare
un bacio… Le sorelle mie non lo so…,
ma il fidanzato mio era sempre sotto
le armi: se fosse stato lì casa, ebbene
anch’io sarei stata come le altre…
Poveretta! Se ci rimanevi anche dieci
minuti o un quarto, a lei pareva un’ora:
cominciava ad alzarsi, metteva a posto
le sedie, spegneva il fuoco… “Adesso
spengo il fuoco eh! Dopo se hai freddo,
fa’ come ti pare!” Diceva così, intanto
ti avvisava. Sul fuoco tirava una mezza
catinella d’acqua e girava, però a letto
non ci andava sa... Girava dalla cucina
alla camera, dalla camera alla cucina e
dopo a quei poveri disgraziati toccava
andare via, perché capivano che stava­
no dando fastidio.
Lo sposalizzio de cuélla grànna:
Gigia
Lo sposalizio di quella grande:
Gigia
De quanno s’è sposàda, nel ’30,
la più granna de ’ste sorelle non
m’arcordo de tanto. I’hò portàdo ’l
mazzo dei fiori e è stàda la prima
’òlta che so’ montàda ’nté l’èttomobole. M’arcòrdo anca che, quanno
magnàmma, iè cascàdo ’n dente, era
’n sopradènte: cuélla vo’ ’l chiamàa
coscì. Ce nìa uno sopra l’altro, ’l
dentista mango c’era, ’n medigo fèra
nigò: barba, capìi e baffi - se dicìa
Di quando si è sposata, nel ’30, la più
grande delle mie sorelle non mi ricordo
tanto. Io le ho portato il mazzo di fiori
ed è stata la prima volta che sono salita
in un’automobile. Mi ricordo anche che,
mentre mangiavamo, le è caduto un
dente, era un sopraddente: quella volta
lo si chiamava così. Ne aveva uno sopra
l’altro, il dentista non c’era, un medico
faceva tutto: barba, capelli e baffi – si
diceva così. E poi, se ci fosse stato, non
212
Sposi campagnoli: Maria Veschi e
Augusto Morbidelli.
Ostra, anno 1921
coscì. E po’, sci c’era, n’era fatto pei
pôrétti! Ma gèmo annànse!
I pranzi se fèra ’nté ’n casa,
fumma tanti de parenti, perché
prima de lìa, ciaìa n’antre du’ nôre,
’l marido, erane tre fradelli.
’L magnà’ cuélla vo’ era coscì:
sarebbe stato fatto per i poveretti! Ma
andiamo avanti!
I pranzi si facevano in casa, erava­
mo tanti parenti, perché il marito aveva
due fratelli e, prima di lei, (quella fami­
glia) aveva altre due nuore.
Il menù quella volta era così: mine­
213
Oggi sposi. Foto
fine anni ’30. Da
tener presente che
il cappellino della
sposa e i guanti in
pelle dello sposo
solitamente non
venivano acquistati,
ma presi a noleggio.
minestra de brodo coi guadrelli de
casa, l’allésso co’ le foje (l’ubbiédi,
grugni, cuél c’ancuntràa); po’ i maccarù’, l’aròsto co’ l’ansalàda, ’na
fetta de ciambelló’.
Cuélla vo’ tiràa i confetti como i
matti, rompìa anca piatti e bicchieri, e po’ sci c’era i gióveni vedìa ’na
stra in brodo con i quadretti fatti in
casa, il lesso con verdura (bietole, cico­
ria, quello che capitava); poi i macche­
roni, l’arrosto con l’insalata, una fetta
di ‘ciambellone’.
Quella volta tiravano i confetti
come i matti, rompevano anche piat­
ti e bicchieri, e poi se i giovani vede­
214
ragazza bella... poretta lìa! Toccàa
a caccià’ la testa sotta al taolì’,
scinónca a ’nvuricchiasse la testa
co’ la salviétta. Toccàa ’mbelpò’ alla
segonda mi’ sorella, che era carina
muntubè; Artemisia era ’na bambola, cìa ’na coda che ié pendìa giù
pe’ le spalle, tutta riccia co’ ’mbèl
fiocco drìa la testa, moretta. Cuélla
ce nìa ’mbellipo’ de scardafù’ dentorno. Capiréde: era sul fiore del bel
cantà’: quindici’anni! Po’ era stada
mannàda a servizio co’ le padrone
nostre; magnàa be’, s’era fatta più
bella che mae: mango parìa ’na
contadina!
Finido de magnà’, se saludàa
a tutti e via a casa a pìa, ’na ventìna de chilomedri de strada. La
màghina de piazza non se podìa
badurlà’ mango a magnà’, ce n’era
una sola a Montalbò’. Mi’ sorella ha
sposàdo col cappelletto e la velétta avanti all’occhi. Io dicìa: “Co’,
te sai mascaràda?” E po’ la vèsta
color panna e lo spolverì’ nero, ’n
boà de golpe sul collo, ié lìa pagàdo
la faméja, ma mango’n’arsomèjo ìa
polùdo fa’, perché ’l marìdo pròpio
cuéll’anno dal fónno piccolo era
gìdo ’nté uno ’mbelpò’ più granno
e avìa fatto 70 lire de débbedo.
Del ’30! pensade vuà. Settanta lire
quante era cuélla vo’! C’era chi cìa
dieci lire era riccóni. Allora ha fatto
alla mèjo. Mamma piagnìa, dicìa:
“Quanno se levarà tutto cuél débbedo?” Envéce tre maschi e ’l padre
con quattro donne tutte d’accordo,
vano una ragazza bella… povera lei!
Toccava mettere la testa sotto la tavola,
sennò avvolgersi la testa con la salviet­
ta. Prendevano di mira molto la mia
seconda sorella, Artemisia, che era
molto carina. Era una bambola, aveva
una coda che gli scendeva sulle spalle,
tutta riccia, con un bel fiocco dietro la
testa, moretta. Quella ne aveva dintorno
parecchi di ammiratori. Capirete: era
sul fiore del bel cantare: quindici anni!
Poi era stata mandata a servizio dalle
nostre padrone, mangiava bene, si era
fatta più bella che mai: nemmeno sem­
brava una contadina!
Finito di mangiare, si salutava
tutti e via a casa a piedi, una ventina
di chilometri di strada. L’automobile
di piazza non si poteva fermare nep­
pure a mangiare: ce n’era una sola a
Montalboddo.
Mia sorella ha sposato con il cappel­
letto e la veletta davanti agli occhi. Io
le dicevo” Cosa, ti sei mascherata?” E
poi il vestito color panna, lo spolverino
nero, un boa di volpe attorno al collo,
che glielo aveva pagato la famiglia (del
marito), però neppure una fotografia
ha potuto fare, perché proprio quell’an­
no il marito da un fondo piccolo era
andato in uno molto più grande e aveva
contratto settanta lire di debito. Del ’30,
pensate voi, quante erano settanta lire
quella volta! Quelli che avevano dieci
lire erano ricconi. Allora ha fatto alla
meglio.
Mamma piangeva, diceva: “Quando
toglierà tutto quel debito?” Invece tre
maschi e il padre con quattro donne
215
presto s’è libbràdi. Cuéi tempi chi
cìa i maschi era fortunadi. Gigia, la
sorella mia, ìa ’ncuntràdo ’nté ’na
faméja pôretta, ma ricchi d’onore e
umili. La casa l’ha vista cuél giorno
c’ha sposàdo per la prima ’olta, ansi
è como adè’ che vanne a casa de lo
ragazzo dobo otto giorni!
Gigia po’ aìa fatto l’amore con
due. ’L primo dobo ’n’annàda ha
’nsumbiàdo al padre morto e i’ha
ditto: “Va’ sotta cuéll’ulìa, scava e
trovarai ’l tesòro!”
E perdéro cìa troàdo’n giògo de
bòcce d’oro e lu’ è gido an Ameriga
a scambiàlle pe’ non fàsse scoprì
qua. Lìa confidado solo co’ la madre
e mi’ sorella, ma ’sti genidori nostri
non ha volùdo sapé’ più gnè, perché
pensàa che fusse stada ’na sqùsa e
n’arnìa più. Envéce dobo du’ anni è
’rnùdo, ma lìa s’era già maridàda co’
quest’altro.
A cuélla sorella lì io la fèra rabbì’,
boccàa a’ngattù’ sotta ’l letto (avìa
cinque e sei anni), stèra a sentì’
e po’ ’rcontàa a mamma. Ié dicìa:
“Zazà ha baciado a Gigia!” Tante
le ò capìa i càoli pei ciùffoli, perché parlàane piano, vedìa le mòsse
dalle france della cupèrta. Lu’, près­
se, volìa sapé’ cualchicò... sci ìa
baciàdo a cuéllo vecchio, e lìa dicìa
“no!” e piagnìa. Allora io ho ardàtto
arrèdo e via a mamma: “Zazà ha
menàdo a Gigia, piàgne!” Mamma
va su: “Que c’è?” E lu’ ié fa: “Gnente,
gnente, cose che succède!”
Dobo s’è ’ccòrti ch’io li controllàa e me chiamàa “portalòffe”. Me
tutte d’accordo, presto si sono liberati. A
quei tempi quelli che avevano i maschi
erano fortunati. Gigia, mia sorella, era
capitata in una famiglia povera, ma
ricca d’onore e umile. La casa l’ha vista
per la prima volta il giorno che ha spo­
sato, anzi è come adesso che vanno a
casa del fidanzato dopo otto giorni!
Gigia, poi, è stata fidanzata con due.
Il primo dopo un anno circa ha sogna­
to il padre morto che gli ha detto: “Va’
sotto quell’oliva, scava e troverai il teso­
ro!” E davvero vi ha trovato un gioco di
bocce d’oro e lui è andato in America
per scambiarle e non farsi scoprire qua
(in Italia). L’aveva confidato solo con
la madre e con mia sorella, ma i nostri
genitori non hanno voluto sapere più
niente, perché pensavano che fosse stata
una scusa e non sarebbe tornato più.
Invece, dopo due anni è ritornato, ma
lei si era già maritata con quest’altro.
Io facevo arrabbiare quella sorella
lì: entravo gattoni sotto il letto (avevo
cinque sei anni), stavo a sentire e poi
raccontavo tutto a mamma. Le dicevo:
“Nenè ha baciato Gigia!” Talvolta pren­
devo cavoli per zufoli, perché parlavano
piano: vedevo solo i movimenti dalle
frange della coperta. Lui, forse, voleva
sapere qualcosa… se aveva baciato il
fidanzato di prima, e lei rispondeva
“no!” e piangeva. Allora io son torna­
ta indietro e via da mamma: “Nenè ha
menato a Gigia, che piange!” Mamma
sale in casa: “Che c’è?” E lui le fa:
“Niente niente: cose che capitano!”
Dopo si sono accorti che io li con­
trollavo e mi chiamavano “portalof­
216
dovìa da’ ’n calcio como se fa a ’n
gatto! Ma “cuél che fai serà ’rfàtto!”
Vedi ’mpo’: quanno ’rvenìa a licensa
mi’ ragazzo , lo stesso scherso me
’l facìa mi’ nipode. È pròpio vero.
Dicìa babbo: “’L pèttene sta sul
camì’!” Dittàdi de ’na ò, adè’ non
ce se mette più, è gambiàdo nigò,
anche ’l pèttene!
fe” (“racconta-frottole”). Mi avrebbero
dovuto dare un calcio come si fa ad un
gatto! Ma “quello che fai, sarà rifatto!”.
Vedi un po’: quando ritornava in licen­
za il mio ragazzo, lo stesso scherzo me
lo faceva mio nipote. È proprio vero.
Diceva babbo: “Il pettine sta sul cami­
no!” Proverbi di una volta, adesso non
ci si mette più, è cambiato tutto, anche
il pettine!
Artemisia: bella e sfortunàda
Artemisia: bella e sfortunata
La segonda sorella, Artemisia, era
pròpio bella, ma ’mpo’ sfortunada
su l’amore. ’L primo l’ha conosciùdo
a 15 anni, ma mamma non volìa
perché era ’n garzó’ de ’n contadì’
vicino a noà, ma stèra tanto da
lóngo, al Poggio de San Marcello. A
cuéi tempi parìa che fusse all’estro,
envéce lui gèra avanti e diedro co’ la
biscighetta. È stadi ’sieme guasci du’
anni, e ’sti genidóri ha domannàdo
le ’nformazió’ de la faméja e non era
tante bòne: ce vôle troppo tempo
a ’rcontàlle. Lu’ era bravissimo, ma
l’ha fatto lassà’ gi’ listésso. Lìa ha
pianto tanto, ma cuélla vo’ toccàa a
sta’ a sentì’ i genidóri.
Dobo pògo s’è fidansàda co’ n’antro, ma cuéllo non gèra, era bugiardo. E po’ anca n’antro, anca cuéllo
l’ha spedìdo dobo poche feste. Ha
’ncuntrado che me so’ cresimàda io,
m’avìa regalàdo ’no scudo: pensàde
La seconda sorella, Artemisia, era
proprio bella, ma un po’ sfortunata in
amore. Il primo ragazzo l’ha conosciu­
to a quindici anni, ma mamma non
voleva, perché era il garzone di un con­
tadino vicino a noi, ma abitava tanto
lontano: a Poggio San Marcello. A quei
tempi pareva che fosse all’estero, inve­
ce lui andava avanti e indietro con la
bicicletta. Sono stati insieme quasi due
anni; i nostri genitori hanno chiesto
informazioni sulla famiglia e non erano
tanto buone: ci vorrebbe troppo tempo a
raccontarle. Lui era bravissimo, ma (i
genitori) gliel’hanno fatto lasciar anda­
re ugualmente. Lei ha pianto tanto, ma
quella volta bisognava stare a sentire i
genitori. Poco dopo s’è fidanzata con un
altro, ma quello non andava bene, era
bugiardo. E poi anche un altro; anche
quello l’ha spedito dopo poche feste. (In
quel periodo) è capitato che mi sono cre­
simata io, mi aveva regalato uno scudo:
217
vuà del ’29! Era soldóni, ma dobo
pogo ’n ce l’ha volùdo più perché la
terza e quarta festa volìa fa’ cuéllo
che dicìa lu’. “Gnente... via... stamo
ognuno a casa nostra!”
Dobo, ’l quarto, era ’n contadì’
nòvo, ce s’è messi bembè’ e con cuéllo s’è sposàda; co’ la guerra dell’Àfriga se scrivìa. Anca a Artemì’ io la
fèra rabbì’: ié leggìa le léttre e po’
’rcontàa a mamma. ’L sapéde anca
lì que m’è successo? Quanno scrivìa
mi’ ragazzo a me, quanno ’ncontràa
mi’ fradello in licensa, pïàa le léttre,
le sbollàa e le leggìa a presensa de
mamma, ché lìa era nalfabéda. Éde
capido? “Fa’ del be’ scòrdede, fa’
del male pènsece!”: m’è ’rvenùde
tutte a galla. Prò sapede que ha
fatto babbo? È gido a Montalbò, ha
compràdo ’na seradùra e m’ha fatto
’nchiavà’ la cassetta, perché dicìa:
“Questo non va be’, L’amore se fa
in due!” Lu’ era più comprensìvo de
tutti, mi’ fradello era cuéllo che m’ha
fatto sempre rabbì’, e lu’ ridìa dobo,
me pïàa sempre in giro.
Prò, sci ci’arpènso a cuél che
facìo a ’ste sorelle, m’accòrgio ch’era
’gnorante anch’io. Va be’ che non
capìo, ma finànta a lìtta, me ci’ariàa.
pensate voi del ’29! Erano soldoni, ma
poco dopo non ce l’ha voluto più, perché
la terza o quarta festa voleva fare quello
che diceva lui. “Niente… via! Ognuno a
casa nostra!”
Il quarto era un contadino nuovo,
ci si sono messi perbene e con quello
s’è sposata; durante la guerra d’Afri­
ca si scrivevano. Io facevo arrabbiare
anche Artemisia: leggevo le sue lettere
e poi lo raccontavo a mamma. Sapete
che cosa m’è successo anche in questo
caso? Quando mi scriveva il fidanzato
ed incontrava che mio fratello era in
licenza, prendeva le lettere, le apriva e le
leggeva in presenza di mamma, perché
lei era analfabeta. Avete capito? “Fa’ del
bene scordati, fa’ del male pensaci!”: mi
sono ritornate tutte a galla.
Però, sapete che cosa ha fatto babbo?
È andato a Montalboddo, ha comprato
una serratura e m’ha fatto inchiavare la
cassetta, perché diceva: “Questo non va
bene: l’amore si fa in due!” Lui era più
comprensivo di tutti, invece mio fratello
era quello che mi ha fatto sempre arrab­
biare, e lui dopo ci rideva, mi prendeva
sempre in giro. Però, se ripenso a quello
che facevo alle mie sorelle, mi accorgo
che ero ignorante anch’io. Va bene che
non capivo, ma fino a lì ci arrivavo.
Ìnese:’na bella mòra!
Ines: una bella mora!
Co’ Ìnese, la penultima, fumma
più dal paro: solo tre anni de diferènsa. Cuélla s’è messa co’ uno e cuéllo
l’ha sposàdo, prò de contro genio,
Con Ines, la penultima, eravamo più
alla pari: solo tre anni di differenza. Lei
si è fidanzata con uno e quello ha spo­
218
non ne ’l volìa. Anca cuélla era ’na
bella mora; quanno gèmma in giro,
la gioventù dicìa sempre cualchicò.
L’òmmini era ’mpo’ più stronsétti
che questi d’adè’, parìa rabbìdi de
fame quanno vidìa ’na donna; adè’ ’n
se fréga pe’ gnè.
Io gèra sempre assieme, cominciàa a guardà’ anca a me, ma Ìnese
era più madùra. Dobo s’è fatta ’sto
ragazzo, i’hà datto qualca parola
bòna e non se l’ha spicciàdo più
dentorno. Ha preso anca du’ schiaffi
da ’n’antro, perché parìa che tenìa
i pìa ’nté du’ staffe. Cuésto chì ìa
messo lo roffià’ che, pe’ pïà’ ’na
camicia o ’n cappello, i’hà ditto a
’sto ragazzo: “Vedrai che ié la famo
a convertìlla!”
Envéce Ìnese non s’è libbràda più
dal primo, che i’hà ditto: “Ho giurado
avanti a ’na chiesa: sci me sposa
be’, scinó l’ammàzzo!” Cuélla vo’ se
giogàa la gioventù, pe’ ’na ragazza:
che scémi!
Ne ’l so sci ve l’ho ’rcontàdo
’n’antra vo’: chi era forte domannàa
le ragazze, chi era vergognosi ié
fèra le dichiarazió’ pe’ léttra, cuélli
pròpio adrìa mettìa lo roffià’ e dobo
’l portàa lì casa tutto bello sbarbàdo,
capii tajàdi, co’ tanto de gravàtta,
scarpe ’rlùstre. Le madre preparàa
la cena, li mannàa mezz’ora là ’nté la
càmbora, e lì sci se piacìa be’, scinó
se dicìa “t’ardò risposta!”
Era giorni ’mpo’ pîni d’ansia,
cualchidù’ facìa compasció’, pôretti!
Sci ìsci fatta bocca bòna, armanìa
sato, però controvoglia, non lo voleva.
Anche lei era una bella mora; quando
andavamo in giro, i giovani dicevano
sempre qualcosa. Gli uomini erano un
po’ più audaci di quelli di adesso, sem­
bravano rabbiosi per la fame, quando
vedevano una donna; adesso non gli
importa niente. Io andavo sempre insie­
me, cominciavano a guardare anche me,
ma Ines era più matura. Dopo si è fatta
quel ragazzo, gli ha dato qualche parola
buona e non se l’ha spiccicato più din­
torno. Ha preso anche due schiaffi da un
altro, perché pareva che tenesse i piedi
in due staffe. Questo qui aveva messo il
ruffiano che, per una camicia o un cap­
pello, gli aveva detto a questo ragazzo:
“Vedrai, Francé’, che gliela facciamo a
convertirla!” Invece Ines non s’è libera­
ta più del primo, che le aveva detto: “Ho
giurato davanti ad una chiesa: se mi
sposa bene, sennò l’ammazzo!” A quei
tempi ci si giocava la gioventù per una
ragazza: che scemi!
Non lo so se ve l’ho raccontato un’al­
tra volta: chi era coraggioso domandava
le ragazze, chi era timido le faceva le
dichiarazioni per lettera, quelli proprio
indietro mettevano il ruffiano, che dopo
portava (il giovane) lì casa, tutto bello
sbarbato, capelli tagliati, con tanto di
cravatta, scarpe lucide. La madre pre­
parava la cena, li mandava mezz’ora
là nella camera e lì, se piaceva alla
ragazza, bene, se no si diceva: “Ti darò
risposta!” Erano giorni un po’ pieni
d’ansia, qualcuno faceva compassione,
poveretto! Se aveva fatto bocca buona,
rimaneva amara. Le ragazze, che aspet­
219
amara. Le ragazze che spettàa lì
casa se facìa véde’ a rigamà’ o fa
’l merlétto, ’l giornì’, cuce i linsòli,
no co’ le ma’ ’nté le saccò’. Fa rìde’
arcontàllo! Adè’ basta che sia bràe a
fa’ l’amore! Envéce, ’na ò, dovìsci fa
l’uno e l’altro!
Adè’ ’l marìdo ha da fa’ da magnà’,
lavà’ i piatti, ’rfàsse ’l letto, gì’ a fa’
spésa e tante altre cosétte, scinó
arvànne a casa della madre: non i’hài
da luccà’, scinó te tira cuél che ci’hà
su le ma’. Sci sgàggi, alsa la voce de
più, envéce dovrìa èsse’ mùdole ché
’l prede dice cuél giorno che sposa:
“La moje dée èsse’ sottomessa dal
marido!” C’è la paridà? Cuélla paròla
bisogna che la scancèlla!
tavano a casa, si facevano vedere a rica­
mare o a fare il merletto, il giornino, a
cucire le lenzuola, non (stavano) con le
mani nelle tasche. A raccontarlo fa ride­
re! Adesso basta che (le ragazze) siano
brave a fare l’amore! Invece, una volta,
dovevi fare l’uno e l’altro!
Oggi il marito deve preparare da
mangiare, lavare i piatti, riordinare il
letto, andare a fare la spesa e tante altre
piccole faccende, sennò (le spose) ritor­
nano a casa della madre: non devi gri­
dare, se no ti tira quello che ha in mano.
Se gridi, (la donna) grida di più, invece
dovrebbe essere muta, perché il giorno
del matrimonio il prete dice: “La moglie
deve restare sottomessa al marito!” C’è
la parità? Quella parola bisogna cancel­
larla!
Piagnistèi e musi lónghi
Piagnistei e musi lunghi
“Marìdo a chi tròa, moje a chi
tocca!” Dicìa be’ ’l dittàdo de ’na
ò, prò vorrìa sapé’ como fèra ’na
bardàscia a troà’ marido, sci stèra
sempre sott’al cri’. Ancó’ se dovìa
finì’ ’l calassàro vecchio, ’l nòo non
dovìa mango comparì’! Sapésta vuà
como è brutto a èsse’ l’ultimi del
branco! Io ce ’l so, perché ce so’ passàda, me parìa che n’era calcolàda
gnè’, envéce n’era vero. ’Sti genidóri
nostri èrane giusti e bòni, comprensìi, volìa be’ a tutti uguale, ma io,
finànta stèra sott’al crì’ non capìo.
Coscì so’ doventàda trista, perché
“Marito a chi trova, moglie a chi
tocca!” Diceva bene il detto di una
volta, però vorrei sapere come faceva
una ragazza a trovare marito, se stava
sempre sotto al ‘crino’. Ancora si doveva
finire la catasta vecchia, la nuova non
doveva nemmeno esser notata. Sapeste
voi come è brutto essere gli ultimi del
branco! Io lo so, perché ci sono passa­
ta, mi pareva di non essere calcolata
per niente, invece non era vero. I nostri
genitori erano giusti e buoni, compren­
sivi, volevano bene a tutti ugualmente,
ma io, fino a che stavo sotto il ‘crino’,
non lo capivo. Così sono diventata cat­
220
per me ’n c’era mae gnè’: piagnistèi,
musi lónghi quannno volìa gi’ drèdo
a lóra, alle sorelle più granni, e n’era
possìbole. Cuànta pacènzia, cuélla
pôra mamma! Ma non me menàa sa:
me piàa co’ le bòne.
Tutti i venardì che gèra a
Montalbò’, anca le fiere, arvenìa a
casa sempre càrca co’ la canè’ sulla
testa e la spara sotta pe’ no’ sfonnà’
’l cervèllo. Sempre a pìa, io la gèra
ancontrà’, quanno la vedìa da lóngo
mezzo chilomedro; aiudàa a portà’ la
canè’: la calàva giù da su la testa, e
pïàmma una per parte ’nté le mànnighe, finànta che n’era rivàda drendo
casa. Era bòna, calma, ma quanno
comensàa a tirà’ fòra la robba, sentìa
che dicìa: “Cuésta è per Gigia, cuésta
è per Artemisia, pe’ Tizio, Caio e
Simbròjo, e per me mae niè’, perché
me passàa la robba che n’era bòna a
cuélli più granni, allora io doventàa
trista, trista ’mbelpo’. Sa, non me la
podìa fa’ a me: quanno n’era più bòna
a chi la dèra? Per me la comédàa ’ste
sorelle. Io che vidìa le mighe mia,
una era fija ùniga, ’n’antra avìa solo
’n fradèllo, me rodèa drendo a ’n
podé èsse’ dal paro…
Prò era poghe le faméje che
cìa poghi fjòli, era tutte numberóse, adrittùra ’na faméja , ié dicìa
Girinó, ciaìa diciotto fiòi: era como
’na coàda de pulcì’. A cuélli non ié
fèra mango pagà’ le tasse. Scì, ma
sett’òtto fémmene, anca de più, da
maridàlle era como avécce tante
cambiàle. Ne ’l so, poèsse che ié
convenìa a pagà’ le tasse! Prò cuélla
tiva, perché per me non c’era mai nien­
te: piagnistei, musi lunghi, quando
volevo andare dietro a loro, alle sorelle
più grandi, e non era possibile. Quanta
pazienza quella povera mamma! Ma
non mi menava sa: mi prendeva con le
buone.
Tutti i venerdì che andava a
Montalboddo, anche alle fiere, ritorna­
va a casa sempre carica con la cane­
stra sulla testa e la ‘spara’ sotto per non
sfondare il cervello. Sempre a piedi, io
le andavo incontro, quando la vedevo
lontana mezzo chilometro, l’aiutavo a
portare la canestra: la tirava giù dalla
testa e la prendevamo per i manici una
per parte, fino a quando non eravamo
arrivate dentro casa. Ero buona, calma,
ma quando cominciava a tirare fuori la
roba, sentivo che diceva: “Questa è per
Gigia, questa è per Artemisia, per Tizio,
Caio e Sempronio, e per me mai niente,
perché mi passava la roba che non era
più buona a quelli più grandi, allora io
diventavo cattiva, molto cattiva. Sa, non
me la poteva fare per me: quando non
mi era più buona, a chi la dava?
Per me l’adattavano le mie sorelle. A
me, che vedevo le amiche mie, una era
figlia unica, un’altra aveva solo un fra­
tello, rodeva dentro a non poter essere
alla pari (con loro).
Però erano poche le famiglie che ave­
vano pochi figli, erano tutte numerose,
addirittura una famiglia, gli si diceva
‘Girinó’, aveva diciotto figli: era come
una covata di pulcini. A quelli non gli
faceva neppure pagare le tasse. Sì, ma
sette otto femmine, anche di più, da
221
vo’ c’era cuél clima lì.
C’era uno che ìa pïàdo móje e non
ce magnàa ’l pa’. I’hà ditto n’amìgo:
“Règolede, màgnece ’l pa’!” Cuéllo
sapéde que ià rispòsto? “Chì ce so’
nàdo e chì ce vojo morì’!” Era doventàdo secco como ’no spì’… “Dàje
’mpo’, tre anni tre fjòli: sci continui
alluscì, fai la scuàdra del palló’ presto!”
’N’antro cìa ’l passo da lóngo
dalla provinciale ’na quinnicìna venti
mèdri, dicìa che volìa métteli in fila
4x4 finànta da cima… No ié l’ha
fatta, perché è morto! Ié n’ha fatti
fa’ uno all’anno e, quanno li portàa
a battizzà, ié dicìa: “Arivedérci a
’n’antr’ànno, sor curàdo!” El curàdo
era tutto contento, intanto lu’ venìa
pïànno, no? Tutti ié dà cualchicò!
Quanno è morto, pôrétto, n’ha mantenùdo la promessa.
Allora como ve l’ardìgo che a
nàsce’ ultimi della coàda è ’mpo’
dura la fascènna, dobo se dovènta
tristi coi genidóri, pare che sia falsi,
envéce n’è vero: ié ’l fèra fa’ ’l bisogno!
Donca, finànta che stèra sott’al
crì’ ’l mónno ’n me parìa giusto, guàsci tutti ciàìa più de me: a pensà’ che
envéce io cìa ’na faméja de cuèlle
mèjo e podìa anca contentàmme.
Prò me so’ ’ccòrta dobo, troppo
tardi. Almànco sott’al crì’ se respiràa, i vénghi è ràdi… Dobo so’ gìda
a finì’ sotta la prèda del molì’, che
m’ha scrocciolàdo bembè.
maritare era come avere tante cambia­
li. Non lo so, forse gli conveniva paga­
re le tasse! Però quella volta c’era quel
clima lì. C’era uno che aveva preso
moglie e non ci mangiava il pane. Gli
ha detto un amico: “Regolati, mangiaci
il pane!” Sapete che cosa gli ha risposto
quello? “Qui ci sono nato e qui ci voglio
morire!” Era diventato secco come uno
spino… “Dagli un po’, tre anni tre figli:
se continui così, fai presto la squadra
di pallone!” Un altro, che aveva il passo
(di casa) lontano una quindicina venti
metri dalla provinciale, diceva che voleva
metterli in fila quattro per quattro fino
in cima (al passo)… Non gliel’ha fatta,
perché è morto. Gliene ha fatti fare uno
all’anno e, quando li portava a battez­
zare, gli diceva: “Arrivederci al prossi­
mo anno, sor curato!” Il curato era tutto
contento, intanto lui veniva prendendo,
no? Tutti gli danno qualcosa! Quando è
morto, poveretto, non ha mantenuto la
promessa. Allora, ve lo dico di nuovo, è
un po’ dura la faccenda a nascere ultimi
della covata, dopo si diventa cattivi con
i genitori, pare che siano falsi, invece
non è vero: glielo faceva fare il bisogno!
Dunque, fino a quando stavo sotto il
crino, il mondo non mi pareva giusto,
quasi tutti avevano più di me: a pen­
sare che, invece, io avevo una famiglia
di quelle migliori e avrei potuto anche
accontentarmi. Però mi sono accorta
troppo tardi. Almeno sotto il ‘crino’ si
respirava, i vimini sono radi… Dopo
sono andata a finire sotto la (macina)
di pietra del molino, che mi ha rotto le
ossa perbene.
222
P arte S econda
Affogàda a vent’anni
Sgappàda dal crì’ e sposàda
Uscita dal ‘crino’ e sposata
Po’ io so’ sgappàda dal crì’, propio sulla crisi de nigò. Nel novembre
del ’40 ha sposàdo la tèrsa de ’ste
sorelle e so’ venùda fòri io propio
sul colmo del peggio: cuél musolìni
avìa volsùdo fa’ la guèra! Ciaìa otto
milioni di baionétte, tutti gioànotti
da mannà’ a morì’ mazzàdi. N’era
mèjo che li lassàa a fa’ i contadì’?
’Ntanto io nel novembre del ’43
già ìa sposàdo. Ìa conosciudo ’sto
ragazzo ’nté l’arsomèjo, ce semo
scritti per un po’ de mesi sensa sapé’
chi era. Lu’ a me mìa conosciùdo
a Montalbò’ ’nté ’na licensa - me
spiegàa.
Ma tanto io non sapìa chi era,
perché ’sti sgarzettóni ce n’era tanti
che te scrivìa, che te venìa a bussà’
’nté ’na spalla. E po’, quanno sgappàsci a ’na festa, ’na fiera, ’n mercàdo c’è n’era sempre du’ tre che te
venìa dimandà’, a chiede’ amore, a
fa’ dichiarazió’. Cuélli che ’n cìa ’l
coraggio, scrivìa.
Io era ’rivàda abbastànsa, già
diciott’anni cominciàa a èsse’ ora
a troà’ marido. Che scemi! Como
fumma adrìa, come le ròde del rimorchio! Bisognàa per vent’anni esse’
sistemada, scinò podìsci ’rmàne’
zitèlla... e n’era mejo?
Dicìa i genidori: “È mejo ’n tristo
marido che ’n bòn fradello!” Sarà
anca vero, perché le giódeghe non
era calcolàde gnè… ma anca a ’ffogàsse a vent’anni!
Poi io sono uscita dal ‘crino’, proprio sulla crisi di ogni cosa. Nel novembre del ’40 ha sposato la terza delle mie
sorelle e sono venuta fuori io, proprio
sul colmo del peggio: quel mussolini
aveva voluto fare la guerra! Aveva otto
milioni di baionette, tutti giovanotti da mandare a morire ammazzati.
Non sarebbe stato meglio, se li avesse
lasciati a fare i contadini? Intanto io
nel novembre del ’43 avevo sposato. Ho
conosciuto questo ragazzo nella fotografia, ci siamo scritti per un po’ di mesi
senza sapere chi era. Lui mi aveva
conosciuto a Montalboddo, durante una
licenza – mi spiegava. Ma tanto io non
sapevo chi era, perché ce n’erano tanti
di giovanotti spavaldi che ti scrivevano,
ti venivano a bussare su una spalla. E
poi, quando andavi ad una festa, una
fiera, un mercato ce n’erano sempre
due o tre che ti venivano a domandare,
a chiedere amore, a fare una dichiarazione. Quelli che non ne avevano il
coraggio scrivevano.
Io ero arrivata abbastanza, già a
diciotto cominciava ad essere ora di trovare marito. Che scemi! Come eravamo
indietro, come le ruote del rimorchio! A
vent’anni bisognava essersi sistemati,
se no potevi rimanere zitella… E non
sarebbe stato meglio?
Dicevano i genitori: “È meglio un
cattivo marito che un buon fratello!”
Sarà anche vero, perché le nubili non
erano calcolate niente… ma anche affogarsi a vent’anni!
225
Vacche moje e bùa al paese tua
Vacche, moglie e buoi al paese tuo
“Vacche, moje e bùa pìlli al paese
tua”. Se dicìa coscì, almànco se scoprìa i defètti. C’era cualchidù’ che
pïàa ’na stragniéra, cuélli che podìa,
e gèra sempre angìro. Cuélla que
fèra? ’L pelàa bembè’, ce fèra ’n fjòlo
e po’ argèra a casa sua: portàa via
la razza dell’Italia. Dicìa ch’èra più
calli, io non posso giudigà’ perché
ho conosciudo solo uno, prò dìcene
coscì le stragniére!
Ma tanto cuélli più granni de
noà dicìa: “Gesù Cristo ha alsàdo la
scura e l’ha fatte tutte ’na misura!”
E allora perché sa da gi’ a pïà’ moje
e marìdo stragniéri, quanno le cose
sta coscì?
Adè’ le scéjene come le vôle, prò
dobo armàne a bocca ’sciucca. Sci
uno n’è venudo su da monèllo co’
l’intensió’ de fadigà’, n’ampàra più,
pe’ fa’ ’na facènna ce pìcchia ’mbelpò’. ’Na ò se dicìa: “Quanto ce pìcchi,
quanto mammeda t’ha fatto?” Toccàa
a fàlla de prèscia e falla be’. Prò “ ’l
presto e ’l be’ n’è stado mae assié’!”
Te dicìa: “ ’Sta giuggiolóna o giuggioló’ pilìcchia pilìcchia e gn’arièsce gnè!” Io da parte mia non me lo
’ntéso a di’ mae, ma que ne so sci
sotta sotta me l’hanne ditto! Perché
’sti genidóri a noà ci’hà ’mparàdo
che le facènne se dovìa fa’ bembè.
Dicìa: “Dobo a fàlle malamente se
’mpàra sùbbedo!” Ìa ragió’.
Presémpio, quanno ’rfèmma ’l
letto, ’n ce dovìa ’rmàne ’na gric-
“Vacche, moglie e buoi prendili al
paese tuo”. Si diceva così, almeno si
scoprivano i difetti. Qualcuno prendeva una straniera, quelli che potevano,
e andavano sempre in giro. Quella che
faceva? Lo pelava perbene, ci faceva un
figlio e poi ritornava a casa sua: portava via la razza dell’Italia. Diceva che
(gli Italiani) erano più caldi; io non
posso giudicare perché ne ho conosciuto
solo uno, però le straniere dicono così.
Ma tanto quelli più grandi di noi
dicevano: “Gesù Cristo ha alzato la
scure e l’ha fatte tutte di una misura!”
E, allora, perché si deve andare a prendere moglie e marito stranieri, quando
le cose stanno così?
Adesso le scelgono (le mogli) come
vogliono, però dopo rimangono a bocca
asciutta. Se uno non è venuto su da
monello con l’intenzione di faticare, non
impara più: per fare una faccenda ci
mette molto. Una volta si diceva: Quanto
ci metti, il tempo che ci ha messo a farti
tua madre?” Toccava a farla alla svelta
(una faccenda) e farla bene. Però “il
presto e il bene non sono mai stati insieme!” Ti dicevano: “Questa giuggiolona o
giuggiolone cincischia cincischia e non
gli riesce niente!” Per quanto mi riguarda non me lo sono sentito mai a dire, ma
che ne so se sotto sotto me l’hanno detto!
Perché i genitori a noi ci hanno insegnato che le faccende si dovevano fare
perbene. Dicevano: “Dopo a farle male
si impara subito!” Avevano ragione. Per
esempio, quando rifacevamo il letto,
226
cia, quanno spazzàmma per terra se
dovìa caccià’ la pónta de la scopa
’nté tutte le scorfìne dei madù’, quanno stiràmma i pàgni... guai ’na pìga,
quanno s’arconciàa sempre col filo
uguale, se cucìa co’ la maghina se
dovìa fa’ la righétta dritta, quanno se
taccàa le pèzze ’nté i linsòli dovìsci
fa’ i punti sottile sotta le toppe; ’nté
le calse dell’omini, sìa stade tajàde
be’ o guadràde o rettàngole sci vedìa
i punti del filo ’mpo’ lónghi, ci dicìa:
“Ma que séde, pènce?” I punti de fòri
non sìa da véde’, sci se vedìa dovìa
èsse’ stadi tutti la stessa dimensió’,
scinó cighettàa o ce la fèra sqùce.
C’era la severidà e appòsta s’amparàa a fadigà’ be’.
Envéce i contadì’ grossi bastàa
che rumàa giuppe ’l campo e dobo,
quanno sposàa a uno che cìa ’l fónno
piccolo, all’inverno c’era pogo da fa’
e stèra co’ le ma’ ’nté le ma’. Fèra
brutto a véde’ ’na donna sensa fa’
gnè. E babbo dicìa: “Émo dàtto via ’l
vi’ bòno, émo pïàdo l’acédo!”
Cuélla vo’ era luscì. Adè’ basta
che sa fa’ l’amore: cuélla s’ampàra
fàciole! E po’ i capìi comedàdi,
l’ógnia vernigiàde, le ma’ belle mòrbede, tutte stuccàde ’nté ’l muso, la
bócca ’na ò viola ’na ò róscia ’na ò
blu, ’nté i capìi ce méttene ’n grasso.
’L sapéde? So anca ’na cansó’, che
dice coscì:
Le donne d’oggi giorno al posto del
cervello
ci mettono la crusca o ’l grasso de
gamèllo
non ci doveva rimanere una grinza;
quando spazzavamo per terra si doveva
ficcare la punta della scopa in tuttie le
crepe tra un mattone e l’altro; quando
stiravamo i vestiti… guai a una piega;
quando si ricuciva sempre con il filo
uguale; se si cuciva con la macchina si
doveva fare la righetta dritta; quando si
cucivano le pezze nelle lenzuola, dovevi fare i punti sottili sotto le toppe; i
pantaloni degli uomini dovevano essere
tagliati bene o quadrati o rettangolari
e se vedeva i punti del filo un po’ lunghi, (mamma) ci diceva: “Ma che, siete
imbranate?!?” I punti non si dovevano
vedere da fuori; se si vedevano, dovevano essere tutti della stessa dimensione,
se no cicchettava o ce li faceva scucire.
C’era la severità e apposta si imparava
a lavorare bene.
Invece per i contadini grossi bastava
che (le donne) lavorassero per il campo
e dopo, quando sposavano uno che aveva
il fondo piccolo, all’inverno c’era poco
da fare e stavano con le mani in mano.
Faceva brutto vedere una donna senza
far niente. E babbo diceva: “Abbiamo
dato via il vino buono, abbiamo preso
l’aceto!” Quella volta era così. Adesso
basta che (una donna) sappia fare
l’amore: questo si impara facilmente!
E poi i capelli ben sistemati, le unghie
verniciate, le mani belle morbide, tutte
truccate sul muso, la bocca una volta
viola una volta rossa una volta blu, nei
capelli ci mettono il grasso. Lo sapete?
So anche una canzone che dice così:
“Le donne d’oggi giorno al posto del
cervello
227
in modo che la permanènte pian
piano sparirà
coscì vedrem la moda di cent’anni fa.
ci mettono la crusca o ’l grasso de
gamèllo
in modo che la permanènte pian piano
sparirà
così vedrem la moda di cent’anni fa.
La moda più curiosa son propio i
zoccoloni
che portan le ragazze in tutte le
stagioni,
non solo le ragazze ma le zitèlle
ancor
non guarda più il decòr non guarda
più il pudor.
La moda più curiosa son proprio gli
zoccoloni
che portan le ragazze in tutte le
stagioni,
non solo le ragazze ma le zitelle ancor
non guarda più il decòr non guarda più
il pudor.
’N’antra moda bella è adè’ la
minigonna
te fa véde’ le gambe fina a la
vergogna,
per fa’ véde le cosce e ancor ’mpo’ più
su
in modo che la sposi e non la lasci
più.
Un’altra moda bella è adè’ la
minigonna
te fa veder le gambe fina a la vergogna,
per far veder le cosce e ancor un po’
più su
in modo che la sposi e non la lasci
più.
Io le scrìo ’ste cose, perché m’arcòrdo, e le penso, ma non è che le
crìdigo sapé! Perché anca io era
’mbizïósa e perché non se podìa
fa’ scinó oste sci m’arìa piaciùdo!
Truccàde ènne ’mbelpò’ più belle,
solo che s’armàne male, quanno
se àlsane alla madìna, fa ’mbrutto
véde’, prò ’nté quattro quattr’otto
s’aggiùsta sùbbedo, ce méttene ’l
tempo, la ròbba pronta, pàrtene per
gi’ a scòla o fadigà’. La casa armàne
luscì: lètti ’rguàsti e que i fa? Se dicìa
’na ò: “Vèstidi alla moda tajolì’: tutta
bròda”.
Adè’ sci vai a véde’, ’nté le càmbore della gioventù, ’l muro, non
Io le scrivo queste cose, perché mi
ricordo e le penso, ma non è che le critico, sapete! Perché anch’io ero ambiziosa
e perché non si poteva fare, se no, oste
se mi sarebbe piaciuto! (Le donne)
truccate sono molto più belle, solo che
ci si rimane male, quando si alzano la
mattina, fanno un brutto vedére, però
in quattro quattr’otto si aggiustano
subito, ci mettono il tempo, la roba
pronta, partono per andare a scuola o
a faticare. La casa rimane così: letti
disfatti e che cosa importa? Si diceva
una volta: “Vèstiti alla moda ‘tajolini”:
tutta broda!”
Adesso, se vai a vedere il muro, nelle
camere della gioventù, non ce n’è un
228
ce n’è ’mpezzo de muro scupèrto,
tutti pezzi de giornàli de cuéi cantanti proféridi, capijù’, bóccole ’nté
le recchie, ’ntè ’l naso, tattuàggi
dappertutto, anca... ’n tra momenti
’l digo! No è! Basta che sbràida ’na
cansó’ che n’è italiana...tutta mùsega
alta, che se sente da lóngo du’ chilomedri. Salta e balla, pare ’mmattìdi,
solo che ’nté ’l muro non c’è mango
’n chiodo pe’ tacca’ ’n santo: questa
è veredà! Càmpane uguale, anca sci
non va alla Messa. Dicìa babbo mia:
“Campa ’l lepre che ’n ce va mae!”
Artòrno a di’ de ’sti cantanti: quanto me piace a me cuélle cansó’ vecchie, ditte in italiano! Noà che n’émo
studiato almànco capìmo anca sci te
mànna ’nté cuél paese: li stragniéri,
ossia le cansó’ de lóra sbraidàda
non capìmo niè’. Eh, da settant’anni
a ’sta parte ’l popolo como è gido
annànse, tutte ’ste scòle como c’è
adè’, ce fusse stade a tempo mia,
averìa fatto i salti mortàli per podécce gi’, envéce c’era cuélle poghe
classe, era fatte pei maschi e per
cuélli che podìa. Va be’ che la tersa
de cuélla vo’ valìa como le medie
d’adè’. Eh scì perché io vedo a questi
d’adè’, io ié digo: “Famme ’sto conto,
co’ la mente como fô io”. Non me ’l
fa, pïa cuél… ’na spece de cassetta,
calsa i bottù’ e vène fòra ’l conto che
io già l’ho fatto co’ la mente. Io ié
digo: “Ma coscì s’ancéppa ’l cervello!
Cristo ce l’ha messo pe’ dopràllo sa,
no pe’ spartì’ le recchie!
pezzo scoperto, tutti ritagli di giornali
di quei cantanti preferiti, capelloni,
boccole nelle orecchie, nel naso, tatuaggi dappertutto, anche… quasi quasi lo
dico! No è! Basta che sbraita una canzone che non è italiana… Tutta musica
ad alto volume che si sente lontano due
chilometri. Saltano e ballano, sembrano
ammattiti, solo che nel muro non c’è
neppure un chiodo per attaccare un
santo: questa è verità! Campano ugualmente, anche se non vanno alla Messa.
Diceva il mio babbo: “Campa il lepre che
non ci va mai!”
Ritorno a parlare di questi cantanti: quanto mi piacciono quelle canzoni vecchie, dette in italiano! Noi che
non abbiamo studiato almeno capiamo,
anche se ti mandano a quel paese: gli
stranieri, ossia delle canzoni sbraitate
da loro, non ci capiamo niente.
Eh, da settant’anni a questa parte
come è andato avanti il popolo! Ci fossero state al tempo mio tutte queste scuole
come ci sono adesso, avrei fatto i salti
mortali per poterci andare! Invece c’erano quelle poche classi, erano fatte per i
maschi e per quelli che potevano. Va
bene che la terza di quella volta valeva
come le medie di adesso! E sì, perché io
vedo questi di adesso, gli dico: “Fammi
questo conto, con la mente come faccio
io”. Non me lo fa, prende quella specie di
cassetta, spinge i bottoni e viene fuori il
conto che io ho già fatto con la mente. Io
gli dico: “Ma così s’inceppa il cervello!
Cristo ce l’ha messo per adoperarlo sa,
non per spartire le orecchie!”.
229
Le dichiarazió’ d’amore
Le dichiarazioni d’amore
Adè sapede quo ’nteso su te la
televisió’? Arvà de moda a scrìve’ le
dichiarazió’ d’amore, per cuélli che
’n ci’hà ’l coraggio a domannà’ ’na
donna.
A cuéi tempi le léttre venìa tutte
censurate, como ho ditto altre vo’;
prima de leggele noà, passàa ’nté
le ma’ dei asperti: con cualchiduna
ci’averà riso de siguro, ma per forsa
toccàa a sta’ lì, non fumma sole a
riceve’ le léttre aperte.
Io me n’arcordo cualchiduna de
cuélle che scrivéa a me; m’è ’rmàste
a mènte, prò, solo cuélle ridìgole e
cuélle sentimentali. Ce n’era cualchiduno che scrivìa be’, ma ’nté cuàlca
léttra c’era propio da ride’: scrivìa
guasci como ’n monello che ìa fatto
la prima elementare, volìa sprime’
cuéllo che gli dettàa ’l côre. In calegrafìa tanto tanto passàa, ma mancàa
le sìlibe o ce ne mettìa due ’ndó non
ce le volìa, como sto facendo io adè:
pe’ scrive’ in dialetto so’ tutta fòri
fase. Non m’arcordo cuélle silibe che
ce sa da mette; montebè’ de vo’ me
fermo a scrive’, perché non m’arcordo. Adesso ne scrivo una de cuélle
dichiarazió’ che m’hanne scritto a
me. Allora:
Gentilissima signorina,
te scrivo queste righe per ditte sci
te vôi mette’ a fa’ la more commé.
Homparado dalla cente che brodèsso
nté ciàmpìsci, ma io spetto anche
n’anno, basta che me dighi de sci.
Adesso, sapete, che cosa ho sentito
alla televisione? Ritorna di moda scrivere le dichiarazioni d’amore, per quelli
che non hanno il coraggio di domandare
una donna. A quei tempi le lettere venivano tutte censurate, come ho detto altre
volte; prima di leggerle noi, passavano
nelle mani degli esperti: con qualcuna
ci avranno riso di sicuro, ma per forza
toccava a star lì, non eravamo le sole a
ricevere le lettere aperte.
Io me ne ricordo qualcuna di quelle
che scrivevano a me; mi sono rimaste
in mente, però, solo quelle ridicole e
quelle sentimentali. Ce n’era qualcuno
che scriveva bene, ma in qualche lettera c’era proprio da ridere: scriveva
quasi come un monello che aveva fatto
la prima elementare, voleva esprimere
quello che gli dettava il cuore. In calligrafia tanto tanto passava, ma mancavano le sillabe o ce ne metteva due
dove non ce le voleva, come sto facendo
io adesso: per scrivere in dialetto sono
tutta fuori fase. Non mi ricordo le sillabe che ci si devono mettere, molte volte
mi fermo nello scrivere, perché non mi
ricordo. Adesso ne scrivo una di quelle
dichiarazioni che hanno scritto a me.
Allora:
“ Gentilissima signorina,
te scrivo queste righe per ditte sci
te voi mette’ a fa’ la more commé.
Homparado dalla cente (gente) che brodèsso nté ciàmpìsci (per adesso non ti
ci impìcci), ma io spetto anche n’anno,
basta che me dighi de sci. Homparado
230
Homparado che voi anca coi soldi,
ma i soldi non fa felice le persone;
fa contento questo core arisponneme
de sci. Tuo miradóre ....
Il nome non ce ’l posso mette’ perché ancora è vivo. Questa è ’n’antra.
Amatissima Signorina
ade te digo cuéllo che te vorria di
quano te vedo ma non cio lcoragio.
Quano te vedo me fa como lcaldaro
daqqua unte lfogo, più fai fogo e piu
laqqua riscalla, io più te vedo e più
minammoro, ala Domenega sci vo
a Montalboddo che non ce sai te no
me parre festa, e po’ quano to nteso
a cantà mai fatto nammorà anca de
piu, aspeto na tua risposta a braci
apperte non ne poso scorda risponneme ai capido; tuo amatissimo.
Envece questa era de uno disperado che fèra ’l soldado; un anno prima
c’eravamo incontradi chiedendomi
amore, ma questo scrivéa be’, sensa
errori e bella caligrafia.
Tripolitania 10 – 4- 1940
Gent.ma Signorina
anzi tutto ti chiedo scusa se ti
dovessi disturbare con questo mio
scritto, ma nel medesimo tempo
credo che non ti offenderai né te,
né altra persona. Bensì in questi
giorni ricorre l’anniversario del
nostro incontro, ma il destino è
stato all’incontrario, e con pazienza
seguiamo il nostro destino. Tu eri la
ragazza che il mio cuore desiderava
di amare, che mai si cancellerà.
Se sapessi dove mi trovo! In questi
deserti sconfinati, sono passati dei
che voi (vuoi uno) anca coi soldi, ma i
soldi non fa felice le persone; fa contento questo core arisponneme de sci. Tuo
miradóre ….”
Il nome non ce lo posso mettere, perché ancora è vivo. Questa è un’altra:
“Amatissima signorina
ade te digo cuéllo che te vorria di
quano te vedo ma non cio lcoragio.
Quano te vedo me fa como lcaldaro
daqqua ente lfogo, più fai fogo e piu
laqqua riscalla, io più te vedo e più
minammoro, ala Domenega sci vo a
Montalboddo che non ce sai te no me
parre festa, e po’ quano to nteso a cantà
mai fatto nammorà anca de piu, aspeto na tua risposta a braci apperte non
ne poso scorda risponneme ai capido;
tuo amatissimo”.
Invece questa era di un disperato
che faceva il soldato; un anno prima
ci eravamo incontrati e mi aveva
chiesto amore, ma questo scriveva
bene, senza errori e bella calligrafia:
“Tripolitania 10 – 4- 1940
Gent.ma signorina,
anzi tutto ti chiedo scusa se ti
dovessi disturbare con questo mio
scritto, ma nel medesimo tempo credo
che non ti offenderai né te, né altra
persona. Bensì in questi giorni ricorre l’anniversario del nostro incontro,
ma il destino è stato all’incontrario,
e con pazienza seguiamo il nostro
destino. Tu eri la ragazza che il mio
cuore desiderava di amare, che mai si
cancellerà. Se sapessi dove mi trovo!
In questi deserti sconfinati, sono passati dei brutti giorni e dei momenti
231
brutti giorni e dei momenti pericolosi per la vita, ma fino qui è andato
tutto bene e si sopporta dei sacrifici
che te non hai immagine, ma in
questi momenti per far passare la
tristezza penso alla bella vita civile, alla gioventù, e vedo avanti ai
miei occhi te! Quella ragazza che
avrei voluto fosse stata la compagna
della mia vita. Ma tutto è finito; se
non ci rivedremo più, ti auguro un
buon matrimonio e un’eterna felicità con il tuo, oggi l’amore per me
è il maneggio delle armi, in cui mi
difendo e che è dovere da compiere
come soldato, con tutto il cuore ti
ricordo sempre, mai ti dimenticherò, il tuo ammiratore.
Questo, poverino, è morto. Émma
fatto pochissime parole insieme, perché in occasió de ’na festa era venudo a chiéde’ amore e con poche parole l’ho illiminàdo, però la sua lunga
léttra m’è rimasta ’mpò’ impressa,
perché era triste e appassionata.
pericolosi per la vita, ma fino qui è
andato tutto bene e si sopporta dei
sacrifici che te non hai immagine, ma
in questi momenti per far passare la
tristezza penso alla bella vita civile,
alla gioventù, e vedo avanti ai miei
occhi te! Quella ragazza che avrei
voluto fosse stata la compagna della
mia vita.
Ma tutto è finito; se non ci rivedremo più, ti auguro un buon matrimonio e un’eterna felicità con il tuo,
oggi l’amore per me è il maneggio
delle armi, in cui mi difendo e che è
dovere da compiere come soldato, con
tutto il cuore ti ricordo sempre, mai ti
dimenticherò, il tuo ammiratore”.
Questo, poverino, è morto. Ave­
vamo fatto pochissime parole insieme,
perché in occasione di una festa era
venuto a chiedere amore e con poche
parole l’ho eliminato, però la sua
lunga lettera mi è rimasta impressa,
perché era triste e appassionata.
Chi sarà ’sto còso, coscì
romantico?
Chi sarà questo coso, così
romantico?
Quanno s’è sposàda l’ultima de
’ste sorelle ci’avìa diciassett’ànni e
allora la pôra mamma m’ha ditto:
“Ormai tocca a te!” Cuélla vo’ non
è che io stèro male, ma perché
io cì’avéo tutta cuélla marsumaja
davanti... cinque fradèlli e sorelle
avanti a me, a me nun c’era mai gnè.
Quando si è sposata l’ultima delle
mie sorelle, io avevo diciassette anni e
allora la povera mamma mi ha detto:
“Ormai tocca a te!” Quella volta non è
che io stavo male, ma perché avevo tutta
quella “marsumaglia” davanti: cinque
tra fratelli e sorelle prima di me e per
me non c’era mai niente. Quando si son
232
Quanno s’è sposàdi tutti dicìa: “Fino
adè’ ’l cadassàro ’n se cominciàa,
adè’ cominciàmo la cadàssa tua”. ’Sti
genidóri fèra coi fiji cuéllo che facìa
co’ le cadàsse: finànta c’è cuélla vecchia, ’n se ne comènsa cuélla nòa.
E cuélla pôra mamma me portàa
sempre ’n giro, me facìa tanti pàgni:
spolverì, cappotti, vestidi... Non me
ne facìa, digo, uno pe’ stagió’, ma
pogo ié mancàa. ’N giorno io so’ gida
a Montalbò’, m’è venùdo a parlà’ uno
che me piacìa tanto. Io guasci guasci
iè avrìa ditto de scì, ma cuélla pôra
mamma ha ditto: “Prima domànna
que partìdo è, quanti fradèlli è...”
Dobo ié l’ho dimannàdo... capirai:
era cinque fradèlli! “No, no, fija, ’n
te ce métte’! Lì sai trattàda como ’n
ca’ sotta la tàola! Vedi ’mpo’ da troà’
uno che cìsce du’ fradèlli, ’n fradèllo
solo...”
Embè ’n giorno m’è riàda ’na léttra, me spiegàa chi era, ma io ne ’l
conoscìa; dicéa ch’èra con cuéll’amigo che piacìa a me... A Montalbòdo
mìa visto, ié ero armàsta imprèssa...
Allora m’ha scritto ’na léttra da ’ndó
stèra sotta l’arme. Sci m’arcordo me
dicéa coscì:
“Gentilissima signorina,
anzitutto vi chiedo
perdóno se vi disturba questo mio
scritto, perché vo’ non mi conoscete.
Io vi ho visto a Montalboddo, ero
con i miei amici di Filetto. Appena
vi ho visto, con la vostra amica,
così bella, elegante mi siete rimasta
molto impressa nel mio cuore che
sposati tutti, diceva (mamma): “Fino
ad ora il “catastaro” non si cominciava, adesso cominciamo la catasta tua”.
Mamma le chiamava le “cadàsse”. I
miei genitori facevano con i figli quello
che facevano con le cataste (di fascine):
fino a che c’è la catasta vecchia, non si
incomincia quella nuova.
E quella povera mamma mi portava
sempre in giro, mi faceva tanti panni:
spolverini, cappotti, vestiti… Non me
ne faceva, dico, uno per stagione, ma
poco ci mancava.
Un giorno sono andata a
Montalboddo, m’è venuto a parlare uno
che mi piaceva tanto. Io quasi quasi
gli avrei detto di sì, ma quella povera
mamma ha detto: “Prima domanda che
partito è, quanti fratelli sono…” Dopo
gliel’ho domandato…. Capirai: erano
cinque fratelli! “No, no, figlia mia, non
ti ci mettere! Lì sarai trattata come
un cane sotto la tavola! Vedi un po’ di
trovare uno che abbia due fratelli, un
fratello solo…”
Ebbene un giorno m’è arrivata una
lettera, mi spiegava chi era, ma io
non lo conoscevo; diceva che era con
quell’amico che piaceva a me… Mi
aveva visto a Montalboddo, gli ero rimasta impressa… Allora m’ha scritto una
lettera da dove si trovava sotto le armi.
Se mi ricordo, mi diceva così:
“Gentilissima signorina,
anzitutto vi
chiedo perdono se vi disturba questo
mio scritto, perché vo’ non mi conoscete. Io vi ho visto a Montalboddo, ero con
i miei amici di Filetto. Appena vi ho
233
non vi potrà più scordare. Volevo
parlarvi, ma le parole mi son morte
in gola, perché io sono un giovane
un po’ timido, per chiedere d’amare
una bella fanciulla come voi, ma se
voi accettate questo mio immenso
amore, vi giuro che vi farò felice
per tutta la vita ed io mi dichiarerò
l’uomo più felice del mondo.
Se voi accettate questa dichiarazione, saremo tanto felici per
tutta la vita. Io dal giorno che vi
ho vista, non trovo più pace, siete
sempre davanti ai miei occhi, nei
miei sogni, nella mia mente e nel
mio cuore che così bella ed elegante
non vi potrò più scordàre.
Chissà quale felicità proverei,
se quando ricevo la vostra lettera,
leggessi un bel sì d’amore. Vi giuro
e vi ripeto che sarei l’uomo più fortunato del mondo. Accettate questo
mio amore che arde per voi. Con la
speranza di un bel sì vostro amiratore Albertino Panini.”
Stèra co’ gli amici del Filetto... ma
io n’avìa guardàdo tanto a cuéllo, io
l’avéo anca vedùdo, ma chi s’arcordàa la faccia de cuéllo: io guardào a
cuel’àltro, me piacìa cuel’àltro.
Allora quanno m’è riàda ’sta léttra
tutta commovènte: “Mamma mia, chi
sarà ’sto còso, tutto romantico!” Ho
pïàdo ’sta léttra e po’ l’ho messa lì da
’na parte. Mamma me dicìa: “È ora
che te decìde. Domànna le condizió’
de como se tròa, quanti fradèlli è,
’ndó sta de casa...”
È passado ’mpo’ de giorni, dopo
visto, con la vostra amica, così bella,
elegante mi siete rimasta molto impressa nel mio cuore che non vi potrò più
scordare. Volevo parlarvi, ma le parole
mi son morte in gola, perché io sono
un giovane un po’ timido, per chiedere
d’amare una bella fanciulla come voi,
ma se voi accettate questo mio immenso
amore, vi giuro che vi farò felice per
tutta la vita ed io mi dichiarerò l’uomo
più felice del mondo.
Se voi accettate questa dichiarazione, saremo tanto felici per tutta la vita.
Io dal giorno che vi ho vista, non trovo
più pace, siete sempre davanti ai miei
occhi, nei miei sogni, nella mia mente e
nel mio cuore che così bella ed elegante
non vi potrò più scordare.
Chissà quale felicità proverei, se
quando ricevo la vostra lettera, leggessi un bel sì d’amore. Vi giuro e vi
ripeto che sarei l’uomo più fortunato
del mondo. Accettate questo mio amore
che arde per voi. Con la speranza di
un bel sì vostro ammiratore Albertino
Panini”
Stava con gli amici di Filetto…ma
io non avevo guardato tanto quello, io
l’avevo anche visto… ma chi si ricordava la faccia di quello: io guardavo
quell’altro, mi piaceva quell’altro.
Allora, quando è arrivata questa lettera tutta commovente: “Mamma mia,
chi sarà questo coso, tutto romantico!”
Ho preso questa lettera e poi l’ho messa
lì da una parte. Mamma mi diceva: “È
ora che ti decidi. Domanda le condizioni di come si trova, quanti fratelli sono,
dove sta di casa…”
234
iè dovéa rispónne’ no... Arpensào a
tutte cuélle parole belle, cuélla vo’
cuélle parole romantiche te piacìa,
ne ’l sapéi sci pôl’èsse’ stàde vere
o tutta polìdica. Vere non me parìa,
perché io non me vedéo bella. Allora
i’hò risposto, i’hò ditto che voléo
sapé’ ’ndó stèra, ’ndó non stèra... Po’
quanno arturnàa a casa vedémo...
Sci ce volemo scrìve’ cualca léttra...
’Nvéce lu’ me scrivéa tutti i giorni,
tutti i giorni m’arrivàa ’na léttra lì
casa, ma io ogni tre quattro ié ne
risponnéo una. E po’ c’era sempre
cuélle parole lì. Alla fine ié dicéo
sempre: “Sci ce piacémo, quanno
’rvénéde a casa, vedémo!”
Sono passati un po’ di giorni, dopo
io gli dovevo rispondere no… Ripensavo
a tutte quelle belle parole, quella volta
quelle parole romantiche ti piacevano,
non lo sapevi se potevano essere state
vere o tutta politica.
Vere non mi parevano, perché io non
mi vedevo bella. Allora gli ho risposto,
gli ho detto che volevo sapere dove stava,
dove non stava… Poi quando ritornava
a casa, avremmo visto… Se ci volevamo
scrivere qualche lettera…
Invece lui mi scriveva tutti i giorni,
tutti i giorni mi arrivava una lettera a
casa, ma io ne rispondevo una ogni tre
o quattro. E poi c’erano sempre quelle
parole lì. Alla fine gli dicevo sempre: “Se
ci piacciamo, quando ritornate a casa,
vedremo!”
M’anvergognàa como ’n ca’
Mi vergognavo come un cane
Sicché da gennaro sémo gidi a
finì vèro maggio, quanno è venudo a
casa in licenza. ’Na sera, era d’istàde
vero ’l dieci de maggio, io falciàa ’l
fié giuppe ’l campo, perché babbo
güernàa le bestie e mamma stèra su
casa: de dieci eravàmo ’rrmàsti tre
persó’ ’nté la famija, perché i nonni
era morti, le sorelle s’era sposàde
tutte, i fradèlli sotto l’arme. Io falciàa
’l fié’: c’era da fa’ pe’ tre persone, con
tutte cuélle bestie che c’era! Te vedo
rivà’ ’na biscighetta che te lucìa,
giù pìa del campo passàa la strada;
ho vedùdo ’sta bicicletta che ’rlucìa
tanto: chi sarà? Non ce pensàa no,
Sicché da gennaio siamo andati a
finire verso maggio, quando è venuto
a casa in licenza. Una sera, era d’estate verso il dieci maggio, io falciavo
il fieno per il campo, perché babbo
governava le bestie e mamma stava in
casa: di dieci eravamo rimaste tre persone in famiglia, perché i nonni erano
morti, le sorelle si erano sposate tutte,
i fratelli sotto le armi. Io falciavo il
fieno: c’era da fare per tre persone, con
tutte quelle bestie che c’erano!
Ti vedo arrivare una bicicletta che
luccicava tanto: chi sarà? Non ci pensavo, perché non me l’aveva detto che
ritornava a casa. Quando l’ho visto per
235
perché non me lìa ditto c’artornàa
a casa. Quanno l’ho visto suppe lo
stradèllo, la persóna tutta elegante,
licche licche como era chic! Capirai,
pensàde io: ci’avìa le gambe tutte
sporche, i pìa tutti neri perché l’erba comensàa a èsse’ fràdia, ch’èra
’mpo’ dura e sotta fa cuélla mélma...
Lu’ mette giù la biscighetta e po’
me vène ’ncuntrà’... io a testa bassa
m’anvergognàa como ’n ca’. M’ha
saludàdo, i’hò risposto a malappéna
a mezza bócca, ho badàdo a finì’ de
falcià’ cuélla ravàra e po’ ho pïàdo
la falce fenàra su le spalle, ’l corno
l’avéo taccàdo addosso. Cuélla vo’
per métte’ la códe c’era ’l corno no,
la bóssola e ’l corno. Ci’avéo ’l corno
perchè la bóssola buttàa fori l’aqua,
’nvece ’l corno tenìa l’aqua. C’era ’n
pezzo de fil de fèro co’ ’na pezzòla da
cima pe’ mollà la falce fenàra prima
da dàje la códe, pe’ códàlla no.
E allora gìmo su casa, io davante
e lu’ diédro. Avrà ditto: “Chissà chi
è ’sta cojóna che non parla mae?”
Ho messo giù la falce fenàra, c’era
babbo lì la stalla, lu’ ha saludàdo
a babbo, i’hà dàtto la ma’ e io so’
gìda a lavà’ i pìa giù ’l pozzo. Ho
pïàdo ’na caldaròla d’aqua, me so’
dàtta ’na botta ai pìa, ’na bòtta a le
ma’. Pensade vuà come profumàa
io a falcià! De cuéi tempi già se
sudàa be’. E dobo è venùda fori
cuélla pôra mamma... Non ié avìa
ditto tutto cuéllo che me scrivìa, cìa
pensàdo da per lìa, perché io cuélla
vo’ da quant’èro vergognosa gne la
lo ‘stradello’, la persona tutta elegante,
licche licche com’era chic!
Capirai, pensate (com’ero) io:
avevo le gambe tutte sporche, i piedi
tutti neri perché l’erba cominciava ad
essere fradicia, perché era un po’ dura
e sotto fa quella melma… Lui mette giù
la bicicletta e poi mi viene ad incontrare… Io, a testa bassa, mi vergognavo
come una cane. Mi ha salutato, gli ho
risposto a malapena a mezza bocca,
ho badato a finire di falciare quella
striscia d’erba e poi ho preso la falce
fenaia sulle spalle, il corno ce l’avevo
appeso addosso. Quella volta per mettere la cote c’era il corno no, la ‘bossola’
e il corno. Avevo il corno, perché la
‘bóssola’ buttava fuori l’acqua, invece il
corno la tratteneva. C’era un pezzo di
fil di ferro con una pezzuola in cima
per bagnare la falce fenaia prima di
darle la cote, per affinarla, no.
E allora andiamo a casa, io davanti
e lui dietro. Avrà detto: Chissà chi è
questa cogliona che non parla mai?”
Ho messo giù la falce fenaia, c’era
babbo lì, nella stalla, lui l’ha salutato,
gli ha dato la mano e io sono andata
a lavare i piedi giù al pozzo. Ho preso
una calderella d’acqua, mi son data
una botta ai piedi, una botta alle mani.
Pensate voi come profumavo io a falciare! In quella stagione già si sudava
bene. E dopo è venuta fuori quella povera mamma…
Non le avevo detto tutto quello che
mi scriveva, ci aveva pensato da sola,
perché io quella volta, da quant’ero
vergognosa, non riuscivo nemmeno a
236
facéo manco a presentàielo. Dobo
l’ha invidàdo a boccà’ su. È boccàdo
su e cuélla pôra mamma avìa dàtto
’na aggiustàda ’nté la cambora, ma
prima ha volsùdo sapé’ ’mpo’ de che
fameja era, l’informazió’. Po’ ci’ ha
ditto: “Gide ’mpo’ là la càmbora. Sci
ve piacéde, pensàdece vuà, scinó
è inùdole che ve scrivéde”. Era già
cinque sei mesi che sa scrivéa.
E allora dobo semo gidi là la càmbora, prò io parlào pogo, i’hò fatto
qualca domànna e lu’ me rispondìa.
Po’ dobo semo sgappàdi, l’ha invidàdo a cena e lu’ c’è stado a cena. Po’
è partido e ha ditto: “Ci’ho d’arvenì’
domane a sera?” “Vènce ’mpo’, prò
porta le léttre, le cartoline, nigò!”
presentarglielo. Dopo l’ha invitato a
salire in casa. È entrato su e quella
povera mamma aveva dato una aggiustata alla camera, ma prima ha voluto
sapere un po’ di quale famiglia era, le
informazioni. Poi ci ha detto: “Andate
un po’ là in camera. Se vi piacete,
pensateci voi, se no è inutile che vi
scrivete”. Erano già cinque sei mesi
che ci scrivevamo.
E allora dopo siamo andati là, nella
camera, però io parlavo poco, gli ho
fatto qualche domanda e lui mi rispondeva. Poi dopo siamo usciti, (mamma)
l’ha invitato a cena e lui c’è stato a
cena. Poi è partito e ha detto: “Ci posso
tornare domani sera?” “Vienici un po’,
però porta le lettere, le cartoline ogni
cosa!”
Lu’ venìa e me troàa a falcià’
Lui veniva e mi trovava a falciare
Alla sera dobo arrìva, pòrta su
le cartoline, le léttre, perché ce
l’émma scritte che ’n c’era male
no, in cinque mesi! Io ce n’avéo ’na
mucchia che mettìa paura. E allora
La sera dopo arriva, porta su le
cartoline, le lettere, perché ce l’avevamo scritte che non c’era male no, in
cinque mesi! Io ne avevo un mucchio
che metteva paura. E allora le porta su,
237
le porta su, intanto le bruciàmo,
léttre e cartolìne, e po’ gìmo la là
càmbora. Comincia a discóre’, io
sempre a testa bassa, e po’ io stèra
là la càmbora, ma miga stèra co’ le
mane ’nté le ma’, io fadigàa sempre,
facéa ’l merletto o facéa i calsétti
coi fèri o cucìa cualcò’. Cìa – come
dice ’l dittàdo – tre bracci e ’na
lèngua sola”. Co’ le mane in ma’
’n ce se dovìa sta’, perché mamma
non volìa, dovìa fadigà’ le donne;
coscì te vedìa l’ômo ch’eri bràa,
che sapéi fa’ nigò. Anca per cuéllo
’l dicéa: per fàtte passà’ be’. E lu’
parlàa, io cuàlca parola rispondéa,
sempre pogo. Dobo m’ha portàdo
le fottografie, ha portàdo anca ’na
boccétta de profumo, ’na scattolétta de cipria e ’no spruzzatore:
cuélla vo’ ’n se sapìa mango co’ era
perché ’ste sorelle scì ce lìa la robba
la cipria e... basta. Non è che c’era
tante cose cuélla vo’: c’era la cipria
e la brillantìna, ma da noà pe’ la brillantina ’n c’era i soldi, ce mettémma
l’ojo su la testa, l’ojo bòno, cuéllo
d’ulìa: ’l mettémma ’nté ’l palmo de
’na ma’ e po’ con dédo passàmma
tutti i capéi e l’òmmini gèrene via
ónti como le cose. Cuélla vo’, lavài
la testa quanno facéi la boccàda,
dobo i capéi era tutti belli ónti,
’rlucìa da lóngo perché l’ojo d’ulìa
lucidàa be’. La vasellìna, la brellantìna, cuélle cose lì non usàa da nó’,
perché costàa anca i soldi eh!
Cominciàmma a discorre’, la sera
dobo ce voléa artornà’; io la robba
intanto le bruciamo, lettere e cartoline,
e poi andiamo là in camera. Comincia
a discorrere, io sempre a testa bassa,
e poi io stavo là in camera, ma mica
stavo con le mani in mano, io faticavo sempre, facevo il merletto o facevo
le calze con i ferri o cucivo qualcosa.
Avevo – come dice il detto - tre bracci e
una lingua sola. Con le mani in mano
non ci si doveva stare, perché mamma
non voleva, le donne dovevano faticare
sempre, così l’uomo ti vedeva che eri
brava, che sapevi fare di tutto. Anche
per quello (mamma) lo diceva: per farti
passare bene.
E lui parlava, io rispondevo qualche parola, sempre poco. Dopo m’ha
portato le fotografie, ha portato anche
una boccetta di profumo, una scatoletta di cipria e uno spruzzatore: quella
volta non si sapeva neppure che cosa
fosse perché le mie sorelle, sì, ce l’avevano la roba: la cipria e… basta! Non
è che c’erano tante cose quella volta:
c’erano la cipria e la brillantina, ma
da noi per la brillantina non c’erano
i soldi, sulla testa ci mettevamo l’olio,
l’olio buono, quello d’oliva: lo mettevamo sul palmo di una mano e poi
con il dito passavamo tutti i capelli
e gli uomini andavano via unti come
le cose… Quella volta lavavi la testa
quando facevi il bucato, dopo i capelli
erano tutti belli unti, luccicavano da
lontano perché l’olio d’oliva lucidava
bene. La vasellina, la brillantina non
si usavano da noi, perché costavano
dei soldi, eh!
Cominciammo a discorrere, la sera
238
l’avéo accettàda, per forza ha toccàdo a fàllo ’rtornà’. Coscì è venùdo
per quìnneci giorni. Po’ è ’rpartido,
ha ditto: “Ce scrivémo”. Coscì émo
continuado a scrìve’; io ’nté le léttre
’mpo’ me spriméo, ma co’ la bocca
vicino a lu’ no’ ié la faceo a sprìmeme pe’ gnè. M’arvergognào como ’n
ca’. Lu’ me parlàa de la faméja sua,
la situazió’, io stèra a sentì.
Po’ da maggio i’hà ’rdàtto ’na
licensa agosto: ’l mannàa a casa a
mède’, a bàtte’. Tanto tutte le sere
lu’ ce venìa su sempre, me trovàa
giuppe ’l campo a falcìà’ ’l gra’, me
trovàa a falcià ‘l fié, a fa’ la foja pe’
le bestie... Lì casa ’n me ce trovàa
mae sènsa fa’ gnè. E sa lu’ ce stèra
attaccàdo, pensàa: “Questa è una
che fa per casa!”
È passàdo ’l tempo, io vergognosa come sempre; lu’ tante le ò provàa a mètte’ la ma’ su ’na spalla, ma
cojó io ié la levàa sùbbedo, perché
sci me vedìa cuélla pôra mamma...
uum! Passàa oltra lì ’l corridóre e
po’ quann’era la sera picciàa ’l lume.
Passàa sempre avanti e ’ndièdro,
te chiamàa. Quanno era notte e ’n
ce vedéi più a fadigà passàa lì ’l
corridore e te dicìa: “Oh, è ora de
cenaaa!” Allora te toccàa a sgappà’,
aiudàvi a preparà’ ’l tàolì. Coscì
anca cuélla licènsa è passàda.
Po’ n’ha ûda ’n’antra a novembre, la licènsa pe’ soménà’. Anca
lì tutti i giorni, tutte le sante sere
c’ha fatto Gesù Cristo era sempre
la su casa, con la biscighetta a fa’
dopo ci voleva ritornare; io la roba
l’avevo accettata, per forza ho dovuto
farlo ritornare. Così è venuto per quindici giorni. Poi è ripartito, ha detto:
“Ci scriviamo!” Così abbiamo continuato a scrivere; io nelle lettere un po’
mi esprimevo, ma con la bocca vicino
a lui non gliela facevo ad esprimermi
per niente. Mi vergognavo come un
cane. Lui mi parlava della famiglia
sua, la situazione, io stavo a sentire.
Poi da maggio gli hanno di nuovo
dato una licenza ad agosto: lo mandavano a casa a trebbiare. Tanto tutte le
sere ci veniva su sempre, mi trovava
a falciare il fieno, a fare la foglia per
le bestie… A casa non mi trovava mai
senza far niente. E sa che lui ci stava
attaccato, pensava: “Questa è una che
fa per casa!”
È passato il tempo, io vergognosa
come sempre; lui talvolta provava a
mettere la mano su una spalla, ma
cojó’! Io la levavo subito, perché se mi
vedeva quella povera mamma… uum!
Passava per il corridoio e poi, quando
era sera, accendeva il lume. Passava
avanti e indietro, ti chiamava. Quando
era notte e non ci vedevi più a faticare,
passava nel corridoio e diceva: “Oh, è
ora di cenaaa!” Allora ti toccava uscire
(dalla camera), aiutavi a preparare
la tavola. Così anche quella licenza è
passata.
Poi ne ha avuta un’altra a novembre, la licenza per seminare. Anche lì
tutti i giorni, tutte le sante sere che ha
fatto Gesù Cristo era sempre a casa
mia; con la bicicletta a fare sempre
239
sempre cinque sei chilomedri de
strada: ne ’l so quanti è perché, s’è
a lìnia d’aria, è ’mpo’ meno, ma sci
passi attorno era da lóngo. E venìa
tutte le sere; anca lì ’n ce se beccàa
gnè, per tutti i quìnneci giorni ch’è
duràda la licènsa.
S’èra ’na monèlla d’adè è differente, ma cuélla vo’ io era vergognosa sa… Avìa diciott’anni ma ’n sapìa
mango como se fèra; quando una
portàa ’n fjòlo ’n sapìa mango como
c’era boccàdo drendo. N’era como
adè, era cuscì, a casa nostra ’n se
dicìa le cose. Capirai, quanno c’era
le sorelle più grànne, cuélla pôra
mamma se chiudìa là la càmbora,
quanno dovìa da’ i cighetti: io stèra
a sentì’ ma ’n sapìa cuél che volìa
di’; anca a pìa de le scale cighéttàa,
pôretta, ìa paura sempre...
E allora è passada anca cuélla
licensa lì. Po’ ha ûdo ’n mese de
convalescènsa, era d’inverno. Va
be’ che a casa sua se fadigàa anca
d’inverno, se stèra sempre giuppe
’l campo ché c’era tanta tèra da
ruspà’, c’era tanto podà, tanto nigò,
ma tanto lu’ ce ’l troàa ’l tempo:
tutte le sante sere venìa su como se
sìa. E lì ’ncomensàa ’mpo’ de più a
sprìme’. Lu’ m’arconntàa cuéllo che
ié avìo scritto, sa ’mpo’ de più me
’ncomensào a sprime’. Anca questa
è passàda, dobo ’l mese è ’rgìdo via,
ma è ’rmasto sempre luscì: a bocca
sciùcca.
cinque sei chilometri di strada: non
lo so quanti sono perché, se in linea
d’aria, sono un po’ meno, ma se passi
attorno è lontano. E lui) veniva tutte
le sere; anche lì non si beccava niente,
per tutti i quindici giorni che è durata
la licenza.
Se fossi stata una monella d’adesso, sarebbe stato differente, ma quella
volta io mi vergognavo sa… Avevo
diciott’anni, ma non sapevo neppure
come si faceva; quando una (donna)
portava un figlio, non sapevo neppure come (questo) c’era entrato dentro. Non era come adesso, era così: a
casa nostra non si dicevano le cose.
Capirai, quando c’erano le sorelle più
grandi, quella povera mamma si chiudeva là in camera, quando doveva dare
i cicchetti: io stavo a sentire, ma non
sapevo quello che voleva dire; anche in
fondo alle scale cicchettava, poveretta,
aveva sempre paura…
E allora è passata anche quella
licenza lì. Poi (il ragazzo) ha avuto
un mese di convalescenza: era d’inverno. Va bene che a casa sua si faticava
anche d’inverno, si stava sempre per
il campo perché c’era tanta terra da
ruspare, c’era tanto potare, tanto di
tutto, ma lui lo trovava il tempo: tutte
le sante sere, come sia, lui veniva su
(da me). E lì incominciavo ad esprimermi un po’ di più. Lui mi raccontava quello che gli avevo scritto… sa, un
po’ di più cominciavo ad esprimermi.
Anche questa (licenza) è passata: dopo
un mese è ripartito, ma è rimasto sempre così: a bocca asciutta!
240
Ié do ’n bacio!
Gli do un bacio!
Arvène a casa a maggio. Allora ho
ditto a cuélla pôra mamma: “Guar­
dàde mamma, io fino adè’ n’ho volsùdo mae che me toccàsse o che
me désse ’n bacio, adè quanno vène
a casa in licensa, iè do ’n bacio!” E
mamma: “Buzzarà anca a te! E sci
dobo te lassa gi’? Che ne sai ancora,
non ne ’l conósci, ’n ce sai stàda
mango dodici dì insieme, che ne
sai como la pensa. Se ci’hà ’n’antra
ragazza, sci lassù ci’hà ’na donna...
ma per caridà sa, fija mia, per caridà!”
Io envece volìa dàje ’n bacio,
quanno che arvenìa. Io stèra sempre
all’erta no, perché ’na ò passàa pe ’l
Paradiso, ’na ò per la Massa, io stèra
da cima del campo a vedéllo spuntà
co’ la biscighetta; stèra all’erta perché ce pensàa c’arrivàa. Propio cuéi
giorni lì dovìa venì’ a casa, io ce pensàa che me fèra ’na improvvisàda.
Quanno l’ho visto, là cima del
campo, che venìa oltra, ancó’ da
lóngo tre quattrocento medri, me
so’ messa a cùre’, l’hò bracciàdo e
i’hò dàtto ’n bacio: quanto è stado
contento! ’Nté ’na guancia! Io non
sapìa gnè como se baciàa... allora
i’hò dàtto ’n bacio ’nté ’na guancia.
Quanto è stado contento, ha visto
che me so’ aperta ’mpo’ de più co’ lu’,
ha capìdo che ié voléo be’.
Scinó, como v’ho ditto, sci provàa
a métteme le mane addosso, io ié le
levào, perché avéa paura, capirai con
Ritorna a casa a maggio. Allora ho
detto a quella povera mamma: Guardate
mamma, io fino ad ora non ho voluto
mai che mi toccasse o che mi desse un
bacio, adesso, quando viene in licenza,
gli do un bacio!” E mamma: “Man­
naggia anche a te! E se dopo ti lascia
andare… Che ne sai ancora, non lo
conosci, non ci sei stata insieme neppure dodici dì, che ne sai come la pensa.
Se ha un’altra ragazza, se lassù ha una
donna… ma per carità sa, figlia mia,
per carità!”
Io, invece, volevo dargli un bacio,
quando ritornava. Stavo sempre all’erta no, perché una volta passava per il
Paradiso, una volta per la Massa e io
stavo là, in cima al campo, per vederlo
spuntare con la bicicletta, perché pensavo che arrivava. Proprio quei giorni
lì doveva venire a casa e io pensavo che
mi faceva una improvvisata.
Quando l’ho rivisto, da là in cima al
campo, che veniva oltre, ancora lontano
tre quattrocento metri, mi sono messa
a correre, l’ho abbracciato e gli ho dato
un bacio: quanto è stato contento! Su
una guancia! Io non sapevo niente di
come si baciava… allora gli ho dato un
bacio su una guancia. Quanto è stato
contento: ha visto che mi sono aperta
un po’ di più con lui, ha capito che gli
volevo bene…
Se no, come vi ho detto, se provava
a mettermi le mani addosso, io gliele
levavo, perché avevo paura. Capirai,
con tutti quei sermoni che ti faceva
241
tutti cuéi sermù’ che te dèra cuélla
pôra mamma, te dèra certi sermó,
altro che ’l prede sull’altare. E po’
cuél pôro babbo che facéa? Tutte le
sante sere che c’era anca i ragazzi de
’ste sorelle, anca quanno c’era il mia,
dicìa: “Fjòli, la faccia polìda è ’na gran
cosa! Quanno che tu te pôi mette’ ‘l
cappello all’adèdro, la gente non pô
di’ gnènte. L’onore è la cosa più bella
che c’è!” Lu’ dicìa sempre cuélla. Po’
cuélla pôra mamma, quanno s’era
sposàda a diciannov’anni, i’hà dàtto
cento lire pe’ premio. Lavoràa ’nté
’na contèa, lajù a Monsanvido; c’era
’na quarantina cinquanta ragazze e
cuélle che se sposàa con onore ié
fèra ’l rigàlo ’l conte. Capirai i’hà
dàtto cento lire ’l conte de cuélla
vo’: s’è sposàda dell’otto, del 1908.
Pensàde vuà, ’l pôro babbo ce tenìa
’mbelpo’ a ’st’onore, sempre co’
’st’onore e allora io, oltra che me fèra
sempre ’l sermó’ cuélla pôra mamma,
oltra cuél pôro babbo che ce dicéa
sempre coscì, me toccàa a pensàcce,
a sta’ ’tènti perché mi dicìa cuélla
pôra mamma: “Guarda che de le
sorelle tue ’n s’è podùdo di’ gnè, sci
ce bócca le chiacchiere, te mànno via
sensa dòda, sensa ’mpezzo de panno,
gnènte, te vai via luscì, i pagni che
porti addosso. E lì allora toccàa a
tremà’ ’mpo’, te mettìa propio cuélla
timènza... perché n’omo chissà sci
te piàa fôgo a toccàtte! Dicèa sempre
alluscì: “Mette ’mpo’ ’n fulminante
’cceso vicino a ’n pajàro... ve­drai
como arde! Cuéllo è lo stesso!”
quella povera mamma: ti faceva certe
prediche, altro che il prete sull’altare.
E quel povero babbo che faceva? Tutte
le sante sere, in cui c’erano anche i
ragazzi delle mie sorelle, anche quando
c’era il mio, diceva: “Figlioli, la faccia
pulita è una gran cosa! Quando ti puoi
mettere il cappello all’indietro, la gente
non può dir niente. L’onore è la cosa
più bella che c’è!” Lui ripeteva sempre
questo.
A quella povera mamma, quando si
è sposata a diciannove anni, le hanno
dato cento lire per premio. Lavorava
in una contea, laggiù a Montesanvito;
c’erano una quarantina di ragazze e
a quelle che si sposavano con onore
il conte faceva un regalo. Capirai, il
conte le ha dato cento lire di quella
volta: (mamma) si è sposata nel 1908.
Pensate voi, il povero babbo ci teneva
molto a quest’onore, sempre con questo onore. E allora a me, oltre che mi
faceva sempre il sermone quella povera
mamma, oltre quel povero babbo che ci
diceva sempre così, toccava a pensarci,
a stare attenta, perché mi diceva quella
povera mamma: “Guarda che delle tue
sorelle non si è potuto dire niente, se
ci entrano le chiacchiere, ti mando via
senza dote, senza un pezzo di panno,
niente: tu vai via così, con i (soli)
panni che porti addosso”. E lì, allora,
toccava tremare un po’, ti metteva proprio quel timore… perché chissà, se un
uomo ti toccava, prendevi fuoco! Diceva
sempre così: “Metti un po’ un fiammifero acceso vicino a un pagliaio… vedrai
come arde! Quello è lo stesso!”
242
La sposa e lo sposino di campagna: anno 1908.
243
Guai a le quàje strofellàde!
Guai alle quaglie chiacchierate
Cuélla vo’ noà sci se sapìa cualchicò’ sci vedéa a ’n cane, vedéa
’n somàro, a ’n gatto, a ’n toro, prò
sapéi ch’era difèrente de noà, de
noà femmene, scinó como facéi a
sapéllo. Cuélla ’olta ’n tra monèlli
’n se dovéa giogà’ insieme, maschi e
fémmene eh! Cojó, como te chiamàa
cuélla pôra mamma sùbbedo sci
vidìa che giogài coi maschi! E allora
sémo venùde su sempre ’mpo’ cojóne! Pensàde vuà, cuéllo ch’è venùdo
a fa’ l’amore lì casa, quanta pacensia ci’avrà ûdo con me! Perché toccàa a gì’ piano con cuéi scherzi là,
perché sci facéa ’na cosa ’mpo’ che
non gèra, io... via! ié dicìa ‘licenziado’ eh! Allora ce pensàa, vidìa ch’io
era timida, non pensàa ch’era stada
co’ n’antro, ’l capìa anca lu’, perché
tanto se véde sùbbedo le persone, le
quaje stroffellàde, se véde sùbbedo.
Dicéa cuélla pôra mamma: “Cuélla è
’na quaja stroffellàda!”
Quanno se gèra in giro, se vidìa
cuéll’òmmini che magari tenìa ’l
braccio sul collo a le ragazze, che
se baciàa vicino a la bocca, ma
chi sapìa? Cuélla volta cuélla pôra
mamma dicìa, quanno vidìa coscì:
“Sa quant’è mejo che va a fa’ schifo dréndo la càmbora, sènsa fàsse
véde’ giuppe le strade, a da’ scàndolo!” E che po’ ’n facìa gnè de
male. Dobo, sci per sorta cuélla lì
se stizzàa co’ lo ragazzo, era fadìga che n’artròàa n’antro sa; cuélla
Quella volta noi sapevamo qualcosa se si vedeva un cane, si vedeva un
somaro, un gatto, un toro, però sapevi
che erano diversi da noi, da noi femmine, se no come facevi a saperlo! Quella
volta tra monelli non si doveva giocare
insieme, maschi e femmine, eh! Cojó’,
come ti chiamava subito quella povera mamma, se ti vedeva che giocavi
con i maschi! E allora siamo cresciute
sempre un po’ coglione! Pensate voi:
quello che è venuto a fare l’amore in
casa quanta pazienza avrà avuto con
me! Perché bisognava andar piano con
quegli scherzi là, perché, se faceva una
cosa un po’ che non andava, io… via!
Gli dicevo “licenziato” eh! Allora ci
pensava, vedeva che io ero timida, non
pensava che io ero stata con un altro, lo
capiva anche lui, perché tanto si vedono
subito le persone, le quaglie chiacchierate si capiscono subito. Diceva quella
povera mamma: “Quella è una quaglia
‘strofellata’!”
Quando si andava in giro, si vedevano quegli uomini che magari tenevano il braccio sul collo alle ragazze,
che si baciavano vicino alla bocca, ma
chi sapeva? Quella volta quella povera
mamma diceva, quando vedeva così:
“Sa quant’è meglio che va a fare schifo
dentro la camera, senza farsi vedere per
le strade e dare scandalo!” E che, poi,
non facevano niente di male.
Dopo, se per caso quella (ragazza) lì
si lasciava per un litigio con il ragazzo,
era fatica che ne ritrovasse un altro sa;
244
che avìa fatto a l’amore, cuélla sci
che la stroffellàa cuél’altro segondo, che ce venìa, perché ìa paura
ch’era stada co’ n’antro, cuélla scì
che c’era da combatte cuélla pôra
donna finché ’n pïàa marìdo.
Pure cuélle che gèra a casa de lo
ragàzzo era strofellàde. ’Ste sorelle mia miga ce l’ha fatte gi’, ci’hà
comensàdo a gi’ ’mpo’ la segónda e
la tersa, ma la prima ’n ce l’ha fatta
gì’ mae. E po’ ’n c’è gida da sola
manco la segónda, c’è gida cuélla
pôra nonna, perché lìa s’anvergognàa. Perché ha ditto: “E sci te lassa
gi’ dobo, sai stada anca a casa de
lo ragazzo. Sai matto que fèra de
male, perché era stada a casa de lo
ragazzo... È che lìa non ce podìa gì’
diedro, qualla pôra mamma, perché
’n ce gèra nisciuna. S’anvergognàa,
ìa paura che magari fosse gidi su la
càmbora, aésse fatto cualchicò’...
quella che era stata fidanzata, quella sì
che la interrogava il secondo che andava da lei, perché aveva paura che fosse
stata con un altro, quella povera donna
sì che aveva da combattere finché non
aveva preso marito!
Pure quelle che andavano a casa
del ragazzo erano chiacchierate. Alle
sorelle mie mica ce l’ha fatte andare, ci
avevano cominciato ad andare un po’
la seconda e la terza, ma la prima non
ce l’ha fatta andare mai. E poi non c’è
andata da sola neppure la seconda, c’è
andata (insieme) quella povera nonna,
perché lei si vergognava”. Diceva la
povera mamma: “E se dopo ti lascia,
sei stata anche a casa del ragazzo…!”
Sai mai che cosa faceva di male ad
andare a casa del ragazzo! È che lei
non ci poteva andare dietro, quella
povera mamma, perché non ci andava
nessuna. Si vergognava, aveva paura
che magari (i fidanzati) fossero andati
sulla camera, avessero fatto qualcosa…
Boh, sci se baciàa…
Boh, se si baciavano…
Dobo che ero sposàda, tante vo’
ié l’ardicéo: “A mamma, vo’, pe’ sapé’
tutte ste cose, pe’ èsse coscì maliziosa... ce séde passàda anca vo’…
apposta...” E lìa me dicéa: “Sa che
ce so’ passàda anch’io, ma guai sci
te vidìa cuélla pôra mamma mia,
manco che t’affacciassi su la finé’ in
due non volìa, avìa paura che stèmma troppo vicino!” Pensa ’mpo’, lìa
Dopo che ero sposata, tante volte
glielo dicevo: “Mamma, voi’, per sapere tutte queste cose, per essere così
maliziosa… ci siete passata anche voi,
apposta…” E lei mi diceva: “Sa che
ci sono passata anch’io, ma guai se
ti vedeva quella povera mamma mia,
non voleva neppure che ti affacciassi
sulla finestra in due, aveva paura che
stessimo troppo vicini!” Pensa un po’,
245
pure a diciott’anni ancó’ non fèra
l’amore, a diciannove ha sposàdo: ha
fatto l’amore ’n’annàda con cuél pôro
babbo. Dev’èsse’ che anca pe’ lóra
prima ce volìa ’mpo’ a conóscese,
miga se pô fa’ como…, ne ’l so como
chi…, ... como le dinde che, quanno
vede ’l dindo, se prepara. Envéce ’na
ò con tutte cuélle cose che c’era, ’n
c’era mango le spiegazió’, gnè’, ’n se
sapìa gnè. Ade’ è gambiàdo nigò!
‘Na vo’, m’arcordo, gèra a scòla
e a fa’ i còmpidi io era ’mpo’ svéltra, allora la maestra me dicìa: “Te
che già hai finido a fa’ ’l còmpido,
vàmme su alto, di’ a Desdè sci me fa
’n goccio de tè”. E allora sa, io vô su,
non è che chiamo. So’ passàda ’nté
la scòla, de dréndo, lì c’era le scale
che portàa sùbbedo su casa. So’ gìda
su, ma po’, quanno so’ stàda lì, me
so troàda davanti ’na scèna: c’era
Desdè che se baciàa co’ lo ragazzo.
Boh sci se baciàa, che ne so... stèrene ’ttaccàdi!
Quanno ha visto a me, è ’rmàsti
’mpo’ male perché lóra no ’l pensàa:
sapìa che la maestra fèra la scòla!
I’hò ditto: “Desdè, ha ditto la maestra
che ié fàde ’n goccio de tè o capomìlla ché ié dôle lo stòmmigo”: E po’ so’
fujàda via perché m’ha fatto brutto
a véde’ luscì. Capirai, ancó io fèra la
segonda! M’ha dìtto: “Vène chì, vène
chì, c’adè ’l fô sùbbedo!” Io prò spettàa ’nté le scale, perché cuéll’ômo lì
me facéa piedà a vedéllo.
Dobo l’ho spettàdo, ha fatto ’sto
tè e po’ l’ho portàdo giù a la maestra.
lei pure a diciott’anni ancora non era
fidanzata, a diciannove aveva sposato: è stata fidanzata un anno con quel
povero babbo. Dev’essere che anche per
loro prima ci voleva un po’ di tempo per
conoscersi, mica si può fare come, non
lo so come chi… come le tacchine che,
quando vedono il tacchino, si preparano. Invece una volta con tutte quelle cose
che c’erano, non c’erano neppure le spiegazioni, niente, non si sapeva niente.
Adesso è cambiato tutto quanto.
Una volta, mi ricordo, andavo a
scuola e a fare i compiti io ero un po’
svelta, allora la maestra mi diceva: Tu,
che hai già finito a fare il compito,
vammi su alto, di’ a Desdè se mi fa un
goccio di tè”. E allora, sa, io vado su,
non è che chiamo. Sono passata nella
scuola, dentro, lì c’erano le scale che
portavano subito in casa. Sono andata
su, ma poi, quando sono arrivata lì, mi
sono trovata davanti una scena: c’era
Desdè che si baciava con il ragazzo.
Boh, se si baciavano, che ne so… stavano attaccati!
Quando mi hanno visto, sono rimasti un po’ male, perché non ci pensavano: sapevano che la maestra faceva
la scuola! Gli ho detto: “Desdè, ha detto
la maestra se le fate un goccio di tè o
camomilla, perché le fa male lo stomaco!” E poi sono fuggita via, perché
m’ha fatto brutto vedere così. Capirai,
ancora io facevo la seconda! Mi ha
detto: Vieni qui, vieni qui, che adesso
lo faccio subito!” Io però aspettavo sulle
scale, perché quell’uomo lì mi faceva
pietà a vederlo.
246
Io sitta como ’na mosca: miga l’ho
ditto mango a mamma quanno so’
gìda a casa. Ci’hò pensàdo sempre
sa, me so’ ’rcordàda prò, quann’èra
granna be’, che comensàa a capì’
anch’io cuél ch’èra a sta’ co n’ômo.
Dicìa: “Vedi que facéa cuélla! ’L sapìa
lìa, ché se vulìa be’ ”.
Dopo ho aspettato, ha fatto questo tè
e poi l’ho portato giù alla maestra. Io
zitta come una mosca: mica l’ho detto
nemmeno a mamma, quando son tornata a casa. Ci ho pensato sempre, sa; mi
son ricordata quando ero grande bene e
cominciavo a capire anch’io quello che
era a stare con un uomo. Dicevo: “Vedi
che faceva quella! Lo sapeva lei, perché
si volevano bene!”
Cuélli d’adè’
Quelli di adesso
Cuélli d’adè’ ’n ce fa più caso,
io tante le ò vô via col treno, vô a
troà mi fija, che sta lassù che s’è
sposàda a Pesaro. Su cuél treno se
baciane, s’abbracciane e su l’auto
de la città, ch’è chiamado ‘l’auto
de la città’, lì pure se baciane, se
’bbracciane, guàsci me fa pietà a
vedélli, sarà perché ormai è svanìdo
nigò per nuà, ma tanto quanto era
bello prima. Te vedéi se pïàvane pe’
la mane e se volíane be’, e se volìa
be’ como cuélli d’adè’ sa. Penso che
cuélli d’adè, quanno che è passàdi
tre quattro mesi saranno stufi peggio... del porco c’arbàlta ’l tròcco.
Per forsa no, appena se conósce già
comènsàne a gi’ insieme, comensàne guasci già a gi’ a letto insieme
e coè ’na robba normale! Dobo sa,
capirai, quann’è al tempo nostro
cuélli ’n se guardàne più mango col
binògolo! È perché ènne stufi no!
’Nvece noà, capirai, quanno che
Quelli di adesso non ci fanno più
caso; io talvolta vado via con il treno,
vado a trovare mia figlia, che sta lassù,
perché si è sposata a Pesaro. Su quel
treno si baciano, si abbracciano e
sull’auto di città lì, che è chiamato
‘l’auto di città’, lì pure si baciano, si
abbracciano, quasi mi fanno pietà a
vederli: sarà perché ormai è svanito
tutto quanto per noi, ma tanto quanto
era bello prima! Tu vedevi che si prendevano per mano e si volevano bene; ci
si voleva bene come quelli di adesso, sa.
Penso che quelli di adesso, quando son
passati tre quattro mesi, saranno stufi
peggio… del porco che ribalta il truogolo. Per forza no, appena si conoscono
già cominciano quasi ad andare a letto
insieme e che cos’è, una roba normale!
Dopo sa, capirai, quando sono all’età
nostra quelli non si guardano più nemmeno con il binocolo! È perché sono
stufi, no!
Invece noi, capirai, quando sono
247
so’ gìda a fa’ lo striscio, lo sfrìscio,
boh nel so mango como se chiama, me dicéa: “Quanno éde ûdo i
primi rapporti?” “E quanno càoli
l’ho ûdi, a vent’anni, quanno me so’
sposàda!” E co’ è como cuélle d’adè
che a dodici’anni comènsa già a gi’
co’ l’ômmini! Non tutte, ma parecchie scì, eh! Adè’ dìcene che ci’hanne da gi’, è mejo... vedremo ’mpo’
come gìmo a fenì’... me sa miàndo
de campà’ qualche altro anno, sci
ci’arìvo, nel duemila ci’ariverò, ma
me sa miando da véde’ cuél che
succederà, co’ ’st’avanzamendo che
fanne, co’ st’ intelligenza: ié parene
da capì’ tanto più che noà.
Vedi già se véde chì: i fjòli non
nascene più, ci’hanne tutti i mezzi
adè. Cuélla vo’ io non sapéa mango
cuél che era, sentìa a di’ tante le
ò... passàa anca da cojóna ché n’éa
visto mango co’ era mai.
La prima vo’ l’ho visti, quann’era
al tempo de guèra. Ìo visto cha a
’n tedesco iè cascàda per tèra ’na
scatolétta, ié s’è ropèrta, iè cascàda
per terra cuélla robba. I’ho ditto a
mi’ marìdo: “Que sarà cuélla?” Dobo
c’era gli sfollàdi giù casa nostra,
c’era Vincè de Tajanèllo, c’era ’l
padró’ ’l padre, la madre, e c’era
Maria de Landó col marìdo, che
sarìa stado Peppe de Landó e...
me guardàa, s’è messi a rìde’, m’ha
ditto: “Chiaré’, Chiaré’...!” E chissà
co’ ha da di’ “Chiaré’ Chiaré’, sci
n’ìo visto mae, che càolo ne so a
que servìa. Eh, adè tutte ’ste cose
andata a fare lo striscio, lo ‘sfriscio’,
boh, non lo so neppure come si chiama,
mi diceva: “ Quando avete avuto i primi
rapporti?” “E quando cavolo l’ho avuti?
A vent’anni, quando mi sono sposata!” E che cos’è come quelle di adesso
che a dodici anni cominciano già ad
andare con gli uomini! Non tutte, ma
parecchie sì, eh! Adesso dicono che ci
devono andare, è meglio… Vedremo un
po’ come andremo a finire… non vedo
l’ora di campare qualche altro anno,
se ci arrivo… Nel duemila ci arriverò,
ma non vedo l’ora di vedere quello che
succederà, con questo avanzamento che
fanno, con questa intelligenza: gli pare
di capire tanto più di noi!
Vedi, già si vede da qui: i figli non
nascono più, hanno tutti i mezzi adesso
(per non farli nascere). Quella volta io
non sapevo neppure quello che erano,
(ne) sentivo parlare tante le volte…
passavo anche da cogliona, perché non
avevo visto mai neppure cosa fossero (i
preservativi).
La prima volta li ho visti, quando
era al tempo di guerra. Avevo visto che
a un tedesco era cascata per terra una
scatoletta, gli si è aperta, gli è cascata
per terra quella roba. Gli ho detto a mio
marito:” Che cosa sarà quella?” C’erano
gli sfollati a casa nostra, c’era Vincè de
Tajanello, c’era il padrone con il padre
e la madre, c’era Maria di Landó con
il marito, che sarebbe Peppe di Landó
e … mi guardavano, si sono messi a
ridere, mi ha detto: “Chiaré’ Chiaré’…!
E chissà che avevano da dirmi “Chiaré’
Chiaré’, se non li avevo visti mai, che
248
nòe, modèrne, prò le maladìe me
sa che ce n’è de più. I fiji ni vôle fa’
più nisciù’, uno è troppo, ’nvece me
sa che, per cuél che dice, bisogna
fàlli i fiji, perché scinó in Italia gìmo
male, semo cuélli che sémo più
addiedro de tutti.
Adè’ va be’ che ci’hanne da gi’ a
fadigà’, ’n c’è nisciù’ che li guarda; è
vero che li sbatte de qua li sbatte de
là, ma sci arpïàsse le moda de ’na
ò, che ce fusse ’mpo’ meno lusso,
’mpo’ meno còsa, a tené’ ’mpo’ più
accónto e a fa’ qualche fijo de più,
capàce che se tròa mejo anca lóra
quanno è più vecchi, perché almeno...
Io vedo che quanno so’ stada
all’ospedale, ce n’ho tre de fiji, ’na
’olta me ce venìa uno, ’na ’olta
me ce venìa n’antro, sola ’n so’
stada mae; ’na ’olta me ce stèra mi’
marìdo, ’na ’olta me ce stèra cuéllo
più granno, ’n’antra vo’ ’l segondo,
’n’antra ò la più piccola e po’ c’era
le móje, c’era i marìdi, como sia
sola ’n ce so’ stada mae. Ma chi
ci’ha ’n fijo solo, ma chi vôi che te
ce sta sempre? Eh, ci’hanne da fa’,
dobo sci ci’ha ’n fijo, magàri ci’ha ’n
nipode, ha da guardà’ a cuéllo, ’n te
ce pôle venì’ no! ’Nvéce a la notte a
me me c’è stadi sempre, quanno c’è
stado bisogno. Dobo ce se lamenta
ma io ne ’l so...
cavolo ne sapevo a che cosa servivano!
Eh, adesso tutte queste cose nuove,
moderne, però le malattie, mi sa che ce
ne sono di più. I figli non li vuole più
nessuno, uno è troppo, invece mi sa
che, per quello che si dice, bisogna farli
i figli, perché se no in Italia andiamo
male, siamo quelli che sono più indietro di tutti. Adesso va bene che hanno
d’andare a lavorare, non c’è nessuno
che li guarda (i figli); è vero che li
sbattono di qua li sbattono di là, ma se
riprendesse la moda di una volta, che
ci fosse un po’ meno lusso, un po’ meno
cose, a tenere un po’ più a conto e a fare
qualche figlio di più, forse si troveranno meglio anche loro, quando saranno
vecchi, perché almeno…
Io vedo che quando sono stata
all’ospedale, ce ne ho tre di figli, una
volta veniva uno, una volta me ce ne
veniva un altro, sola non sono stata
mai. Una volta mi ci stava mio marito,
una volta mi ci stava quello più grande,
un’altra volta il secondo, un’altra volta
la più piccola e poi c’era la moglie,
c’erano i mariti: come sia, sola non
ci sono stata mai. Ma chi ha un figlio
solo? Ma chi vuoi che ti ci stia sempre? Eh, hanno da fare. Dopo, se ha
un figlio, magari ha un nipote, ha da
badare a quello, non ti ci può venire no!
Invece la notte mi ci sono stati sempre,
quando c’è stato bisogno. Dopo ci si
lamenta, ma io non lo so…
249
La biscighetta
La bicicletta
Parlamo sempre de cinquant’ani
fa, anca de più, quanno ’nté le famèje
c’era malappéna ’na biscighétta:
’ndó c’era tre o quattro giovini, la
piàa ’na festa perù’; le donne toccàa
a falla sempre a pìa. Io ci’hò ’mparado a gìcce da monella, con cuélla
da ômo, ma per me non c’era mae.
Quanno me so’ fatta lo ragazzo, lu’
ce lìa da donna, però avìa fatto ’na
taolétta al posto della canna. Dobo
che me so’ sposada, me portàa ’nté
la taolétta, prima de sposasse cuélle
poghe license che era a casa, me
mettìo a sède’ sul manubrio. Eppure
era bello: se stèra a faccia a faccia,
coi bracci mia sul collo sua.
Stasera, mentre scrivo, c’è la
televisió’, fa véde’ “gheo&gheo”: là
in India va via in bicicletta. L’ho
ditto co’ mi’ marido: “Vedi cuélli è
como noà sessant’anni fa. Anche
“Linia verde” è gido là, è calado giù
dall’apparecchio, cuéll’aspèrto, ha
preso la biscighétta e ci’hà carcàdo
anca ’na donna che sapìa parlà’ be’
l’italiano, ’nté cuélle strade de terra
e sassi pròpio como ’na ò da nóà.
M’arcòrdo che ’na ò me s’è stizzata cuélla pôra mamma. Noà c’émma parenti a Senigàja e c’era du’
cugine, tre ansi, ma due era propio
amìghe mia. Venìa su ’gni tanto a
la doménniga, venìa a magnà’ su
casa. Era venùde su cuél giorno
col tandem. Dobo i’ho ditto: “Me
l’amprestàde, ’l lassàde quassù ché
Parliamo sempre di cinquant’anni
fa, anche di più, quando nelle famiglie
c’era a malapena una bicicletta: dove
c’erano tre o quattro giovani, la prendevano una festa per uno; alle donne
toccava sempre ad andare a piedi. Io
ho imparato ad andarci da monella,
con la bicicletta da uomo, ma per me
non c’era mai. Quando mi son fatta il
ragazzo, lui ce l’aveva da donna, però
aveva preparato una tavoletta al posto
della canna. Dopo che mi sono sposata
mi portava sulla tavoletta; prima di
sposarmi, durante quelle poche licenze
quando era a casa, mi mettevo a sedere
sul manubrio. Eppure era bello: si stava
a faccia a faccia, con le braccia mie
sul collo suo. Stasera, mentre scrivo, la
televisione fa vedere “Geo & Geo”: là,
in India, vanno via in bicicletta. L’ho
detto con mio marito: “Vedi quelli sono
come noi sessant’anni fa. Anche (il presentatore di) “Linea verde” è andato là,
è sceso giù dall’aeroplano, quell’esperto,
ha preso la bicicletta e ci ha caricato
anche una donna che sapeva parlare
bene l’italiano: quelle strade di terra e
sassi erano proprio come quelle di una
volta da noi.
Mi ricordo che una volta mi si è stizzata quella povera mamma. Noi avevamo dei parenti a Senigallia e c’erano
due cugine, anzi tre, ma due erano
proprio mie amiche. Venivano su ogni
tanto la domenica, venivano a mangiare a casa nostra. Quel giorno erano
venute su col tandem. Dopo gliel’ho
250
dopodomà’ c’émo da gi’ a Jesi. E ce
l’ha lassàdo.
Donca so’ gìda a Jesi con la biscighetta, col tandem, co’ mi’ ragazzo,
ch’era in licènsa: quanto m’ha piaciùdo! Io ’n sapéa mango cuél che
era: du’ biscighette ’taccàde assieme. Prò sémo gìdi a Jesi a portà’ la
ròbba al padró’, dobo c’era l’amici
de lo ragazzo mia, che l’era gìdo a
troà’ che cuélla vo’ fèra ’l soldàdo
insieme. Quanto m’è piaciùdo suppe
cuélla strada, io stèra diedro, mi’
ragazzo stèra avanti.
Cuélla pôra mamma è stàda stizzàda otto giorni, perché ce so’ gìda
col mi’ ragazzo. Capirai, c’émma
portàdo mi’ nepóde con noà, l’èmma
messo davanti, ’nté ’l portabagài,
pensa ’mpo’. Chissà ’ndó lassài cuéllo, sci volìi fa’ cualchicò’! Mango
’n bacio te podìi da’, perchè cuéllo
arcontàa nigò!
detto: Me lo prestate? Lo lasciate quassù
perché dopodomani dobbiamo andare a
Jesi”. E ce lo hanno lasciato.
Dunque sono andata a Jesi con
la bicicletta, col tandem, con il mio
ragazzo che era in licenza: quanto mi è
piaciuto! Io non sapevo neppure quello
che era: due biciclette attaccate insieme.
Però siamo andati a Jesi a portare la
roba al padrone; dopo c’erano gli amici
del mio ragazzo, che lo erano andati a
trovare quella volta che faceva il soldato
insieme. Quanto mi è piaciuto su per
quella strada: io stavo dietro, il mio
ragazzo avanti. Quella povera mamma
è stata stizzata otto giorni, perché
ci sono andata con il mio ragazzo.
Capirai, avevamo portato con noi mio
nipote, l’avevamo messo davanti, nel
portabagagli, pensa un po’! Chissà dove
lo lasciavi quello, se volevi fare qualche
cosa! Neppure un bacio ti potevi dare,
perché quello raccontava tutto!
Porte vecchiotte e… magó’
Porte vecchiotte e… magoni!
Vedède vuà, è proprio coscì. ’Gni
tanto ’nté ’sto cervello c’è ’mpo’ de
cianfrusàja: s’è mistigàde le cose de
’na ò con cuèlle d’adè’ e ’n se finisce mae d’arcontà’. Allora, quanno
ch’era giovena, se gèra ’nté la càmbora co’ lo ragazzo, ma stàde a sentì’
quanto era rigoróso. La porte de ’na
ò, como nigò, era ’mpo’ vecchiotte e
i càlchini era ’mpregnàdi de rùgena.
Quanno se roprìa e chiudìa anca
Vedete voi, è proprio così. Ogni tanto
in questo cervello c’è un po’ di cianfrusaglia: si sono mischiate le cose di una
volta con quelle di adesso, e non si finisce mai di raccontare. Allora, quando
ero giovane, si andava nella camera con
il ragazzo, ma state a sentire quanto
rigore c’era. Le porte di una volta, come
tutto quanto, erano un po’ vecchiotte e i
cardini erano pieni di ruggine. Quando
si aprivano e si chiudevano anche con
251
col vento, fèva cuél cigolìo iiih…
iiih! Babbo ’mpolìa sentì’ e via co’ la
’mpollìna dell’ojo e ’na penna de dindòla, lónga, cuélla delle l’ale, e dàje
a passà’ ’nté tutti i càlchini a vógne’.
E ’nté cuélla della càmbora mamma
ce ’rbuttàa ’mpo’ de cénnera pe’ non
fàlla socchiùde’, ma non gioàa: se
ribattìa uguale. Allora ìa ’mparàdo
a póntàcce ’na scarpa. Pensàde vuà
che rigorosità: c’era ’rmàsto venti
giorni de sposàmme! Io dicìo: “Ma,
mamma!” Sci io leào la scarpa, lìa
ce la ’rmettìa. “Fija mia: non se pô
di’ quattro, scinànta che n’è drendo
al sacco!”
La ronda era sempre in agguàdo,
sci ’mpodìa fa’ altro, mannàa oltra a
babbo col fiasco del vì, ché lu’ bastàa
podìa da’ da bé’ a uno ch’era tranquillo. Jé dicìa mi’ fradèllo: “Mamma stasera è de guardia!” Lìa era tranquilla
quanno ìa finido la licenza, allora se
rilassàa. Quanto peso i’averò leàdo
cuél giorno che me so’ sposada!
Ìa ragió, ce so’ passàda anch’io
co’ le fémmene. Quanto è bello cuél
giorno, ’l più bello de la vida. Dicìa:
“C’è tanto tempo dopo!” Ma perché
sa da passà’ cuél magó?
Tanto più che se dice del magó’,
sentìde cuésta. C’era una giovena,
’mpo’ addetràda, che curàa ’l panno
’nté ’l fiume. Passa ’n frade, se ferma,
ié dice: “Que fa signorina? Se prepara
la dòda per pià’ marido?” Lìa: “Scì!” E
lu’: “Ié l’ha spiegàdo nisciù che prima
de sposàsse deve toje’ ’l vèrmene
drendo?” “E lìa: No! E como se fa a
il vento, facevano quel cigolio iiih…
iiih! Babbo non poteva sentire e via
con l’ampollina dell’olio e una penna di
tacchina, lunga, quella delle ali, e forza
a passare ad ungere tutti i cardini. E in
quella della camera mamma ci buttava
anche un po’ di cenere per non farla socchiudere (da sola), ma non giovava: si
ribatteva ugualmente. Allora (mamma)
aveva imparato a puntarci una scarpa.
Pensate voi che rigore: c’erano rimasti
venti giorni per sposarmi! Io dicevo:
“Ma… mamma!” Se io levavo la scarpa,
lei ce la rimetteva: “Figlia mia, non si
può dir quattro, finché non è dentro il
sacco!”
La ronda era sempre in agguato, se
non poteva far altro, mandava babbo
con il fiasco del vino, perché a lui
bastava poter dar da bere a uno che
era tranquillo. Gli diceva mio fratello:
“Mamma stasera è di guardia!” Lei era
tranquilla, quando (il ragazzo) aveva
finito la licenza, allora si rilassava.
Quanto peso le avrò levato il giorno
che mi sono sposata! Aveva ragione, ci
sono passata anch’io con le femmine.
Quanto è bello quel giorno, il più bello
della vita. (Mamma) diceva. “C’è tanto
tempo dopo!” Ma perché si deve passare
quel magone?
Tanto più che si dice del magone,
sentite questa. C’era una giovane, un
po’ arretrata, che curava il panno nel
fiume. Passa un frate, si ferma e le
dice: “Che cosa fa signorina? Si prepara
la dote per prender marito? Lei: “Sì!”
E lui: “Glielo ha spiegato nessuno che
prima di sposarsi deve togliere il verme
252
leàllo?” E lu’ i’hà ’mparàdo.
È ’rgìda a casa incaolàda co’ la
madre: “Perché non m’hai ditto niè’?
Non podìo sposà’, sci non leào ’l vèrmene!” Ha spiegàdo como ìa fatto.
La madre se métte a piàgne’: “Fija
mia, ormai non te sposa più nisciù!”
Al giorno appresso arvà giù ’l
fiume, arpàssa ’sto frade, ié dice:
“Como va?” “Ah scì, mamma ha ditto
che ormai non me sposa più nisciù…
senza ’l vèrmene!” E ’l frade, che
ne sapìa una più del deàolo: “Sta’
tranquilla, sci è per cuésto… adè ce
l’armettémo sùbbedo!”
È vero? Che ne so! L’ho’ntéso a
’rcontà’!
dentro? E lei: “No! E come si fa a levarlo?” E lui glielo ha insegnato.
(La giovane) è tornata a casa incavolata con la madre: “Perché non mi
hai detto niente? Non potevo sposare, se
non levavo il verme dentro!” Ha spiegato come aveva fatto. La madre si mette
a piangere: “Figlia mia, ormai non ti
sposa più nessuno!”
Il giorno dopo ritorna al fiume,
passa di nuovo quel frate che le dice:
“Come va?” “Ah sì, mamma ha detto
che ormai non mi sposa più nessuno…
senza quel verme!” E il frate, che ne
sapeva una più del diavolo: “Sta’ tranquilla, se è per questo… adesso ce lo
rimettiamo subito!” È vero? Che ne so!
L’ho sentito raccontare!
Quanno s’è sfasciàdo nigò…
Quando si è sfasciato tutto quanto
Adè ve vojo ’rcontà’ ’mpo’ la guerra. Avrìa finido a settembre del ’43,
chìa deposidado l’arme l’Italiani, e
noà se fumma ’mpo’ tranquillizzadi.
È vero che ’ncó tanto ’sti fradèlli e
mi’ ragazzo era sotta l’arme, però
pensamma che presto i podémma
’rvéde’, envéce dobo scì ch’è venùdo
’l peggio!
Non podémma avé’ mango più
notizzie, perché sci scrivìa scoprìa
’ndó era nascosti. Appena s’è sfasciado nigò, cioè s’è messo giù l’arme, i comannanti dei soldadi italiani
i’hà ditto: “Scappàde ’ndó ve pare,
non ve fade pïà’ scinò ve porta al
Adesso vi voglio raccontare un po’
della guerra. Sarebbe finita nel settembre del ’43, perché gli Italiani avevano
deposto le armi e noi ci eravamo un po’
tranquillizzati. È vero che ancora tanto
i miei fratelli quanto il mio ragazzo
erano sotto le armi, però pensavamo che
presto li avremmo potuti rivedere, invece dopo sì che è venuto il peggio!
Non potevamo più avere nemmeno
notizie, perché, se scrivevano, scoprivano dove erano nascosti. Appena si è
sfasciato tutto quanto, cioè si son deposte le armi, i comandanti dei soldati
italiani gli hanno detto: “Scappate dove
vi pare, non vi fate prendere se no vi
253
campo de concentramento.
Un fradello mia, che fèra ’l soldado a Trieste, l’ha pïàdo con tanti
altri compagni, l’ha portadi al campo
de concentramento, in Isbruc Ger­
mania e lì è ’rmasto, è morto de
fame. Era ’n ragazzo alto un medro
e settantasette, pesàa ’n’ottantina
de chili. Quanno è morto, era ’rdótto a pesà’ ’na trentina de chili. Se
sfamàa co’ le bucce delle cartófe,
sarìa padade ’rcolte ’nté i buzzi della
monnézza. Questo ce l’ha ’rcontàdo
’n’amìgo che era co’ lu’. Ci’hà ’rportàdo l’arlògio e ’l borcellì’. Cuéllo
è scappàdo via, ha aùdo fortuna da
’rnì’ a casa, ma era ’n’azzardo! Sci
s’accorgìa, te tiràa ’na schioppettada
como ’mpàssero.
Mi’ fradello ìa paura e non s’è
mosso: pôrìno, che morte avrà fatto!
Ci’hà ditto cuél compagno che piagnìa sempre. Ce credo: ha lassado
a casa la moje, che stèra male, e du’
fjolétti che l’ho tiradi su io, chè dobo
la moje è morta anca lìa a 33 anni,
la stessa edà de mi’ fradello. Anca
lu’ è morto a 33 anni. Pôra mamma,
quanno l’ha sapudo! Lìa e babbo ce
gèrene via de testa.
Dobo anca de cuéll’altro fradello
è venuda la nòva che ’n cìa più ’n’occhio, ié lìa cavàdo ’na scheggia sul
fronte russo. Quanno è successo lu’
non ce vedìa più;’ n’antro compagno
sua cìa le gambe spezzade. Allora
mi’ fradello l’ha carcàdo su le spalle
tutto ’nsanguenàdo, cuéllo ’l guidàa
e lu’ ’l portàa senza a vedécce. È
portano al campo di concentramento.
Un mio fratello che faceva il soldato
a Trieste, l’hanno preso con tanti altri
compagni, l’hanno portato al campo
di concentramento a Innsbruck, in
Germania, e lì è rimasto, è morto di
fame. Era un ragazzo alto un metro
e settantasette, pesava una ottantina
di chili; quando è morto, era ridotto a
pesare una trentina di chili. Si sfamava
con le bucce, raccolte nei bidoni dell’immondizia, delle ‘cartòfe’, che sarebbero
patate. Questo ce l’ha raccontato un
amico che era con lui. Ci ha riportato
l’orologio e il borsellino. Quello è scappato via, ha avuto fortuna di ritornare
a casa, ma era un azzardo! Se si accorgevano, ti tiravano una schioppettata
come a un passero.
Mio fratello aveva paura e non si è
mosso: poverino, che morte avrà fatto!
Ci ha detto quel compagno che piangeva
sempre. Ci credo: ha lasciato a casa la
moglie, che stava male, e due figlioletti
che l’ho fatti crescere io, perché dopo
la moglie è morta anche lei a trentatré anni, la stessa età di mio fratello.
Anche lui è morto a trentatré anni.
Povera mamma quando l’ha saputo! Lei
e babbo ci andavano via di testa.
Dopo anche di quell’altro fratello è
venuta la notizia che non aveva più un
occhio, glielo aveva cavato una scheggia
sul fronte russo. Quando è successo, lui
non ci vedeva più; un altro compagno
suo aveva le gambe spezzate. Allora mio
fratello l’ha caricato sulle spalle tutto
insanguinato: quello lo guidava e lui lo
portava senza vederci. Ha camminato
254
caminàdo per parecchi chilomedri
prima da ’rivà’ ’nté ’na infermerìa coi
pìa mezzi congelàdi. Ha ditto che, sci
se fermàa, se taccàa le scarpe per
terra, da quanto era gelàdo. Dobo ha
aùdo fortuna de ’rnì’ a casa. Sapé’
quanta pensió’ ié dèra? Ventottomila
lire al mese: a cuéi tempi sarà stado
como 200.000 lire adè’. E ié passàa
’n’occhio de vedro: cuélla era tutta la
risorsa! Ma tanto dicìa ’sti genidori:
“Mejo questo co’ ’n’occhio solo che
l’altro per gnè!”
E po’ non v’ho ditto de mi’ ragazzo. Dobo c’ha deposidado l’arme,
non se sapìa ’ndó era gido a finì’. Pe’
’mpò’ de tempo non podìa scrìve’,
perché se trovàa ’nté ’n bosco, a pìa
delle montagne de Torino. Erane
’mpo’ de fuggiaschi già da parecchi
giorni. Dal principio dormìane ’nté
’na cappànna de cannucciàja, ma
non cìa gnè da magnà’. Non cìa né
carta né penna. Dobo tre o quattro
giorni i’era venuda tanta fame; allora
ha visto ’na casa da lóngo.
Camminànno è gidi lì, ha bussado pe’ domandàje ’mpezzo de pa’,
perché s’era sfamadi ’mpo’ solo co’
le bacche che c’era ’nté ’l bosco.
Allora cuélla brava gente i’hà datto
da magnà’ e i’hà datto anca i pagni
da borghese, perché, se li vedìa i
Tedeschi che era militari, li portàa
tutti al campo de concentramento.
E lì fadigàa ’nté i campi e ié dèra da
magnà’. ’N giorno te védo ’rivà’ ’na
lettra che dicìa: “Cara Chiara, il mio
lavoro è cuéllo dei campi, sto bene,
per parecchi chilometri prima di arrivare in un’infermeria con i piedi mezzo
congelati. Ha detto che , se si fermava,
si attaccavano le scarpe per terra da
quanto era gelato. Dopo ha avuto la fortuna di ritornare a casa. Sapete quanta
pensione gli davano? Ventottomila lire
al mese: a quei tempi saranno state
come duecentomila lire di adesso. E gli
passavano un occhio di vetro: quella
era tutta la risorsa! Ma tanto dicevano
i miei genitori: “Meglio questo con un
occhio solo che l’altro per niente!”
E poi non vi ho detto del mio ragazzo. Dopo che (l’Italia) ha deposto le
armi, non si sapeva dove fosse andato a finire. Per un po’ di tempo non
poteva scrivere, perché si trovava in
un bosco, ai piedi delle montagne di
Torino. Erano alcuni fuggiaschi già da
diversi giorni. Al principio dormivano
in una capanna di canne di palude, ma
non avevano niente per mangiare. Non
aveva né carta né penna. Dopo tre o
quattro giorni gli è venuta tanta fame;
allora ha visto una casa in lontananza.
Camminando sono andati lì, hanno
bussato per domandare un pezzo di
pane, perché si erano un po’ sfamati
solo con le bacche che c’erano nel bosco.
Allora quella brava gente, gli ha dato da
mangiare e gli ha dato anche i vestiti
da borghese, perché, se li vedevano i
Tedeschi che erano militari, li portavano tutti al campo di concentramento.
E lì (il mio fidanzato) lavorava nei
campi e gli davano da mangiare.
Un giorno ti vedo arrivare una lettera che diceva: “Cara Chiara, il mio
255
te saludo e questo è il mio indirizzo:
Novero Alberto Vanda di Nole 42
Ciriè Torino”. Io ho pensado lì per lì:
“E que sarà matto!”
Dobo io piagnìa, babbo m’ha
ditto: “Questo è ’nté ’na faméja, sta
tranquilla, non te pôle spiegà’ scinò
lo scopre, perché le lettre ènne tutte
censuràde”. Ho pïàdo ’sta lettra e
co’ la bicicletta vô giù casa della
madre. Anca a lìa ié n’era ’rivàda
una. Envece de dì’ ‘cara mamma’,
i’hà scritto: “Cara Elvia, fadigo giù
pel campo, sto bene, saluda anche
Pasquale. Questo è l’inderizzo”.
Allora i’hò risposto ’mpo’ più tranquilla, sensa fàmme capì’ ch’era la
ragazza, poghe parole, solo per avé’
nodìzzie: era più de ’n mese che non
se sapìa più gnè. Dobo me scrivìa
qualche lettra, de rado, co’ l’inderìzzo de cuélla faméja, sensa spiegà gnè
de como se troàa lì. Io ’rconoscìo la
scrittura ch’era lu’. Anca alla madre
’l padre ié dicìa che stèra be’, avìa
cambiàdo anca ’l nome per paura che
i Tedeschi l’artroàa.
lavoro è quello dei campi, sto bene,
ti saluto e questo è il mio indirizzo:
Novero Alberto Vanda di Nole 42 Ciriè
Torino” Io ho pensato lì per lì: “E che
sarà matto!”
Dopo io piangevo, babbo mi ha detto:
“Questo è in una famiglia, sta tranquilla, non ti può spiegare se no lo
scoprono, perché le lettere sono tutte
censurate”. Ho preso questa lettera e con
la bicicletta vado a casa della madre.
Anche a lei ne era arrivata una. Invece
di dire “cara mamma”, le ha scritto:
“Cara Elvia, fatico giù per il campo,
sto bene, saluta anche Pasquale. Questo
è l’indirizzo”. Allora gli ho risposto un
po’ più tranquilla, senza farmi capire
che ero la ragazza, solo per avere notizie: era più di un mese che non si sapeva più niente. Dopo mi scriveva qualche
lettera, di rado, con l’indirizzo di quella
famiglia, senza spiegare perché si trovava lì. Io lo riconoscevo dalla scrittura
che era lui. Anche alla madre il padre le
diceva che (il figlio) stava bene: aveva
cambiato anche il nome per paura che i
Tedeschi lo ritrovassero.
Ventisette giorni coi pìa che
sanguinàa
Ventisette giorni con i piedi che
sanguinavano
È passado ’mpo’ de tempo e mi’
fradello se volìa sposà’ co’ la sorella
de mi’ ragazzo. Allora ié scrivo ’na
léttra dicendo: “Lucio e Daria se
sposa e tu’ padre vôle che io sposo
per progura, perché non manna via
È passato un po’ di tempo e mio
fratello si voleva sposare con la sorella
del mio ragazzo. Allora gli scrivo una
lettera dicendo: “Lucio e Daria si sposano e tuo padre vuole che io mi sposo
per procura, perché non manda via la
256
la fjòla, sci non vô giù io”. Cuélla vo’
se podìa sposà’ anca con pezzo de
carta, c’era ’sta legge chì, ma io non
era d’accordo, mango mamma non
era contenta: sci ’l marido morìa,
alla moje ié dèra la pensió’.
Allora mi’ ragazzo, quanno ha
’ntéso ’sta lettra, erane in quattro militari, ha ditto: “Io azzardo a
gi’ a casa: chi vôle venì’ con me?”
Lassù l’alte montagne cominciàa a
essèce tanta neve, dormìane ’nté ’na
capanna e decisero de partì’ in due,
cuéll’altri piagnìa.
Ha preso a campi, ’nté le strade
manco sìa da presentà’: Tedeschi
e fascisti era sempre in circolazió’.
Fossi, fiumi, trovàa brava gente che
l’aiudàa a traversà’ co’ la barca. Era
novembre, è caminàdi per ben 27
giorni coi pìa che sanguinàa. A ’rcontà’ tutto ’l tragitto ce vô ’n quaderno
pîno pîno!
È ’rivàdi a casa con vestido da
sposo, che ié lìa datto ’sta faméja,
cuéllo del marido. Pensade vuà
quanno l’ho visto! Non è vero!, non è
vero! Eppure era lu’. Anca a casa prò
non se podìa fa’ vede’ in giro perché
si ’l vidìa i Tedeschi, ’l portàa via:
como sentìa a bajà’ ’l ca’, sùbbedo
drendo al rifuggio.
Drendo 20 giorni ha volsùdo
sposà’, perché, como ho ditto, mi’
fradello se sposàa co’ la sorella.
Io non volìa perché era stada
insieme solo quattro licenze da 15
giorni e ’l mese de convalescenza:
mango ’l conoscìo be’.
figlia se non vado giù io”. Quella volta
ci si poteva sposare anche con un pezzo
di carta, c’era questa legge qui, ma io
non ero d’accordo, nemmeno mamma
era contenta: se il marito moriva, alla
moglie le davano la pensione.
Allora il mio fidanzato, quando ha
compreso la lettera, erano in quattro
militari, ha detto: “Io azzardo a tornare a casa: chi vuole venire con me?”
Lassù sulle alte montagne cominciava
ad esserci tanta neve, dormivano in
una capanna e decisero di partire in
due, quegli altri piangevano.
Ha preso per i campi, sulle strade
nemmeno si doveva presentare: Tedeschi
e fascisti erano sempre in circolazione.
Fossi, fiumi… trovavano brava gente
che li aiutava ad attraversare con la
barca. Era novembre, hanno camminato per ben ventisette giorni con i piedi
che sanguinavano. A raccontare tutto il
tragitto, ci vorrebbe un quaderno pieno
pieno.
(Il mio ragazzo) è arrivato a casa
con il vestito da sposo, che glielo aveva
dato quella famiglia, il vestito del marito. Pensate voi quando l’ho visto! Non è
vero, non è vero! Eppure era lui! Anche
a casa, però, non si poteva far vedere in
giro, perché se lo vedevano i Tedeschi, lo
portavano via: come sentiva abbaiare il
cane, subito dentro al rifugio!
Entro venti giorni ha voluto sposare, perché, come ho detto, mio fratello
si sposava con la sorella. Io non volevo
perché ero stata insieme solo durante le
quattro licenze e il mese di convalescenza: nemmeno lo conoscevo bene!
257
’Mpàr de galli e la móje al
padró’
Un paio di galli e la moglie al
padrone
Quando presentasci al padró’ ’na
moje ’mpo’ bella, ce fèsci la vernia
tua e ’l padró’ te lodàa; ma, sci era
tanto e quanto, fèsci magra figura,
perché ’na ò, non so sci ve l’ho ditto,
c’èra ’sta moda chì. Dopo ’mpo’ de
giorni che ìsci preso moje, piàsci
’mpar de galli e presentài la moje al
padró’. E dobo te ’rdèra qualchicò’
da regalo.
Cuélla vo’, quanno sposàsci, se
boccàa ’nté ’na faméja anca de 25 e
30 persone, ’ndó c’era 4 o 5 nòre, se
dicìa 4 o 5 canti, ’gnuno cìa 3 anca 4
monelli, al tempo mia; scinò cuélli
più grandi ce nìa anca 7 o 8. E dopo
le fameje apposta era ’mbellipò’.
Cuélla vo’ i padrù’, como v’ho
ditto, s’intromettìa anca ’nté ’ste cose
chì. Vulìa véde’ sci era ’na donna
svéltra, messa be’. Pensade vuà che
a babbo mia la móje iè l’ha scelta la
padróna ’l giorno che battìa ’l gra’. La
padrona guardàa da su la finè, tanto
a pesà’ ’l gra’ c’era ’l fattó’. Quanno
magnàa ha ditto: “Adè scegliemo la
ragazza a Nenè!”. Ce n’era ’mbràngo
de ’ste bardàsce, s’è guardàde da una
coll’altra. La padrona ha ditto forte:
“Mimma d’Ar­gentì’!” Cuell’àltre è
’rmàste ’mpo’ male, perché babbo
era ’mbòn partìdo e de ’na famèja
stimàda. E da lì è partìda la storia
d’amore; mamma cìa sedici’anni, a
diciotto ha sposàdo. Ogni tre anni
nascìa ’n monèllo.
Quando presentavi al padrone una
moglie bella, ci facevi la figura tua e
il padrone ti lodava; ma se era tanto e
quanto facevi una magra figura, perché
una volta, non so se ve l’ho detto, c’era
questa moda qui. Dopo un po’ di giorni
che avevi sposato, prendevi un paio di
galli e presentavi la moglie al padrone.
Dopo ti dava qualcosa come regalo.
Quella volta, quando ti sposavi, si
entrava in una famiglia anche di venticinque o trenta persone, dove c’erano
quattro o cinque nuore, si diceva quattro o cinque “canti”: ogni ‘canto’ aveva
tre anche quattro monelli al tempo mio,
se no quelli più grandi (di me) ce ne
avevano anche sette o otto. E dopo nelle
famiglie apposta erano in molti.
Quella volta i padroni, come vi ho
detto, si intromettevano anche in queste cose qui. Volevano vedere se era
una donna svelta, messa bene. Pensate
voi che a babbo la moglie gliel’ha scelta la padrona il giorno che trebbiava
il grano. La padrona guardava dalla
finestra, tanto a pesare il grano c’era il
fattore. Quando mangiavano ha detto:
“Adesso scegliamo la ragazza a Nenè!”
Ce n’era un branco di ragazze, si sono
guardate l’una con l’altra. La padrona ha detto forte: “Mimma d’Argentì!”
Quelle altre sono rimaste un po’ male,
perché babbo era un buon partito e di
una famiglia stimata. E da lì è partita
la storia d’amore: mamma aveva sedici
anni, a diciotto ha sposato. Ogni tre
258
Babbo ce fèra ’l paccó’, perché
mamma era ’n fusto, non spetta a
me lodàlla, ma guardàdela là ’l camposanto! Ié dicìa: “Mimma, bella e
lónga!” E sa, lu’ ce fèra la figura sua,
quanno la presentàa ai padrù’. Babbo
era più basso, ’sti generi ’l pïàa in
giro, ié dicìa: “Vu’ ce rivàsta?” E lu’ ié
risponnìa: “S’è visto!” Ansiéme avìa
fatto sei fjòli!
Anca mi’ marìdo ha volsùdo mantené’ ’sta moda’ de presentà’ la sposa
al padró’: non podìa fa’ a meno! Coscì,
dobo ’mpo’ de giorni che ìa sposàdo,
ha pïàdo ’mpar de galli e m’ha portàdo a fa’ conosce’ al padró’. I padrù
contraccambiàa con cualchiccò’; a
me m’ha fatto ’mpar de sciuccamà’.
C’è chi fèva ’na sottaveste, chi ié
fèra ’l velo per su la testa; cuéi più
ricchi anca ’na vestarèlla, scinonca i
calsétti, ’n fazzoletto per su la testa,
a segondo chi ciaìa ’l borcellì’ gonfio. Io me so’ contentàda de cuéllo
che mìa fatto. M’accolto be’. Dicìa
babbo: “Dan­nànse all’occhi è mèjo
’n gesto de bòna cera che ’mpiàtto
de pasta sciucca!”
Chissà sci ié sarò piaciùda? E
que ne so! Quanno venìa spesso ’nté
’n casa, me calcolàa tanto ’l padre;
anca ’l fijo è stado sfollàdo ’l tempo
del fronte ’nté ’n casa nostra: era
monellòtto, ce curìa tre anni con me,
più piccolo, prò con me ce discorìa
sempre. Io i’hò dàtto anca i linsòli
e ’l guanciale per dormì’. Prò me
rispettàa perdéro, ’ncó’ quanno me
’ncùntra me saluda. ’L padre e la
anni nasceva un monello.
Babbo ci faceva il grande, perché
mamma era un fusto, non spetta a me
lodarla, ma guardatela là al camposanto! Le diceva (babbo): “Mimma, bella e
lunga!” E sa lui ci faceva la figura sua,
quando la presentava ai padroni. Babbo
era più basso, i generi lo prendevano in
giro, gli dicevano: “Voi ci arrivavate?”
E lui gli rispondeva: “Si è visto!” Aveva
fatto sei figli assieme!
Anche mio marito ha voluto mantenere questa moda di presentare la
sposa al padrone: non poteva fare a
meno! Così, dopo un po’ di giorni che
avevo sposato, ha preso un paio di galli
e m’ha portato a farmi conoscere dal
padrone. I padroni contraccambiavano con qualcosa; a me hanno dato un
paio di asciugamani. Chi faceva una
sottoveste, chi un velo per sopra la testa;
quelli più ricchi anche una vestina,
sennò le calze, un fazzoletto da testa, a
secondo chi aveva il borsellino gonfio.
Io mi sono accontentata di quello che
mi ha fatto. Mi ha accolto bene. Diceva
babbo: “Davanti agli occhi è meglio un
gesto di buona maniera che un piatto di
pastasciutta!”
Chissà se gli sarò piaciuta. E che
ne so! Quando veniva spesso in casa, il
padre mi calcolava tanto; anche il figlio
è stato sfollato, al tempo del fronte, in
casa nostra: era un monellotto, ci correvano tre anni con me, più piccolo, però
con me discorreva sempre. Io gli ho dato
anche le lenzuola e il guanciale per dormire. Però mi rispettava per davvero;
ancora, quando mi incontra, mi saluta.
259
madre è da muntubè’ ch’ènne morti.
Prò arpìo la pendegola de ’sta
moda: è sparìda a pogo a pogo dobo
della guerra, scinànta che cuàlche
lecchìno, cadorciàro, como ’l volémo chiamà’, stèva sotta padró’, anca
sci ce rimettìa la pelle; era fannàdighi no, como cuèlli che tène pe ’na
squadra de palló’. Coscì hanne continuàdo a sta’ ’nté ’l fónno sinànta
l’ultimi strèmi, portàane i regali ai
padrù’ de niscòsto, prò sci s’accorgìa
cuell’altri…!
Allora è sparìda anca ’sta moda de
presentà’ ’ste móje como cuélle ’nté
la passarèlla d’adè’. Te fèva métte’ i
pagni più belli che cìsci in circolazió’,
per fàcce i paccù’ i marìdi. Se dicìa
“veste ’mbastó’ pare ’n pavó!”, ma sci
la faccia, ’l muso como volemo di’,
era tónno, sbirlóngo, guadràdo, non
se podìa gambià’; non c’era tutte ’ste
vernìge como c’è adè’, scinónca ’mpo’
la gambiàa la bruttezza alla bellezza.
M’arìa piaciùdo anca a me, sci ce
fusse stàdi ’sti trucchi, ma dobo eri
calcolàda ’na donna de strada: guai,
perdìi l’onore! Tanto non ce tenìa
’sti più granni de noà! Magàra è vero,
mèjo a èsse’ stadi como Cristo ciaìa
fatti, perché anca adè’ cualchidùna
pare ’na pupa custodìda be’, ma valle
a vedé’ la madìna quanno s’alza: tra
creme màscare pare la gréda quanno
scarcàmma la pozza! Sci le metti ’nté
’n campo, ’ndó becca i passeri che
fa danno, funsióna da spauracchi! Io
scherso.
A tutti piacerìa a èsse’ belli, ma
Il padre e la madre è da molto tempo che
sono morti.
Però riprendo il filo di questa moda:
è sparita a poco a poco dopo la guerra,
sino a quando qualche leccaculo, ruffiano, come li vogliamo chiamare, stava
sotto padrone, anche se ci rimettevano
la pelle; erano fanatici come quelli che
tengono per una squadra di pallone.
Così hanno continuato a stare nel fondo
sino agli ultimi estremi, portavano i
regali ai padroni di nascosto, però se si
accorgevano quegli altri…!
Allora è sparita anche questa moda
di presentare queste mogli come quelle
nella passerella di adesso. Ti facevano
mettere i vestiti più belli che avevi in
circolazione, perché i mariti ci facessero i vanitosi. Si diceva “vesti un
bastone pare un pavone!”, ma se la
faccia, il muso, come vogliamo dire, era
tondo, bislungo, quadrato, non si poteva cambiare; non c’erano tutte queste
vernici come ci sono adesso, sennó un
po’ la cambiano la bruttezza in bellezza. Sarebbe piaciuto anche a me, se ci
fossero stati dei trucchi, ma dopo eri
calcolata una donna di strada: guai,
perdevi l’onore! Tanto non ci tenevano
quelli più grandi di noi! Magari è vero,
meglio essere stati come Cristo ci aveva
fatti, perché anche adesso alcune paiono delle pupe custodite bene, ma vai a
vederle la mattina quando si alzano:
tra creme, maschere sembrano la creta
quando scaricavamo la pozza! Se le
metti nel campo, dove beccano i passeri
che fanno danno, funzionano da spauracchi! Io scherzo.
260
tanto se dice “ ’Mbèllo e ’mbrutto
sta be’ da per tutto”! Solo che ’na ò
se guardàa ’mbel personale, sci cìa
le gambe dritte, ’na bella chioma
de capìi, sci era ribusta, scinónca
dicìa che gné la fèra a tirà’ ’nànse ’na
faméja; po’ giusto giusto… guardàa
’ncó’ sci cìa ’mbèll’altarì’, scinónca
como lattài i monelli? ’Nsómma se
guardàa ’mpo’ de nigò, ma, adè’,
que vedi? ’N se pôle véde’ più sci
ci’hà le gambe dritte, storte, grosse,
piccole: pòrtene tutte le càlse como
l’òmmini! ’Na ò me piacìa anca a me!
Gnènte de meno ’na ò me so’ messa
’l vestido de mi’ fradèllo e ci’hò fatto
n’arsomèjo per quanto m’ero ’nnamoràda de portà’ le calse! Prò non
l’ho fatto véde’ a babbo ’sto ritratto,
scinò lu’ dicìa. “Le donne che mette
le calse è cuélle che mette sotta i pìa
al marìdo”: A una più rigojósa del
marìdo dicìa: “A cuéllo i’hà messo la
gonna e lìa s’è messa le calse!”
Pensàde vuà, nìa da comannà’ la
donna, ce tenìa ’st’òmmini a comannà’, a tené’ le móje ’mpo’ schiave. A
cuéi tempi anca i predi dicìa che le
donne dovìa sta’ sotta ai comandi
del marido, muntebè iela fèra, cualchidùna gèra a finì’ al malinconio:
’na vo’ ’l chiamaa coscì.
Non tutti prò era coscì, io non
me posso lamentà’. Adè’ che c’è ’sta
paridà, ’mbellipo’ non pìane mango
móje, le madre iéle dà cotte e crude,
gné fa mangà’ niè’. E chi sta mèjo de
lóra? Finché la barca va!
Como ve saréde accorti, quanno
A tutti piacerebbe essere belli, ma
tanto si dice “Un bello e un brutto
stanno bene dappertutto!” Solo che una
volta si guardava il bel personale, se (la
donna) aveva le gambe diritte, una bella
chioma di capelli, se era robusta, sennó
dicevano che non gliela faceva a tirare
avanti una famiglia. Poi, giusto giusto,
guardavano ancora se aveva un bell’altarino, se no come allattava i monelli?
Insomma si guardava un po’ di tutto,
ma, adesso, che vedi? Non si può vedere
più se hanno le gambe dritte, storte,
grosse, piccole: portano tutte i pantaloni come gli uomini! Una volta piaceva anche a me! Niente di meno una
volta, per quanto mi ero innamorata di
portare i pantaloni, mi sono messa il
vestito di mio fratello e ci ho fatto una
fotografia. Però non l’ho fatto vedere a
babbo questo ritratto, sennó lui diceva: “Le donne che mettono i pantaloni
sono quelle che mettono sotto i piedi il
marito!” A una più risoluta del marito
diceva: “A quello gli ha messo la gonna
e lei si è messa i pantaloni!” Pensate
voi, la donna non doveva comandare,
questi uomini ci tenevano a comandare, a tenere le mogli un po’ schiave. A
quei tempi anche i preti dicevano che le
donne dovevano sottostare ai comandi
del marito; molte gliela facevano, ma
qualcuna andava a finire al ‘malinconio’: una volta lo chiamavano così!
Non tutti, però, erano così, io non
mi posso lamentare. Adesso che c’è la
parità, molti non prendono neppure
moglie, le madri gliele danno cotte e
crude, non gli fanno mancare niente. E
261
comènso ’na cosa, vô a finì’ da pìa
della ripa. Allora ve volìa feni’ da
di’ che adè’ sci ’na bardàscia è fatta
be’ o male ’n se véde: da pìa ci’hà le
calse, da cima ci’hà maje, casacche,
camiciotti, sacchetti granni granni.
’Na ò se dicìa, sci i pagni era ’mpo’
làschi: “ ’Ndó hai pïàdo la misura,
’ntorno casa?”
E coscì ’n se vede sci ci’hà l’altarì’, sci è gobbe, ’n se sconsìdera sci
è maschio o fémmena: i capij tajàdi
a zero, le bóccole le porta anca i
maschi, la coda listésso, scarpù ’nté
i pìa, che pe’ voltà’ be’ ’nté ’na curva,
bisogna che la pïa granna como ’l
camio e rimorchio, le ma’ non ié se
vede, malapena la pónta dei dédi,
pare ch’enne stremensìdi dal freddo, porettì’!
chi sta meglio di loro? Finché la barca
va! Come vi sarete accorti, quando
comincio una cosa, vado a finire ai
piedi della ripa. Allora volevo finire di
dirvi che adesso, se una ragazza è fatta
bene o male, non si vede: in basso ha i
pantaloni, in alto ha maglie, casacche,
camiciotti, giacche grandi grandi. Una
volta si diceva, se i vestiti erano un
po’ lenti: “Dove hai preso la misura,
intorno casa?” E così non si vede se
hanno l’altarino, se sono gobbe, non si
distinguono se sono maschi o femmine:
I capelli tagliati a zero, gli orecchini
li portano anche i maschi, la coda
ugualmente, scarponi nei piedi che, per
voltare bene in una curva, bisogna che
la prendono grande come il camion con
il rimorchio; le mani non gli si vedono,
malapena la punta delle dita, pare che
siano striminziti dal freddo, poverini!
La màghina da cuce
La macchina da cucire
Io ho sposado propio quanno
c’era ’l passaggio del fronte e la
robba era tanto fadìga a trovalla,
allora ’ste sorelle, che cìa ’na bòna
doda, m’hanne datto cualchicò’
anche lora.
Pensade vuà! Per fa’ la maghina
da cuce ce volìa 200 lire del ’43, e
non l’ho comprada, perché era tutta
robba utartica. Babbo m’ha ditto:
“Spetta a compralla! Passarà ’sto
fronte, finirà ’sta guerra! Te do 200
lire, la compri quanno è passado
Io ho sposato proprio quando c’era
il passaggio del fronte e trovare la roba
era molto faticoso; allora le mie sorelle,
che avevano avuto una buona dote, mi
hanno dato qualcosa anche loro.
Pensate voi! Per comprare la macchina da cucire ci volevano duecento
lire del ’43, e non l’ho comprata, perché
era tutta roba autarchica. Babbo mi ha
detto: “Aspetta a comprarla! Passerà
questo fronte, finirà questa guerra! Ti
do duecento lire, la compri quando è
passato tutto quanto”. Dopo due anni le
262
nigò. E dobo due anni le 200 lire non
valìa più gnè: pe’ compralla ce volìa
mille lire! E coscì non l’ho poduda
comprà’ più. A pensàcce be’ è como
adè’: argìmo alla dredo, e como se
dice: “ ‘L topo alla drèdo non ce va!”
Ma io che me piace a faje la caccia
giù pe’ l’orto, me tocca a daje la
sappàda de drèdo, perché la prima
volta ’n’el sapìa: ié l’ho datta davanti.
Osteria, como ha ardatto a drèdo! E
non ié l’ho fatta a chiappallo. E noà
adesso famo uguale: cuéi due soldi
de la pensió ’n’arìa più invelle, argìmo alla drèdo.
duecento lire non valevano più niente:
per comprarla ci volevano mille lire! E
così non l’ho potuta comprare più.
A pensarci bene è come adesso: ritorniamo all’indietro, è come si dice: “La
talpa all’indietro non ci va!” A me, però,
piace darle la caccia giù per l’orto e mi
tocca darle una zappata di dietro. La
prima volta non lo sapevo: gliel’ho data
davanti. Osteria, come ha ridato indietro! E non sono riuscita a prenderla.
E noi, adesso, facciamo la stessa cosa:
quei due soldi della pensione non arrivano più in nessun luogo, ritorniamo
all’indietro.
La veste da sposa
L’abito da sposa
Anca pe’ fa’ le spese, cioè la dòda,
dovìa regalà’, oltre i pónti della tessera, anca cuàlca pagnotta de pa’. A
cuéi tempi se sposàa tutti con vestido, perché dicìa i genidóri nostri:
“Fade ’n vestidèllo, fjole, perché la
veste bianga se porta solo cuél giorno, po’ ’n se porta più. Allora fade ’n
vestidèllo blu, marrone, nero, como
ve piace de più”. Po’ sulla testa c’era
’l cappelletto. ’Ste sorelle mia ha
fatto luscì. E dobo i vestidi se l’hanno godùdi. Avìa ragió’ i genidóri,
ma a me perché me piacéa tanto la
veste bianga e io, da quando ero piccola, me parìa da esse’ la regina che
mette la veste. Io l’ìa messa quanno
me so’ comunigàda; quanno me so’
gresimàda no, perché cuélla vo’ gèra
Anche per fare le spese, cioè la dote,
si doveva regalare, oltre i punti della
tessera, anche qualche pagnotta di
pane. A quei tempi tutti si sposavano
con un vestito, perché dicevano i nostri
genitori: “ Fate un vestitello, figliole,
perché la veste bianca si porta solo quel
giorno, poi non si porta più. Allora fate
un vestitello blu, marrone, nero, come vi
piace di più”. Poi in testa c’era il cappellino. Le mie sorelle hanno fatto così.
E dopo i vestiti se li sono goduti.
Avevano ragione i genitori, ma a
me piaceva tanto la veste bianca e, da
quando ero piccola, mi pareva di essere
la regina che indossa il vestito. Io l’avevo messa quando mi sono comunicata;
quando mi sono cresimata no, perché
quella volta andava di moda una vesti263
de moda ’na vestina bianca sotta e lo
spolverì’ sopra. Invece quanno me so’
comunigada mìa fatto la veste lónga
che me piacìa tanto. Figùrde, l’ho
portada per tre quattr’anni: mamma
prima me léa scortàda, dobo che so’
cresciuda me l’ha slongada, sicché
per quattro anni d’istàde portào sempre cuélla, finànta che m’era ’mpo’
bòna sulle spalle. Gèra via con cuélla
vestinèlla misera misera, prò a me
me piacéa tanto, perché de lusso i
pàgni ’n ce l’avéo. Cuélla vo’, co’ tre
sorelle dannànse, me toccàa a sta’
sotta ’l crì.
Allora non ve l’ho finida da dì’,
quando me so’ sposada ho ûdo fortuna: semo gidi a Sinigàja, poghi giorni
prima, quann’è ’rvenudo mi’ ragazzo,
a troà’ la pèzza pe’ la veste: ’n se
troàa envèlle perché cuélla vô tutta
la robba chi ce l’avéa lìa piattàda
sotta i rifùggi.
Allora gimo a ’sto Sinigàja e lajù,
cerca ’nté ’n posto cerca ’nté ’n’antro, nisciuno ce l’avéa. Ma tanto possibile, ché io vojo sposà’ de bianco,
’n sa da troà’! E doppo gìmo ’nté ’no
spazzì’, cuéllo che ce fèmma sempre
spesa noà. Ha ditto: “Io ce l’ho, prò
accade che me dade ’n cambio, oltre
de’ soldi, anca ’mpo’ de pa’!” E allora
noàltri (venìa sempre a Montalbòdo
’sto spazzì’) i’émo ditto che al venardì dopo ié portàmma su ’na fila de
pa’, oltre i soldi.
Ce ne volìa otto medri per falla
longa, a cinque lire al medro emo
speso quaranta lire. Era como un
na bianca sotto e lo spolverino sopra.
Invece, quando mi sono comunicata,
(mamma) mi aveva fatto la veste lunga
che mi piaceva tanto. Figuratevi, l’ho
portata per tre quattr’anni: mamma
prima me l’aveva accorciata, dopo,
quando sono cresciuta, me l’ha allungata, sicché per quattro anni d’estate
portavo sempre quella, finché mi era
un po’ buona di spalle. Andavo via con
quella vestarella misera misera, però
a me piaceva tanto, perché non avevo
panni di lusso. Quella volta, con tre
sorelle davanti, mi toccava stare, come
vi ho detto, sotto il ‘crino’. Allora, non ve
l’ho finito di dire, quando mi sono sposata ho avuto fortuna: siamo andati a
Senigallia pochi giorni prima, quando
è ritornato il mio ragazzo, per trovare
la stoffa per il vestito: non si trovava da
nessuna parte, perché, in quel tempo,
tutta la roba, chi ce l’aveva, l’aveva
nascosta nei rifugi.
Allora andiamo a questa Senigallia
e laggiù, cerca in un posto cerca in un
altro, nessuno ce l’aveva. Ma tanto era
possibile che non si doveva trovare?
Io volevo sposare di bianco. Alla fine
andiamo dall’ambulante, da quello dove
noi facevamo sempre spesa. Ha detto:
“Io ce l’ho, però bisogna che mi date in
cambio, oltre dei soldi, anche un po’
di pane! E allora noi (veniva sempre
a Montalboddo questo ambulante) gli
abbiamo detto che il venerdì dopo gli
portavamo su una fila di pane, oltre i
soldi. Ci volevano otto metri (di stoffa)
per fare (un abito) lungo: a cinque lire
il metro, abbiamo speso quaranta lire.
264
milió’ adè. A cuéi tempi, del’43, ancora ’n c’era stada la svalùda dei soldi
e 40 lire era como un milió’ adè. E
dopo, sai, anca a tajàlla e nigò, ce
n’è volsùdi de soldi, ma ho fatto ’sta
vesta.
Cuscì con cuélla vesta lónga me
so’ levàda ’na soddisfazió’: almanco
’na volta ’nté la vida!
Era come un milione di adesso. A quei
tempi, del ’43, ancora non c’era stata
la svalutazione dei soldi. E dopo, sai,
anche a tagliare la stoffa e tutto il resto
ce ne sono voluti altri, ma ho fatto questo vestito.
Così, con quel vestito lungo, mi son
tolta una soddisfazione: almeno una
volta nella vita!
L’esposizió’ e la stima
L’esposizione e la ‘stima’
Adè v’arcónto como gèra de
moda a tempo mia quanno ’na donna
sposàa. A vent’anni era guasci tutte
maridàde, salvo cualchidùna che
la ’rvolìa ardà’ a cristarèllo como
ié lìa dàtta – se dicìa coscì! Cuélle,
envéce, capìa più de noà, argèra a
’mparadìso sigùro, a parte ’l peccàdo d’Eva, co’ ’sta mela!
Allora co’ du’ tre anni d’amore
se preparàa la dòda: fila, tesse, cuce
e rigàma. Dicìa una che volìa dàje
marido: “Mi’ fjòla racàmana, centégna, è la prima calsettàra de Morro!”
La dòda ben stiràda da la ricamadrìge, se stendìa sopra al letto, la cassétta, ’l comò, ’l cassóncì’; ‘nté ’mposto tutti linsòli, foderétte, cupèrte,
sottocupèrte, madrazzìna chi podìa,
scindó solo madrazzìna o solo sottocuperta. Non proprio sopra l’altro, sìa da métte’ a scala per vède’
tutti i rigàmi, giornì’, merlétti fatti
a ma’. Dobo ’na fila de camicie de
cottó’, sottoveste, mudànne, nigò
Adesso vi racconto come andava di
moda, al tempo mio, quando una donna
si sposava. A vent’anni erano quasi
tutte maritate, salvo qualcuna che la
voleva ridare a cristarello come gliela
aveva data – si diceva così. Quelle,
invece, capivano più di noi, andavano
in paradiso di sicuro, a parte il peccato
di Eva, con questa mela!
Allora con due tre anni di fidanzamento si preparava la dote: fila, tessi,
cuci e ricama. Diceva una che voleva
darle marito: “Mia figlia ricama, rifinisce a smerli, è la prima di Morro a
fare le calze con i ferri!” La dote, ben
stirata dalla ricamatrice, si stendeva
sopra il letto, la cassetta, il comò, il cassoncino. In un posto tutte le lenzuola,
federe, coperte per sopra, coperte per
sotto, materassina chi poteva, se no solo
materassina o solo coperta per sotto.
Non si dovevano disporre uno sopra
l’altro, ma a scala, per lasciar vedere
tutti i ricami, gli orli a giorno, i merletti fatti a mano.
265
de cottó’; po’ fazzolétti da testa, da
naso e pannolì’; po’ ’na mucchia
de calsètti fini e grossi fatti a ma’,
comprese anca le maje per sotta,
sempre fatte a ma’; po’ scarpe pe’ la
Messa e ’mparo alte pe’ ’l campo.
Quanno stésci pe’ sposà’, la
diménniga prima s’arnoàa ’n vestìdo,
’mpar de scarpe, calsétti e vélo e
se mettìa nigò lì, all’esposizió’. Po’
scialbétte pe’ ’l collo fatte coi ferri o
col crocè, po’ lo scialbó grèo: pesàa
sulle spalle! Cuéllo era nero, servìa anca pe’ ’nvuricchià’ i monelli
piccoli, ché sciuccamà’ de spugna
’n c’era pei contadì’. Dopo dodeci tovajòli e la tovàja granna, ’na
decìna de sciuccamà’ de spina tessùdi da mamma, con quattro licci;
po’ ’nté ’na canè’, piccolina como
’mportagioièlli che c’è adè’ in circolazió’, ce se mettìa aghi, dedàle,
spille balie, spille da la testa nera,
che cualchidù’ ce pontàa lo scialpó’
su la testa pe’ tenéllo fermo; po’ du’
rocchétti di filo, uno bianco e uno
nero, ’no gnométto de filo de rèfe e
’no gnométto dei carceràdi; l’avvànsi delle madassìne da rigàmo te le
fera portà’ via, po’ ’mpar de ciavàtte
da càmbora, cuélle de pezza che
adè’ ne porta più nisciù perché c’è
mèjo. Me pare che ho ditto nigò.
’L giorno de la stima, dobo
magnàdo, se carcàa tutta ’sta robba
’nté ’l biroccio, se coprìa nigò co’
’na madrazzìna o ’na coperta e se
partìa co’ le vacche tutte ’nfioccàde.
Le portàa i fradèlli o i cogìni , chi ’n
Dopo una fila di camicie di cotone,
sottovesti, mutande, tutto quanto di
cotone; poi fazzoletti da testa, da naso e
pannolini; poi un mucchio di calze fine
e grosse, fatte a mano (con i ferri), comprese anche le maglie per sotto, sempre
fatte a mano; poi scarpe per la Messa e
un paio alte per il campo.
Quando stavi per sposare, la domenica precedente si rinnovava un vestito,
un paio di scarpe, calze e velo e si metteva tutta quanta la dote lì, in esposizione.
Poi le sciarpe per il collo fatte con i ferri
o con l’uncinetto, poi lo scialle pesante:
pesava sulle spalle! Quello era nero, serviva anche per avvolgere i monelli piccoli perché, per i contadini, non c’erano
gli asciugamani di spugna. Dopo dodici
tovaglioli e la tovaglia grande, una
decina di asciugamani tessuti a spina
da mamma, con quattro licci; poi in un
canestro piccolino, come un portagioielli che c’è adesso in circolazione, ci si
mettevano aghi, ditale, spille balia, spille dalla testa nera, con le quali qualcuno
ci fissava ‘lo scialpó’ ” sulla testa per
tenerlo fermo; poi due rocchetti di filo,
uno bianco e uno nero, un gomitolo di
filo di refe e un gomitolino dei carcerati;
gli avanzi delle matassine da ricamo te
le facevano portar via, poi un paio di
ciabatte da camera, quelle di pezza che
adesso non porta più nessuno, perché c’è
di meglio. Mi pare di aver detto tutto.
Il giorno della ‘‘stima’’, dopo mangiato, si caricava tutta questa roba
sul biroccio, si copriva tutto con una
materassina o con una coperta e si
partiva con le vacche tutte infioccate. Le
266
cìa né fradèlli né sorelle e cugnàdi,
ce gèra ’l padre dello sposo.
Non ci’hò messo du’ pisciatóri,
’l cadì, ’l brocchétto, luma a petròjo
e, po’, sgapparà cualcos’àltro. Se
se­gnàa tutti i capi de ’sta dòda e po’
la carta la tenìa ’l padre della donna,
scinnó podìa negà’ che nìa dàtto la
dòda la faméja de lu’. Se fèra firmà’
pe’ èsse’ più scigùri.
Co’ ’sta dòda partìa ’na giovena
e ’na sposa, mettìa a posto tutta ’sta
robba e arfèra ’l letto con cuàlche
schérso como ’l sùcchero giù pe’ ’l
letto o ’l sacco co’ linsòlo sopra, ’n
campanèllo ligàdo sotta la réde del
letto, e altri schèrsi che nelsò. ’L
letto non podìa ’rmàne arfàtto più
de otto giorni dalla stima.
’L giorno de la stima se fèra ’l
prànzo a casa della donna e l’altro
de lo sposalìzzio ’l fèra l’ômo. Ma
caperài, quanno ho sposàdo io ’n
c’era tanta allegria, un fradèllo prigioniero, l’altro, che s’è sposàdo ’l
giorno c’ho stimàdo io, cìa ’n occhio
de vedro. È la guerra che m’ha
roinàdo i giorni e l’anni più belli.
portavano i fratelli o i cugini, chi non
aveva né fratelli, né sorelle e cognati, ci
andava il padre dello sposo.
(Nell’elenco) non vi ho messo due
orinali, il catino, il brocchetto, il lume
a petrolio e, poi, uscirà fuori qualcos’altro. Si scrivevano tutti i capi di questa
dote e poi la carta la teneva il padre
della sposa, se no la famiglia dello sposo
avrebbe potuto negare di aver ricevuto la
dote della sposa. Si faceva firmare, per
essere più sicuri.
Con questa dote partivano una giovane e una sposa: sistemavano tutta
questa roba e rifacevano il letto con
qualche scherzo come lo zucchero giù
per il letto o il ‘sacco’ con il lenzuolo
di sopra, un campanello legato sotto la
rete del letto, e altri scherzi che non so.
Il letto non poteva rimanere rifatto per
più di otto giorni dalla ‘stima’. Il giorno
della ‘‘stima’’ si faceva il pranzo a casa
della donna e quello dello sposalizio lo
faceva l’uomo. Ma, capirai, quando ho
sposato io, non c’era tanta allegria: un
fratello prigioniero, l’altro, che s’è sposato il giorno che ho ‘‘stimato’ io, aveva
un occhio di vetro. È la guerra che mi ha
rovinato i giorni e gli anni più belli.
Tutt’ambranco su la Balilla!
Tutti in branco sulla Balilla
Coscì, dobo la stima, è riàdo ’l
giorno de lo sposalizzio. Non ce
sémma mango finìdi a conosce’
né con lu’ né colla faméja che ce
semo sposàdi. Ma fumma, como ho
Così, dopo la ‘stima’, è arrivato il
giorno dello sposalizio. Non c’eravamo
neppure finiti di conoscere né con lui
né con la famiglia, quando ci siamo
sposati. Ma eravamo, come ho detto,
267
ditto, nel ’43, sul cólmo della guerra.
Era propio cuéi giorni che l’Italia
ìa messo giù l’arme, e sci vedìa
’n ômo in giro ’l portàa al campo
de concentramento. Era ’na madìna
bella, ’l sole bello: era il ventuno de
novembre: de cuéi tempi ’l sole non
pòlèsse stado tanto bello, ma era ’na
madina calda. Quanno è ’rivàda la
màghina lì casa, cuélla de Quinto
del Miccio, era cuélle maghine lónghe, ’na Balilla me pare che era; ce
ne semo montàdi su parecchi ’nté
cuélle strade ’mpo’ brutte, pîne de
malta... ma era bello sciucco cuélla
madìna.
Semo gìdi su a Montalbòdo. A la
Messa tardi émo sposàdo, alla Messa
delle undeci. Quanno sémo ’rivadi
su, la gente era propio lì davanti alla
chiesa, era l’orario guàsci de boccà’
drendo pe’ la Messa, la chiesa era
guasi pîna.
Noà calàmma giù da la maghina,
io con cuélla veste lónga.
Cuél giorno métteme ’mpo’ ’sta
vesta bella, lónga, ’l cappelletto, ’na
bella ’cconciatura sulla testa: cuélla volta, boh!, mango so come se
chiamàa: adè ié dice “l’acconciatura”.
Quanno calo giù da la maghina, la
gente sa, me guardàa ché oltre che
me conoscìa a Montalbòdo, c’era
anca cuéi giovanotti che tante vo’
m’era venudi a domandà’ e allora io
ce facéo ’mpo’ la paccóna.
Bócco drendo a la chiesa co’
’sta bella vèsta lónga, se mettémo
’n ginocchio sull’altare, la gente era
nel ’43, sul colmo della guerra. Erano
proprio quei mesi in cui l’Italia aveva
deposto le armi e (i Tedeschi), se vedevano un uomo in giro, lo portavano al
campo di concentramento.
Era una mattina bella, il sole bello:
era il 21 di novembre. In quella stagione
il sole non può essere stato tanto bello,
ma era una mattina calda. Quando è
arrivata la macchina a casa, quella di
Quinto del Miccio (era una di quelle
macchine lunghe, mi pare che fosse una
Balilla), ce ne siamo saliti su parecchi,
in quelle strade un po’ brutte, piene di
fango… ma era bello asciutto quella
mattina.
Siamo andati su a Montalboddo.
Abbiamo sposato alla Messa tardi, alla
Messa delle undici. Quando siamo arrivati, la gente era proprio lì davanti alla
chiesa, era quasi l’ora di entrare dentro
per la Messa; la chiesa era quasi piena.
Noi scendemmo giù dalla macchina,
io con quella veste lunga. Quel giorno
m’ero messa quest’abito bello, lungo,
il cappellino, una bella acconciatura
sulla testa: quella volta, boh, nemmeno
so come si chiamava, adesso si dice
‘acconciatura’.
Quando scendo dalla macchina, la
gente, sa, mi guardava, perché, oltre che
mi conoscevano a Montalboddo, c’erano
anche quei giovanotti che tante volte
erano venuti a domandarmi e, allora,
io ci facevo un po’ la vanitosa. Entro
dentro la chiesa con questa bella veste
lunga, ci mettiamo in ginocchio sull’altare, la chiesa era piena di gente, non
mi sono rivoltata, me lo diceva quella
268
Una Balilla a
Pianello di Ostra. Sul
cofano La maestra
sig.na Nerina
Gambioli con un
bimbo, mentre un
balilla giunge a
lunghi passi (coll.
Gioacchino Casci
Ceccacci).
pîna la chiesa: non me so’ ’rvoltàda,
me ’l dicéa cuélla lì vicina: “Guarda,
la chiesa è pîna de gente! Sta’ ’tènta
a no’ sbajà’!” Non ho sbajàdo.
Prima ce sémo confessadi, po’
sémo gidi su, m’ha portado a sposà’
mi’ fradello e la moje de mi’ fradello,
ch’era la sorella de mi’ marido.
Dopo, quanno sémo sgappàdi,
volémma gi’ a fa’ le fottografie, ma
capirai... ci’hà ditto ’l prede: “Tiràde
via a sposà’ e po’ gide a casa!”
A noàltre ci’hà sposado Don Noè
Giannini, l’arciprède. E dopo c’era
anca la costante de l’arciprede, e po’
c’era anca Pettenelli, ché le carte ié
lì vicino: “Guarda, la chiesa è piena di
gente! Sta’ attenta a non sbagliare!” Non
ho sbagliato.
Prima ci siamo confessati, poi siamo
andati su, mi ha portato a sposare mio
fratello e la moglie di mio fratello, che
era la sorella di mio marito.
Dopo, quando siamo usciti, volevamo andare a fare le fotografie, ma capirai… Ci aveva detto il prete: “Tirate via
a sposare e poi andate a casa!” Ci ha
sposato Don Noè Giannini, l’arciprete.
E dopo c’era anche la perpetua dell’arciprete, c’era anche Pettinelli, perché
le carte a mio marito gliel’hanno fatte
quel povero Pettinelli e Cioci che stava
269
l’ha fatte cuél pôro Pettenelli a mi’
marido e Cioci ch’era sul Comù’. Sa
que i’hà ditto: “Tirade via a sposà’
e po’ te, quanno sei stado a casa
venti giorni o un mese con tu’ moje,
dopo arvài al Corpo, t’arvài a presentà’ eh!” perché Pettenelli dicéa
ch’era ’mpo’... uno che tenéa ’mpo’
al governo. Allora noàltri, sgappadi
da la chiesa, non sémo manco gidi
a fa’ le fottografie... cuélla vo’ dicéa
“l’arsomèjo”! Via sùbbedo a casa,
scinò te portàa via ’l marìdo!
Semo montàdi tutti ’mbrango su
la Balilla, perfino ’nté i parafanghi,
era granni, ce se stèra a sède be’,
parémma ’na carovana. Podéa èsse’
stado ’n giorno d’oro, perché era
’n sole bello, envéce ’n fugge, ’n
fugge: fortuna che ’n ci’hà visto i
Tedeschi!”
(impiegato) sul Comune. Sa che cosa
gli ha detto: “Sbrigatevi a sposare e poi
tu, quando sei stato a casa venti giorni o un mese con tua moglie, ritorni
al Corpo, ti vai a presentare di nuovo
eh!” Sa, si diceva che Pettinelli era un
po’… uno che teneva un po’ per il governo. Allora noi, usciti dalla chiesa, non
siamo andati a fare le fotografie… quella volta si diceva ‘l’arsomèjo’! Via subito
a casa, se no ti portavano via il marito!
Siamo saliti tutti in branco sulla
Balilla, perfino sui parafanghi, erano
grandi, ci si stava bene a sedere: sembravamo una carovana. Avrebbe potuto
essere stato un giorno d’oro, perché
c’era un sole bello, invece un fuggi
fuggi: fortuna che non ci hanno visto
i Tedeschi!
Né benvenùda, né bentroàda!
Né benvenuta, né ben trovata
Allora semo gidi a casa. Lajù
ci’aspettàa le sorelle, cuélle mie
ch’era sposade, ci’aspettàa ’mpo’ de
parenti, cuélli de mi’ marido: ’na
trentina fumma.
Lajù avanti casa émo fatto le
fottografie: ancó’ ce l’ho! È ’no ricordo bello, per quanto che era cuélle
istantanee, ché mi’ marido quann’era
sotta l’arme avìa comprado ’na
maghinetta: allora co’ cuélla ce facéa
le fottografie. Quann’èro giavane, ce
l’ha fatte ’mpo’ a tutti, a me, a ’sti
fradelli mia, cuélla ’olta era vivi, a
babbo e mamma, cuélla vo’ ce facéa
Allora siamo andati a casa. Laggiù
ci aspettavano le sorelle, quelle mie che
erano sposate, ci aspettavano alcuni
parenti, quelli di mio marito: eravamo
una trentina.
Laggiù, davanti casa, abbiamo fatto
le fotografie: ancora ce le ho! È un ricordo bello, per quanto quelle fossero delle
istantanee, perché mio marito, quando
era sotto le armi, aveva comprato una
macchinetta: allora con quella ci faceva
le fotografie. Quando ancora non ero
sposata, ce l’aveva fatte un po’ a tutti: ai
miei fratelli, quella volta erano vivi, a
babbo, a mamma: a quei tempi ci face270
’mpo’ ’l pacconcello... E chi ce l’avìa
’na maghina fottografica? Cuélla vo’
’n ce lìa nisciuno!
Allora avémo fatto ’mpo’ de fottografie avanti casa, a me me sapìa
tanto bello esse’ adornàda luscì da
tutti i parenti, in più perché era ’na
bella giornada de sole.
Dicéa mamma mia: “Quanno ’rivi
a pìa de le scale, sci te spetta la socera, daje ’n bacio, e dìje bentroàda”.
Noà, envece, ce semo datti ’n bacio e
po’ lìa, po’ perché era de cuélle ’mpo’
all’antìga, non m’ha ditto né “benvenuda”, né “bentroàda”!
Cuélla vo’ le madre diedro non ce
gèra, perché portàa disgrazia; manco
le socere non ce gèra quanno se sposàa: spettàa lì casa, c’era la moda.
C’era solo cuél pôro babbo, ’sti fradelli c’era solo uno, perché de uno
’n se sapéa gniè’; c’era solo cuéllo
che s’è sposado co’ la sorella de mi’
marido: ha sposado al giovedì, noà la
domenniga. Cuéllo, pôro monello!,
era senza ’n occhio: cuél giorno s’era
messo ’na benda ’nté ’l l’occhio: ìa
fatto ’na benda nera io, e dopo ié lo
passàa l’occhio de vedro.
Émo fatto ’ste fottografie, ce
semo messi a magnà’. Ìa fatto ’n
pranzetto: le tajadèlle, cuélla ôlta ne
’l so se l’avrà fatte tutt’ovi, e po’ c’era
l’arrosto e l’ansalàda e ’mpo’ de...
ne ’l so sci c’era ’l ciambelló’. Poga
robba, comunque è stado ’n pranzetto ’mpo’... Émo tirado i confetti; già
l’émma tiràdi anca lassù la piazza
quanno sémo sgappàdi. Cuélla vo’ se
va un po’ il vanitosetto… E chi ce l’aveva una macchina fotografica? Quella
volta non ce l’aveva nessuno!
Allora abbiamo fatto alcune fotografie avanti casa, mi sembrava tanto bello
essere circondata così da tutti i parenti,
in più era una bella giornata di sole.
Diceva la mia mamma: “Quando
arrivi ai piedi delle scale, se ti aspetta
la suocera, dalle un bacio e dille ‘bentrovata’! ” Noi, invece, ci siamo date
un bacio e poi lei, anche perché era di
quelle un po’ all’antica, non mi ha detto
né ‘benvenuta!’, né ‘ben trovata’!
A quei tempi le madri non ci andavano dietro (la sposa), perché portava
disgrazia; nemmeno le suocere ci andavano, quando si sposava (un figlio):
c’era l’usanza che aspettassero lì casa.
(Con me) c’era solo quel povero babbo,
dei fratelli ce n’era uno solo, perché
dell’altro non si sapeva niente. C’era
solo quello che si è sposato con la sorella
di mio marito: lui ha sposato il giovedì,
noi la domenica. Quel povero ragazzo
era senza un occhio: quel giorno si era
messo una benda nera, che gliel’avevo
fatta io.
Abbiamo fatto queste fotografie e poi
ci siamo messi a mangiare. Ci ha fatto
un pranzetto: le tagliatelle, quella volta
non lo so se l’avrà fatte con sole uova;
poi c’era l’arrosto e l’insalata e un po’…
non lo so se c’era il ‘ciambellone’. Poca
roba, comunque è stato un pranzetto un
po’… Abbiamo tirato i confetti; l’avevamo lanciati anche in piazza, quando
siamo usciti (dalla chiesa). Quella volta
si tiravano i confetti, adesso invece si
271
tiràa i confetti; adè, envéce, se tira
la pasta, la minestra, ’l riso, ’mpo’ de
nigò; envece cuélla vo’ se tiràa solo
i confetti: tutti ’mbranco de monelli
che te venìa dintorno perché volìa
i confetti. Finido a magnà’, perché
era de novembre e i giorni è curti,
cominciàa a èsse’ scuro... Allora,
sai, mi’ socera cìa da fa’ tutte le faccende, mi’ socero cìa da güernà’ le
bestie, mi’ marido toccàa a spojàsse
anca lu’ che toccàa gi’ aiudà’ giù la
stalla, perché mi’ socero cìa ’mbranco de vacche.
tira la pasta, la minestra, il riso, un po’
di tutto; invece quella volta si tiravano
solo i confetti: ti veniva dintorno tutto
un branco di monelli, perché volevano
i confetti.
Finito di mangiare, poiché era
di novembre e le giornate sono corte,
cominciava ad essere buio… Allora,
sai, mia suocera aveva da fare tutte le
faccende, mio suocero aveva da governare le bestie, mio marito toccava spogliarsi anche lui per andarlo ad aiutare
giù la stalla, perché mio suocero aveva
tante vacche.
Sgombrado ’l taolì’ e smorciàda
la luma
Sgomberata la tavola e spento il
lume
Io non ce so’ gida fòra aiudà’.
Cuélla sera ho messo a posto ’mpo’
la robba, emo arcòlto su i piatti, ho
lavàdo i piatti, dopo ho sgombrado
’l taolì’. Cuélla volta a magnà’ ’nté la
cucina ’n c’era posto, émo magnàdo
’nté ’na càmbora, ce dormìa i monelli,
mi’ marido col fradello; émo messo a
posto ’l letto, émo fatto tutte ’mpo’:
riassettato su la càmbora, leàdo le
tàole, i cavalletti che c’era pe’ fa’ ’l
taolì’; émo portàdo fòra cuélla robba
lì. ’Ntanto comensàa a èsse’ vèro le
otto e anca più.
E dobo cuélla vo’ nun c’era né
luce, ’n c’era gnè: là la càmbora
nostra cìa messo ’n beccùccio, ’sto
beccuccio gèra col gas... col carburo... che manco m’arcordo: è passàdi
Io non ci sono andata fuori ad
aiutare. Quella sera ho messo a posto
un po’ la roba; abbiamo raccolto i
piatti, ho lavato i piatti, dopo ho
sgomberato la tavola. Quel giorno non
c’era posto per mangiare in cucina,
abbiamo mangiato nella camera dove
dormivano i monelli, mio marito col
fratello; abbiamo messo a posto il letto;
tutte ci siamo date da fare: abbiamo
riassettato la camera, levato le tavole e
i cavalletti che c’erano per fare il tavolo, abbiamo portato fuori quella roba
lì. Intanto cominciava ad essere verso
le otto e anche più.
Quella volta non c’era la luce, non
c’era niente: là in camera nostra (la
suocera) ci aveva messo un beccuccio,
questo beccuccio andava col gas… con
272
tanti tanti anni. C’era ’n beccuccio
lì la cucina e uno pe’ càmbora, ’nté
cuélle càmbore principale: ’nté cuélla dei soceri, ’nté cuélla nostra; in
cuélla dei monelli ’n c’era; ce n’era
uno lì, ’nté ’l corridore che lucciàa
a tutti.
Dobo a la sera, prima da gi’ a letto
toccàa a spiccià’... a smorcià’ cuéllo
lì, ma io... perché cuélla vo’ gèra
la moda a tirà’ la luma a petròjo,
cuélla pôra mamma dicéa “luma a
petròjo”, ci’avìa messo ’l petròjo...
Allora ho picciàdo la luma. Dobo
c’era la moda che ’sto lume ’l gèra
a smorcià’ la socera. Quanto t’eri
spojado, gìi a letto, podéi chiamà’ la
socera: “Mamma, pe’ piacé’ venìde a
smorcià’ la luma!” E allora c’émma
cuélla moda lì. Adè, envece, cuélla
moda lì ’n c’è: la sòcera ié porta ’l
caffè a letto a la madina.
il carburo… che nemmeno mi ricordo:
sono passati tanti anni! C’era un beccuccio nella cucina e uno per camera,
nelle camere principali: in quella dei
suoceri, in quella nostra; in quella dei
ragazzi non c’era; ce n’era uno lì, nel
corridoio che faceva luce a tutti.
La sera, prima di andare a letto
toccava spegnere quello lì, ma io…
Quella volta andava di moda portare
in dote il lume a petrolio, quella povera
mamma diceva “lume a petrolio”, ci
aveva messo il petrolio…
Allora ho acceso il lume. Dopo c’era
l’usanza che questo lume lo andava a
spegnere la suocera. Quando t’eri spogliato, andavi a letto, potevi chiamare
la suocera: “Mamma, per piacere venite a spegnere il lume!” Allora avevamo
quella moda lì. Adesso, invece, non c’è
più: la mattina la suocera porta il caffè
a letto.
Caffè o… pisciadóre?
Caffè o… orinale?
Io ’l caffè a letto scì... a la madìna
dovéo portàllo via io ’l caffè, perché..
a la notte sci te sgappàa...da... (po’ sto
sitta ma...) toccàa a falla ’nté l’orinàle. Dobo lo portài fòri a la madina:
cuélla era la tazza del caffè! Miga c’è
da rìde’: cuélla vo’ i vasi... i chiamàa “
’l pisciadóre”, ce n’era uno pe’ parte,
’nté ’l comodì’: uno dalla parte mia e
uno dalla parte sua.
Cuél pôro babbo sa que dicìa:
“Camìni tanto pe’ gi’ insieme, c’è
Io il caffè a letto sì… alla mattina
dovevo portarlo via il caffè, perché alla
notte, se ti scappava da… (poi sto zitta,
ma…), toccava a farla nell’orinale. Dopo
lo portavi fuori alla mattina: quella era
la tazza del caffè! Mica c’è da ridere:
quella volta i vasi… li chiamavano il
“pisciadóre”; ce n’era uno per parte, nel
comodino: uno dalla parte mia e uno
dalla parte sua.
Quel povero babbo sa che cosa diceva: “Cammini tanto per andare insie273
bisogno de fànne due?” Lu’, quanno
gèmma a fa’ le spese pe’ pïà’ marido,
dicìa luscì: “Basta uno de pisciadóre:
que ce ne fai de due?”
Embè noà ne ’dopràmma uno,
uno ’l tenémma ’mpo’ più addiédro
pe’ quanno... - dicéa sempre cuélla
pôra mamma... - pe’ ’na maladìa,
quanno c’è ’l dottore, quanno una fa
’n fjòlo. C’era ’l cadì’, c’era ‘l brocchetto, c’era i du’ pisciadóri... parlàmo chiaro de como che era.
Io cìa la pettenessa, ’n c’era cuélla vo’ ’l lavandì’, ’l lavandì’ de fèro
como ce lìa mamma mia c’adesso
arvà de moda. Io ’l lavandì’ e ’l brocchetto ’l tenìa drendo la pettenessa,
l’orinali li tenìa drendo i comodì’,
uno per parte; prò ’l brocchetto della
cosa l’ho ’dopràdo quanno m’è nada
la monella, scinò la faccia toccàa a
lavàlla là la cucina, ché la madìna ’n
scìsci ’l tempo de gi’ a pïà’ l’acqua
prima là la cucina e po’ gitte a lavà’
la faccia là la càmbora.
E po’ là la cambora squilzavi
nigò, perché ’l dovéi métte’ per tèra ’l
lavandì’. Como facévi: ’l cadì’ ’l poggiavi sopra ’na sedia? Allora te lavàvi
la faccia ’nté la cucina. Se sciuccàmma tutti ’nté ’n’asciuccamà’, fumma
in dieci. Io ce nìo messi due, ma
cuéllo m’ha ditto: “Non lo sporcàde,
lassàdelo sta’ per quanno c’è cualcù’”. Allora cuéllo ’l tenémma ’mpo’
più arrèdo.
Cuscì è passada.
me, c’è bisogno di farne due?” Lui,
quando andavamo a fare le spese per
prendere marito, diceva così: “Basta un
orinale: che ce ne fai di due?”
Ebbene, noi ne adoperavamo uno,
l’altro lo tenevamo un po’ più indietro
per quando… - diceva quella povera
mamma… - per una malattia, quando
c’è il dottore, quando una fa un figlio.
C’era il catino, c’era il brocchetto, c’erano due orinali… parliamo chiaro di
come era.
Io avevo la pettiniera, non c’era
quella volta il lavandino, il lavandino di ferro come ce l’aveva mamma
mia, che adesso è tornato di moda. Io
il lavandino e il brocchetto lo tenevo
dentro la pettiniera, gli orinali dentro i comodini, uno per parte; però il
brocchetto l’ho adoperato quando mi è
nata la monella, se no la faccia toccava
lavarla là in cucina, perché la mattina
non avevi il tempo d’andare a prendere
l’acqua prima là in cucina e poi andarti
a lavare la faccia là nella camera. E poi
là nella camera schizzavi tutto quanto,
perché lo dovevi mettere per terra il
lavandino. Come facevi: appoggiavi il
catino sopra una sedia? Allora ti lavavi
la faccia nella cucina. Ci asciugavamo
tutti in un (solo) asciugamano, eravamo in dieci. Io ce ne avevo messi due,
ma quello (mio suocero) mi ha detto:
“Non lo sporcate, lasciatelo per quando
c’è qualcuno!” Allora quello lo tenevamo
un po’ più indietro.
Così è passata.
274
La vèsta róscia
La veste rossa
Pe’ ’l giorno dobo sposàda io ìa
preparàdo ’na veste róscia: cuélla vo’
ce se tenìa! La madre te fèra ’l vestido bello pe’ la domenniga dobo, la
veste bella per le battidure, la veste
róscia pe’ i giorni dobo. Mamma
mia ce tenìa muntubè’: anca sci non
fumma belle, ma dovìsci fa’ figùra.
Ma ce tenìa ’mpo’ tutti. Quanno fùsci
mezzo a ’n campo te distinguìa da
cuéll’altri, co’ ’sta veste róscia. A me,
so’ scigùra, me distinguìa be’.
Pensàde vuà, la madina dobo sposàda mi’ sòcero ha ditto: “Adè gimo
a somentà’ stamadìna. Te, Chià’, (no
‘Vu’: me dava del vu’!) pïàde la sappa
e gide a sappà’, a sfinà’ la tèra
davanti a la somenatrice”. Ma io, que
dovéo fa’, ’na persóna sola davanti
a la somenatrice che è granna... Io
dovéo sfinà’ cuéi suppi de tèra che
c’era passàdo prima co’ lo zigo zago,
co’ lo stirpadóre: io dovéo passà’
avanti.
Cercàa a daje sveltra, pe’ no’
passà’ da cojóna, toccàa a daje sveltra ma ’n ce rescìa, no... Capirai,
me so’ presa...’na....! Pensàde vuà...
la notte c’ho sposàdo, envece da
gi’ a la gìda, ’l giorno dobo dovéo
gi’ a sappà’, ma po’ a sappà’ de che
razza!
Ìa messa la vesta nòa, róscia;
dicìa che la sposa ci’hà la bella
vesta róscia là dal Panì’, se véde la
sposa vestida de róscio. Se vedìa be’
scì, perché ’nté cuél campo granno
Per il giorno dopo sposata io avevo
preparato una veste rossa: quella volta
ci si teneva! La madre ti faceva il vestito
bello per la domenica dopo, la veste bella
per la trebbiatura, la veste rossa per i
giorni dopo (sposata).La mia mamma
ci teneva molto, anche se non eravamo
belle, dovevi ben figurare. Ma ci tenevano un po’ tutti. Quando ti trovavi in
mezzo a un campo, ti distinguevano
dagli altri, con questa veste rossa. Sono
sicura che mi distinguevano bene.
Pensate voi, la mattina dopo sposata
mio suocero ha detto: “Adesso andiamo
a seminare, stamattina. Tu, Chiara,
(no “Vu’”: mi dava del ‘voi’), prendete la
zappa e andate a zappare, ad affinare la
terra davanti alla seminatrice”. Ma io,
come potevo farcela, una persona sola
davanti alla seminatrice che è grande…
Io dovevo affinare quelle zolle di terra
dove prima c’era stato passato ‘zigo
zago’, con l’erpice: io dovevo passare
avanti. Cercavo di zappare alla svelta,
per non passare da cogliona, toccava a
dargli svelta, ma non ci riuscivo, no…
Capirai, mi son presa… una…! Pensate
voi… la notte che ho sposato, invece di
andare alla gita, il giorno dopo dovevo
andare a zappare, ma poi a zappare di
che razza!
Avevo messo la veste nuova, rossa;
dicevano che la sposa, là dal Panì’,
aveva una bella veste rossa, si vedeva
la sposa vestita di rosso… Si vedeva
bene sì, perché in quel campo grande
come ce l’avevamo noi, c’ero solo io
275
como ce l’émma noà, c’ero solo io
sola là ’l mezzo. C’era le vacche co’
la somenatrice: cuélle era o da cima
o da pìa... se vedìa be’ là ’l mezzo da
per me sola...
Era ’nté’ ’l mezzo a ’na marémma
da per me, a sappà’. Mi’ marido, ’l
padre e ’l fradello chi strippàa, chi
somentàa, chi fèra i solchi. Io da
per me, como la pegorèlla smarìda,
a sappà’. ’Mpo’ che c’era ’na bella
pegora addosso!
là in mezzo. C’erano le vacche con la
seminatrice: quelle erano in cima o in
fondo (al campo)… Si vedeva bene là,
in mezzo, che ero sola… Ero in mezzo a
una maremma da sola, a zappare. Mio
marito, il padre e il fratello chi passava l’erpice, chi seminava, chi faceva i
solchi. Io tutta sola come la pecorella
smarrita, a zappare. Un po’ che avevo
un bel magone addosso!
Padàde co’ la buccia: gimo be’!
Patate con la buccia: andiamo bene!
Ce porta da magnà’ a colazió’
mamma, mi’ sòcera, se mettémma a
sède’ per tèra, lì ’n c’era gnè, ’n c’era
’na balla, sci fusse stada!, ma manco
cuélla ’n c’era. Sopra ’no suppo se
mettéa a sède’.
Ci’hà portàdo la colazió’: c’era le
padade in podàcchio. Sai como l’avìa
fatte, cuélle padade piccoline? L’avìa
fatte a tocchetti senza levàje la buccia! Io, quanno vô pe’ magnà’... como
sapore era bòne, ma quanno vô pe’
magnà’... sento ’sta buccia. Pensào
drendo de me: “È que le padade nòe
che gné se fa’ a sbuccialle... cuélle nòe è fadiga a sbucciàlle. Tante
le ô, anca sci le sbucci, ci’armane
’mpo’ de cuélla pellarìna, ma queste la pelle era cuélla dura. Lajù le
sbucciàa co’ lo strofinaccio, adè ié
dîmo “lo strofinaccio”, cuélla vo’ se
dicìa “lo straccio”. Le sbucciàa luscì.
Dicéa: “Que stai lì a pelà’! Le magni
Mamma, mia suocera, ci porta da
mangiare a colazione, ci mettemmo a
sedere per terra, lì non c’era niente. Non
c‘era una balla, ci fosse stata!, ma anche
quella non c’era. Sopra una zolla ci si
metteva a sedere.
Ci ha portato la colazione: c’erano le
patate in ‘potacchio’. Sai come le aveva
fatte, quelle patate piccoline? L’aveva
fatte a tocchetti senza levargli la buccia!
Io, quando vado per mangiare… come
sapore erano buone, ma quando vado
per mangiare… sento questa buccia.
Pensavo dentro di me: “Che sono patate
novelle che non si riesce a sbucciarle?” Quelle novelle è difficile sbucciarle.
Talvolta, anche se le sbucci, ci rimane
quella pellicola, ma la buccia di queste
era dura. Laggiù le sbucciava con lo
strofinaccio, adesso lo chiamiamo ‘lo
strofinaccio’, quella volta si chiamava ‘lo straccio’. Diceva (mia suocera):
Che stai lì a pelare! Le mangi così!”
276
luscì”. “Cojó’!, - pensào io - gimo
be’!” Mamma intanto cìa ’visàdo: “
Le mòde sìa da lassà’ da pìa delle
scale!”
Al giorno émo magnàdo l’arvànzi
che c’era dal giorno prima. S’era
arvanzàdo ’mpo’ de maccarù’, qualche pezzo de carne, ’mpo’ cuélle
peggio: ’l collo, la testa, ’na gamba.
’Mbè’, tanto al giorno è gido be’. I
maccarù’ era cuélli coll’ôvi, n’era
tutt’ovi, ma tanto se magnàa be’.
“Cojó’ – pensavo io – andiamo bene!”
Mamma intanto ci aveva avvisato: “Le
mode devono essere lasciate a piedi
delle scale!” A mezzogiorno abbiamo
mangiato gli avanzi del giorno prima.
Erano avanzati un po’ di maccheroni,
qualche pezzo di carne, un po’ quelli
peggiori: il collo, la testa, una gamba.
Ebbene, tanto al giorno è andato bene.
I maccheroni erano quelli con le uova,
anche se non con le sole uova, ma tanto
si mangiavano.
’N se magnàa da quanto piccàa
Non si mangiavano da quanto
piccavano
Alla sera a cena co’ c’era de cuéi
tempi? Dicéa cuél pôro mi’ sòcero: “Va’ a coje’ du’ scorpìgni jù ’l
campo!” Cuéi scorpìgni che piccàa
juppe la gola... Noàltri a casa nostra
se magnàa scì, se mettìa giù... Io ié
dicìa ‘i crespigni’, lu’ ié dicìa “scorpìgni”, perché giù da noà, ’ndó so’
boccàda io, c’era uno che parlàa de
Ripe, uno che parlàa de la Tomba,
io che parlào de Mon­talbòdo, c’èra
n’incrocio. Pensàde vuà quann’è
nadi i monelli: pïàa ’mpo’ dal padre,
’mpo’ da me, ’mpo’ dai nònnesi.
E allora dicéa mi’ sòcero a
cuéll’altre monèlle, cuéll’altre fjòle:
“Va’ a coje’ du’ scorpìgni!”. Gèra a
coje’ i scorpìgni, ma cuélle non s’antendìa: cojéa cuéi grossi ch’era bòni
pe’ còce’, no’ pe’ condì’. Da noà li
cojémma anca noà, prò pïàmma
La sera, a cena, che cosa c’era a quei
tempi? Diceva quel povero mio suocero: “Va’ a cogliere due crespigni giù al
campo!” Quei crespigni che piccavano
giù per la gola… Noi, a casa nostra, si
mangiavano sì, si piantavano pure… Io
li chiamavo ‘crespigni’, lui li chiamava
‘scorpìgni’, perché giù da noi, (nella
famiglia) dove sono entrata io, c’era
uno che parlava (il dialetto) di Ripe,
uno quello di Castelcolonna, io quello di
Montalboddo: c’era un incrocio. Pensate
voi quando sono nati i monelli: prendevano un po’ dal padre, un po’ da me, un
po’ dai nonni.
E allora diceva mio suocero a quelle
altre ragazze, a quelle altre figlie: “Va’
a cogliere due ‘scorpìgni’!” Andavano
a cogliere i crespigni, ma quelle non
se ne intendevano: coglievano quelli
grossi che erano buoni per cuocere,
277
cuélli piccolini piccolini che avìa
buttàdo fòra le fojòline cuélla vo’. E
po’ ce mettémma ’mpo’ de tughèlla,
de ginestrèlla, ’mpo’ de pimpinella.
e po’ dobo ce mettémma ’na branciòlétta d’ajo, cuéllo arcacciàdo: era
bòna cuéll’ansaladèlla mista, prò
no’ cuéi crespìgni soli che te piccàa
giuppe la gola, ’n se magnàa da
quanto piccàa.
’L pa’, ’mbè’ la sera ’l pa’ se
podìa magnà’... ’mbè’... Sa, que dicìa
mi’ sòcero: “Albertino (che sarìa
stado mi’ marido), è uno de spesa...
perché cuéllo magna ’mbelpo’. ’L
pa’ ne magna tanto e anca ’l companatigo ’l vorrìa tanto!” Ma ’l companatico ’n c’era...
C’era ’sto piatto de scorpìgni
solo e ’n c’era gnent’àltro. Ancó’
’l porco non s’era ’mazzàdo, scinò
sci s’era ’mazzàdo ’l porco, capàce
fettàa anca ’na fettarèlla de lónza
che sci la mettéi controluce vidìi ’l
paese da cuéll’altra parte. Magari…,
ma giù da noà ’l paese non se
vidìa perché... guardài dentórno... io
dicìa ch’era la buga de la Marcóna...
“Era boccàda ’nté la buga de la
Marcóna!” - dicémma noà. Guardài
dentórno vedéi solo ’l cielo. C’era
cuéi contadì’ da cima cuélle cocuzzole, noà eravàmo giù cuélla buga...
Per caridà, sci ci’arpenso adè’, me
pare da sognàllo, me vène la carnepolìna... e pensà’ ch’è stado vero.
non per condire. Li coglievamo anche
noi, a casa mia, però prendevamo quelli piccolini piccolini che avevano da
poco messo fuori le foglioline. E poi ci
mettevamo un po’ di ‘trughella’, di ginestrella, un po’ di pimpinella, e poi dopo
ci mettevamo una fogliolina d’aglio,
quello che aveva germogliato di nuovo :
era buona quell’insalatina mista, però
non quei crespigni soli che ti piccavano
giù per la gola: non si mangiavano da
quanto piccavano! Il pane, be’, la sera lo
si poteva mangiare… così e così. Sa che
cosa diceva mio suocero: “Albertino che sarebbe mio marito – è uno di spesa
(che fa spendere molto)… perché quello mangia molto. Mangia tanto pane
e anche di companatico ne vorrebbe
molto…!” Ma il companatico non c’era.
C’era solo questo piatto di crespigni e
non c’era altro. Ancora il porco non era
stato ammazzato, se no, se fosse stato
ammazzato il porco, forse (ci sarebbe
stata) anche una fettina di capocollo
che, se la mettevi controluce, da quell’altra parte vedevi il paese. Magari…,
ma giù da noi il paese non si vedeva
perché… guardavi dintorno… io dicevo
che era la “buca della Marcona”… “Sono
entrata nella ‘buca della Marcona’!”
– dicevamo noi. Guardavi dintorno,
vedevi solo il cielo. C’erano quei contadini in cima a quei cocuzzoli, noi
eravamo in quella buca… Per carità, se
ci ripenso adesso, mi pare di sognarla,
mi viene la pelle come quella dei polli…
E pensare che è stato vero!
278
’N marìdo pe’ opera de lo spirito
santo
Un marito per opera dello spirito
santo
Ci’avìa i sòceri ’mpo’ ruzzi sa! Mi’
sòcera era ’mpo’ ruzzétta eh! Sapéde
cuélla ci’avéa ’sti otto fjòli, no. S’è
sposàda... ma ne ’l sapìa quanno
s’era sposàda, n’è che sapìa la dada
de nascida nigò, lì tutti cuèi fjòli
’n s’arcòrda nisciù. Me sa che s’è
sposàda vèro del dodici, perché nel
tredici è nada ’na fémmena, nel quattordici n’è nado ’n’antro. Dobo ’sto
maschio, porànnima, chissà sci era
’mpo’ deperìdo, iè morto dobo sette
otto dieci mesi.
Dobo ’l marìdo iè gìdo sotto l’arme, a la guerra del quìnneci e, dobo
’mpo’ de mesi ch’è gìdo in guerra, è
morto al fronte. Nel sedici iè morta
la sòcera, che sarìa la nonna de mi’
marido, po’ nel diciassette iè morto
’l sòcero. Nel diciotto, benànche ’n
ci’avéa ’l marìdo iè nado Albertino,
mi’ marido. “Ma’, como l’avéde fatto,
per opera de lo Spirito Santo?” Tante
le ô, quanno fadigàmma con me mi’
sòcero me l’arcóntàa, m’arcontàa la
vida de lu’ no. Ha ditto che ’nté ’sti
quattro anni n’era morti quattro, c’è
stada ’sta guèra, lu’ era a casa perché
ancó’ era giovane prò ’n ce ’l pïàa
sotta l’arme perché non stèra be’
manco de salude, era ’mpo’ piccolo,
’na mezza cartùccia, ma pe’ la regina era bòno. ’Na ò se dicìa “Chi n’è
bòni pe ’l re, mango pe’ la regina!”.
Envéce lu’ è stado bòno pe’ la regina!
Me sa che n’èra manco ’rivàdo d’edà!
Avevo i suoceri un po’ rozzi, sa! Mia
suocera era un po’ rozzetta, eh! Sapete
quella aveva questi otto figli, no! Si è
sposata… ma non lo sapeva quando si
era sposata, non è che sapesse la data
di nascita tutto quanto, lì tutti quei
figli non si ricorda nessuno. Mi sa che
si è sposata verso il ’12, perché nel ’13
è nata una femmina, nel ’14 è nato un
altro figlio. Dopo il maschio, povera
anima, chissà se era un po’ deperito, le
è morto dopo sette otto dieci mesi.
Dopo il marito le è andato sotto le
armi, alla guerra del ’15 e, pochi mesi
dopo che era andato in guerra, è morto
al fronte. Nel ’16 le è morta la suocera,
che sarebbe la nonna di mio marito,
poi nel ’17 le è morto il suocero.
Nel ’18, benché non avesse il marito
le è nato Albertino, mio marito. “Mam­
ma, come l’avete fatto… per opera dello
spirito santo?” Tante volte, quando
faticavamo insieme, mio suocero me
lo raccontava, mi raccontava la vita
sua, no. Ha detto che in questi quattro
anni ne erano morti quattro, c’è stata
la guerra; lui era a casa perché ancora
era giovane, però non ce lo prendevano
sotto le armi perché era un po’ piccolo, non stava bene neppure di salute.
Mi sa che non era arrivato nemmeno
d’età!
Allora lui, sa che aveva fatto? Era
fidanzato con un’altra, no, le diceva
la C…., ma questa vedova, che sarebbe
stata la cognata, era con lui e c’era lì
279
Allora lu’ sa que avéa fatto? Facéa
l’amóre co’ ’n’antra no, ié dicéa la
C...., ma ’sta vedova che sarìa stada
la cognàda, c’era con lu’ e c’era ’na
giovana armàsta lì casa. Allora n’era
armàsti solo tre. Con mi’ sòcera, che
’l marido i’èra morto, sa que facéa?
Ènne gidi insieme. ’N pezzo lìa ha
ditto c’ha insistido, ma dobo lu’ era
’n pignolétto che dev’èsse’ che ce
provàa ’na mucchia de volte, allora
è venudo fòri Albertì’, mi marido.
Era armàsta gravida. Dicìa: “ ’Mpo’
la Panìna è armàsta gravida! Chissà
chi sarà stado? Il marìdo iè morto in
guerra!” Eh, ’l sapìa lu’ chi era stado:
era stàdo ’l cognàdo! Ha ditto ’n giorno da quanto era fastidioso, perché
era piccoletto, ma era un pignolinèllo, ’n giorno i’hà datto ’na spénta e
l’ha buttàdo drendo la trocca dell’acqua delle bestie e l’avìa fatto mollà’
tutto. E dopo zia, sarìa stada la sorella de mi’ socero, cuélla che era la giódiga armàsta, ha ditto che lìa ne vidìa
’mbelpo’ de cose brutte, li vedìa sul
letto, l’era chiappàdi, lìa ’l sapìa che
lu’ ce gèra insieme, a dormì’ no ma...,
oste!, sci ce gera insieme! Coscì alla
fì’ è nado ’sto Albertino.
casa una rimasta zitella. Allora erano
rimasti solo in tre. Con mia suocera,
alla quale era morto il marito, sa che
cosa faceva? Sono andati insieme. Un
pezzo lei ha detto che (lui) ha insistito, perché era un po’ testardo e deve
essere che ci aveva provato tante volte:
alla fine è venuto fuori Albertino, mio
marito.
Era rimasta incinta. Diceva (la
gente): “(Guarda) un po’: La Panina
è rimasta incinta! Chissà chi sarà
stato? Il marito le è morto in guerra!”
Eh, lo sapeva lui chi era stato: era stato
il cognato! (Mia suocera) ha detto che
un giorno, da quanto era fastidioso,
perché era piccolino, ma testarduccio
eh, gli ha dato una spinta e l’ha buttato
dentro alla vasca dell’acqua delle bestie
e l’aveva fatto bagnare tutto.
Dopo zia, che sarebbe stata la sorella di mia suocera, quella che era rimasta zitella, ha detto che lei ne vedeva
tante di cose brutte: li vedeva sul letto,
li aveva sorpresi, lei lo sapeva che lui
ci andava insieme, a dormire no…
ma, oste!, se ci andava insieme! Così
alla fine è nato questo Albertino.
Como me ce sarò ’ncuntràda...
Come mi ci sarò incontrata…
È gida avanti per due e tre anni,
n’ha fatta ’n’antra del venti, ’n’antra
del ventidue, n’antro del ventiquattro, n’antro del ventisei, n’antro del
(La cosa) è andata avanti per due
tre anni. (Mia suocera) ne ha fatta
un’altra nel ’20, un’altra nel ’22, un
altro nel ’24, un altro nel ’26, un altro
280
ventinove, ’n m’arcordo manco tutti
com’è: era ’na bella coàda!
Prò quann’era stado del ventidue
o del ventitrè toccàa a sposàsse, ché
lóra stèrene insieme ma dobo non li
segnàa, no, su la chiesa. Lìa pïàa la
pensió’ del marido morto, intàndo
se devertìa co’ quest’altro! Prò dobo
’l prede non li segnàa ’sti fjòli ’nté la
chiesa, allora i’hà toccàdo a sposàsse. S’è sposàdi. E dobo, in seguito
i’é venùdi tutti ’st’altri fiji, finànta al
trentasette.
E allora mi’ socero (io ’l chiamào
babbo e a mi’ socera mamma), quanno fadigàmma insieme m’arcontàa
tutta la vida sua chìa fatto. Ié dicìa:
“Dobo como éde fatto co’ cuél’altra
ragazza, che ci fèsta l’amore” “Eh,
como ho fatto? A cuélla i’hà saputo
fadìga, ma tanto ormai m’ha toccàdo
a sposà’ quest’altra!” Ormai c’era
gido a dormì’ insieme, a cuélla l’ha
lassàda gi’.
Prò... sarà gidi d’accordo ne ’l so,
perché mamma, mi’ sòcera, era una
ruzza ’mbelpo’, ma lu’ gèra sempre
a fadigà’ fòri, ’nté le cantine del
padró’, e lìa pïàa tutta la faméja con
tutti cuéi fjòli: apposta era ruzza
sa. ’N se sapìa com’era vestìdi; ’l
più piccolo, porànnima, quann’era
d’inverno, scalzo, co’ ’na camicétta
de cottó’ sotta, ’na vestinèlla sopra...
Lì ’n se cambiàa tanto sa, era ’mpo’
ruzzi sa...
Ma como me ce sarò ’ncuntràda?
La gente dicìa: “La Chiara ch’era
tanta deligàda con cuélla famìja
del ’29. Non mi ricordo nemmeno tutti
come sono: era una bella covata!
Però, quando è stato del ’22 o ’23
toccava sposarsi, perché loro vivevano
insieme, ma non li segnava, no, sulla
chiesa. Lei prendeva la pensione del
marito morto, intanto si divertiva con
quest’altro! Però dopo il prete non li
segnava questi figli nella chiesa, allora
hanno dovuto sposarsi. Si sono sposati.
E in seguito gli sono venuti tutti questi
altri figli, fino al ’37.
E allora mio suocero (io lo chiamavo ‘babbo’ e a mia suocera ‘mamma’),
quando faticavamo insieme, mi raccontava tutta la sua vita che aveva fatto.
Gli domandavo: “Dopo come avete fatto
con quell’altra ragazza, con cui eravate
fidanzato?” “Eh, come ho fatto? A quella le è dispiaciuto, ma tanto ormai ho
dovuto sposare quest’altra!” Ormai c’era
andato a dormire insieme, quell’altra
l’ha lasciata andare.
Però… saranno andati d’accordo,
non lo so, perché mamma, mia suocera,
era tanto rozza, ma lui andava sempre a lavorare fuori, nelle cantine del
padrone, e lei si teneva tutta la famiglia
con tutti quei figli: apposta era rozza,
sa. Non si sapeva come erano vestiti; il
più piccolo, povera anima, quando era
d’inverno, scalzo, con una camicetta
di cotone sotto, una vestina sopra… Lì
non ci si cambiava tanto, sa, erano un
po’ rozzi, sa…
Ma come mi ci sarò incontrata? La
gente diceva: “Chiara, che era tanto
delicata con quella famiglia, come ha
fatto a incontrare in una casa così?”
281
como ha fatto ’ncuntrà’ ’nté ’na casa
luscì!” Ma cuélla vo’ ’n se sapìa, ’n
se conoscìa... Era gente da soldi per
caridà! Quanno so’ boccàda io cìa
ducentomilalire! Nel ’43 ducentomilalire era tanto, ma ni sapìa spende’
i soldi no, perché vendìa sempre ’na
robba bòna e compràa le sardèlle,
vendìa i presciutti, vendìa le lónze
e compràa le sardèlle, vendéa ’l vi’...
’mbè’ no, ’l vi’ se bevìa anca bòno
scì.
ma quella volta non si sapeva, non si
conosceva… Era gente di soldi, per carità! Quando vi sono entrata io, aveva
duecentomila lire. Nel ’43 duecentomila
lire erano tante, ma (i soldi) non li
sapeva spendere, perché vendeva sempre la roba buona e comprava le sardelle, vendeva i prosciutti, vendeva le
‘lónze’ e comprava le sardelle, vendeva il
vino… be’ no!.. il vino si beveva, anche
buono, sì!
Pane col vi’, tajolì’ e polentó’
Pane con il vino, tagliolini e polentone
Tante le ô quann’èra la sera e
lóra gèra a letto, io e mia cognàda
Federìga qué fèmma? C’era ’na taolàda de pa’ che bastàa pe’ quindici
giorni, prò nun voléa mi’ sòcero
che se magnàa, ma noà, quanno
lóra era gidi a letto, fèmma fénta da
fa’ i calzétti (io ié ’mparàa perché
cuélla cognàda piccola, quanno so’
boccàda io, cìa dodici tredici’ànni,
non sapìa fa’ perché la madre ’nsegnàa solo a ’ste fjòle a rumà’ là pe ’l
campo, envece bisognàa anca fadigà’ dendro casa!).
Allora questa chì, pôra monèlla,
pensàde a sedeci’anni i’hà toccàdo
a sposà’, a tirà’ avanti ’na faméja...
Capirai: era boccàda lì dagli Antighi
ch’era ’na casa de cuélle sonòre eh!
Era una de cuélle famije ’ndó le fjòle
sapìa fa’ nigò.
Allora noà stèmma lì attorno al
fôgo, ié ’nsegnàa a fa’ ’l calsétto,
Qualche volta, quando di sera loro
andavano a letto, io e mia cognata
Federica che cosa facevamo? C’era una
tavolata di pane che bastava per quindici giorni, però non voleva mio suocero
che si mangiasse, ma noi, quando loro
erano andati a letto, fingevamo di fare
le calze. Io glielo insegnavo perché quella cognata piccola, quando sono entrata
io, aveva dodici tredici anni, non sapeva fare, perché la madre insegnava alle
figlie solo a ruspare là per il campo,
invece bisognava lavorare anche dentro
casa!
Allora questa qui, povera ragazza, a
sedici anni ha dovuto sposare, a tirare
avanti una famiglia… Capirai, era
entrata lì dagli Antichi, che era una
casa di quelle sonore eh! Era una di
quelle famiglie, dove le figlie sapevano
fare tutto.
Allora noi stavamo lì attorno al
fuoco a fare una calza, intanto chiude282
intanto chiudémma la porta della
cucina e lóra era più in na, ’n sentìa...
Pïàmma ’l pa’ e po’ pïàmma ’n mezzo
bicchiero de vi’, cuéllo róscio, bòno,
e lì mollàmma ’l pa’ col vi’: quant’era
bòno prima da gi’ a letto, perché
c’émma ’na fame! Capace magnàvi ’n
piatto de menèstra, ma a me cuélla
menèstra sensa pa’ ’n me gèra giù,
con cuéi tajolì’ sens’ovi... quant’era
tristi!
C’era tre quattro pezzi de lardo
che gèra a galla, sopra lì ’nté cuél
piatto granno... C’era i piatti granni
che coprìa tutto ’l taolì’. E lì c’era
cuéi tajolì’ grossi como ’n dédo,
toccàa a tajàlli! Sens’ôi, sci li tajàvi
fini se spezzàa tutti... E alla sera se
magnàa cuélla robba lì d’inverno e
po’ se magnàa anca presto, quanno ’n se fadigàa giuppe ’l campo,
che ’n se guadagnàa gnè. Dicìa cuél
pôro babbo, mi’ sòcero: “Oggi ’n s’è
guadamniàdo gnè, manco se podrìa
magnà’! Facémo ’l polentó’!”
E se facìa ’l polentó’. Sa co’ facìa?
Pïàa ’l treppìa, “la serva della padella” ’l chiamàa, po’ mettìa su ’na
padellàda d’acqua, sul fôgo, ’nté la
fjàra, e po’ buttàa giù ’na sessolàda
de farina de granturco tutta ’na volta.
Io nìo mae visto a fa ’coscì, perché a
casa nostra cuélle schifènze lì ’n se
magnàa. E po’ sa que facìa? Mi’ sòcera ’l facìa, perché io ne ’l sapìo fa’.
Dicìa che ne ’l sapìo fa’. In quanto a cuéllo e le cresce tajàde no’ le
sapìo fa’: veramente è vero perché a
casa nostra, como ho ditto, ’n se fèra
vamo la porta della cucina e loro erano
più in là, non sentivano… Prendevamo
il pane e poi prendevamo un mezzo
bicchiere di vino, quello rosso, buono,
e lì bagnavamo il pane col vino: quanto era buono prima di andare a letto,
perché avevamo una fame! Forse avevi
mangiato un piatto di minestra, ma a
me quella minestra senza pane non mi
andava giù, con quei tagliolini senza
uova… quanto erano cattivi! C’erano tre
quattro pezzi di lardo che galleggiavano
in quel piatto grande… C’erano i piatti
grandi che coprivano tutta la tavola. E
lì c’erano quei tagliolini grossi come un
dito, toccava tagliarli. Senza uova, se li
tagliavi fini, si spezzavano tutti…
D’inverno, la sera si mangiava quella roba lì e poi si mangiava anche presto, quando non si faticava giù per il
campo, che non si guadagnava niente.
Diceva quel povero babbo, mio suocero:
“Oggi non s’è guadagnato niente, nemmeno si potrebbe mangiare! Facciamo
il polentone!” E si faceva il polentone. Sa cosa faceva (mia suocera)?
Prendeva il treppiedi, lo chiamava ‘la
serva della padella’, poi metteva su una
padellata d’acqua, sul fuoco, in mezzo
alle fiamme, e poi buttava giù una
sessolata di farina di granturco, tutta
in una volta. Io non avevo mai visto
fare così perché a casa nostra schifezze
simili non si mangiavano. Poi sa che
faceva? Mia suocera lo faceva, perché io
non lo sapevo fare. (Lei) diceva che io
non lo sapevo fare. In quanto a quello e
alle ‘cresce tagliate’ non le sapevo fare:
veramente è vero perché a casa nostra,
283
cuélle schifézze lì.
Buttàa giù ’sta farina tutta ’na ’olta,
facéa ’n gran pangòtto da mezzo: era
’na gran bòccia ’n mezzo a cuélla
padèlla grànna. E lì co’ la cucchiara
buttàa su l’acqua boìda dentorno a
’sta farina: de fòri venìa cuélla còsa
liscia como non so, como fa’ ’n mucchio de cimènto, de fòri facìa liscio...
da mezzo armanìa tutta farina.
Dopo quann’era stado mezz’ora
lì sul fôgo su cuélla padella, co’
la cucchiàra spaccàa ’sto monte:
’nté ’l mezzo era tutta farina. Allora
dopo ’mpo’ s’ammollàa ’sta farina
coll’acqua boìda. Po’ ce buttàa ’l sale
e la magnàa luscì, scondìda. Dicìa
mi’ sòcero: “Quant’è bona! Sentide
quant’è bòna” me dicìa a me, me
dèra del vu’, perché ’l vu’ cuélla vo’
era più educàdo no?
Ma a me non me gèra giù, ne
magnàa du’ tre cucchiaràde e…
armanìa co’ la fame pe’ compagnia.
come ho detto, non si facevano quelle
schifezze lì.
(La suocera) buttava giù questa
farina tutta in una volta, faceva una
grande poltiglia in mezzo: era una
grande boccia in mezzo a quella padella
grande. E lì con un cucchiaia buttava su l’acqua bollente intorno a questa farina: di fuori veniva quella cosa
liscia non so come, come fa un mucchio
di cemento, di fuori rimaneva liscio…
in mezzo rimaneva tutta farina. Dopo,
quando era stato mezz’ora lì sul fuoco
su quella padella, con il cucchiaio spaccava questo monte: nel mezzo era tutta
farina. Allora, dopo un po’ si bagnava
questa farina con l’acqua bollente. Poi
ci buttava il sale e la mangiavano così,
senza condimento. Diceva mio suocero:
“Quant’è buona! Sentite quant’è buona!”
- diceva a me. Mi dava del ‘vu’, perché
il ‘voi’ quella volta era di maggiore educazione, no!
Ma, a me, non mi andava giù, ne
mangiavo due tre cucchiaiate e… rimanevo con la fame per compagnia.
Comènsa ’l calvario
Comincia il calvario
’Nté la faméja de mi’ marìdo per
me c’è stado propio ’n calvario: fadìga a stufo, alsàsse presto alla madìna e gi’ a letto tardo alla sera, laóri
pesanti. Me dicìa mi’ sòcero: “Vu’
podéde fadigà’ forte como ’na vacca
sòda”. Fina a 23 anni non ci’hò aùdo
i fjòli, allora se dicìa così ’na vacca
Nella famiglia di mio marito per me
c’è stato proprio un calvario: fatica a
stufo, alzarsi presto la mattina e andare a letto tardi la sera, lavori pesanti.
Mi diceva mio suocero: “Voi potete faticare forte come una vacca soda!” Fino a
ventitré anni non ho avuto figli, allora
si diceva così: una vacca quando non
284
quanno n’era gravida e no’ ’lattàa
dovìa esse’ sempre sotta. Scì, a me
piacìa a sta’ sotta, ma qualche vo’
anca sopra! Adè’ scherzo!
E dobo i giorni, gènno avanti,
finìdo a somentà’, c’era da fa’ lo scapeccio. Capirai... lo scapéccio duràa
’na quindicina de giorni... Lora su alto
a tajà’, noàltri per tèra a spezzà’ tutti
cuéi pali... I pali servìa pe’ le vide, pe’
’ncannà’ i pomidori all’istàde. I pali i
pïàmma tutti. Dobo le rocce le pïàmma pe’ ’ncannà’ i besèlli, po’ dobo le
rocce fine fine, cuélle pe’ ’l fôgo, ma
vulìa che se fèra be’. Babbo, ’n quanto a cuéllo ’l contentàa perché io ero
diligàda a fadigà’. Mìa ’mparàdo ’l
pôro babbo, dicìa: “La persona che
vène da ’n fónno piccolino ampàra
a fadigà’ deligado”. Noàltri perché
c’émma la tèra poga no? sei èttri,
envéce lajù ce n’era ’na quindicina,
vent’èttri.
Allora in cuéllo ’l contentàa, perché facìo cuélle belle fascine, fatte
be’, corte, spezzade be’ e po’ dobo
le legàa mi’ socera, prò le legàa be’
perché dobo le dovéa vénde’, capido! ’Mpo’ le dèra al padró, ma cuélle
fatte mejo le vendìa pe’ pïà’ qualche soldo, perché, pôrétti!, non era
pôrétti sa: quanno so’ boccàda io,
como v’ho ditto, cì’avéa ducentomila
lire! Ce lìa ditto mi’ sòcero pe’ fa’ ’l
paccó, che cìa i soldi.
Finido lo scapéccio, quann’era
vicino a Nadàle, c’era da fa’ la cannafòja, tajà’ i cannédi: caréggia trenta
quaranta fasci de canna dal cannédo
era gravida e non allattava doveva stare
sempre sotto. Sì, a me piaceva stare
sotto, ma qualche volta anche sopra!
Adesso scherzo!
E i giorni dopo, andando avanti,
finito di seminare, c’era da fare “lo
scapeccio”. Capirai… la capitozzatura
durava una quindicina di giorni…
Loro in alto (sugli alberi) a tagliare,
noi a terra a spezzare tutti quei rami…
I rami servivano per le viti, per incannare i pomodori all’estate. I rami li
prendevamo tutti. Dopo i sarmenti (più
grossi) li prendevamo per incannare
i piselli, infine i sarmenti fini fini,
quelli per il fuoco, ma (mio suocero)
voleva che si sistemassero bene. Babbo,
in quanto a quello lo accontentavo, perché vedeva che ero delicata nel faticare.
Mi aveva insegnato il povero babbo,
diceva: “La persona che viene dal fondo
piccolino impara a lavorare delicato”
Noi avevamo poca terra, no? Sei ettari,
invece laggiù ce n’erano una quindicina, venti ettari. Allora in quella cosa lo
accontentavo, perché facevo quelle belle
fascine, fatte bene, corte, spezzate bene
e poi dopo le legava mia suocera, però
le legava bene perché le doveva vendere, capito! Un po’ le dava al padrone,
ma quelle fatte meglio le vendeva per
prendere qualche soldo, perché, poveretti!, non erano poveri sa: quando sono
entrata io, come vi ho detto, avevano
duecentomila lire! Ce lo aveva detto mio
suocero, per vantarsi che aveva i soldi.
Finita la potatura, quando era vicino a Natale, c’era da fare la cannafoglia, tagliare i canneti: trasporta (sulle
285
giù pìa del campo e pòrteli ’mpo’ su
i filù’, un fascio in qua un fascio in
na? ’L vedi sci te scròcciola bembè!
Li mettémma giuppe i filù’ pe’ ’ncannà’ le vide no. Le lassàmma ’n par de
fasci pe’ cosà’, ’ncannà’ i pomidori,
pe’ ’ncannà’ i fagioli... Dobo cuél’altre le spandémma un fascio in qua
un fascio in na, su pe’ cuél monte a
careggià’... Quann’era la sera, a cuéi
tempi te la sentivi la voja de sturzà’
ma, sci fusse adè’, me fa cascà’ i
capìji!
spalle) trenta quaranta fasci di canna
dal canneto, giù in fondo al campo, e
portali un po’ su per i filari, un fascio
di qua ed uno di là? Lo vedrai se ti
spezza perbene! Ne lasciavamo un paio
di fasci per cosare, incannare i pomodori, per incannare i fagioli… Dopo
quelle altre le spandevamo un fascio
qua un fascio in là, su per quel monte
trasportandoli (sulle spalle)… Quando
era la sera, a quei tempi te la sentivi la
voglia di scherzare, ma, se fosse adesso,
mi farebbe cadere i capelli!
Le cugnàde e altri laóri
Le cognate ed altri lavori
Finido lo scapéccio, cominciàa
a podà’, c’era ’na quindicina o venti
filù’ tutti da podà’: oppi - ié dicìa
‘l’arbori’ -, e vide. Lì noà dovémma arcoje’ tutte le legna: io e mi’
cognàda, che cìa tredici’ànni, fadigàmma sempre noàltre due, fortuna
che cìa ’mpo’ lìa da confidàmme,
perché scinó mi’ sòcera ’n parlàa
mae, stèra sempre lì con cuél muso
gùzzo.
Non parlàa mae perchè ’mpo’
sarà stada gelosia, ’mpo’ perché io
ero ’mpo’ ’mbiziosa, ancò’ sai tenéa
’mpo’ le mòde de casa mia. Dicìa
che le dovéo buttà’ via cuélla pôra
mamma, ma me podìa buttà’ giù
como ’na vecchia, ancó’ cìa vent’anni! A me me picìa, me piacìa damme
’na giustàda ai capiji...
Dalla parrucchiera cuélla vo’ ’n
Finita la capitozzatura, si incominciava a potare, c’erano una quindicina o venti filari tutti da potare:
oppi – li chiamava ‘l’àrbori’ – e viti.
In quel lavoro noi dovevamo raccogliere tutte le legna: io e mia cognata
che aveva tredici anni, lavoravamo
sempre (insieme) noi due: fortuna che
avevo un po’ lei con cui confidarmi,
perché, se no, mia suocera non parlava
mai, stava sempre lì con quel muso
aguzzo. Non parlava mai, perché un
po’ sarà stata gelosia, un po’ perché io
ero ambiziosa; ancora, sai, tenevo un
po’ le mode di casa mia. Quella povera
mamma diceva che le dovevo buttare
via, ma non mi potevo buttar giù come
una vecchia, ancora avevo vent’anni!
Mi piaceva… mi piaceva darmi una
aggiustata ai capelli…
Dalla parrucchiera quella volta non
286
Pagliai. Da notare nel pagliaio centrale un mattone a penzoloni, per trattenere la paglia, e il
medullo o mallone con l’aggiunta, che serviva per non far portar via dal vento il fieno o la paglia
quando ancora il pagliaio non era ben pressato. (foto Dino Ferro 1968).
ce se gìa sa, i lavàa da per me, sempre co’ la ranna, come v’ho ditto,
i lavàa da per me... A tajà’ prima
gèmma da ’ste sorelle, ma lóra s’era
sposàde, ’n c’era più la possebilità
e tante le ô ié dèsci ’na sforbigiàda
da per te.
A ’ste cognàde mia, con me ce
n’èra ’rmàste altre due piccole, ié
li tajào io i capiji, ié tajào i pagni:
tante le ô sci ci’avéo ’n pezzo de
scàmpolo finché ’n ci’avìo i fjòli
io, ’n pezzo de pèzza vecchia, ’n
pezzetto capàce m’arvansàa de ’na
vesta mia, ié ce facéo ’na gonnèlla
ci si andava, sa, li lavavo da sola,
sempre con il ranno, come vi ho detto,
li lavavo da sola… Prima andavamo
dalle mie sorelle a tagliarli (i capelli),
ma loro si erano sposate, non c’era più
la possibilità e tante volte gli davi una
sforbiciata da sola. Alle mie cognate,
con me ce n’erano rimaste altre due
piccole, glieli tagliavo io i capelli, gli
tagliavo i vestiti: qualche volta, se
avevo un pezzo di scampolo finché non
avevo i figli io, un pezzo di stoffa vecchia, quando mi avanzava un pezzetto
di una veste mia, gli ci facevo una
gonnella con due tre colori. Mi voleva287
con du’ tre colori. Me vulìa be’ sa,
tutte e due: me ’l vôle tuttóra, ancó’
me vène sempre a troà’! Con me se
confidàa. Cuélla piccola, embè era
troppo piccola, cuélla sci sentìa
’mpo’ a di’ qualcò’, curìa a gillo a
’rcontà’ a la madre, ma cuél’altra
con me è stada como ’na sorella,
anche mèjo.
Lì, non ve l’ho fenìdo de di’, fenido lo scapéccio, ha comensàdo a
podà’, fenìdo da podà’, Dio benedetto!, cominciàa a sappà’ ’l gra’. Ma lì
c’era sempre da fadigà’, da la madìna presto a la sera tardo! Quanno
mi’ sòcero partìa co’ la biscighétta,
gèra al paese, a Montalbòdo, non so
tante le ô a Sinigàja, allora prima da
partì’ dicìa a mi’ marido: “Guarda,
Albertì’, c’è da fa’ cuélla faccènna lì,
cuélla faccènna là!”
Capirai, tante le ’olte al venardì,
quanno partìa, lóra gèra al mercàdo, a me ’n me dicéa gnè. Io ero
abbituàda a gìcce, no: mamma me
ce portàa sempre al mercàdo. Ié
dicìa a mi’ marìdo: “Ce gimo anca
noà?” I primi mesi qualca vo’ me
ci’hà portàdo, ma dopo mi’ sòcero
guardàa brutto no: co­mannàa ’ste
faccènne, envéce capàce ce vidìa su
la piazza. E po’ alla fine ié l’ha ditto
pure a Albertì’, i’hà ditto: “Oh, fjòli,
c’è da fadigà’, ’n c’è più tempo da gi’
in giro!”
Sicché m’ha toccàdo métteme
giù a fadigà’. Gèra via mi’ sòcero e
dicìa: “Ah oggi c’è da fa’ cuélla faccenna lì, quanno arvèngo a casa io,
no bene, sa, tutte e due: me lo vogliono
tuttora, ancora mi vengono sempre a
trovare. Con me si confidavano. Quella
piccola be’, era troppo piccola; quella, se sentiva un po’ a dire qualcosa,
correva per andarlo a raccontare alla
madre, ma quell’altra con me è stata
come una sorella, anche meglio.
Lì, non ve l’ho finito di dire, terminata la capitozzatura, hanno cominciato a potare; finito di potare, Dio
benedetto!, cominciavano a zappare il
grano. Ma lì c’era sempre da faticare:
dalla mattina presto alla sera tardi!
Quando mio suocero partiva con la bicicletta, andava al paese, a M
­ on­talboddo,
non so, qualche volta a Senigallia,
allora prima di partire diceva a mio
marito: “Guarda, Albertino, c’è da fare
quella faccenda lì, quella faccenda là!”
Capirai, spesso il venerdì, quando (i
suoceri) partivano, andavano al mercato, a me non dicevano niente. Io ero
abituata ad andarci, no: mamma mi ci
portava sempre al mercato. Io dicevo a
mio marito: “Ci andiamo anche noi?” I
primi mesi qualche volta mi ci ha portato, ma dopo mio suocero guardava
brutto no: comandava queste faccende,
invece capitava che ci vedeva sulla
piazza. E poi, alla fine, gliel’ha detto
pure ad Albertino. Gli ha detto: “ Oh,
figli, c’è da faticare, non c’è più tempo
di andare in giro!”
Sicché ho dovuto mettermi giù a
faticare. Andava via mio suocero e
diceva: “Ah, oggi c’è da fare quella
faccenda lì, quando ritorno a casa io,
fate che sia fatta; quella faccenda là:
288
fade che sia fatta; cuélla faccenna
là: c’è da portà’ via ’l piscio delle
bestie, c’è d’arcomédà’ la grascia e
c’è da fa’ cuéllo e c’è...”
A me me rimpìa la testa prima
da fàlle ’ste faccènne, prò tanto
toccàa a sta’ sitti, toccàa a fàlle e
sitti. Pensàde vua: ho comensàdo
a mette’ giù ’l primo giorno, ha
duràdo dodici’anni, quanto sacco
avrò rimpìdo? Era pîna pîna, ’n ne
podéo più: dobo apposta so’ gida
a fenì’ a l’ospedale. Per caridà!, io
dicia sempre, quanno so’ gìda a fenì’
male luscì: “ I fiji, quanno che ci’arrivo a védeli a pïa’ moje, na da sta’
co’ me sa! A da sta’ per conto sua,
io magari me metto ’nté lo stipo
del porchétto, prò insieme non ce
sto, non vojo che la nora trìbbola
com’ho tribbolàdo io.
Cuscì ho fatto sa. Émo fatto ’sta
casetta ch’è piccola, pare ’n garage,
ma quanno s’è sposàdo, io me so’
contentàda solo d’avé ’na cucinétta stretta stretta, ’ndó ce godìa
a malappena ’rvoltàsse me e mi’
marìdo, e la càmbora. ’L resto l’ho
lassàdo tutto a lóra: i’émma fatto ’l
bagno (già cuélla vo’ cominciàa ad
èssece i bagni anca in campagna),
i’émo datto la càmbora, i’émo fatto
la sala...
Non era tanto posto manco pe’
lóra, prò tanto, como sia, era ’mpo’
mejo de como stèra io: inùdele che
cìa la cambora granna, che me ce
capìa tutti e tre i monèlli, prò non
stésci contenta.
c’è da portare via il piscio delle bestie,
c’è da sistemare il letame e c’è da fare
quello e c’è…” Mi riempivano la testa
prima di farle queste faccende, però
tanto toccava stare zitti, toccava farle
e zitti. Pensate voi: ho incominciato ad
inghiottire il primo giorno, è durato
dodici anni (questo andazzo), quanto
sacco avrò riempito? Ero piena piena,
non ne potevo più: dopo apposta sono
andata a finire all’ospedale.
“Per carità – io dicevo sempre,
quando sono andata a finire male così
– i figli, se arrivo a vederli prender
moglie, non devono stare con me, sa!
Devono stare per conto proprio: magari io mi metto nel porcile, però insieme
non ci sto, non voglio che la nuora soffra quello che ho sofferto io”.
Così ho fatto. Abbiamo fatto una
casetta, ch’è piccola, pare un garage,
ma, quando ha sposato (mio figlio),
io mi sono accontentata solo di avere
una cucinetta stretta stretta, dove c’era
il posto appena per girarsi io e mio
marito, e la camera. Il resto l’ho lasciato tutto a loro ( agli sposi): gli abbiamo
fatto il bagno (già quella volta cominciava ad esserci i bagni anche in campagna), gli abbiamo dato la camera, gli
abbiamo fatto la sala... Non c’era tanto
posto nemmeno per loro, però tanto,
come sia, era un po’ meglio di come
stavo io: inutile che avessi la camera
grande, dove ci entravano tutti e tre i
monelli, però non stavi contenta!
289
Il “pularo”: da notare il luogo dove veniva puntata la falce: vicino al cancello del pularo (foto Dino
Ferro 1968).
La “traggia” (o “trèa”), lo “stirpatore”, l’aratro di legno ed altri attrezzi (foto Dino Ferro 1968).
290
Porcili e gabbione per il trasporto della “madràna”, quando questa veniva portata a”farla ’rcoprì’
dal guèrro”. (foto Dino Ferro 1968).
Capanna (foto Dino Ferro 1968).
291
La pozza con la banchetta per lavare e la pompa per irrigare l’orto (foto Dino Ferro 1968).
Il “grasciaro” con le tamerici (foto Dino Ferro 1968).
292
Fiori attorno al pozzo (foto Dino Ferro 1968).
293
Mi’ socera avanti co’ ’n culo sbiràdo
Mia suocera avanti con il culo di
traverso
E dobo, non ve l’ho fenido da
dì, a la doménniga a casa nostra
pe’ caridà!, s’arispettàa. Sabbedo a
sera già se comensàa a fa’ festa. A
la domenniga lì a la madìna, prima
de gi’ a la Messa, se gèra a fa’ l’erba
giuppe i fossi. Cera tutti cuei fossi
da pulì’, c’émma quattro o cinque
fossi lónghi, sarà stadi... giràa tutto
’l campo... miga ’l so quanti chilòmedri era. ’L campo ’l giràa tónno, po’
c’era i fossi giuppe ’l mezzo: lì dovéi
pulìlli tutti, cuél falàsco dovéi fallo
tutto pe’ le bestie. Rîmpìsci le crinelle, sci era da lóngo ’l carreggiàsci
coi fasci.
E dobo gèsci a la Messa. Capirài,
dovéi vestìtte ’nté ’n quarto d’ora,
envéce io com’era abiduàda a sta’
’nté lo specchio prima da partì’, me
guardàa de qua me guardàa de là,
non c’era ’n pelo storto quann’éo
fatto. Envéce lajù dobo, lajù c’era i
peli storti eh! Dovéi vestìtte de fuga
e po’ gi’ a la Messa, perché sonàa.
Sci ch’era sciucco, passàa pei campi,
portai le scarpe su le ma’, perché era
più curta la strada; sci, envéce, era
móllo, toccàa a passà’ tónno, e dobo
mettemma le scarpe lì vicino a la
chiesa de San Giròlimo. N’era tanto
da lóngo: in linia d’aria sarà stado un
chilomedro e mezzo.
Gèmma a la Messa, venuda a
casa da la Messa, io cìa ’l vizzio che
me piacìa ’n momento a sta’ cinque
E dopo, non ve l’ho finito di raccontare, la domenica a casa nostra si rispettava, per carità! La sera del sabato già
si incominciava a far festa. La domenica mattina lì (a casa dei suoceri),
prima di andare alla messa, si andava
a fare l’erba giù per i fossi. C’erano tutti
quei fossi da pulire, avevamo quattro
o cinque fossi lunghi, saranno stati…
giravano tutto il cam­po… mica lo so
quanti chilometri era­no. Il campo lo
giravano attorno, poi c’erano i fossi giù
nel mezzo: li dovevi pulire tutti, dovevi fare tutto quel falasco per le bestie.
Riempivi le ‘crinelle’; se era lontano lo
portavi con i fasci (sulle spalle).
E dopo andavi alla Messa. Capirai,
dovevi vestirti in un quarto d’ora, invece io ero abituata a stare davanti allo
specchio prima di partire: mi guardavo
di qua, mi guardavo di là, non c’era un
pelo storto quando avevo fatto. Invece
laggiù c’erano i peli storti, eh! Dovevi
vestirti alla svelta e poi andare alla
Messa, perché suonava. Se era asciutto,
passavo per i campi, portavi le scarpe
sulle mani, perché la strada era più
corta; se, invece, era bagnato, bisognava passare attorno, e dopo mettevamo
le scarpe lì vicino alla chiesa di San
Girolamo. (La chiesa) non era tanto
lontana: in linea d’aria sarà stata (lontana) un chilometro e mezzo.
Andavamo alla Messa; tornando a
casa dalla Messa, io avevo l’abitudine
che mi piaceva stare un momento, cin294
minùdi a chiacchierà’, quanno c’era
’n’amìga mia.
Ormai émma fatto conoscenza,
lìa pure me volìa be’, gèmma tante le
’olte insieme; quann’era giovana la
conoscìa be’. C’era anca cuéll’amighe de le cognàde mia pure me parlàa como venèmma giù da la Messa.
Capirai, mi’ socera caminàa avanti
co’ ’n culo sbiràdo: cuélla la dovéi
capì’ che dovésci gi’ a casa a tirà’
via. Era vero che toccàa lassà’ gi’
tutte le mode.
que minuti, a chiacchierare, quando
c’era un’amica mia. Ormai avevamo
fatto conoscenza, lei pure mi voleva
bene, andavamo tante volte insieme,
quando non era sposata, la conoscevo bene. C’erano anche quelle amiche
delle mie cognate che mi parlavano
pure, come tornavamo giù dalla Messa.
Capirai, mia suocera camminava
avanti con un culo di traverso: quella la
dovevi capire subito che dovevi tirar via
ad andare a casa. Era vero che bisognava lasciar andare tutte le usanze.
Intìngolo, conserva e porco
Condimento, conserva e porco
Gìi giù a casa, te spojàvi de fuga,
mettìi a posto i pagni e po’ via: c’era
d’argi’ a fa’, segondo che tempi era,
prima de fa’ le tajadèlle al giorno (le
tajadèlle se fèra sens’ovi, se chiamàa
le tajadèlle ma tanto era sens’ovi,
d’inverno!), c’era da fa’ ’na faccènna de qua o de là, c’era da rîmpì’ la
trocca pe’ le bestie, a careggià’ l’acqua, iudà’ l’òmmini, da gi’ a fa’ ’na
faccènna giuppe ’l campo: cuélla vo’,
quanno ho sposàdo io, la vendégna
già era fatta. C’era da gi’ magari...
c’era ’na pianta de pera d’arcòje’,
cuélle le lassàa pe’ la domenniga,
cuélle faccènne lì.
Dobo dovéi gi’ su a fa’ l’intìngolo, pîài ’na bracciàda de legna
su le ma’, de legna cuélle spezzade
’mpo’ fine, accènde’ ’l fôgo, a pïà’ du’
carbó’, lóra cìa cuél treppìa, po’ cìa
Andavi a casa, ti spogliavi alla svelta, mettevi a posto i vestiti e poi via,
c’era da ritornare a lavorare, secondo
che tempi erano, prima di fare le tagliatelle al giorno (le tagliatelle si facevano
senza uova, si chiamavano tagliatelle,
ma tanto, d’inverno, erano senza uova),
c’era da fare una faccenda di qua o di
là, c’era da riempire (d’acqua) la vasca
per le bestie, trasportare l’acqua, aiutare gli uomini, andare a fare una faccenda per il campo: quella volta, quando ho
sposato io, la vendemmia già era stata
fatta. C’era magari… c’era una pianta
di pere da raccogliere, quelle le lasciava
per la domenica, quelle faccende lì.
Dopo dovevi andare su a preparare
il condimento, prendevi una bracciata
di legna sulle mani, quella legna spezzata un po’ fina, per accendere il fuoco
prendevi due carboni; loro avevano quel
295
’n fornèllo de madù’ fatto, mettéi i
carbó’ lì drendo e lì facéi l’intìngolo.
Dicìa mi’ sòcera: “Pïa ’n pezzetto de
lardo” e me ’l preparàa lìa. Ié dicìa:
“Preparàdemelo ’mpo’ vo’, perché io
ne ’l so quanto ce ne mettéde”. Nei
primi tempi lìa me ’l preparàa ’n pezzetto de lardo grànno quanto quattro
dédi, per dieci persóne già era sufficiente. Capirai, quattro lardèlli!
Quanno era fatto cuéllo, buttàvi
giù cuél pommidòro che, como ho
ditto ’n’antra vo’ no, se mettìa a
seccà’ cuélla conserva ’nté ’l sole,
quanno era secca ce facéi i panétti,
l’invoricchiàa de fòri co’ ’ste brance de granturco: ié levàa ’l panètto al granturco, ma lassàa ’l céppo
sotta, allargàa le brance e po’ mettéa
giù ’sto panetto de conserva ’n tra
mezzo e po’ arlegàa ’l panétto da
cima le foje de granturco e cuéllo
stèra ’ncartàdo li drendro, se mantenéa ’mpo’ fresco, prò quanno facéi
l’intìngolo dovéi pïànne ’na cucchiaràda, po’ dovéi mèttelo co’ ’n tantì’
d’acqua tébbeda, perché ’n sa sciojéa
co’ l’acqua jàccia. Mettéi a scaldà’ ’n
goccetto d’acqua ’nté ’n tegamèllo,
tiébbida, po’ ’nté ’n piatto co’ la furcìna la sfarài: cuélla conserva, era
dura no, dura como ’l pa’. La sfarài
cuélla conserva e po’ la buttavi giù
en tra l’intìngolo, muh... c’era tutti
cuéi tozzetti quanno gìsci a magnà’,
n’era ’n granché ma tanto mejo ’n
c’era!
De cuéi tempi ancó’ ’l porco n’era
’mazzàdo, i conìji ’n ce n’era tanti,
treppiedi, poi avevano un fornello fatto
di mattoni; mettevi i carboni lì dentro
e lì preparavi il condimento. Diceva
mia suocera: “Prendi un pezzetto di
lardo!” e me lo preparava lei. Le dicevo: “Preparatemelo un po’ voi, perché
io non lo so quanto ce ne mettete”. Nei
primi tempi me lo preparava un pezzetto di lardo, grande quanto quattro dita,
per dieci persone già era sufficiente.
Capirai, quattro pezzetti di lardo!
Quando era soffritto quello, buttavi
giù quel pomodoro che, come ho detto
un’altra volta, no, si metteva a seccare quella conserva al sole; quando era
secca ci facevi i panetti, li avvolgevi di
fuori con le foglie di granturco: al granturco gli levavi il panetto, ma lasciavi il
ceppo sotto, allargavi le foglie e ci mettevi dentro, in mezzo, questo panetto di
conserva; poi in cima legavi le foglie
di granturco e (il panetto di conserva),
incartato lì dentro, si manteneva un po’
fresco, però, quando facevi il condimento, dovevi prenderne una cucchiaiata,
poi dovevi metterlo con un po’ d’acqua
tiepida, perché non si scioglieva con
l’acqua fredda. Mettevi a scaldare un
goccetto d’acqua in un tegamino, tiepida, poi in un piatto, con la forchetta, lo
spezzettavi: quella conserva era dura,
no, dura come il pane. La spezzettavi
e poi la buttavi giù in mezzo al condimento, muh… c’erano tutti quei tozzetti
quando andavi a mangiare, non era un
granché, ma tanto meglio non c’era!
In quei tempi ancora il porco non
era stato ammazzato, i conigli non ce
n’erano tanti, perché non c’era nemme296
perché ’n c’era manco ’l tempo de
custodìlli... La domenniga ’sti maccarù’ e po’ ’l segondo ’n c’era sa.
Aah là casa nostra c’era ’l segondo,
magàri ’n aceno d’ulìa o c’era... non
so o c’era ’na mela, ma lì ’l segóndo
no’ c’era, se magnàa ’n piatto o due
de maccaró’ sens’òvi... era bòni tante
volte perché como se dice “quanno
c’è la fame è bòno nigò!” E dobo de
segondo ’n c’era gnè, ’n vulìa manco
che se pïàa ’l pa’ mi’ sòcero, perché
dicìa “ ’l pa ’n se consuma, quanno
se magna la pasta basta cuélla!”. Ih,
comensàmo be’!
Dobo, quanno che uno ha ’mazzàdo ’l porco embè tanto, como sia,
era ’mpo’ mèjo, se magnàa ’mpo’
mèjo. ’Mazzàdo ’l porco prima de
tutti se magnàa la goletta, ’na fetta
de goletta la mettéi ’nté ’l sugo,
l’ingrassàa ’l sugo ’mpo’ e po’ ne
pïài ’n pezzetto dobo la pasta, prò
quann’era la domenniga sa, ma scinò
non volìa. Dobo anca quanno che
c’era anca ’n pezzetto de salciccia a
la sera, mezza salciccia per’ò, dobo
le lonze no, fino a maggio non se
podìa comensà’, le salcicce se lassàa
per quanno se sappàa ’l gra’, quanno
se fadigàa ’nté ’l fiè’, ’mpo’ le mettémma giù... Mi’ sòcera vulìa che
se mettéa ’nté ’n barattolo de vedro
e po’ sciòjìa ’mpo’ de distrutto, ce
buttàa sopra ’l distrutto pe’ coprìlle, qualcu’ ce mettìa l’oljo, lóra ce
buttàa ’l distrutto perché - dicìa - se
mantenìa più ténere. Po’ se magnàa
de mède, de mededùre. Se portàa giù
no il tempo di custodirli… La domenica questi maccheroni e poi il secondo
non c’era, sa. Ah, là casa nostra c’era
il secondo, magari un acino d’oliva o
c’era… non so o c’era una mela, ma
lì il secondo non c’era: si mangiava
un piatto o due di maccheroni senza
uova… erano buoni, tante volte perché,
come si dice, “quando c’è la fame, tutto
è buono!” E dopo di secondo non c’era
niente, mio suocero non voleva nemmeno che si prendesse il pane; diceva:
“Il pane non si consuma, quando si
mangia la pasta, basta quella!” Iiih,
cominciamo bene!
Dopo, quando uno ha ammazzato
il porco, be’ tanto come sia, andava un
po’ meglio, si mangiava un po’ meglio.
Ammazzato il porco, prima di tutto
si mangiava la ‘goletta’, una fetta di
goletta la mettevi nel sugo, l’ingrassava
un po’ e poi ne prendevi un pezzetto
dopo la pasta, però quando era la domenica, sa, se no (il suocero) non voleva.
Dopo quando c’era anche un pezzetto di
salsiccia la sera, mezza salsiccia per
uno; dopo le ‘lonze’ no, fino a maggio
non si potevano cominciare; le salsicce
si lasciavano per quando si zappava
il grano, quando si faticava nel fieno,
un po’ le mettevamo giù… Mia suocera
voleva che si mettessero in un barattolo di vetro e poi scioglieva un po’ di
strutto, ci buttava sopra lo strutto per
coprirle; qualcuno ci metteva l’olio, loro
ci buttavano lo strutto, perché – diceva – si mantenevano più tenere. Poi
si mangiavano durante la mietitura.
Si portavano giù (nel campo) durante
297
de mededùre, ma se sentìsta cuélle
salcicce quanno le gèsta a magnà’:
lappàa... parìa i sòrbi!
Tanto anca cuélle toccàa a
magnàlle, perché mèjo ’n c’era!
la mietitura, ma aveste sentito quelle
salsicce quando le andavate a mangiare: allappavano… sembravano le sorbe.
Tanto bisognava mangiare anche quelle, perché meglio non c’era!
In biscighétta su la segonda
colonna de’ monti
In bicicletta sulla seconda colonna
di monti
Tante le ô de mededure giù casa
de lóra chiamàa i montagnòli, a
mède; cuélli lì de ó i primi anni
prèsse ce venìa, ma dobo perché ’l
magnà’ n’era tanto bòno, era fadìga
a troàlla la gènte lì de ó, pe’ fa’ insiéme a mède’. Allora gèra a chiamà’ i
montagnòli.
Ce so’ gida anch’io ’na vo’ co’
mi’ marìdo, co’ la bicighetta: émo
caminàdo dalle quattro alle otto.
Sémo ’rivadi su la Castelletta, su
de sopra, su la seconda colonna
de’ monti, manco ’l so ’ndó sta.
Noiàltri stamo ’nté ’n posto brutto
ma cuélli...; in quanto all’aria ce n’ha
’mbelpo’ eh, ma stèra proprio disoriendàdi, stèra ’nté ’n paesetto, ’n
c’era manco l’ufficio postale, èrane
lì quattro o cinque case...
Quanno semo riàdi, stèra facènno i maccarù sens’ôi, magnàa peggio
de guajù da noà; ci’hà le pègore...
come ’l cacio ce l’avìa a stufo, ma el
resto ’n cìa tanta robba, ché la robba
del campo ’n cìa gnè.
Ce sémo fermàdi a magnà’, émo
fatto ’l contratto, quanno dovéa
Talvolta per la mietitura a casa dei
suoceri si chiamavano i montagnoli per
mietere; quelli lì vicino può darsi che ci
venivano i primi anni, ma dopo, poiché
il mangiare non era buono, era difficile
trovarla la gente lì vicino, per mietere
insieme. Allora si andava a chiamare i
montagnoli.
Ci sono andata anch’io una volta
con mio marito, con la bicicletta: abbiamo camminato dalle quattro alle otto.
Siamo arrivati sulla Castelletta, su in
alto, sulla seconda fila di monti; non lo
so neppure dove sta. Una volta ci sono
andata anch’io con la bicicletta. Noi
stiamo in un luogo brutto, ma i montagnoli, in quanto all’aria ne hanno tanta,
ma stavano proprio isolati. Stavano in
un paesetto, dove non c’era nemmeno l’ufficio postale; c’erano quattro o
cinque case. Quando siamo arrivati,
stavano facendo i maccheroni senza
uova, mangiavano peggio di quaggiù
da noi; avevano le pecore e il formaggio
in abbondanza, ma del resto non avevano tanta roba, perché nel campo non
avevano niente.
Ci siamo fermati a mangiare,
298
arrivà’ ié scrivémma, perché cuélla
vo’ ’n c’era i mezzi del talèfono.
Allora dobo sémo arpartìdi da lassù.
Finànta ch’è gido d’in giù è gido
be’, la bicighétta ’n c’era bisogna
da spedalà’, ma quanno émo pïàdo
d’in su de là d’Arcevia a veni’ d’in
su, tutta a pìa sémo venudi su io e
mi’ marìdo. Era càllo e non ce voléo
pensà’, a venì’ a spégne’ cuélla bicighétta: io era cotta como l’ansalàda
sott’acédo.
Dobo ce sémo fermadi anca cuàlche pezzo a sède’ sotta la meriggia,
po’ émo arpîàdo ’mpo’ a caminà’ e
semo riàdi finànta Arcèvia. Io cuélla
vo’ non è perché gèra tanto in giro,
coscì, quanno ho visto Arcevia ’taccàda suppe cuél monte, noà sémo
passadi sotta, mi’ marìdo me spiegàa
’mpo’, la cava de la piédra… Embè,
fino a lì è gido be’, comensàa a calà’
’l sole. E dobo émo arpïàdo d’in giù
per Arcevia, d’Arcevia e venì’ de qua
vero noà, e lì argèra be’, litta ’n c’era
manco bisogno de pedalà’, manco
da tirà’ ’l freno perché cuélla vo’ pe’
la strada ’n ce n’era tanti a impiccià’
davanti, sci c’era cuàlca gallina de
contadì’ o qualche ca’, prò le maghine ’n c’era, e la gente che gèra giuppe le strade la domenniga a sera, ce
sarà stada qualca ragazza ma non è
ch’erane ’n granché, sicché la strada
era lìbbera.
Sémo gidi be’ finché venìa d’in
giù, dobo émo arpïàdo la piana,
spedàla ’mpo’ ancó’ i chilomedri che
c’era. Boh, chissà quanti n’avrémo
abbiamo fatto il contratto, gli avremmo scritto quando dovevano arrivare,
perché quella volta non c’erano i mezzi
del telefono. Allora dopo siamo partiti
da lassù. Finché è andato in discesa,
è andato bene, in bicicletta non c’era
bisogno di pedalare, ma quando abbiamo preso la salita di là da Arcevia a
venire in su, io e mio marito siamo
venuti su (facendo) tutta la strada a
piedi. Era caldo e non ci volevo pensare
a venire su, a spingere quella bicicletta:
io ero cotta come l’insalata sott’aceto.
Dopo ci siamo fermati anche un
po’ a sedere sotto l’ombra, poi abbiamo
ripreso un po’ a camminare e siamo
arrivati fino ad Arcevia. Io, quella
volta, non è che andavo tanto in giro,
così, quando ho visto Arcevia attaccata
su per quel monte (noi siamo passati
sotto), mio marito mi spiegava un po’,
la cava di pietra… Ebbene, fino a lì
è andato bene, cominciava a calare il
sole. E dopo abbiamo ripreso in discesa
per Arcevia. D’Arcevia a venire in qua
verso noi, andava di nuovo bene: lì non
c’era nemmeno bisogno di pedalare,
neppure di tirare il freno, perché quella
volta per la strada non ce n’erano tanti
davanti ad impicciare. Sì, c’era qualche
gallina dei contadini o qualche cane,
ma le macchine non c’erano, e della
gente giù per le strade la domenica sera
ci sarà stata qualche ragazza, ma non
è che fossero in tante: sicché la strada
era libera.
Siamo andati bene finché c’era la
strada in discesa, dopo abbiamo ripreso
la pianura: pedala un po’ ancora per
299
fatti, miga ’l so. Quanno so’ gida a
casa la sera non se sentìa tanto le
pulce eh, fumma stracchi muntubè’.
Sémo gidi a dormì’.
La madina ce sémo rialsàdi, mi’
socero ha ditto: “Stamadìna c’è da
gi’ su dal contadì’, a gi’ a spianà l’ara
co’ la barèlla”. Pïàmma la barèlla,
era de legno, pesàa anca da vòdia,
figuràmoce da pîna!
Èmo spianàdo l’ara bembè’,
’ndó c’era ’l monte la mettémma
’ndó c’era la buga; émo fadigàdo
sempre uno co’ la vanga e n’antro
co’ la pala a carcà’, po’ gèmma a
scarcà’, cuél’altro arvangàa e l’altro
ar­carcàa: facémma ’n pezzo per’ò, io
e mi’ marìdo.
Tutto ’l giorno cuscì: pensàde
vuà como ce sémo riposàdi della
fadìga del giorno innanze!
(tutti quei) chilometri che c’erano! Boh,
chissà quanti ne avremo percorsi, mica
lo so. Quando sono arrivata a casa la
sera, non si sentivano tanto le pulci eh,
eravamo troppo stanchi. Siamo andati
a dormire. La mattina ci siamo alzati,
mio suocero ha detto: “Stamattina c’è
d’andare su dal contadino, a spianare
l’aia con la barella. Abbiamo preso la
barella, era di legno, pesava anche da
vuota, figuriamoci da piena!
Abbiamo spianato l’aia perbene,
(toglievamo la terra) dove c’era un rialzo e la mettevamo dove c’era una buca;
abbiamo faticato sempre, uno con la
vanga e un altro con la pala a caricare,
poi andavamo a scaricare; e di nuovo
quell’altro vangava e l’altro caricava:
io e mio marito facevamo un pezzo per
uno. Tutto il giorno così: pensate voi
come ci siamo riposati dalla fatica del
giorno prima!
I mededóri montagnòli
I mietitori montagnoli
Non ve l’ho fenìdo da di’. Allora
quanno ’sti montagnòli venìa a mède
quaggiù si’arpïàa ’mpo’, s’arpïàa, perché lì da nuà se magnàa pogo, prò
quann’èra le medidùre tante le vô,
vèro le dieci, si facéi colazió ’n po’
presto la madina, quand’era vèro le
dieci capace portàa giù ’na fetta de
pa’ co’ ’na brega de cipolla, ’no spicchio d’ajo... magnavi cuélla robba
lì... ’Na spiga d’ajo: quant’era bòna!
Si c’era ’na fettarella de lonza po’...
anche mejo! Co’ ’n acino de sale e ’n
Non ve l’ho finito di dire. Allora
quando venivano a mietere qui dalle
nostre parti, ci si riprendeva un po’, ci
si riprendeva, perché da noi si mangiava poco, però, quando era il tempo della
mietitura, spesso, verso le dieci, se si
era fatta colazione presto la mattina,
(la vergara) portava nel campo una
fetta di pane con un pezzo di cipolla,
uno spicchio d’aglio.... e si mangiava
quella roba lì. Quanto era buona una
spiga d’aglio! Se c’era una sottile fetta
300
bicchiero de vi’. Lajù, ’ndó che me
so’ sposada io, c’era ’l vi’, l’ammezzado ’n c’era! ’L vi’ era bòno!
’Sti montagnoli stèra lì ’na quindicina o venti giorni, finànta n’émma finìdo de mede. Cuéi giorni lì
se stèra ’mpo’ be’, se stèra allegri,
se cantàa, émma ’mparado a cantà’
’mpo’ a la montagnòla, nuà dicemma
“alla birbara”, ma lora cantàa accuscì, émma ’mparàdo da lora. Prò,
perché professionisti non fumma
nisciù’, io sentìa a sbela’ a lora e sbelào anch’io co’ lora. E m’è ’rmasto
’mpò de ’sta cosa de montagnola.
Quanno ch’era a giorno, la madina a colazió cocémma la zucca,
’mbè cuélla ni piacéa ’mbelpo’, perché dicéa “la zucca tocca a méttese
’l corpétto!”
Veramente lora, quando che stèra
lì da nuà, d’istade portàa i scarpù’
alti, i calzetti de lana e po’ anche ’l
corpétto la madina se mettìa. Nuà
dicemma “Que sai montagnolo?” “
’Ndó che n’ passa lo freddo, manco
lo callo”- dicìa lu’.
Era un giovano lì, gèra via tutto
vestido proprio d’invernale, nuà
tutti mezzi nudi, sai, cuélla ’olta
era callo, non se guardàa, se tiràa
su le mànnighe, scalzi, co’ cuélla
vestarella lì con cuélli poghi indumenti sotta, invece lóra gèrane ben
copèrti, avìa paura che pïàa freddo,
camicia, canottiera, giacchetta. Se
la cavàa propio sul bòno del caldo,
si no manco cuélla, si ne ’l dicemma
noaltre; se la cavàa... quando se fal-
di lonza, poi, era anche meglio! Con un
pizzico di sale e un bicchiere di vino:
laggiù, nella casa dove sono entrata da
sposata, c’era il vino, non c’era “l’ammezzato”. Il vino era buono!
I montagnoli rimanevano quindici
o venti giorni, finché non avevamo
finito di mietere. In quei giorni si
stava un po’ bene, si stava allegri, si
cantava, avevamo imparato a cantare
un po’ “alla montagnola”. Noi dicevamo
“alla birbara”, ma loro (i montagnoli)
cantavano così e noi avevamo imparato
da loro. Però non eravamo professionisti: io sentivo loro “belare” e “belavo”
anch’io con loro. E mi è rimasta un po’
di quell’aria “alla montagnola”.
Quando era giorno, la mattina a
colazione cuocevamo una zucca, però
a loro quella non piaceva molto, perché
dicevano “La zucca (rinfresca)... bisogna mettersi la giacca!”
Veramente i montagnoli, quando
lavoravano da noi d’estate, portavano
gli scarponi alti, le calze di lana e poi si
mettevano anche la giacca la mattina.
Noi dicevamo: “Che sei... montagnolo?!?” “Dove non passa il freddo, non
passa neppure il caldo” rispondeva lui.
(Questo) era un giovane, andava
vestito proprio come d’inverno, invece
noi eravamo mezzi nudi. Sai, a quel
tempo era caldo, non si guardava (alle
convenienze), ci si tirava su le maniche, scalzi, con quella veste leggera, con
quei pochi indumenti intimi; invece
loro andavano ben coperti, avevano
paura di prender freddo; (indossavano) camicia, canottiera e giacchetta:
301
ciàa, s’ardunàa i covi...
Dopo magari, quann’èra vèro le
quattro, mi’ socera dicìa: “Adesso vô
a pià’ ’n bocco’ de qualcò’”. Capace
venìa giù co’ ’n piatto granno, era
chiamada “la zuppa lombarda”: mollàa ’l pa’ co ’n goccio d’acqua e
acédo, po’ ce mettìa ’mpo’ de sale
e pepe, po’ ce mettìa giù ’mpo’ d’erbette e cuàlche pezzi de ajo grossi:
chi ’l volìa magnà’ ’l magnàa e chi ne
’l volìa magnà’ ’l buttàa via . Ma se
magnàa cuélla vo’, perchè era bòno
anche cuéllo lì, pizzigàa ’mpo’... sa ’n
c’era ’l fiado tanto odoróso quanno
se stèra vicino! A vint’ore tante le
vo’ portàa giù ’sta zuppa lombarda,
tante le vo’ compràa i limù’ cuélli lì
che se chiamàa “i limù ’da tajo” e
condìa cuélli vèro le quattro.
E po’ s’arcenàa a la sera, vèro le
ùnneci, quanno se gèra su a casa, ’n
piatto d’ansalada. Quann’èra d’istade c’era qualche ceppo d’ansalada,
prò non è come adè se se pïa ’l core
de mezzo, l’ànnima sola, cuélla ’olta
se magnàa nigò perché ce n’era
poga d’ensalada, ma ’n c’era manco
’l tempo de custodilla, era ’mpo’
brutta. Comunque se magnàa nigò:
’na brancia d’ansalada, tante le vo’
anche ’n’ovo tosto, tante le vo’ ’na
fetta de lonza, o ’na salsiccia de
cuélle sotto ’l distrutto, era lappose
che ’n se magnava prò i quìnnici o
venti giorni che se midìa, se magnàa
’mpo’ de più. La madina la zucca o
du’ padade in umido, du’ melanciane, du’ pomidori primaticci: condìi
si toglievano questa solo sul caldo più
forte perché glielo dicevamo noi; sennò
se la cavavano quando si falciava, si
radunavano i covi...
Quando erano le quattro circa, mia
suocera diceva “Adesso vado a prendere
un boccone di qualcosa”. Talvolta ritornava al campo con un piatto grande,
che era chiamata “la zuppa lombarda”:
bagnava il pane con un po’ di acqua e
aceto, poi ci metteva un pizzico di sale e
pepe, vi aggiungeva un po’ di prezzemolo e qualche pezzo grosso di aglio. Chi lo
voleva lo mangiava e chi non lo voleva
lo buttava via. Ma si mangiava anche
l’aglio in quel tempo, perché era buono
anche quello, pizzicava un po’... Sai,
non c’era il fiato tanto profumato, quando si stava vicini. A “vint’ore” (verso le
quattro) talvolta (mia suocera) portava
questa “zuppa lombarda”, altre volte
comprava i limoni che si chiamavano
“da taglio”, li condiva e ce li portava. La
sera, verso le undici, si cenava quando
si tornava a casa: un piatto d’insalata.
Quando era l’estate c’era qualche ceppo
d’insalata, però non come adesso che
si prende solo l’interno, l’anima sola; a
quel tempo si mangiava tutto, perché ce
n’era poca d’insalata, perché non c’era
il tempo di curarla, era un po’ brutta; comunque si mangiava tutto: una
foglia d’insalata, qualche volta anche
un uovo sodo, altre volte una fetta di
lonza o una salsiccia di quelle conservate nello strutto, erano aspre o rancide
e non si riusciva a mangiarle. Però in
quei quindici o venti giorni della mietitura si mangiava un po’ di più. La
302
’n pommidoro co’ la cipolla. Lì intégnéi ’l pa’, ’n piattì per ù’ quanno
c’era la gente; scinò quanno fumma
da per nuà, se magnàa tutti a ’n
trocco come i porchetti. Cuscì è
passada.
mattina la zucca o due patate in umido,
due melanzane, due pomodori ‘primaticci’ conditi con la cipolla: lì intingevi
il pane, un piatto per ciascuno, quando
c’era gente non della famiglia; sennò si
mangiava tutti ad un truogolo come i
maiali. Così è passata.
“Vint’ore” durante la mietitura in una colonia a Pianello di Ostra (coll. Gabriele Balducci).
303
Cantàsci… levài ’mpensiéro
Cantavi… levavi un pensiero
Con cuéi montagnoli, quando
ci’avéi preso ’mpo’ d’affezió era anca
simpatichi, era bravi. Quando ci’avéi
preso ’mpo’ d’affeziò, guasci guasci
quanno se ne partìa dispiacéa, perché
èrene brài, èrene bardàsci che no’
stèrene tanto ’nté la combrìccola. Prò
la sera, quanno se gera a casa da lo
faticà’ comensàa a cantà’1:
Quei montagnoli, quando ti ci eri
un po’ affezionato, erano anche simpatici, erano bravi. Ti ci affezionavi
e, quando partivano, ti dispiaceva,
perché erano bravi; erano ragazzi che
non stavano tanto nella combriccola,
però la sera, quando si tornava a
casa dopo la fatica, cominciavano a
cantare:
Quanto me piace l’aria de ’ste parte
se gode ’l paradiso giorno e notte.
Se gode ’l paradiso giorno e notte
ch’io de ’sto mondo ne godo ’na
parte.
Si gode ’l paradiso notte e giorno
io ne godo ’na parte ma de ’sto
mondo.
Quanto me piace l’aria de ’ste parte
se gode ’l paradiso giorno e notte.
Se gode ’l paradiso giorno e notte
ch’io de ’sto mondo ne godo ’na parte.
Si gode ’l paradiso notte e giorno
io ne godo ’na parte ma de ’sto
mondo.
Tutti me dice ch’io non so cantare
miga so’ stado a la scola a imparare.
Miga so’ stado a la scola a la scola
non so cantà’ perché so’ ’na fiola.
Miga so’ stada a la scola latina
non so cantà’ perché so’ piccolina.
Miga non so’ stada a la scola maestra
non so cantà’ perché la prima è
questa.
Tutti me dice ch’io non so cantare
miga so’ stado a la scola a imparare.
Miga so’ stado a la scola a la scola
non so cantà’ perché so’ ’na fiola.
Miga so’ stada a la scola latina
non so cantà’ perché so’ piccolina.
Miga non so’ stada a la scola maestra
non so cantà’ perché la prima è
questa.
Guarda che bella luna che belle stelle
questa è ’na notte da rubà’ le donne.
Ma chi ruba le donne non è chiamadi
ladri
è chiamadi giovanetti innamoradi.
Guarda che bella luna che belle stelle
questa è ’na notte da rubà’ le donne.
Ma chi ruba le donne non è
chiamadi ladri
è chiamadi giovanetti innamoradi.
1
Vedere la trascrizione musicale a p. 487
304
E po’ cuélla vò lì ’n dolìa manco le
gambe. Quanno venìi a casa la sera,
avésci voja de scherza’ perché dréndo ’l giorno ’n bicchiero d’acqua e vi’
bevéi ’mpo’ spesso, perché quanno
se falcia tante le vo’, scì le ravàra è
longhe, ogni ravàra quando gìsci da
cima mezzo bicchiero de vi’ e mezzo
d’acqua, po’ mettìi giù altri du’ o tre
bicchieri d’acqua e po’ daje a falcià’
e a sudà’. Lì se comensàa a mollà’ la
camicia a la madina a le quattro fino
a la sera alle ùnneci.
Quanno se gèra a casa ’n c’era la
doccia per fa’ eh; te dèsci ’na lavada
giù la pozza e via ’na botta ai bracci…
Cuélla vo’ già cominciàa a èsse’ ’mpo’
migliorade le cose: se falciàa basso
’l gra’, ma quando se midìa c’arcoiéi
cuélle pegorelle te spicconàa tutti i
bracci, tutte le gambe; quando la sera
te facìa sangue le gambe. Gèsci giù la
pozza, te dai ’na lavada sa cuéll’acqua
sporca, mezza tróbbeda perché, quando se medéa, le pozze comensàa a
calà’ l’acqua e ce n’era armasta poga.
Noà la tiramma su, la mettemma ’nté
’na trocca e dopo da lì l’arpîàmmma
’mpo’ chiara, perché quann’è l’istade
le pozze va arpulide no; nuà arpulèmma la pozza, c’era tutta cuélla cosa,
mi’ socero la chiamava “la lècca”, nuà
la chiamàmma “la malta”.
E po’ dopo lì ce chiappàmma le
ranocchie, perché le ranocchie, quanno avéi portado via tutta l’acqua, gèra
’nté cuélla biòbba: lì ce chiappamma
le ranocchie e po’ le magnamma:
quant’era bone! Solo che io avéo
In quelle sere non facevano male
neppure le gambe. Quando andavi a
casa avevi voglia di scherzare, perché
durante il giorno bevevi spesso un bicchiere di acqua e di vino.
Quando si falciava e le “ravare”
erano lunghe, ogni volta che si ritornava in cima si beveva mezzo bicchiere
di vino e mezzo d’acqua, ingoiavi
altri due o tre bicchieri d’acqua e poi
riprendevi a falciare e a sudare. La
camicia cominciava a bagnarsi di
sudore la mattina alle quattro fino alla
sera alle undici.
Quando si ritornava a casa non
c’era la doccia eh! Ci si dava una
lavata nella pozza, una sfregatina alle
braccia e via! Le cose a quel tempo
erano già un po’ migliorate: il grano
veniva falciato basso, ma quando si
mieteva e tu raccoglievi le “pecorelle”,
quelle ti pungevano tutte le braccia,
tutte le gambe e la sera le gambe
sanguinavano. Andavi giù la pozza
e ti davi una lavata con quell’acqua
sporca, mezzo torbida, perché al tempo
della mietitura già l’acqua cominciava
a diminuire e ce n’era rimasta poca..
Noi la tiravamo su, la mettevamo nella
“trocca” e poi la riprendevamo un po’
chiara. D’estate le pozze andavano
pulite e noi la ripulivamo: c’era tutta
quella cosa che mio suocero chiamava
‘la lecca’, noi invece la melma.
Dopo ci prendevamo le rane, perché le rane, quando avevi tolto tutta
l’acqua, andavano a rifugiarsi nella
melma: lì le prendevamo e poi le mangiavamo: quanto erano buone! Solo
305
paura de scortigàlle. Mi’ fradello mi
dicìa: “Tènele tènele!” Ma co’ ‘tènele’:
benànche era ammazzade e morte
tanto se movìa, le mettéi su la padella
ancó’ se movìa, perché la ranocchia,
ne ’l so com’è che ci’hà, non so che
sa da di’ se ci’hà cuéi muscoli che se
move... Oh, era morte e scortigàde
anco’ nel ticèllo se movìa.
Anco’ non ve l’ho finido a di’:
quann’era la sera… C’era ’sti montagnoli, se divertimma ’mpo’, se schersàa, se cantàa, magari como l’uccellì’
drendo la gabbia, sci non canta per
amor canta per rabbia. Coscì se mannàa via ’mpo’ de pensieri. Sci cantàsci
cinque minudi, levài ’mpensiero brutto, non se pensàa a como me trovào
io, a como se stèra a casa mia...
Quanno i montagnoli ìa finido la
campàgna se pagàa e argèra a casa
colla biscighétta e la falce fenàra.
Cuélla vo’ per strada podìsci portà
cuéllo che te parìa; sci vedìsci qualche cavàllo radi e qualche biscighétta. La strada era tutta deserta: cuàlca
persona caminàa a pìa tanto prima
che dobo del fronte.
che io avevo paura di scorticarle. Mio
fratello mi diceva ‘tienile, tienile!’,
ma come tenerle? Benché fossero state
uccise, da morte tuttavia si muovevano. Le mettevi in padella e ancora
si muovevano, perché la rana, non so
cosa dire, ha quei muscoli che si muovono... Oh, erano morte e scorticate che
ancora si muovevano nel tegame!
Ancora non ho finito di raccontarvi di quando era la sera... C’erano
questi montagnoli, ci divertivamo un
po’, si scherzava, si cantava, magari
come l’uccellino ch’è in gabbia: se non
canta per amor, canta per rabbia. Così
si mandava via un po’ di pensieri. Se
cantavi cinque minuti, levavi un pensiero brutto, non si pensava a come mi
trovavo io, a come (invece) si stava a
casa mia…
Quando i montagnoli avevano finito la campagna, venivano pagati e
ritornavano a casa in bicicletta e con
la falce fienaia. Quella volta per strada
potevi portare quello che ti pareva: se
vedevi qualche raro cavallo e qualche
bicicletta. La strada era tutta deserta:
qualche persona camminava a piedi
tanto prima che dopo il passaggio del
fronte.
Stèmma alla speranza de Dio
Stavamo alla speranza di Dio
Adè che c’è cascàdo ’l discorso
ve vojo ’rcontà’ ’mpo’ de la guèra e
del fronte. All’edà mia, de cuélla vo’,
uno è spensieradi, ma noà podìsci
Adesso che c’è capitato il discorso,
vi voglio raccontare un po’ della guerra
e del fronte. All’età mia, di quella volta,
uno è spensierato, ma noi potevamo
306
sta’ allègri? Du’ fradèlli non sapisci
’ndó era, sempre paura che te portàa via ’l marido, sotta ’l comànno
tedesco, i genidori non podìsci gi’ a
trovàlli: le ragazze sole era perigoloso a caminà’ tanto pe’ strada che pei
campi. Stèmma alla speranza de Dio.
Non se ’mparàa gnè, non c’era la
radio, non c’era talèfeno, non c’era
televisió’. Sci cualchidù’ compràa ’l
giornale, spargìa ’mpo’ le nodìzzie
da per tutto, scinò era como ’nté ’na
carcere. Quanno l’Italia ha deposidado l’arme, se dicìa: “È finìda la
guerra!” Scì, dobo è venudo ’l grosso
chì da noà!
forse stare allegri? Due fratelli non
si sapeva dove fossero, sempre con la
paura che ti portassero via il marito,
sotto il comando tedesco, i genitori non
potevi andarli a trovare: per le ragazze
sole era pericoloso camminare tanto
per strada quanto per campi. Stavamo
alla speranza di Dio. Non si avevano
notizie, non c’era la radio, non c’era
il telefono, non c’era la televisione. Se
alcuni compravano il giornale, diffondevano un po’ le notizie da per tutto,
se no era come in un carcere. quando
l’Italia ha deposto le armi, si diceva: “È
finita la guerra!” Sì, dopo è arrivato il
grosso qui da noi!
I volantini de l’Alléàdi
I volantini degli Alleati
Prima che ’rivàsse ’l fronte i
Alléàdi ce buttàa dei volantini co’ la
Cicogna1, ’ndó c’era scritto: “Piattàde
la robba, fade i rifùggi sotta tèra,
’mazzade le bestie come tori, porci,
videlli, pui, conìi, e po’ affumigàdela,
scattolàdela!”
Scì, cìa ’visàdo perché passàa ’l
battajóne esse esse che ce pïàa nigò.
È stado vero! Ma cuélla vo’ non c’era
surgeladóri né frigoriferi, e non c’era
mezzi pe’ scattolà’, conservà’. Sci
’mazzàsci ’na gallina, ossìa ’n gallo,
’n conìo, per fallo bastà’ più de ’na ô
’l mettémma ’nté ’na salvietta, legàdo
Prima che arrivasse il fronte, gli
Alleati ci lanciavano con la Cicogna dei
volantini, dove era scritto: “Nascondete
la roba, fate i rifugi sotto terra, ammazzate le bestie come tori, porci, vitelli, polli, conigli, e poi affumicate (la
carne), scatolatela!”
Sì, ci avevano avvisato perché passava il battaglione SS che ci prendeva
tutto quanto. È stato vero! Ma quella
volta non c’erano né surgelatori, né
frigoriferi, e non c’erano i mezzi per
scatolare, conservare. Se ammazzavi
una gallina, ossia un gallo, un coniglio,
per fallo durare per più di una volta, lo
1
Cicogna: aereo di ricognizione.
307
co’ ’na corda giù fónno del pozzo
’ntra scì e no dell’aqua, e se mantenìa tre o quattro giorni. E po’ l’ultimo
giorno, specialmente d’istàde, toccàa a magnà’ anca qualche bestiòla
sens’osso. “Va be’ - se dicìa - tanto i
denti no’ li rompe, non ci’hà l’osso!”
mettevamo in una salvietta, legato con
una corda giù nel pozzo quasi a sfiorare l’acqua, e si manteneva tre quattro
giorni. E poi, l’ultimo giorno, specialmente d’estate, toccava mangiare anche
qualche bestiola senza osso. “Va bene
– si diceva – così i denti non li rompe,
non ha l’osso!”
Foto con scenografia: anni ’30. Da sinistra: Ugo Ricciotti, Renzo Tomassoni, Ferruccio Conti (coll.
Stefano Conti).
Vèrmini, mignàtte e le gingìlie
de nonna
Vermi, mignatte e le gengive di
nonna
Adè’ che sémo sul discorso dei
denti, ve digo che a tempi arrèdo
non se podìa gi’ dal dentista. Quanno
ce dolìa i denti, c’era ’na donna
Adesso che siamo sul discorso dei
denti, vi dico che nei tempi passati non
si poteva andare dal dentista. Quando ci
facevano male i denti, c’era una donna
308
a Belvedé’ che i curàa: mettìa sul
carbó’ ’ceso ’n ticelletto d’aqua e
quanno boìa ce buttàa giù ’na robba.
Dicìa che ’mazzàa ’sti vèrmini che se
’n creàa ’nté i denti.
Dobo émo scuperto che era la
somente della cipolla e lì per lì ié
fèra be’; anche a moschiccià’ ’na
spiga d’ajo: l’andormentàa a ’ste
bestiacce. Ma quanno s’arisvejàa
rosigàa più de prima. E scì, s’èrene
riposade!
Pare da minchiù’ arcontà’ ’ste
cose, ma i dentisti era radi e po’ i
contadì’ non ce podìa gì’, era solo
pei benestà’. Quanti ce n’era a quarant’anni non cìa più ’n dente! E
campàa anca più d’ottant’ànni. Per
una era anca nonna. Tante le ô ié
mettémma ’n dédo drendo la bocca:
fèra dole ’mbelpò’, cìa le gingilie
dure muntubè’ e po’ magnàa anca
la fàa busca, e ’l pa’ volìa sempre la
gocèlla, ché la mollìga ié fèra dole’
lo stòmmigo.
Era grassa e róscia como ’na
rosa, solo che l’ultimi anni non ié ce
fèra più le gambe, caminàa co’ du’
bastó’ e ié toccàa a mette’ le mignatte pe’ sciugà’ ’l sangue. Se compràa
da lo spizzià’, era nere como i lumagotti. Le ’taccàa ’nté ’l collo e cuélle
tiràa finanta n’era pîne be’ e dobo
se buttàa via. Sarà stada la pressió’
alta, ma cuélla vo’ non c’era tutte
’ste servidù che c’è adè’ e se gera
annànse luscì.
Scusade qualche sbajo, ma a
scrìve’ in dialetto è ’mpo’ fadiga, e
a Belvedere che li curava: metteva sui
carboni accesi un tegamino d’acqua e,
quando (questa) bolliva, ci buttava dentro una roba. Diceva che ammazzava i
vermi che si erano generati nei denti.
In seguito abbiamo scoperto che
(quella roba) era il seme della cipolla e,
sul momento, faceva bene; (faceva bene)
anche mordicchiare una spiga d’aglio: le
addormentava quelle bestiacce. Quando
si svegliavano, però, rosicavano più di
prima. E sì, si erano riposate!
Pare da minchioni raccontare queste
cose, ma i dentisti erano rari e poi i
contadini non ci potevano andare: (i
dentisti) erano soltanto per i benestanti.
Quanti, a quarant’anni, non avevano
più un dente! E campavano anche più
di ottant’anni.
Una di queste (persone) era nonna.
Qualche volta le mettevamo un dito dentro la bocca; faceva molto male, aveva
le gengive molto dure e, poi, mangiava
anche la fava abbrustolita e del pane
voleva sempre la crosta, perché la mollica le faceva male allo stomaco. Era
grassa e rossa come una rosa, soltanto
negli ultimi anni non la sorreggevano più le gambe, camminava con due
bastoni e doveva mettersi le mignatte,
per togliere il sangue. (Le mignatte) si
compravano dallo speziale, erano nere
come i lumaconi. Le attaccava nel collo e
quelle succhiavano fino a che non erano
piene e dopo venivano buttate via. Sarà
stata la pressione alta, ma quella volta
non c’erano tutte queste schiavitù che ci
sono oggi e si andava avanti così.
Scusate qualche sbaglio, ma a scrive309
po’ tanto in tanto me pïa da fa’ ’na
pennighella, e dobo m’accorgio che
vo’ anca fòri riga, che la maestra mia
ce tenìa tanto. A Nadale mamma ce
fèra scrìve’ ’na letterina anca alla
maestra per li augùri, e m’ha risposto con tanti ringraziamenti dicendo
che la letterina non c’era nemmeno
uno sbajo.
Ma adè’ me so’ scorretta ’nté nigò,
le ma’ comènsa a tremà’, la zòcca se
’nceppa... ma sarà la gioventù!
re in dialetto è un po’ faticoso e poi, di
tanto in tanto, mi va di fare una pennichella, e dopo mi accorgo che vado anche
fuori riga, perché la maestra ci teneva
tanto. A Natale mamma ci faceva scrivere una letterina anche alla maestra per
gli auguri e (la maestra) mi ha risposto
con tanti ringraziamenti dicendo che
nella letterina non c’era neppure uno
sbaglio.
Ma adesso mi sono scorretta in tutto,
la mano comincia a tremare, la zucca
s’inceppa… ma sarà la gioventù!
Era tutta libertà pe’ lóra
Era tutta libertà per loro
È mejo lassà’ pèrde’ e artórno al
discorso de prima. Ha comensàdo a
passà’ ’l fronte chì da noà: prima i
Tedeschi. Facìa i rastrellamenti, portàa via le vacche, le pegore, i pui, l’ôi,
’l vi’ e po’ nigò, cuéllo ch’era bòno da
magnà’. E non podìsci fa’ resistenza,
scinò te sparàa, ansi toccàa a faje
bocca da ride’. Era tutta libertà per
lóra, ma a cuéi tempi tutti podìa gi’
’nté le case a pïà’ la robba, Tedeschi,
fascisti, comunisti, cuélli de Salò;
a dilla chiara comannàa tutti e co’
l’arme te sottomettìa, anca ’l più
superbo.
Le donne sempre rinchiuse,
podìa fa’ tutti cuéllo che volìa: boccàa drendo casa sensa domannà’ ‘se
pôle?’, drendo la càmbora, anca sci
stésci sul letto.
Sparàa bombe a ma’, co’ ’l
È meglio lasciar perdere e ritorno
al discorso di prima. Il fronte è cominciato a passare qui da noi: per primi
i Tedeschi. Facevano i rastrellamenti,
portavano via le vacche, le pecore, i polli,
le uova, il vino, tutto quanto era buono
da mangiare. E non potevi fare resistenza, se no ti sparavano, anzi bisognava
far loro bocca da ridere. Era tutta libertà
per loro, ma a quei tempi tutti potevano
andare nelle case a prendere la roba,
Tedeschi, fascisti, comunisti, quelli di
Salò; a parlare chiaramente comandavano tutti e con le armi ti sottomettevano, anche il più superbo.
Le donne (dovevano stare) sempre
rinchiuse, potevano fare tutti quello che
volevano: entravano dentro casa senza
domandare “si può?”; (entravano) dentro la camera, anche se stavi a letto.
Sparavano bombe a mano, con il
310
moschetto; volìa sapé’ sci c’era l’òmmini. Se sentìa cannonàde da per
tutto, ’gni giorno se ’mparàa ch’era
morto cualchidù’, portàa via le
famèje sane, dai vecchi ai monèlli.
Po’, ’nté la contradia nostra ìa
’mazzado ’n tedesco, giù pìa del
fosso del Traponzo: vedi ’mpo’ i
Tedeschi co’ ha fatto? Ha fatto ’n
rastrellamento, se l’ha presi tutti a
pìa, dovìa partì’ tutti, l’ha carcàdi…
’na pulizia tutte le faméje. Noà lì
casa nostra fumma venticinque ’nté
la stalla: fortuna che da noà ’n c’è
passàdi; c’era donne, monèlli piccoli,
una che se dovìa sgravà’, era ’n disastro. Stèmma tutti lì dendro la stalla
perché ancó’ ’l fronte era proprio su
pe’ ’l chiòppo che passàa. L’ha portàdi tutti là, fino là vèro Monteràdo,
a pìa, l’ha fatti caminà’ tutti e co’ i
moschetti puntàdi diedro e avanti e
lì no’ sgappàa via nisciù’ sa. Pôretti,
i’hà toccàdo a gi’ là, tutti sitti. Capàce
ié dicìa “Metteteve in pìa”, era da sta’
in pìa; dicìa “Mettéteve a sède’ ”,
dovìsci méttete a sède’. E lì no’ se
schersàa coi Tedeschi eh! Li dovéi
guardà’ be’ e rispettàlli, perché scinó
te la facéa la buccia.
Dobo una, pôretta, da quanto ìa
paura s’è ’mmattìda, sgaggiàa no: era
’na giovana armàsta. Sa, lìa, pôretta,
dei’òmmini ’n volìa sapé’ gnè, envéce du’ tre tedeschi ìa datto fastidio.
Sicché s’era ’mmattida e allora i
Tedeschi n’ha legàda lì ’l letto, scinó
cuélla facìa casino! Dobo passàdo
’mpo’ de tempo le sorelle, che ce
moschetto; volevano sapere se c’erano gli uomini. Si sentivano ovunque
cannonate, ogni giorno si apprendeva
che era morto qualcuno, portavano via
famiglie intere: dai vecchi ai bambini.
Poi, nella contrada nostra avevano
ucciso un tedesco, giù in fondo al fosso
del Triponzio: vedi un po’ cosa hanno
fatto i Tedeschi? Hanno fatto un rastrellamento, l’hanno presi tutti, a piedi, li
hanno caricati… una pulizia in tutte
le famiglie. A casa noi eravamo venticinque nella stalla: per fortuna non ci
sono passati; c’erano donne, bambini
piccoli, una che doveva partorire, era
un disastro. Stavamo tutti lì, dentro la
stalla, perché ancora il passaggio del
fronte era proprio sul colmo.
Li hanno portati tutti là, fino verso
Monterado, a piedi, li hanno fatti camminare tutti e con i moschetti puntati
dietro e avanti e lì non scappava nessuno, sa! Poveretti, hanno dovuto andare
là, tutti zitti. Capitava che gli dicessero
“Mettetevi in piedi!”, dovevano stare in
piedi; dicevano “Mettetevi a sedere!”
e dovevi metterti a sedere. E non si
scherzava con i Tedeschi, eh! Li dovevi
guardare bene e rispettarli, perché, se
no, ti facevano la pelle.
Dopo una (donna), poveretta, da
quanto aveva paura si è ammattita,
urlava: era una giovane rimasta (non
sposata). Sa, lei, poveretta, degli uomini non voleva sapere niente, invece
due tre tedeschi le hanno dato fastidio. Sicché si è ammattita e allora i
Tedeschi l’hanno legata lì sul letto, se no
quella faceva casino! Un po’ di tempo
311
n’avìa altre du’ tre, l’ha troàda morta,
ligàda ’nté ’l letto, che da già puzzàa.
L’ha presa, ì’hà toccàdo a sotterràlla
lì vicino casa: ha fatto ’na buga, l’ha
’nvuricchiada ’nté ’n linsòlo e l’ha
’rcupèrta lì, perché non se podìa
portà’ al camposanto... con cuélle
brugnole che tiràa!
Ce ne sarìa tante d’arcontà’, se
pïa chì se salta là, ’gni vòlta te ne
vène arpensàda una! C’era uno de
fronte da noà, quanno ch’è ’rivàdi
i’Alleàdi, che ha ditto: “Eeeh, è
’rivàdi i Inglesi, tutti omenóni alti
grossi. Cuélli adè ce lìbbera”. E n’ha
’ntéso i Tedeschi! I’hà ditto ‘badile’,
‘vanga’... Loro ’l dicìa a modo de
lóra. I’hà fatto fa’ ’na bella buga
lónga, perché questo che dicìa era
’na persóna alta, e po’ i’hà sparàdo
lì sull’orèllo della buga e via l’ha
buttàdo dendro e lì l’ha lassàdo scopèrto. Pôri fjòli, la móje a piàgne’
cuélli che c’era a casa, perché i fjòli
a casa c’era solo cuélli sotta i quindici’ànni, perché cuel’àltri era belle
che partìdi tutti. A piàgne’ se sentìa
là casa nostra, pôretti: ìa ’mazzàdo ’l
marìdo, ìa ’mazzàdo ’l padre!
Cuélla vo’ non dovìsci parlà’
tanto, eh! ’Gni vento che tiràa dovéi
cambià’! Sci c’era i Tedeschi, dovéi
volé’ be’ ai Tedeschi, scì c’era i
partigiani, dovéi rispettà’ i comunisti partigiani e sci c’era i fascisti
dovéi rispettà’ i fascisti. E lì toccàa
a voltasse sempre faccia como le
medàje.
dopo le sorelle, perché ne aveva altre due
tre, l’hanno trovata morta, legata nel
letto che già puzzava. L’hanno presa e
hanno dovuta sotterrarla lì vicino casa:
hanno scavato una buca, l’hanno avvolta in un lenzuolo e l’hanno ricoperta lì,
perché non la si poteva portare al camposanto… con quelle susine (pallottole)
che tiravano.
Ce ne sarebbero tante da raccontare,
si prende qui e si salta là, ogni volta te
ne viene pensata una! C’era di fronte
a noi, quando sono arrivati gli Alleati,
un (uomo) che ha detto: “Eeeh, sono
arrivati gli Inglesi, tutti uomini alti
e grossi. Quelli adesso ci liberano!” E
non hanno inteso i Tedeschi! Gli hanno
detto: ‘badile’, ‘vanga’… Loro lo dicevano a modo loro. Gli hanno fatto scavare
una buca lunga, perché quello che aveva
parlato era una persona alta, e poi gli
hanno sparato lì sull’orlo della buca e
via… l’hanno buttato dentro e lì l’hanno
lasciato scoperto. Poveri figli, la moglie
a piangere! (I figli) quelli che erano a
casa, perché i ragazzi a casa c’erano
solo quelli sotto i quindici anni, perché
quegli altri erano quasi partiti tutti. Si
sentiva piangere là a casa nostra, poveretti: le avevano ammazzato il marito,
gli avevano ammazzato il padre!
Quella volta non dovevi parlare
tanto, eh! Ogni vento che tirava dovevi
cambiare! Se c’erano i Tedeschi, dovevi
voler bene ai Tedeschi, se c’erano i partigiani, dovevi rispettare i comunisti
partigiani e se c’erano i fascisti dovevi
rispettare i fascisti. E lì toccava voltare
sempre faccia come le medaglie.
312
La spagnòla e Santa Maria
Appara
La spagnola e Santa Maria
Appara
Era guasi como cuéll’anno della
spagnòla.
Arcontàa mamma e nonna che ne
morìa quattro cinque al giorno ’nté
la contradia nostra; non podìa fàje
mango la cassa, li invuricchiàa con
ninsòlo e drendo al letto del biroccio. Non chiamàa mango ’l carettó’,
mango ’l prede.
E po’ non m’arcòrdo sci l’ho
’rcontàdo: vicino al paese c’era una
che cìa ’na robba de disinfettante: te
’l mettìa ’nté ’l fazzoletto e te dovìsci
legà’ ’l fazzoletto davanti al naso e
la bocca, pe’ no’ slargà’ ’sta pesta.
Questo quante le ô ce l’arcontàa!
Era quasi come quell’anno della spagnola. Raccontavano mamma e nonna
che ne morivano quattro o cinque al
giorno nella nostra contrada; non potevano nemmeno fargli la cassa, li avvolgevano con un lenzuolo e (deponevano il
morto) nel letto del biroccio. Non chiamavano neppure il carrettone, neppure
il prete.
E poi, non me lo ricordo se ve
l’ho raccontato: vicino al paese c’era
una (donna) che aveva una roba come
disinfettante: te la metteva nel fazzoletto e tu dovevi legare il fazzoletto davanti
al naso e la bocca, per non diffondere
questa pestilenza. Quante volte ce lo
Chiesetta di Santa Maria Appara in un particolare del quadro “La peste, San Gaudenzio e Santa
Maria Apparve”, eseguito nel 1657 da Francesco Carsidoni e conservato nella sala consiliare del
Municipio di Ostra (foto D. Ubaldi).
313
Morìa più de ’sta pesta che cuélli al
fronte.
E dopo hanne ditto che hanne
fatto ’sti sopravissudi col prede un
pellegrinaggio a Santa Maria Appara,
la chiamàa coscì l’innalfabèti! E ’ sta
Madonnina ha fermado ’sta pèsta; c’è
scritto anca sopra al quadro “peste
e tremòdo”. E da lì i più credenti,
sempre più follàdi, se trovàa presente a ’gni piccola festa; anca “anno
vecchio - anno nòvo” c’è ’na piccola
funzió’ como cuélla de la prima guèrra. E noà a pìa, non se mangàa mae.
Pensàde quanti chilometri da San
Bona­ventura!
raccontava! Morivano più (persone) per
questa pestilenza che quelli al fronte.
Dopo hanno detto che i sopravvissuti hanno fatto con il prete un pellegrinaggio a Santa Maria Appara: la
chiamavano così gli analfabeti! E questa Madonnina ha fermato questa pestilenza; c’è scritto anche sopra al quadro
“peste e terremoto”. E da quel fatto i
più credenti, sempre più numerosi, vi
si trovavano presenti ad ogni piccola
festa; anche ad “anno vecchio – anno
nuovo” c’è una piccola funzione, come
quella della prima guerra. E noi, a
piedi, non si mancava mai. Pensate
quanti chilometri da San Bonaventura!
Co’ la coda ’n tra le gambe!
Con la coda tra le gambe!
Che disastro ch’è stado! A
Montalbò’ pure quanti n’ha ’mazzadi! M’arcòrdo che dicéa: “Oggi ha’
’mazzàdo a cuéllo, oggi ha ’mazzàdo
a cuél’altro. Là fòr de pòrta, quanno c’ha ’mazzàdo cuéi partigiani...
noà conoscémma a tutti! Dicìa che
li portàa via co’ la cariòla, perché
cuélla vo’ ’n c’era manco ’l carettó’
da morto. La gente tutta avìa paura,
’n ce gèra nisciù’, li portàa via co’ la
cariòla!
Dicìa: “Oggi ha ’mazzàdo ’n fascista! Oggi ha mazzàdo ’n tedesco,
oggi ha ’mazzàdo ’n partigià’ ”. Là
n’ha ’mazzadi parecchi, pôrétti, i
partigiani: ancó’ c’è ’l monumento scritto là. Anca cuél pôro Pet­
Che disastro c’è stato! Pure a
Montalboddo quanti ne hanno ammazzati! Mi ricordo che diceva: “Oggi hanno
ammazzato quello, oggi hanno ammazzato quell’altro”. Là, fuori di porta,
quando hanno ammazzato quei partigiani… noi conoscevamo tutti! Si diceva che li portavano via con la carriola,
perché quella volta non c’era nemmeno
il carrettone da morto. Tutta la gente
aveva paura, non ci andava nessuno
(all’accompagno), li portavano via con
la carriola!
Dicevano: “Oggi hanno ammazzato
un fascista! Oggi hanno ammazzato
un tedesco, oggi hanno ammazzato un
partigiano”. Là, ne hanno ammazzati
parecchi di partigiani, poveretti: anco314
tenelli... sarà stado ’l partido sua
ma n’era tristo!
Tutti i giorni se sentìa a di’. Noà a
Montalbòdo ce se gèra pogo, ma ’na
vo’ che sgappàvi n’amparài parecchie. Sci dovìsci gi’ a fa’ cualcò’ sul
municipio, ce gèsci, facésci le cose
che dovésci fa’ e po’ via sgappàsci
via sùbbedo perché n’era tempo da
sta’ tanto in giro le donne.
L’òmmini era brutta perché te li
portàa via, ma le donne pure n’era
tanta bella. Sci eri una ’mpo’ vecchiétta, embè... tanto e quanto, ma
sci era una ’mpo’ giovana toccàa
a sta’ tènti, sa toccàa, non giuàa
manco a caminà’ a testa bassa.
M’arcòrdo anca ’na sorella mia,
ch’era sposàda, cìa ’na monelletta
piccola ch’era tanta bellina, te lìa
presa ’n polacco. Dicìa:” Questa
è mia la bambina, questa è mia.
A la mamma vène via con me!” ’L
marìdo dicìa: “Eh scì, questa è mi’
móje!” Eh, ié toccàa a sta’ sitto. “Io
portare via signora e bambina!” Eh
scì, ’l marìdo l’ha pïàdo co’ le bòne e
dobo i’ha regalàdo ’n sacco de roba.
Infine l’ha lassàda ma... Mi’ sorella
s’era messa a piàgne... I Polacchi
pure sa, sci li pïài be’, gèra be’, ma
sci li pïài non tanto be’, anca cuélli...
miga c’era da scherzà’ ’mbelpo’!
Dobo quanno che c’era ’sti partigiani, ’sti comunisti, gèsci in giro
mi’ marìdo toccàa a sta’ tenti ’mbelpo’. A me me piacéa a gi’ via insieme, me piacìa continuà a fa’ la
cóppia como fèmma quann’era in
ra là c’è il monumento con una scritta. Anche quel povero Pettinelli… sarà
stato (il fascismo) il partito suo, ma
non era cattivo!
Tutti i giorni si sentiva dire (qualcosa) . Noi a Montalboddo ci si andava poco, ma una volta che uscivi ne
imparavi parecchie. Se dovevi andare a
fare qualcosa sul municipio, ci andavi,
facevi le cose che dovevi fare e poi scappavi via subito, perché per le donne non
erano tempi da stare tanto in giro. Per
gli uomini era brutta perché te li portavano via, ma per le donne pure non
era tanto bella. Se eri un po’ vecchietta
beh… tanto e quanto, ma se eri un po’
giovane toccava a stare attenti, non giovava neppure camminare a testa bassa.
Mi ricordo anche che un polacco aveva
preso una sorella mia, che era sposata
e aveva una bambinetta piccola tanto
bellina. Diceva (il polacco): “Questa è la
bambina mia, questa è mia. La mamma
viene con me!” Il marito diceva: “Eh sì,
questa è mia moglie!” Eh, gli toccava
stare zitto. “Io portare via signora e
bambina!” Eh sì: il marito l’ha preso
con le buone e dopo (il polacco) gli ha
regalato un sacco di roba. Infine l’ha
lasciata, ma… Mia sorella si era messa
a piangere… I Polacchi pure, sa, se li
prendevi bene, andava bene, ma se li
prendevi non tanto bene, anche quelli…
mica c’era da scherzare tanto!
Dopo, quando c’erano i partigiani,
i comunisti, andavi in giro, ma a mio
marito toccava a stare molto attento.
A me piaceva andare via insieme, mi
piaceva continuare a fare la coppia
315
licenza, ma toccàa a sta’ tenti: sci
vedìi a cuàlchidù’, gìsci su a pìa
a Montalbòdo, toccàa a fermàsse
diedro a ’n greppo, buttàsse giù ,
fermi sitti, finché n’era passàdi. I
fascisti passàa coi camion e cantàa
“Giovinezza”, i comunisti “Bandiera
róscia”, toccàa a sta’ più calmi perché cuélli erane ’mpo’ meno...
Era tutta gente che sparàa, miga
scherzàa! Dovìsci fa’ como i mudi e
badà’ a caminà’ como fa’ i ca’: co’ la
códa ’n tra le gambe!
come facevamo quando veniva in licenza, ma toccava a stare attenti: se vedevi
qualcuno, quando andavi a piedi a
Montalboddo, toccava fermarsi dietro
a un greppo, buttarsi a terra, (restare)
fermi, zitti, finché non erano passati. I fascisti passavano con i camion
e cantavano “Giovinezza”, i comunisti “Bandiera rossa”: toccava a stare
più calmi, perché quelli erano un po’
meno… Era tutta gente che sparava,
mica scherzava! Dovevi fare come i
muti e badare a camminare come fanno
i cani: con la coda fra le gambe!
Lajù casa nostra
Laggiù casa nostra
Lajù casa nostra, como dagià
v’ho ditto, drendo la stalla fumma
25: vecchi, donne e monelli. Fumma
’nté ’na buga, la casa non se vedìa,
ma le cannonade ce cascàa listésso.
Capiréde, ’ntorno casa nostra c’era
’mpostadi 16 cannù’, ìa fatto tutte
buge, per métte’ anca le mitrajatrice. Quanno sparàa tutti, ce fèra
tené’ le finè’ tutte spalangàde, ’l
comò e l’armario ’mmezzo a la càmbora, perché scinó… quando tiràa
’ste cannonade, tutte ’na ’olta tiràa,
vèro là Monterado tiràa, sballàa giù
le finestre, spaccàa i vedri. Rivàa
schegge da tutte le parte.
Pensàde vuà, io ìo sposàdo
cuéll’anno, a véde tutta cuélla robba
sottosopra. La robba de la dòda mia
’mpo’ l’émma piàttada sull’àrbori;
Laggiù casa nostra, come già vi
ho detto, dentro la stalla eravamo in
venticinque: vecchi, monelli e donne.
Eravamo in una buca, la casa non si
vedeva, ma le cannonate ci cascavano ugualmente. Capirete, intorno casa
nostra c’erano impostati sedici cannoni, avevano fatto tutte buche, per
mettere anche le mitragliatrici. Quando
sparavano tutti, ci facevano tenere le
finestre spalancate, il comò e l’armadio in mezzo alla camera, perché se
no… quando tiravano quelle cannonate,
tiravano tutte in una volta verso Mon­
terado, si scardinavano le finestre, si
spaccavano i vetri. Arrivavano schegge
da tutte le parti.
Pensate voi, io avevo sposato in
quell’anno, a vedere tutta quella roba
sottosopra. La roba della mia dote l’ave316
c’era l’àrbori tutti infrascàdi, dentro la croce dell’arboro mettemma
cuélle robbe ’mpo’ più piccole. Po’
émma fàtto ’na buga sotto tèra,
ma perché sotto tèra la robba se
rovinàa eh! Dobo, quanno che c’era
l’Alleadi lassàa le cassette de fèro
lì, allora la robba se mettìa anca lì
drendo.
I Tedeschi - dicemma ’l battajóne
delle SS - ’ndó passàa lóra portàa
via nigò. Noà le vacche l’émma
piattade là ’l campo, due de qua due
de là, dendro i cavalletti: fèmma ’l
contorno coi covi, ce fémma como
de fòri, po’ li coprémma sopra e lì
ce mettemma le vacche drendo, ’n
mezzo. Po’ che facìa cuélle vacche?
Cuélle vacche, sci gné portavi da
be’ radàa, se facéa sentì’ da lóngo.
Da magnà’ ce lìa, se mettìa a magnà’
’l gra’ ’nté i cavalletti, ’nté i còvi, la
paja... ’L magnà’ ne ’l cercàa, ma
quanno volìa be’, toccàa portaje da
be’ scinò cominciàa a radà’ forte.
Quale ’nté i cavalletti piattàde,
quale giuppe ’l fosso (c’émma ’n
fosso grànno ’mbelpo’, po’ sotta
cuélle piante coperte lì, émma fatto
’no recinto, pe’ no’ fàlle sgappà’ le
legàmma ’nté le piante) l’émo salvàde tutte. Tante le ô se vedìa cuélle
bestie a cùre giuppe i campi, ché
ié sgappàa via a la gente, anca ai
Tedeschi: capàce che le rubbàa, ié
sgappàa via. ’Gni tanto vidìsci fujà’
via ’n porchetto, ’na vacca, ’n vidèllo, se vedìa gi’ de galoppo giuppe
’sti campi cuélle bestie...
vamo nascosta un po’ sugli alberi; c’erano gli alberi ben coperti dalle foglie,
dentro la croce dell’albero mettevamo
quelle robe un po’ più piccole. Poi avevamo fatto una buca sotto terra, ma
sotto terra la roba si rovinava eh! Dopo,
quando gli Alleati hanno lasciavano
le cassette di ferro lì, allora la roba si
metteva anche lì dentro.
I Tedeschi, - dicevamo “Il battaglione SS” – dove passavano loro, portavano
via tutto quanto. Noi avevamo nascosto
le vacche nel campo, due di qua e due
di là, dentro i ‘cavalletti’: facevamo il
recinto con i covi, ci facevamo come dei
fori, poi lo coprivamo sopra e lì dentro ci mettevamo le vacche, in mezzo.
Poi, che facevano quelle vacche? Quelle
vacche, se non gli portavi da bere, muggivano, si facevano sentire da lontano.
Da mangiare ce l’avevano, si mettevano
a mangiare il grano nei cavalletti, nei
covi, la paglia… Il mangiare non lo
cercavano, ma quando volevano bere,
bisognava portarglielo, se no cominciavano a muggire forte. (Le bestie) quali
nascoste nei cavalletti, quali giù per il
fosso (avevamo un fosso molto grande,
poi sotto quelle piante piene di fogliame
avevamo fatto un recinto, per non farle
scappare le legavamo alle piante), le
abbiamo salvate tutte. Spesso si vedevano quelle bestie correre giù per i campi,
perché scappavano via alla gente, anche
ai Tedeschi: può darsi che le rubavano
e gli scappavano via. Ogni tanto vedevi
scappare via un porco, una vacca, un
vitello, si vedevano quelle bestie andare
al galoppo giù per i campi…
317
Passàdo ’sto fronte, noà como
vacche ’n ce l’ha portàde via, manco
’l vi’ ’nté la cantina. C’è boccàdi
drendo casa scì, ìa guardàdo dappertutto, ha ispezionado pe’ vede’
si c’era cualcò’ perché cuélla vo’
c’era anca i partigiani che gèra ’nté
le case, stèra lì, magnàa e bevìa,
de notte gèrene a pïà’ la robba dai
signori e po’ la magnàa a casa dei
contadì’ ’ndò era ’mpo’… Giù da
noà c’è venùdi, n’ha troàdo gnènte, nisciù’, è partidi, ’n ci’hà fatto i
dispetti i Tedeschi. Scì, ci’avéa fatto
tutte trincèe ’tónno casa, ci dicìa
che noà n’émma d’avé’ paura perché... lóra ci’avéa i cannù’, le mitrajatrici… Fumma... cosàdi da tutte le
parte: sci vidìi c’era sedici cannù’!
Sparàa da tutte le parte. E allora
dobo cascàa anca lì certe bombe,
certe bughe como le pózze, tajàa le
rame dell’olmi ’ndó chiappàa cuélle
schegge, rame grosse che momenti
gnié la facéi a ’bbracciàlle co’ le ma’:
ièla facéa a tajàlle. Pensade vuà sci
pïàa addosso a ’na persona!
Noà, quanno sentémma cuélle bòtte se gobbàmma giù... Scì,
capirai!, facéa cualcò’ gobbàtte giù:
miga te rendéi conto, cuéllo che
podìa èsse’ stado. Ce sémo salvàdi
pe’ miràcolo, perché stèmma cólchi giùppe i fòssi. A la notte mi’
marìdo (lu’ se n’antendìa ’mpo’)
dicéa: “Boccàmo ’mpo’ drendo ’sto
fosso fónno, ché chì tanto sémo
’mpo’ meno scopèrti!” Ma sci ce
cascàa ’na bomba lì vicino te coprìa
Passato il fronte, a noi le vacche
non ce l’hanno portate via, nemmeno il
vino della cantina. (I Tedeschi) ci sono
entrati sì dentro casa, hanno guardato dappertutto, hanno ispezionato per
vedere se c’era qualcosa, perché in quel
tempo c’erano anche i partigiani che
andavano nelle case; stavano lì, mangiavano e bevevano, di notte andavano
a prendere la roba dai signori e poi la
mangiavano a casa dei contadini, dove
era un po’… Giù da noi i Tedeschi ci
sono venuti, non hanno trovato niente,
nessuno; sono partiti, non ci hanno
fatto i dispetti. Sì, ci avevano fatto tutte
trincee attorno casa, ci dicevano che noi
non dovevamo aver paura perché… loro
avevano i cannoni, le mitragliatrici…
Eravamo cosati (protetti) da tutte le
parti: se vedevi c’erano sedici cannoni!
Sparavano da tutte le parti. E allora,
dopo, cascavano anche lì certe bombe,
certe buche come le ‘pozze’, dove prendevano quelle schegge tagliavano i rami
degli olmi, rami grossi che quasi non
gliela facevi ad abbracciarle con la
mano: riuscivano a tagliarli. Pensate
voi se prendevano addosso ad una persona! Noi, quando sentivamo quegli
scoppi ci abbassavamo giù… Sì, capirai, aveva qualche risultato chinarti
giù: mica ti rendevi conto di quello che
poteva essere stato. Ci siamo salvati per
miracolo, perché stavamo sdraiati giù
per i fossi. La notte mio marito (lui se
ne intendeva un po’) diceva: “Entriamo
un po’ dentro questo fosso profondo,
perché qui siamo un po’ meno scoperti!”
Ma se fosse cascata una bomba lì vici318
giù e ’n t’artroàa manco ’l deàolo là
drendo!
Era fossi fóndi e po’ de notte ce
podèsse stàdi ràgani, bisce perché
tutto sull’istàde s’è svolto ’l fronte. Ce podèsse stàde chissà quante
bestiàcce. Stèmma lì sotta, sentémma passà’ cuélle bombe sopra, che
paréa i cariòli: gèra via caminàa e
po’ sentémma... baan! Spaccàa ’ndó
che cascàa, sentéi ’l chiòppo, vedéi
’na sfumàda de fôgo. Stèsci lì tutto
grucciàdo, sempre per paura che te
cascàa addosso. Quanti giorni brutti s’è passàdi!
Quanno se gèra a fa’ la fòja vedéi
su cuéll’olmi cuélle rame tajàde,
c’era le schegge ’nfilsàde lì: pensàde
’mpo’ sci pïàa addosso a ’na persona, addosso alle bestie... Quante ce
n’è stadi rovinàdi, bestie e cristiani
a tempo de guèra: che disastro ch’è
stàdo!
no, ti avrebbe coperto e non ti avrebbe
ritrovato nemmeno il diavolo lì dentro!
Erano fossi profondi e poi, di notte,
ci potevano essere ragani, bisce, perché
tutto (il passaggio) del fronte si è svolto
d’estate. Ci potrebbero essere state chissà quante bestiacce! Stavamo lì sotto,
sentivamo passarci sopra quelle bombe
che parevano i carrioli: andavano via,
camminavano e poi sentivamo… baan!
Dove cadevano spaccavano, sentivi lo
scoppio, vedevi una fumata di fuoco.
Stavi lì, tutto rannicchiato, sempre per
paura che te ne cadesse una addosso.
Quanti giorni brutti abbiamo passato!
Quando si andava a fare la foglia, vedevi su quegli olmi quei rami tagliati,
c’erano le schegge infilzate lì: pensate
un po’ se prendevano addosso ad una
persona, addosso alle bestie… Quanti
sono rimasti rovinati, bestie e cristiani, al tempo di guerra: è stato un gran
disastro!
Gente de tutte le razze
Gente di tutte le qualità
Cuélla vo’ l’òmmini non podìa
scappà’ in giro ché li chiappàa per
fa’ le buge. Le donne se salvàa le
ottantenne.
Non podìsci gi’ in giro, perché
c’era de tutte le razze: c’era i partigiani che gèrene a passà’ ’nté i
campi, i fascisti comannàa ’mpo’
de più passàa per le strade co’ le
camionétte, i Tedeschi cìa più cavalli che mezzi, ’na passàda era como
In quel periodo gli uomini non potevano andare in giro, perché li prendevano per fare le buche. Delle donne si
salvavano le ottantenni.
Non potevi andare in giro, perché
ce n’erano di tutte le qualità: c’erano i
partigiani che andavano a passare per
i campi, i fascisti comandavano un
po’ di più passavano per le strade con
le camionette, i Tedeschi avevano più
cavalli che mezzi; per un certo periodo
319
dice ’n vecchio dittado: “ Chi s’alza
prima comanna!”. E cuélla vo’ era
luscì.
A ’rpensàcce, sci uno c’êsse d’arpassà’ n’antra ô, è mejo a morì’: a
’rcontàallo non pare vero! Vedìsci
giù pei campi le vacche, le pegore,
i porci fujàa spaentàdi dalle cannonàde, le mine. Quanno gìsci ó pe
’l campo; a cuéi tempi, toccàa a sta’
’tenti: sci vidìi ’n mucchietto de tèra,
miga se podìsci gi’ vicino, toccàa a
dillo a lóra, a cuélli lì, cuéi polacchi. Perché sa co’ facéa i Tedeschi?
Facéa’na buga, ce mettéa la mina e
po’ la coprìa co’ la tèra.
Sci vedìsci la terra smossa, podéi
pensà’ ch’era stado ’n topo e, a
volte, se gèra a véde’, capace era
stado ’n topo, prò pe’ la paura se
chiamàa sempre a lóra. Facéa como
’l topo che ruma sotta tèra e fa cuélle mucchie de tèra, sopra. Le coprìa
luscì le mine. ’Ndo ch’era passàdi i
Tedeschi: avéa minàdo nigò, avéa
minado i pónte, avéa minàdo le strade, avìa minàdo i campi... Toccàa a
sta’ ’ttenti ’mbelpo’.
Quanti ce n’è capidàdi pôretti! Io conoscéo uno vicino casa
mia, porànnima, gèra a casa da
la Messa, ’n fjòlo da sedici diciassett’anni, non s’antendìa no! I granni
’l sapìa com’èra i proiettili, com’èra
cuéllo com’èra cuél’àltro, ma cuéi
fjòli luscì non era aspèrti no, n’era
gidi mae da nisciuna parte, ’n sapìa
com’èra fatti i proiettili, com’èra
fatte le bombe. Cuéllo, porannima,
era come dice un vecchio proverbio:
“Chi si alza per primo comanda!” E
quella volta era così. A ripensarci, se
uno ci dovesse ripassare un’altra volta,
è meglio morire: a raccontarlo non pare
vero! Vedevi giù per i campi le vacche,
le pecore, i porci fuggivano spaventati
dalle cannonate, delle mine. Quando
andavi lungo il campo, in quei tempi,
toccava stare attenti: se vedevi un mucchietto di terra, mica potevi andarci
vicino, bisognava dirlo a loro, a quelli
lì, a quei polacchi. Perché sa cosa facevano i Tedeschi? Facevano una buca, ci
mettevano una mina e poi la coprivano
con la terra. Se vedevi la terra smossa,
potevi pensare che fosse stata una talpa
e, a volte si andava a vedere, forse era
stata una talpa, però per la paura si
chiamava sempre loro (i Polacchi). (I
Tedeschi) facevano come la talpa che
scava sotto terra e fa quei mucchi di
terra sopra. Le coprivano così le mine.
Dove erano passati, i Tedeschi avevano
minato tutto quanto: avevano minato i
ponti, avevano minato le strade, avevano minato i campi… Bisognava stare
molto attenti. Quanti ce ne sono capitati, poveretti! Io conoscevo uno vicino
casa mia, povera anima, che tornava a
casa dalla Messa, un ragazzo di sedici
diciassette anni, non se ne intendeva no! I grandi lo sapevano com’erano i proiettili, come era quello come
era quell’altro, ma quei figli così non
erano esperti no, non erano mai andati
da nessuna parte, non sapevano come
erano fatti i proiettili, come erano fatte
le bombe. Quello, povera anima, l’ha
320
l’ha pïàdo su le ma’, iè scoppiàdo su
le ma’: è ’rmasto lì. Troppi ce n’era
che ìa portàdo via le ma’!
preso sulle mani, gli è scoppiato sulle
mani: è rimasto lì. Troppi ce n’erano
che avevano perduto le mani!
I Polacchi co’ la palétta
I Polacchi con la paletta
’Gni tanto me ne vène a’mmènte
una. ’Ndó che facéa le bughe ’sti
Tedeschi che ce mettìa giù le mine
l’arcoprìa co’ la tèra e ci’armanìa ’n
montiròzzolo no; la tèra era ’mpo’
fresca, sci ce lìa messa da pogo.
Dobo, quann’è venudi i Polacchi
ci’avìa ’n vizio lóra. Cuélla vo’ i gabinetti non è che c’era ’nté le case,
eh: ’ndó che ié ’ncuntràa, quanno ié
sortìa, ce se mettìa.
Allora i Polacchi e i Inglesi sa co’
facìa? Ci’avéa ’na palettina drèdo,
sempre, se la portàa ’taccàda ’nté
la cintùra, como quanno uno ci’hà
’n maràccio che gèra a fa’ le legna,
no, su pe’ le montagne. Ié se dice ‘el
maraccio’. Allora pïàa ’sta palettina,
fèra ’na buganèlla e po’, quanno lìa
fatta, la coprìa como facìa ’l gatto.
Allora delle ’olte capàce s’armanéa
anca fregàdi eh! Se gèra a chiamà’
’na persóna che s’antendìa a gi’ a
guardà’ ’nté cuél monte de tèra e ce
s’armanìa fregàdi: envéce della mina
ce trovài ’n’antra cosa! E dobo c’era
anca da rìde’ eh!
Prò era più pulìdi che noà, perché
noà non è che se facéa cuél laóro lì,
se facéa la buga e po’ s’arcoprìa: eh,
se facéa in giro, ’ndó che s’ancun-
Ogni tanto me ne viene pensata una.
Dove facevano le buche i Tedeschi, che
ci mettevano le mine e le ricoprivano
con la terra, ci rimaneva un monticello, no. La terra era un po’ fresca, se ce
l’avevano messa da poco. Dopo, quando
sono venuti i Polacchi, (questi) avevano
un’abitudine. Quella volta i gabinetti
non c’erano nelle case, eh: dove gli
incontrava, quando gli scappava, ci si
mettevano. Sa, allora, cosa facevano
i Polacchi e gli Inglesi? Avevano una
palettina dietro, sempre, se la portavano appesa alla cintura, come quando
uno ha un ‘maraccio’ per andare a fare
la legna, no, su per le montagne. Lo si
chiama il ‘maraccio’. Allora prendevano questa palettina, facevano una
buchetta e po’, quando l’avevano fatta la
coprivano come fa il gatto.
Allora, delle volte, magari si rimaneva anche fregati, eh! Si andava a
chiamare una persona che se ne intendeva per andare a guardare in quel
monticello di terra e ci si rimaneva
fregati: invece della mina , ci trovavi
un’altra cosa! E dopo c’era anche da
ridere eh!
Però erano più puliti di noi, perché
noi non è che si faceva quel lavoro lì,
non si faceva la buca e poi la si rico321
tràa se facìa. Eh, cualca vo’ toccàa
a sta’ ’tenti anca ’ndó se mettìa i pìa.
Babbo mia non vulìa; lì c’era ’n gabinetto fatto de canna e lì se gèra lì
drendo, ’nté ’l cagatóre. ’N se dovéa
fa’ a la peggio, anca pe’ le mosche,
pe’ la polizìa, pe’ nigò. Anca giù casa
’ndó so’ boccàda io c’era ’n cappannaccio lì, se gèra lì drendo, ma,
quanno t’ancuntràa giù ’l campo, co’
gìi a fa’ ’na cursa su casa? Toccàa a
fàlla ’ndó che t’ancuntrài.
Tanto era luscì! La carta igienica c’era le foje de le piante sci era
d’istàde, sci era d’inverno l’erba per
tèra. Toccàa a sta’ ’tenti perché, sci
te ci’ancuntrài ’nté l’ortìga, capace
che era càoli amari: ’n c’era cuélla
vo’ “dieci piani de morbidezza”!
priva: eh, si faceva in giro, dove che
incontrava si faceva. E qualche volta
bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi. Il mio babbo non voleva,
lì c’era un gabinetto fatto di canne e si
andava lì dentro, nel ‘cagatore’. Non
la si doveva fare qua e là, anche per le
mosche, per la pulizia, per tutto. Anche
nella casa, dove sono entrata io, c’era
un capannaccio lì, si andava lì dentro,
ma, quando ti incontrava nel campo, e
che andavi a fare una corsa fino casa?
Toccava a farla dove che ti incontravi.
Tanto era così! Per la carta igienica
c’erano le foglie, se era d’estate; se era
d’inverno l’erba per terra. Toccava a
stare attenti perché, se ti incontravi
nell’ortica, magari erano cavoli amari:
non c’erano quella volta “dieci piani di
morbidezza!”
Polacchi, ‘maccaóni’, tùdoli e
ciarle
Polacchi, ‘maccaóni’, panetti e
ciarle
È ’rivàdi li Inglesi, i Polacchi; lì
casa nostra cìa fatto ’l comando, ce
tenìa ’n camion lì, che ce dormìa là
drendo. Ci’hà rispettado ’mbelpo’, io
ié fèra da magnà’, me dèra la farina
de riso pe’ fa’ da magnà’, ma gnéla
fèra a fàcce le tajadèlle no e allora
’na ’olta ié l’ho fatte co’ la farina
nostra; cuélla ’olta era d’istàde, c’era
anca l’ovi e ié l’ho fatte co’ l’ovi.
Allora, quanno le magnàa, dicìa i
Polacchi: “Io sposare signorina italiana per mangiare maccaóni!” Ié
Sono arrivati gli Inglesi, i Polacchi;
a casa nostra ci hanno fatto il comando,
ci tenevano un camion e vi dormivano
dentro. Ci hanno rispettato molto, io
gli preparavo da mangiare, mi davano
la farina di riso per fare da mangiare,
ma non gliela facevo a farci le tagliatelle
e, allora, una volta gliel’ho fatte con la
nostra farina; quella volta era d’estate,
c’erano anche le uova e gliel’ho fatte con
le uova. Allora, quando le mangiavano,
dicevano i Polacchi: “Io sposare signorina italiana per mangiare maccaóni!”
322
piacìa ’mbelpo’.
Lóra cìa la farina de riso: co’ vôi
fa’ co’ la farina de riso? ’Na volta
ci’hò provado a falli, ié l’ho fatta
a impastàlli, ma dobo no’ ié l’ho
fatta a sfojàlli, l’ho smenàdi ma po’
la sfoja me se spezzàa tutta: era
’na schifezza! Lóra perché magnàa
’mbelpo’ cuélla farina de riso, cuél
pa’, cuél pa’ nero nero, ma prò sa
che facìa? ’L mettìa su la padella,
ce mettìa giù ’n sacco de burro,
margarina... cuél ch’era ne ’l so, lóra
ce l’avéa ’nté cuéi barattoli grossi,
c’era scritto ‘Kelkès’, cuél ch’èra ne
’l so, s’èra formaggio… lo mettìa giù
’nté la padella…’Ncontràa d’istàde,
lóra mettìa a còce’ anca i panetti de
granturco, ’n tra cuélla padèlla ’n tra
cuéll’ojo (interruzione: “Chiara!”
“Oh!”)
Allora non ve l’ho fenìdo da di’
che ’gni tanto me tocca lassà’ gi’ perché chì casa nostra c’è sempre che
ce capita cualchidù’. (interruzione) Scusade c’ho interrotto ’n’antra
vo’, ’gni tanto me capita cualchidù’.
Allora ’sti Inglesi e Polacchi pïàa
’sti panetti, era téneri, era bòni eh,
che prò valli a magnà’ adè’ co’ ’sto
colisterolo alto che c’è! I facìa frìgge’ ’nté la padella co’ ’sto burro,
margarina, formaggio como che sia:
ne mettìa giù ’mbelpo’ sa. Ma quanti
ne magnàa! Ma màgnali adè’, sai ’l
colisteròlo va a cinquecento, no a
trecento solo!
Dobo lóra ce dèra le cioccolade,
le saponette, scattolàmi de formag-
Gli piacevano molto.
Loro avevano la farina di riso: cosa
vuoi fare con la farina di riso? Una volta
ci ho provato a farli (i maccheroni),:
gliel’ho fatta ad impastarli, ma dopo
non gliel’ho fatta a fare la sfoglia, l’ho
lavorato l’impasto, ma poi la sfoglia mi
si è spezzata tutta: era una schifezza!
Loro mangiavano molto quella farina di
riso, quel pane, quel pane nero nero…
però sa quello che facevano? Lo mettevano su una padella, ci mettevano giù
un sacco di burro, margarina… non so
quello che era. Loro lo tenevano in quei
barattoli grossi, c’era scritto ‘Kelkès’,
quello che era non lo so… se era formaggio…lo mettevano giù nella padella…
Incontrava d’estate, così mettevano a
cuocere anche i panetti (di granturco)
in quella padella tra quell’olio… (interruzione: “Chiara!” “Oh!”)
Allora non ve l’ho finito di dire: ogni
tanto mi tocca lasciare andare, perché
qui casa nostra ci capita sempre qualcuno. (nuova interruzione). Scusate che
mi sono interrotta un’altra volta: ogni
tanto mi capita qualcuno! Allora questi
Inglesi e Polacchi prendevano i panetti
di granturco, erano teneri e buoni eh,
che però va un po’ a mangiarli adesso
con questo colesterolo alto che c’è! Li
faceva friggere nella padella con questo
burro, margarina, formaggio che sia:
ne mettevano giù tanto, sa! Ma quanti
(panetti) mangiavano! Ma mangiali
adesso, sai il colesterolo: va a cinquecento, no a trecento soltanto!
Dopo loro ci davano le cioccolate,
le saponette, scatolami di formaggi,
323
gi, sardine, carne, biscotti, zigarette
a ’st’òmmini. A mi’ marido quante
zigarette i’hà datto! Era chiamade
“trentatré”! Era bòne sa, l’avéa vizziado be’. Prima lu’ ci’avìa la cartina, ’ntè la cartina mettìa ’l tabacco;
quanno ’n ce lìa, perché in giro non
ce se gèra tutti i giorni, quanno ’n ce
lìa gèra cercà’ dappertutto... arvoltàa anca le saccocce pe’ podé’ fa’
’na zigaretta. Quanno ié pïàa voja de
fuma’ e ’n c’era più i Polacchi: i’avìa
datto cuél vizzio co’ cuélle zigarette
bòne... Fumàa fumàa ma dobo non
ce lìa, toccàa lassà’ gi’ perché anca
lu’ cìa lo stòmmigo che ’n gèra tanto
be’.
I Polacchi erane quattro: c’era ’l
capitano della Cicogna, che era giù
pìa del campo nostro. Avéa fatto
il campo, cìa tajàdo ’n bel pezzo
de granturco, dobo ce l’ha pagàdo,
ha buttado giù tutte le piante pe’
levàsse ’sta Cicogna, perché giù da
pìa del campo nostro c’era n’appezzamento de tèra tutta piana, bella,
c’era ’n gran fosso, ’ndó ce currìa
l’acqua, ma ha buttado giù tutte le
piante. Io pensào: “Cuscì ci’hò meno
da fadigà’ quann’è l’inverno: da scapeccià, da fa’ tutto cuél gran falàsco!” Cuél­l’anno lì ’l falasco ’n c’è
stado da fa’ perché avéa spianàdo
giù, tajàdo nigò.
Erane brài, ma sa... miga i dovìsci
provogà’, che anca lóra cìa ’l sangue
’nté le véne, come l’òmmini nostri.
Sci dicìa cualchicò’, ’na parola stòrta, non li guardàsci su l’occhi, bassà-
sardine, carne, biscotti, sigarette agli
uomini. A mio marito quante sigarette
gli hanno dato! Erano chiamate ‘trentatré’. Erano buone sa, l’avevano viziato
bene. Prima lui aveva la cartina, nella
cartina metteva il tabacco; quando non
ce l’aveva, perché in giro non ci si andava tutti i giorni, quando non ce l’aveva,
l’andava a cercare dappertutto… rivoltava anche le tasche per poter fare una
sigaretta, quando gli prendeva voglia di
fumare e non c’erano più i Polacchi: gli
avevano dato quel vizio con quelle sigarette buone… Fumava fumava, ma dopo
non ce le aveva, toccava lasciar andare,
perché anche lui aveva lo stomaco che
non andava tanto bene.
I Polacchi erano quattro: c’era il
capitano della Cicogna, che era in fondo
al nostro campo. Avevano fatto il campo
(d’aviazione), avevano tagliato un
bell’appezzamento di granturco, dopo
ce l’hanno pagato, hanno buttato giù
tutte le piante per far levare la Cicogna,
perché ai piedi del nostro campo c’era
un appezzamento di terra tutta pianeggiante, bella, c’era un gran fosso,
dove scorreva l’acqua, ma hanno buttato
giù tutte le piante (anche del fosso).
Io pensavo: “Così ho meno da faticare
durante l’inverno: meno da capitozzare,
da tagliare tutto quel gran ‘falasco’ ”.
Quell’anno lì il ‘falasco’ non c’è stato da
fare, perché avevano spianato, avevano
tagliato tutto.
(I Polacchi) erano bravi, ma sa…
mica dovevi provocarli, perché anche
loro avevano il sangue nelle vene, come
gli uomini nostri. Se dicevano qualcosa,
324
sci la testa e fésci fénta de gnè, perché a vent’ànni - dicìa nonna mia - è
belli tutti, perciò dovésci fa’ coscì,
scinò pogo da lóngo da casa nostra
c’era du’ tre spose, c’era ’na giovena.
A cuélle ié piacìa a chiacchierà’ coi
soldàdi che ce ne passàa parecchi.
Giù pìa del campo, como v’ho
ditto, c’era’l campo d’aviazió’ della
Cico­gna. Le camionette dei soldàdi
portàa giù ’l combustibile, la robba,
perché tanto ce ne vulìa pe’ levàsse
la Cicogna. E la robba ’ndó’ la pïàa,
miga ce lìa ’l carburante? Toccàa
portàllo co’ ’sti camion, co’ ’ste
gente. Passàa giù lì avanti casa de
lóra; a ’ste donne ié piacéa ’mpo’ a
discòrre’, ié piacéa ’mpo’ a sficcanasà’.
Dobo ’sti soldàdi co’ hanne fatto?
’Na sera, era ’n tra ’l lume e scùro,
va su casa, c’era armàsto ’l vecchio
e c’era ’n’anzianòtto, ’l marìdo de
cuélla più grànna. Ha comensàdo a
di’: “Fòri fòri vuàltri, fòri fòri. Noi
dormire co’ le voi signore, noi noi!”
Era ’n gruppétto de ’sti soldàdi. Eh
eèh... co’ ha fatto ne ’l so, ma dobo
l’hanne denunciàdi, ha fatto ’mpo’
ma gni’ hànno polsùdo fa’ gnè. È
venude lì casa nostra che c’èra ’l
comanno dell’Alleàdi, ma il comannante i’hà ditto: “L’rconoscéde?”.
Cuélli che era lì da noà non era
stadi, valli a chiappà’ de quale compagnia erane!
E lóra iéla facéa ’mpo’ fina: a ’sta
gente chì ’n gné se podéa fa’ tanta
fina perché, pôretti, passàa mesi e
una parola storta, non li guardavi sugli
occhi, abbassavi la testa e facevi finta di
niente, perché a vent’anni – diceva mia
nonna – son tutti belli, perciò dovevi
comportarti così, se no, poco lontano da
casa nostra, c’erano due tre spose, c’era
una giovane non sposata. A quelle piaceva chiacchierare con i soldati che ce ne
passavano parecchi. In fondo al campo
(nostro), come vi ho detto, c’era il campo
d’aviazione della Cicogna. Le camionette portavano giù il combustibile, la roba,
perché tanto ce lo voleva per far levare
(in volo) la Cicogna. E la roba dove la
prendevano, mica ce l’avevano (laggiù)
il combustibile! Bisognava portarlo con
questi camion, con questa gente, che
passava giù, davanti a casa loro; a queste donne piaceva un po’ discorrere, gli
piaceva ficcanasare.
Dopo che cosa hanno fatto questi
soldati? Una sera, sul crepuscolo, sono
entrati in casa; c’era rimasto il vecchio
e c’era un anzianotto, il marito di quella
più grande. Hanno cominciato a dire:
“Fuori, fuori voi, fuori fuori! Noi dormire con le voi signore, noi noi!” Era
un gruppetto di questi soldati. Eh eèh…
cosa hanno fatto non lo so, ma dopo
li hanno denunciati, hanno indagato
un po’, ma non gli hanno potuto fare
niente. (Quelle donne) sono venute lì a
casa nostra dove c’era il comando degli
Alleati, ma il comandante gli ha chiesto:
“Li riconoscete?” Quelli che erano lì da
noi non erano stati, vai un po’ ad indovinare di quale compagnia erano!
E loro gliela facevano un po’ fina: a
questa gente qui non gliela si poteva fare
325
mesi che le donne ne le vedéa mae,
le moje le ragazze che era. Sicché è
stàdo inùdele che l’ha denunciàdi,
prò i pôri marìdi ch’era sotta l’arme
hanne dovudo subì’ anca ’ste cose
qua! Eh, è gido be’, è finido cuscì! Io
non posso di’ ch’è vero, ma le ciarle
s’era sparse al largo.
tanto fina perché, poveretti, passavano
mesi e mesi senza vedere mai le donne,
le moglie le fidanzate che fossero. Sicché
è stato inutile che li hanno denunciati,
però i poveri mariti che erano sotto le
armi hanno dovuto subire anche queste
cose qua. Eh, è andato bene, è finito
così! Io non posso dire che è vero, ma le
ciarle si erano diffuse largamente.
Gli Italiàni è più càlli
Gli Italiani sono più caldi
Anche mi’ fradello l’arcontàa, ché
lìa portado in Russia. Là le donne era
guasci tutte armade de cortelli, puntiròli, falcette. Puntiròli e cortelli li
infilàa su pe’ le manighe o drendo ai
stivali, e le falcette ’nté le cinte delle
veste, perché anche là c’era chi stèra
alla mossa e chi envece non volìa
tradì’ ’l marido o lo ragazzo.
Anca l’Italiani, sapé, non era belli
eh! ’Mpo’ cìa anca ’na parte de ragió’:
4 o 5 anni de guerra, s’èrene buttadi
allo sbarajo, quanno cìa l’occasió’
non scherzàa tanto… Po’ dìcene ch’è
più calli!
Anche mio fratello lo raccontava,
perché l’avevano portato in Russia. Là
le donne erano tutte armate di coltelli,
punteruoli, falci. I punteruoli e i coltelli
li infilavano su per le maniche o dentro
gli stivali, e le falci nella cintura delle
vesti, perché anche là c’era chi stava alla
mossa e chi invece non voleva tradire il
marito o il fidanzato. Anche gli Italiani,
sapete, non erano belli, eh! Un po’ avevano una parte di ragione: quattro o cinque anni di guerra, si erano buttati allo
sbaraglio, quando avevano l’occasione,
non scherzavano tanto… Poi dicono che
(gli Italiani) sono più caldi!
’Na paura!
Una paura!
A di’ la verédà dobo sposàda è
cambiado nigò. Oltra che del ’43 già
era tre anni de guerra, propio ’nte
’l peggio, so’ gida an galèra. Non è
pel marido, è che ’nté la fameja non
A dire la verità dopo sposata è cambiato tutto. Oltre che nel ’43 già erano
passati tre anni di guerra, nel momento
peggiore sono andata in galera. Non è
per il marito, è che nella famiglia non
326
conoscìi a nisciù’: conoscìsci solo
la fadiga! Gnènte divertimenti, in
giro non podìsci gi’, né a ’na festa
da sola. Sci te pïàa te fèra i sfregi,
perché c’era gente, como v’ho ditto,
de tutte le specie fuggiaschi. E non
podìsci riclamà’ a nisciù, era libertà
da ’mazzà’, da violentà’. E a chi te
gèsci a rivòlge’?
Giù pei campi ne vedìsci certe
squadre, ogni tanto. Un giorno so’
gida a fa’ ’l granturchétto, ’n bel
fascio pe’ le vacche. ’Sto granturchetto era alto du’ medri anca più.
Me scappa tre soldati da ’n tra mezzo
e me dice: “Dove sta Giannina?” Io
spauràda i’hò ditto: “Non… nelsò!”
E po’ so fujàda drìa a’n filó’, sensa
a carcà’ ’l fascio: ’l cùre’, non me
se vedìa le gambe. C’era mi’ sòcero
drendo la stalla, m’ha ditto: “Qu’è
successo?” Piagnènno i’hò ditto:
“C’è ’n branco de soldadi, vôle sapé’
’ndó sta Giannina”.
Io avìa sposado ch’era poghi
mesi, non la conoscìa. Dobo hanne
portado su ’l fascio del granturchetto, l’ha messo drendo la stalla
e io piattàda drendo al rifuggio co’
mi’ marìdo: ma perché era brài,
scinò sci volìa strucinà’, t’artròàa....
I Tedeschi a casa de ’n’amìga mia ha
visto le vèste drendo l’armàrio, volìa
sapé’ ’ndó era signorina. Cuéi pôri
vecchi ié dicìa che non c’era, era
sposàda da lóngo. Ma era armàdi,
volìa sparà’. Toccàa a pïà’ certe
paure!
conoscevo nessuno: conoscevo solo la
fatica! Niente divertimenti, in giro non
potevi andare, né a una festa da sola.
Se ti prendevano ti facevano le sevizie,
perché c’era gente, fuggiaschi, come vi
ho detto, di tutte le specie. E non potevi
reclamare con nessuno, c’era libertà
d’ammazzare, di violentare. E a chi
andavi a rivolgerti?
Per i campi vedevi, ogni tanto, certe
squadre! Un giorno sono andata a fare
il granturchino, un bel fascio per le vacche. Questo granturchino era alto due
metri, anche più. Mi escono fuori tre
soldati da lì in mezzo e mi domandano:
“Dove sta Giannina?” Io spaventata gli
ho risposto: “Non …non lo so!” E poi
sono fuggita dietro a un filare, senza
caricare il fascio: il correre (che ho
fatto), non mi si vedevano le gambe.
C’era mio suocero dentro la stalla, m’ha
chiesto: “Che è successo? Piangendo
gli ho detto: “C’è un branco di soldati,
vogliono sapere dove sta Giannina”.
Io avevo sposato da pochi mesi, non
la conoscevo. Dopo (i soldati) hanno
portato su il fascio del granturchino,
l’hanno messo dentro la stalla e io (sono
rimasta) nascosta dentro al rifugio con
mio marito: ma perché erano bravi, se
no, se volevano cercarti (dappertutto),
ti ritrovavano… I Tedeschi a casa di
un’amica mia hanno visto la veste dentro l’armadio, volevano sapere dove “era
signorina”. Quei poveri vecchi gli dicevano che non c’era, (perché) era sposata
lontano. Ma (i Tedeschi) erano armati,
volevano sparare. Toccava a prendere
certe paure!
327
Alla Messa co’ la camionetta
Alla Messa con la camionetta
Giù casa nostra, envéce, c’era ’sto
capitano de la Cicogna, che tante
le ô la domenniga ce carcàa su la
camionétta e ce portàa a la Messa.
Noàltre, tutte contente, chissà chi
ce paréa da èsse’! Perché giù da noà
c’era lóra, ce dèmma l’aria, ’n’importansa, gèmma a la Messa co’ la
camionetta e come stèrene devòdi
’sti Polacchi, i Inglesi: n’è come noà
che capace vedi una co’ ’na vesta
bella, t’arvolti a guardàlla, vedi ’n’antro che ci’hà le scarpe sporche i’arguàrdi, a uno che ’n ci’hà i capéi
messi be’ ié s’arguàrda, non sémo
devòdi come era lóra drendo la chiesa, lóra drendo la chiesa ’n s’arvoltàa
a guardà’ de drèdo, venìa a la Messa
e ce stèra con devozió’.
Dobo co’ ha fatto? I Polacchi
venìa lì casa, avéa ’ntéso che ’l vi’ era
bòno, dicìa ‘vino vino’ e facìa véde’
che mettìa ’nté la bocca ’l bicchiero... Dopo il dèmma noà, prò sai a
dàje ’na bottija da ’n lidro, ce lassàa
duecento lire sotta... ma cuélla vo’
duecento lire era ’mbelpo’ eh! Cuélla
volta c’era i soldi de carta ancora in
giro, perché il Duce avéa fatto “soldi
de carta e scarpe de legno”. Eeh, ce
lassàa duecento lire sotta ’sta bottija e noà tutti contenti: c’émma ’na
botte de vi’!
Ha durado pogo, prò, perché lóra
s’è ritiràdi, cioè ha fatto l’avanzàda,
è gìdi alle case sua, perché ormai
l’Italia l’avìa vénta lóra, l’avìa presa. I
Giù casa nostra, invece, c’era questo
capitano della Cicogna, che talvolta la
domenica ci caricava sulla camionetta
e ci portava alla Messa. Noi, tutte contente, chissà che cosa ci pareva di essere! Siccome giù da noi c’erano loro, ci
davamo un po’ di arie, un’importanza;
andavamo alla Messa con la camionetta
e come stavano devoti i Polacchi, gli
Inglesi: non sono come noi che magari
vedi una con una veste bella, ti rivolti a
guardarla, vedi un altro che ha le scarpe sporche e lo guardi, uno che non ha
i capelli messi bene lo si guarda, non
siamo devoti come loro dentro la chiesa;
loro, dentro la chiesa, non si rivoltavano a guardare dietro, venivano alla
Messa e ci stavano con devozione.
Dopo che cosa hanno fatto? I Polacchi
venivano a casa nostra, avevano sentito
che il vino era buono, dicevano “vino
vino!” e facevano vedere che portavano
il bicchiere alla bocca… Dopo noi glielo
davamo, però, sai, a dargli una bottiglia da un litro ci lasciavano duecento
lire sotto… ma quella volta duecento lire
erano tante eh! Quella volta circolavano
ancora i soldi di carta, perché il Duce
aveva fatto “soldi di carta e scarpe di
legno”! Eeeh, ci lasciavano duecento lire
sotto questa bottiglia e noi (eravamo)
tutti contenti: avevamo una botte di
vino!
È durato poco, però, perché loro si
sono ritirati, cioè hanno fatto l’avanzata, sono tornati alle loro case, perché
ormai l’avevano vinta loro l’Italia, l’ave328
Polacchi so’ stàdi brài. Ce sémo gìdi
là, in Polonia, sci uno avesse ûdo
l’endirizzo, se podìa gi’ a troà’ sci
ancó’ era vivi.
vano presa. I Polacchi sono stati bravi.
Ci siamo andati là, in Polonia: se uno
avesse avuto l’indirizzo, poteva andarli
a trovare, se erano ancora vivi.
Campàne a festa!
Campane a festa
E dobo sentémma sonà’ le
campane a festa, ’l campanó’ de
Montalbòdo, se sentìa da giù casa
nostra. Eeeh, prima sònàa quanno era ’nudo l’armistizzio. Babbo
mia dicéa: “Eh, fjòli, eeh sòna ’l
campanó’, è l’armistizzio, ma i fjòli
nostri ’n sapémo ’ndò è!”
Dobo l’armistizzio, n’è finida la
guèra, veramente ha durado ’n’antro
anno. Cuésto scì ch’è stado duro,
prima noà n’émma visto gnè, c’émma solo i dispiacé’ dei fradèlli ch’era
sotta l’armi, i ragazzi, scinò ’n s’era
visto gnè. Dobo scì ch’è passado ’l
fronte dappertutto. Fortuna che ’n
cìa i monelli ancó’! I monelli, pôretti, quanti n’è morti, anca de notte a
sta’ in giro luscì, quanno se sentìa le
cannonàde, l’apparecchi...
Scusàde (tossisce), ’gni tanto me
vène la tòssa. Dobo allora, quanno
è finida la guèra del tutto, sonàa le
campàne a festa. Anca noà fèmma
festa, ma n’è che podéi saltà’ tanto,
perché ce n’era parecchi che n’era
arvenùdi, cuél’altri ch’era arvenùdi
era ferìdi, e po’ la guèra ci’avéa lassàdo ’n sacco de carestìa, anca sci
a noà i Todéschi, i Polacchi ’n cìa
E dopo sentimmo suonare le campane a festa, il campanone di Mon­
talboddo, si sentiva fino a giù casa
nostra. Eeeh, prima suonava quando
era venuto l’armistizio. Il mio babbo
diceva: “Eh, figli, eeh… suona il campanone, è l’armistizio, ma i figli nostri
non sappiamo dove sono!”
Dopo l’armistizio non è finita la
guerra, veramente è durata un altro
anno. Questo sì che è stato duro, prima
noi non avevamo visto niente, avevamo
solo il dispiacere per i fratelli che erano
sotto le armi, per i ragazzi, se no non si
era visto niente. Dopo sì che è passato il
fronte dappertutto. Fortuna che ancora
non avevo i monelli! Quanti ne sono
morti di bambini, anche a stare in giro
così di notte, quando si sentivano le
cannonate, gli aeroplani…
Scusate (tossisce), ogni tanto mi
viene la tosse. Dopo allora, quando è
finita la guerra del tutto, suonavano le
campane a festa. Anche noi facemmo
festa, ma non è che potevi saltare tanto,
perché ce n’erano parecchi che non
erano ritornati, quegli altri che non
erano ritornati erano feriti, e poi la
guerra ci aveva lasciato tanta carestia,
anche se a noi i Tedeschi, i Polacchi non
329
portàdo via gnè. Fumma anca ’mpo’
allegri per la fine de la guèra perché
quattr’anni è longhi eh, prò - come
se dice - quanno mancàa i fradelli,
mancàa i genidori, mancàa i fjòli,
eeh quanti anni brutti è stadi! Eeeh,
quanto è stàdo bello! Queste è ròbbe
che ’n te le scòrdi più sa.
Dicémo è stàdo ‘bello’ perché
i tempi brutti passàdi como cuélli
speràmo ’nté la vida nostra de non
passàlli più, perché ormai so’ vecchia, ma vurrìa che ne passàsse
manco i fjòli mia, perché ancó’ dappertutto c’è ’sta guerrìja, senti su la
televisió’ adè’ guerra de là, guerra de
qua, ammazzamènti... Como accèndi
la televisió’ ’mazza da tutte le parte,
c’è sempre cuélle cose lì. Ma, per
caridà Signore!, quante tocca a sentìnne prima da morì’!
Ma adè ve vojo fa’ rìde, v’arcónto de ’n contadì’ che cìa le pegore.
Quanno è finida la guerra chi da noà,
se podìa ’rportà’ a magnà’ l’erba giù
pe’ ’l campo, prò ancó’ qualche cannonada se arsentìa, magari ’mpo’ da
lóngo, ’gni tanto bombardàa.
E questo avìa legàdo le pegore
’nté la cintura e queste, a sentì’ ’sti
bòtti, tiràa una da ’na via e una da
’n’antra e l’ha straginàdo. Allora lu’
(era ’mpo’ matto) dicìa così: “L’ho
legade ’nté la vida, ma me tiràa
made qua e made là, m’ha straginàde ’mpez e so’ riàdo ’nté la stalla, ho preso ’l forcó’, n’ho ’mazzade
dô”. Parlàa ’mpo’ de Senigaja.
ci avevano portato via niente. Eravamo
anche un po’ allegri per la fine della
guerra perché quattro anni sono lunghi
eh, però – come si dice – quando mancavano i fratelli, mancavano i genitori,
mancavano i figli, eeh, quanti anni
brutti sono stati! Eeeh, quanto è stato
bello! Questi sono fatti che non te li scordi più, sa. Diciamo è stato ‘bello’, perché
i tempi brutti passati come quelli speriamo di non passarli più nella nostra
vita, perché ormai sono vecchia, ma
vorrei che non li passassero nemmeno
i figli miei, perché ancora dappertutto
c’è questa guerriglia: senti in televisione
che adesso c’è la guerra di là, guerra di
qua, ammazzamenti… Come accendi la
televisione (senti che) ammazzano da
tutte le parti, succedono sempre quelle
cose lì. Ma, per carità Signore, quante
tocca sentirne prima di morire!
Ma adesso vi voglio far ridere, vi
racconto di un contadino che aveva le
pecore. Quando è finita la guerra qui
da noi, si potevano riportare a mangiare l’erba giù per il campo, però ancora qualche cannonata si sentiva, ogni
tanto bombardavano.
E questo aveva legato le pecore nella
cintura e queste, a sentire questi scoppi, tiravano una da una parte e una
da un’altra e l’hanno trascinato. Allora
lui (era un po’ matto) diceva così:
“L’ho legate nella vita, ma mi tiravano
di qua e di là, mi hanno trascinato
un pezzo e sono arrivato sulla stalla,
ho preso il forcone, ne ho ammazzate
due!” Parlava un po’ (il dialetto) di
Seni­gallia.
330
Tanto pe’ rìde’
Tanto per ridere
Dopo quattr’anni de guèra se pôle
anca ’rcomensà’ a rìde’, no!” Allora,
tanto pe’ rìde’, v’arcónto ’mpo’ sempre de ’sto contadì’ ’mpo’ detràdo
tanto pe’ ’l dialetto como de talènto
e de casàdo. Stèra sotta de ’sto teritòrio de noà. Era pïàdo ’mpo’ in giro
da diversi amìghi, che se ritène più
spèrti.
Allora ’na ò co’ la posta, ’l servizio, sarìa oggi la coriéra, ’sto contadì’ è gido ’nté la cità de Senegàja
(parlàa ’mpo’ de Roncidèi), va da
lo spiziale, c’era la stadiéra, sarìa la
pesa, vede tutte e due le spère ’nté
’l zero. Ha ditto: “Dàje, vedi ch’è
dagià megiogiórno! vèmme a da’,
alla sveltra, la pumàda per da basso!
Scinó sci perdo la posta, dobo con
che càolo vô a casa a Montalbòdo?”
’L farmacista s’è messo a rìde’, i’hà
ditto: “Ma cuéll’arlògio lì non va be’,
è fermo da jéra!” I’hà parlàdo anca lo
speziale ’nté ’l dialetto sua, coscì ’sto
contadì’ s’è trancuillizzàdo.
’N’antra ò, sotta le feste de Nadàle,
me pare d’avéllo ditto, i ragazzi delle
gióvene chi portàa castagne, melarance, chi anca ’l toró’ de cioccolàdo,
e anca cuéllo biàngo de mèle, nocciòle, e de fòra ci’hà como ’n’ostia.
La fjòla iè ne dà ’mpèzzo: “Toh ba’,
magna!” “E que me dai ’l gès?” “No,
ba’ è lo sturión! Magna ch’è bono!”
’N’antra ò è montàdo ’nté ’na cerqua a tajà’ le rame pe’ scaldàsse e s’è
messo no’ ’nté la rama c’armanìa ’nté
Dopo quattro anni di guerra si può
anche ricominciare a ridere, no! Allora,
tanto per ridere, vi racconto un po’ di
questo contadino un po’ arretrato tanto
per il dialetto come per il talento ed il
casato. Abitava di sotto del fondo nostro.
Era preso in giro da diversi amici, che
si ritengono più esperti. Allora una
volta con la posta, il servizio (pubblico),
sarebbe oggi la corriera, questo contadino è andato nella città di Senigallia parlava un po’ (il dialetto) di Roncitelli
-, va dallo speziale, c’era una stadera,
sarebbe la pesa, vede tutte e due le sfere
sullo zero. Ha detto: “Dagli, vedi ch’è
già mezzogiorno! Vienimi a dare, alla
svelta, la pomata per le parti basse, se
no, se perdo la posta, dopo con che cavolo
vado a casa a Montalbòdo?” Il farmacista si è messo a ridere, gli ha detto: “Ma
quell’orologio lì non va bene, è fermo da
ieri!”. Gli ha parlato anche lo speziale
nel dialetto suo, così questo contadino
si è tranquillizzato. Un’altra volta, nelle
feste di Natale, mi pare d’averlo detto,
i fidanzati delle giovani chi portava le
castagne, arance, chi anche il torrone
di cioccolato e anche quello bianco di
miele, nocciole e che di fuori ha come
un’ostia. La figlia gliene dà un pezzo:
“Toh, babbo, mangia!” “E che mi dai, il
gesso?” “No, babbo è lo sturione (voleva
dire ‘torrone’). Mangia che è buono!”
Un’altra volta è salito su una quercia
a tagliare i rami per scaldarsi e si è
messo non sul ramo che rimaneva sulla
quercia, ma s’è sistemato nella parte
331
la cerqua, ma s’è messo ’nté la parte
che, dobo segàda, cascàa per tèra.
Lu’ segàa e cantàa: “Sci sai del mio
partido, parabombombó, parabombombó!” Tutta ’na ò, sega e sega…
parabombombó! Per tèra lu’ e la
rama! Dobo fiottàa: “Dio…dio..!”
Ma pensàde cuànte le ò venìa
pïàdo in giro dall’amìghi! ’L giorno
che battìa ’l grà’, c’è da sta’ tènti lì la
pascùia no! Uno va drendo la stalla,
apre la cannella dell’aqua e sciòje
tutti i tori. Capiréde! Cìa ’na quinnicìna de vacche, sette otto tori…
’N tra cuélle vacche ’sto contadì’,
pôrétto, co’ ’n bastó’ menàa de qua,
menàa de là… Tre quattro òmmini
non iè la fèva a mannàlli a posto.
Dobo, quanno lìa ’rmannàdi tutti a
posto sua, l’ha legàdi, po’ ha ditto:
“Io non so perché quanno battémo ’l grà’ i tori ’nsógna (volìa di’ “
’nsumbia”) sempre, non so perché!”
Miga ’n se n’è ’rdatto ch’era stàdo ’n
dispetto. Troppo ce n’è d’arcontà’ de
cuésto chì. ’Na ò, sempre de battidùre, quanno è gidi a magnà’, ci’hà
troàdo ’na taràngola ’nté ’l piatto
’n tra i fischiotti: ìa pïàdo l’aqua
pe’ còceli ’nté la buga, chìa fatto
da per lóra. Chi ’n cìa ’l pozzo, ce
n’era ’mbellipò che fèra ’na buga, ’na
spèce de pozzétto, in sotta ’mpar de
mèdri, e l’aqua la pïàvane lì! No che
l’aqua fusse stada inchinàda, perché
non c’era né diserbi, né l’atrazzìna,
poghi concimi, ma taràngole, vèrmini de tèra, ranocchie, raganelle
e cualc’àltra bestiòla che giràa ’l
che, dopo segata, cascava per terra. Lui
segava e cantava: “Se sei del mio partito,
parabombombó, parabombombó!” Tutto
in una volta, sega e sega… parabombombó! Per terra lui e il ramo. Dopo si
lamentava addolorato: “Dio.. dio…!”
Ma pensate quante volte veniva preso
in giro dagli amici! Il giorno che trebbiava il grano, c’era da stare attenti lì la
bascula, no! Uno va dentro la stalla, apre
il rubinetto dell’acqua e scioglie tutti i
tori. Capirete! Aveva una quindicina di
vacche, sette otto tori… Tra quelle vacche questo contadino, poveretto, con un
bastone menava di qua, menava di là…
Tre quattro uomini non gliela facevano
a mandarli al posto. Dopo, quando li
aveva rimessi tutti al posto loro, li ha
legati, poi ha detto: “Io non so perché,
quando trebbiamo il grano, i tori “’nsógna” – voleva dire “sognano”) sempre…
Non so perché!” Mica si era reso conto
che era stato un dispetto!
Troppo c’è da raccontare di questo
qui. Una volta, sempre durante la trebbiatura, quando sono andati a mangiare,
hanno trovato una salamandra nel piatto in mezzo alle pipe: per cuocerle aveva
preso l’acqua nella buca che avevano
fatto da soli. Chi non aveva il pozzo, ce
n’erano parecchi che facevano una buca,
una specie di pozzetto, profondo un paio
di metri, e l’acqua la prendevano lì. Non
che l’acqua fosse stata inquinata, perché
non c’erano né diserbanti, né l’atrazina,
pochi concimi, ma salamandre, vermi
di terra, rane, raganelle e qualche altra
bestiola, che girava il mondo, cascava
lì dentro, per disgrazia… Allora questa
332
mónno cascàa lì drendo, pe’ disgrazia… Allora ’sta taràngola era cotta
coi boccolotti: boni, eh!
All’anno dobo ’sto contadì vidìa
che ni magnàa contenti quei boccolòtti… allora i’hà ditto: “Magnàde
trancuìlli che l’aqua ’st’anno l’émo
passàda co’ la civiera della stalla!”
Pensàde vuà, la civiera è rada: sci ce
mettisci dendo’n gatto, passàa listésso! Era fatta pe’ tené’ la paja,’l fié’!
’St’omo era proprio ’mpo’ adrìa,
como la martinìcchia del biroccio.
Passàdi l’anni, va a domannà’ laóro
’nté ’na fàbbriga, ’ndó fadigàa mi’
marìdo. Va lì, vede al padró’, ié dice:
“Oh, chì ce pïàde a cuélli dell’otto?”
’L padró’ i’hà guardàdo, ridènno, i’hà
ditto: “No! Chì c’è cuélli del nove!”
Ha capìdo che ’l pïàa pe’ ’l culo, è
partìdo, como se dice, co’ la coda
mezzo alle gambe, brontolànno. È
che vulìa lassà’ gì’ a fa’ ’l contadì’.
Era i primi tempi che s’era ropèrte ’ste fàbbrighe. Cuélla vo’ li capàa
l’operài, i contadì’ volìa lassà’ gi’
tutti la tèra, pe’ gi’’nté ’n laóro più
stimàdo. Ma que se credìa? De pïà’
’l papa pe’ la barba? Sapéde uno
como s’è presentàdo, pe’ fàsse pïà’ a
laorà’? I’hà ditto: “Que mestiere fai?
E lu’ i’hà risposto: “Zappilografo! E
n’è ’n mestiere bello? Non ce vôle
mango ’n diploma, solo ’n certifigato
de forsa ’ntéll’òssi, n’accàda a métte’
’l nero ’nté ’l biango, basta magnà’,
bé’ ’mbicchiero de vì’ e, oltra oltra,
anca ’na biùda d’acedèllo”.
salamandra era cotta con le pipe: buone
eh!
L’anno dopo questo contadino vedeva
che non le mangiavano contenti quelle
pipe… allora gli ha detto: “Mangiate
tranquilli perché l’acqua quest’anno l’abbiamo passata con la ‘civiera’ della stalla!” Pensate voi, la civiera ha i vimini
radi: se ci mettevi dentro un gatto, ci
passava ugualmente! (La civiera) era
fatta per tenere la paglia, il fieno!
Quest’uomo era proprio indietro come
la ‘martinicchia’ del biroccio. Passati
gli anni, va a domandare lavoro nella
fabbrica, dove lavorava mio marito. Va
lì, vede il padrone, gli dice: “Oh, qui
prendete quelli dell’otto?” Il padrone lo ha
guardato, ridendo, gli ha detto: “No, qui
ci sono quelli del nove!” (Il contadino) ha
capito che lo prendeva per il culo, è partito, come si dice, con la coda in mezzo
alle gambe, brontolando. È che voleva
lasciare andare a fare il contadino.
Erano i primi tempi che si erano aperte
queste fabbriche. Quella volta (i padroni) li sceglievano gli operai; i contadini
volevano tutti abbandonare la terra, per
andare in un lavoro più stimato. Ma che
si credevano, di prendere il papa per la
barba? Sapete come uno si è presentato,
per farsi assumere al lavoro? (Il padrone) gli ha domandato: “Che mestiere
fai?” E lui gli ha risposto: “Zappilografo!
E non è un mestiere bello? Non ci vuole
nemmeno un diploma, solo un certificato di forza nelle ossa, non è necessario
mettere nero su bianco, basta mangiare,
bere un bicchiere e, via via anche una
bevuta di acetello”.
333
S’è raffinàdo ’mpo’ de nigò.
Si è raffinato un po’ di tutto
Dobo de la guèra ce semo raffinàdi ’mpo’ tutti, perché Inglesi
Polacchi e Merigàni ha cominciàdo
a buttà’ i disinfettanti, dicìa ch’era
’l D.D.T. cuélla vo’, prò ha ’mazzàdo
tante bestiacce eh, como ciarafìgole
e mòsche gnié l’ha fatta a sterminàlle, ma como pidocchi, pulce, cose...
sàppere co’ deàolo era, i’hà dàtto
giù ’na bella bòtta. ’N ce n’era più
tante, i pidocchi semo stadi sensa ’na
ventina d’anni anca più. Eh no, anca
trent’anni! E dobo è ’rvenùdi fòri
adè’. ’Mpo’ d’anni passàdi s’è rinteso
a di’ de ’sti pidocchi. Dicìa ch’era ’na
’pidemìa! Me sa che l’avrà portàdi
cuélli ch’è venùdi da fòri, dall’èstro.
Cuéi barbóni, cuéi pidocchióni l’avrà
portàdi, perché scinó qua in Italia
era sparidi del tutto i pidocchi. Ma
dobo, sai, vai ’nté le stazió’, vai ’nté
’l treno e dobo da uno all’altro, ’nté
cuéi dormidòri lì, che adè’ c’enne che
dormene per tèra, ’nté cuéi madaràzzi lì, dobo basta che uno ce se ’poggia
sul treno pe’ piàsseli. Non è più como
’na vo’, ’na ô ’n se viaggiàa, adè’ se
viaggia eh! e dobo te s’attàcca; tocca
sta’ ’tenti! Adè’ c’è le gente in giro de
tutte le razze, c’è cuélli pulìdi, ma c’è
anca cuélli sporchi. Ce n’è cualcù’
che quanno te se métte a sède’ vicino, pôrétti a noà! A d’èsse’ che co’
l’aqua fa como noà prima de la guèra,
te lavàsci ’nté ’na sagrema d’aqua
quanno ’n c’era gnè ancó’. Dobo pian
piano s’è raffinàdo ’mpo’ de nigò.
Dopo la guerra ci siamo raffinati
un po’ tutti, perché Inglesi Polacchi e
Ame­ricani hanno cominciato a buttare
i di­sin­fettanti; quella volta si diceva che
era il D.D.T., però ha ammazzato tante
be­stiacce eh, come zanzare e mosche
non ce l’ha fatta a sterminarle, ma come
pidocchi, pulci, cose… zecche come diavolo erano, gli ha dato una bella botta. Non
c’erano più tante (bestiacce), siamo stati
senza pidocchi per una ventina di anni e
anche più. E no, anche trent’anni! E dopo
sono ritornati fuori adesso. Qualche anno
fa si è sentito di nuovo parlare di questi
pidocchi. Dicevano che era un’epidemia!
Mi sa che l’avranno portati quelli che sono
venuti da fuori, dall’estero. Quei barboni,
quei pidocchiosi l’avranno portati, perché se no qua in Italia i pidocchi erano
spariti del tutto. Ma dopo, sai, vai nelle
stazioni, vai sul treno e dopo (i pidocchi)
passano da uno all’altro; in quei dormitori lì, che ci sono adesso dove dormono
per terra, in quei materassi lì: dopo basta
che uno ci si appoggia sul treno. Non
è più come una volta, una volta non si
viaggiava, adesso si viaggia, eh! E dopo
ti si attaccano (i pidocchi): tocca stare
attenti! Adesso in giro c’è gente di tutte
le razze, ci sono quelli puliti, ma anche
quelli sporchi. Ce n’è qualcuno che, quando ti si mette a sedere vicino, poveretti a
noi! Dev’essere che con l’acqua fa come
noi prima della guerra, ti lavavi in un
goccio d’acqua, quando non c’era niente
ancora. Dopo, piano piano, si è raffinato
un po’ tutto quanto.
334
Stalla e greppie
più moderne: le
bestie hanno la
tazza per bere.
(foto Dino Ferro
1968)
Àcheri e ciambòtti
Acari e rospi
Oggi, quanno scrivìa ho vedùdo
’nté la televisió’ ’n’aspèrta che dicìa:
“Bisogna sbàtte’ tutte le madìne linsòli, cupèrte e tappédi fora della
finè’o terrazzi, scinó c’è tanti àcheri!” Ma stàdeme a sentì’: prima de
nigò ne ’l so que robba è e po’, sci
pe’ vedélli ce vôle la lenta che li fa
doventà’ più grossi, sci c’è adè, al
Oggi, mentre scrivevo, ho visto in
televisione un’esperta che diceva: “Tutte
le mattine bisogna battere fuori dalla
finestra o sui terrazzi, lenzuola, coperte e tappeti, se no ci sono tanti acari!”
Ma statemi a sentire: prima di tutto
non so che roba sono e poi, per vederli,
ci vuole la lente che li fa diventare più
grossi. Se ci sono adesso, al tempo mio
335
tempo mia coè che c’era? C’era le
càmbore che se vedìa, dalle crepacce dei madù’, le vacche giù la stalla.
E po’ ’n s’embiancàa mae. Quanno
se gèra a scopà’ ’nté cuèlle crepàcce
col becco della scopa de mèllega, se
passàa tutte le scorfine dentorno al
madó’, perlomeno cuésto se fèra a
casa de noà, no’ ’nté tutte le faméje.
Non digo che ’n c’era mango ’na pulcia da noà, perché cuélla vo’ pulce
e pidocchi era como ’na pidemìa:
anca le faméje più polìde tanto ce
lìa, perché quanno se gèra a scòla
se taccàa, bastàa a sta’ de bango
vicino…
Prò c’era cuélle faméje, ’ndó c’era
’mbranco de òmeni e monelli, ’na
donna o due al massimo que ìa da
fa’? Pôretta, cìa da fa’ nigò e gi’ anca
giuppe ’l campo. Dicìa uno vicino
casa mia: “Quanno camìno ó pe’ la
càmbora ’n tra pulce e scìmice per
tèra, chiòppa como le cippollàcce
giùppe ’l campo!” Ansi, pôretta, a la
móje la fèra passà’ be’!
Perdéro era coscì ’ndó non c’era
le giovane. Sotta ’l letto ce spazzàa ’na ò ’gni sei sette mesi: quanno tiràane fòra la scopa era como
’na ravàra de pólvera. Dicìa uno: “
’Ste donne, quanno scopa, tira ’na
ravàra ’n tra paja pula tèra, che ce
vôle lo rastèllo e la pala pe’ carcàlla!” E la buttàa fòra da la finè’. Pare
robba da non crédece, ma era coscì:
se raschiàa le scale co’ la paletta,
quanno venìa su l’òmmini da giù
la stalla coi zòcchi pîni de paja,
cos’è che c’era? C’erano le camere da
dove, attraverso le crepe dei mattoni, si
vedevano le vacche sotto nella stalla. E
poi non si imbiancavano mai. Quando
si andava a scopare in quelle crepe
con la punta della scopa di saggina, si
passava in tutte le fenditure dintorno
al mattone; perlomeno questo si faceva
a casa nostra, non in tutte le famiglie.
Non dico che da noi non c’era nemmeno
una pulce, perché a quel tempo pulci
e pidocchi erano come un’epidemia:
anche le famiglie più pulite tanto ce li
avevano, perché quando si andava a
scuola (questi insetti) si attaccavano,
bastava stare di banco vicino…
Però in quelle famiglie, dove c’era un
branco di uomini e monelli, una donna
o due al massimo che cosa doveva fare?
Poveretta, doveva fare tutto ed andare
anche per il campo. Diceva uno vicino
casa mia: “Quando cammino sul pavimento della camera tra le pulci e le cimici, per terra scoppietta come le ‘cipollacce’ giù per il campo!” Anzi alla moglie,
poveretta, la faceva passare bene!
Per davvero era così, dove non c’erano le giovani. Sotto il letto ci si spazzava una volta ogni sei sette mesi: quando
tiravano fuori la scopa (da sotto il
letto), era come una ‘falciata’ di polvere. Diceva uno: “Queste donne, quando
scopano, tirano una ‘falciata’ che, tra
paglia pula e terra, ci vuole il rastrello
e la pala per caricarla!” E la buttavano
fuori dalla finestra. Pare roba da non
crederci, ma era così: si raschiavano le
scale con la paletta, quando venivano
su gli uomini dalla stalla con gli zoccoli
336
Anna Schiavoni la venditrice di semi, fava e lupini durante la fiera del bestiame (foto Dino Ferro 1968).
pula, tèra. E quanno se scàllàa ’l
forno? Allora scì! Sci pioìa po’ anca
mejo, ’ndó passàa… le ’mprónte!
Era como giuppe ’l campo la cucina!
’Na donna ce volìa sempre lì a ’rcòje’
su, pe’ véde’ ’mpo’ pulìdo.
Allora adè’ me dice dell’acari!
Ma sci adè’ c’è i piangìdi tutti lisci,
non c’è ’na crepàccia, se làa tutti i
giorni, ’nté le case ’n c’è più i trài
né filétti che ce se fermàa ’n sacco
de pólvera, ragnadéle, ogni du’ tre
anni se ’mbiànga, i letti non c’è più
i pajarécci de paja o de brance de
granturco, non c’è più i trespoli le
tàole, c’è le belle réde, se gàmbia
anca quanno è ’mpo’ vecchie, i bei
pieni di paglia, pula e terra. E quando
si scaldava il forno? Allora sì! Se pioveva poi anche meglio, dove passavano…
(lasciavano) le impronte! La cucina era
come per il campo! Ci voleva una donna
sempre lì a raccogliere su, per vedere un
po’ pulito.
Allora adesso mi parlano degli acari!
Ma se adesso ci sono i pavimenti tutti
lisci, non c’è una crepa, si lavano tutti
i giorni, nelle case non ci sono più i
travi né i travetti, dove ci si fermava
un sacco di polvere, di ragnatele; ogni
due tre anni s’imbianca, nei letti non
ci sono più i pagliericci di paglia o di
foglie di granturco, non ci sono più i
trespoli e le tavole, ci sono le belle reti,
337
madaràzzi de marga, mango più de
lana fatti da sé como ce lìa ’na ò io:
’nté ’l madaràzzo ce se dormìa quanno te sposàsci!
I guanciali prima era de penne
o de crina, lo scarto della robba
che n’era bòna né pe’ filà’ né pe’
fa’ le corde. La stóppa era i culi
della cànnipa, che ’ncó’ io ce l’ho
in giro… Allora con tutte ’ste gran
cose moderne e polìde sci c’è l’agheri adè, ’na ò ce se nascondìa anca i
ciambòtti, ma ’n se vidìa ’n tra cuèlla
monnézza!
che si cambiano quando sono un po’
vecchie, i bei materassi di marca, nemmeno più di lana fatti in casa come ce
l’avevo una volta io: nel materasso ci si
dormiva quando ti sposavi! I guanciali
prima erano di penne o di crine, lo
scarto della roba che non era buona né
per filare, né per fare le corde. La stoppa erano i culi della canapa e ancora
ce l’ho in giro… Allora con tutte queste
gran cose moderne e pulite se ci sono gli
acari adesso, una volta ci si nascondevano anche i rospi, ma non si vedevano
tra quella immondizia!
’L vento dei pòrci
Il vento dei pòrci
Io digo la veredà, da giovena
pulce e pidocchi, quanno se gèra a
scòla li conoscìa, ma ’n ce dormìa
tanto su la testa, ché mamma como
s’accorgìa ce dèra ’na mollàda ai
capìj coll’ojo ganfì: bruciàa ’mbelpo’ ma toccàa sopportà’, scinó ’ste
sorelle me isolàa da lóra, non volìa
che toccàa ’l pèttene, non me volìa
su le gambe sua a sède’, non me
volìa drendo la càmbora.
Era ’na disciplina, ma ìa ragió’!
Ma ’ndó so’ boccàda da sposa, la
casa era ’na parte vecchia e du’
càmbore più nòe; la càmbora mia
era ’nté ’l pezzo nòo e non c’era le
bestiacce, ma ’nté le càmbore vecchie c’era stado ’n contàdì’ prima
de lóra che cìa le scìmice e cuèlle
è fadìga ’mbelpo’ a scoàlle. Io cìa
Io dico la verità, da giovane pulci e
pidocchi, quando si andava a scuola,
li conoscevo, ma non ci dormivano
tanto sulla testa, perché mamma, come
si accorgeva, ci dava una bagnata
ai capelli coll’olio canforato: bruciava
molto, ma bisognava sopportare, se
no le sorelle mi allontanavano da loro,
non volevano che toccassi il pettine,
non mi volevano a sedere sulle gambe,
non mi volevano dentro la camera. Era
una disciplina, ma avevano ragione!
Ma dove sono entrata da sposa, la casa
era una parte vecchia e (aveva) due
camere nuove; la camera mia era nella
parte nuova e non c’erano le bestiacce,
ma nelle camere vecchie c’era stato un
contadino prima di loro che aveva le
cimici e quelle è molto difficile scovarle. Io avevo paura che mi si attaccasse338
paura che me se taccàa, mango i
monelli non ci mannàa mai a dormì’
’nté i letti de cuell’altri zii e nonni
per la paura: è gido be’, non s’è taccàde!
È per cuésto io digo che adè non
c’è tutte ’ste bestiòle che dìcene.
Farà per vènde’ ’ste lane mirìno,
cupèrte, guanciàli, copremadaràzzi… e ’sti du’ soldi de pensió’ basterìa a campàcce pe’ non gì’ a surpà’
’sti bardàsci, che ci’hà da sta’ tènti,
a caminà’ sull’urèllo, per gì’ annànse
le faméje sua.
Le case adè è tutte belle, perché
anca i contadì’ ci’hà guasci tutti
la segonda casa, benànche cuélla
vecchia la tène chiusa, la serve pe’
magazzì’. Le case adè so’ belle e de
lusso, non è como cuélla che so’
nada io: c’era ’na cortellàda delle
scale che la tenémma in pìa co’ le
taòle e le forche. Cuélla vo’ del tremòdo grosso l’ha stronàda tutta, dal
muro era staccàda, stèra sospesa.
Quanno tiràa cuél vento dei porci,
venìa ’sto vento da vèro Montalbò’,
era jaccio e s’infiltràa ’nté ’ste crepacce e boccàa anca drendo casa,
noà, quanno tiràa forte, gèmma giù
da pìa de lo stradèllo, sotta le cerque, coscì fumma salvi, scinó capace fèmma la morte dei sorci, sci
badàmma a sta’ lì.
Quanno scappàmma giù pe’ ’ste
scale, le fèmma tutte curènno per
paura che ce venìa i madù addosso. Noà, che fumma più piccoli, ce
stradàa cuèlli più granni, ma, sci
ro, per la paura nemmeno i monelli ci
mandavo a dormire nei letti di quegli
altri zii e nonni: è andato bene, non si
sono attaccate (quelle bestiacce).
E per questo io dico che adesso non
ci sono tutte queste bestiole che dicono.
Faranno per vendere queste lane merinos, coperte, guanciali, coprimaterassi, ma non ci si possono buttare questi
due soldi di pensione: basterebbe camparci per non andare a pesare su questi
ragazzi, che già devono stare attenti, a
camminare sull’orlo, per tirare innanzi le loro famiglie.
Adesso le case sono tutte belle, perché anche i contadini hanno quasi tutti
la seconda casa, benché quella vecchia
la tengono chiusa, la utilizzano per
magazzino. Le case adesso sono belle
e di lusso, non sono come quella dove
sono nata io: c’era un canterto delle
scale che lo tenevamo su con le tavole
e le forche. Quella volta il grosso terremoto l’aveva sconcatenata tutta, (il
canterto) era staccato dal muro, stava
sospeso. Quando tirava quel vento dei
porci, quello da verso Montalboddo, era
gelido e si infiltrava nelle fenditure ed
entrava anche dentro casa, noi, quando tirava forte, andavamo giù in fondo
allo ‘stradello’, sotto le querce, così
eravamo salvi, se no magari facevamo
la morte dei sorci, se continuavamo a
stare lì.
Quando scappavamo per le scale, le
facevamo tutte correndo per paura che
ci cadessero addosso i mattoni. Noi,
che eravamo più piccoli, ci guidavano
quelli più grandi, ma, se ci ripenso,
339
ci’arpènso, mi’ fradèllo, cuèllo che
ce curìa cinque anni con me, era
sfrenàdo.
Sa que fèra? C’era l’olmi fitti
’ntórno alla pozza e, quanno la pozza
era pîna, dobo le pioverìe d’autunno armanìa sempre pîna, lu’ giràa
’nté l’urello dell’aqua e volìa che ce
gèsse anch’io. Se tenìa co’ ’na ma’
’ntéll’olmi, ma sci mettìa ’l pìa in
fallo gèra drendo. Caperéde como
se salvàa: c’era tre mèdri d’aqua!
Anca quanno ce fèra ’l gèlo sopra,
c’era dell’invernàde che fèra ’l gelo
nèrto tre dèda, lu’ se fidàa a gi’
sopra, perché c’era uno che sopra
’l gelo, quanno era nèrto tre dèda,
ce giogàa alle bocce, prò ha ûdo
’na gran spauràda: ’n giorno de sole
bello ’sto gelo s’è staccàdo tónno
tónno e i’ha fatto barcalèva! Ne ’l so
como s’è salvàdo ché n’è gido sotta,
ma co’ ’sta paura non s’è ’rguarìdo
più. Dicìa babbo mia che le paure
non se mèdega con gnè. È ’rmàsto
sempre pallido, parìa la morte su
dritta, non ha pïàdo manco móje,
stèra sempre male.
Adè mango gela più como ’na ò, fa
solo du’ stagió’, la primavera e l’autunno non c’è più. Cuella vo’ c’era i
coppi, ogni coppo cìa ’n candelotto
de gèlo e noà magnàmma cuél gelo
che crochiàa sotta i denti: parìa la
fàa brusca! E po’ mettémma la neve
’nté ’mbicchiero e mettémma giù ’l
vi’ róscio: era bòno muntubè’!
mio fratello, quello che aveva cinque
anni più di me, era sfrenato. Sa che
cosa faceva? C’erano gli olmi fitti
intorno alla pozza e, quando la pozza
era piena, dopo le piogge d’autunno
rimaneva sempre piena, lui girava
sul margine dell’acqua e voleva che ci
andassi anch’io. Si teneva con una
mano negli olmi, ma se metteva il
piede in fallo andava dentro. Capirete
come si sarebbe salvato: c’erano tre
metri d’acqua! Anche quando ci faceva
il gelo sopra, c’erano delle invernate
che faceva il gelo spesso tre dita, lui si
fidava ad andarci sopra, perché c’era
uno che sopra il gelo, quando questo
era alto tre dita, ci giocava a bocce,
però ha avuto un grande spavento: un
giorno di bel sole questo ghiaccio si
è staccato tondo tondo e gli ha fatto
‘barcaleva’!
Non so come si sia salvato, perché
non è andato sotto, ma con quella
paura non si è più guarito. Diceva il
mio babbo che le paure non si curano
con niente. (Quello) è rimasto sempre
pallido, pareva la morte in piedi, non
ha preso nemmeno moglie, stava sempre male.
Adesso nemmeno gela più come
una volta; ci sono solo due stagioni,
la primavera e l’autunno non ci sono
più. Quella volta c’erano i coppi, ogni
coppo aveva un candelotto di gelo e noi
mangiavamo quel gelo che crocchiava
sotto i denti: pareva la fava brusca! E
poi mettevamo la neve in un bicchiere
e vi versavamo il vino rosso: era molto
buono!
340
La fiera del bestiame (foto Dino Ferro 1968).
Una delle prime arature con il “Landini”. In primo piano Armando Bolletta. Anno 1950 circa (coll.
Gabriele Balducci).
341
Dobo la liberazió’
Dopo la liberazione
Gira e rigira como ’na gulla, vô
a fenì’ sempre su casa mia, envéce
dopo la liberazió’ de Montalbòdo, no
mia, io stèra sempre an galèra, giù
casa de mi’ marìdo: fadìga a stufo
e du’ tajolì’ sens’òvi, fatti anca con
’mpo’ de farina de fàa, che piacìa ai
sòceri. Ma coè che ’n piacìa a lóra?
Qualche vo’ se magnàa anca ’l pangòtto co’ ’n goccétto d’ojo, fasciòli
e cece, padade e càoli. Solo quanno
era là de Pasqua, qualche fettarella
de lonza per’ù’, fina come ’n’ostia,
con du’ scorpìgni che raschiava le
donsìlle da quanto era duri.
Passàdo ’l fronte, l’Alliàdi ha
datto ’mpo’ de lavoro tanto l’ommini
che le donne, a rîmpì’ le ghirbe de
nafta. ’Mpo’ cìa sollevàdo, pagava
be’, ma dobo anche cuélla risorsa lì
ha finido, tiràmma avanti a forsa de
stenti.
A la sera lì, ditto lo rosario, chi
gèra a letto, chi noà donne fèmma ’l
calsetto e la maja, scinò a filà’. Non
c’era né televisió’, né aràdio: gèsci al
letto dalla disperazió’ co’ la fame.
Se campàa a tessera! Te lassàa
tre quintali de gra’ a testa. ’Ndó
c’era tanti monelli, gèra mejo ché
lóra magnàa meno, ma ’ndó era tutti
granni se tiràa la cinta, tanto anca sci
cualchidù’ furbo cìa ’l gra’ nascosto
dall’anno prima, dobo tanto ’l mulì’
non te ’l podìa macenà’. Dovésci
portàtte drìa la tessera, come adè’
la bolletta d’accompagno, e sci te
Gira e rigira come una ‘gulla’, vado
a finire sempre a casa mia, invece dopo
la liberazione di Montalboddo, non mia,
io stavo sempre in galera a casa di mio
marito: fatica a stufo e due tagliolini
senza uova, fatti anche con un po’ di
farina di fava, che piacevano tanto ai
suoceri. Ma che cosa non piaceva loro?
Qualche volta si mangiava anche il
pancotto con un goccetto d’olio, fagioli
e cece, patate e cavoli. Solo quando era
vicino alla Pasqua qualche fettina di
lonza per uno, fina come un’ostia, con
due crespigni che raschiavano le tonsille da quanto erano duri.
Passato il fronte, gli Alleati hanno
dato un po’ di lavoro tanto agli uomini
che alle donne, per riempire le ghirbe di
nafta. Un po’ ci avevano sollevato, ma
dopo quella risorsa lì è finita e tiravamo avanti a forza di stenti.
La sera, detto il rosario, chi andava
a letto, di noi donne chi faceva la calza
e la maglia, se no filava. Non c’era la
televisione, né la radio: andavi a letto
dalla disperazione con la fame.
Si campava a tessera. Ti lasciavano
tre quintali di grano a testa. Dove c’erano tanti bambini, andava meglio, perché questi mangiavano meno, ma dove
erano tutti grandi si tirava la cinghia;
anche se qualche furbo aveva il grano
nascosto dall’anno precedente, dopo
tanto non lo poteva macinare al mulino. Dovevi portarti dietro la tessera,
come adesso la bolletta d’accompagno, e
se ti beccavano erano cavoli buoni per
342
beccàa era càoli bòni per chi ci’ha ’l
diabete: era caòli amari .
Anca pe’ comprà’ la dòda, sci
c’era vecchi e monelli gèra ’mpo’ be’,
ma ’ndó c’era tanta gioventù gèra
male, non se podìa fa’ tanta vèrnia.
L’ansiani le scarpe, como v’ho ditto,
le portàa anca più de dieci anni: sòle
sopra sòle, tacchi sopra tacchi, ferétti como cuélli dei cavalli, e l’ommini
le bollette grosse tutte pîne le piante
e i tacchi.
Se caminàa sempre a pìa,
all’istàde scalsi e all’inverno un par
de zoccàcci: se fèra l’anderma del
pìa, e po’ li segài col segaccio ’nté
’n pezzo de legno d’àrbolo che era
legno duro. Sopra se coprìa co’ la
pezza de qualche artàjo de regadì’
o scinò, sci c’era ’n cappellaccio de
feltro vecchio. E co’ cuélli lì anca i
monelli ce gèrene a scòla: cuélle era
scarpine correttìe! Ma prò, in compenso, tenìa i pìa caldi, ma quanno
caminàsci pe’ strada, giù pe’ la piazza, drendo a la chiesa, non passàsci
innoservàda con cuéi ferri!
Da gióvena in giro ce gèmma
sempre: de Pasqua, la Settimana
Santa, a Carnoàle le Quarant’ore
con quei pupi de carto’ sull’altare: ce
gèmma tutte le sere. Prima fèmma
un bel biroccio de favì’ per le bestie
e po’ via a pìa tre quattro per fameja,
fina giù ’l ponte della Massa. Fumma
’mbellepò’ e po’ dobo se ’ncontràmma con cuélle de Loredello: parìa ’na
proscisció’.
chi ha il diabete: erano cavoli amari!
Anche per comprare la dote, se
c’erano vecchi e monelli andava un
po’ bene, ma dove c’era tanta gioventù
andava male, non si poteva fare tanto
lusso. Gli anziani, come vi ho detto, le
scarpe le portavano anche più di dieci
anni: suole sopra suole, tacchi sopra
tacchi, ferretti come quelli dei cavalli,
e gli uomini le piante e i tacchi pieni
di quelle bollette grosse.
Si camminava sempre a piedi,
all’estate scalzi e all’inverno un paio
di zoccolacci: si prendeva l’impronta
del piede e poi segavi (gli zoccoli) in
un pezzo di legno d’albero, che fosse
duro.
Sopra si copriva con la pezza di
qualche ritaglio di rigatino o se no,
se c’era un vecchio cappellaccio di
feltro. E con quelli lì anche i monelli
ci andavano a scuola: quelle erano
scarpine correttive! Però, in compenso, tenevano i piedi caldi, ma quando
camminavi per strada, per le vie del
paese, dentro la chiesa, non passavi
inosservata con quei ferri!
Da giovane in giro ci andavamo
sempre: di Pasqua, la settimana santa,
a Carnevale le Quarant’ore con quei
pupi di cartone sull’altare: ci andavamo tutte le sere. Prima caricavamo un
bel biroccio di favino per le bestie e poi
via a piedi tre quattro per famiglia,
fino al ponte della Massa. Eravamo in
tante e poi, dopo, ci incontravamo con
quelle del Loretello: pareva una processione!
343
Quarant’ore e Teatro sacro nella chiesa collegiata di Santa Croce di Ostra. Anno 1971: è illustrata
la parabola del Figliuol prodigo. (foto D. Ubaldi).
La ginnàstiga nostra e cuélla
d’adè’
La nostra ginnastica e quella di
adesso
Fumma ’mbèl brango, quanno
gèmma in qualche sido, se partìa
da cima della contradia fina da pìa.
Discorrenno fèsci la strada, non
t’acorgìsci; se gèra o a la Messa o
a ’na funzió o a ’na festa: adè s’è
smorciado nigò. Come mette ’n pìa
fòra de casa, la maghina è pronta
lì e dobo curre dallo spizziale a
comprà’ le medicine per gi’ al logo
còmmedo.
Eravamo un bel branco, quando
andavamo in qualche luogo; si partiva
da cima della contrada fino in fondo.
Discorrendo facevi la strada, non ti
accorgevi; si andava o alla Messa o ad
una funzione (religiosa) o ad una festa.
Adesso si è spento tutto. Come (uno)
mette un piede fuori di casa, la macchina è pronta lì e dopo si corre dallo
speziale a comprare le medicine per
andare al bagno. Per forza, non si cam344
Per forza, non cammina per niè!
Magara adè se sbatte ’nté le discodeghe, ’nté le palestre: ’na ò la ginnastiga nostra era la falce fenàra,
falcetta, vanga, sappa e rastello...
e como te facìa mantené’ snella! E
quanno se fèra i pajàri del fié’, la
paja, la mistiga se carcàa certe forcàde de 30 - 40 chili e se buttàa sul
pajàro, facenno sette o dieci scalì’,
su pe’ lo scaló’ co’ ’sto forcó’ pîno
de fié. E lì sci che se fèra i muscoli!
A ’rpensàcce, se fèra insieme anca
coi vicinadi e parìa ’na festa, perché
tante le ò se magnàa i boccolotti col
cunìo o la pasta co’ l’ôi: con cuélla
fame che c’era in giro! E po’, quanno
se fèra cuélle faccenne grosse, se
piàa anche ’l bocconcello vèro le 10:
’na fetta de lonza co’ ’na brega de
cipolla o ’n capo d’ajo, e se mettìa
’mpo’ de benzina ’nté ’l modóre.
mina per niente. Magari adesso si sbattono nelle discoteche, nelle palestre; una
volta la nostra ginnastica era la falce
fenaia, falce, vanga, zappa e rastrello…
e come ti mantenevano snella! E quando si facevano i pagliai del fieno, della
paglia, della ‘mistiga’ si caricavano
certe forcate di trenta quaranta chili e
si buttavano sul pagliaio, facendo sette
o dieci scalini, su per lo scalone con
questo forcone pieno di fieno. E lì sì che
si facevano i muscoli! A ripensarci, si
lavorava insieme con i vicini di casa e
sembrava una festa, perché tante volte o
si mangiavano i ‘boccolotti’ con il coniglio o la pasta con le uova: con quella
fame che c’era in giro! E poi, quando
si facevano quelle faccende grosse, si
prendeva anche un bocconcello verso le
dieci: una fetta di lonza con un pezzo
di cipolla o un capo d’aglio, e si metteva
un po’ di benzina nel motore.
Tessera e pa’
Tessera e pane
’Rtorno a parlà’ de ’sti anni cridighi, quanno se compàa a tessera.
Presempio lo zucchero sci ’l pïài co’
la tessera, spendìsci ’na cosa giusta,
envece a mercàdo nero era ’l doppio
de più. La gente ’l pïàa cuéllo che
i’aspettàa e po’ non ne ’l consumàa
pe’ véndelo a mercado nero. È como
i strozzì’ adè’. Cuélli che era a fa’ ’l
soldado la tessera non ce lìa quanno ’rvenìa a licenza; toccàa a gì’ sul
Comù’, ié fèra ’na carta e lì te passàa
Ritorno a parlare di questi anni critici, quando si campava con la tessera.
Per esempio, se prendevi lo zucchero
con la tessera, spendevi una cosa giusta, invece al mercato nero costava più
del doppio. La gente prendeva quello che
le spettava e poi non lo consumava per
venderlo al mercato nero. Era come gli
strozzini di adesso. Quelli che erano a
fare il soldato non avevano la tessera
quando ritornavano in licenza; toccava
andare sul Comune, gli facevano una
345
’l pa’, la pasta, le cose più ncessarie,
ma pagandole, non era a gràdise.
Sci vuà vedésta como era nero ’l
pa’ e la pasta, como cuéllo integrale
adè’. Quanno ’l magnàsci, piccàa ’nté
la bocca como i stoppolù’. Dicìa che
’nté la farina ce mischiàa l’ànnima
dei gambolù’ del granturco. Perdéro
c’era i pezzi de paja ’nté la mollìga; pôretti a chi toccàa magnàllo
sempre, perché chi non producìa ’l
gra’, toccàa a magnà’ cuéllo, vecchi
monelli, ’nté ospedàli: de mejo non
c’era! Quanno gèsci a fa’ spesa, ié
dèsci ’na pagnotta de pa’ de gra’,
per quanto anca cuéllo dei contadì
c’era ’mbelpò’ de tridèllo, perché se
stacciàa co’ la staccia lasca del granturco, però almanco era fatto de gra’
e lévido de casa. Quanno se sfornàa
se sentìa l’odóre da ’n chilometro da
lóngo.
L’Alleàdi envece anca ’l pa’ ’l fèra
co’ la farina de riso: quello n’era
como i maccarù’ che se spezzàa, ma
era biango e bòno.
’Mpo’ se campàa a tessera, dobo
non se troàa mango più co’ la tessera, ’l gra’ più de cuéllo non se podìa
macenà’. C’era de cuélli che, pe fa’
la créscia, ’l macenàa col macenétto del caffè, ié dèra ’na stacciàda a
cuélle pacche de sémbola: cuéllo scì
che te fèra digerì’! ’Mpo’ che c’era la
fame, troppe le ò se gèra a letto co’
la trippa vòdia. ’L contadì’ te sfamàsci con frutto, ’n capo d’ùa, ma non
te dovìsci fa’ véde’, perché i primi
frutti se portàa al padró’.
carta e con quella passavano il pane,
la pasta, le cose più necessarie, ma
pagandole: non erano a gratis. Se voi
aveste visto come erano neri la pasta e
il pane, come quello integrale di adesso.
Quando lo mangiavi piccava nella bocca
come i gambi del granturco. Si diceva
che nella farina ci mischiavano l’anima
dei gambi del granturco. Veramente
c’erano pezzi di paglia nella mollica:
poveretti quelli che dovevano mangiarlo
sempre, perché chi non lo produceva il
grano, doveva mangiare quello… vecchi
e bambini, negli ospedali: di meglio non
c’era! Quando andavi a fare spesa, (al
commerciante) gli davi una pagnotta di
pane di grano, per quanto anche in quello dei contadini c’era molto ‘tridello’,
perché si stacciava con lo staccio largo
del granturco, però almeno era fatto con
il grano e lievito di casa. Quando si sfornava, si sentiva l’odore a un chilometro
di distanza. Gli Alleati, invece, facevano
anche il pane con la farina di riso: quello
non era come i maccheroni che si spezzavano, ma era bianco e buono.Un po’ si
campava a tessera, dopo non si trovava
più nemmeno con la tessera; il grano,
più di una certa quantità, non si poteva
macinare. Alcuni, per fare la crescia,
macinavano (il grano) con il macinino
del caffè, gli davano una stacciata a
quelle due ‘pacche’ di semola: quello sì
che ti faceva digerire! Un po’ che c’era la
fame, troppe volte si andava a letto con
la trippa vuota. Il contadino si sfamava
con un frutto, un grappolo d’uva, ma non
ti dovevi far vedere, perché i primi frutti
si portavano al padrone.
346
Festeggiamenti per il 40° anniversario della fondazione della Società di Mutuo Soccorso di Ostra,
i cui soci, fra l’altro, gestivano la lettiga del “pronto soccorso”. Anno 1906 (Collezione Romano
Cioci).
347
’L milide e ’l cariòlo del pronto
soccorso
Il ‘milite’ e il ‘carriolo’ del pronto
soccorso
Adè’ ve digo ancó’ ’n’antra cosa.
’Nté cuéi tempi de tessera, quann’era
ora de batte, ’l Comù’ mannàa ’na
persona, che era chiamàdo “ ’l milide”. Se mettìa da fiango del pesadore
e segnàa anca lu’ i coppù’ pîni de
gra’. Alla fine tiràa ’l conto e sapìa
quanti quintali de gra’ fèra. Sci ’l trattài be’, chiudìa ’n’occhio. ’Na ’olta
uno per pogo ne chiudìa tutti e dó!
Ié piacìa ’l vi’ e, ’n tra ’l sole la pólvera, magnàdo e bïudo be’, s’è pïàdo
’na bella lèndola, è cascàdo giù pe’
la costa della Massa, ha sbattudo
’nté ’na cerqua, era mezzo morto. Ce
s’è ’ncontrado dobo ’mpezzo ’n’ômo
che caminàa a pìa, véde ’sto ragazzo
cólco per terra, va su a Montalbò’ a
’visà’ lo spedale che c’era uno mezzo
morto.
Cuélla vo’ non c’era pronti soccorsi: ha preso ’n cariòlo fatto como
’na biga, e sopra c’era ’na barella.
L’ha fatta curènno la strada, ma
tanto ’n tra a ’rivà’ su cuéllo a pìa,
’n tra questi a venì’ giù è partida più
de ’n’ora. Intanto cuéllo aspettàa lì
steso per terra che non dèra segni
de vida.
L’ha carcàdo sulla barella e dobo,
finché gèra d’in giù, artenìa, gèra
be’, ma di’nsù spégne ’mpo’ su pe’
la costa della Massa! Quanno ènne
’rigàdi da cima, era più morti cuélli
che spegnìa che cuéllo che era su la
barèlla.
Adesso vi dico ancora un’altra cosa.
In quei tempi di tessera, quando era ora
di trebbiare, il Comune mandava una
persona, che era chiamato ‘il milite’.
(Questo) si metteva di fianco del pesatore e segnava anche lui le coppe piene
di grano. Alla fine tirava il conto e sapeva quanti quintali di grano faceva. Se lo
trattavi bene, chiudeva un occhio; una
volta uno per poco non li chiudeva tutti
e due. Gli piaceva il vino e tra il sole
la polvere, mangiato e bevuto bene si è
preso una bella sbronza, è cascato giù
per la discesa della Massa, ha sbattuto
contro una quercia, era mezzo morto.
Ci si è incontrato, dopo un pezzo, un
uomo che camminava a piedi: vede questo giovanotto sdraiato per terra, va su
ad Montalboddo ad avvisare l’ospedale
che c’era uno mezzo morto.
Quella volta non c’erano i pronti soccorsi: hanno preso un ‘carriolo’,
fatto come una biga e sopra c’era una
barella. Hanno fatto la strada correndo, ma tanto tra l’arrivare quello su (a
Montalboddo) a piedi e questi a venire
giù, è passata più di un’ora. Intanto
quello aspettava lì steso per terra e non
dava segni di vita.
L’hanno caricato sulla barella e
dopo, finché andava d’in giù, trattenevano (il ‘carriolo’), andava bene, ma
d’in su spingi un po’ su per la salita
della Massa! Quando sono arrivati in
cima, erano più morti quelli che spingevano che quello che stava sulla barella.
348
Cuélla vo’ non c’era tanta assistenza, envéce per como era malmesso, s’è ’rguarìdo. Da quanto
ci’avìa l’occhi gonfi, parìa che i’èra
venùdi de fòra.
Quella volta non c’era tanta assistenza,
invece per come era malridotto, quello
si è guarito. Da quanto aveva gli occhi
gonfi, pareva che (questi) gli fossero
usciti fuori.
Persi de fede, disviàdi sul laóro
Sfiduciati, distolti dal lavoro
Arcambiàmo discorso ’n’antra ô,
argìmo all’argomento de la guèra.
So’ stadi anni duri, se fùmma persi
de fede, disviàdi sul laóro, perché
anca le fécènne de campagna non
se podìa fa’ e fatte a tempo sua, se
’ntardàa nigò. Dobo la vendégna del
’43 pe’ somentà’ a le vacche toccàa
a métteje le cupèrte nere e, quanno
’rivàa n’apparecchio se sentìa da
lóngo... via sotta le piante!
Dobo del ’44: sappà’ ’l gra’, piantà’ ’l granturco: como sentìsci rimóre... via al cupèrto, perché sci vedìa
’n gruppetto de persone, gèréne a
bassa còta e te mitrajàa. I linsòli e
pagni bianghi non se podìa stende’
né per tèra né fòra. Presémpio: le
piaétte dei monèlli, mettèndole per
tèra ’l sole le ’mbiangàa e le macchie
gèrene via mejo; anca i pagnucci
delle donne, cuélla ô toccàa a lavà’ e
ricuperà per prossimo mese ché non
era ‘usa e getta’, manco ‘intervallo
velo’!
Allora, arpiàmo a drèdo, anca per
falcià’ ’l fiène e fa i pajàri, toccàa a
fadigà’ la madìna presto, scinò alla
sera ’n tra ’l calà’ del sole. Anca la
Cambiamo discorso un’altra volta,
ritorniamo all’argomento della guerra.
Sono stati anni duri, avevamo perduto
la fiducia, eravamo distolti dal lavoro,
perché anche le faccende di campagna
non si potevano fare e farle a tempo
debito, si ritardava tutto quanto. Dopo
la vendemmia del ’43, per seminare alle
vacche bisognava mettere delle coperte
nere e, quando arrivava un apparecchio, si sentiva da lontano… via sotto
gli alberi!
Dopo, nel ’44, quando si zappava il
grano, si piantava il granturco, come
sentivi un rumore… via al coperto, perché se vedevano un gruppetto di persone, andavano a bassa quota e ti mitragliavano. Le lenzuola e i panni bianchi
non si potevano stendere né per terra,
né fuori. Per esempio le ‘piagette’ dei
bambini, mettendole per terra, il sole le
imbiancava e le macchie andavano via
meglio; anche i pannolini delle donne,
quella volta toccava lavare e recuperare
per il mese successivo, perché non c’era
‘usa e getta’, nemmeno ‘intervallo velo’!
Allora, riprendiamo indietro, anche
per falciare il fieno e fare i pagliai,
bisognava lavorare il mattino presto, se
349
La fienagione: da notare come tutte le donne portino il “sinale” (coll. Giuliano Sellari).
mededùra è gida più allóngo. La
battidùra anca la fine d’agosto. ’Nté i
cavallétti, le barchétte c’èrene tante
schegge, toccàa a sta’ ’tènti quanno
montàsci su la maghina: sci boccàa
’na scheggia ’nté ’ battidóre, non
iéla fèra a ’ngollàlla, la buttàa per
aria e sci te chiappàa, sbrozzolósa
com’èra, te’mazzàa o te podéa tajà’
la faccia, te podéa ’ccegà’. Non ce
volìa montà’ nisciù’, che scinò era ’n
mistiere a sciòje’ i còi, piacéa a tutte
le donne, ma a cuèi tempi la paura
era nùmbero uno.
Dobo ’mpo’ de tempo c’è stada la
vendégna del ’44. Mi’ marìdo montàa
su l’oppi a còje l’ua e ’nté ’n bracciòlo ci’hà troàdo ’na bomba a ma’,
no la sera sul tramonto del sole. Anche la
mietitura è andata più a lungo. La trebbiatura anche alla fine di agosto. Nei
cavalletti, nelle barchette c’erano tante
schegge, bisognava stare attenti quando
salivi sulla macchina: se entrava una
scheggia nel battitore, questo non gliela
faceva ad ingoiarla, la buttava per aria
e se ti prendeva, ‘sbrozzolosa’ com’era,
ti ammazzava o ti poteva tagliare la
faccia, ti poteva accecare. Non ci voleva
salire nessuno, sennò era una cosa facile
sciogliere i covi, piaceva a tutte le donne,
ma a quei tempi la paura era al numero
uno. Dopo un po’ di tempo c’è stata la
vendemmia del ’44. Mio marito saliva
sugli oppi a cogliere l’uva e in un ramo
ha trovato una bomba a mano, fatta
350
fatta como ’n pennèllo. Anca dobo
du’ tre anni s’artroàa ’ste munizzió’.
A ’n vicinàdo nostro ié lìa messa ’nté
la ’mbrollétta della porta. E fortuna
che anca mi’ marìdo sapìa como
funsionàa!
Dobo guèra quanti n’è morti,
’rmàsti struppi! ’Na parènte fèra
da magnà’, un monellétto ìa troàdo
’st’ordigno, ma noà donne non
sapémma que era. Ce giogàa, ha
scoppiàdo: a lu’ i’hà portàdo via le
manine e a la madre ’na scheggia
i’hà cavàdo n’occhio.
come un pennello. Anche dopo due tre
anni si ritrovavano queste munizioni.
A un nostro vicino di casa gliel’avevano
messa (una bomba) nel saliscendi della
porta. E fortuna che anche mio marito
sapeva come funzionava!
Dopo la guerra quanti ne sono morti,
sono rimasti invalidi! Una parente faceva da mangiare, un bambino aveva
trovato un ordigno, ma noi donne non
sapevamo cosa fosse. (Questo bambino)
ci giocava, gli ha scoppiato: a lui ha
portato via le manine e alla madre una
scheggia le ha cavato un occhio.
“Non toccateli!” era
l’avvertimento
pressante degli anni
del dopoguerra. Qui
la classe V della
Scuola Elementare
di Pianello osserva
il manifesto posto
all’entrata della
scuola stessa. Anno
1954 (Coll. Gabriele
Balducci).
351
’N tipo duro
Un tipo duro
Uno che conoscìa be’ io era stado
richiamado, ha lassado la moje prégna e du’ fjòli, un maschio e ’na femmena, e dopo nove mesi era ora che
nascìa, ma cìa du’ monelli drento la
trippa. Cuélla vo’ se fèra ’nté ’n casa,
non se gèra all’ospedale. Pensàde
’mpo’: se gèra a pìa de notte, le luce
era tutte smorce, a chiamà’ la mammana; n’è che lìa fèra tanto de fuga:
dovìa alsasse, vestisse, pïà’ la valige
e via a pìa. Chi la gèra a chiamà’
ié fera strada, mango ’na pila non
se podìa portà’, perché ancora non
s’era sistemado be’: podìa pensà’
che c’era qualche nemìgo in giro.
Per quanno è riàda la mammana
era troppo tardi: era morta la madre
coi fjòli. Alla madina è gidi su dai
carabignéri a fa’ ’n telegramma al
Comanno, ’ndó era ’ncó’ ’l marido.
Quanno è riàdo lì casa, l’aspettàa
fòra la madre, i parenti pe’ consolallo. Lu’, ’nvéce i’hà ditto, alla madre:
“Vamme a còce’ tre quattro ovi!
Ci’ho ’na fame che ’n ce vedo!” Ansi
n’accuràa a faje coraggio: se ’l fèra
da per lu’.
Quanno ha finido de magnà’, è
gido a véde’ la moje, solo sull’arco
della porta. Va be’ che in guerra nìa
visti a morì’ tanti, ma penso che ’na
moje e du’ fjòli era de più! Era ’n
tipo duro, l’ chiamavane ‘’l Tartero’.
E dopo ’mpo’ ha preso ’n’antra moje,
e se lamentàaa anca cuélla: ha fatto
n’antri du’ fjòli, maschio e ’na fem-
Uno che conoscevo bene era stato
richiamato, ha lasciato la moglie incinta e due figli, un maschio e una femmina, e dopo nove mesi era ora del
parto, ma lei aveva due bambini dentro
la pancia. Quella volta si partoriva
in casa, non si andava all’ospedale.
Pensate un po’: si andava a piedi di
notte, le luci erano tutte spente, a chiamare la levatrice. Non è che lei facesse
tanto alla svelta: doveva alzarsi, vestirsi, prendere la valigia e via a piedi. Chi
la andava a chiamare le faceva strada,
nemmeno una pila si poteva portare,
perché ancora non si era sistemato
bene: si poteva pensare che in giro ci
fosse qualche nemico.
Per quando è arrivata la mammana
era troppo tardi: era morta la madre
con i figli. La mattina sono andati dai
carabinieri per fare un telegramma al
Comando, dove era ancora il marito.
Quando (questo) è arrivato a casa,
l’aspettavano fuori la madre, i parenti
per consolarlo. Lui, invece, ha detto alla
madre: “Vammi a cuocere tre quattro
uova! Ho una fame che non ci vedo!”
Anzi bisognava fargli coraggio: se lo
faceva da solo!
Quando ha finito di mangiare, è
andato a vedere la moglie, solo sull’arco
della porta. Va bene che in guerra ne
aveva visti morire tanti, ma penso che
la moglie e due figli fossero (qualcosa)
di più! Era un tipo duro, lo chiamavano ‘Il Tartaro’. E dopo un po’ ha preso
un’altra moglie, e si lamentava anche
352
mena. Prò cuélla vò’ non c’era ’l
devorzio, scinó la moje era scappada via.
quella: ha fatto altri due figli, maschio
e femmina. Però quella volta il divorzio
non c’era, se no la moglie sarebbe scappata via.
Che vida da sposàda!
Che vita da sposata!
A quei tempi me parìa de sta’
an galera, no d’èmme’ sposàda: che
vida c’ho fatto! Io co’ ’l marido ce
stèra a la notte e po’ manco tutta
sana perché noà contadì’ d’istàde
fadigàmma anca 20 ore su 24; presempio de mededùre s’ardunàa i
còi fina le undici, dobo magnàsci
’mboccó’ de pa’, ’na lavàda i pìa ’nté
la pozza, gèsci a letto guasci a mezzanotte; ’mpo’ t’arbadurlàsci a fa’
l’amore, alle quattro in pìa ’n ’antra ô
a fa’ i balsi del gra’, ché quanno era
guazzàdo tenìa mejo.
Al giorno mi’ socero ’n te ce
facéa fadigà mai insieme, ié parlavi, ’l vedevi ’na volta o due, capace
quanno gìsci a magnà’, scinò manco
cuélla vo’ ’n se vidìa. Tante le ô lóra
lavoràa là ’l campo e noà magari o
che vangamma o che fèmma ’n altro
laóro: allora ié portàa da magnà’ ai
buffaràri là ’l campo e noà magnàmma spartìdi ’mpezzo de pa’ luscì. E
po’, como ho ditto ’n’antra ò, l’istade
sci c’è ’n pommidòro, sci c’è ’na
cipólla, ma n’era contenti manco
cuélla che se magnàa perché dicìa
che la cipolla bisogna lassàlla sta’
pe’ l’inverno.
A quei tempi mi pareva di stare
in galera, non di essermi sposata: che
vita che ho fatto! Io col marito ci stavo
la notte e poi nemmeno tutta intera,
perché noi contadini d’estate faticavamo anche venti ore su ventiquattro;
per esempio durante la mietitura si
radunavano i covi fino alle undici,
dopo mangiavi un boccone di pane,
una lavata ai piedi nella pozza, andavi
a letto quasi a mezzanotte, un po’ perdevi tempo a fare l’amore, alle quattro
in piedi un’altra volta a fare i ‘balsi’
di grano, perché (questo), quando era
bagnato di guazza, teneva meglio.
Durante il giorno mio suocero non
ti ci faceva lavorare mai insieme; gli
parlavi (al marito), lo vedevi una volta
o due, magari quando andavi a mangiare, se no neppure in quel momento
si vedeva. Spesso arava là nel campo e
noi magari o vangavamo o facevamo un
altro lavoro: allora si portava da mangiare ai buffarari là nel campo e noi
mangiavamo divisi un pezzo di pane
così. E poi, come ho detto un’altra volta,
l’estate se c’era un pomodoro, se c’era
una cipolla, ma (i suoceri) non erano
contenti nemmeno che si mangiasse
quella, perché dicevano che la cipolla
353
Eh, allora dobo quanno venìa la
notte soli ce se stèra poghe ore insieme. Io quanno cìo cuélla monelletta,
la prima che m’è nada, per me è stada
’na gran soddisfazió’: gèra a curà’
le pègore, dicìa sempre: “Signore
t’aringràzio...!” C’émma perché anca
le pègore, mi’ socera facìa ’l cacio…
bisogna lasciarla per l’inverno. E allora
dopo, quando veniva la notte, soli ci
si stava poche ore insieme. Io quando
avevo quella monelletta, la prima che
mi è nata, per me è stata una grande
soddisfazione: andavo a far pascolare
le pecore, dicevo sempre: “Signore ti
ringrazio…!” Avevamo anche le pecore,
mia suocera faceva il cacio…
Nisciùna compasció’… quanta
compasció!
Nessuna compassione… quanta
compassione!
Anca quanno era prégna, ’n me
se sparagnàa nisciuna fadìga. Pre­
sempio, quanno s’ardunàa pe’ fa’ ’l
barcó’, io più che altro stèra sempre
sul biròccio a comedà i còi, anca
quanno portàa i monèlli. Pensàde
vuà, con cuélla buràccia grossa
alsà’ tutto cuèl peso!
La prima monelletta ’ncó’ era
mezzo tempo, ’l maschietto era sul
settimo mese, che sci fusse gida dalla
mammàna, m’averìa ditto: “Méttede
sùbbedo a riposo scinó te nasce
prima del tempo!” Scì, domà’! ’N se
gèra ’nvèlle, dovìsci fadigà’ e basta.
L’ultima monellétta è nada ’l primo
d’agosto, ne ’l so, sarò stada grossa!
Era como ’na bótte, eppure nisciuna
compasció’. Mi’ sòcera ce nìa ûdi
otto, podìa avé compasció’ de me.
’Nvéce me dicìa: “ ’N c’è bisogno de
fa’ i monèlli!” Allora scì che m’ha
toccàdo a dìje: “Ma vo’ l’éde fatti!
Allora anca a me piace avécceli!” Ié
Anche quando ero incinta, non mi
risparmiavano nessuna fatica. Per
esempio, quando si radunava per fare
il barcone, io più che altro stavo sempre
sul biroccio a sistemare i covi, anche
quando portavo i monelli. Pensate voi,
con quella pancia grossa alzare tutto
quel peso! La prima bambina era ancora a metà tempo, il maschietto era sul
settimo mese così che, se fossi andata dalla mammana, mi avrebbe detto:
“Mettiti subito a riposo, sennò ti nasce
prima del tempo!” Sì, domani! Non si
andava in nessun luogo, dovevi faticare
e basta. L’ultima figlia è nata il primo
agosto; non lo so, sarò stata grossa?
Ero come una botte, eppure nessuna
compassione. Mia suocera ce ne aveva
avuti otto: avrebbe potuto avere compassione di me. Invece mi diceva: “Non
c’è bisogno di fare i figli!” Allora sì che
ho dovuto dirle: “Ma voi li avete fatti i
monelli! Allora anche a me piace averceli!” Gliel’ho detto, calma, un po’ ridendo,
354
l’ho ditto, calma, ’mpo’ ridènno, ma
drendo de me era pîna como l’òo.
“E per que me so’ maridàda, solo pe’
gambià casa al peggio?” – ma questo
no gné l’ho ditto.
Per me ’nté la vida c’era e c’è solo
fjòli e marìdo, de’ resto que vô de
più? Valli a fa’ adè’! A 23 anni ’ncó’
’n ce nìa nisciù, a 29 ce lìa tutti tre…
vôl di’ che me piacìa, no! Quanno
vedìa cuélle madre che dentórno ce
nìa quattro cinque e uno ’nté la trippa, scì che me ce ’ncantàa a guardalle! Me parìa de véde’, como l’ho
ditto ’n’antra ò, cuèlle gallinèlle che
fedàa ’n tra le fratte e ’n s’artroàa
i’ovi. Dobo 21-22 giorni scappàa a
beccà’ co’ ’na coàda de pulcinellétti
de drèdo che te fèra compasció’ per
com’era premurosa la madre. Guai
sci ne chiappai uno, te saltàa addosso, te dèra i sbezigòtti.
Quanno de maggio falciài l’erba,
fujàa ’na quaja co’ ’na filàda de fjòli
appena nadi che ’ncó’ cìa la scorsa
dell’òo taccàda. Quante ’olte l’émo
viste! Miga ié se la fèra a chiappàlle! Se dice per dittàdo: “È sveltra
como ’na quaja!” Alla madina, quanno gèra in amore, ’n tra ’l maschio
che chiamàa alla fémmena e lìa che
i’arisponnìa… era ’na mùsega!
Ma adè’n c’è più, co’ tutti ’sti
veleni, né quaje, né calandre, cuèlle
bestiole che fèra la coétta per tèra…
È sparìdo nigò, ma te fèra ’na compasció’ a vedélle com’era premurose
coi fjòli.
ma dentro di me ero piena come l’uovo.
“ E per che cosa mi sono maritata, solo
per cambiare casa al peggio?” – ma questo non gliel’ho detto.
Per me nella vita c’erano e ci sono
solo figli e marito, del resto che cosa
voglio di più? Vai a farli adesso! A 23
anni ancora non ne avevo nessuno (di
figli), a 29 ce li avevo tutti e tre…vuol
dire che mi piacevano, no! Quando
vedevo quelle madri che dintorno ce
ne avevano quattro cinque e uno nella
pancia, sì che mi ci incantavo a guardarle! Mi pareva di vedere, come ho
detto un’altra volta, quelle gallinelle
che facevano le uova tra le fratte e non
si ritrovavano le uova. Dopo 21-22
giorni scappavano per beccare con una
covata di pulcinelletti di dietro e ti
faceva compassione per come la madre
era premurosa. Guai se ne prendevi
uno, (la madre) ti saltava addosso, ti
bezzicava. Quando a maggio falciavi
l’erba, fuggiva una quaglia con una
fila di figli appena nati che ancora
avevano il guscio dell’uovo attaccato.
Quante volte le abbiamo viste! Mica
si riusciva a prenderle! Si dice come
motto: “È svelta come una quaglia!” La
mattina quando (le quaglie) andavano
in amore, tra il maschio che chiamava
la femmina e lei che gli rispondeva…
era una musica!
Ma adesso non ci sono più, con tutti
questi veleni, né quaglie, né allodole,
quelle bestiole che facevano il piccolo
nido per terra… È sparito tutto, ma ti
faceva compassione vederle come erano
premurose con i figli.
355
L’uccèlli: ’gnuno fa ’l verso sua!
Gli uccelli: ognuno fa il suo verso!
Tanto più che se parla dell’uccelli,
ognuno fa ’l verso sua e tutti parla,
sci li stai a sentì’. ’N tra aprile e maggio la cilìcchia o paruccia maschio
dice al contadì’: “Piantacéce, piantacéce… tardacì… pudaccì, tardacì..
pudaccì .. tardacì! ”. Ne ’l so qualo
serà ’l vero nome, ché quanno l’ha
battizzàda io ’ncó’ n’era nada. Can­
tànno ié l’arcòrda al contadì ’ch’è ora
de piantà’ l’ortaggi e legà’ le vide. La
femmena canta: “Siccipàpa , siccipapa…”
La tórtola nostrale canta: “Cucùza,
cucùza, cucùza”. Cuélla rustiga sempre la tórtola fa “cru, cru, cru!” Cuélla
del posto fa: “Cruccúuu, cruccúuu”,
móèndo la testa da ’n su e da ’n giù,
mentre sta chiamando ’l maschio.
’L tordo gentile fa “zic zic zic
zic…” ; ’l merlo fischia “zi zi zi zi,
chiò, chiò, chiò”. ’L rosciòlo fa “zzzz
chioc, chioc, chioc… ’L tordo briscàro “crrr,crrr, crrr”; la calandra fa
“chirulì, chirulì,chirulì, su, su, su!” ’L
paóne fa “ghèèèèè ghèèèè ghèèèè”; le
faraóne la femmena fa “tuttevàcche,
tuttevacche, tuttevacche; ’l maschio
“chièr, chièr, chièr”; ’l fagiano “ca, ca,
ca”, quando è spaéntàdo sgaggia.
A lo rusignòlo ié n’è capidada
una bella. S’era messo a dormì sopra
’l maiòlo de ’na vida, cuélla parte
che fa l’ua, e lì c’è quei ricci che
fa ’l viticcchio vicino al capo, che
sarìa ’l sampigó’. Questi chì cresce
de notte e lo rusignòlo che dormìa
Tanto più che si parla degli uccelli,
vi dico che ognuno fa il suo verso e tutti
parlano, se li stai a sentire.
Tra aprile e maggio la cinciallegra
o paruccia maschio dice al contadino: Piantacéce, piantacéce… tardacì…
pudaccì, tardacì.. pudaccì .. tardacì!”.
Così questo uccello è chiamato anche
“piantaceci”. Non lo so quale sarà il
suo nome vero, perché quando l’hanno battezzata io ancora non ero nata.
Cantando glielo ricorda al contadino
che è ora di piantare gli ortaggi e di
legare le viti. La femmina poi canta così:
“Siccipàpa , siccipàpa, siccipàpa”:
La tortora canta: “Cucùza, cucùza,
cucùza”. Quella africana, sempre tortora, fa “cru, cru, cru!” Quélla del posto
fa: “Cruccuuu, cruccuuu”, muovendo la
testa su e giù, mentre sta chiamando il
maschio.
Il bottaccio fa “zic zic zic zic…”;
il merlo fischia “zi zi zi zi, chiò,
chiò, chiò”. Il tordo sassello fa “zzzz
chioc, chioc, chioc… La tordela “crrr,
crrr, crrr”; l’allodola fa “chirulì, chirulì, chirulì, su, su, su!” Il pavone fa
“ghèèèèè ghèèèè ghèèèè”; delle faraone la
femmena fa “tuttevàcche, tuttevàcche,
tuttevàcche”; il maschio “chièr, chièr,
chièr”; il fagiano “ca, ca, ca”, quando è
spaventato grida.
All’usignolo gliene è capitata una
bella. Si è messo a dormire sopra il
tralcio di una vite, quella parte che fa
l’uva, e lì ci sono quei ricci che fa il
viticcio vicino al grappolo. Questi qui
356
non s’è ’ccòrto, i’hà ’ngainàdo le
dèda. Quanno s’è ’ccòrto, s’è messo
a cantà’: “Sci n’èra la vide… scì n’era
la vide… sci n’era la vide… dormìa
finànta giorno chiaro! chiaro! chiaro!
La vite … la vite… la vite…. chiaro
… chiaro … chiaro”.
Envéce le tre notte più jàcce
dell’anno, l’ultimi dì de gennàro, la
merla, ch’èra tutta bianga, s’è piattàda drendo al camì, ce s’è ’ndormentàda, perché lì ce stèra calla, ma
prò s’è ténta tutta: apposta adè’ è
tutta nera! È vero? boooh! L’ho’ntéso
a di’: a dillo ié la fô, ma a fàvvece
créde’ no.
Adè stade a sentì’ ’st’altra storia.
’L sapéde perché ’l pettoróscio d’annànse ci ’ha le penne macchiàde?
’L venardì santo, mentre volàa, s’è
pusàdo sulla croce del Signore, ha
vedùdo i spì’ infilsàdi ’nté la fronte: co’ ’no sbezzigòtto n’ha scarpìdo
uno e ’no sguilso de sangue i’hà
macchiàdo le penne sotta al becco.
Apposta se chiama “pettoróscio”!
crescono di notte e l’usignolo che dormiva non si è accorto: gli aveva avvinto
le dita. Quando si è accorto, si è messo
a cantare: “Sci n’èra la vide… scì n’era
la vide… sci n’era la vide… dormìa
finànta giorno chiaro! chiaro! chiaro!
La vite … la vite… la vite…. chiaro …
chiaro … chiaro!”
Invece nelle tre notti più fredde
dell’anno, gli ultimi giorni di gennaio, la merla, che era tutta bianca, si
è nascosta dentro al camino; ci si è
addormentata, perché lì ci stava calda,
però si è tinta tutta: apposta ora è
tutta nera! È vero? boooh! L’ho sentito
raccontare: a dirlo gliela faccio, ma a
farvici credere, no.
Adesso state a sentire quest’altra
storia. Lo sapete perché il pettirosso davanti ha le penne macchiate?
Il venerdì santo, mentre volava, si è
posato sulla croce del Signore, ha visto
le spine infilzate sulla fronte: con una
bezzicata ha tirato via una spina e uno
schizzo di sangue gli ha macchiato le
penne sotto il becco. Apposta si chiama
“pettirosso”!
Quanno me so’ sgravàda la prima vo’
Quando ho partorito la prima
volta
M’arcordo cuélla sera prima che
me nascésse la monella, so’ gida a
mógne. I’hò ditto a mi’ socera:- Io
ci’hò i dolori!” “Eh, - ha ditto - co’
si dolori lì non nasce adè’ i monelli!
Troppo ce vôle più grossi. Ancó vu’
’n ce séde passàda mai!” “Cojó!, già
Mi ricordo quella sera prima che
mi nascesse la monella, sono andata
a mungere. Le ho detto a mia suocera:
“Io ho i dolori!” “Eh, - ha detto – con
questi dolori non nascono adesso i
figli! Troppo ci vogliono più grossi.
Ancora voi non ci siete passata mai!”
357
comensàa a èsse’ grossi abbastanza” – pensào tra de me.
E dopo cuélla ’olta mìa ditto
cuélla pôra mamma: “Per caridà,
quanno stai male fàmmelo sapé’
sa, ce vojo èsse’ anch’io assìste’ al
pàrtolo!” Allora dicìa mi’ socera: “È
le ùnnici, ’ndó vai ormai stasera!”
Cuélla vo’ ’n c’era ’l talefano, ’n
c’era gnè. “Eh, domadìna ’l faremo
sapé’ a la madre!” Prò i dolori incominciàa a pïàmme sempre ’mpo’
più grossi ’mpo’ più grossi, ma io ’n
sapìa quant’era grossi pe’ fa’ nàsce’
’n fjòlo.
Va be’, so’ gida a letto ma cuélla
notte n’ho dormido. Dopo, vèro le
cinque de la madìna, non ne podéo
più, allora mi’ socera ha ditto al
fjòlo, cuéllo piccolo: “Va’ a chiamà’
la madre!” È gido a chiamà’ cuélla
pôra mamma, è venuda giù a pìa da
lassù, pôretta!, . anca sensa magnà’
e dobo ha pïàdo ’na fetta de pa’ lì
casa. Ha ditto: “Fija mia, - era vèro
le otto e mezzo le nove - ma questi
n’è dolori da fa’ nàsce’ ’n fjòlo!”.
Anca lìa me l’ha ditto. Cojó! A tribbolà’ ’mpo’ fino a la sera, tutta la
notte dopo. La madina dobo mìa
pïàdo più forte, non ne podéo più.
Allora è gidi a chiamà’ la levadrice.
È ’nuda giù cuélla pôra Cardina. Ha
ditto: “Fija mia, chì ancó’ c’è ’mpo’
de tempo”.
Io, capirai, già era stufa, ’n ne
podéo più, era du’ notti e du’ giorni
che stàa a tribbolà’, ma cuélla vo’
’n se gèra all’ospedale pe’ falla alla
“Cojó’, già incominciano ad essere grossi abbastanza” – pensavo tra me.
E dopo, quella volta, mi aveva detto
quella povera mamma: “Per carità,
quando stai male, fammelo sapere, sa;
ci voglio essere anch’io ad assistere
al parto!” Allora diceva mia suocera:
“Sono le undici, dove vai ormai stasera!” Quella volta non c’era il telefono,
non c’era niente. “Eh, domattina lo
faremo sapere alla madre!” Però i dolori
incominciavano a prendermi sempre un
po’ più grossi, un po’ più grossi, ma io
non sapevo quanto erano grossi per far
nascere un figlio. Va bene, sono andata
a letto, ma quella notte non ho dormito.
Dopo, verso le cinque della mattina, non
ne potevo più, allora mia suocera ha
detto al figlio, quello piccolo: “Vai a chiamare la madre!” È andato a chiamare
quella povera mamma, è venuta giù a
piedi da lassù, poveretta, anche senza
mangiare e dopo ha preso una fetta di
pane a casa. Ha detto: “Figlia mia, - era
verso le otto e mezzo le nove – ma questi non sono dolori da far nascere un
figlio!” Anche lei me l’ha detto. Cojó’! A
tribolare un po’ fino alla sera, tutta la
notte dopo. La mattina dopo (i dolori)
mi avevano preso più forte, non ne potevo più. Allora sono andati a chiamare
la levatrice. È venuta giù quella povera
Cardina. Ha detto: “Figlia mia, qui
ancora c’è un po’ di tempo”.
Io, capirai, già ero stufa, non ne
potevo più, erano due notti e due giorni
che stavo a tribolare, ma quella volta
non si andava all’ospedale per farlo
alla svelta il monello, sa! Dovevi star lì
358
sveltra ’l monello, sa! Dovìsci sta’
lì finché ’n te venìa propio grossi
grossi. E dobo è ’rnuda giù dobo
mezzogiorno. “Fija mia, - ha ditto me sa che passi anca stanotte”.
Era de sabbedo, e va be’, è passàda anca la notte dobo. Arvène
giù domenniga madìna. Ha ditto:
“Oggi me sa che nasce!” La pôra
Cardina, quanno vidìa che n’èra ora,
dicìa: “Vo’ ma’ - dicìa a mi’ socera preparade cualcò’ da magnà’. Anca
a mezzanotte la levadrice magna.
Tutte l’ore magna la levadrice!”. E
po’, quanno non ié gèra più, sa que
facìa? ’L mettìa ’nté ’n pezzo de...
coso come ’n tovajòlo: lì c’invoricchiàa, sci ié dèsci l’ôi, cuél che i
dèsci, cacciàa giù pe’ lo stommigo,
lìa portàa via nigò cuél che i dèsci,
’l lardo, cuél che i dèsci, pïàa nigò.
Allora mi’ socera i’hà datto ’mpo’
d’ôi, lìa ha preso l’ôi e po’ ha ditto:
“Ci’arve­démo vèro mezzogiorno!” È
venùda giù vèro mezzogiorno, po’
’sta monella è nada ma, sci sapìa
che se dovéa tribbolà’ luscì... Ho
ditto: “Non fô più ’n fjòlo manco…
per caridà! a tribbolà cuscì!”
finché non ti venivano proprio grossi
grossi. E dopo (la mammana) è ritornata dopo mezzogiorno. “Figlia mia – ha
detto – mi sa che passi anche stanotte!”
Era di sabato, e va bene: è passata
anche la notte dopo. (La levatrice) ritorna la domenica mattina. Ha detto: “Oggi
mi sa che nasce!” La povera Cardina,
quando vedeva che non era ora, diceva:
“Voi, mamma – diceva a mia suocera –
preparate qualcosa da mangiare. Anche
a mezzanotte la levatrice mangia. Tutte
le ore mangia la levatrice”. E poi, quando non le andava più, sa che cosa faceva? Lo metteva in un pezzo di… còso
come un tovagliolo: lì ce lo avvolgeva, se
le davi le uova, quello che gli davi, cacciava giù sopra lo stomaco, lei portava
via tutto quanto quello che le davi: il
lardo, quello che le davi, prendeva tutto
quanto.
Allora mia suocera le ha dato un po’
di uova, lei ha preso le uova e poi ha
detto: “Ci rivedremo verso mezzogiorno!” È venuta giù verso mezzogiorno,
poi questa monella è nata ma, se sapevo
che si doveva tribolare così… Ho detto:
“Non faccio un figlio manco… per carità! a tribolare così!”
Finìda la dòja, artórna la vòja
Finita la doglia, ritorna la voglia
Oh, finìda la dòja, artórna la vòja!
N’era manco dobo due anni e mezzo
già è arnàdo ’n’antro fjòlo, ’l maschio.
I fjòli me piacéa ’mbelpo’, n’ho fatti
tre, ma sci no’ m’ero ’mmalàda, capa-
Oh, finita la doglia, ritorna la voglia.
Non erano passati nemmeno due anni
e mezzo, già è nato un altro figlio, il
maschio. Mi piacevano molto i figli, ne
ho fatti tre, ma se non mi fossi amma359
ce ne fèra n’antri po’, perché quanno
ci’hai le dòje ce se pensa, ma quanno
è passado ’l dolore ’n ce se pensa
più. Coscì è venùdo’l maschio.
Pensàde quanto i soceri mia tenìa
a conto: le mammàne toccàa a pagàlle, ’nvece i dottori no’ se pagàa,
cuélla ’olta, dopo passada la guèra.
E allora noà c’émma ’l dottore del
Selétto, se chiama Sabaài, era ’l dottore nostro. Dicéa mi’ socero: “Gide
a fàvve véde’ dal dottore, no da la
mammàna!” Io, envéce, quanno gèra
a Montalbò’, tante le ô a la Messa,
ce gèra de rado, ma, quanno ce gèra,
la mammàna m’avìa visto che cìo la
trippa grossa, no. M’ha ditto: “Fija,
quanno l’hai da fa’?” E io i’ho ditto:
“Non ne ’l so sci a ottobre o noèmbre, de preciso non ne ’l so”. “E va
be’! Dobo vène a fa’ ’na visida!” Ma
io non gné podéo di’ che mi’ sòcero
non vôle, perché c’è da pagà’. A lìa
toccàa a pagàlla. E allora dobo è
passàda luscì.
Quanno stèra pe’ nàsce’ ’sto
monèllo, ènne gidi a chiamà’ ’l dottore, ha fatto ’ni ’l dottore. Va be’
ch’io ho tribbolàdo pogo sa, ch’era ’l
segondo ma... È venùdo ’sto dottore,
ha ditto: “Adè’ ’l fàmo nàsce’!” Era le
dieci e l’ha fatto nàsce’ ”. Capirai, è
’nudo oltra lu’, lu’ stèra là ’l Selétto,
noà stèmma giuppe la buga. I soldi
n’ha preso gnè, i’hà datto cuscì cualcò’ de rigàlo, non so sci i’hà datto
quattro o cinqu’ovi e lu’ segnàa ’nté
la cosa, ’nté ’l registro, che avéa
assistido a ’n parto. E po’ in quan-
lata, magari ne facevo ancora altri, perché quando tu hai le doglie ci si pensa,
ma quando è passato il dolore, non ci si
pensa più. Così è venuto il maschio.
Pensate quanto i miei suoceri tenevano a conto: le levatrici bisognava
pagarle, invece i dottori non si pagavano, quella volta, nel dopoguerra. E allora noi avevamo il dottore del Seletto, si
chiamava Sabani, era il dottore nostro.
Diceva mio suocero: “Andate a farvi
vedere dal dottore, non dalla mammana!” Io, invece, quando andavo a
Montalboddo, tante le volte alla Messa,
ci andavo di rado ma, quando ci andavo, la mammana mi aveva visto che
avevo la pancia grossa, no. Mi ha detto:
“Figlia, quando lo devi fare?” E io le ho
detto: “Non lo so se a ottobre o novembre;
di preciso non lo so”. “Va bene! Dopo
vieni a fare una visita!” “Ma io non le
potevo dire che mio suocero non voleva,
perché c’era da pagare. A lei toccava
pagarla. E allora dopo è passata così.
Quando stava per nascere questo
monello, sono andati a chiamare il
dottore, hanno fatto venire il dottore.
Va bene che io ho tribolato poco sa,
perché era il secondo, ma… È venuto
questo dottore, ha detto: “Adesso lo
facciamo nascere!” Erano le dieci e
l’ha fatto nascere. Capirai, è venuto
lui, che stava al Seletto, noi stavamo
giù nella buca. Di soldi non ha preso
niente, gli hanno dato così qualcosa di
regalo, non so se gli hanno dato quattro
cinque uova e lui segnava, nel registro,
che aveva assistito a un parto. E poi
in quanto a quello era bravo sa; sarà
360
to a cuéllo era brào sa; sarà stado
’mpo’ svéltro, ma era brào. Noaltri
ce gèmma d’accordo, me venìa anca
a fa’ le punture lì ca’ dobo quanno
me so’ ’mmalada, pe’ non fàmme gi’
a l’ospedale. Me venìa a fa’ le punture ’ntevenóse lì casa, perché io n’ero
più in grado, momenti, da gi’ oltra là
a caminà’, perché toccàa a gi’ suppe
i campi, poi ci’avìa tre monelli: que
facéi? Li lasciài a casa da per lora?
Toccàa portàlli drèdo. Cuélla piccolina, sedici mesi, me toccàa a pïàlla
su i bracci, a portàlla drèdo, quanno
ero ’rivada su, ero morta. Podéo fa’
la puntura dobo? Allora, pôretto, me
le venià a fa’ lì casa: quant’era brào!
stato un po’ svelto, ma era bravo. Noi ci
andavamo d’accordo, mi veniva anche
a fare le iniezioni lì casa, quando mi
sono ammalata, per non farmi andare
all’ospedale. Mi veniva a fare le iniezioni endovenose lì casa, perché io non
ero più in grado, quasi, di andare là
(al Seletto) camminando, perché toccava camminare per i campi, poi avevo
tre monelli: che facevi? Li lasciavi a
casa da soli? Toccava portarli dietro.
Quella piccolina, sedici mesi, mi toccava prenderla in braccio e portarla dietro; quando ero arrivata su, ero morta.
Potevo fare l’iniezione dopo? Allora,
poveretto, me le veniva a fare lì casa:
quanto era bravo!
Bimbo che dorme
all’aperto. Foto anno
1949.
361
Laòri e cansóni alla buffaràra
Lavori e stornelli ‘alla buffarara’
Quanno che me so’ sposàda,
como v’ho ditto, la faméja ’ndó’ so’
boccàda era ’mpo’ numberósa, co’
otto fjòli. Cuélla vo’, fumma nove
persone, dieci col nonno e po’ dobo
lì ha comènsàdo a gi’ avanti ’mpo’
peggio de quanno stèra a casa mia.
Quanno era l’inverno toccàa alsàsse
a la madìna presto a filà’ giù la stalla
col filarìno, perché co’ la conòcchia
io non sapéo fa’, e mi sòcera tesséa
al telàro la dòda pe’ le fije, eh avéa
quattro fémmene! Lì toccàa a fadigà’
a tutti. I buffaràri güèrnàa e po’ se
gèra su vèro le nove, se mettìa su
fasciòli, cece, segondo como c’era,
o càoli a colazió’, e po’ dobo giuppe
’l campo: oggi a fa’ la cannafoja de
’sti tempi, oppure a gi’ a fa’ ’n fascio
d’erba, a pulì i fossi e po’ dobo
quann’era la doménniga se gèra a
la Messa. Se venìa a casa, se fèra
du’ maccarù’, cuélli sens’ovi, e po’
de ’sti tempi, sci c’era ’n pezzo de
codiga del porco perché i presciutti
li vendìa, le salcicce se pïàa mezza
però quann’era de domenniga, ’nté i
giorni de laóro la robba de maiàle ’n
se magnàa.
La sera a cena, de ’sti tempi, c’era
du’ scorpìgni e c’era ’n ceppo d’ansalàda nera che adè’ se dà ai polli
perché ’n se magna: a cuéi tempi
se magnàa cuéll’ansalàda nera, che
po’ ce n’era poga perché ’n c’era
né l’acqua, né ’l tempo da piantàlla.
Sicché cuscì se gèra avanti, se finìa
Quando mi sono sposata, come vi ho
detto, la famiglia dove sono entrata era
un po’ numerosa, con otto figli. Quella
volta eravamo in nove, dieci col nonno
e poi dopo ha cominciato ad andare
avanti un po’ peggio di quando stavo a
casa mia. Quando era l’inverno toccava
alzarsi la mattina presto per filare con
il ‘filarino’, perché con la conocchia io
non sapevo fare, e mia suocera tesseva
al telaio la dote per le figlie. Eh, aveva
quattro femmine! Lì bisognava lavorare
tutti. I buffarari governavano e poi si
andava su (in cucina) verso le nove; si
mettevano su fagioli, cece, secondo come
c’era, o cavoli a colazione, e poi dopo
per il campo: oggi a fare la cannafoglia,
oppure andare a fare un fascio d’erba, a
pulire i fossi e poi, quando era domenica, si andava alla Messa.
Si veniva a casa, si facevano i maccheroni, quelli senza uova, e poi, di
questi tempi, se c’era un pezzo di cotica
di porco perché i prosciutti li vendevano,
delle salsicce se ne prendeva mezza per
uno, però quando era di domenica: nei
giorni di lavoro la roba di maiale non
si mangiava. La sera a cena, di questi
tempi, c’erano due crespigni e c’era un
ceppo d’insalata nera che adesso si dà ai
polli, perché non si mangia: a quei tempi
si mangiava quell’insalata nera, che poi
ce n’era poca, perché non c’era né l’acqua, né il tempo di piantarla. Sicché così
si andava avanti, si finiva la serata. Si
andava a letto un po’ tardi, mangiavi un
po’ poco, perché a quei tempi si campava
362
la seràda. Se gèra a letto ’mpo’ tardi,
magnài ’mpo’ pogo perché a cuéi
tempi se campàa co’ la tessera. Dobo
de la guèra s’è stadi ’mpo’ male ’mpo’
de tempo e cuscì se passàa.
Adè, prò, ve vojo parlà’ ’mpo’ de’
buffarari. D’istàde s’alsàa a mezzanotte a güernà’ le bestie e po’ dobo
chiamàa a quel’àltri, s’attaccàa le
bestie pe’ gi’ a laórà’. Allora quanno
che s’alsàa ’l buffaràro, pogo dobo
toccàa alsasse le donne, se preparàa
la colazió’ e po’ dobo se gèra giuppe ’l campo, quanno che ancó’ era
scuro, vèro le quattro, a vangà’ i filù’
oppure a gi’ a fa’ la foja pe’ le bestie
scinónca a gi’ a fa’ ’l granturchetto, a
capezzà’ ’n fascio d’erba co’ la falcétta, sempre pe’ le bestie, a careggià’
l’acqua che c’era da careggiàlla pe’
le bestie, per mezzo chilometro co’
le callaròle, anca quaranta cinquanta
callaròle per madìna che c’era ’na
quindicina de bestie. Toccàa da’ da
be’ a tutte co’ la caldaròla! E lì i buffarari se alsàa, güernàa le bestie e
po’ mettìa sotta. Si dicìa cuscì a cuéi
tempi: o le vacche o i boi cuél che
è! Ce volìa pe’ ’l pertigaro quattro
bestie, du’ pari, anca tre pari, quanno la tèra era dura. E lì dobo uno
tenìa ’l pertigàro e quél’altro toccàa
la stroppa. A volte toccàa anca a gi’
una a portàlla avanti ché ’ste bestie,
cuélle ch’era vecchie, pôre bestie,’l
sapìa che una dovìa sta’ da sólco una
da mà’, ma cuélle ch’era giovane no’
stàa a sentì’ o che se fermàa, che se
puntàa: toccàa a tiràlla avanti co’ le
con la tessera. Dopo la guerra si è stati
un po’ male per un po’ di tempo e così
passava.
Adesso, però, vi voglio parlare un
po’ dei ‘buffarari’. D’estate (il buffararo) si alzava a mezzanotte a governare
le bestie e poi dopo chiamava gli altri
e si aggiogavano le bestie per andare
ad arare. Allora quando si alzava il
buffararo, poco dopo le donne dovevano
alzarsi, si preparava la colazione e poi
dopo si andava per il campo, quando
ancora era buio, verso le quattro, a
vangare i filari oppure andare a fare
la foglia per le bestie oppure andare a
tagliare il granturchino, a rimediare un
fascio d’erba con la falce, sempre per le
bestie, a trasportare l’acqua, che bisognava trasportarla per le bestie: mezzo
chilometro con le calderelle, anche quaranta cinquanta calderelle per mattina,
perché c’erano una quindicina di bestie.
Bisognava dare da bere a tutte con la calderella. E lì, come vi ho detto, i buffarari
si alzavano, governavano le bestie e poi
mettevano sotto (le aggiogavano e andavano ad arare). Si diceva così a quei
tempi: o le vacche o i buoi, quello che era!
Ci volevano per (tirare) l’aratro quattro
bestie, due paia, anche tre paia, quando
la terra era dura. E lì, dopo, uno teneva
l’aratro e quell’altro ‘toccava la stroppa’.
A volte bisognava anche andare a portarla avanti qualcuna, perché queste bestie,
quelle che erano vecchie, povere bestie,
lo sapevano che una doveva stare nel
solco, una ‘da mano’, ma quelle giovani
non stavano a sentire: o si fermavano o
si ‘puntavano’: bisognava tirarle avanti
363
corde, sicché certe ’olte ce volìa in
tre. Scalsi, giuppe pe’ cuélle stóppole, era chiamàde ‘stoppole’ perché se
falciàa’l gra’ co’ la falce fenàra, era
anca bell’aggùzze, gìva be’: c’era i pìa
sotta parìa le solette delle scarpe. De
notte o che piccàa ’nté i pìa, o che
s’inciampàa e lì toccàa fa’ como Dio
voléa. E po’ dobo, quanno che era
vèro le otto, se vidìa che ’l sole era
alto e ancó’ la vergàra non portàa la
colazió’. Sci portàa oltra la colazió
de cuéi tempi c’era ’n pommidòro,
’na fettarella de lonza che sci la
mettei controluce se vedéa la luna
o ’l sole, che già s’era leàdo. E lì se
magnàa a colazió’: ’n pezzo de pa’,
a volte quann’era de cuéi tempi n’è
che c’era tanta robba eh!, c’era tante
le ô ’na frittàda, ma scinò a l’invèrno
no eh! L’òi se vendìa pe’ comprà’
du’ sardèlle tante vo’ oppure pe’ fa’
le spese de casa perché quanno c’è
tanti fjòli luscì co’ fai? Va be’ che
se gìa via scalsi anca d’inverno, ma
tanto i fjòli ce ne volìa sempre ’mpo’
pe’ le spese de casa. ’N c’era da pagà’
la luce, ’n c’era da pagà’ ’l telefono, ’n
c’era da pagà’ ’l coso de la televisió’,
prò pe’ tirà’ avanti cuélla famijòla
ce voléa. Dobo, arpìo la parola de
prima, quanno che se lavoràa, delle
vo’ quanno che c’era bonumóre se
facéa anca ’na cantadèlla. Allora adè’
ve fô sentì’ a cuéi tempi como se
cantàa alla buffaràra1:
1
con le corde, cosicché a volte ci volevano
tre (persone). Scalzi per quelle stoppie;
erano chiamate ‘stoppie’ perché si falciava il grano con la falce fenaia. Erano
anche belle aguzze (le stoppie), andava
bene! C’erano i piedi sotto che parevano
le suole delle scarpe. Di notte o che piccavano nei piedi o che si inciampava e lì
toccava fare come Dio voleva.
E poi, dopo, quando era verso le otto,
si vedeva che il sole era alto e ancora
la vergara non portava la colazione. Se
portava oltre la colazione di quei tempi
c’era un pomodoro, una fettina di lonza
che, se la mettevi controluce, si vedeva
la luna o il sole, che già s’era levato. E
lì si mangiava a colazione: un pezzo di
pane, a volte quando era di quei tempi
non è che c’era tanta roba, eh! C’era
talvolta una frittata, ma se no all’inverno no, eh! Le uova si vendevano per
comprare due sardine oppure per fare
le spese di casa, perché quando ci sono
tanti figli così, cosa fai? Va bene che si
andava scalzi anche d’inverno, ma tanto
per i figli ce ne voleva sempre un po’ per
le spese di casa. Non c’era da pagare la
luce, non c’era da pagare il telefono, non
c’era da pagare il còso (canone) della
televisione, però per tirare avanti quella
famigliòla ci voleva.
Dopo, riprendo la parola di prima,
quando si lavorava, a volte quando c’era
il buonumore si faceva anche una cantatina. Allora adesso vi faccio sentire come
si cantava a quei tempi alla buffarara:
Vedere la trascrizione musicale a p. 488
364
Vojo mandà’’n saludo là quel campo
dove laóra quel caro befùlco.
(Va giù favorì Galantì)
dove laóra quel caro befùlco.(va giù..)
Vojo mandà’’n saludo là quel campo
dove laóra quel caro befùlco.
(Va giù favorì Galantì)
dove laóra quel caro befùlco./ (va giù..)
Caro befùlco manda giù ’sti buòi,
me sono innamoràda dell’arte tuoi (bis)
(schiocca la lingua: Favorì Galantì
ancora sciocco).
Caro befùlco manda giù ’sti buòi
me sono innamoràda dell’arte tuoi (bis)
(schiocca la lingua: Favorì Galantì ancora sciocco).
Caro befulco manda giù ’ste vacche
mi sono innamoràda del tuo bell’arte
(bis) (va giù Falcó)
Caro befulco manda giù ’ste vacche
mi sono innamoràda del tuo bell’arte
(bis) / (va giù Falcó)
Adè ne penso’n’antra:
Adesso ne penso un’altra:
O Dio del cielo o Dio del paradiso
perché n’avéde fatto lo mondo paro
(bis).
O Dio del cielo o Dio del paradiso
perché n’avéde fatto lo mondo paro
(bis).
Avéde fatto ’l povero e lo ricco
chi avéde dato ’l dolce a chi l’amàro
(va’ giù Favorì Galantì..)
Avéde fatto ’l povero e lo ricco
chi avéde dato ’l dolce a chi l’amàro.
( va’ giù Favorì Galantì..)
A chi avede dato ’l dolce a chi l’amàro.
e a me m’avéde dàtto propio veléno
(bis) (Schiocco di lingua: Va’ giù...!)
A chi avede dato ’l dolce a chi l’amàro
e a me m’avéde dàtto propio veléno
(bis) / (Schiocco di lingua: Va’ giù...!)
A chi avede dàtto ’l dolce a chi
l’amaro forte
a me m’avéde dàtto ’l veléno a morte
(bis) (va giù va...!)
A chi avede dàtto ’l dolce a chi l’amaro
forte
a me m’avéde dàtto ’l veléno a morte
(bis) (va giù va...!)
O brutta vecchia pòsci cascà’ morta
perché non mandi fìjeda a pïà l’acqua
(bis) (va giù!)
O brutta vecchia pòsci cascà’ morta
perché non mandi fìjeda a pïà l’acqua
(bis). (va giù!)
Perché non mandi fìijeda a pïà l’acqua
giù la fontana l’amante l’aspetta (bis)
Perché non mandi fìijeda a pïà l’acqua
giù la fontana l’amante l’aspetta (bis)
365
Giù la fontana l’amante l’aspetta
da li sospiri ha ’ntrobbidàdo l’acqua
(bis)
(va’ giù d’accòrdo! schiocco di lingua)
Giù la fontana l’amante l’aspetta
da li sospiri ha ’ntrobbidàdo l’acqua
(bis)
(va’ giù d’accòrdo! schiocco di lingua)
Giù la fontàna l’amante li vuole da li
sospiri ha ’ntrobbidàdo il sole (bis).
Giù la fontàna l’amante li vuole
da li sospiri ha ’ntrobbidàdo il sole
(bis).
Aratura con un paio di buoi maremmmani. Foto anni ’40 (coll. Luigi Vittorio Ferraris).
Sull’olmi: vòja de mamma e de
cansóni
Sugli olmi: voglia di mamma e di
stornelli
Le donne sci gèra a fa’ la foja, pïàa
la crinèlla, co’ la scala montàa su
cima de cuéll’olmi alti, a volte c’era
anca i ragani, perché stèra coperti
tra le foje, stèra freschi. A me ’na vo’
me n’è saltàdo uno su le spalle, me
so’ ’ntesa ’n chiòppo: mamma mia
sci ci’arpènso adè’! Cuélla vo’ ancó’
Se le donne andavano a fare la foglia,
prendevano la ‘crinella’, con la scala
salivano su in cima a quegli olmi alti;
a volte c’erano anche i ragani, perché
stavano coperti tra le foglie, stavano freschi. A me una volta me n’è saltato uno
sulle spalle, ho sentito un botto: mamma
mia se ci ripenso adesso! Quella volta
366
’n sapéo co’ podìa èsse’ stàdo. Scì
te moscàa ’no ràgano, s’èra adè’ se
morìa!
Allora quanno era sull’olmo, tante
le ô avrìa pianto, perché da lóngo
da la famìja, da lóngo da babbo e
mamma, non è como adè’ che c’è
le maghine e va a tròà’ i genidóri
quanno ié pare, cuélla vo’ se partìa
a pìa, io cìo da fa’ sei sette chilomedri a pìa. Ade’ non ve digo, quanno
ancó’ ero sola gìa be’, piàa la biscighétta, ma quanno che ci’avéo i fjòli
dobo: uno ce l’avéo per la ma’, uno
’nté la trippa che ’l portàa e n’antro
sulle spalle. Sci passàa a traèrso pei
campi, fèsci le scortadóre, scinó era
’na decina de’ chilomedri, prò se
troàa le maése, dovìsci saltà’ i fossi,
spì che te piccàa ’nté i pìa, l’ortìga
che te moscàa, ’gni tanto vedéi ’na
biscia, ’gni tanto ’no ràgano, lucertole, ciambòtti, tutte le bestie che
c’è giuppe la campagna, tutti l’animalétti: cuélla vo’ ’n c’era i veleni eh!
Cuélla vo’ non morìa l’animali: ’gni
passo ne vedéi de du’ tre qualidà.
Pensàde ’mpo’ a fa’ tutti cuéi
chilomedri a pìa, con cuél callo,
quann’era l’istàde che se gèra a
bàtte’ là casa de mamma mia che
me piacìa tanto. Ce se gèra ’na vo’
’gni tre quattro mesi a véde’ cuéi
pôri genidóri che n’ha fatte tante pe’
nuà. La voja d’arvedélli era tanta e se
supràa nigò.
Anca quanno gìsci ’nté qualche
altro posto como a la Messa, a ’na
festa, portàsci drìa anca i monellétti.
ancora non sapevo cosa sarebbe potuto
accadere. Se ti mordeva un ragano, se
era adesso si moriva!
Allora, quando eri sull’olmo, qualche volta avresti pianto, perché lontana dalla famiglia, lontana da babbo
e mamma; non era come adesso che
ci sono le macchine e vai a trovare i
genitori quando ti pare; quella volta si
partiva a piedi, io dovevo fare sei sette
chilometri a piedi. Adesso non vi dico:
quando ancora ero sola, andava bene,
prendevo la bicicletta, ma dopo, quando
avevo i figli, uno ce l’avevo per mano,
uno nella pancia perché ero incinta, e
un altro sulle spalle. Se passavo attraverso i campi, facevo la scorciatoia,
sennò erano una diecina di chilometri,
però si trovava il terreno arato, dovevi
saltare i fossi, gli spini ti piccavano
nei piedi, l’ortica ti mordeva, ogni
tanto vedevi una biscia, ogni tanto un
ragano, lucertole, rospi, tutte le bestie
che ci sono per la campagna, tutti
animaletti: quella volta non c’erano i
veleni, eh! Quella volta non morivano
gli animali: ogni passo ne vedevi di due
o tre specie.
Pensate un po’ a fare tutti quei chilometri a piedi, con quel caldo, quando
era d’estate e si andava a trebbiare a
casa di mamma mia, perché mi piaceva tanto. Ci si andava una volta ogni
tre quattro mesi a vedere quei poveri
genitori, che ne hanno fatte tante per
noi. La voglia di rivederli era tanta e si
superava ogni ostacolo.
Anche quando andavi in qualche
altro posto come alla Messa, a una
367
Biroccio, trainato dalle mucche, transita sul ponte della contrada della Contessa. Anno 1935 circa.
(coll. Luigi Vittorio Ferraris).
E que c’ìsci ’l passeggì’? Te li incollài
sulle spalle sci era da lóngo, sindó
sui bracci.
E allora arpìo ’n’antra vo’ indiedro e ve digo quanno se montàa
sull’olmo a fa’ la fòja, delle vo’ venìa
da piàgne, delle vo’, envéce, te mettèi a cantà’ dalla rabbia. Cominciài
a di’1:
Voj benediri lo fiore dell’olmo
ce lo vorrebbe ’l libro del comando
(bis).
Ce lo vorrebbe ’l libro del comando
pe’ ragionà’ con te ’n’orétta al giorno
(bis).
1
festa, portavi dietro i monelletti. E che,
avevi il passeggino? Te li caricavi sulle
spalle se era lontano, se no in braccio.
E allora riprendo un’altra volta
indietro e vi dico che, quando si saliva
sull’olmo per fare la foglia, delle volte
ti veniva da piangere, delle volte, invece, ti mettevi a cantare dalla rabbia.
Comin­ciavi a dire:
Voj benediri lo fiore dell’olmo
ce lo vorrebbe ’l libro del comando
(bis).
Ce lo vorrebbe ’l libro del comando
pe’ ragionà’ con te ’n’orétta al giorno
(bis).
Vedere la trascrizione musicale a p. 491.
368
Il libro del comando ce’l vorrìa
pe’ ragionà’ con te bellino mia (bis).
Il libro del comando ce’l vorrìa
pe’ ragionà’ con te bellino mia (bis).
Voj benediri lo fiore de menta
menta se chiama perché ’n fa la
pianta (bis).
Menta se chiama perché ’n fa la
pianta
la nostra lontananza ci tormenta
(bis).
Menta se chiama perché non fa lo
fiore
la nostra lontananza tormenta
amore (bis).
Voj benediri lo fiore de menta
menta se chiama perché ’n fa la pianta (bis).
Menta se chiama perché ’n fa la
pianta
la nostra lontananza ci tormenta
(bis).
Menta se chiama perché non fa lo
fiore
la nostra lontananza tormenta
amore (bis).
Dobo a volte, quanno se cantàa
luscì, toccàa anca a gì’ sveltri, scinò
i sòceri dicéa: “E qanto ié ce vôle a
rîmpì’ ’na crinella de fòja oh, co’è
tutta penne e voce como ’l cùcco!”
Eh, paciensa!, toccàa a pïàlla, a
’nghiottìlle ’mpo’ giù tutte!
Dopo a volte, quando si cantava
così, toccava anche andare svelti, se
no i suoceri dicevano: “E quanto gli ci
vuole a riempire una crinella di foglia!
Oh, cos’è tutta penne e voce come il
cuculo!” Eh, pazienza!, toccava a prenderla, ad inghiottirle un po’ tutte!
La pianéda del cantastorie
La ‘pianéda’ del cantastorie
Quanno se gèra a fa’ la foja se
cantàa anca le cansó’ cuélle del cantastorie su la piazza co’ la fisarmonica. Po’ ci’avéa ’l pappagàllo co’ la
gabbietta che dèra la pianéda della
fortuna. I soldi non c’era prò, cuéi
du’ soldi tre soldi che costàa, la
gioventù ce li buttàa perché piacéa
a sapé’ como se gèra a finì’. Adè’
dice ‘l’oròscopo’, ma a cuéi tempi se
dicéa ‘la pianéda’, ‘la pianéda de la
fortuna’.
Quando si andava a fare la foglia, si
cantavano anche le canzoni, quelle che i
cantastorie sul paese cantavano con la
fisarmonica. Poi (il cantastorie) aveva
il pappagallo con la gabbietta, che dava
la ‘pianéta della fortuna’. Non c’erano
però i soldi, quei due tre soldi che costava la gioventù ce li buttava, perché gli
piaceva sapere come si andava a finire.
Adesso lo chiamano ‘l’oroscopo’, ma a
quei tempi si diceva ‘la pianeta’, ‘la
pianeta della fortuna’.
369
Allora uno sonàa la fisarmòniga,
cuel’àltro passàa co’ ’sta gabbietta
co’ sto pappagàllo e ié dicéa: “Pïa’na
pianéda dela fortuna e dalla alla
signorina, via!” E cuéllo la pïàa col
becco e po’ te la dèra: un soldo, du’
soldi se pïàa, perché c’era anca i
numeri del lotto, ma noà al lotto non
ce giogàmma mae che ’n c’era ’na lira
manco sci t’arbaltàvi sottosopra. A
noà ce bastàa la pianéda per sapé’ le
curiosidà, che destino ci’avéi. Dobo
la leggéi, prò non è como adè’ che c’è
l’oroscopo pe’ cuélli nadi a gennaro,
febbràro marzo e via discorrènno.
Cuélla vo’ la pianéda era unica.
E va be’, cantàa ’ste storie chì,
prò non so se sci iéla farò a finìlla
tutta, ché la voce mia non me ci’arrìva più1.
Due fratelli Antonio e Pasquale
per interessi avean l’odio fra loro
di far pace pensavan costoro
Caino e Abele sembravan così.
Allora uno suonava la fisarmonica,
quell’altro passava con questa gabbietta con questo pappagallo e gli diceva:
“Prendi una pianeta della fortuna e
dalla alla signorina, via!” E quello la
prendeva con il becco e poi te la dava:
un soldo, due soldi si prendeva, perché
c’erano anche i numeri del lotto, ma
noi al lotto non ci giocavamo mai, perché non c’era una lira nemmeno se ti
ribaltavi sottosopra. A noi ci bastava
la pianeta per sapere le curiosità, quale
destino avevi. Dopo lo leggevi, però non
è come adesso che c’è l’oroscopo per
quelli nati a gennaio, febbraio, marzo
e via dicendo. Quella volta la pianeta
era unica.
E va bene, cantavano queste storie
qui, però non so se gliela farò a finirla tutta, perché la mia voce non mi ci
arriva più.
Due fratelli Antonio e Pasquale
per interessi avean l’odio fra loro
di far pace pensavan costoro
Caino e Abele sembravan così.
Ma invece il minore fratello
gli diceva : “Pasquale sai buono;
se tu hai l’odio per me io ti perdono.
In discordia non voj star con te!”
Ma invece il minore fratello
gli diceva : “Pasquale sai buono;
se tu hai l’odio per me io ti perdono.
In discordia non voj star con te!”
Ma Pasquale brutale e cattivo
le diceva: “Via stàmmi lontano,
di far pace con te sarà sempre invano
ed un giorno vedrai cosa fô!”
1
Ma Pasquale brutale e cattivo
le diceva: “Via stàmmi lontano,
di far pace con te sarà sempre invano
ed un giorno vedrai cosa fô!”
Vedere la trascrizione musicale a p. 492.
370
E un dì Antonio partì pe’ ’l mercàto
va a comprare un grosso vitello
tornàva poi dal mercatèllo
verso sera col proprio garzó’.
E un dì Antonio partì pe’ ’l mercàto
va a comprare un grosso vitello
tornàva poi dal mercatèllo
verso sera col proprio garzó’.
Salutava la moglie ed il figlio
dieci anni aveva e si chiamava
Tonino,
e baciava nel viso il bambino,
par che il sangue ié debba parlar.
Salutava la moglie ed il figlio
dieci anni aveva e si chiamava
Tonino,
e baciava nel viso il bambino,
par che il sangue ié debba parlar.
Ed un dì Antonio lontano si trova
e Pasquale la preda ne aspetta,
diedro casa rimane in vendétta
con la rabbia e con l’odio nel cuor.
Ed un dì Antonio lontano si trova
e Pasquale la preda ne aspetta,
diedro casa rimane in vendétta
con la rabbia e con l’odio nel cuor.
Ad un tratto lui véde a Tonino
il nipote sì caro e gentìle,
il bambino s’accòsta a quel vile
che gli dice: “Ascoltami a me!
Ad un tratto lui véde a Tonino
il nipote sì caro e gentìle,
il bambino s’accòsta a quel vile
che gli dice: “Ascoltami a me!
C’è tuo padre che qua presso aspetta,
un po’ d’uva gli devi portare,
qui nel campo del tuo buon compare
francamente tu pôi pigliar.
C’è tuo padre che qua presso aspetta,
un po’ d’uva gli devi portare,
qui nel campo del tuo buon compare
francamente tu pôi pigliar.
Ma il bambino che niente sospetta
dallo zio, a tal detto lui crede,
lì nel campo lui pone il suo piede,
ad una vite si viene accostar.
Ma il bambino che niente sospetta
dallo zio, a tal detto lui crede,
lì nel campo lui pone il suo piede,
ad una vite si viene accostar.
E d’uva dentro il cappello lui pose
son tre grappoli grossi e maturi;
il zio gli dice con detti sicuri:
“Questi qui gli potranno bastar!”
E d’uva dentro il cappello lui pose
son tre grappoli grossi e maturi;
il zio gli dice con detti sicuri:
“Questi qui gli potranno bastar!”
Ma non termina neànche la frase
che lo zio su di lui si gètta
ed esclama del bimbo vendetta
Ma non termina neànche la frase
che lo zio su di lui si gètta
ed esclama del bimbo vendetta
371
oggi compiere alfine potrò.
Ed è armato di un grosso falcétto
nella faccia colpisce il meschino
grida aiuto quel povero bambino
mentre l’altro prosegue a menar.
oggi compiere alfine potrò.
Ed è armato di un grosso falcétto
nella faccia colpisce il meschino
grida aiuto quel povero bambino
mentre l’altro prosegue a menar.
E un terribile colpo alla gola
al nipote fa allora morire,
l’assassino credendo fuggire
una voce l’inchioda colà.
E un terribile colpo alla gola
al nipote fa allora morire,
l’assassino credendo fuggire
una voce l’inchioda colà.
E li vede così un cacciatore
e gli punta su di lui la doppiétta
ed esclama: “Del bimbo vendetta,
o vigliacco, su te voglio far!”
E li vede così un cacciatore
e gli punta su di lui la doppiétta
ed esclama: “Del bimbo vendetta,
o vigliacco, su te voglio far!”
E ciò dire le spara nel petto
due colpi col proprio fucile,
cadde a terra morendo quel vile,
esalando l’estremo respir.
E ciò dire le spara nel petto
due colpi col proprio fucile,
cadde a terra morendo quel vile,
esalando l’estremo respir.
Ma quando il padre alla sera ritorna,
più non trova il suo caro bambino,
a gran voce lui chiama Tonino
e la madre sta lì a lacrimar.
Ma quando il padre alla sera ritorna,
più non trova il suo caro bambino,
a gran voce lui chiama Tonino
e la madre sta lì a lacrimar.
Cerca e fruga alfin vien scoperto
il cadavere del figlio adorato,
in singhiozzi il padre ha scoppiato
e la madre svenuta riman.
Cerca e fruga alfin vien scoperto
il cadavere del figlio adorato,
in singhiozzi il padre ha scoppiato
e la madre svenuta riman.
A quel misero bimbo fu fatto
un bellissimo e gran funerale
ed invece l’unico Pasquale
come un cane portato ne fu.
A quel misero bimbo fu fatto
un bellissimo e gran funerale
ed invece l’unico Pasquale
come un cane portato ne fu.
Giammai l’odio assiste non dovrebbe
fra due fratelli poi specialmente
e frugando da un tratto la mente
Giammai l’odio assiste non dovrebbe
372
fra due fratelli poi specialmente
e frugando da un tratto la mente
il delitto conduce così.
Questa è’n’antra storia, cantàda da
altri due che stèra in piazza ’l venàrdì.
A questa ’n’antra aria ié dèra1:
il delitto conduce così.
Questa è un’altra storia, cantata da
altri due che stavano in piazza il venerdì. A questa gli dava un’altra aria:
C’era due compari
fedèle e costumadi
che sempre s’era amàdi
con nessuna falsità
C’era due compari
fedèle e costumadi
che sempre s’era amàdi
con nessuna falsità
Uno de ’sti compar
ce lìa la moje bella
modesta e santarèlla
e piena di bontà.
Uno de ’sti compari
ce lìa la moje bella
modesta e santarèlla
e piena di bontà.
Allora venne un giorno
le vène un’imbasciàta
la sua mamma malàda
le voléva parlà’.
Allora venne un giorno
le vène un’imbasciàta
la sua mamma malàda
le voléva parlà’.
Compare io mi parto
la mia moje ti lascio
la mia moje ti lascio
sapélla ben trattà’.
Compare io mi parto
la mia moje ti lascio
la mia moje ti lascio
sapélla ben trattà’.
Compare parti pure
di me non dubitare
fedele è il tuo compare
fedel la fedeltà.
Compare parti pure
di me non dubitare
fedele è il tuo compare
fedel la fedeltà.
Ma allora venne un giorno
pensando nel maligno
col suo falso disegno
a la donna va a tentà’.
Ma allora venne un giorno
pensando nel maligno
col suo falso disegno
a la donna va a tentà’.
1
La donna ié rispose
Vedere la trascrizione musicale a p. 492.
373
La donna ié rispose
col cuore inviperìdo
perché a lo mio marìdo
a così lo voj ingannà’.
col cuore inviperìdo
perché a lo mio marìdo
a così lo voj ingannà’.
Sta’ zitta ingrata donna
per la tua tale risposta
come un cane arrabbiato
ti vojo fa’ ammazzà’
Sta’ zitta ingrata donna
per la tua tale risposta
come un cane arrabbiato
ti vojo fa’ ammazzà’
Le vojo andare incontro
lo tuo marito amato
ié devo raccontare
le tue gran falsità.
Le vojo andare incontro
lo tuo marito amato
ié devo raccontare
le tue gran falsità.
E giù per quella strada
incontra il suo compare
lo abbraccia a caro a care,
compar t’ho da parlà’.
E giù per quella strada
incontra il suo compare
lo abbraccia a caro a care,
compar t’ho da parlà’.
Se n’ero altro che io
che t’avevo ben trattato
la tua moje un peccato
con me voléva fa’.
Se n’ero altro che io
che t’avevo ben trattato
la tua moje un peccato
con me voléva fa’.
Compare questo è vero
che San Giovanno vede
compare per la fede
me lo vojo giurà’.
Compare questo è vero
che San Giovanno vede
compare per la fede
me lo vojo giurà’.
Compar dammi la fede
giuro per San Giovanno
compare io la scanno
se questa è verità.
Compar dammi la fede
giuro per San Giovanno
compare io la scanno
se questa è verità.
Va a casa’l suo marito
ié bussa nelle porte
solo per dàje morte
la fece risveglià’.
Va a casa’l suo marito
ié bussa nelle porte
solo per dàje morte
la fece risveglià’.
374
Alzede moje mia
si fanno ‘na gran festa
nel luogo di Maria
ti ci vojo portà’.
Alzede moje mia
si fanno ‘na gran festa
nel luogo di Maria
ti ci vojo portà’.
Aspetta marito mia
aspetta un sol momento
la Vergine Maria
l’andàmo a visità’.
Aspetta marito mia
aspetta un sol momento
la Vergine Maria
l’andàmo a visità’.
La carca sul cavallo
poi la mena per la via
la scanna in fede mia
a terra se ne va.
La carca sul cavallo
poi la mena per la via
la scanna in fede mia
a terra se ne va.
Dopo le quarant’ore
la Vergine beada
dal cielo fu calàda
a falla resuscità’.
Dopo le quarant’ore
la Vergine beada
dal cielo fu calàda
a falla resuscità’.
Guarda sopra quel sasso
dice Lucrezia mia
risorge Gesù e Maria
che l’andàsti a visità’.
Guarda sopra quel sasso
dice Lucrezia mia
risorge Gesù e Maria
che l’andàsti a visità’.
Voialtri bona gente
che mi state ascoltare
se ci’avéde qualche compare
sapédelo ben trattà’.
Voialtri bona gente
che mi state ascoltare
se ci’avéde qualche compare
sapédelo ben trattà’.
Andarono nella chiesa
a fare ’l giuramento
avanti al Sagramènto
s’è andàdi a’nginocchià’.
Andarono nella chiesa
a fare ’l giuramento
avanti al Sagramènto
s’è andàdi a’nginocchià’.
Quando fu a mezza messa
poi dopo nel giurare
il suo falso compare
in fumo se ne va.
Quando fu a mezza messa
poi dopo nel giurare
il suo falso compare
in fumo se ne va.
375
Voialtri bona gente
che state bene attenti
i falsi giuramenti
badàdeli a non fa’.
Voialtri bona gente
che state bene attenti
i falsi giuramenti
badàdeli a non fa’.
Io, perché me piacéa tanto ’ste
storie, domandào i soldi a mamma,
quann’èro giovane no: “Mamma, io
le vojo!” Adè ce l’ho ancó’ tutte ’nté
’l cervello! Ne so tante tante, tutte
dentro al cervello, prò non so fino a
quanno ce la farò ancó’ a tenèccele,
’nté ’sta scattolétta piccola.
Io, perché mi piacevano tanto queste
storie, domandavo i soldi a mamma,
quando ero giovane, no: “Mamma, io le
voglio!” Adesso ce l’ho ancora tutte nel
cervello! Ne so tante tante, tutte dentro
il cervello, però non so fino a quando
ce la farò ancora a tenercele, in questa
scatoletta piccola.
Filù’ da vangà’, biùde a ciùffolo
e intìngolo
Filari da vangare, bevute a piffero
e sugo
Finido de rèmpì’ ’na crinèlla de
fòja, c’era ’n filó’ già pronto da vangà’
eh! E lì se vangàa quattro cinqu’ore.
Sci uno avìa séde, ’n momento che
’n c’era manco l’acqua: te portàa ’na
bottija d’acqua e lì taccài la bocca a
ciùffolo, cuélla vo’ se dicìa ‘a ciùffolo’; ce bevéa quattro cinque persone.
’N c’era ’l bicchiéro drèdo: adè’ ’n
bicchiero per’ò perché scinó... e po’
’l guarda sci n’è lavàdo be’. Cuélla
vo’ l’acqua del pozzo, te taccài la
bocca ’nté la callaròla e lì gìva avanti
cuscì.
Quann’èra finìdo de vangà’ ’sti
filù’, c’era da gi’ a fa’ ’n fascio d’erba
e cuél pôro mi’ socero voléa che se
facéa co’ la falcetta, perché le bestie
la magnàa mejo, no’ co’ la falce
fenàra. Sta’ ’mpo’ giù co’ la falcétta a
Finito di riempire una ‘crinella’
di foglia, c’era un filare già pronto da
vangare, eh! E lì si vangava quattro
cinque ore. Se uno aveva sete, quasi
non c’era nemmeno l’acqua: ti portava
una bottiglia d’acqua e lì attaccavi la
bocca a piffero, quella volta si diceva
‘a piffero’; ci bevevano quattro cinque
persone. Non c’era il bicchiere dietro:
adesso un bicchiere per uno, perché se
no… e poi lo guardano se non è lavato
bene. Quella volta l’acqua del pozzo, ti
attaccavi la bocca nella calderella e lì
andava avanti così.
Quando avevamo finito di vangare
questi filari, c’era d’andare a fare un
fascio d’erba e quel povero mio suocero
voleva che si tagliasse con la falce, non
con la falce fenaia, perché le bestie la
mangiavano meglio. Stai un po’ giù
376
ruspà’ be’ per tèra, a passà’ avanti a
lóra che lavoràa, pe’ pulì’ be’ la tèra;
’n se buttàa via gnè. A cuéi tempi
gnè, ’n se buttàa via!
E dobo, quanno avéi fatto cuél
fascio d’erba, gìvi su dréndo casa,
era le undici. Me dicìa: “Gide a métte’
su ’mpo’ l’intìngolo, ’l da magnà’!”.
Pïàvi ’na bracciadèlla de cuélle légna
lì, picciàvi ’l fôgo e lì mettéi su l’intingolo, ié dicéa ‘l’intingolo’ i vecchi:
’mpo’ de lardo, tre quattro pezzetti, ’l
mettéi su quanno aìa fatto ’l carbo’:
capirài prima de fa’ i carbù’ ce volìa
mezz’ora! Tre quattro pezzetti de
lardo e po’ mettevi giù d’istade i
pomidori freschi a pezzi, bucce giù
nigò: se magnàa nigò! All’inverno, sci
se fèra ’mpo’ de conserva all’istàde
(sai como se facìa? Se mettìa ’nté ’l
sole, facéa cuéi panétti duri, diventàa neri como’l carbó’) ne pïài ’n
pezzetto pe’ mette’ ’nté ’l sugo: venìa
fòra ’n sugo denso, nero che po’ ’n se
sa co’ era: sci ce se pensa adè’ si dice
che manco ’l ca’ ne ’l magna più!
A volte ce se mettìa ’na costarella
de sellaro, ’na branciolétta, ma non
c’era manco ’l sellaro. De le caròde
a cuéi tempi ’n se parlàa per caridà!,
perché ’n c’era tempo a piantàlle e
po’ ’n c’era manco la moda! E ’na
cippolletta a volte ce se mettìa, sci
c’era lì casa, scinó a gi’ fora a fa’ le
scale a cure ’n c’era tempo, perché a
mezzogiorno volìa magnà eh!
E co’ facéi da magnà? Du’ tajolì’,
quadrelli non volìa che se fèra, perché ce volìa troppa farina; du’ tajolì’
con la falce a ruspare bene per terra, a
passare avanti a loro che aravano, per
pulire bene la terra: non si buttava via
niente. A quei tempi niente si buttava
via!
E dopo, quando avevi fatto quel
fascio d’erba, andavi su dentro casa,
erano le undici. Mi diceva (mia suocera): “Andate a mettere su un po’ il
sugo, il da mangiare!” Prendevi una
bracciatella di quelle legna lì, accendevi
il fuoco e lì mettevi su il sugo, i vecchi
lo chiamavano ‘l’intingolo’: un po’ di
lardo, tre quattro pezzetti; lo mettevi su
quando (il fuoco) aveva fatto i carboni:
capirai, prima di fare i carboni ci voleva mezz’ora! Tre quattro pezzi di lardo
e poi mettevi giù d’estate i pomodori
freschi, a pezzi, bucce e tutto quanto:
si mangiava tutto! All’inverno, se si
faceva un po’ di conserva all’estate, ne
prendevi un pezzetto per mettere nel
sugo: veniva fuori un sugo denso, nero
che poi non si sa cos’era: se ci si pensa
adesso, si dice che nemmeno il cane non
lo mangia più.
A volte ci si metteva una piccola
costola di sedano, una fogliolina, ma
non c’era neppure il sedano. Delle carote
a quei tempi non si parlava, per carità,
perché non c’era il tempo di piantarle
e poi non c’era neppure l’usanza. A
volte ci si metteva una piccola cipolla,
se c’era lì dentro casa, se no ad andare
fuori e a fare le scale correndo non c’era
tempo, perché a mezzogiorno volevano
mangiare, eh!
E cosa facevi da mangiare? Due
tagliolini, i quadretti non volevano che
377
all’istade.
Ecco lì passàa. De drèdo ’n c’era
’n pezzo de pa’. Io ch’ero abbituàda a
casa mia che se magnàa la minestra,
i quadrellìni fatti be’ all’istàde, anca
lì ce se mettìa ’mpar d’ovi, ’nvéce
lì se magnàa sempre sens’òvi e se
dovìa fa’ solo i tajolì’: capirai mòrbedi con cuélla farina era come ’l pelo
del topo. Intanto toccàa a sta’ lì. ’L
pa’ ’n se dovéa pïà’, perchè se consumàa. E va be’!
si facesse, perché ci voleva troppa farina; due tagliolini all’estate. Ecco lì passava. Dopo non c’era un pezzo di pane.
Io che ero abituata a casa mia che si
mangiava la minestra, i quadrettini
fatti bene all’estate; anche lì (casa mia)
ci si metteva un paio di uova, invece
lì, (a casa dei suoceri), si mangiava
sempre senza uova e poi si dovevano
fare solo i tagliolini: capirai, con quella
farina erano morbidi come il pelo del
topo. Intanto bisognava stare lì. Il pane
non si doveva prendere, perché si consumava. E va bene!
“Vu’ séde ’mbizïósa”
“Voi siete ambiziosa!”
Quanno a 23 anni ci’ho ûdo la
prima fijia, i’hò dàtto ’l latte mia
fina a du’ anni, dobo du’ anni so’
’rmàsta prégna del maschio, cuéllo
pure... La fémmena tanto comensàa
a magnà’: appena che i’hò levàdo
’l latte mia, co’ ié dào da magnà’?
Dicìa mi’ sòcera: “Mettedéje l’ua,
mettedéje ’no schianto d’ua vicino,
dobo ampàra a magnà!” L’ua, cuscì,
porànnima, sensa lavàlla: la mettìa
a sède per tèra ’nté ’na balla, io
magari vangàa ’l filó’.
’Gni tanto la spostào scinónca
sci gèro a fa’ l’erba, la carcàa su la
crinella, e cuél’altro ce lìo dendro la
pansa ancó’!
A me i fjòli m’ha piaciùdo tanto,
ce n’ho tre perché, como v’ho ditto,
me so’ ’mmalàda scinò ne avéa fatti
n’antri tre, almanco, como ha fatto
mamma mia: almanco, quanno che
Quando a 23 anni ho avuto la
prima figlia, le ho dato il mio latte
fino a due anni, dopo due anni sono
rimasta incinta del maschio, quello
pure… La femmina tanto cominciava
a mangiare: appena che le ho tolto il
mio latte, che cosa le davo da mangiare? Diceva mia suocera: “Mettetele
l’uva, mettetele un racimolo d’uva vicino, dopo impara a mangiare!” L’uva
così, povera anima, senza lavarla: la
mettevo a sedere per terra sopra una
balla, io magari vangavo il filare.
Ogni tanto la spostavo oppure, se
andavo a fare l’erba, la caricavo sulla
‘crinella’, e quell’altro ancora ce l’avevo dentro la pancia.
A me i figli mi sono piaciuti tanto,
ce ne ho tre, perché, come vi ho detto,
mi sono ammalata, se no ne avrei
fatti almeno altri tre, come ha fatto
378
stai sul letto de morte, ce l’hai dentórno! N’è como ade’, chi ce n’ha
uno già è troppo. Allora vôl dì’ che
ce ne vôle mezzo!’ Eh, come girémo
avanti non se sa.
E allora arpìo sempre la parola
de prima, a la sera, prima da gi’ a
letto, per cena, como v’ho ditto,
all’istàde c’era sempre cuéi crespìgni giuppe ’l campo, la trughella,
la ginestrella, la pimpinella: cuélla vo’ se fèra cuél mischietto co’
’na sàgrima d’ojo giusto pe’ scusa,
perché pe’ l’ojo c’era l’ampollìna
cuélla vo’. Co’ c’era como la moda
d’adè’ che se butta giù co’ la bottìja!
Cuélla vo’ co’ l’ampollìna; sci po’
la nora ce ne buttàa giù ’mpo’ de
più, la socera dicìa: “Oste, stasera
gide a càro ónto oh!” L’acédo scì ce
n’era ’mpo’, ’l sale e via cuscì. E po’
se magnàa alluscì: l’ansalàda sola
eh! ’L pa’ embè cuélla vo’ non te ’l
negàa, la sera ne podéi magnà’ tre
quattro fettarèlle. Prò io tante vo’
so’ gida a letto no co’ mi’ marìdo,
ma co’ la fame!
Quanno era vèro le otto e mezzo
le nove, quann’era l’inverno, stacéi
drendo casa, facéi i calsétti, facéi le
maje, ma ’n se podìa fa’ manco ché
’l filo ’n se troàa! Io guastàa la robba
mia pe’ ’sti monelli che quanto tribbolàa ne ’l so manco io. A véde’ adè’
a buttà’ via tutta cuélla robba, me ce
vène giù le lagrime!
Pe’ vestì’ i monèlli guastàa i tòrcèlli de panno e po’ ’n giorno, ’l
giorno dell’anno nòo, a mi’ socero
la mia mamma: almeno, quando stai
sul letto di morte ce li hai dintorno.
Non è come adesso, chi ne ha uno è
già troppo. Allora vuol dire che ce ne
vuole mezzo! Eh, come andremo avanti non si sa.
E allora riprendo sempre la parola
di prima. La sera, prima di andare
a letto, per cena, come vi ho detto,
c’erano sempre quei crespigni (raccolti) giù per il campo, la ‘trughella’,
la ginestrella, la pimpinella: quella
volta si faceva quel mischietto con
una goccia d’olio giusto per scusa,
perché per l’olio si usava l’ampollina
quella volta. Cos’era come la moda
di adesso che (l’olio) si versa con la
bottiglia! Quella volta con l’ampollina;
se poi la nuora ne versava un po’ di
più, la suocera diceva: “Oste, stasera
andate a carro oliato, oh!” L’aceto sì,
ce n’era un po’, il sale e così via. E
poi si mangiava così: l’insalata sola,
eh! Il pane, ebbene quella volta non te
lo negava, la sera ne potevi mangiare
tre quattro piccole fette. Però io tante
volte sono andata a letto non con mio
marito, ma con la fame! Quando era
verso le otto e mezzo le nove, d’inverno, stavi dentro casa, facevi le calze,
facevi le maglie, ma non si potevano
fare, perché non si trovava neppure
il filo! Io guastavo la roba mia per
questi monelli, che quanto soffrivano
non lo so nemmeno io. A vedere adesso buttare via tutta quella roba mi ci
vengono giù le lacrime!
Per vestire i monelli guastavo i
rotoli di panno e poi un giorno, il
379
co’ i’hò ditto: “Me dàde i soldi pe’
comprà’ ’n pacchetto de ténta ché
ci’hò da tégne’ ’n panno pe’ fa’ ’na
vesta a la monèlla?”
Cuélla vo’ all’inverno fadigàmma sempre con cuéi fèri, fèmma
sempre maje, calsétti e po’ dobo le
tegnémma; compràmma la ténta,
’n pacchetto de ténta. Mettemma
’mpo’ de nigò sul callàro, e po’
tegnémma: ’n pezzo de panno, ’mpo’
de maje luscì... le tegnémma.
Po’ magari scìsci la camicia bianga sotta cuélla de cottó’, ’ste maje
sopra ténte, quanno che sudavi
’mpo’, va be’ che all’inverno ’n se
suda tanto, ma sci sudavi ’mpo’,
diventàa del colore della ténta de
la maja la camicia sotta. Prò a cuéi
tempi n’è che c’era de mejo.
Allora, como v’ho ditto, ié l’ho
dimandado a mi’ sòcero ’n pacchétto de ténta. Voléde sapé co’ m’ha
rispòsto?
“Eh, perché vu’ séde ’mbizïósa, ’n c’è bisogno: oggi è ’l primo
dell’anno non se compra, ’n se fa le
spese, perché chi spende ’l primo
dell’anno spende sempre!” E pacenzia! Lì casa mia ’n c’era cuélla moda
lì, ma toccàa a stàcce, scinò ’n se
gèra d’accordo ’nté le faméje.
Dobo io a forsa de mette giù,
mette giù ’nté lo stòmmigo, cuélla
vo’ era secca, pesào quarancinque
quarantasei chili, a forsa de mette
giù me so’ gonfiàda e... dobo la
bomba schiòppa!
giorno dell’anno nuovo a mio suocero
cosa gli ho detto: “Mi date i soldi per
comprare un pacchetto di tintura,
perché devo tingere un panno per fare
una veste alla monella?”
Quella volta, d’inverno, lavoravamo sempre con quei ferri, facevamo
sempre maglie, calze e poi dopo le
tingevamo: compravamo la tintura,
un pacchetto di tintura. Mettevamo
un po’ di tutto sul caldaio e poi tingevamo: un pezzo di panno, un po’ di
maglie… così le tingevamo.
Poi, magari, avevi la camicia
bianca sotto quella di cotone, queste
maglie sopra tinte, quando sudavi
un po’ (va bene che all’inverno non
si suda tanto), ma se sudavi un po’
la camicia sotto diventava del colore
della tintura della maglia. Però a quei
tempi non è che c’era di meglio.
Allora, come vi ho detto, gliel’ho
domandato a mio suocero un pacchetto di tintura. Volete sapere cosa mi ha
risposto?
“Eh, perché voi siete ambiziosa, non c’è bisogno: oggi è il primo
dell’anno non si compra, non si fanno
le spese, perché chi spende il primo
dell’anno spende sempre!” E pazienza! A casa mia non c’era quell’usanza
lì, ma toccava starci, se no non si
andava d’accordo nelle famiglie.
Dopo io, a forza di mandare giù
nello stomaco, quella volta ero magra,
pesavo quarantacinque quarantasei
chili, a forza da mettere giù mi sono
gonfiata e… dopo la bomba scoppia!
380
Me tiràa giù i cervelli
Mi tiravano giù anche le cervella
Adè’ finìscio de di’. Dobo m’è
venùdo ’l maschio, dobo du’ anni
e mezzo. Cuéllo pure, porànnima,
ch’era tanto meschinèllo, volìa solo
’l latte mia, ’n vulìa più gnè: ié dào
qualche vo’ ’n pezzo de pa’, cuéllo ne
’l magnàa, ’l magnàa ’l pa’ móllo col
vì’ la fémmena, ma ’l maschio ne ’l
magnàa. E cuéllo passàa i giorni sani
che ’n se sapìa cuello che mettìa giù.
’L sùcchero che se piàa ne ’l volìa, ’l
caffé a cuéi tempi mango se parlàa,
’l latte ’n se podìa toccà’ cuéllo de le
bestie, perché toccàa a fa’ cresce’ i
vidèlli ché dobo’l padró’ sgaggiàa sci
n’era vidèlli belli... Mi’ socero ’n voléa
che se piàa ’l latte da le vacche, ma
scinó a casa mia babbo mia mógnéa
le vacche giuppe ’l campo quanno
lavoràa d’istàde, ’l facéa ghiaccià’ ’n
tantì’ perché troppo càllo podìa fa’
pïà’ la sciòlta e po’ se bevìa lì ’nté la
boccalétta, ’na boccalétta de latte a
tutti noàltri monèlli, noà tutti a cùre
pe’ bé’ cuél latte mónto da la vacca
lì… Cuélla vo’ ’n se pensàa che c’era
la tubercolósi, ’n c’era gnènte... c’era
c’era ma ’n se sapìa che ce polèsse
stàdo qualcò’ ’nté ’l latte! E lì se
bevéa cuél latte: quant’era bòno!
Envéce a casa de mi sòcero ’n
se toccàa ’l latte de le vacche eh!..
perché se dovìa lassà’ pèi vidèlli, che
venìa su polpùdi. Era più contenti
anca i padrù’. Scinónca sci cìa tanto
latte le vacche, ce fèra mèjo ’na
formétta de cacio, coscì servìa ’na
Adesso finisco di dire. Dopo mi è
arrivato il maschio, dopo due anni e
mezzo. Quello pure, povera anima, che
era tanto magrolino, voleva solo il mio
latte, non voleva niente altro: gli davo
un pezzo di pane, quello non lo mangiava, la femmina lo mangiava il pane
bagnato con il vino, ma il maschio non
lo mangiava. E quello passava dei giorni interi che non si sapeva quello che
metteva giù. Lo zucchero che si prendeva non lo voleva, del caffè a quei tempi
non si parlava neppure, il latte delle
bestie non si poteva toccare, perché
bisognava farci crescere i vitelli, perché
dopo il padrone sgridava se i vitelli non
erano belli… Mio suocero non voleva
che si prendesse il latte dalle vacche, se
no a casa mia il mio babbo mungeva le
vacche giù per il campo, quando arava
d’estate, faceva raffreddare (il latte) un
momentino, perché troppo caldo avrebbe potuto far prendere la cacarella e poi
si beveva lì nella caraffa, una caraffa
di latte a tutti noi monelli. E noi tutti
a correre per bere quel latte lì munto
dalla vacca… Quella volta non si pensava che c’era la tubercolosi, non c’era
niente… c’era, c’era ma non si sapeva
che ci potesse essere stato qualcosa nel
latte! E lì si beveva quel latte: quant’era
buono!
Invece a casa di mio suocero il
latte delle vacche non si toccava, eh!,
perché si doveva lasciare per i vitelli, che crescevano polputi. Erano più
contenti anche i padroni. Sennò, se le
381
fettarèlla per’ù’ de mededùre. I fjòli
crescéa da per lóra: sci crescéa crescèa, sci non crescìa morìa. I monèlli
n’era consideràdi gnè’. Io ce tribbolào perché l’apprezzào tanto, per me
era nigò, ’n c’era altro de mèjo ’nté la
vìda! Embè, sci ci’arpènso, me pare
’no ’nsùmbio!
E allora ’l maschio è stado sempre minghèlino, perché, pôrannima,
passàa anca le giornàde sane che ’n
se sapìa cuél che mettéa su la bocca.
Io tante le ô de nascòsto ié dào
’n’ovo, cuéllo ié piacéa: ié sbattéo
l’ovo con tantì’ de caffè, fatto col
gra’ bruscàdo. Bruscàa ’l grane su ’n
cuperchio, d’inverno, quanno c’era
tempo, e lì macenàa ’n tantì’ de cuél
gra’ brusco, ch’èra nero como ’l cappèllo, e ce mettìa giù ’n tantì de cuéllo, lo succhero me toccàa a fregàllo
de nascosto perché n’era contenti pe’
gnènte i sòceri.
Dobo, vedi ’mpo’ è venùda anca
la fémmena, quel’altra piccola. Oh,
piano piano, io a forsa d’allattàlli
tutti tre, so’ gida a fenì’ propio a
terra: me tiràa giù anca i cervèlli!
Porànnima, la notte sempre taccàdi,
co’ c’era como adè’! I’avéa fatto ’l
padre ’n lettìno de tàole e lì c’émma
messo ’l paiareccétto de paja, perché
sci nascéa d’inverno, i cartòcci de
granturco ’n c’era, toccàa a méttece
la paja drendo. E con pezzo de telo
de linsòlo, che toccàa a pïà’ i mia
perché a cuéi tempi i sòceri non te
li dèra. E lì co’ la paja. Quanno dobo
era l’istàde e se scartocciàa ’l gran-
vacche avevano tanto latte, ci faceva
meglio una piccola caciotta, perché così
ne serviva una piccola fetta per uno
durante la mietitura. I figli crescevano
da soli: se crescevano, crescevano; se
non crescevano, morivano. I monelli
non erano considerati per niente! Io
ci soffrivo, perché li apprezzavo tanto,
per me erano tutto, non c’era altro di
meglio nella vita! Ebbene, se ci ripenso
adesso, mi pare un sogno!
E allora il maschio è stato sempre mingherlino perché, povera anima,
passava anche delle giornate intere
che non si sapeva che cosa metteva in
bocca. Io talvolta di nascosto gli davo
un uovo, quello gli piaceva: glielo sbattevo con un pochino di caffè, fatto con
il grano bruscato. Bruscavo il grano su
un coperchio, d’inverno, quando c’era
tempo, e lì macinavo un po’ di quel
grano brusco, che era nero come il cappello; ci mettevo un tantino di quello,
lo zucchero dovevo fregarlo di nascosto,
perché i suoceri non erano contenti per
niente.
Dopo, vedi un po’, è venuta anche la
femmina, quell’altra piccola. Oh, piano
piano, io a forza d’allattarli tutti e tre,
sono andata a finire proprio a terra: mi
tiravano giù anche le cervella! Povere
anime, la notte sempre attaccati: e che,
era come adesso? Il padre gli aveva
fatto un lettino di tavole e lì avevamo
messo ‘l pagliariccetto di paglia, perché
se (i figli) nascevano d’inverno, i cartocci di granturco non c’erano, toccava
metterci dentro la paglia. Quando dopo
d’estate si ‘scartocciava’ il granturco,
382
turco, allora se pïàa i cartocci de
granturco e se facéa ’n pajareccétto
con cuélli. Prò venìa su dritti sa i
fjòli, ci’avéa ’na bella schìna dritta,
che dormìa ’nté ’l duro, per forsa!
Che è como adè’ che dòrmene ’nté
i letti de réde, réde ortopèdighe,
madaràzzi de Permaflex, cuélla vo’
c’era solo ’n paerìccio de paja o de
cartòcci. E lì se gèra avanti, co’ ’na
coperta sopra, tante le ô quann’era
freddo l’inverno ié ce se mettéa giù le
giacchétte, le vesti mia, i sciuccamà’
e que c’era le coperte, pe’ cuéi fjòli?
Tanto ’n compràa gnènte i sòceri, pe’
caridà! I fjòli era tiràdi su como adè’,
pore bestie, i gattini e i cani.
Po’,’n cìa manco ’l tempo de guardàlli, con tutte ’ste faccènne che
c’era sempre da fa’; io bramàa che
piovésse pe’ sta’ drendo casa pe’
custodì’ ’sti monelli, porànnime de
Dio, che ’n ci’avéa gnènte, ’n ci’avéa
né calsétti, né scarpe... Iè facéo le
scarpe de pezza da per me. Certi
modellini tirào fòri che sci le vedéi
adè’... E va be’!
allora si prendevano i cartocci di granturco e si faceva un pagliariccetto con
quelli. Però venivano su diritti i figli,
sa, avevano una bella schiena diritta,
perché dormivano sul duro, per forza!
Che è come adesso che dormono sui
letti di rete, reti ortopediche, materassi
Permaflex; quella volta c’era soltanto
un pagliariccio di paglia o di cartocci.
E lì si andava avanti, con una coperta
sopra, tante volte, quando era freddo
l’inverno, gli si metteva sopra le giacche, le mie vesti, gli asciugamani… E
che, c’erano le coperte, per quei figlioli?
Tanto i suoceri non compravano niente, per carità! I figli erano tirati su
come adesso, povere bestie, i gattini e
i cani.
Poi non avevo nemmeno il tempo
di guardarli, con tutte le faccende che
c’erano da fare; io bramavo che piovesse per restare dentro casa, per custodirli questi monelli, povere anime di Dio,
che non avevano niente: non avevano
ne calze, né scarpe… Gli facevo le scarpe di pezza da per me sola. Tiravo fuori
certi modellini che, le vedessi adesso…
E va bene!
Tóndo al fôgo
Intorno al fuoco
M’arcordo cuélla piccolina ’n
giorno prima de gi’ all’ospedale, gera
dentórno alle gambe della nònnesa, che magnàa all’inverno sempre
tóndo al fôgo, cuélla madìna émma
fatto ’l pa’, e cuélla bornìgia del
forno se tiràa fòra e se buttàa ’ntè
Mi ricordo che quella piccolina, un
giorno prima che andassi all’ospedale,
andava intorno alle gambe della nonna,
che mangiava d’inverno sempre intorno
al fuoco. Quella mattina avevamo fatto
il pane e quella brace del forno si tirava
fuori e si buttava in un bidone di latta
383
Mietitura. In primo piano un uomo con un “balso” di grano: Foto anni ’30 (coll.Giuliano Sellari).
’n taburlà’ de latta , che cìa lassàdo
l’alliàdi ’ndó tenìa ’l carburante pei
camio’ e la cicogna. Allora ’sta bornìgia d’inverno se portàa sull’aròla pe’
scaldàsse, pe fa’ l’intingolo, per còce’
i ligùmi, pe’ bruscà’ la fàa, e sci te
mettìsci a sède’ lì d’annànse, te fèra
certe vacche su pe’ le gambe, spèce
sulle cosce ché la carne era téndera
che non vidìa mae ’l sole, allora se
dicìa: “Cuélla è stada a gambe larghe
dèntorno al fôgo, è freddolosa!”. Se
critigàa. Allora vô a dandéggio, ho
comensàdo ’n discorso e n’ho finìdo.
’Sta bardascètta casca ’mpo’ a sède’
’ntè ’sta bornìgia, i carbù’ non era
proprio rosci ma tanto era ’nfogàdi,
anca la céndera scottàa, era ’l giorno
dobo, ’ncó’ c’era cuàlche carboncello. Lìa, porettina, lì sopra; cìa le calsòle, ma tanto ’mpo’ c’è riàdo ’nté la
carne, ié c’émo messo sùbbedo l’olio,
che ci avevano lasciato gli Alleati, dove
tenevano il carburante per i camion e
la Cicogna. Allora questa brace d’inverno si portava sulla piana del camino
per scaldarsi, per fare il sugo, per
cuocere i legumi, per bruscare la fava
e, se ti mettevi a sedere lì davanti, ti
faceva certe vacche su per le gambe,
specie sulle cosce, perché la carne era
tenera e non vedeva mai il sole; allora si diceva: “Quella è stata a gambe
larghe intorno al fuoco, è freddolosa”.
Si criticava. Allora vado a caso, ho
cominciato un discorso e non l’ho finito. Questa ragazzetta casca un po’ a
sedere in questa brace, i carboni non
erano proprio rossi, ma tanto erano
infuocati, anche la cenere scottava, era
il giorno dopo, ancora c’era qualche
carboncello. Lei, poverina, lì sopra;
aveva i pantaloncini, ma tanto un po’
c’è arrivato nella carne, ci abbiamo
384
ma pe’ ’na ventina de giorni non se
mettìa più a sède’. A la nònnesa i’hà
sabùdo tanto fadìga, ma io i’hò ditto:
“Ma fade ’l piacé’, miga n’éde fatto
apposta!”
messo subito l’olio, ma per una ventina
di giorni non si metteva più a sedere.
Alla nonna le è dispiaciuto tanto, ma
io le ho detto: “Ma fate il piacere, mica
l’avete fatto apposta!”.
‘L maschio e San Pasquale
Il maschio e San Pasquale
M’arcòrdo mi’ marido com’era
contento quanno è nado ’l maschietto. ’L sapéde no? A cuéi tempi po’!,
che pe’ avé’ ’na posció’ ce volìa i
maschi! Allora l’òmmini era rigojósi quanno ce lìa. ’Sto monellétto
nostro, como v’ho dìtto prima, crescìa be’ finànta cìa ’l latte mia, dobo
non volìa ’mparà’ a magnà’: cuél che
ié désci spudàa fòra. Per finànta
a tre anni ié l’ho dàtto, ma dobo
i’hò ditto: “Ormai basta, sai grànno:
’mpàra a magnà’!”
Ma lu’, pôro còcco mia, non
volìa gnè’. Allora mi’ sòcera ha
ditto: “Portàdelo a San Pasquale de
Montenovo, a fàje da’ ’na benedizzió’, a benedì’ du’ mollighèlle!” Mi’
marìdo ’na madìna s’è alsàdo alle
quattro, l’ha svejàdo, te se l’ha ’ncollàdo su la groppa e è gìdo a ’sto San
Pasquale: tre ore e più de strada!
’Rivàdo su, i’hà fatto la benedizió’, perché non spedìa mango be’
quanno parlàa, caminàa pogo... ’L
padre ha fatto anca ’sta promessa:
stèra a digiù’ finànta che n’arnìa a
casa. E luscì ha fatto. C’émo capìdo
muntubè’, ma, pôri cocchi, ìa da
Mi ricordo come era contento mio
marito, quando è nato il maschietto. Lo
sapete, no? A quei tempi poi!, che per
avere un podere ci volevano i maschi!
Allora gli uomini erano orgogliosi
quando ce li avevano. Questo monelletto
nostro, come vi ho detto prima, cresceva
bene fino a quando aveva il mio latte,
dopo non voleva imparare a mangiare:
sputava fuori ogni cosa che gli davi.
Fino a tre anni gliel’ho dato (il latte
mio), ma poi gli ho detto: “Ormai basta,
sei grande: impara a mangiare!” Ma
lui, povero cocco mio, non voleva niente.
Allora mia suocera ha detto: “Portatelo
a San Pasquale di Montenovo, a fargli
dare una benedizione, a benedire due
mollichelle!” Mio marito, una mattina,
si è alzato alle quattro, l’ha svegliato,
se l’è caricato sulle spalle ed è andato
a questo San Pasquale: tre ore e più di
strada. Arrivato su, gli ha fatto (dare) la
benedizione, perché non era sciolto nemmeno bene quando parlava, camminava
poco… Il padre ha fatto anche questa
promessa: sarebbe stato a digiuno fino
a quando non fosse ritornato a casa. E
così ha fatto. Ci abbiamo capito molto,
ma, poveri cocchi, dovevano mangiare il
385
magnà’ ’l pa’ solo, duro e muffo, du’
fòje, fasciòli, padàde, fàa, pulenta e
scorpìgni como magnàmma noà; fa’
che ce fusse stati tutti i ben di Dio
como c’è adè’, allora scì che ’mparàa a magnà’!
pane solo, duro e ammuffito, due foglie
cotte, fagioli, patate, fava, polenta e crespigni come mangiavamo noi. Se ci fossero stati tutti i beni di Dio che ci sono
adesso, allora sì che avrebbe imparato a
mangiare!
Cansóni alla paroncina
Stornelli alla ‘parroncina’
Finiscio de parlà’ de tutti ’sti problemi c’ho passàdo ’nté la vida; mettémo ’mpo’ le cose più in pace, ché
adè’ ve vojo cantà’ ’n saltarèllo, ’na
paroncìna...1
La vojo cantare’na paròncìna
sopra la coccia de la maggiorana.
(bis)
Sopra la coccia de la maggiorana
e l’arciprède ci’ha messo la péna. (bis)
E l’arciprède ci’ha messo la pena
se ce l’ha messa ié la voj levàre. (bis)
Se ce l’ha messa ié la voj levàre
sempre la paroncìna vojo cantare. (bis)
Smetto di parlare di tutti questi
problemi, che ho passato nella vita; mettiamo un po’ le cose più in pace, perché
adesso vi voglio cantare un saltarello,
una parroncina…
La vojo cantare’na paròncìna
sopra la coccia de la maggiorana.
(bis)
Sopra la coccia de la maggiorana
e l’arciprède ci’ha messo la péna. (bis)
E l’arciprède ci’ha messo la pena
se ce l’ha messa ié la voj levàre. (bis)
Se ce l’ha messa ié la voj levàre
sempre la paroncìna vojo cantare. (bis)
Stamadina mi alsài a bonóra
trovài la mamma de lo bello mia.(bis)
Mi dice dove vai così a bonóra
perché non ami più lo fijo mia. (bis)
Io ié risposi co’ lagrime al còre
non posso amarlo che mamma non
vôle. (bis)
Io ié risposi co’ lagrima all’alma
non posso amarlo ché non vôle
mamma. (bis)
Stamadina mi alsài a bonóra
trovài la mamma de lo bello mia.(bis)
Mi dice dove vai così a bonóra
perché non ami più lo fijo mia. (bis)
Io ié risposi co’ lagrime al còre
non posso amarlo che mamma non
vôle.(bis)
Io ié risposi co’ lagrima all’alma
non posso amarlo ché non vôle
mamma.(bis)
1
Vedere la trascrizione musicale a p. 490.
386
È rivàda l’ora de lo mède’
È arrivata l’ora di mietere
Adesso ve canto alla miedidóra.
Quanno se medéva ’l gra’, como me
pare d’avévve ditto ’n’antra vo’, i
primi anni se pïàa per tèra, prima
ancó’ se pïàa alto, alto ’n ginocchio,
segondo como era alto ’l gra’, e dobo
s’arfalciàa lo stramo. Era du’ fadìghe, prima a tajà ’l gra’ e po’ arcòje
le pegorèlle, a ligà’ i còi ’n tra cuéllo
stramo alto: c’era le gambe tutte
spicconàde.
La sera le gìvi a lavà’ giù la pózza,
tutto sangue ’nté le gambe, tutte
spicconate, arcòje cuélle pegorèlle
tra cuélle stóppole alte. Era propio
’n gastìgo! E dobo pian piano ha
fatto pïàllo per tèra, co’ la falcétta:
duràa anca otto dieci giorni a tajà’ ’l
gra’. E lì se cantàa, se cantàa cualca
volta, sci non altro dalla rabbia. Si
dicéa: “L’uccèllo quann’è drendo la
gabbia sci non canta per amor, canta
per rabbia!” E cuscì se cantàa alla
medidóra1:
Adesso vi canto ‘alla mietitora’.
Quando si mieteva il grano, come
mi pare d’avervi detto un’altra volta,
i primi anni si prendeva per terra,
prima ancora si prendeva alto, alto un
ginocchio, a seconda di come era alto
il grano, e dopo si falciava lo strame.
Erano due fatiche, prima a tagliare il
grano e poi raccogliere le ‘pecorelle’,
a legare i covi, tra quello strame alto:
c’erano le gambe tutte graffiate.
La sera le andavi a lavare giù la
pozza, tutto sangue, tutte punte, per
raccogliere quelle pecorelle tra quelle
stoppie alte. Era proprio un disastro!
Dopo, pian piano lo hanno fatto tagliare
per terra, con la falce: si durava anche
otto dieci giorni a tagliare il grano.
E lì si cantava, qualche volta si
cantava, se non altro per la rabbia. Si
diceva: “L’uccello quando è dentro la
gabbia, se non canta per amore, canta
per rabbia!” E così si cantava ‘alla
mietitora’.
Bell’è’rivàda l’ora de lo mède’
ve do la libertà con chi parlàde. (bis)
Ve do la libertà con chi parlàde
piccoli e grandi quanti ce ne séde.
(bis)
Me so’ fatto la ragazza montagnòla
che per volé’ de Dio me s’è malàda.
(bis)
Che per volé de Dio me s’è malàda
Bell’è’rivàda l’ora de lo mède’
ve do la libertà con chi parlàde. (bis)
Ve do la libertà con chi parlàde
piccoli e grandi quanti ce ne séde.
(bis)
Me so’ fatto la ragazza montagnòla
che per volé’ de Dio me s’è malàda.
(bis)
Che per volé de Dio me s’è malàda
1
Vedere la trascrizione musicale a p. 489.
387
l’ho fatti venì’ i mèdici de fòra. (bis)
L’ho fatti venì’ i mèdici de fòra
i’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni véna.
(bis)
I’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni vena
dopo che l’ho guarìda più mi ama.
(bis)
I’ho fatto cavà’ ’l sangue da lo côre
dopo che l’ho guarìta più mi vôle.
(bis)
l’ho fatti venì’ i mèdici de fòra. (bis)
L’ho fatti venì’ i mèdici de fòra
i’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni véna.
(bis)
I’hò fatto cavà’ ’l sangue da ’gni vena
dopo che l’ho guarìda più mi ama.
(bis)
I’ho fatto cavà’ ’l sangue da lo côre
dopo che l’ho guarìta più mi vôle.
(bis)
Dobo la sera, quann’era notte,
stufi dalla fadìga, tante le ô se stàa
lì ’mpo’ disperàdi, se pensàa a tutto
’l passàdo quanno c’era la bella gioventù (ma la gioventù mia è stada
bruttissima, perché è stada sempre
a mezzo la guèra, i fradèlli in guèra,
ferìdi, morti...), prò quanno venìà la
sera pe’ mandà’ via tutti cuéi pensieràcci se comensàa a cantà’ e se
cantàa cuscì1:
Dopo la sera, quando era notte,
stufi dalla fatica, tante volte si stava
lì un po’ disperati, si pensava a tutto
il passato, quando c’era la bella gioventù (ma la gioventù mia è stata
bruttissima, perché è stata sempre in
mezzo alla guerra, i fratelli in guerra,
feriti, morti…), però, quando veniva
la sera, per mandare via tutti quei
pensieracci, si cominciava a cantare e
si cantava così:
È notte è notte e lo padró’ sospira
dice ch’è stada curta ma la giornàda.
Ma s’è stàda curta io que i’hò da fare
va’ da lo sole e fallo ritornare.
S’è stada curta io que i’hò da dire
va’ da lo sole e fallo rivenìre.
È notte è notte e lo padró’ sospira
dice ch’è stada curta ma la giornàda.
Ma s’è stàda curta io que i’hò da fare
va’ da lo sole e fallo ritornare.
S’è stada curta io que i’hò da dire
va’ da lo sole e fallo rivenìre.
E po’ questa è anca l’aria di quanno uno cantàa i dispetti, ma io non
è che ci’hò più voce ade’, sci era ’na
vo’... ma adè’ no. Allora se cantàa i
dispetti1:
E poi questa è anche l’aria di quando si cantavano i dispetti, ma io non
è che ho più la voce adesso, se era una
volta… ma adesso no. Allora si cantavano i dispetti:
1
Vedere la trascrizione musicale a p. 487.
388
Donne, galline oche e anatre sull’aia. L’unico uomo: Gabriele Paglialunga. Foto anni’50 (coll.
Giuliano Sellari).
Giuppe ’sta contradia c’è ’na bella
tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia.
Tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia
ce so’ stado anch’io pe’ cansonàlla.
Ci sono stàdo anch’io pe’ cansonàlla
prima dìje de scì e po’ abbandonàlla.
Giuppe ’sta contradia c’è ’na bella
tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia.
Tutti ce fa l’amore nisciùn la piglia
ce so’ stado anch’io pe’ cansonàlla.
Ci sono stàdo anch’io pe’ cansonàlla
prima dìje de scì e po’ abbandonàlla.
Ma guarda chi m’è venùdo a minchionare
un giovane più giallo ma del melone.
Ma del melone se ne fa le fétte
sta’ sitto muccioló’ e gambe secche.
Ma del melone se ne fa le scorze
sta’ sitto muccioló’ e gambe storte.
Ma guarda chi m’è venùdo a minchionare
un giovane più giallo ma del melone.
Ma del melone se ne fa le fétte
sta’ sitto muccioló’ e gambe secche.
Ma del melone se ne fa le scorze
sta’ sitto muccioló’ e gambe storte.
Ma va’ giù la pozza làvade sti pìa
che ci’hài più pulce te che ’l cane mia.
Ma va’ giù la pozza làvade sti pìa
che ci’hài più pulce te che ’l cane mia.
389
Va’ giù la pozza làvade ’ste gambe
che ci’hài più pulce te che sette cagne.
Va’ giù la pozza làvade ’ste gambe
che ci’hài più pulce te che sette cagne.
Marèlla che stai sul letto e lunga e
stésa
mentre io sto fòri co’ ’na gamba tésa.
Marèlla che stai sul letto e lunga e
stésa
mentre io sto fòri co’ ’na gamba tésa.
Affàcciade a la finestra o bella bionda
per nome io te chiamo Veneranda.
In mezzo al petto tua ’na cerqua
tonda
e ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda.
E ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda
’n ce vorrei lascià’ manco ’na fronda.
E se ce vengo io la ghianda a bàtte’
non ce vojo lassà’ manco le brance.
Affàcciade a la finestra o bella bionda
per nome io te chiamo Veneranda.
In mezzo al petto tua ’na cerqua tonda
e ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda.
E ce voj venì’ io a bàtte’ la ghianda
’n ce vorrei lascià’ manco ’na fronda..
E se ce vengo io la ghianda a bàtte’
non ce vojo lassà’ manco le brance.
Voj benediri lo fiore de riso
boccuccia riderella ma dammi un
bacio.
Boccuccia riderella ma dammi un
bacio
môro contento e vado in paradiso.
Boccuccia riderella un bacio damme
môro contento io vado in locànde.
Voj benediri lo fiore de riso
boccuccia riderella ma dammi un
bacio.
Boccuccia riderella ma dammi un
bacio
môro contento e vado in paradiso.
Boccuccia riderella un bacio damme
môro contento io vado in locànde.
Questo si cantava al saltarello, ma
io ormai comincio ad essere un po’
vecchia, la voce non ce l’ho più, allora,
sai, e un po’ faticoso cantarlo: il saltarello sarebbe da dare tre botte, ma io
non gliela faccio, ne darò due, tanto
sarà uguale.
Questo se cantàa al saltarèllo, ma
io ormai comincio a èsse’ ’mpo’ vecchia, la voce ’n ce l’ho più, allora sai
è ’mpo’ fadìga a cantàllo: ’l saltarèllo
sarìa da da’ tre botte, ma tre botte io
’n gné la fô, ne darò due, tanto sarà
uguale1.
Voj benediri la resta del pesce
1 Negli stornelli a ballo (saltarello) la testimone riprende fedelmente la melodia degli
stornelli a la paroncina. Unica variante è rappresentata dal fatto che in questo caso la
sezione “ritornellata” anziché due volte, viene eseguita tre volte (… a tre bòtte).
390
Voj benediri la resta del pesce
che la mio amore tiene due ragazze.
(bis)
E lo mio amore tiéne due ragazze
e di lasciarne una ià rincresce. (bis)
E di lasciarne una ià rincresce
d’amàrle tutte e due non ci’arièsce.
(bis)
che la mio amore tiene due ragazze.
(bis)
E lo mio amore tiéne due ragazze
e di lasciarne una ià rincresce. (bis)
E di lasciarne una ià rincresce
d’amàrle tutte e due non ci’arièsce.
(bis)
Mi sono innamoràdo di tre zoppe
tutte e tre le vojo métte’ all’arte. (bis)
Una la metto a cùce ’n’antra a tèsse’
la più bellina per dormì’ a la notte.
(ter)
Mi sono innamoràdo di tre zoppe
tutte e tre le vojo métte’ all’arte. (bis)
Una la metto a cùce ’n’antra a tèsse’
la più bellina per dormì’ a la notte.
(ter)
Presto alla fiera!
Presto alla fiera!
“Presto alla fiera e tardi alla
battaglia!”- dicìa mi’ socero, quanno c’era la fiera a Montalbò’. Se
portàa a vènde’ ’n toro, ’na vacca,
i pùi, dìndi e oghe. Toccàa alsàsse a bonóra, fa’ tutte le faccènne,
magnàmma ’n boccó de pa’ e via
carcà’ ’na canè’ sulla testa. A me
me ’l dicìa quanno c’era da portà’ ’l
peso, scinó ce gèra solo ’l capoccia
e la vergàra.
Partìsci da casa co’ ’sta canè’
sulla testa, pîna de paja e sopra
ce se mettìa ’ste bestie. Fèmma la
spara col fazzoletto de scòrsa d’àrbolo, e lì ce se mettìa la canè’ pîna
de ’ste bestie, anca trenta chili de
peso: sci non c’era la spara, te averìa sfónnàdo la testa. Sci c’era du’
canè’, ce gèmma in tre: io più forte
de mezzo, da ’na parte mi’ sòcera
e da cuéll’altra mi’ cugnàda che
“Presto alla fiera e tardi alla battaglia” – diceva mio suocero, quando c’era
la fiera a Montalboddo. Si portavano
a vendere un toro, una vacca, i polli,
tacchini e oche. Bisognava alzarsi di
buon’ora, fare tutte le faccende, mangiavamo un boccone di pane e via a
caricare una canestra sulla testa. A me
me lo diceva quando c’era da portare il
peso, se no ci andavano solo il capoccia
e la vergara. Partivi da casa con questa
canestra sulla testa, piena di paglia
e sopra ci si mettevano queste bestie.
Facevamo la ‘spara’ col fazzoletto di
scorza d’albero, e lì (sopra) ci si metteva
la canestra piena di queste bestie, anche
trenta chili di peso: se non ci fosse stata
la ‘spara’ ti avrebbe sfondato la testa. Se
c’erano due canestre, ci andavamo in
tre: io, la più forte, in mezzo, da una
parte mia suocera e da quell’altra mia
391
’ncó era minorènne, ma era ora da
cominciàccela a portà’ a la fiera per
vènde’ anca a lìa.
Era carina, anca lìa ha troàdo ’l
ragazzo presto e ha sposàdo a 17
anni, per necessidà. Finànta che cìa
a lìa lì casa me passàa mèjo, perché
cìa una da confidàmme e po’ cuélla
stèra dalla parte mia: se comprendémma.
I genidóri era solo fadìga, sul
laóro non sìa da discórre’, da rìde’;
noà ’nvéce sótta sótta fèmma ’mpo’
de nigò. Quanno ’rcojémma le légna,
l’òmini podàa o scapecciàa ’mpo’
da lóngo e lì sci che parlàmma dei
pagni, le mode, le scarpe, i capìi, i
ragazzi che la domannàa.
cognata che ancora era minorenne, ma
era ora da cominciare a portarla alla
fiera, per vendere anche lei. Era carina,
anche lei ha trovato presto il fidanzato
ed ha sposato a 17 anni, per necessità.
Fino a quando avevo lei in casa, mi
passava meglio, perché avevo una con
cui confidarmi e poi quella stava dalla
parte mia: ci comprendevamo. Per i
genitori c’era solo la fatica, sul lavoro
non si doveva discorrere, né ridere; noi
invece, sotto sotto, facevamo un po’ di
tutto. Quando raccoglievamo la legna,
gli uomini potavano o capitozzavano
un po’ lontani, allora in quei momenti
sì che parlavamo dei vestiti, delle mode,
delle scarpe, dei capelli, dei ragazzi che
la domandavano.
Fèra la caridà ai soldàdi
Faceva la carità ai soldati
A tempo de guerra ce capidàa ’sti
soldadi, ié guardàa a ’sta cognàda
mia e dicìa: “Questa ancó’ non bòno!”
Era del 1931, prò già signorinella.
Certo vedìa a me, vent’anni, era bòna
ma solo che n’èra per lóra, tanto nìa
paura! Guardàa sempre basso, parìa
che ìa perso cualchicò’.
Prò anca a cuélli c’era cualchiduna che ié fèra la caridà: chi l’averà
fatto pei soldi, chi pe’ la compasció,
chi cìa cuél vizio non guardàa e non
pensàa gnè.
Anca sci armanìa pîne, dobo a
cualchidù’ ié toccàa a fa’ da padre.
Se dicìa: “L’occhi chi ié l’ha fatti l’ha
Al tempo di guerra ci capitavano
questi soldati, che guardavano questa mia cognata e dicevano: “Questa
ancora non ‘bòna’!” Era del 1931, però
già signorinella. Certo vedevano me,
vent’anni, ero ‘bòna’, ma solo che non
ero per loro: tanto non ne avevo paura!
Guardavo sempre basso, sembrava che
avessi perduto qualcosa.
Però anche a quelli c’era qualcuna
che gli faceva la carità: chi l’avrà fatto
per soldi, chi per pena, chi aveva quel
vizio non guardava e non pensava
a niente. Anche se rimaneva incinta,
dopo a qualcuno gli toccava fare da
padre. Si diceva: “Gli occhi chi gliel’ha
392
fatti, le scarpe cualchidù’ ié le farà!”
C’era una a Morro d’Alba, cìa
’mbranco de monelli, per campà’
’l marìdo è gido a fadigà’ da lóngo:
quattro o cinque anni n’è ’rnùdo
mae. La moje è ’rmàsta incinta, ha
scritto al marìdo, ha ditto: “ ’L sai che
t’ho ’nsumbiàdo ’mpo’ de tempo fa:
me so’ ’rtroàda gràida!” Lu’ ’mpezzo
ci’hà pensàdo e po’, era ’nalfabédo,
i’hà fatto rispónne’ da n’amìgo che ié
leggìa le lettre e gli risponnìa: “Stade
be’, vo’ Marianna? Lassàde che la
gente diga!” Era cuéi tempi che ’n
tra marìdo e móje se dèrene del ‘vu’.
Era ’rmàsto soddisfatto: tanto ne
campàa sette como otto.
fatti l’ha fatti, le scarpe qualcuno gliele farà!”/. Una a Morro d’Alba, aveva
un branco di monelli; per campare il
marito era andato a lavorare lontano:
in quattro cinque anni non è mai tornato. La moglie è rimasta incinta, ha
scritto al marito, ha detto: “Lo sai che
ti ho sognato un po’ di tempo fa: mi
sono ritrovata incinta!” Lui per un po’
ci ha pensato e poi, era analfabeta, le
ha fatto rispondere da un amico che
gli leggeva le lettere e le rispondeva: “
State bene, voi Marianna? Lasciate che
la gente dica!” Erano quei tempi in cui
tra marito e moglie si davano del ‘voi’.
Era rimasto soddisfatto: tanto ne manteneva sette tanto otto.
Se ogni bacio facesse un buco…
Se ’gni bacio fèsse ’n bugio…
Anche quando ero giovane io, andava di moda darsi del ‘voi’. Con il mio
fidanzato ci siamo scritti per cinque
mesi, io non lo conoscevo e lui mi dava
del ‘voi’; non vedevo l’ora che ritornasse
per conoscerlo. Lui mi aveva visto in
piazza a Montalboddo, me lo spiegava
nelle lettere, ma non mi risultava che
io lo conoscessi, lo vedevo nella fotografia. Quando è ritornato in licenza
l’ho fatto sospirare un po’, però non gli
avevo assicurato niente nelle lettere ma,
siccome era tanto romantico, dopo tre
quattro volte che veniva lì casa, l’ascoltavo, poi pensavo alla romanticheria
delle lettere, delle cartoline (mi scriveva
tutti i giorni! Mi aveva dedicato una
Anca quanno era giovena io, gèra
de moda a dàsse del ‘voi’. Co’ mi’
ragazzo ce sémo scritti cinque mesi,
io ne ’l conoscìo e lu’ me dèra del
voi; me sapìa miànno che ’rvenìa pe’
conóscelo. Lu’ a me mìa visto ’nté
la piazza a Montalbò’, me spiegàa
’nté le lettre, ma io non me risultàa
da conóscelo, ’l vidìa solo ’nté l’arsomèjo. Quanno è ’rvenùdo a licensa,
l’ho fatto sospirà’ ’mpo’, perché non
ìa siguràdo gnè ’nté le léttre, ma siccome ch’era tanto romantico, dobo
tre quattro sere che venìa lì casa,
l’ascoltàa, po’ arpensàa la romanticidà delle léttre cartoline (tutti i giorni
393
me scrivìa, mìa dedigado ’na cansó’)
non i’hò ditto scì, ma l’ha capìda pe’
la timidezza che era a nùmbero uno!
M’ha sapùdo pïà’ a pogo a pogo,
s’avansàa, prò sci sgaràa ’n tantì’...
sùbbedo ’l muso! Pensàde vuà... con
cinque mesi che ce scrivémma ’na
licènsa de 15 giorni. Ìa domannàdo ’l
paré’ dai genidóri mia sci podìa venì’
tutte le sere lì casa e lóra i’hà ditto
de scì. Alle due era sempre lì finànta
le dieci de sera: ànsi era ’rvenùdo
pe’ la licènsa agrìgola pe’ iudà’ ’nté
casa sua!
Alla madìna s’ammazzàa lì e dobo
mezzogiorno venìa da noà. Dicìa ’l
padre: “Tira più ’n pelo che ’mpàr de
bua!” A pensà’ che, finìda la licènsa, è ’rpartìdo, mango ’n bacio non
ce sémo dàtti. Pensade vuà como
era rùstiga e vergognósa io, ma ’sti
genidóri te mettìa ’na soggezió’: non
dovìsci fatte métte’ le ma’ addòsso,
per caridà! Guai sci se vidìa a dàsse
’n bacétto! Pôrétta a me como era
addrìa, peggio delle ròde de rimorchio. Ha ùdo pacènsia a sopportàmme, sci era n’antro sa quante le ò mìa
mannàdo ’nté cuél paese! Envéce
lu’ me portàa rispetto e coscì stèra
tranquillo sotta l’arme. Pensàa: “Se
vergogna de me, co’ l’altri non ce va
scigùro!”
Io ié volìa be’, allora ’na ’olta,
dobo ’mpo’ de tempo, ié l’ho ditto
a mamma: “Ma’, stasera ié do ’n
bacio!” Sapéde que m’ha ditto? M’ha
ditto che ’na bardàscia ’mpo’ matta
dicìa coscì: “Se ’gni bacio fèsse ’n
canzone!) non gli ho detto sì, ma l’ha
capito che la mia timidezza, che era al
numero uno.
Mi ha saputo prendere a poco a
poco, si avvicinava, però se sgarrava
un pochino…, subito il muso! Pensate
voi… con cinque mesi che ci scrivevamo, una licenza di quindici giorni.
Aveva domandato il consenso dei miei
genitori se poteva venire tutte le sere e
loro gli hanno detto di sì. Alle due era
sempre lì fino alla dieci di sera: anzi
era ritornato per la licenza agricola per
aiutare a casa sua!
La mattina si ammazzava lì (a casa
sua) e dopo mezzogiorno veniva da noi.
Diceva il padre: “Tira di più un pelo che
un paio di buoi!” A pensare che, finita
la licenza, è ripartito: nemmeno un
bacio ci siamo dati. Pensate voi come
io ero rustica e vergognosa, ma i miei
genitori ti mettevano soggezione: non
dovevi farti mettere le mani addosso,
per carità! Guai se vedevano a darsi un
bacetto! Povera me, come ero indietro,
peggio delle ruote del rimorchio. (Il mio
fidanzato) ha avuto pazienza a sopportarmi; se fosse stato un altro, sa quante
volte mi avrebbe mandato a quel paese!
Invece lui mi portava rispetto e così
stava tranquillo sotto le armi. Pensava:
“Si vergogna di me, con gli altri non ci
va di sicuro!”
Io gli volevo bene, allora una volta,
dopo un po’ di tempo, gliel’ho detto a
mamma: “Mamma, stasera gli do un
bacio!” Sapete che mi ha detto? Mi ha
detto che una ragazza un po’ matta
diceva così: “Se ogni bacio facesse un
394
bugio, la faccia mia sarìa ’na grattacacia!” Prò co’ mamma ’n se sturzàa
tanto eh!, perché era sempre ’nté
’l mezzo ai pìa. Io ’l volìa vicino: io
fadigàa e lu’ ìa da sta’ bòno. Quanno
c’era ’l fié’ venìa aiudà’, fèra la foja
pei baci, venìa sul moro a fa’ la foja,
prò dovìa montà’ su prima de me co’
la scala sul moro e ìa da ’rcalà’ giù
dobo, ché scinó vedìa le gambe e
mamma sbruntolàa.
Mudàmma i baci ’nté la bigattiera, lu’ dovìa sta’ da cima della scala a
librétto, sempre più ’n su de me. Ma
que era rigoroso gnè a casa nostra!
Pôretti, la testa ié portàa alluscì! Pe’
’n cónto è stado più bello, dobo era
tutto da scoprì’, cuélla vo’ era troppo,
ma adè’ scòde i segni! Penso ch’era
mejo cuélla vo’; adè a quarant’anni
se sèntene vecchie: pôrette, comènsa a dòddici’anni! per fòrsa, ancó’ la
pianta n’ha finìdo de cresce già la
sfrutta. C’è ’sto dittado che dice: “ ’L
pa’ de ’n giorno, ’l vi’ de n’anno e la
móje de ventun anno!”. Sarìa più normale nigò: vedede, anca i frutti sci li
cojéde quanno n’è madùri, n’è bòni;
anca l’erba, falciàlla quanno è troppa
tenera, è amara e non fa rescìda gnè!
È tutti parogù’ che l’émo ’ntési di’ da
cuélli più granni de noà.
Solo che io, quanno comènso a
scrìe, vô da ’na montagna all’altra.
Per como ho comensàdo a scrìe ’l
primo capìdolo so’ gida a finì’ fòri
strada: que voléde fa! Po’ a scrìe ’sto
dialetto de Montalbò’, me s’è scancellàdo tutto cuél pogo d’italiano
buco, la mia faccia sarebbe una grattacacio!” Però con mamma non si scherzava tanto eh, perché era sempre in
mezzo ai piedi. Io lo volevo vicino (il
ragazzo): io lavoravo e lui doveva stare
buono. Quando c’era il fieno, lui veniva
ad aiutare, faceva la foglia per i bachi,
però doveva salire sul moro con la scala
prima di me e doveva scendere dopo,
perché sennò vedeva le gambe e mamma
brontolava. Mutavamo i bachi nella
bigattiera, lui doveva stare in cima alla
scala a libretto, sempre più in alto di
me. Ma che era rigoroso per niente a
casa nostra! Poveretti, la testa gli ragionava così! Per un conto è stato più bello,
dopo c’era tutto da scoprire; quella volta
era troppo, ma adesso si oltrepassano
i segni! Penso che era meglio quella
volta; adesso a quarant’anni si sentono
vecchie: poverette, cominciano a dodici
anni! Per forza, ancora la pianta non
ha finito di crescere, già la sfruttano.
C’è anche questo proverbio che dice:
Pane di un giorno, vino da un anno e
moglie da ventun anno!” Sarebbe più
normale ogni cosa: vedete, anche i frutti
se li cogliete quando non sono maturi,
non sono buoni; anche l’erba, a falciarla
quando è troppo tenera, è amara e non
fa alcuna riuscita! Sono tutti paragoni
che abbiamo sentito da quelli più grandi di noi.
Solo che io, quando comincio a scrivere, vado da una montagna all’altra.
Per come ho cominciato a scrivere il
primo capitolo sono andata a finire
fuori strada: che volete farci! Poi a scrivere questo dialetto di Montalboddo, mi
395
che parlào. Per fortuna cuélli ’sperti
la capisce! Certo, sci me désse ’l
vódo, non mèredo niè, tutt’al più 10
senza 0.
si è cancellato tutto quel poco italiano
che parlavo. Per fortuna quelli esperti
comprendono questa cosa! Certo, se
mi dessero il voto, non merito niente,
tutt’al più 10 senza lo zero.
Le parte dei padrù’
Le parti del padrone
Adè ’rgambio montagna. Dobo
del ’45, co’ mille lire non ce venìa
più mango ’na ròda e più gèmma
avanti non valìa più i soldi e i lavori non c’era, la gente ié toccàa gi’
all’estro, sci volìa campà’. Prima de
la guèra i padrù’ pïàa ’l settanta per
cento, ma quanno è ’rivàdi l’alliàdi i
padrù non li volìa più. Pe’ ’mpo’ de
tempo volìa la midà, e dobo piano
piano ha comensàdo a vèndeje la
terra ai contadì’, hanne ’bassado
’mpo’ la gresta; non c’era più la
moda de portàje tante robbe como
prima. ’Na vo’ se comensàa a San
Tomasso volìa un par de cappù’,
dodici ôi al mese, a segondo como
c’era ’l fonno granno: più ettri era e
più robba volìa.
E po’ ’l giorno della vigilia de
Nadàle’n’antro paro, anno nòvo un
par de pollàstre, a carnoàle un par
de galline, a Pasqua un par de galli
e 50 ôi, agosto ’n’antro par de galli.
C’era ’sta moda coscì: era chiamado
’l conto dei cavalletti, sarìa ’l gra’
medùdo. Se contàa quanti cavalletti
o barchette, ogni cavalletto pïàa ’na
spiga de gra’, 30 - 40 - 100 a segondo
Adesso cambio di nuovo montagna.
Dopo il ’45 con mille lire non ci veniva
più nemmeno una ruota e più andavamo
avanti e meno valevano i soldi e i lavori
non c’erano; alla gente toccava andare
all’estero se voleva campare.
Prima della guerra i padroni prendevano il settanta per cento, ma quando
sono arrivati gli Alleati, (questi) non
volevano più i padroni. Per un po’ di
tempo (i padroni) volevano la metà e
dopo, piano piano hanno cominciato
a vendere la terra ai contadini, hanno
abbassato un po’ la cresta. Non c’era più
l’usanza di portargli tante robe come
prima. Una volta si cominciava a San
Tommaso, volevano un paio di capponi,
dodici uova la mese, a seconda di come
era grande il fondo: più ettari erano e
più cose volevano. E poi il giorno della
vigilia di Natale un altro paio (di capponi), all’Anno nuovo un paio di pollastre,
a Carnevale un paio di galline, a Pasqua
un paio di galli e cinquanta uova, ad
agosto un altro paio di galli. C’era questa
moda così: era chiamata ‘il conto dei
cavalletti’, che sarebbe quello del grano
mietuto. Si contavano quanti ‘cavalletti’
o ‘barchette’ (c’erano), ogni cavalletto
396
la terra che cìsci. Dobo se fèra ’n
mazzo de spighe e ce volìa i galli:
“ Sor padró’, ecco qua il conto dei
cavalletti col par de galli” E lóra,
i padrù’, tiràa ’l conto quanto gra’
polìa fa’ cuéll’anno, e na sbajava
’mbelpò’.
Dobo medùdo se gèra a spigà’
e su cuélla ’l padró’ non podìa prodènde. Allora i contadì più astùdi
stroppàa anca le spighe ’nté ’l cavalletto e fèra dei bei mazzi; cualchidù’
ié tajàa la paja, allora pïàa meno
posto, prò la sostanza ce n’era de
più. E cuélla se battìa, quanno era
finido’l barcó’. E quanno s’ardunàa
’l gra’, cioè i côi, pistacchiàa forte
’nté le spighe, cascàa ’l gra’ ’nté ’l
fonno del biroccio. E pizzighetto
per viaggio, quanno era notte la
sera, la merce umentàa e cuéllo
servìa pei pui, e dobo tanto li volìa
anche lóra: sci fregàa dieci chili,
cinque i’armagnàa lóra.
Noà, quann’ero giovena, non
c’émma i padrù’ rabbìdi, era du’
zidelle, c’era ’l fattore ’mpo’ più
’taccàdo, ma a batte’ ce mannàa ’l
pesadóre, e cuéllo scì ’l trattasci be’,
era mòrbedo, lassàa ’l quintale de
gra’ pe’ la giovena.
Ma c’era ’mpadró’ ròspo ’mbelpo’ che al contadì’ ié contàa anca i
capi dell’ua, però ’l contadì’ era più
furbo, ié li sgranciàa tutti, ié levàa i
schiantelli per magnàlli: armanìa ’l
conto dei capi, ma lo raspo era ’rmàsto ’mpo’ rado, lo spénnàa. E dopo
quanno ’l padró’ l’arcontàa, ’l con-
si prendeva una spiga di grano, trenta
quaranta cento a seconda della terra che
avevi. Dopo si faceva un mazzo di spighe
e ci volevano i galli: “Signor padrone,
ecco qua il conto dei cavalletti con un
paio di galli” E loro, i padroni, tiravano
il conto di quanto grano poteva fare in
quell’anno e non sbagliavano molto.
Dopo la mietitura si andava a raccogliere la spiga e su quella il padrone
non poteva pretendere (nulla). Allora i
contadini più astuti strappavano anche
le spighe nel ‘cavalletto’ e facevano dei bei
mazzi; qualcuno gli tagliava la paglia,
allora prendeva minor posto, però la
sostanza ce n’era di più. E quella (spiga)
si trebbiava, quando era finito il barcone. E quando si radunava il grano, cioè i
‘covi’, si calpestava forte sopra le spighe,
cascava il grano sul fondo del biroccio.
E un pizzichetto per viaggio, quando
arrivava la sera, la merce aumentava
e quel (grano) serviva per i polli, dopo
tanto li volevano anche loro (i padroni):
se (il contadino) fregava dieci chili,
cinque li mangiavano di nuovo loro, (i
padroni). Noi, quando ero non sposata,
non avevamo i padroni troppo esigenti,
erano due zitelle, c’era il fattore un po’
più tirchio, ma a trebbiare ci mandava il
pesatore e quello, se lo trattavi bene, era
morbido: lasciava il quintale di grano
per la giovane. Un padrone molto avaro
che al contadino contava anche i grappoli
d’uva, però il contadino era più furbo,
glieli rimpiccioliva tutti: gli levava i
racimoli per mangiarseli, così rimaneva
il conto dei grappoli, ma il raspo rimaneva un po’ rado, era come spennato. E
397
Triste sorte di un
galletto: sta per
diventare cappone. Da
notare: paletta con
la cenere, filo, forbici,
piatto per porvi la
cresta e i testicoli. Non
si spreca niente! (foto
Dino Ferro 1968).
tadì’ ié dicìa: “Sor padró’, ambè?”
Disperado rispondìa: “I capi so’ tutti
mal ridotti!” C’è tanto da capì’, “chi
maneggia ’l mèle se licca le déda”
l’arcontàa sempre babbo mia.
C’era cuàlche padró’ che cìa
quattro o cinque fónni vicini, allora
cualchidù’ invidiàa cuéll’altri contadì’ e pe’ passà’ da bravi col padró’,
sci ié se ’vansàa un par de quintali
de gra’ dell’anno prima, ’l buttàa
drendo al barcó’ per fasse volé’ be’
dopo, quando il padrone lo raccontava,
il contadino gli diceva: “Signor padrone,
ebbene?” Di­sperato rispondeva: “I grappoli sono tutti malridotti!” C’è tanto da
capire, “chi maneggia il miele si lecca
le dita!” – lo raccontava sempre il mio
babbo. C’era qualche padrone che aveva
quattro o cinque poderi vicini, allora
qualcuno invidiava gli altri contadini
e, per passare da bravo con il padrone,
se gli si avanzava un paio di quintali di
grano dell’anno precedente, lo buttava in
398
e per fa’ véde’ che era più brào de
cuéll’altri contadì’. Coscì ’l padró’
ce pïàa la parte du’ ’olte. Se ’mparàa
da cualchidù’ ché se fèra insieme
a ’rdunà’ i côi, prò era radi cuéi
vampolù.
mezzo al barcone per farsi volere bene e
per far vedere che era più bravo di quegli
altri contadini. Così il padrone ci prendeva la parte due volte. Si imparavano
(queste cose) da qualcuno con cui si
faceva insieme per radunare i covi, però
erano rari questi spacconi.
“Padró non bòno, iéma iéma!”
“Padró’ non bòno, iéma iéma!”
Quante se n’arcontàa, quanno se
fèra insieme! C’era ai tempi nostri
’sta moda chì. Se compràa ’l porchetto da piccolo e se tenìa finànta
che n’era grasso be’. A tempo de’
frutti che cascàa della jànda, se ’nfilsàa ’mpiro per terra e lì venìa ligàdo
’l porchétto co’ n’anèllo ’nté ’l collo
e ’na cadèna lónga tre mèdri, la collàna, ’na spèce de ’n ca’. Sci l’anello
n’era messo be’, sci ’n t’accorgìsci,
se podìa strozzà’.
’N contadì’ cìa ligàdo la scróa e
gni’è capidàdo proprio cuscì. I’hà
toccàdo a gi’ a dillo alla padrona.
I’hà ditto: “Sòra padrona, me s’è
strozzàda la scróa!” “E como ha
fatto?” E questo ’gnorante, ’mpo’
’ndeficènte i’hà ditto: “ Como io
fusse ’l piròzzolo e vu’ foste la scróa:
s’è giràda tónno tónno e s’è strozzàda!” Questo i’hà datto della scróa
e lìa ’n s’accòrta!
Adè ve digo anca cuésta. C’era
’l padró’ che dicìa al contadì’: “Sta
sentì’ a me!” Cìa du’ bóssoli ligàdi
co’ ’na corda, da l’uno all’altro c’iaìa
Quante ce ne raccontavamo quando
si lavorava insieme! Ai tempi nostri
c’era questa usanza qui. Si comprava
il porco da piccolo e lo si teneva fino a
quando non era ben grasso. Al tempo
dei frutti, quando cadeva la ghianda,
si infilzava un bastone per terra e lì il
porco veniva legato con un anello nel
collo, il collare, e una catena lunga tre
metri, come fosse un cane. Se l’anello
non era messo bene, se non ti accorgevi,
(il porco) si poteva strozzare.
Un contadino ci aveva legato la
scrofa e non gli è capitato proprio così?
È dovuto andare a dirlo alla padrona.
Le ha detto: “Signora padrona, mi si è
strozzata la scrofa!” “ E come ha fatto?”
E questo (contadino) ignorante e un
po’ deficiente le ha detto: “Come io fossi
il bastone e voi la scrofa: (questa) si è
girata attorno e s’è strozzata!” Questo
le ha dato della scrofa e lei non si è
accorta! Adesso vi racconto anche questa. C’era il padrone che diceva al contadino: “Stammi a sentire!” Aveva due
barattoli legati con una corda, dall’uno
all’altro c’era una diecina di metri di
399
’na decina de mèdri de distànsa. ’L
padró’ i’hà ditto al contadì’: “Tène
’sto bóssolo ligàdo co’ ’sta corda e
io vô da cuell’àltra parte co’ ’st’altro
bóssolo. T’ho da dì’ ’na cosa che
a voce ’n te ’l posso dì’! Funsióna
como en talèfeno, ’scolta be’!”
Allora parla ’l padró’ al contadì’, ié dice: “Sci no’ lassi gi’ de
rubbà’, te manno via dal fónno!”
’L contadì’ i’arispónne: “Non se
sente sor padró’!” ’L padró’ ié fa:
“Scambiàmose, vène te de qua, che
là ce vèngo io”. Allora parla ’l contadì’, ié dice: “Sci no’ lassi gi’ a gi’
co’ mi’ móje, te mànno a cuell’àltro
mónno!” ’L padró’ ié fa: “Hai ragió’,
’n se sente gnè!”
Coscì ’l contadì’ i’hà tappàdo la
bocca al padró’ che i’hà convenùdo
de sta’ sitto, ma n’è che se podìa
sturzà’ tanto coi padrù’, sa! Quanno
rivàane lì casa, iè se fèra l’inchino e l’òmmini cavàane ’l cappello. L’Alliàdi, durante la guerra non
i volìa sentì’ mango lomminà’ e i
padrù’ era doventàdi ’mpo’ più mòrbedi, perché ha vedùdo e ’ntéso che
l’alliàdi non li podéa véde’, non volìa
sentì’ a di’ ‘sor padró’ ’. “Padró’ non
bòno! Iéma iéma”- dicea tutti.
È venùda ’mpo’ più d’uguajànsa.
E guai sci i partigiani te vedìa a portàje la robba: spettàa ’nté le strade
e te la levàa. Cualchidù ha duràdo
’mpo’ de più a portàje ’sti rigàli de
nascosto. Ìa portàdo ’na legge bella,
ma ha duràdo pogo: era ’na pianta
sensa ràdighe!
distanza. Il padrone gli ha detto al contadino: “Tieni questo barattolo legato
con questa corda e io vado da quell’altra parte con quest’altro barattolo. Ti
devo dire una cosa che a voce non te la
posso dire! Funziona come un telefono,
ascolta bene!” Allora parla il padrone
al contadino, gli dice: “Se non smetti
di rubare, ti mando via dal fondo!” Il
contadino gli risponde: “Non si sente,
signor padrone!” Il padrone gli fa:
“Scam­biamoci (di posto), vieni tu qua
e là ci vengo io. Allora parla il contadino, gli dice: “Se non smetti di andare
con mia moglie, ti mando in quell’altro
mondo!” Il padrone gli fa: “Hai ragione,
non si sente niente!” Così il contadino
gli ha chiuso la bocca al padrone, che
ha trovato più conveniente stare zitto,
ma non è che si potesse scherzare tanto
con i padroni, sa! Quando arrivavano a
casa, gli si faceva l’inchino e gli uomini si toglievano il cappello. Gli Alleati,
durante la guerra, non li volevano sentire neppure nominare e i padroni erano
diventati più morbidi, perché avevano
visto e capito che gli Alleati non li potevano vedere, non volevano sentir dire
“signor padrone”. “Padró’ non bòno!
Iéma iéma”- dicevano tutti.
È arrivata un po’ più d’uguaglianza. E guai se i partigiani ti vedevano
portare la roba (ai padroni): aspettavano sulle strade e te la levavano.
Qualcuno ha durato un po’ di più a
portargli questi regali di nascosto. Era
stata introdotta una legge bella, ma è
durato poco: era una pianta senza radici! Allora i padroni si sono cambiati
400
Allora i padrù’ s’è gambiàdi
’mpo’, ce dèra la midà, ce lassàa
fa’ ’mpo’ più como ce parìa, non ce
stèra più sopra, perché anca lóra
pensàa: “Chissà che vènto tirarà?”
un po’, ci davano la metà, ci lasciavano
fare un po’ più come ci pareva, non ci
stavano più sopra, perché anche loro
pensavano: “Chissà quale vento tirerà?”
Le votazió’
Le votazioni
Gémo avanti. Dobo del ’46 avémo
fatto le vodàzió’. Como ce rispettàa
chi fèra da capo! Vecchi, malàdi,
donne gràvide le gèrene a pïà’ a casa.
Anca io allàttàa: m’è venùdi a pïà’
e m’ha fatto passà’ annànse a tutti
perché cìa la monèlla piccola e po’
m’ha ’rportàdo a casa sùbbedo. Mai
servìda luscì! C’era maghine de piazza, ’n càmio’, tutti i pòghi mezzi che
c’era in circolazzió’, funsionàa tutti,
anca i cavàlli.
È gìdo su De Gasperi. Io non
sapìa mango che partìdo fusse: l’ho
dimannàdo a mi’ marìdo, perché noà
contadì’ non ce fregàa que partìdo
era: cercàmma solo de sta’ ’mpo’
mèjo, tanto la fadìga nostra ’n ce
la levàa nisciù’, ma almànco avésse
réso ’mpo’ de più! Scinónca sci cualchidù’ te mettìa a testa d’in giù, non
te cascàa mango ’n centè.
A cuéi tempi dopo guerra c’era
della gente che passàa ’nté le strade
che dicìa: “Contadì’! Volede fadigà’
de notte? Ve metterémo la luce ’nté i
campi! Volede l’acqua drendo casa?
Scoperchiade ’l tetto!”
La prima ’olta émo vodàdo solo
sul comù’: ’na fila de persóne fina
Andiamo avanti. Dopo, nel ’46,
abbiamo fatto le votazioni. Come ci
rispettava quello che faceva da capo!
Andavano a prendere a casa vecchi,
ammalati, donne gravide. Anche io
allattavo: mi sono venuti a prendere a
casa e mi hanno fatto passare avanti a
tutti, perché avevo la monella piccola e
poi mi hanno riportato a casa subito.
Mai servita così! C’erano macchine di
piazza, un camion, tutti i pochi mezzi
che c’erano in circolazione, funzionavano tutti, anche i cavalli. È andato su
(al governo) De Gasperi. Io non sapevo
nemmeno di quale partito fosse, l’ho
domandato a mio marito, perché a noi
contadini ci importava di quale partito
fosse: cercavamo solo di stare un po’
meglio, tanto la fatica nostra non ce
la levava nessuno, ma almeno avesse
reso un po’ di più, sennò se qualcuno ti
metteva a testa in giù, non ti cascava
neppure un centesimo!
In quei tempi del dopoguerra c’era
della gente che passava per le strade e
diceva: “Contadini, Volete lavorare di
notte? Vi metteremo la luce nei campi!
Volete l’acqua dentro casa? Scoperchiate
il tetto!”
La prima volta abbiamo votato sol401
da pìa delle scale. Ma no’ ’na fila:
tutte le scale pîne. Lassàa solo ’mpo’
de spazio per cuélli che ìa da vodà’
alla svéltra. E la gente dicìa: “Cuélla
è più bella?!” E como me tant’altri
colla trippa grossa, vecchi e malàdi.
Dobo, quando s’è arvodàdo altre
ô, s’è vodàdo quajù da pìa del paése
’ndó che c’era la madernidà, e po’,
tra San Francesco e le scòle, c’è ’n
curidóre: se boccàa oltra, lì c’era
’na stansa e lì s’arvodàa. ’Nsomma,
non c’era più ’na gran folla como la
prima ’olta, ma cuélla vo’, non m’arcòrdo be’, ma me pare che c’era ’na
scheda sola, con du’ partìdi1. Era più
fàciole: n’era como adè’! Ma pensàde
vuà! Cuélla vo’ ce n’era parecchi inalfabèda: sci c’era adè’ con tutte ’ste
schede, manco le roprìa pe’ gnè’.
tanto sul Comune: una fila di persone
fino in fondo alle scale. Ma non una
fila: tutte le scale piene. Era lasciato un
po’ di spazio per quelli che dovevano
votare alla svelta. E la gente diceva:
“Quella è più bella?” E, come me, tanti
altri con la pancia grossa, vecchi e
ammalati. Dopo, quando si è votato
altre volte, si è votato quaggiù in fondo
al paese, dove c’era la Maternità e, poi,
tra San Francesco e le scuole, c’è un
corridoio: si entrava lì oltre, lì c’era
una stanza e lì si votava. Insomma, non
c’era più una gran folla come la prima
volta. Quella volta, non mi ricordo bene,
ma mi pare che c’era una scheda sola,
con due partiti. Era più facile: non era
come adesso! Ma pensate voi! Quella
volta c’erano parecchi analfabeti: se
fosse stato adesso con tutte queste schede, nemmeno le avrebbero aperte.
La marcànsìa dei Alliàdi
La mercanzia degli Alleati
Dal’45 in poi è ’rvenùdi tutti i soldàdi che era in guerra; questi ch’era
chì da noà lìa mannàdi a casa. S’è
comensàdo a ricostruì’ ’l paese, i
negòzzi, a tirà’ fòri la robba piattàda,
ha ’rpïàdo ’mpo’ nigò, anca sci ’l
Dal ’45 in poi sono ritornati tutti i
soldati che erano in guerra; questi che
erano qui da noi li avevano mandati
a casa. Si è cominciato a ricostruire il
paese, i negozi, a tirare fuori la roba
nascosta, ha ripreso un po’ tutto, anche
1 La testimone si riferisce evidentemente alle prime libere elezioni del secondo
dopoguerra, ossia alle elezioni amministrative comunali che si sono tenute il 31 marzo
1946. In quella circostanza ad Ostra furono presentate due sole liste: una del partito della
Democrazia Cristiana, che ottenne 1732 voti (47,05%) e 4 seggi, e la lista “Libertà e lavoro”,
costituita da una coalizione di sinistra, che ottenne 1949 voti (52,95%) e 16 seggi.
402
paesàno cuélla vo’ stèra peggio che
’l contadì’.
Partìdi i Tedeschi, i’Alleàdi ìa
ropèrto tutti l’ammàssi, e la gente
coi cariòli, coi biròcci a gi’ a pïà’ ’l
gra’; chi non ce lìa ’l mezzo... su le
spalle, du’ tre viaggi, como le formìghe rabbìde oh! C’era la fame, hanne
’rvedùdo ’l gra’; era ’mpo’ d’anni che
se magnàa ’l pa’ nero e ’n se sapìa
de que era fatto: dicìa coi gamboló
del granturco, cuéll’anima che cìa
drendo. Dobo ’l ’45 anca al mulì’ se
podìa gi’ a macenà’, scinó prima ’l
macenàa col macenetto del caffè pe’
fa’ la crescia. Pe’ macenà’ ’n chilo
de gra’ ce volìa mezza giornàda: te
partìa la vòja de magnalla!
L’alliàdi, quanno è partìdi, ha
lassàdo le copèrte de lana, per lo
meno cuélli che dormìa da noà,
tante cioccolàde, saponette, le
‘checchès 33’ (cuscì era chiamàde
le sigarette), tante cassette piccole
e lónghe, tutte de fèro (cuélle che
ce tenìa le munizzió’); cuélle piccole
servìa pe’ i monelli pe’ gi’ a scòla.
Era propio adàtte, perché ce gèra
tutta la marcànsìa, solo che toccàa
a sta’ ’tènti sci s’arrabiàa ché, sci se
dèrene ’na sborciàda ’ntè la testa, ié
la spaccàa. E mantenìa fresca anca
’na fétta de pa’ perché era de fèro.
Dobo è sgappàde le penne, la bìrro,
perché prima c’era l’nchiostro ’nté i
calamàri.
L’Alliàdi ìa portàdo le novidà:
medicinali, diserbanti; ìa fatto sparì
pidocchi, pulce, piàttole che cìa
se il paesano quella volta stava peggio
del contadino.
Partiti i Tedeschi, gli Alleati avevano riaperto tutti gli ammassi, e la
gente con i ‘carrioli’, con i barrocci
andava a prendere il grano; chi non
aveva il mezzo… sulle spalle, due tre
viaggi, come le formiche rabbiose. Oh!,
c’era la fame, hanno visto di nuovo il
grano; erano alcuni anni che mangiavano il pane nero e non si sapeva di che
cosa fosse fatto: dicevano con i gambi
del granturco, quell’anima che avevano
dentro. Dopo il ’45 anche al mulino si
poteva andare a macinare, sennò prima
lo si macinava con il macinino del caffè
per fare la crescia. Per macinare un
chilo di grano ci voleva mezza giornata:
ti partiva la voglia di mangiarla (la
crescia)!
Gli Alleati, quando sono partiti,
hanno lasciato le coperte di lana, per lo
meno quelli che dormivano da noi, tante
cioccolate, saponette, le ‘checchès 33’
(così erano chiamate le sigarette), tante
cassette piccole e lunghe, tutte di ferro
(quelle in cui tenevano le munizioni);
quelle piccole servivano ai monelli per
andare a scuola. Erano proprio adatte,
perché ci entrava tutta la mercanzia,
solo che bisognava stare attenti che (i
ragazzi) non si arrabbiassero perché,
se uno dava una ‘sborsata’ in testa (ad
un altro), gliela spaccava. (La borsa)
manteneva fresca anche la fetta di pane,
perché era di ferro. Dopo sono uscite le
penne, le biro, perché prima c’era l’inchiostro nei calamai. Gli Alleati avevano portato le novità: medicinali, diser403
invasi tutti. Passàa co’ la Cicogna,
bassi, e dèra ’sto diditì.
Po’ i Merigàni ha visto che l’Italiani era ’rmasti spellàdi como ’mpidocchio, cuscì ce mannàa tanta
robba como scarpe, pagni, como
famo noà adè al terso monno.
Io i monelli li vestìo con cuélla
robba lì per fina che n’èra granni.
C’era tante bancarelle e coi soldi
ce s’ariàa mejo che gìlli a comprà’
’nté le botteghe, scinonca dai spazzì’, che ’rcominciààa a ’rvenì’ ’nté
la piazza, como prima del ’39, sarìa
prima della guerra. Io ’sti pagni li
lavàa bembè e po’ cuélli che era
granni e lónghi, i sdrucìa e po’ i
modellàa ’nté la vida de ’sti monelli.
Ahivoja, venìa bellini, e li vestìa be’
per cambialli scinoàltro: con cuélli
nòvi noà non ce se rivàa coi sghei!
Dobo la guerra a noà, per quanto
ch’émma passado tutto cuéllo che
v’ho ’rcontàdo, ce parìa ’mpo’ da
risorge’. Scì: se pagàa tutte le medicine, se pagàa l’ospedale tanto la
classe pôretta, como i ricchi; ’mbelpo’ i poretti toccàa a morì’ che non
s’arivàa coi soldi, non c’era pensió’.
C’era i sanadori per chi era tupergolosi, ma cuélla vo’ non c’era le medicine. Per guarisse, sci gèsci all’ospedale te mettìa ’nté l’isolamento: io
m’arcordo che dobo ’l fronte ce
n’era parecchi, maladi muntubè’: è
che fumma stadi vicino alla gente
de tutte le razze, como sémo rivàdi
anca adè.
Ce s’ammalàa anca pe’ la scar-
banti; avevano fatto sparire pidocchi,
pulci, piattole che ci avevano invaso
tutti. Passavano bassi con la Cicogna e
davano questo D.D.T. Poi gli Americani
hanno visto che gli Italiani erano rimasti spellati come un pidocchio, così ci
mandavano tanta roba come scarpe,
vestiti, come noi facciamo adesso con il
terzo mondo.
Io vestivo i bambini con quella roba
lì fino a quando non erano grandi.
C’erano tante bancarelle e con i soldi ci
si arrivava meglio piuttosto che andarli a comprare nei negozi, sennò dagli
ambulanti, che riprendevano a venire
in piazza, come prima del ’39, che
sarebbe prima della guerra. Io questi
vestiti li lavavo perbene e poi quelli
che erano grandi e lunghi, li scucivo
e poi li modellavo sulla vita di questi
monelli. Hai voglia!, venivano bellini,
e li vestivo bene, se non altro per cambiarli. Noi non ci arrivavamo con i
soldi a comprare quelli nuovi. Dopo la
guerra a noi, per quanto avessimo passato tutto quello che vi ho raccontato, ci
sembrava di risorgere. Sì: si pagavano
tutte le medicine, pagavano l’ospedale
sia la classe povera come i ricchi; a
molti poveri toccava morire, perché non
ci arrivavano con i soldi, non c’era la
pensione. C’erano i sanatori per quelli
che erano tubercolosi, ma quella volta
non c’erano medicine. Per guarirsi, se
andavi all’ospedale, ti mettevano in isolamento: io mi ricordo che dopo il fronte
ce n’erano parecchi, molto malati: è che
eravamo stati vicino a gente di tutte le
razze, come siamo arrivati adesso. Ci
404
La maestra Maria Frati della Scuola Elementare di Pianello osserva i suoi alunni, alcuni dei quali
hanno come borsa le cassette di ferro, lasciate dagli Alleati. Da notare il primo camion di Pianello, un
“Trerò” motore Lancia, riportato dall’Eritrea nel 1947 da Pianelli Ezio (Coll. Gabriele Balducci).
sidà del magnà’ e po’ ai contadì’
toccàa a fadigà’ como i muli, sudàde
ma de que razza!, non podìsci riguardatte per gnè.
si ammalava anche per la scarsità di
cibo e poi ai contadini toccava faticare
come i muli, sudate ma di quale razza:
non potevi riguardarti per niente.
405
Cuélla vo’ era anca peggio d’adè
Quella volta era anche peggio di adesso
Dobo la guerra ci’hà volsùdo
cualc’ànno per méttese ’mpo’ al
paro, però i padrù cìa lassado ’mpo’
de più la corda lenta, ma non podìsci scherzà’ tanto: c’era ’l dazio su
tante cose, como sul vi’, sul porchetto. Se ne podìa tené’ anca due, uno
pe’ ’l padró’ uno pel contadì’; però
quanno se mazzàa bisognàa pesàllo
e gi’ a staccà’ la bolletta, e po’ a
portà’ la coradella la milza la bisciga i budelli a fa’ vede’ al vedrinàio.
Un passo all’adrèdo: i primi anni ce
sia da portà’ anca le pacche, dopo le
bollàa coll’inchiostro, e cuél pezzo
de códiga toccàa a buttàlla via. Se
piàa ’l biroccio co’ le vacche e via
a Montalbò, mettìa le pacche sopra
a ’na taola e se coprìa co’ ninsòlo.
Eh fjòli! Cuélla vo’ era anca peggio d’adè: prima che m’arcordo io
c’era ’l dazio e po’ è venudo l’ige,
la Vanoni, adè l’iva, e po’ adè tutte
’ste ’rtroàde: sanne anca ’ndó la vai
a fa’. Alla madina basta calzà’ ’n
bottó’, da drendo a cuélla specie de
televisió’, te vène fòra anca cuél che
fèsci cinquat’anni fa: tante le ò te fa
’rmàne’ matto: tocca ’n tasto e vène
fòra ’l casàdo, ’l nome e anca quanti
anni hai.
Pe’ ’n conto fa be’ perdéro scinò
noaltri vecchiotti sci vai drendo al
Comù’ ’rmani ’mpappinàdo, non
t’arcordi de gnè. ’Na ò me so’ ’ncontrada ’nté ’st’ufìci: a ’n omo i’hà
domannàdo: “Quanno sede nado?”
Dopo la guerra c’è voluto qualche
anno per mettersi un po’ alla pari, però
i padroni ci avevano lasciato un po’ di
più la corda allentata, ma non potevi
scherzare tanto: c’era il dazio su tante
cose, come sul vino, sul porco. Se ne
potevano tenere due ( di porci), uno per
il padrone e uno per il contadino, però,
quando lo si ammazzava, bisognava
pesarlo, andare a staccare la bolletta e
poi portare il fegato, la milza, la vescica,
i budelli per farli vedere al veterinario.
Un passo indietro: i primi anni ci si
dovevano portare anche le pacche, dopo
le bollava con l’inchiostro e quel pezzo
di cotica lì toccava buttarla via. Si
prendeva il biroccio con le vacche e via
a Montalboddo; si mettevano le pacche
sopra una tavola e si coprivano con
un lenzuolo. Eh, figli! Quella volta era
anche peggio di adesso: prima, per come
mi ricordo io, c’era il dazio e poi è venuta l’I.G.E., la Vanoni, adesso l’I.V.A., e
poi adesso tutte queste trovate: sanno
anche dove la vai a fare. La mattina
basta spingere un bottone, da dentro
quella specie di televisore, ti viene fuori
anche quello che facevi cinquant’anni
fa: talvolta ti fa rimanere stupefatto:
tocca un tasto e viene fuori il cognome,
il nome e anche quanti anni hai.
Per un conto fa bene davvero, sennò
noi vecchiotti, se vai dentro il Comune,
rimani impappinato, non ti ricordi di
niente. Una volta mi sono incontrata in
questi uffici. A un uomo (l’impiegato)
gli ha domandato: “Quando siete nato?”
406
E lu’ i’hà risposto: “Me pare ’l trentadue d’agosto”. E cuélli s’è datti ’ na
sguardada. “Sarà al 31, ’l trentadue
non c’è!” E cuéllo: “Como non c’è!
È vero che non so’ gido a scòla, ma
troppi ce n’è de ’sti nùmberi!”
Embè pacensia! Beadi ’sti arnòi
che polene studià’, divertìsse, fumà’,
gi’ an giro colle belle atomòbole,
comènsane a fa’ l’amore quanno se
la sèntene, e non ci’hà la tessera
invelle. Finànta che fadìga i vecchi
ié va a rode ónte, ma quanno non
ci’hanne più chi manna la barca,
dobo como fanne? Io a ’sti arnòi ié
’l vengo dicenno, ma da ’na recchia
ié bócca e cuéll’altra ié scappa. Ma...
ce vorrà pensà’ anche lóra. Muntubè
na vène anca dai genidóri, e comènsa a di’: cuéllo ’l fa, cuéll’altro ce
l’ha! Dobo vôle esse’ dal paro.
Piacìa anca a noà a èsse’ dal paro,
ma dicìa ’sti genidori: “Guardade a
chi è peggio, mai a chi è mejo! ’L
pesce grosso ha usado sempre!”
E lui ha risposto: “Mi pare il trentadue
di agosto” E quelli si sono scambiati
uno sguardo. “Sarà il trentuno, il trentadue non c’è!” E quello: “Come non c’è!
È vero che non sono andato a scuola,
ma troppi ce n’è di questi numeri!”
Ebbene, pazienza! Beati questi rinnovi (i giovani) che possono studiare,
divertirsi, fumare, andare in giro con
le belle automobili, cominciano a fare
l’amore quando se la sentono e non
hanno la tessera in nessuna cosa. Fino
a quando lavorano i vecchi, (i giovani)
vanno a ruote unte, ma quando non
avranno più chi manda la barca come
faranno? Io a questi rinnovi glielo vado
dicendo, ma gli entra da un orecchio e
da quell’altro gli esce. Ma… ci vorranno
pensare anche loro! Molto dipende anche
dai genitori, ma (i figli) cominciano a
dire: “Quello lo fa, quell’altro ce l’ha!”
Dopo vogliono essere alla pari.
Piaceva anche a noi stare alla pari,
ma dicevano i genitori: “Guardate a chi
sta peggio, mai a chi sta meglio! Il pesce
grosso c’è sempre stato!”.
L’artigianelli
Gli artigianelli
Presempio dobo la guerra la gioventù ’na ’òlta all’anno ce gèra a
tajà’ i capii, anca cualchidù’ a fa’
la permanente; noà i tajamma ’n
tra sorelle, cuélle due più granne
portàa la coda: cuélla vo’ gèra de
moda. I capii se lavàa, como me
pare d’avèvve ditto, ’na ’olta al mese
Per esempio dopo la guerra la gioventù una volta l’anno andava a tagliare i capelli, qualcuna anche a farsi
la permanente; noi li tagliavamo tra
sorelle, quelle due più grandi portavano la coda: quella volta andava di
moda. I capelli si lavavano, come mi
pare d’avervi detto, una volta al mese,
407
Il “calsolàro” con i suoi lavoranti ed apprendisti. Attorno al deschetto da sinistra: Armando Ferretti,
(dietro a lui Claudia Bedini), Nazzareno Bedini, (vicino alla porta la moglie Agata con in braccio
il figlio Mariano), -?-, Santino Catozzi. Davanti, a terra, al centro: Giovanni Pagoni. Foto 1923 o
1924 (coll. Paola Staccioli).
quanno se fèra la boccàda, co’ la
ranna venìa lucidi, altro che adè
tutte le teste ’ncollàde con cuél
gel, con cuélla pulendèlla colorada.
Quanno fumma ’mpo’ scapecciàde,
’na goccia d’oio d’olìa; cualchidù’,
chi podìa, compràa la brillantina e
l’òmmini la vasellina. Dobo cuàlche
cridigó’ dicìa: “Vedi, cuéllo o cuélla como è liccadi, como è paccó’,
como fa la vernia!”
Cuélla vo’, per tajà’ i capìi l’ommini, fèra venì’ ’nté ’n casa ’l barbiere. E po’ ’nté ’n casa ce venìa anca
l’altri artigianelli: lo sparanghino,
quando si faceva il bucato: con il ranno
venivano lucidi, altro che adesso tutte
le testa incollate con quel gel, con quella
polentina colorata.
Quando eravamo un po’ scompigliate, una goccia d’olio d’oliva; qualcuno,
chi poteva, comprava la brillantina e
gli uomini la vasellina. Dopo qualche
criticone diceva: Vedi, quello o quella
come sono raffinati, come sono vanitosi, come fanno il lusso!” Quella volta,
per tagliare i capelli, gli uomini facevano venire il barbiere in casa. E poi
in casa ci venivano anche gli altri artigianelli: lo ‘sparanghino’, che sarebbe il
408
Il “calzolaro” Mazzanti Erminio e i suoi lavoranti. Da sinistra: -?-, Amleto Pettinari, Erminio
Mazzanti, Arduino Barchiesi e Vito Massi (coll. Carlo Barchiesi).
che sarìa ’rconciapiatti, pigne, brocche. E po’ ’l sarto a tajà’ calse e
camicie pe’ l’ommini, ’l maniscalco
a tajà’ l’ogna alle vacche, a metteje
i ferri, anca chi cìa i cavalli i ferààa
’nté ’n casa.
concia piatti, pignatte, brocche. E poi il
sarto per tagliare pantaloni e camicie
per gli uomini, il maniscalco a tagliare
l’unghia alle vacche, a mettergli i ferri;
anche chi aveva i cavalli li ferrava in
casa.
409
I muratori della ditta Staccioli Dante ed altri lavoratori, in posa dopo il pranzo per la costruzione
della casa colonica Frontini Attilio di Censi Buffarini. In prima fila da sinistra: 3°Giuseppe Bedini –
4° Sigifredo (Sisè) Argentati – 7° Vincenzo Cerioni –8° Emilio Argentati – 9° Severino Paradisi – 10°
Agostino Cecchini - 11° Giacomo Carloni (Cannó). In seconda fila: 2° Lino Staccioli - 4ª Stamura
Cappannari - 6° Nazzareno Lenci – 7° Sante Panni. In terza fila: 3° Piero Staccioli – 4° Arturo
Argentati – 5° Quinto Bruschi – 7ª Nella Staccioli – 8° Nazzareno Olivetti –dietro il 9° Dante
Catozzi – 10° Dante Staccioli – 12° Ciriaco Zingaretti – 13° Filiberto Stefanelli – 14° Carlino
Frattesi. Nell’ultima fila in alto: 6° Vincenzo Frulla – 7° Carlo Bedini – 8° Giuseppe Selvetti - 9ª
Mallucci Giselda – 12° Oddino Argentati – 15° Riccardo Frattesi. Anno 1940 circa (coll. Tarcisio
Paradisi).
Quanta gente pe’ la caridà
Quanta gente per la carità!
E po’ quanta gente pe’ la caridà: ’na fetta de pa’, du’ capi d’ua,
’na fascina, ’n panetto de granturco
per fa’ la pulenta, ’na sessolàda de
gra’, du’ teghe de fàa. Èrane ’mbellipo’: chi era struppi, chi era stadi
al malincònio, chi stèra male e ’n
podìa gi’ aiudà’ a fadigà’ ai conta-
Quanta gente (passava nelle case per
chiedere) la carità: una fetta di pane,
due grappoli d’uva, una fascina, un
panetto di granturco per fare la polenta, una sessolata di grano, due teghe di
fava. Erano molti: alcuni erano storpi,
alcuni erano stati al manicomio, altri
stavano male e non potevano andare ad
410
di’, allora passàa spesso. Scindó
’l paesà’ che podìa all’istàde gèra
a spigà’ dai contadì’ grossi e dobo
portàa alla fi’ a batte la spiga e ce
’rcavàa anca ’na quintalàda de gra’.
E ’n n’era gnè?
Quanno rivàa lì casa cualchidù’,
envéce de chiamà’, se mettìa a sède’
da pìa de le scale, dicìa ’l padarnostro forte, coscì la vergara sentìa e
ié portàa ’na fètta de pa’; sci ’ncuntràa sul mezzogiorno, anca ’mpiàtto
de minè’, tutti contenti ringrazziàa.
C’era una ch’era ’mpo’ ’ndeficènte,
se mettìa a cantà’ “ ’l biròccio ’l va, ’l
biròccio ’l va, la ròda sens’ónto non
gira va, ’l biroccio…”. Cantàa sempre cuèlla e giogàa co’ ’na sfiézza
dei capìi: cuélla prò volìa bé’, oltra
che sci ’ncontràa all’ora de magnà’
domannàa nigò. Ormai la conoscemma, ié dèmma sempre ’mpar de
bicchierétti de vi’, era sempre mezza
brilla, cantàa como ’n’armellìna1. Ié
dicémma noà: “’L Padarnostro pei
morti quanno ’l dìghi?” Rispónnìa:
“Domà’!” Tutte le ’olte risponnìa
luscì. C’era, envéce ’n’ômo che
dicìa, quanno gèra pe’ la caridà:
“Fàde la caridà a ’sto pôretto, che io
ci’ho tre gambe e du calsétte!” Era ’l
sòppo de Falconàra, cìa tre gambe,
nisciuna para!
Po’ cualchidù’ passàa anca co’ le
aiutare i contadini, allora passavano
spesso. Sennò il paesano che poteva
all’estate andava a raccogliere la spiga
dai contadini grossi e dopo portava a
trebbiare la spiga e ci ricavava anche
un quintale di grano. E non era niente?
Quando arrivavano a casa nostra,
alcuni, invece di chiamare, si mettevano a sedere in fondo alle scale, dicevano
il Paternostro forte, così la vergara
sentiva e gli portava una fetta di pane;
se incontrava sul mezzogiorno, anche
un piatto di minestra; tutti contenti
ringraziavano. Una un po’ deficiente
si metteva a cantare: “Il biroccio va,
il biroccio va, la ruota senza olio non
gira, il biroccio va”. Cantava sempre
quella e giocava con una ciocca di capelli: quella però voleva bere oltre che, se
incontrava l’ora di mangiare, domandava ogni cosa. Ormai la conoscevamo,
le davamo un paio di bicchieretti di
vino, era sempre mezza brilla, cantava
come una “armellina”. Noi le dicevamo:
“Il Paternostro per i morti quando lo
dici?”. Rispondeva: “Domani!”. Tutte le
volte rispondeva così.
C’era invece un uomo che diceva,
quando andava per l’elemosina: “Fate
la carità a questo poveretto, perché io ho
tre gambe e due calzini!”. Era lo zoppo
di Falconara, aveva tre gambe, nessuna
pari!
Non si capisce perché abbia tanto da cantare l’ermellino o l’ermellino femmina, specie se gli dovesse capitare di rimanere sulla neve senza pelliccia (tutti gli danno la caccia!), ma l’espressione “cantare come un armellino” è molto diffuso nella nostra zona.
411
tràppole, dicìa a uno che i’èra morta
’na bestia, a ’n’antro ié dèra a créde’
che cìa ûdo le disgrazie in faméja,
a ’n’antro che cìa tanto male ’nté ’n
casa e ’n se sapìa manco de ’ndó era,
ma tanto babbo dicìa sempre coscì:
“La caridà è sempre mèjo a fàlla che
ricévela!” Allora n’émo mannàdo
mae via a nisciù’ sensa niè’.
In cuànto alle bestie ne morìa
muntebe’: a cualchidù’ capàce ié
moria ’mporchétto col malrossì, ’na
pegora gonfia, ’na vacca gràida, ’n
toro strozzàdo, gonfio, col tèdeno:
podìa èssece ’n tra l’erba o ’l fié
’mpezzo de fero.
Se dicìa: “Ha ’ngollàdo ’n corpo
strano!” Allora morìa e dobo cuél
contadì’, sci succedìa de rado, be’
tanto tanto, ma cualchidù’ anca du’
’olte all’anno e allora se gèra a
gambe per aria, perché ’l padró’, sci
era ’na cosa chiara ’mbè ne risentìa,
ma sci se strozzàa non volìa sapé’
gnè’, cìsci da sta’ ’tènti. Le cadéne
era legàde ’ntè le greppie co’ ’n’anèllo de ferro; tante le ò ce se ’ngainàa
l’erba, ’l fiè’, e l’anello non giràa be’,
se ’ncastràa, i tori era fogósi e se
’ngainàa facile.
’L porchétto, quanno magnàa
’mpo’ de più, sci iè piàa freddo, ié se
fermàa la digestió’ e ié pïàa ’l malrossì, tutte bóje grosse. Cualchidù’
’l magnàa, ’mbellepo’ le bestie le
vendìa a bassa macellerìa, sci’nn’èra
’l male brutto, scindó venìa ’l
vedrinàio, fèra fa’ ’na buga, buttàa
nigò drendo e ce buttàa l’acido,
Poi qualcuno passava anche con le
frottole, uno diceva che gli era morta
una bestia, un altro dava a intendere
che aveva avuto disgrazie in famiglia,
un altro che aveva tanto male in casa
e non si sapeva neppure di dove era,
ma tanto babbo diceva sempre così: “La
carità è sempre meglio farla che riceverla!”. Allora non abbiamo mandato mai
via nessuno senza niente.
In quanto alle bestie ne morivano
molte: a qualcuno moriva un porco
con il “malrossino”, una pecora gonfia,
una vacca gravida, un toro strozzato,
gonfio, con il tetano: poteva esserci tra
l’erba e il fieno un pezzo di ferro.
Si diceva: “Ha ingoiato un corpo
estraneo!”. Allora moriva e dopo quel
contadino, se succedeva raramente, beh
tanto tanto, ma qualcuno anche due
volte l’anno e allora si andava a gambe
per aria perché il padrone, se era una
cosa chiara, ebbene non faceva il risentito, ma se (un bestia) si strozzava non
voleva sapere niente: dovevi stare attento. Le catene erano legate nelle greppie
con un anello di ferro; talvolta ci si
avvolgeva l’erba, il fieno, e l’anello non
girava bene, si incastrava, i tori erano
focosi e si incastravano facilmente.
Il porco, quando mangiava un po’ di
più, se prendeva freddo, gli si fermava
la digestione e gli prendeva il “malrossino”: tutte croste grosse. Qualcuno lo
mangiava, molti le bestie le vendevano
a bassa macelleria, se non era un brutto male, sennò veniva il veterinario,
faceva fare una buca, buttava tutto
dentro e ci metteva l’acido, così non la
412
coscì na magnài de scigùro.
Cualchidù’ ce fèra ’l sapó’, ’l so
fa’ anch’io: ve do la ricetta? E po’ no:
ne ’l dòpra più nisciù’!
Quanno c’era la carne a bassa
macellerìa ’l basso popolo su ’l paese
ce curìa a compràlla, perché costàa
pogo pogo. C’era n’omo che sgaggiàa la bassa macelleria, la gente prò
volìa sapé’ de qu’èra morta la bestia.
Allora lu’ sapé’ que risponnìa? Dicìa
sempre coscì: “È cascàda da ’na
pianta!”
La morte de ’na bestia pe’ ’l contadì’ era ’na disgrazzia grossa muntubè’, guasci como la morte de ’n
cristià: te rompìa l’ossi, coscì c’era
chi ce gèra per la cerca pe’ podé’ gi’
annànse co’ la faméja.
Po’ pe’ la cerca ce venìa tutti i
fradi del contornàle como c’era ’na
festicciòla; comensàa da Morro, da
Monte Latiero, San Marcello, Bel­
vedé’, Madonna del Sole, la Piéi, ’l
Palazzo lì la Collina, Montenovo,
Santa Maria Appara, Madonna della
Rosa, Capuccì’. De cuésti chì, quanno ero piccola, passàa padre Candio
co’ la scattolétta del tabacco, cuéllo
sfarinàdo che se nàsa, e tre quattro sacchettìne de somènte como
grugni, l’ansalàda riccia, ravanelli,
erbette, càoli, e tutte somènte che
pïàa co’ le ma’ sua. E noà dicémma:
“Va’ a còje l’ansalàda dei fradi!”
E po’ passàa cuéllo de lo stidùdo
del Sagro Côre, Don Antò, che mantenìa tanti monelli. De vendégne
’rpassàa i capuccì col cavàllo e cìa
mangiavi di sicuro. Qualcuno ci faceva
il sapone, lo so fare anch’io, ve la do la
ricetta? E poi no: non lo adopera più
nessuno!
Quando c’era la carne a bassa
macelleria, il basso popolo sul paese
correva a comprarla, perché costava
poco poco. C’era un uomo che gridava
la bassa macelleria, la gente però voleva
sapere di che cosa era morta la bestia.
Allora lui sapete che cosa rispondeva?
Diceva sempre così: “È caduta da una
pianta!”.
La morte di una bestia per il contadino era una disgrazia molto grossa,
quasi come la morte di un cristiano: ti
rompeva le ossa, così c’era chi ci andava per la questua per potere andare
avanti con la famiglia.
Poi per la questua ci venivano tutti i
frati dei dintorni appena c’era una piccola festa; cominciavano da Morro, da
Montelatiero, San Marcello, Belvedere,
Madonna del Sole, la Pieve, il Palazzo
sulla Collina, Montenovo, Santa Maria
Apparve, Madonna della Rosa, Cap­
puccini. Di questi qui, quando ero
piccola passava Padre Candio con la
scatoletta di tabacco, quello sbriciolato
che si annusa, e tre quattro sacchettine
di semi come cicoria, insalata riccia,
ravanelli, prezzemolo, cavoli: tutti i
semi che prendeva con le mani sue. E
noi dicevamo: “Vai a cogliere l’insalata
dei frati!”
E poi passava quello dell’istituto
Sacro Cuore, Don Antonio, che manteneva tanti monelli. Al tempo della
vendemmia passavano di nuovo i
413
’n barìlle pel mosto, mistigàa biango
e róscio; po’ quanno che capitàsci
lì te dèra da bé’: era bòno, come
rosadèllo. Sci ce gèsci a fa’ n’ufìzzio,
te dèra anca da magnà’: i fradi era
caridadéoli.
E po’ passàa pe’ la caridà chi
sonàa le campane, ‘campanari’
dicemma: como se presentàa nùgolo da temporale, comensàa a sonà’
a distesa. Oh ’n ve dirò: tante le ò
no, ma muntubè’ sbalgìa via troni e
gràndola.
Cappuccini con il cavallo e avevano un
barile per il mosto, mischiavano bianco e rosso; poi quando capitavi lì (nel
convento) ti davano da bere: era buono
come rosatello. Se ci andavi a fare un
uffizio ti davano anche da mangiare: i
frati erano caritatevoli.
E poi passavano per la carità quelli
che suonavano le campane, li chiamavamo “campanari”: come si presentava
un nuvolone da temporale, cominciavano a suonare a distesa. Oh vi dirò,
talvolta no, ma molto spesso allontanavano tuoni e grandine.
Giuà, Achille e ’l ventarèllo dei
maccarù’
Giovanni, Achille, la distilleria e il
venticello dei maccheroni
C’era po’ uno, Giuà de Belvedé’,
che ’n passàa propio pe’ la caridà;
passàa p’avé cualcò e fa ’na chiacchieràda. Stade a sentì’ co’ dicìa de
su’ móje: “Mi’ móje, sci la vedéde
coscì, n’è bella sapé; ma, sci la vedésta nuda, è grassa como n’ardèlletto,
cioìle como ’na goccia de latte, mòrbeda como ’n massolétto de sógna.
Quanno l’ho sposàda, alla sera l’ho
messa sopra al comò, ho pïàdo la
luma, so’ gido tónno tónno, ’n sapìa
com’era fatte le donne: quanno l’ho
vista, so’ ’rmàsto matto in pìa!”
Ancó’ non v’ho ditto d’Achille, che
passàa co’ la trappola del martarello.
Sci sapìa che cualchidù’ ’l chiappàa,
ié dèra ’na piccola parte, e lu’ ce guadagnàa. Se ’ncollàa co’ ’mbastó’ ’sta
trappola sulle spalle e via! Ìa inven­
C’era poi uno, Giovanni di Bel­vedere,
che non passava proprio per l’elemosina; passava per avere qualcosa, per fare
una chiacchierata. State a sentire cosa
diceva di sua moglie: “Mia moglie, se
la vedete così, non è bella sapete! Ma se
la vedeste nuda è grassa come un pezzetto di lardo, bianca come una goccia
di latte, morbida come un bel tocco di
grasso. Quando l’ho sposata, la sera l’ho
messa sopra al comò, ho preso il lume,
le sono andato intorno; non sapevo come
erano fatte le donne: quando l’ho vista
sono rimasto matto in piedi”. Ancora
non vi ho detto di Achille, che passava
con la trappola del martarello. Se sapeva
che qualcuno lo acchiappava, gli dava
una piccola parte e lui ci guadagnava.
Si caricava con un bastone questa trappola sulle spalle e via! Aveva inventato
414
tàdo da per lù’sta cansoncì’1:
Martarèllo disgraziàdo
‘nté la trappola ce sai boccàdo,
otto coniji che m’hai mazzàdo
nove oghétte i’hai biùdo ’l sangue
E adesso morirai infilsàdo,
o martarello disgraziato!
Intànto lu’, con cuél càolo de
martarello tutti ié dèra cualchiccò’:
òvi, farina, gra’, pa’. Dobo, quanno
cìa ’mbel gruzzolo, ’l lassàa ’nté ’na
casa e, quanno se gèra a Montalbò
col biroccio, ié se portàa o ce mannàa cualchidù’ col cavallo: cìa tornacónto!
Sai, sci cualchidù’ la sapìa lónga,
’n gné volìa da’ gnè, dicìa ridènno:
“Adè’ ve ’l lasso dentórno casa!”
Tutti émma paura, perché sci boccàa ’nté ’mpullàro dei pùi te li pulìa
tutti. Anca i cunìi se tenìa fòra sotta
ai pajàri. Se fèra ’n baldacchì prima
de vià’ ’l pajàro co’ ’na capra de
legno, como d’oppio, d’olmo, che
fèra da cappannèllo, co’ ’mpo’ de
pali tàole, se fèra como ’n connìgolo; de fòri se mettìa ’na réde,
con i bastù’ che la tenìa tesa. Lì se
buttàa giù da magnà’: i conìi gèra
fòra e drendo, ma sci ce boccàa ’l
martarèllo, ni salvàsci per gnè. Anca
i pui che dormìa fora su le piante
stèra pogo scigùri: c’era anca le dòndole, che se rampìna su le piante, ié
béve ’l sangue. Anca noà, che c’émo
’n fosso vicino, st’anno c’è boccàde
1
da solo questa canzoncina:
“Martarèllo disgraziàdo
‘nté la trappola ce sai boccàdo,
otto coniji che m’hai mazzàdo
nove oghétte i’hai biùdo ’l sangue
E adesso morirai infilsàdo,
o martarello disgraziato!”
Intanto a lui, con quel cavolo di
martarello, tutti gli davano qualche
cosa: uova, farina, grano, pane. Dopo,
quando aveva un bel gruzzolo, lo lasciava in una casa e, quando si andava a
Montalboddo con il biroccio, gli si portava oppure ci mandava qualcuno con il
cavallo: ci aveva il tornaconto!
Sai, se qualcuno la sapeva lunga,
non gli voleva dare niente, diceva ridendo: “Adesso ve lo lascio intorno casa!”.
Tutti avevamo paura perché se (il martarello) entrava in un pollaio ti puliva
tutti i polli. Anche i conigli si tenevano
fuori sotto i pagliai. Prima di avviare il
pagliaio, si faceva un baldacchino con
una capra di legno come d’oppio, d’olmo, che faceva da capannello, con un po’
di pali e tavole, si faceva come un cunicolo; di fuori si metteva una rete con i
bastoni che la tenevano tesa. Lì si buttava giù da mangiare: i conigli andavano
fuori e dentro ma, se ci entrava il martarello, non li salvavi per niente. Anche
i polli che dormivano fuori sulle piante
stavano poco sicuri: c’erano anche le
donnole che si arrampicano sulle piante
e gli bevono il sangue. Anche a noi, che
abbiamo un fosso vicino, quest’anno ci
Vedere la trascrizione musicale a p. 494.
415
’ste bestiàcce e ci’hà portàdo via ’na
ventìna de pulcì piccoli; ’l bucio ’n
c’era invèlle, ce semo còrti che c’era
la réde ’nsanguenàda. L’ha fatti pas­
sà’ lì ’l bugio era malappena pogo
più de ’n dèdo grosso, ma pe’ la
fame tutti se dà da fa’: brestiàcce e
cristià’.
Allora n’ho fenìdo de di’ che ’na ò
su da Don Antò’, ‘l Sagro Côre,’ndó
che adè’ c’è la casa pell’ansiàni, cuélla vo’ c’era como n’orfanatrofio ’ndó
stèra i fjòli sensa padre o madre; c’è
stàdo ’mpo’ d’anni anca mi’ nipóde.
Prima che sposàsse, l’ho guardàdo
io, dobo ho pïàdo marìdo, i genidóri
sua ’l padre in guerra, la madre stèra
sempre male po’ è morta, i nònnesi
gné la fèra più che era vecchi, l’ha
messo lì drendo sinànta a ùnneci
anni, dobo l’ha mannàdo ’nté n’antro orfanadrofio più da lóngo. Allora
lì ’nté cuél Istidudo c’era ’na ò la
distellerìa, affare de settant’anni fa,
allora lì fadigàa tanti operai. A mezzogiorno sonàa la seréna, fischiàa,
se sentìa tanti chilomedri da lóngo;
allora quanno sentémma a fischià’,
via sùbbedo se lassàa gi’ a fadigà’. Dicémma: “È ora a gì a métte’
per dente!” Anca quanno vèro le
ùnnici e mezzo, tiràa cuél ventarello fresco, dicémma: “Cuésto è ’l
ventarèllo dei maccarù’, perché da
noà de mededùre se fèra spesso ’sti
maccarù’. Dobo sposàda envéce se
dicìa “ ’l ventarello dei tajolì’”: s’èra
gambiàda la mùsega! ’Na cosa è a
magnà’ co’ la furcìna, ’n’antra cosa
sono entrate queste bestiacce e ci hanno
portato via una ventina di pulcini piccoli; il buco non c’era in nessun posto,
ci siamo accorti perché c’era la rete
insanguinata. Li ha fatti passare lì, il
buco era a malapena poco più (grande)
di un dito grosso, ma per la fame tutti
si danno da fare, bestiacce e cristiani.
Allora non ho finito di dire che una
volta su da Don Antonio, sul Sacro
Cuore, dove adesso c’è la casa per gli
anziani, quella volta c’era come un orfanotrofio dove stavano i figlioli senza
padre o madre; c’è stato per un po’ di
anni anche mio nipote. Prima che io
sposassi, l’ho guardato io, dopo ho preso
marito, dei genitori suoi il padre (era)
in guerra, la madre stava sempre male,
poi è morta, i nonni non gliela facevano
più (a guardarlo) perché erano vecchi,
(allora) l’hanno messo lì dentro sino
a undici anni, dopo l’hanno mandato
in un altro orfanotrofio più lontano.
Allora lì in quell’istituto c’era una volta
la distilleria, si tratta di settant’anni
fa, allora lì lavoravano tanti operai. A
mezzogiorno suonava la sirena, fischiava, si sentiva tanti chilometri lontano;
allora quando sentivamo fischiare, si
smetteva subito di lavorare. Dicevamo:
“È ora di andare a mettere per dente!”.
Anche quando, verso le undici e mezzo,
tirava quel venticello fresco, dicevamo:
“Questo è il venticello dei maccheroni”,
perché da noi, durante la mietitura,
si facevano spesso i maccheroni. Dopo
sposata, invece, si diceva “il venticello
dei tagliolini”: era cambiata la musica!
Una cosa è mangiare con la forchetta,
416
è magnà’ co’ la cucchiàra: du’ ore
dobo avìsci più fame de prima! La
fame era sempre a nùmbero uno;
cuélla vo’ n’ampicciàa ’l grasso e
mango la trippa, te gobbàsci be’, era
como ’na stecchia!
un’altra cosa è mangiare con il cucchiaio: due ore dopo avevi più fame di
prima! La fame era sempre al numero
uno; quella volta non impicciava il
grasso e neppure la pancia, ti chinavi
bene, ero come una stecca.
La “Distilleria Raffineria Spiriti e Liquori F.lli Maltoni” di Ostra. Da una cartolina del 1910/12.
(collezione Renato Verzolini)
De tante serve ’n ce n’è una
salva!
Di tante serve non ce n’è una
salva!
‘Rcambiamo discorso ’n’antra ô.
’Nté le faméje era guasci sempre
’na dittadùra, ’ndó c’era muntibè’
de maschi, sci non c’era ’n capoccia
serio e ’mpo’ risolùdo, miga se gèra
avanti. Dicìa babbo: “Quanno ’nté
’na casa canta ’na massa de galli,
non se fa mae giorno!” ’Sto dittado
Cambiamo discorso un’altra volta.
Nelle famiglie era quasi una dittatura;
dove c’erano molti maschi, se non c’era
un capoccia serio e un po’ risoluto,
mica si andava avanti. Diceva babbo:
“Quando in una casa canta un mucchio di galli, non si fa mai giorno”.
Questo proverbio vuol dire che doveva
417
servìa che dovìa comannà’ ’l capoccia solo, ma a tutti non ié gèra giù.
Èrane anca 25 o 30 persone ’nté le
faméje, non se podìa èsse’ tutti la
stessa idea, quattro cinque nôre, una
la pensàa da ’na via e una da ’n’antra; dobo anca i maschi c’era sempre
la pègora nera ’nté la faméja: c’era
cuéllo sottomesso e cuéllo no. C’era
anca i capoccia e la vergàra falsi: a
’na nôra la coccolàa, a cuéll’altra la
strapazzàa. C’èra de cuélle che ce
sapìa fa’ de più, cìa più rispetto pei
sòceri: davanti i liccàa e drédo fèva
i corni: è capidàdo coscì anca giù
casa de noà.
Noà all’istàde, per sette anca otto
mesi se tenìa garzó’ e serva, ché la
posció’ era quìnnici èttri e le facènne quann’èra ora, toccàa fàlle: fié’,
baci, falcià’, sappà’, rastellà’, da’ ’l
verdoràmo, ’l sólfo, tajà’ cannédi,
legna, nigò ’n se la fèra a fàlle tutte.
Bòni fumma poghi, pure per cuésto
’n ce fèra fermà’ sotto la miriggia,
perché notte la sera curìa i soldi e
da magnà’.
Serve e garzù’ dicìa: “Nùgoli e
pan fresco, la notte ’l tempo bòno
el giorno tristo!” Coscì se riposàane ’mpo’, ma da noà non c’era mae
riposo; per quanno piovìa lassàa
da pulì’ ’l magazzì’, da ’nsaccà’ ’l
gra’, ’l granturco, spezzà’ i tozzi
del granturco muffo pe’ i porchètti,
all’inverno a filà’, ’nsómma la robba
che c’era da fa’ drendo la lassàa per
quanno pioìa.
Io coll’ago e laóri a ferri li fèva
comandare solo il capoccia, ma a tutti
non andava giù. C’erano anche venticinque trenta persone nelle famiglie,
non si poteva essere tutti della stessa
idea. Quattro cinque nuore, una la
pensava in un modo e una in un altro;
dopo anche tra i maschi c’era sempre la
pecora nera della famiglia: c’era quello
sottomesso e quello no. C’erano anche
il capoccia e la vergara falsi: coccolavano una nuora, strapazzavano l’altra.
C’erano di quelle (nuore) che ci sapevano fare di più, avevano maggior rispetto per i suoceri: davanti li leccava e di
dietro facevano le corna. È capitato così
anche a casa nostra. D’estate, per sette
otto mesi, si tenevano garzone e serva,
perché il podere era di quindici ettari e
le faccende, quando era l’ora, bisognava
farle: fieno, bachi, falciare, zappare,
rastrellare, dare il verderame, lo zolfo,
tagliare i canneti, la legna, tutto quanto
e non si riusciva a farle tutte. Buoni
(per lavorare) eravamo pochi, pure per
questo (mio suocero) non ci faceva
fermare sotto l’ombra, perché, quando
era sera, correvano soldi e cibo. Le
serve e i garzoni dicevano: “Nuvole e
pane fresco, la notte il tempo buono e il
giorno cattivo!” Così si riposavano un
po’, ma da noi non c’era mai riposo;
per quando pioveva lasciava da pulire
il magazzino, da insaccare il grano, il
granturco, spezzare i tozzi del granturco ammuffito per i porci, all’inverno a
filare: insomma le faccende che c’erano da fare dentro casa le lasciava per
quando pioveva.
Io i lavori con l’ago e con i ferri li
418
de notte, po’ quanno cìa ’sti monelli,
anca finànta a mezzanotte stèra lì
a sguerciàmme col lume a petrojo;
quann’era la madìna ’nté ’l naso fèva
du’ cappe nere, parìa la folìgena del
camì’ quanno soffiàsci ’l naso, po’
toccàa a tenéllo ’mpo’ basso scidónca svejàsci ’sti bardàsci (mi’ marìdo
dormìa uguale!). Quante n’ho fatte
pe’ amóre! Adè’ me ’l contraccambia.
Quanno c’era la serva, io era
contenta muntubè, oltra che era dal
par mia, cìa anca la stessa idea. Me
dicìa: “Ma como fai a stàcce? Io ’n ce
starìa!” A pensà’ che dobo s’è ’nnamoràda del fradèllo de mi’ marido e
s’è sposàdi. Dicìa mi sòcero: “Non te
namorà’ de ’na serva: de tante serve
’n ce n’è una salva!” Envéce dopo ha
battùdo sotta de lìa.
facevo di notte, poi, quando avevo questi monelli, anche fino a mezzanotte
stavo lì a sguerciarmi con il lume a
petrolio; quando era la mattina nel naso
si formavano due cappe nere, pareva la
fuliggine del camino: quando soffiavi il
naso, poi, bisognava tenerlo (il rumore) un po’ basso, sennò svegliavi i figli
(mio marito dormiva ugualmente!).
Quante ne ho fatte per amore! Adesso (i
figli) me lo contraccambiano.
Quando c’era la serva, io ero molto
contenta, oltre che era della mia età,
aveva anche la stessa idea. Mi diceva:
“Ma come fai a starci? Io non ci starei!”
A pensare che dopo si è innamorata del
fratello di mio marito e si sono sposati.
Diceva mio suocero: “Non ti innamorare di una serva: di tante serve non ce
n’è una salva!” Invece dopo ha sbattuto
sotto di lei.
’Rvenùda a galla troppo tardo
Ritornata a galla troppo tardi
Finànta io era sola, me respettàa, non como a casa mia, perché
c’era diferènza como ’l giorno e la
notte; dobo c’è boccàda ’st’altra,
la serva padrona. Pel primo tempo
ié parìa mejo de me, liccàa de più,
io cìa i monèlli non podìa èsse’ la
prima a partì’ pel campo. Col passà’
del tempo ha conosciudo a fónno
l’umòre de la bestia, arvenìa a cercà’
a me, so’ ’rvenùda a galla io, prò era
troppo tardo.
Quanno ié dèra ’l latte mia, tanto
Fino a quando io ero l’unica nuora,
(i suoceri) mi rispettavano, anche se
non come a casa mia, perché c’era la
differenza come tra il giorno e la notte;
dopo è entrata (in famiglia) quest’altra.
Al principio gli pareva migliore di me,
leccava di più, io avevo i monelli e non
potevo essere la prima a partire per il
campo. Col passare del tempo (i suoceri)
hanno conosciuto a fondo l’umore della
bestia, venivano a cercarmi, sono ritornata a galla io, però era troppo tardi.
Quando gli davo il latte mio, tanto
419
’mpo’ ce volìa, a cambiàlli e daje ’l
latte ’na mezz’ora: già guardàane
stòrto. Non ìa compasció’ perché
lóra nìa levàdi otto, e non podìa
véde’ a fànne tante.
Quanno fèmma colazió’ ’nté
’n casa, io era sempre l’ultima a
magnà’: prima preparàa ’l taolì’, e
po’ alsàa e custodìa i monèlli, ’rfà’ ’l
letto, intanto lóra magnàa: scì c’era
’n piatto perù, be’, scinó a me ci’armanìa pogo gnè. Apposta so’ gida a
finì male! Quanno s’argèra giù pe’ ’l
campo, non dovìsci èsse’ l’ultima:
éde capido che vida?
Da noà questo non succedìa,
babbo dicìa: “Le donne quanno
scappa dalla càmbora,’l letto dev’èsse’ ’rfàtto!” Sci c’era i monelli che
dormìa, quanno se svejàa custodìa i
fjòli, ’rfacèa ’l letto e nisciù ié fèra la
fuga. Quanno se magnàa, se spettàa
a tutti: prima preparàmma i piatti
pei nonni e poi i genidóri, e tutti
noà, ma era guasci sempre ’n piatto
perù.
A segonda l’anni te fèra la parte
e po’ passàa da be’, dal più grànno finanta a me, ’l caganòttole. Me
dicìa: “L’ultima è la pù ’rtiràda de
tutti!”
un po’ (di tempo) ci voleva, a cambiarli
e dargli il latte una mezz’ora: già (i
suoceri) guardavano storto, non avevano compassione, perché loro ne avevano
allevati otto, e non potevano vedere a
farne tante. Quando facevamo colazione
in casa, io ero sempre l’ultima a mangiare: prima preparavo la tavola e poi
alzavo e custodivo i monelli, rifacevo il
letto, intanto loro mangiavano: se c’era
un piatto per uno, bene, se no per me ci
rimaneva poco o niente. Apposta sono
andata a finire male! Quando si ritornava per il campo, non dovevi essere
l’ultima: avete capito che vita?
Da noi (in casa dei miei genitori)
questo non succedeva, babbo diceva:
“Quando le donne escono dalla camera,
il letto dev’essere rifatto!” Se c’erano i
monelli che dormivano, quando questi
si svegliavano, (la madre) li custodiva,
rifaceva il letto e nessuno le metteva fretta. Quando si mangiava, si aspettava
tutti: prima preparavamo i piatti per i
nonni e poi per i genitori e tutti noi, ma
c’era quasi sempre un piatto per uno. Ti
facevano la parte a seconda degli anni e
poi passavano da bere, dal più grande
fino a me, il ‘caganottole’ (la più piccola). (Babbo) mi diceva: “L’ultima è la
più magrolina di tutti!”
All’ospedale
All’ospedale
A forsa de’nghiottì’ giù, da fadigà’ ’mbelpò’, da ’lattà’ sti pôri fjòli
mia me so’ malada proprio bembè’.
A forza d’inghiottire, di faticare
troppo, di allattare questi poveri figli
miei mi sono ammalata proprio per420
’L dottore de casa nostra, cuéllo
del Selétto, ch’era brào eh, quanno ha visto che ci’avéo ’l soffio al
côre, ci’avéo n’attàcco de pleure,
comensàa a buttàsse ’mpo’ male, la
broncopolmonide, m’ha portàdo lu’
a l’ospedale.
Ho lassàdo cuéi tre monelletti.
Eeeh, quanti pianti ho fatto! Pôri
cocchi. Dicéo sempre: “Io ci’hò ’sti
tre fiji e ni posso gòde’”
L’avéo lassàdi po’ a chi? A ma’ de
cortelli, perché i sòceri i fjòli s’era
stufadi i sua, non è che ié menàa,
ma li sgaggiàa. Cuélla granna, pôrina avéa sei anni, ’l maschio n’avéa
quattro, la piccolina l’ho lassàda a
sedici mesi.
Pensàde vua, como stèra su
l’ospedale, ce so’ stada 7- 8 mesi.
Fortuna che propio a cuéi tempi è
venuda fòra la pellicinina, e me l’ho
schivada co’ otto mesi d’ospedale.
E fortuna i contadì’ li mettìa sotta
providenza sociale che sci toccàa a
pagà’, ormai era bonanima da ’mbelpo’.
Fortuna cuél pôro Quattrocchi,
scinò ormai sai quante le vo’ era gida
a fa’ la tèra pe’ ’l cèce, là da Gatto!1
Allora lu’, envece, m’hà tenudo su
l’ospedale. Luscì è passada.
bene. Il dottore di casa nostra, quello
di Seletto, che era bravo eh, quando ha
visto che avevo il soffio al cuore, un
attacco di pleurite, cominciava a mettersi un po’ male, la broncopolmonite,
mi ha portato lui stesso all’ospedale.
Ho lasciato quei tre monelletti. Eeeh,
quanti pianti ho fatto! Poveri cocchi!
Dicevo sempre “Io ho questi tre figli e
non li posso godere!”
L’avevo lasciati, poi, a chi? A mano
di coltelli, perché i suoceri si erano
già stufati dei figli loro, non è che li
bastonavano, ma li sgridavano. Quella
(figlia) grande, poverina, aveva sei
anni, il maschio ne aveva quattro, la
piccolina l’ho lasciata a sedici mesi.
Pensate voi come stavo all’ospedale, ci
sono stata sette otto mesi.
Fortuna che proprio in quei tempi
è uscita la penicillina, così me la sono
schivata (la morte) con otto mesi
d’ospedale. E fortuna che i contadini
li metteva sotto la previdenza sociale che, se toccava pagare, ormai ero
‘bonanima’ da molto tempo.
Fortuna quel povero Quat­trocchi,
se no ormai sai quante volte ero andata fare la terra per il cece, là da Gatto!
Lui, invece, mi ha tenuto sull’ospedale. Così è passata.
1 Gatto: è il soprannome della famiglia Aguzzi, un cui membro un tempo svolgeva
la funzione di custode del cimitero. Da qui l’espressione “gi’a troà a Gatto!” = andare al
cimitero, ossia morire.
421
’L latte mia alle formìghe rabbìde
Il latte mio alle formiche rabbiose
Quanno m’ha toccado a gi’ su
l’ospedale, io cìo ’l latte como ’na
mungàna, podìa avé’ pïàdo anca ’mbiscigno. M’ha toccàdo a sdovezzà’
l’ultima a sedici mesi. All’ospedale
m’ha toccàdo a ’rmannà’ adrìa ’l
latte che ce nìo tanto, a cavàllo co’
’na perétta, quelle de gomma, ’na
spèce de cuélle de’ cristèri, solo che
anvéce del piròlo ciaìa ’na pedriòla.
Coscì ’l cavào e mi’ sòcera me ’l fèra
buttà’ ’ntè le formìghe rabbìde. Dicìa
che ’l portàa via, mah!
Io ci’hò tribbolàdo ’mbelpo’, me
c’era venùde tutte tòzze, ce fèra
l’impàcchi co’ l’aqua calla, col suplimàdo. Io tribbolào da ’na via, e i pôri
monelletti che non ié ’l dèra più tribbolàa da ’n’antra via. Embè, ce vôle
pacensia!
Quando son dovuta andare all’ospedale, io avevo il latte come una mucca
da latte, avrei potuto aver preso anche
un bambino a balia. Ho dovuto svezzare l’ultima a sedici mesi. All’ospedale
mi ha toccato mandare indietro il latte
che ne avevo tanto; (dovevo) toglierlo
con una peretta di gomma, una specie
di quelle (che si usano per) i clisteri,
solo che invece della cannula aveva un
imbuto. Così lo cavavo e mia suocera
me lo faceva buttare sopra le formiche
rabbiose. Diceva che (le formiche) lo
portavano via, mah!
Io ci ho sofferto molto, mi ci erano
venute due cisti, ci facevo gli impacchi
con l’acqua calda, con il sublimato. Io
tribolavo per un motivo e i poveri bambinetti, ai quali non glielo davo più,
soffrivano per un altro motivo. Ebbene,
ci vuole pazienza.
“Mamma, arvène presto!”
“Mamma, ritorna presto!”
’Gni tanto m’arvène ammènte
cualchicò de quann’era ’nté lo spedàle e po’ sarà l’ultima cosa che
scordarò, perché ’nté ’l cervello
’na cosa brutta ci’armàne de più
che una bella. Pensàde vuà que
vôl di’ lassà’ tre fiji piccoli, el male
che cìo: se parlàa de tubergolósi!
Fortuna ch’io l’ho sapùdo quanno
stèra mèjo; posso ringrazzià’ mille
’olte alla Madonnìna della Rosa.
Ogni tanto mi ritorna alla mente
qualcosa di quando stavo all’ospedale
e poi sarà l’ultima cosa che scorderò,
perché nel cervello una cosa brutta ci
rimane di più di una bella. Pensate
voi che cosa vuol dire lasciare tre figli
piccoli, il male che avevo: si parlava di
tubercolosi! Fortuna che io l’ho saputo
quando stavo meglio; posso ringraziare
mille volte la Madonnina della Rosa.
Il giorno della “Giornata degli
422
’L giorno della “Giornàda dell’ammalàdi” m’ha portàdo giuppe le
scale dell’ospedale co’ la sedia, ché
non mìa da strapazzà’; quanno so’
’rnùda drendo l’ospedale le scale
l’ho fatte camminànno: è stada ’na
grazia o no? Ce credéde? Cìa anca
’l còre ai limiti. Da cuél giorno so’
stada sempre mèjo. Prima quaranta
giorni allettàda, sensa mòveme.
Quattrocchi, pôretto, ha ditto:
“Cuésto è solo miràgolo! Ma como
te sai fidàda a venì’ suppe le scale
caminànno?” “La Madonna m’ha
iudàdo!”
Dobo, alla diménniga, ce mannàa sempre a casa, pe’ sta’ coi fiji e
la faméja. Fumma tre spose, meno
de trentatré anni, guasci tutte della
T.B.C., per quanto ai bardàsci la più
numberósa era io che ce nìa tre.
Quanno era tempo bòno me
venìa a troà mi’ marìdo, ce portàa
anca la piccolina, scindó ce venìa
’gni tanto cuélla bardascétta da sei
anni col maschietto de quattro. ’Na
sera è riàdi lì che c’era ’l tempo
brutto, cìa da fa’ più de quattro
chilòmedri a pìa d’in su e quattro
d’in giù. Pôri cocchi, tronàa, pioìa,
cìa l’ombrèlla. Pensàde vuà quanto
tribbolào io sensa sapé’ niè’ finànta
che n’arvedìa nisciù’. So’ stada a
guardàlli dalla finè’ dell’ospedale
sinànta da pìa del corso, e qualche
tratto de strada oppe’ ’l cimidèro,
ma mìa da sguercià. È vero che
cuèlla vo’ ’n c’era le màghine fòra
che cuàlche biscighetta. Pensàa:
“Sci ’ngóntra cualche male ’nten-
ammalati” mi hanno portato giù per le
scale dell’ospedale con la sedia, perché
non mi dovevo strapazzare; quando
sono ritornata dentro l’ospedale, le scale
le ho salite camminando: è stata una
grazia o no? Ci credete? Avevo anche
il cuore ai limiti. Da quel giorno sono
stata sempre meglio. Prima quaranta giorni allettata, senza muovermi.
Quattrocchi, poveretto, ha detto: “Questo
è solo un miracolo! Ma come ti sei fidata a venire su per le scale camminando?” “La Madonna mi ha aiutato!”
Dopo, la domenica, ci mandava
sempre a casa, per stare con i figli e la
famiglia. Eravamo tre spose, meno di
trentatré anni, quasi tutte con la tubercolosi; in quanto a figli la più numerosa ero io che ne avevo tre.
Quando era tempo buono, mi veniva
a trovare mio marito, ci portava anche
la piccolina, sennò ci veniva quella
bambinetta di sei anni con il maschietto di quattro. Una sera sono arrivati lì
che c’era il tempo cattivo, avevano da
fare più di quattro chilometri a piedi
d’in su e quattro d’in giù. Poveri cocchi,
tuonava, pioveva, avevano l’ombrello.
Pensate voi quanto soffrivo io senza
sapere niente fino a quando non rivedevo qualcuno. Sono stata a guardarli dalla finestra dell’ospedale sino in
fondo al corso e qualche tratto della strada oltre per il cimitero, ma mi dovevo
sguerciare. È vero che quella volta non
c’erano le macchine al di fuori di qualche bicicletta. Pensavo: “Se incontrano
qualche male intenzionato?” Quanti
batticuori bisognava prendere! Una che
423
sionàdo?” Quante pasció’ toccàa
a pià’! Una che conoscìa be’ a me,
quanno ha visto ’sti du’ monellétti
sotta l’aqua, ha ditto: “Fermàdeve,
bardascétti! Spettàde che làssa gi’ a
piòe!” Mango i’hà guardàdo, cuésti,
per paura che fusse stadi malvivènti, perché io m’arcomannào sempre:
“No’ stade a sentì’ a nisciù’, anca sci
ve dice cose bembè!”
Fortuna che dobo, quanno émo
mijoràdo, la dimènniga, como v’ho
ditto, ce dèra la libertà. Gèro a casa
per da’ ’na sistemàda la càmbora,
’rconcià’ i pagni de mi’ marìdo e dei
fjòli, e po’ lunedì madìna arpartìa a
pìa, lassàa i corétti mia che per me
era la vida, più de cualsiasi prèda
preziosa!
Partìo piagnènno, fèra la strada
co’ la speransa che me fusse servìdo
a cualchicò’, rivàa su, boccàa sotta
le cupèrte e sfogàmme a sangozzà’.
Drendo de me dicìa: “Non ne ’l fade
per me, Madonnina mia! Fàdeme
gòde’ ’sti tre tesori!”
Cuésti, pôrettini, me venìa
accompagnà’ finànta da cima della
strada, li bracciàa, rîmpìa la faccetta de baci. L’ultima parola era
cuélla: “Mamma, arvène presto!”
’Ste parole me ’rmanìa ’nté la gola.
Quanto avrà tribbolàdo anca lora!
Solo ’l padre, ’nté la faméja era
’ncomprési!
Passàdi ’mpo’ de mesi, io m’era
’ngrassàda de venti chili, quaranta giorni sensa métte’ i pìa fòra
dal letto, magnà’ bòno e ’mbelpo’,
mi conosceva bene, quando ha visto
questi due monelletti sotto l’acqua, ha
detto: “Fermatevi, ragazzini! Aspettate
che smetta di piovere!” (I miei figlioletti) nemmeno l’hanno guardata per
paura che si trattasse di malviventi,
perché io mi raccomandavo sempre:
“Non state a sentire nessuno, anche se
vi dice cose perbene!”
Fortuna che dopo, quando abbiamo
migliorato, la domenica, come vi ho
detto, ci dava la libertà. Andavo a casa
per dare una sistemata alla camera,
rammendare i panni di mio marito e
dei figli, e poi il lunedì mattina ripartivo a piedi, lasciavo i miei cuoricini
che per me erano la vita, più di qualsiasi pietra preziosa. Partivo piangendo,
facevo la strada con la speranza che mi
fosse servito a qualcosa; arrivavo su
(all’ospedale), entravo sotto le coperte
e mi sfogavo a singhiozzare. Dentro
di me dicevo: “Non lo fate per me,
Madonnina mia! Fatemi godere questi
tre tesori!”
Questi, poverini, mi venivano ad
accompagnare fino in cima della strada, li abbracciavo, riempivo la (loro)
faccetta di baci. L’ultima (loro) parola
era quella: “Mamma, ritorna presto!”
Queste parole mi rimanevano in gola.
Quanto avranno sofferto anche loro!
(Avevano) soltanto il padre, in famiglia
non erano compresi.
Trascorsi un po’ di mesi, io mi
ero ingrassata di venti chili, quaranta
giorni senza mettere i piedi fuori dal
letto, mangiare buono e abbondante,
molto condito, carne, formaggi, rigato424
condìdo muntubè’, carne, formaggi, boccolotti, latte, caffè, te, ’l pa’
a stufo. Era ’na pacchia a paragó’
de la vida che se fèra cuélla vo’.
Punture non ve digo cuante: me
so’ gonfiàda como ’mpalló! Quanno
passàa la vìsida i dottori, me guardàa fissàdi, dicìa: “Ormai sai fòra
eh! Presto te mannàmo a casa!”
Otto lunghi mesi, ce pensàde?
’L giorno ce passàa coscì. Como
comensàa a sta’ mèjo, fèra vestidìni, i tajàa; quanno podìa gi’ a casa,
i cucìa ’nté la maghina e po’ lì portàa via nigò cuèllo che ce volìa, e
finìa ’nté lo spedale: calzettini, scarpette de pezza, pagnétti per sótta,
rigamàa camiciòli, merletti, berettine. Cualchidù’ me venìa a tròà’, me
dèra cualche soldo, io ’l buttàa lì pe’
’ste cosétte.
Anca le mònnighe dell’ospedale
ce fèra fadigà a ’rconcià’ i guanciàli,
a sciuccà’ i bisturi che ce operàa, a
piegà’ le garzétte, a ’ncolla’ i guadrétti all’inglese, prò quanno non
vidìa i medighi, scinó’ ié dèra le
lónze, ié lavàa la testa. Adè’ le mònnighe non se véde più, erane bràe;
la sora Lucia, po’, era bella e bòna.
I medighi non volìa che fadigàmma, perchè c’era sempre la febbre
e m’ha duràdo ’mpàr d’anni, prima
da scacciàlla ’sta febbràccia. Dobo
n’ho misuràda più e non me ’l credìa
d’èsse’ riàda scinànta qua a èsse’
chiamàda nonna e bisnonna.
ni, latte, caffè, tè, il pane a sazietà. Era
una pacchia, se paragonata alla vita
che si faceva quella volta. Iniezioni non
vi dico quante: mi sono gonfiata come
un pallone! Quando i dottori passavano
la visita, mi guardavano fissandomi,
dicevano: “Ormai sei fuori, eh! Presto
ti mandiamo a casa!”
Otto lunghi mesi, ci pensate? Il
giorno ci passava così. Come iniziavo a
star meglio, facevo vestitini, li tagliavo;
quando potevo andare a casa, li cucivo
con la macchina (da cucire) e poi da lì
portavo via tutto quello che occorreva, e
li finivo nell’ospedale: calzini, scarpette
di pezza, panni piccoli per sotto; ricamavo camicette, merletti, berrettini.
Qualcuno mi veniva a trovare, mi dava
qualche soldo, io lo spendevo lì per queste cosette.
Anche le monache dell’ospedale ci
facevano lavorare a rammendare i
guanciali, ad asciugare i bisturi con
i quali (il chirurgo) operava, a piegare le garze, ad incollare i quadretti
all’inglese, però quando non vedevano
i medici, sennò (questi) le rimproveravano, lavavano loro la testa. Adesso le
monache non ci sono più, erano brave;
suor Lucia, poi, era bella e buona.
I medici non volevano che lavoravamo, perché c’era sempre la febbre e
mi è durata un paio d’anni, prima di
mandarla via quella febbraccia. Dopo
non l’ho misurata più e non avrei mai
creduto che sarei arrivata sino a qua,
ad essere chiamata nonna e bisnonna.
425
P arte T erza
‘N gettarèllo nòo
’L capoccia bassa la gresta
e i fjòli se ne vanno
Il capoccia abbassa la cresta
e i figli se ne vanno
’Na ò sopportamma tante cose
alla roversa, ma più che altro se
stèra ’nté le fameje. C’era le faméje
numberóse de quattro cinque canti,
perché chi cìa i maschi li tenìa lì
casa, stretti como ’nté ’na morsa de
ferro e nìa da spartì’ nisciù’. Sci era
’mpadre mòrbedo dangià tanto tanto
campài, ma sci comannàa uno dei
fradèlli più granni, che tiràa l’aqua al
mulì’ sua (anca cuèsto è ’n dittàdo),
non se tiràa la sappa ’nté i pìa.
Dónca, como v’ho ditto, pe’
’mpàdre i fiji dovrìa èsse’ tutti uguali, ma ’n tra fradèlli, ’nté ’na coàda,
c’è sempre la pègora nera e cuéllo
birbo che frega; sci ha fortuna da fa’
’l capoccia, pôretti a chi sta sotta!
L’invidia e l’odio c’è stado sempre
como Caino e Abele.
’Nté ’l doboguerra c’è stado anca
’sto pregio chì: ha ’bassàdo la gresta
i padrù e anca i capi faméja, perché
i fjòli se cercàa ’l laóro, e gèrene per
conta de lóra. Le fameje grosse se
n’è sfasciade ’mbelpo’. Era como ’na
coccia grossa de geràni: la pianta era
la faméja ’mpossessàda e i fjòli era i
getti che se trapiantàa. Prò ’sti gettàrelli prima che fónna le ràdighe ce
vôle ’l tempo, tèrra bòna, concìme,
aqua e sole: ’l gettarèllo della faméja
è la stessa cosa: prima da ’mpossessàsse, de méttese in careggiàda, ’na
famèja ce vôle anni e anni de fortuna.
Pe’ métte’ le radighe bòne, ce vôle
Una volta sopportavamo tante cose
al rovescio, ma di solito si stava in
famiglia. C’erano le famiglie numerose di quattro cinque ‘canti’, perché chi
aveva i maschi li teneva in casa, stretti
come in una morsa di ferro e nessuno doveva spartire. Se era un padre
morbido, tanto tanto campavi, ma se
comandava uno dei fratelli più grandi, questo tirava l’acqua al suo mulino
(anche questo è un proverbio!), non si
dava la zappa sui piedi.
Dunque, come vi ho detto, per un
padre i figli dovrebbero essere tutti
uguali, ma tra fratelli, nella covata,
c’è sempre la pecora nera e quello birbo
che frega; se ha la fortuna di fare il
capoccia, poveretti quelli che stanno
sotto. L’invidia e l’odio ci sono sempre
stati, come Caino e Abele.
Il dopoguerra ha avuto anche questo
pregio qui: hanno abbassato la cresta i
padroni ed anche i capifamiglia, perché i figli si cercavano il lavoro e andavano per conto loro. Si sono sfasciate
parecchie famiglie grosse. Erano come
un grosso vaso di gerani: la pianta era
la famiglia patriarcale e i figli erano i
getti che si trapiantavano. Però, prima
che questi gettarelli affondino le radici,
ci vuole tempo, terra buona, concime,
acqua e sole: il gettarello della famiglia
è la stessa cosa: prima che una famiglia si assicuri, si metta in carreggiata, ci vogliono anni e anni di fortuna.
Per mettere buone radici, ci vuole che
429
che ’l padre fusse n’ômo sensa tanti
vizzi e la madre bòna non fusse ’na
spendacchióna. Allora la famijòla,
’l gettarèllo nòo ràdiga presto e be’,
scinónca, sci è a la rovèrsa, ’l gètto
’ngiallìsce, non fa presa ’nté la terra e
la faméja s’arbàlta a gambe per aria.
Pe’ tené’ la faméja unìda, po’, tocca
a sopportàsse da uno coll’altro; è
che capémo i difetti dell’altri e no’ i
nostri: sci se fa l’esame de coscènza,
al mónno se girìa mèjo tutti! Envéce
frega te che frego anca io!
il padre sia un uomo senza tanti vizi e
la madre buona non deve essere spendacciona. Allora la famigliola, il gettarello nuovo, affonda presto e bene le
radici, sennò, se è il contrario, il getto
ingiallisce, non fa presa nella terra e la
famiglia si ribalta a gambe all’aria.
Per tenere la famiglia unita, poi,
bisogna sopportarsi l’uno con l’altro;
succede che capiamo i difetti degli
altri e non i nostri: se ci si fa l’esame di coscienza, al mondo andrebbero
meglio tutti. Invece frega tu che frego
anch’io!
C’émma i nervi ’nceppadi
Avevamo i nervi inceppati
Quanno se spartìa le faméje
grosse, se comensàa a chiude’ i
malincòni, perché ’nté la famèja era
’na dittatura, e tutti non iéla fèra a
sopportà’. Con quattro cinque anni
de guerra già c’émma i nervi ’nceppadi, tanto chi era stadi in guerra,
tanto noà che fumma a casa. C’era
bisogno ’mpo’ de libertà.
Dopo che ha liberado l’Italia,
tutti émo aùdo ’mpo’ de solévo, perché émo mannàdo giù tante péne:
pensade cuélle pôre mamme che
i’hà ’mazzado cuéi fjòli fascisti partigiani, senza colpe alla giovane età.
Tanto al fronte che a casa c’è stade
in tutte le fameje ’ste pene, c’è gide
pe’ l’ossi, per tanti anni, che po’ del
tutto non se cancellarà mae.
’Sti ragazzi che hanne mazzado
chì a Montalbo’, ce se pôle gì’ sem-
Quando si dividevano le famiglie
grandi, cominciavano a chiudere i
manicomi, perché in famiglia c’era una
dittatura e tutti non ce la facevano a sopportare. Già con quattro cinque anni di
guerra avevamo i nervi inceppati, tanto
quelli che erano stati in guerra, quanto
noi che eravamo a casa. C’era bisogno
di un po’ di libertà.
Dopo che hanno liberato l’Italia, tutti
abbiamo avuto un po’ di sollievo, perché avevamo mandato giù tante pene:
pensate a quelle povere madri alle quali
hanno ammazzato quei figli, ancor giovani e senza colpe, fascisti o partigiani
(che fossero). Sia al fronte, sia a casa
ci sono state in tutte le famiglie queste
pene, ci sono andate per le ossa, per
tanti anni e, poi, non si cancelleranno
mai del tutto.
430
La famiglia.Garofoli. (coll. Lucio Marcantognini).
pre a mette’ ’n fiore, la luce ’nté
la tomba, ma como mamma mia e
tante altre madre, non se sa mango
’ndó l’hanne sotterradi. A morì’ da
’na schioppettada è bruttissimo, ma
a morì’ de fame penso che sia peggio, como è morto mi’ fradello al
campo de concentramento. Del ’46
è venuda la nòva; del ’48 è morta
anca la moje, a 33 anni; ha lassado due monelletti: uno da nove e
una da sette, che ’l pôro padre l’ha
vista a nasce’, del’41, e po’ non l’ha
’rmanmado più. L’ha ’rvisto ’nté lo
ritratto.
Quanno è doventadi granni, era
contenti de sapé’ como era alti, sci
era bòni, sci ié volìa be’... e quanto
ce soffre pôri fiji!
Da questi ragazzi che hanno ucciso
qui a Montalboddo, ci si può sempre
andare a mettere un fiore, la luce nella
tomba, ma come mamma mia e tante
altre madri non sanno neppure dove li
hanno sotterrati (i loro figli). Morire
per una schioppettata è bruttissimo, ma
morire di fame penso che sia peggio,
come è morto mio fratello in un campo
di concentramento. Nel ’46 è arrivata la
notizia, nel ’48 è morta anche la moglie,
a 33 anni; ha lasciato due monelletti,
uno da nove e una da sette (anni), che il
povero padre aveva visto nascere nel’41
e poi non è stato rimandato più (a
casa). (La figlia) l’ha rivisto nel ritratto. Quando (i due figli) sono diventati
grandi, erano contenti di sapere come
erano alti (i genitori), se erano buoni,
431
Tanto più sémo su ’st’argomento, adè che se divide ’ste coppie,
quanto soffre ’sti fiji! Stanne insieme qualche anno, ’mpo’ de mesi,
addrittura leggìa su ’n giornale, per
mèjo gì la notte del madrimonio
lu’ tenìa lo stereo alto col volume
alto, la moje iel’hà bassàdo. Lu’ i’hà
datto ’na botta ’nté la testa, e lìa al
giorno dobo l’ha dinunciado e s’è
spartidi. Pensade ’ndó semo ’rivàdi!
Va be’ che “scherzi de ma’ è scherzi
da villà’ ”, “però ’sto modio chì non
paga” - cuélla pensò. Non ié gèra de
sposàllo e al piccolo puntì l’ha mollàdo. Segondo vuà è giusto? ’N tra
moje e marido bisogna pïàllo pe’ ’no
scherzo.
Va be’ che a me questo non m’è
mae capitado: le ma’ addosso pe’
’na carezza sci, ma ’l controllo non
l’ha mae perso con me, mango coi
fiji. E mango io co’ lu’. Quante vo’
burasca ’l mare, ma dobo ’rtorna al
suo volere!
se volevano loro bene… e quanto ci soffrono (ancora), poveri figli!
Tanto più che siamo su quest’argomento, adesso che si dividono le coppie, quanto ci soffrono i figli! Stanno
insieme qualche anno, un po’ di mesi.
Addirittura leggevo su un giornale che,
per meglio andare la notte del matrimonio, lui teneva lo stereo ad alto volume,
la moglie gliel’ha abbassato. Lui le ha
dato una botta sulla testa e lei, al giorno
dopo, l’ha denunciato e si sono divisi.
Pensate dove siamo arrivati! Va bene
che “scherzi di mano sono scherzi da
villano’’, “però questo modo qui non
paga” – pensò quella. Non le andava di
sposarlo e al minimo pretesto l’ha mollato. Secondo voi, è giusto? Tra moglie
e marito bisogna prenderlo per uno
scherzo. Va bene che a me questo non è
capitato mai: le mani addosso per una
carezza sì, ma il controllo (mio marito)
non l’ha mai perduto con me, nemmeno con i figli. E nemmeno io con lui.
Quante volte il mare diventa burrascoso, ma dopo ritorna al suo volere!
’L porchetto e ’l sórce
Il porco e il sorce
I soceri cuélla vo’ dicìa:” Spartéde
spartéde, ’mparade ’ndó se compra
’l sale”. Quanno uno spartìa da la
fameja, i vecchi dicìa sempre coscì,
perché in giro ce gèrene sempre lora,
’l capoccia e la capoccia; cuél pogo
che compràa pensàa lóra, i schiavi
bastàa che fadigàsse. Sci vendìa l’òi,
A quel tempo i suoceri dicevano:
“Spartite spartite, (così) imparate dove
si compra il sale!” Quando uno partiva
dalla famiglia, i vecchi dicevano sempre
così, perché in giro ci andavano sempre
loro, il capoccia e la vergara: a quel poco
che si comprava ci pensavano loro, gli
schiavi bastava che lavorassero. Se ven432
i pui, sci compràa ’na magnada de
pesce era siguro la sardella, l’altro
pesce non era per noà, sci vansàa i
soldi i portàa a casa per mettelli da
’na parte.
A casa de’ genidóri mia se ma­gnàa
anca ’l pesce bòno, perché c’émma ’mparente a Senigaja e ce venìa
spesso a casa de noà, portàa sempre
’l pesce bòno como seppie, pesciolina, sardoncini, calamaretti, raggia, cappole, lumaghine, gamberetti.
Venìa su tutta la fameja per magnà’
le tajadelle col conijo. Non è che
c’émma tanto guadamnio perché era
cinque persone e, quanno era vivo
anca ’l padre, erane in sei. Se dicìa
“ ’l paesà’ largo de bocca e stretto
de ma’ ”. Venìa in campagna, perché
se magnàa la robba più genuina, po’
a casa nostra se magnàa anca be’;
i soldi da ’na parte non c’era, però
se facìa ’na vida discréda; como la
carne se magnàa ’na ’olta per settimana, du’ pezzetti perù: ’n conijo o
’n gallo se dovìa spartì’ per dieci persone.
’Nté ’l macello non ce se gèra, finché c’era ’l porco se magnàa ’mpo’
de più la carne. Sapéde: del porchetto se buttàa via solo l’ogna! ’L pelo ’l
pïàa ’l mazzarello per fa’ le scopette
per pulì’ le scarpe, i pennelli, ’l muso
le recchie ’mpo’ de codiga, la testa
ce se fèra ’l brodo e ’mpo’ insieme
al muso le recchie servìa pe’ fa’ la
coppa, i zampetti, uno per vo’, ce se
fèra i fascioli: se magnàa alla madina
a colazió’. Manco l’ossi se buttàa via:
devano le uova, i polli, se compravano
una mangiata di pesce, era sicuramente la sardella, l’altro pesce non era per
noi. Se avanzavano i soldi, li portavano
a casa per metterli da parte.
A casa dei miei genitori si mangiava anche il pesce buono, perché avevamo un parente a Senigallia, che veniva
spesso a casa nostra e ci portava sempre
il pesce buono come seppie, pesciolina,
sardoncini, calamaretti, razza, vongole, lumachine, gamberetti. Veniva su
con tutta la famiglia per mangiare le
tagliatelle con il coniglio. Non è che ci
avevamo tanto guadagno, perché erano
cinque persone e, quando era vivo anche
il padre, erano in sei. Si diceva: “Il paesano largo di bocca e stretto di mano!”
(Il paesano) veniva in campagna, perché si mangiava roba più genuina, poi
a casa nostra si mangiava anche bene; i
soldi da parte non c’erano, però si faceva
una vita discreta: la carne si mangiava
una volta la settimana, due pezzetti per
uno; si doveva dividere un coniglio o un
gallo per dieci persone.
Nel macello non ci si andava, finché
c’era il porco si mangiava un po’ più di
carne. Sapete: del porco si buttava via
solo l’unghia! Le setole le prendeva il
‘mazzarello’ per fare i pennelli, le spazzole per pulire le scarpe; con il muso,
le orecchie, un po’ di cotica, la testa ci
si faceva il brodo e un po’, insieme al
muso e le orecchie, serviva per fare la
‘coppa’; con gli zampetti, uno per volta,
ci si faceva i fagioli: si mangiavano la
mattina a colazione. Neppure gli ossi si
buttavano via: ci si faceva il sapone. Sì,
433
ce se fèra’l sapó’! Scì, ce ’l fèra anca
i sòceri mia.
’Na volta émo fatto ’l sapó’ anca
co’ l’ojo. C’émma ’na damigiana d’ojo
e da cima cìa messo ’n tappo de suro.
Vedi ’mpo’ che ’n sorce l’ha rosigàdo,
è cascado drendo, ’sto sorce, e lì ha
biùdo tanto ojo, è morto e non iél’ha
fatta a scappà’. Ci’hà toccàdo a fàcce
tutto sapó’. È venudo be’ ’mbelpò’,
avedoràa muntubè’, ma solo che la
bóccàda se fèra ’na ò al mese, d’istade anca de più: quanno c’era ’l fiè’,
che magara stèra per piòe’, c’era da
fa’ la foja pei baci, allora la bóccàda
armanìa pe’ ’n’antra ò.
ce lo facevano anche i miei suoceri.
Una volta abbiamo fatto il sapone
anche con l’olio. Avevamo una damigiana d’olio e in cima ci aveva messo
un tappo di sughero. Vedi un po’ che
un sorcio l’ha rosicato, è cascato dentro, questo sorcio, lì ha bevuto tanto
olio, non è riuscito a scappare fuori
e è morto. Abbiamo dovuto farci tutto
sapone. È venuto molto bene, odorava
molto, ma solo che il bucato si faceva
una volta al mese, d’estate anche più di
rado: quando c’era il fieno, che magari
stava per piovere, c’era da fare la foglia
per i bachi, allora il bucato rimaneva lì
per un’altra volta.
“Gide a morì’ de fame!”
“Andate a morire di fame!”
Como v’ho ditto, io m’ero malàda
e quanno dobo so’ sgappàda fòri
dall’ospedàle, non so’ più volsùda
tornà’ a casa de lóra. Anca mi’ marido vedìa le falsidà da parte dei genidóri, cuscì s’è deciso de scappà’ via.
Fumma ’n gettarèllo, lenido, perché
io ero ancó’ all’ospedale, mi’ marìdo
con tre gettarelli minudìni, ’sti fjòli.
Sémo partidi co’ gnènte. Ci’hà dàtto
quattro sèdie, ’n taolì’ e tre quintali de gra’ pe’ cinque persone. ’N
ci’hà datto altro, perché ’n volìa che
gèmma via. Ce dicìa: “Gide a morì’
de fame!” Te mannàa anca le’mpregazió’, prò dicìa ’sti genidóri mia che
la procisció’ ’ndó che sgàppa arbóc-
Como vi ho detto, io mi ero ammalata e, quando sono uscita dall’ospedale, non ho voluto tornare più a casa
loro. Anche mio marito vedeva le falsità
da parte dei genitori, così si è deciso
di andare via. Eravamo un gettarello malaticcio, perché io ero ancora
all’ospedale, mio marito con tre gettarelli minutini, questi figli. Siamo partiti con niente. (Mio suocero) ci ha dato
quattro sedie, un tavolo e tre quintali
di grano per cinque persone. Non ci ha
dato altro, perché non voleva che andassimo via. Ci diceva: “Andate a morire
di fame!” Ti mandava anche le imprecazioni, però dicevano i miei genitori
che la processione da dove esce rientra!
434
ca! Le sentenzie è como ’l palló’: sci
’l tiri ’nté ’l muro t’arvène addosso. È
vero, sa: quell’altri è morti, noà grazzie a Dio ’ncó’ sémo qua.
Quanno émo spartìdo semo gidi
giù ’l piano, ’nté ’na casetta vecchia
sensa luce, sens’aqua, sensa riscallamènti, sensa legna. Pagàmma
ottanta mila lire d’affitto, ’n c’émma
’na lira. Pensàde che vida ch’émo
fatto, a sfamà’ tre fiji! Io stèra male:
cuélla vo’ co’ cuèlle maladìe infettìe
lì ce se morìa e se taccàa anca ai fjòli.
Per fortuna, como v’ho ditto, ch’è
’nuda fòra la pellicilìna, so’ stada fortunàda e ’ncó’ so’ qua. Non v’arcónto le tribbolazzió’, arpensàcce te sa
rizza ’l pelo puttì. Io, quanno sento a
di’ che sta male ’na madre che ci’hà i
fjòli piccoli como lìa lassàdi io, me fa
venì’ la carne pullìna. E va be’!
Dicìa i sòceri: “Ha volsùdo spartì’, ié sta be’! Coscì ’mpàra!!” Cuélla
vo’ sìa da sta’ ’nté la faméja e basta!
Dittadura! Envéce noà sémo stadi
mèjo muntubè’, almànco non dovìsci’nghiottì’ tutti cuéi magó’! Ma perché sa da tribbolà’? Ognuno comànna la robba sua e coi sudóri tua hai
da tirà’ avanti la faméja tua. Sci te vôi
formà’ ’na faméja, non sa da spellà’
ai genidóri né ì soceri. Vôj sta’ solo,
te l’hai da spiccià da per te, i càoli
tua! Me pare giusto como parlo.
Adè’ è ’mpo’ più compligada la
cosa: vànne a fadigà’ fòra, i monelli
non se li pôle guardà’, allora li lassa
ai soceri e genidóri. Io n’ho guardàdi
sei, ma l’ho fatto per amore, ’n domà’
Le sentenze sono come il pallone: se lo
tiri contro il muro, ti ritorna addosso.
È vero, sa: quegli altri sono morti, noi,
grazie a Dio, ancora siamo qua.
Quando abbiamo diviso, siamo
andati al piano, in una casetta vecchia
senza luce, senza acqua, senza riscaldamenti, senza legna. Pagavamo ottantamila lire d’affitto, non avevamo una
lira. Pensate che vita abbiamo fatto per
sfamare tre figli! Io stavo male: quella volta con quelle malattie infettive lì
ci si moriva e si attaccavano anche ai
figli. Per fortuna è uscita, come vi ho
detto, la penicillina: sono stata fortunata e ancora son qua. Non vi racconto
le tribolazioni, a ripensarci ti si rizza
il pelo ‘puttì’. Io, quando sento dire che
sta male una madre che ha i figli piccoli come li avevo lasciati io, mi viene
la pelle d’oca. E va bene!
Dicevano i suoceri: “Hanno voluto
spartire, gli sta bene! Così imparano!”
Quella volta si doveva stare in famiglia
e basta! Dittatura! Invece noi siamo
stati molto meglio, almeno non dovevi
inghiottire tutti quei magoni! Ma perché si deve soffrire? Ognuno comanda la roba sua e con i sudori suoi
deve tirare avanti la famiglia sua. Se
ti vuoi formare una famiglia, non si
devono spellare né i genitori né i suoceri. Vuoi stare solo, te la devi sbrigare
da solo, son cavoli tuoi! Mi pare giusto
come parlo.
Adesso è un po’ più complicata la
cosa: si va a lavorare fuori (casa), i
monelli (i genitori) non li possono
guardare, allora li lasciano ai suoceri
435
che ho bisogno io spero che ricàmbia: s’arcordérà? Spero de scì! Ma
adè’ è brutta, sci làssa ’l laòro, pèrde
la pensió’... n’è como noà: fadigàsci
giù pe’ ’l campo, li portài drìa sopra
’na balla, magnàa l’erba, la terra,
’mpo’ de nigò. Piagnìa, s’andormentàa lì; ié dèsci ’na cupèrta, ’n corpétto o ’na vestaccia, ’gni tanto li gèsci a
véde’ sci c’era quàlche bestiaccia, le
mosche non ié se dèra peso, boccàa
anca drendo bocca. Pôrini... come
le bestiòle è ’nùdi su! Grazie a Iddio
sani e salvi, è cresciùdi uguale, non
ié podìsci fa’ tante carézze, scinó te
dicìa: “Co’ stai lì a pilicchià’, me fai
compasció’!”
e ai nonni. Io ne ho guardati sei, ma
l’ho fatto per amore, un domani che
ho bisogno, spero che ricambino: si
ricorderanno? Spero di sì. Ma adesso
è brutta, se uno lascia il lavoro, perde
la pensione… non è come noi: faticavi per il campo, portavi i figli dietro
sopra una balla, mangiavano l’erba, la
terra, un po’ di tutto. Piangevano, s’addormentavano lì; gli davi una coperta,
una giacca o una vestaccia; ogni tanto
li andavi a vedere se c’era qualche
bestiaccia, alle mosche non si dava
peso: entravano anche dentro la bocca.
Poverini… come bestiole sono cresciuti! Grazie a Dio sani e salvi, sono cresciuti ugualmente, non gli potevi fare
tante carezze, se no ti dicevano: “Cosa
stai lì a fare le moine, mi fai compassione!”
Stèmma in pace
Stavamo in pace
Da soli, anca a magnà’ pane e
cipolla ’na ’olta al giorno, stèmma in
pace e, piano piano, con tanti sagrifìci, c’émo ’rcaàdo le gambe. Pensàde
vuà: con tre fjòli piccoli avìa compasció’ anca ’l prède!
’Nté la scòla ai monèlli spesse vo’
ié dèra la refezió’, quanno mancàa
qualche monèllo, e po’ tanto io che
mi’ marìdo non gèmma ciaccolànno
sensa fa’ gnè. Se gèra dai contadì’
grossi aiudà’ a fa’ le faccenne o ce
dèra ’n fascio d’erba, legna pe’ scaldàsse alla sera, ’na magnàda de fàa,
Da soli, anche a mangiare pane e
cipolla una volta al giorno, stavamo in
pace e, piano piano, con tanti sacrifici, abbiamo ritirato fuori le gambe.
Pensate voi: con tre figli aveva compassione anche il prete!
Nella scuola ai monelli spesse volte
gli davano la refezione, quando mancava qualche bambino e poi, tanto io che
mio marito non andavamo chiacchierando senza far niente. Si andava dai
contadini ad aiutare a fare le faccende:
o ci davano un fascio d’erba, la legna
per riscaldarci la sera, una mangiata
436
’n capo d’ùa, du’ fasciòli, l’ansalàda:
scarchi propio non s’arnìa mae. Dobo
émo messo su ’n vidèllo. Uno che cìa
qualche soldo ce l’ha compràdo, noà
’l governàmma e dobo, quanno l’émo
vendùdo ci’hà datto ’l terso: già era
tanto! I soldi c’i volìa pe’ pagà’ l’affitto.
di fava, un grappolo d’uva, due fagioli, l’insalata, del tutto scarichi non si
ritornava mai.
Dopo abbiamo messo su un vitello. Uno che aveva qualche soldo ce l’ha
comprato, noi lo governavamo e dopo,
quando l’abbiamo venduto, ci ha dato la
terza parte: già era tanto! I soldi erano
È stadi tempi duri, fortuna che
m’ha ’rconosciùdo la previdenza
sociale, pe’ n’anno m’ha datto la pensió’. Otto mesi d’ospedàle: ai contadì’, quanno cìsci cuélle malattie lì,
t’arconoscìa. Cinquecento lire al
giorno, quindicimila al mese, sémo
scappàdi fòri, ma io non podìa riscallàmme per gnè: raggi tutti i mesi pe’
’mpo’ d’anni, ma coll’aiudo de Dio
sémo qua.
necessari per pagare l’affitto.
Sono stati tempi duri, fortuna che
mi ha riconosciuto la previdenza sociale, per un anno mi ha dato la pensione.
Otto mesi d’ospedale: i contadini, quando avevi quelle malattie lì, li riconosceva. Cinquecento lire al giorno, quindicimila al mese, siamo usciti fuori, ma io
non potevo riscaldarmi per niente: per
alcuni anni la radiografia tutti i mesi,
ma coll’aiuto di Dio siamo qua.
437
Piano verde, luce e cinematografo
Piano verde, luce e cinematografo
A dìlla chiara, col passà’ dei’ànni
fùmma gìdi ’mpo’ mèjo. ’L govèrno
avìa fatto ’l piano vèrde pe’ i coltivadóri diretti. Noà stèmma, como
v’ho ditto, a casa nàolo. Era ’na casa
vecchia muntubè’, c’era le crepàcce che de notte se vidìa le stelle.
Scì pioìa toccàa a roprì’ l’ombrella,
e métte’ la cadinèlla sopra al letto,
’ndó c’era cuélle crepacce più grosse; sopra l’armàrio ce mettemma i
stracci, per terra i bóssoli callaròle:
questa è veredà! Quanno l’émo lassàda, cuél contadì’ che c’è ’nudo a
sta’ l’ha compràda, i’hà toccàdo arfà’
tutto ’l tetto, ch’era fatto de tàole,
da una all’altra ce boccàa ’na costa
de cortèllo: Podìa stagnà’? C’era i
coppi, scì, ma quanno piòe e nengue a vento, era ’na croellétta. Noà
na podémma comedà ché fumma in
affitto; per tre anni émo sopportàdo
luscì. Si dice: “In affittto sai afflitto!”,
perché, dobo finito de pagà’ ’n ciài
né soldi né casa.
Appòsta noà émma compràdo ’n
pezzétto de tèra pe’ facce ’na casa,
ma i soldi ’n c’era sa! A cuéi tempi
s’era ropèrti i passi pe’ gi’ all’èstro.
Anca mi’ marido dicìa de gi’ a fadigà’ fòra, perché non c’era modo de
gi’ avanti, prò io non era contenta,
perché uno se sposa pe’ sta’ vicini,
envece lì anche ’n’anno stèrene da
longo. “No, non famo gnè!”
Se continuàa a gi’ a giornada dai
contadì’ grossi e magnàmma; quan-
A dirla chiara, con il passare degli
anni siamo andati un po’ meglio. Il
governo aveva fatto il ‘piano verde’ per
i coltivatori diretti. Noi stavamo, come
vi ho detto, a casa in affitto. Era una
casa molto vecchia, c’erano delle crepe
che di notte lasciavano vedere le stelle.
Se pioveva, bisognava aprire l’ombrello
e mettere il catino sopra il letto, sotto
a dove c’erano quelle crepe più grosse.
Sopra l’armadio ci mettevamo gli stracci, per terra barattoli, calderelle: questa
è la verità! Quando l’abbiamo lasciata,
quel contadino che l’ha comprata, per
andarci a stare, ha dovuto rifare tutto
il tetto, che era fatto di tavole, tra l’una
e l’altra ci entrava la parte superiore di
un coltello: potevano stagnare? C’erano
sì i coppi, ma quando pioveva o nevicava a vento, era un setaccio. Noi non
potevamo ripararla, perché eravamo in
affitto. Per tre anni abbiamo sopportato
così. Si dice: “In affitto, afflitto!, perché, finito di pagare, non hai né soldi
né casa.
Apposta avevamo comprato un
appezzamento di terreno per costruirci
una casa, ma i soldi non c’erano, sa.
A quei tempi si erano aperti i passi
per andare all’estero. Anche mio marito
diceva di andare a lavorare fuori, perché non c’era modo di andare avanti,
però io non ero contenta, perché ci si
sposa per stare vicini, invece lì stavano
anche un anno lontani. “No, non ne facciamo niente!”
Si continuava ad andare a giorna438
no era la sera o ’na fascina pe’ scaldàsse, o ’n fascio d’erba per güernà’
’n vidèllo. C’era ’mpo’ de laóro anca
’nté le rètte. I contadì’ ìa lassàdo gi’
’mbellipò’, perché la tèra non fruttàa
più niè, envéce notte ’l mese pïàvane
la busta, anca sci fèra la grandina,
’na gelàda o qualsìasi tempesta gèra
al lètto e non ce pensàa como quanno fèra i contadì’, che quanno c’era
’ste disgràzzie toccàa a grattàsse la
testa e de que razza!
Allora fèra case ’nté ’l paese,
’nté le grànne città: ié parìa d’èsse’
signóri, envéce i veri signori hanne
fatto le ville in campàgna che c’è
l’aria più bòna. Tanto dice ’l dittàdo “
’L pesce grosso ha magnàdo sempre
a cuéllo piccolo!”
Adè’ màghine belle du’ tre pe’
faméja, va be’, è vero! ché sci vànne
a fadigà’ ce ne vôle una per’ù’, ma
non ce s’arèsce più a pagà’: talèfeno,
sigurazzió, bollo, benzìna, la radio
’nté le màghine, luce, l’acqua, la
monnézza...
La luce noà l’émo quistàda del ’54:
prima c’era la luma a petròjo, po’ ’l
gassòmedro e po’… la luce. Quanno
émo pïàdo la luce, ce mettémma le
lampadìne da 15 candele, adè’ da 50,
da 100, e la luce pure fòra, tutta la
notte ’ccésa. E dobo se lamèntane
che gné se fa’ a gi’ più avanti!
Noà che fùmma vézzi male, al
mèjo ce se va be’, al pèggio envéce
è molto be’ peggio: speràmo che non
venga più la guèra, scinó lóra non
ié la fa, vézzi be’ com’è adè’: diver-
ta dai contadini grossi e mangiavamo; quando era sera o una fascina per
scaldarci o un fascio d’erba per governare un vitello. C’era un po’ di lavoro
nelle ‘rette’. Parecchi contadini avevano lasciato (i terreni coltivati a mezzadria), perché la terra non fruttava
più niente, invece alla fine del mese
prendevano la busta (paga); anche se
faceva la grandine, una gelata o qualsiasi temporale, andavano a letto e non
ci pensavano come quando facevano i
contadini, i quali, quando capitavano
queste disgrazie, dovevano grattarsi il
capo e di che razza!
Allora costruivano case in paese,
nelle grandi città: sembrava loro di
essere signori, invece i veri signori
hanno costruito le ville in campagna,
dove c’è l’aria più buona. Tanto dice il
proverbio: “Il pesce grosso ha mangiato
sempre quello piccolo”.
Adesso due tre macchine belle per
famiglia, va bene, è vero, perché, se
vanno a lavorare ce ne vuole una per
ciascuno, ma non ci si riesce più a
pagare: telefono, assicurazione, bollo,
benzina, radio nelle macchine, luce,
acqua, immondizia…
L’illuminazione elettrica noi l’abbiamo presa nel ’54: prima c’era il lume
a petrolio, poi il gasometro e poi… la
luce. Quando abbiamo preso l’energia
elettrica, ci mettevamo le lampadine
da 15 candele, adesso da 50, da 100 e
l’illuminazione pure fuori (dalle case),
accesa tutta la notte. E poi si lamentano
che non si riesce più ad andare avanti!
Noi che eravamo abituati male, al
439
timenti de tutte le specie, magnà’
“bocca mia cuél che vôi tu!”, pagni
’na stagió’, po’ via...’nté ’l sacco
dei pôretti! Io ve dìgo la verédà: la
vernia m’ha piaciùdo, e ancora me
piace, però drendo ’l credenzó’ ci’hò
i cappotti de cinquant’anni fa! E me
sa fadìga a buttàlli via: almànco me
gàmbio quanno vojo!
A me me piacìa tanto anca a ballà’,
ma con la guèra è morto tutto: dal
’39 s’è rintéso a sonà’ dobo del ’60,
perché tutte le faméje cìa cualchidù’
morto in guerra. Portàa ’ste monèlle mia a pìa anca a Pongelli. Anca ’l
cantà’ ha finìdo tutto cuélla vo’, anca
i cantastorie non se n’è ’ntési più.
Al cinematografo sapéde da
gióvena quante le ô ce so’ gida?
Due vo’! E m’arcòrdo che era
intitolàda: “Luciano Fèra mosca o
sera pilòtta”, po’ “I tre moschettieri”.
Manco parlàa, se vedìa solo le figure, po’ sempre co’ la paura che me
portàa via lo ragàzzo. ’Na ’olta sémo
gìdi ’nté ’n cinema a Belvedé’, ’na ô
a Montalbò’.
Quanno sgappàsci dal cinema,
non dovìsci fa’ i gruppétti a parlà’
all’amìci, perché più de due non
dovìsci sta’: sci te vedìa, volìa sapé’
de que parlài. E c’era anca ’l coprifôgo: tutte le luce smòrcie, anca ’nté ’n
casa cuél piccolo lumì’ che cendìsci,
dovìsci chiude’ i scuretti ’nté le finè’:
questo fina tutto ’l 44. Fòri non se
podìa piccià’ ’l fôgo mango de giorno, ché podìa èsse’ ’n segnale.
Anca appena scoppiàda la guèrra,
meglio ci si va bene, al peggio invece è
molto difficile: speriamo che non venga
più la guerra, se no loro non gliela
fanno, abituati bene come sono adesso:
divertimenti di tutte le specie, mangiare “bocca mia quello che vuoi tu!”, vestiti una stagione… poi via nel sacco per i
poveretti! Io vi dico la verità: il lusso mi
è piaciuto e ancora mi piace, però dentro il ‘credenzone’ ho i cappotti di cinquant’anni fa! E mi dispiace buttarli
via: almeno mi cambio quando voglio!
A me piaceva tanto ballare, ma con
la guerra è morto tutto: dal ’39 si è sentito di nuovo suonare dopo il ’60, perché tutte le famiglie avevano qualcuno
morto in guerra. Portavo ( a ballare)
queste mie ragazze a piedi anche a
Pongelli. Anche il cantare è finito tutto
quella volta, anche i cantastorie non si
sono sentiti più.
Al cinematografo sapete quante volte
ci sono andata da giovane? Due volte e
mi ricordo che (il film) era intitolato
“Ettore Fieramosca”, “Giuliano Serra
pilota” e “I tre moschettieri”. (Il film)
nemmeno parlava, si vedevano solo
le figure, poi sempre con la paura che
mi portassero via il ragazzo. Una volta
siamo andati in un cinema a Belvedere,
una volta a Montalboddo.
Quando uscivi dal cinema, non
dovevi fare i gruppetti per parlare con
gli amici: se ti vedevano, volevano sapere di che cosa parlavi. E c’era anche il
coprifuoco: tutte le luci spente, anche in
casa se accendevi quel piccolo lumino,
dovevi chiudere gli scuri delle finestre:
questo fino al ’44. Fuori non si poteva
440
Montalbò’ era pîno de soldàdi: ’nté
le scòle, ’nté l’asìlo, ’nté cuéi palazzi
grossi che non ié servìa tutti i vani:
c’era dappertutto. E quante ragazze
’nnamoràde, anca fidansàde, sposàde ‘gnèma gnèma!’ Hanne pïàdo
certe sbornie! Cualchidùna che
conoscìa io l’arcontàa. Cualchidùna
s’è risposàde, ènne gide da lóngo,
ma a cuéi tempi, quanno ’na ragazza ìa fatto l’amóre, per de più co’ ’n
soldàdo, era giudigàda male, che po’
sémo gniorànte, perché ’n soldàdo
è como n’antro ômo, ma la testa ié
portàa luscì!
accendere il fuoco nemmeno di giorno,
perché poteva essere un segnale.
Anche appena scoppiata la guerra,
Montalboddo era piena di soldati: nelle
scuole, nell’asilo, in quei palazzi grossi
dove non servivano tutti i vani: c’erano
(soldati) dappertutto. E quante ragazze
innamorate, anche fidanzate, sposate “gnèma gnèma!” Hanno preso certe
sbornie! Qualcuna che conoscevo io, lo
raccontava. Alcune si sono in seguito sposate, sono andate lontano, ma a
quei tempi, quando una ragazza era
stata fidanzata, per di più con un soldato, era giudicata male. Questo perché
siamo ignoranti: un soldato è come un
altro uomo, ma la testa gli portava (a
pensare) così.
Co’ è la merenda?
Che cos’è la merenda?
I monelli ’ncominciàa a fasse
granni, qualche 100 lire alla settimana le guadagnàa; noà gèmma sempre
a fadigà’ dai contadì’ grossi, pïàmma
’n fascio d’erba o ’na fascina quanno
era la sera, scarco, como ho ditto,
non arvinìsci mae. ’L pa’ sul taolì’
n’è mae mancado, però al de fòra
del pa’ ’l companadigo era sempre
più scarso.
Però i monelli è cresciudi li stesso. Quanno ’rvenìa dalla scòla, c’era
du’ cucchiaràde de menèstra e de
dredo non c’era più niè. Quanno sentìa de cuélli che stèra mejo de noà,
dicìa “Venite, bambini, a prendere la
merenda!”, io non m’anvergógno a
I monelli incominciavano a farsi
grandi, qualche cento lire la settimana
le guadagnavano; noi andavamo sempre
a lavorare dai contadini grossi, prendevamo un fascio d’erba o una fascina
quando era sera, scarico, come ho detto,
non ritornavi mai. Il pane sulla tavola
non è mancato mai, però al di fuori del
pane, il companatico era sempre più
scarso.
Però i monelli sono cresciuti ugualmente. Quando ritornavano dalla scuola, c’erano due cucchiaiate di minestra
e poi non c’era più niente. Quando sentivo dire, da quelli che stavano meglio
di noi, “venite, bambini, a prendere
la merenda!”, io, non mi vergogno a
441
dillo, non sapìa mango co’ era. Dobo
quanno gèra a scòla, ’sti monelli mia
li mannàa via co’ ’na mela, co’ ’na
fetta de pa’. Cuélla vo’ le mela con
cento lire se ne pïàa tre chili.
dirlo, non sapevo nemmeno che cos’era.
Dopo, quando andavano a scuola questi
monelli, li mandavo via con una mela,
con una fetta di pane. Quella volta con
cento lire si prendevano tre chili di
mele.
’N facìa marcia a drèdo...
Non facevano marcia indietro
De resto altra robba non se podìa
comprà, i soldi non se pïàa invelle;
cuéllo che venìa fòra dalla terra,
dobo ch’èmma datto più della midà
al padró’, cuél che armanìa dovìsci
pensà’ che l’anno era lóngo dòddici
mesi e sci non tiràsci la cinta, alla fin
dell’anno armanìsci a denti sciùcchi.
Cuàlca fameja che non sapìa giostrà’
tanto be’, alla fine dell’anno gèra a
finì’ pe’ la caridà, spèce cuélli che
cìa ’n branco de monelli (cuélla vo’
non facìa tanto marcia a drèdo) era
como cuélli del basso popolo adè.
’Mpo’ cìa d’accordo anca cuélli che
comannàa, più monelli cìa e meno
tasse pagàa.
A questi d’adè’ non li convince:
mejo pagà’ che mette’ al monno i
fiòli! Ha ragió’: adè’ i fiòli sci uno li
vôle se tròa dapertutto. Io per me
non so’ d’accordo, me piace che i
fjòli sia i mia e de mi’ marido, sci è
possìbbole, basta che c’è la somènte:
a ’mpresto se va a pïà’ ’na vanga, ’na
falce fenàra, ma no la somente per
fa’ i monelli: vattela a vede’ di chi è!
Io ’l digo sempre: sci arvenisse ’sti
Del resto altra roba non si poteva
comprare, i soldi non si prendevano in
nessun luogo; con quello che si ricavava
dalla terra, dopo che avevamo dato più
della metà al padrone, dovevi pensare
che l’anno era lungo dodici mesi e, se
non tiravi la cinghia, alla fine dell’anno rimanevi a denti asciutti. Qualche
famiglia che non sapeva giostrare tanto
bene alla fine dell’anno andava per
l’elemosina, specie quelli che avevano
un branco di monelli (quella volta non
facevano marcia indietro) erano come
quelli del basso popolo di adesso. Un
po’ avevano d’accordo anche quelli che
comandavano: più monelli si aveva e
meno tasse si pagava.
A questi di adesso (il governo) non li
convince: meglio pagare che mettere al
mondo i figli! Hanno ragione: adesso i
figli, se uno li vuole, si trovano dappertutto. Io non sono d’accordo, mi piace
che i figli siano miei e di mio marito,
se è possibile, basta che ci sia il seme:
in prestito si va a prendere una vanga,
una falce fenaia, ma non il seme per
fare i figli: vai a vedere di chi è! Io lo
dico sempre: se ritornassero i nonni che
442
nonni che dicìa sempre “più gémo
avanti e più gemo peggio”! Avìa
ragió’: su certe cose staremo mejo,
ma ’l monno s’è guastàdo muntubè’.
dicevano sempre: “Più andiamo avanti
e più andiamo peggio!” Avevano ragione: per certe cose staremo meglio, ma il
mondo si è guastato molto.
“L’erba mùzzica, i ca’ sciolti,
i sassi legàdi!”
“L’erba pizzica, i cani sciolti,
i sassi legati”
Questo se parla del 1957-58 in
avanti. Allora émo ûdo coraggio e ce
sèmo fatti la casa, ’na baracchétta,
tutta a buffo e, piano piano, l’émo
pagada. Capirede, a cuéi tempi l’émma pagada 1.750.000 lire e c’émma
tre monelli piccoli!
Fatta la casa, guasci “cóa fatta,
gaggia morta!” S’è malàdo mi’
marìdo dalla troppa fadìga. È ’rnùdo
dall’ospedale al tempo de mededùre.
Lu’ stèra sotta la mirìggia, io falciàa
’l gra’ e ’sti tre monellétti mia me
iudàa: la fémmena legàa i còi co’ la
pressa che pesàa quanto lìa, avìa
dodici’anni, ’l maschietto dieci’anni
’rcoìa le pegorèlle (io cercàa de falle
piccolìne e fatte be’); la monellétta
piccola, n’era granna eh, avìa sei
anni, co’ ’na cordellétta strascinàa
i balsi e i dèra alla sorella. Fadigàa
tutti, porettì’! Cuell’ànno èmma
pïàdo cuéi quattr’èttri de terra in
affitto, toccàa dàsse da fa’, perché
notte l’anno i soldi ’l padró’ li volìa,
e noà ’ndó li tiràmma fòra?
C’émma tutto ’l buffo de la casa,
fumma ’nténti ’mpo’ dapertutto, interessi all’otto, al dieci per cento, notte
Adesso si parla del 1957-58 in avanti. Allora abbiamo avuto coraggio e ci
siamo fatti la casa, una baracchetta
tutta a debito e, piano piano, l’abbiamo
pagata. Capirete, a quei tempi l’abbiamo pagata un milione e settecentocinquantamila lire e avevamo tre figli piccoli.
Fatta la casa, quasi “nido fatto, gazza
morta”! S’è ammalato mio marito per la
troppa fatica. È ritornato dall’ospedale
al tempo della mietitura. Lui stava sotto
l’ombra, io falciavo il grano e questi tre
monelletti miei mi aiutavano: la femmina legava i covi con la pressa che
pesava quanto lei, aveva dodici anni;
il maschietto, dieci anni, raccoglieva le
pecorelle (io cercavo di farle piccoline
e fatte bene); la monelletta piccola, non
era grande eh!, aveva sei anni, con una
cordicella trascinava i balsi e li dava
alla sorella. Lavoravano tutti, poverini!
Quell’anno avevamo preso quattro ettari di terra in affitto, bisognava darsi da
fare, perché alla fine dell’anno i soldi il
padrone li voleva e noi da dove li tiravamo fuori?
Avevamo tutto il debito della casa,
eravamo in debito un po’ dappertutto,
443
l’anno non ’rcavàmma mango i soldi
pell’interèssi. Mi’ marìdo i cercàa ’nté
n’antro posto, pe’ èsse’ puntuale per
dàjeli prima che scadìa la gambiàle.
La gente ce li dèra tranquilli, perché
vedìa la puntualidà. Dicémma co’ mi’
marìdo: “ ’St’anno c’émo ’mbelpo’ de
terra, ce fa tanto gra’, tanto vi’!” Ma
“chi fa i conti sensa l’oste, i fa du’
’olte”! È veredà!
Cuéll’anno te s’ha fatto ’na gelàda
l’otto de maggio, che le vide scoperte l’ha seccàde tutte. Noà n’émo salvàde ’mpo’ perché c’émma du’ file de
mori: cuélla sotta s’è salvàda ’mpo’
mejo. Dobo ’l gra’ cìa dagià tutto ’l
nodro, vôl di’ che dagià ìa messo
la spiga, stèra guasci de fòra e n’ha
roinàdo più de la midà. A bon bisogno cuéll’anno è passàda anca la
gràndola, allora spontanio venìa da
di’: “Ma, cristarello, è ’mpo’ troppo!”
E tanto que fésci? Toccàa a sta’ lì
de casa: d’annanze alla volondà del
Padre ’n ce se va!”
’N ce sèmo mae persi de coraggio; le vide toccàa a dàje verdoràmo
e sólfo listesso, pe’ non fàlle pïà’
dalla maladìa; ’l gra’ ha toccàdo a
falciàllo listesso, ardunàllo e bàttelo, benànca era guasci tutta paja e
pula, ma tanto non podìi lassàllo lì,
servìa pe’ le bestie ’sta robba. Dobo,
tanto pe’ gambià e finì’ de méttece in
crisi, c’émma ’n toro che ìa pïàdo ’l
tèdeno, coscì ’l bóssolo, ’l bicchiero
era pîno che gèra de fòra. E tu va’ a
fa’ ’l contadì’!
Co’ tutta ’sta sfortuna ce sta be’
interessi all’otto al dieci per cento; alla
fine dell’anno non riuscivamo a mettere
insieme neppure i soldi per gli interessi.
Mio marito li cercava in un altro posto,
per essere puntuale e restituirli prima
che scadesse la cambiale. La gente ce
li dava tranquilla, perché vedeva la
puntualità. Dicevamo io e mio marito:
“Quest’anno abbiamo molta terra, ci fa
tanto grano, tanto vino!”. Ma “chi fa i
conti senza l’oste, li fa due volte!”. È la
verità!
Quell’anno, all’otto di maggio ti ha
fatto una gelata, che ha seccato tutte le
viti scoperte. Noi ne abbiamo salvate un
po’, perché avevamo due file di mori:
quell’uva (lì) sotto si è salvata un po’
meglio. Dopo il grano aveva già tutto il
‘nodro’, vuol dire che già aveva messo
la spiga, che stava quasi di fuori, e
ne ha rovinato più della metà. A buon
bisogno quell’anno è passata anche la
grandine, allora veniva spontaneo da
dire: “Ma, cristarello, è un po’ troppo!”
E tanto cosa facevi? Toccava stare lì
di casa: davanti alla volontà del Padre
non ci si va! Non ci siamo mai persi di
coraggio; alle viti bisognava dare il verderame e lo zolfo ugualmente, per non
farle attaccare dalla malattia; il grano
è stato necessario falciarlo ugualmente, radunarlo e trebbiarlo, benché fosse
quasi tutta paglia e pula, ma tanto non
potevi lasciarlo lì, questa roba serviva
per le bestie. Dopo, tanto per cambiare e
finire di metterci in crisi, avevamo un
toro che ha preso il tetano, così il barattolo, il bicchiere era pieno che andava
di fuori. E tu vai a fare il contadino!
444
’st’arcónto chì. C’era uno del basso
popolo, pe’ dilla chiara ’n contadì’,
che ’na madìna d’inverno gèra alla
fiera. Prima de rià’ ’nté ’l paese i’ha
sortìdo de gi’ de corpo. Allora ha
pensàdo: “Adè ’ndó me metto?” Ha
vedùdo ’na macchia d’erba alta, iè
venùdo pensàdo de boccà lì ’n tra
mezzo. S’è messo giù, l’ha fatta e po’
stròppa ’n pugnèllo d’erba pe’ pulìsse. Vedi ’mpo’ ch’era l’ortìga! Quanno
ancó’ era giù bello scupèrto, ché ié
bruciàa ’mbelpo’, n’arriva currènno e
abbaiàndo ’n ca’ da ’na casa lì vicino!
’Sto contadì’ va pe’ pïà’ ’n sasso pe’
mannà via cuélla bestiàccia, ma gné
la fa a scarpìllo, perché era gelàdo
nigò a cocco de pipa. Allora, tutto
spaurìdo e co’ le biscìghe grosse giù
da basso, ha ditto: “L’erba mùzzica,
i ca’ sciolti, i sassi legàdi!” Anche da
parte de noà, ’nté cuèi tempi disgraziadi, quanno ’n ce gèra gnè pe’ la via
sua, se podìa di’: “L’erba mùzzica, i
ca’ sciolti, i sassi legàdi!”
Con tutta questa sfortuna ci sta bene
questo racconto qui. C’era uno del basso
popolo, per dirla chiaramente un contadino, che una mattina d’inverno andava
alla fiera. Prima di arrivare in paese ha
avuto bisogno di andare di corpo. Allora
ha pensato: “Adesso dove mi metto?”
Ha visto una macchia d’erba alta, gli è
venuto pensato di entrare lì in mezzo.
Si è messo giù, l’ha fatta e poi strappa
un pugnello d’erba per pulirsi. Vedi un
po’ che era ortica! Quando ancora era
giù bello scoperto, perché gli bruciava
tanto, non arriva correndo e abbaiando
un cane da una casa lì vicino! Questo
contadino va per prendere un sasso per
mandare via quella bestiaccia, ma non
riesce a carpirlo, perché era gelato tutto
alla perfezione. Allora, tutto spaventato
e con le vesciche grosse giù in basso, ha
detto: “L’erba pizzica, i cani sciolti, i
sassi legati!”
Anche da parte nostra, in quei tempi
disgraziati, quando non andava niente
per il verso suo, si poteva dire: “L’erba
pizzica, i cani sciolti, i sassi legati!”
’Na cava d’oro
Una cava d’oro
A cuéi tempi émma fatto bocca
bòna quanno émo sapùdo che s’era
ropèrta la contèa Ferraris, che cìa
’na massa de fónni, i contadì’ era gidi
via tutti e la mannàa avanti ’sta terra
coll’operai. Mi’ marìdo m’è gido a fa’
sùbbedo ’l libbrétto de laóro. Me
ci’hà pïàdo a laorà’ como operaia,
A quei tempi abbiamo fatto bocca
buona quando abbiamo saputo che si
era aperta la contea Ferraris, che aveva
tanti poderi: i contadini erano andati
via e mandava avanti (la contea) con
gli operai. Mio marito mi è andato subito a fare il libretto di lavoro. (La contea)
mi ha preso a lavorare come operaia, ci
445
ce tenìa anca in regola.
Io me facéo 6-7 chilomedri per
madina co’ la bicicletta e, caminànno, magnàa ’na fetta de pa’: cuélla
era la colazió’, sensa bé’ manco ’na
goccia d’aqua. Como pïàa la busta
paga dal conte Ferraris, 8.000 lire al
mese, a segondo le giornàde che se
fèra, io la lassàa là dal fornàro per
pagàcce ’l pa’. Prima se pïàa la farina, ’l pa’ ’l fèmma de casa, ma dobo
gèra a giornàda, ’n c’era più tempo
de fa’ ’l pa’. Quante tribbolazió’: la
madìna prima a fa’ tutte le facènne
de casa e po’ via…co’ la biscighetta,
’na fetta de pa’ sulle ma’ e annànse
popolo! Toccàa a sta ’tènti che, sci
rivàsci ’nté ’l laóro cinque minùdi
dobo, te levàa ’n’ora de paga.
Se comensàa a ’rpïà’’mpo’ de
fiàdo, quanno ’na sera e non me so’
troàda licensiàda! Fumma ’na trentina de persone a fadigà’ ’nté cuélla
contea. Quanno era de battidùre,
’rdunà’, fa i pajàri fumma anca quaranta. Allora fèva le squadre, cinque
pe’ squadra. ’Na sera ardunassima i
covi pe’ fa’ ’l barcó. Era da careggiàlli mezzo chilometro su pe’ ’na ripa,
ché ’l mudóre col carro gnè la fèva a
gìcce finànta a pìa; coscì ’gni viaggio
ce volìa muntubè’. Cuéllo che fèva
’l barcó’ su casa ié toccàa spettà’ a
noà.
Allora ’st’operaio è gido a mògne’
’na vacca pe’ be’ ’mpo’ de latte, ma
ce l’ha chiappàdo ’l fattó’ in fallo.
Coscì la sera ci’hà ditto: “La squadra
’ndó c’è cuello (’l nome ne ’l posso
teneva anche in regola.
Io mi facevo sei sette chilometri ogni
mattina con la bicicletta e, camminando, mangiavo una fetta di pane: quella
era la colazione, senza bere nemmeno
una goccia d’acqua. Come prendevo la
busta paga dal conte Ferraris, ottomila
lire al mese, a seconda delle giornate che
si facevano, io la lasciavo dal fornaio
per pagarci il pane. Prima si prendeva
la farina, il pane lo facevamo in casa,
ma dopo andavo a giornata, non c’era
più il tempo di fare il pane.
Quante tribolazioni: la mattina fare
tutte le faccende di casa e poi via… con
la bicicletta, una fetta di pane sulle
mani e avanti popolo! Toccava stare
attenti perché, se arrivavi sul lavoro
cinque minuti dopo, ti levava un’ora di
paga.
Si cominciava a riprendere un po’
fiato, quando una sera e non mi son
trovata licenziata! Eravamo una trentina di persone a lavorare in quella
contea. Al tempo della trebbiatura, del
radunare (i covi), di fare i pagliai, eravamo anche quaranta. Allora faceva le
squadre, cinque per squadra. Una sera
radunavamo i covi per fare il barcone.
Dovevano essere trasportati per mezzo
chilometro su per una ripa, perché il
motore con il carro non gliela faceva ad
andarci fino in fondo, così ogni viaggio
ci voleva parecchio tempo. Quello che
faceva il barcone su casa doveva aspettare noi. Allora questo operaio è andato
a mungere una vacca per bere un po’ di
latte, ma il fattore l’ha sorpreso in fallo.
Così la sera (il fattore) ci ha detto: “La
446
di’) domà’ resta a casa, esclusa dal
laóro, licensiàda!”
Pensàde vuà che magó’ che s’è
messo ’nté lo stómmigo! Ho fatto
tutta la strada piagnèndo. Pensào:
“Cuéi soldi lì me serve pe’ compràcce ’l pa’, pe’ sfamà’ tre fjòli! ’Na cosa
da gnè! Como famo? Mi’ marìdo sta
male e ’n pôle fadigà’. Ma como se
fa?” E piagnéo, piagnéo, disperàda.
So be’ ch’emo passàdo ’na settimana in biango, con tutto cuél dèbbido che c’émma da pagà’. Pensàmma
che ’n ci’archiamàa più e a restà’
sensa laóro… in pîno laóro era brutto ’mbelpo’. Me parìa d’avé troàdo
’na cava d’oro e tutta ’n tratto lìo
persa. Che sci poi fumma stadi in
colpa, avìa ragió’, ma a careggià’
cuéi còi su pe’ cuélla ripa, toccàa
rampinàsse co le ma’ e i pìa, el còvo
da cima del forcó’ ’na quarantina de
chili te fèra fa’ ’l maghétto lìppede
su cuélla ripa.
Ma al capo operaio del conte,
Ornello de Marchetto, ié dispiacéa muntubè e i’hà ditto al fattore:
“Fattó’, pe’ ’n solo peccadóre, penedènza maggiore. Era la squadra che
laoràa più de tutte! Pe’ uno ’n se
pôle condannà’ tutti!” E Ornello la
ûda vénta: dobo sette giorni ci’hà
’rchiamàdo.
Dopo ’mpo’ de tempo s’è ropèrte
anca le fabbrighe e mi’ marìdo e mi’
fjòlo c’ènne gidi sùbbedo, benànche
mi’ marìdo ancó’ ’n n’èra ’rguarìdo.
E da lì émo ’rcomensàdo a méttese
’mpo’ in careggiàda.
squadra dove c’è quello (il nome non lo
posso dire) domani resta a casa, esclusa dal lavoro, licenziata!”
Pensate voi che magone mi si è
messo nello stomaco! Ho fatto tutta la
strada piangendo. Pensavo: “Quei soldi
lì mi servono per comprarci il pane, per
sfamare tre figli! Una cosa da niente!
Come facciamo? Mio marito sta male
e non può lavorare. Ma come si fa?” E
piangevo, piangevo disperata. So bene
che abbiamo passato una settimana in
bianco, con tutto quel debito che avevamo da pagare. Pensavamo che non ci
avrebbe richiamato più e restare senza
lavoro… nel pieno del lavoro era molto
brutto. Mi pareva d’aver trovato una
cava d’oro e tutto ad un tratto l’avevo
persa. Se poi fossimo stati in colpa,
avrebbe avuto ragione (il fattore), ma a
trasportare quei covi su per quella ripa,
toccava arrampicarsi con le mani e con
i piedi, il covo in cima al forcone , una
quarantina di chili, ti faceva lasciare le
budella lì su per quella ripa.
Ma al capo operaio del conte, Ornello
de Marchetto, gli dispiaceva molto e gli
ha detto al fattore: “Fattore, per un solo
peccatore, penitenza maggiore. Era la
squadra che lavorava più di tutte! Per
colpa di uno non si possono condannare
tutti!” E Ornello l’ha avuta vinta: dopo
sette giorni ci ha richiamato.
Dopo un po’ di tempo si sono aperte
anche le fabbriche e mio marito e mio
figlio ci sono andati subito, benché mio
marito non fosse ancora guarito. E da lì
abbiamo cominciato a metterci in carreggiata.
447
Trebbiatura. Foto anni ’30 (coll. Luigi Vittorio Ferraris).
Trebbiatura. Primo piano del Landini. (coll. privata).
448
Trebbiatura: dal barcone alla trebbiatrice. (Coll.Giuliano Sellari).
449
Trebbiatura nell’azienda Ferraris: si raccolgono gli ultimi covoni e “se guzza i paiàri”( coll. Santino
Sagrati).
Trebbiatura: si fatica e si scherza sollevando il sacco… ed anche l’amico (coll. Sante Sagrati)
450
Fasce, quadradi e pezze
Fasce, quadrati e pannolini
Tanto pe’ dìnne’n’antra. Io, quanno la televisió’ fa cuéi riclami che
dice dei pagnetti dei monelli, fa véde’
che non passa la pipì super assorbente: a pensà’ che i nostri cìa ’mpèzzo
de panno quadrado, preso ’nté i linsoli vecchi, ruzzo e iàccio d’inverno,
chiamado la piaétta: ié mettéi cuélla
piaétta e po’ ’na fascia e lì l’invuricchiài tuto ansiéme che parìa ’n salcicciotto. Po’ quanno avìa fatto la
cacca, ’na lavàda co l’acqua iàccia e
sci se fèra ’l culetto roscio, ’na bocconada1 de vì’ disinfettàa e dobo io
cìa la cipria de quann’ero giovena,
ce dèra cuélla, ’l borotalco c’era in
circolazió’ ma ’n n’era pei contadì’.
Dicìa cuéi più granni de noà che, a
tempo de lóra, ’dópràa la farina de
granturco al posto del borotalco.
E po’ dice per cuélle granne:
“Basta un gesto, e ti senti bella
asciutta e pulìda”. Te fa véde’ che
con cuéi vestidi trasparenti salta,
balla, va in bicicletta e tutto appòsto!
E ci credo! Ai nostri tempi, quanno
se gèra a fadigà’ ’nté le contèe, falcià’, vangà’, a batte’, partìsci da casa
alla madina alle 3 ’rvenìsci alla sera
alle 10, anca le 11, magnàsci a sède’
per terra, a volte non c’era mango
l’acqua pe’ lavasse le ma’.
E si dovésci gi’ al logo còmmedo, prima progurasci ’na brancia
Tanto per dirne un’altra. Io, quando la televisione fa quelle réclame che
parlano dei pannolini dei bambini,
fa vedere che sono super assorbenti e
non lasciano passare la pipì, penso
che i nostri (figli) avevano un pezzo
di panno quadrato, preso nelle lenzuola
vecchie, rozzo e freddo d’inverno, chiamato la ‘piagetta’: gli mettevi (al neonato) quella piagétta e poi una fascia e lì
lo avvolgevi tutto insieme che pareva un
salsicciotto. Poi, quando aveva fatto la
cacca, una lavata con l’acqua fredda e,
se il culetto si faceva rosso, una boccata
di vino disinfettava e dopo io avevo la
cipria di quando ero giovane, ci davo
quella: il borotalco c’era in circolazione,
ma non era per i contadini. Dicevano
quelli più grandi di noi che, al tempo
loro, si adoperava la farina di granturco al posto del borotalco.
Poi (la televisione) dice per le donne
: “Basta un gesto e ti senti bella asciutta
e pulita!” Ti fa vedere che (la donna),
con quei vestiti trasparenti, salta, balla,
va in bicicletta e tutto è a posto. E ci
credo! Ai nostri tempi, quando si andava a lavorare nelle contee, a falciare,
vangare, trebbiare, partivi da casa la
mattina alle tre, ritornavi la sera alle
dieci, anche alle undici; (durante il
giorno) mangiavi a sedere per terra,
a volte non c’era nemmeno l’acqua per
lavarsi le mani.
1
Si riferisce all’uso della bocca come spruzzatore.
451
de qualche pianta, sci c’era vicino,
scinò ’n ceppo d’erba, dopo la piattàsci la pèzza o diedro ’na pianta, ’ntrà
’na fratta, drendo a ’n fosso, ’nté ’l
mezzo al gra’, ’ndó era più nascosto.
E po’ c’era sempre i sfacciàdi che te
seguìa co’ l’occhi e che te dicìa: “S’è
buttada la pujàna!”
E non podìsci fa, como dice la
televisió’, “usa e getta! Ti senti asciutta e pulìda!” Envece ’l materiale toccàa a ricuperàllo, servìa pe’ ’l prossimo mese. Non c’era carta, non c’era
buste de plastiga, ce volìa ’n fazzoletto da naso in più e lì se nascondìa
sotta l’erba; alla sera se gèra a ’rpïà’,
a casa se lavàa. Bisognàa tené’ a
conto de che razza!
E se dovevi andare al gabinetto,
prima ti procuravi una foglia di qualche pianta, se c’era lì vicino, se no un
ceppo d’erba; dopo la nascondevi la
pezza o dietro una pianta, in una fratta, dentro un fosso, in mezzo al grano,
dove era più nascosto. E poi c’erano
sempre gli sfacciati che ti seguivano
con gli occhi e che ti dicevano: “Si è buttata la poiana!” E non potevi fare, come
dice la televisione, “usa e getta! Ti senti
asciutta e pulita!” Invece il materiale
toccava ricuperarlo, sarebbe servito per
il mese successivo. Non c’era la carta,
non c’erano le buste di plastica, ci voleva un fazzoletto da naso in più e lì si
nascondeva sotto l’erba; alla sera la si
andava a riprendere, a casa si lavava.
Bisognava tenere a conto di che razza!
L’aqua del pozzo e la cena
L’acqua del pozzo e la cena
E po’ gèsci a casa a cuéll’ora,
l’acqua ’nté le brocche non c’era, sci
n’avìsci preparada prima de partì.
Sìa da gi’ a pïà’ da ’n contadì’ ché noà
’l pozzo non ce l’émma, era da lóngo
6 o 700 medri. La dovìsci careggià’
pe’ ’l porchetto, pui e conìi, pe’ ’l
ca’ e ’l gatto, pe’ lavà’, fa da magnà’
e pe’ lavà’ i piatti. Toccàa a pïà’ du’
brocche, una per ma’, e fa anca du’
viaggi, sci volìsci l’acqua per còce’
da magnà’.
Quanno se gèra a giornàda dai
contadì’, la minestra se cocìa alla
sera per cena. Picciàmma ’l fôgo, se
E poi tornavi a casa a quell’ora,
l’acqua nelle brocche non c’era se non
l’avevi preparata prima di partire. Si
doveva andare a prenderla da un contadino, lontano sei settecento metri, perché noi non ce l’avevamo il pozzo. La
dovevi trasportare per il porco, i polli,
i conigli, il cane e il gatto, per lavare,
fare da mangiare e per lavare i piatti.
Bisognava prendere due brocche, una
per mano, e fare anche due viaggi, se
volevi l’acqua per cuocere da mangiare.
Quando si andava a giornata dai
contadini, la minestra si cuoceva la sera
per cena. Accendevamo il fuoco, si met452
mettìa su ’l callàro, intanto se fèra le
faccenne, una preparàa la spìndola
co’ ’n mucchietto de farina e, se fèra
du’ tajolì’ ’nté mezz’ora, se fèra la
sperna. Dopo sci se fèra i guadrelli
ce volìa ’mpo’ de più a tajàlli; anca
l’intingolo ’nté mezz’ora se fera.
C’era cûéi fornèlli fatti de madù’,
se cendìa con un po’ de carbó’, che
se smorciàa quanno se scaldàa ’l
forno per côce ’l pa’: se stacciàa e
po’ ’l mettémma ’nté ’na calloròla e
se ’dopràa quanno servìa.
teva su il caldaio, intanto si facevano le
faccende, una preparava la spianatoia
con un mucchietto di farina, si faceva
la sfoglia e due tagliolini in mezz’ora.
Dopo, se si facevano i quadretti ci voleva un po’ di più a tagliarli; anche il
sugo si faceva in mezz’ora.
C’erano quei fornelli fatti di mattoni,
si accendevano con un po’ di carbone,
che si spegneva quando si riscaldava il
forno per cuocere il pane: lo si stacciava, poi lo mettevamo in una calderella e
lo si adoperava quando serviva.
Biùde a brocca
Bevute a brocca
Arpìo de quanno gèmma a fadigà’ ’nté ’sta contèa. Non c’era l’aqua,
se gèra a pïà’ ’nté ’n pozzo co’ ’na
brocca da ’na venticinquina de lidri,
e tutti bevémma a brocca. Non se
portàa ’l bicchiero, perché fumma
30 operai, e non ce fèra badurlà’
a be’ col bicchiero, ché la séde era
tanta. Se ne bevìa 3 o 4 bicchieri, ce
volìa troppo. Toccàa a caminà’ du’
chilòmedri per gì a pïà’ ’sta brocca
d’aqua.
Dopo ’n anno che la bevemma
’sto pozzo l’ha pulido, c’è boccado
n’ômo drendo pe’ pulillo bembè’ e
ci’hà trovado le bisce. L’émo sapudo dobo, scinó mejo a crepà’ de
séde! Hanne ditto che le bisce pulisce l’aqua, ma pensade ’mpo’ vuà
che schifo a ’rpensàcce!
Io, quanno ero a casa mia prima
Riprendo da quando andavamo a
lavorare in quella contea. Non c’era
l’acqua, si andava a prendere in un
pozzo con una brocca da una venticinquina di litri, e tutti bevevamo a brocca. Non si portava il bicchiere, perché
eravamo trenta operai, e non ci faceva
perder tempo con il bicchiere, perché la
sete era tanta. Se ne bevevano tre quattro bicchieri, ci sarebbe voluto troppo.
Bisognava camminare due chilometri
per andare a prendere questa brocca
d’acqua. Dopo un anno che la bevevamo, hanno pulito questo pozzo, c’è
entrato un uomo e ci ha trovato le bisce.
L’abbiamo saputo dopo, se no (sarebbe
stato) meglio crepare di sete. Hanno
detto che le bisce puliscono l’acqua, ma
pensate un po’ voi che schifo a ripensarci! Quando stavo a casa mia prima
di sposare, ce l’avevamo il pozzo, lo
453
da sposà’, ce l’émma ’l pozzo, ’l
pulémma tutti l’anni d’istàde, quanno l’aqua ce n’era poga, la cavamma tutta, finchè se rîmpìa la callarola. Dobo babbo ce boccàa: piàa
’n bastó’ co’ ’na corda mezzo alle
gambe, legada ’nté ’sto bastó’, e
gèra giù piano piano.
Noà, in due, tenémma forte la
corda, che passàa su la ràgola ben
assigurada. ’L pulìa a specchio. E
dèra gusto a be’ l’aqua, ce venìa
tutto ’l contornàle a pïa’ ’st’aqua,
anca tanta fresca, perché era lóngo
settanta file de madù’, era profonno
muntubè’.
Adè’ l’aqua ’nté i pozzi non se
pôle be’ più, dice che c’è ’n sacco
de nitràdi. Cuélla ’olta non se fèra
la pròa dell’aqua e non se sapìa sci
era potàbole. Quanno isci séde te
’taccai la bocca ’nté la callaròla, ne
tiràsci anca mezzo lidro, e non se
pensàa gnè. Adè se bée cuélla delle
bottìje, ma chi te dice sci cuélla è
scigura?
A pensà’ che ’n’amiga mia gèra
a fa’ l’erba in giro perché ’l campo
non ce lìa, e cìa ’mpo’ de cunìi. Ha
ditto troppe le ’olte bevìa l’aqua del
fiume, quanno facìa tre o quattro
chilomedri a pìa co’ ’n gran fascio
su le spalle.
Quanno era tanto callo, buttàa giù ’l fascio dell’erba, fèra ’na
buganella ’nté ’l fiume, se mettìa a
’nginòcchio e bevìa. Questo è vero:
è vivi chi l’arconta! Adè’ l’aqua del
fiume n’è bòna mango pe’ lavà’!
pulivamo tutti gli anni d’estate, quando di acqua ce n’era poca. La tiravamo
fuori tutta, finché si riempiva la calderella. Dopo ci entrava babbo: prendeva un bastone con una corda in mezzo
alle gambe, legata in questo bastone, e
andava giù piano piano. Noi, in due,
tenevamo forte la corda, che passava
sulla carrucola ben fissata. Lo puliva
(il pozzo) a specchio. E dava gusto bere
quell’acqua, ci veniva tutto il circondario a prendere quest’acqua, perché era
profondo settanta file di mattoni, era
molto profondo.
Adesso l’acqua nei pozzi non si
può più bere, si dice che ci sono tanti
nitrati. Quella volta non si facevano
le analisi dell’acqua e non si sapeva se era potabile. Quando avevi sete
attaccavi la bocca nella calderella, ne
ingoiavi anche mezzo litro, e non si
pensava a niente. Adesso si beve quella
delle bottiglie, ma chi ti dice che quella
è sicura?
A pensare che una mia amica andava a fare l’erba in giro, perché non
aveva il campo e aveva alcuni conigli.
Ha detto che troppe volte lei beveva
l’acqua del fiume, quando faceva tre
quattro chilometri a piedi con un gran
fascio sulle spalle. Quando era tanto
caldo, buttava a terra il fascio dell’erba, faceva una buchetta nel fiume, si
metteva in ginocchio e beveva.
Questo è vero: sono vivi quelli che lo
raccontano! Adesso l’acqua del fiume
non è buona nemmeno per lavare!
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Donne de ’na ô e donne d’adè’
Donne di una volta e donne di adesso
Cuélla vo’ c’era solo ’na strada:
fadigà’ giùppe ’l campo oppure fa ’l
contadì’! Era sempre cuélla, ’n n’èra
como adè’ che c’è ’n sacco de strade
ropèrte: capa laóro chi ha voja e po’,
sci è ’mpo’ dura, lassa gi’! Quanno è
’l sabbedo c’è la piazza pîna, envéce d’amparà’ a fa’ cualchiccò. Dicìa
nonna mia: “’Mpara l’arte e mettelo
da ’na parte!” Va be’ che ai tempi
nostri sci era como adè’, anch’io
sarìa stada ’mbizziósa, como queste
d’adè’.
Adè’ v’arcónto que m’è capidàdo.
’Mpo’ d’anni fa semo gidi a ’na gida
e io era ’rmasta ’mpo’ arèdo. Gèmma
a véde’ ’n tempio, s’avvicina ’n’ômo
’mpo’ vecchietto como me e m’ha
ditto: “Vu’, me sa, quanno siàsta
giovena, siàsta bella!” I’hò risposto:
“Dicédelo a mi’ marido, io non so
sci è vero!” Allora vojo di’ che anca
ai tempi nostri, sci ce fusse stada
la possibilità, sarémma stadi più o
meno de questi d’adè’.
Tutta la quistió’ è che non c’émma la libertà, scinó i pezzi erane li
stessi, solo che cuélla vo’, quann’era
d’istade se coprémma col cappello
de paja, manighe lónghe, per esse’
più cioìle, envece queste d’adè’ va
al mare nude, se fa la lampida, più è
nere e più se piace.
Cuélla vo’ i contadì’ erene prezzàdi ‘suppi de terra’; ’na passada chi
fèra i contadì’ non trovàa mango
moje. Ma dicédeme ’mpo’ vuà: sci
Quella volta c’era solo una strada: lavorare nel campo oppure fare il
contadino. Era sempre quella, non era
come adesso che c’è un sacco di strade
aperte: sceglie il lavoro chi ha voglia e
poi, se questo è un po’ duro, lo lascia
andare. Quando è sabato, c’è la piazza piena, invece di imparare a fare
qualcosa. Diceva nonna mia: “Impara
l’arte e mettela da parte!” Va bene che
ai tempi nostri, se era come adesso,
anch’io sarei stata ambiziosa come
queste di adesso.
Adesso vi racconto che cosa mi è
capitato. Alcuni anni fa siamo andati
a una gita e io ero rimasta un po’ indietro. Andavamo a vedere un tempio, si
avvicina un uomo un po’ vecchietto e
mi ha detto: “Voi, mi sa, quando eravate giovane, eravate bella!” Gli ho risposto: “Ditelo a mio marito, io non so se
è vero!” Allora voglio dire che anche ai
tempi nostri, se ci fosse stata la possibilità, saremmo stati più o meno come
questi di adesso. Tutta la questione è
che non avevamo la libertà, sennò i
pezzi erano gli stessi, solo che quella
volta, quando era l’estate, ci coprivamo con il cappello di paglia, maniche
lunghe, per essere più civili (bianche),
invece queste di adesso vanno al mare
nude, si fanno la lampada, più nere
sono e più si piacciono.
Quella volta i contadini erano stimati ‘suppi di terra’; per un periodo
quelli che facevano i contadini non
trovavano nemmeno moglie. Ma ditemi
455
moje non pïa, i fjòli non nasce più,
’l monno va a finì’. Mah! Me piace de
campà’ qualc’altro anno, per véde’
’mpo’!
voi: se non si prende moglie, i figli non
nascono più, il mondo va a finire. Mah!
Mi piace campare qualche altro anno,
per vedere un po’!
Nozze d’oro
Nozze d’oro
In compenso émo fatto i cinquant’ànni, nozze d’oro. Per destino
ha ’ncontrado stesso mese, stesso
giorno di domeniga, dopo 50 anni
uguale di domeniga. È stado bello
muntubè’, c’era tante maghine, cuélla ’ndó stèmma noà era tutta ’nfioccada, c’era ’l sole co’ la neve. È stado
molto più bello della prima ’olta,
perché c’émma tutti i fiòli e nepodi,
sorelle, parenti stretti dentorno a noà,
generi, nuora, ’na nipode cìa la cinepresa. E la cerimonia è stada bellissima: avémo aùdo anca, per parte de
’na sorella de mi’ marido, ch’è sora a
Roma, due telegrammi dal Vadigàno,
firmadi dal Cardinale Sudàno. E tutta
’sta cerimonia l’ha messa sulla Voce
Misena, che la tengo a conto più de
l’oro.
Mi’ fjòla, che fa ’l fottografo a
Pesaro, m’ha fatto ’n album pîno de
’st’arsomèi de tutte le qualità.. C’émo
aùdo ’n sacco de regali, perfino la
televisió a colori, ’l vidio registradore, anello, servizzi, linsòli, robba intima, nome d’oro e tante altre cose. I
linsòli me basta finché campo e po’
s’avansarà.
Quanno ’rguardo la cassetta, me
In compenso abbiamo fatto i cinquant’anni, le nozze d’oro. Dopo cinquant’anni, per destino ha incontrato
lo stesso mese, lo stesso giorno di domenica. È stato molto bello, c’erano tante
macchine; quella dove stavamo noi era
tutta infioccata, c’era il sole con la neve.
È stato molto più bello della prima volta,
perché avevamo attorno a noi tutti i
figli, i nipoti, le sorelle, parenti stretti,
generi, nuora, una nipote aveva la cinepresa. E la cerimonia è stata bellissima:
abbiamo avuto anche, per merito di
una sorella di mio marito, che è suora
a Roma, due telegrammi dal Vaticano,
firmati dal Cardinale Sodano. E tutta
questa cerimonia l’hanno messa su “La
voce misena”, che tengo a conto più
dell’oro.
Mia figlia, che fa il fotografo a
Pesaro, mi ha fatto un album pieno di
fotografie di tutte le qualità. Abbiamo
avuto un sacco di regali, perfino la
televisione a colori, il videoregistratore, anello, servizi, lenzuola, biancheria
intima, nome in oro e tante altre cose.
Le lenzuola mi basteranno finché campo
e poi mi avanzeranno.
Quando riguardo la videocassetta,
mi pare di sognare, non mi pare vero.
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pare de ’nsumbià’, non pare ’l vero.
Questo sogno, in dialetto si dice
’nsùmbio: è stado veramente indimenticabile. Adè sci ié se fèsse a
rivà’ al 2003, sarìa bello anche troppo a fa’ sessant’anni insieme, sci non
altro per fa’ véde’ a cuélli d’oggi, fàje
capì’ che bisogna sopportasse da uno
co’ l’altro, sci non altro a fàllo pei fii.
Dicìa l’antenadi nostri: “Da per tutto
c’è da discore, da fa’ a quistió’, anca
i piatti ’nté la scaffa se move da per
lora, però s’assesta, non se rompe!”
Sarà tutti proverbi dei vecchi!
Questi d’oggi non li vôle sentì’ ’sti
dittadi, basta che dice: “Se fessarìe
manco a ’rcontàlle! Envece c’è cualchidù, ’mbelpo’ più astudi de lora che
l’apprezza, e fanne be’ ’mbelpo’. Io ié
digo: “Tenéde a conto anche le mille
lire, perché babbo dicìa “scì ’n ci’hai
’l centesimo non ce la fai a fa’ la lira!”
Per fa’ la lira ce volìa venti soldi, pe’
fa’ ’n soldo venti centè’ e se cìsci 99
centesimi, non iéla fèsci a fa’ ’na lira.
E questo è ’n dittado vecchio più de
me!
Però bisogna tenéllo drendo al
cervello, sci volemo gi’ avanti sensa
tanti lamenti; adesso se magna troppo, se sprega ’mbelpò’: pagni, scarpe, parrucchiera, tutti i divertimenti,
tutti profumi, dall’estetiste… Po’ sci
vai a guardalle alla madina quanno se
alsa, cuéste donne chì, c’è diferenza
como ’l giorno e la notte.
’Nvece al tempo de noà sci te
dèsci ’mpo ’de cipria, dicìa che fusci
cascada drendo ’l sacco della fari-
Questo sogno in dialetto si dice “’nsùmbio”: è stato veramente indimenticabile.
Adesso se gliela facessimo ad arrivare
al 2003, sarebbe bello anche troppo fare
i sessant’anni insieme, se non altro per
far vedere a quelli d’oggi, far loro capire
che bisogna sopportarsi l’uno con l’altro,
se non altro farlo per i figli. Dicevano
gli antenati nostri: “Dappertutto c’è da
discorrere, fare a questione, anche i
piatti nello scaffale si muovono da soli,
però si assestano e non si rompono!”
Saranno tutti proverbi dei vecchi!
Questi d’oggi non li vogliono sentire questi ‘dittàdi’, basta che dicono: “Queste
fesserie nemmeno a raccontarle! Invece
ci sono alcuni, molto più astuti di loro,
che li apprezzano, e fanno molto bene. Io
gli dico: “Tenete a conto anche le mille
lire, perché babbo diceva “se non hai il
centesimo non riesci a fare la lira!” Per
fare la lira ci volevano venti soldi, per
fare un soldo venti centesimi e se avevi
novantanove centesimi non gliela facevi a fare una lira. E questo è un detto
vecchio più di me!
Però bisogna tenerlo dentro il cervello, se vogliamo andare avanti senza
tanti lamenti; adesso si mangia troppo,
si spreca molto: vestiti, scarpe, parrucchiera, tutti i divertimenti, tutti
profumi, dalle estetiste… Poi se vai a
guardarle la mattina, quando si alzano,
queste donne qui, c’è la differenza come
tra il giorno e la notte.
Invece al tempo nostro, se ti mettevi
un po’ di cipria, dicevano che eri cascata dentro il sacco della farina, oppure
dicevano: “Quella ha setacciato per
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na, oppure dicìa “cuélla ha stacciado pe’ fa’ ’l pa’ e non s’è ’rlavada ’l
muso”. E sci ’na contadina se mettìa ’l roscetto ’nté le ganàsce o la
vernice ’ntéll’ogna, era stimàda ’na
ragazza de strada. Le donne le volìa
genuine, era più piaciude de cuélle
della città. Finànta che non c’era la
guerra, quanno se gera a batte, c’era
giovinotti e giovine: sci te truccàsci,
quanno stèsci mezza giornata ’n tra la
polvera, te riducìa malandàda; allora
era meio armàne come Iddio ci’hà
fatto. Se sentìa le ciarle de qualche
ômo che c’era certe donne quanno
era su la piazza fera ’na bella figura,
envece sci le guardasci alla madina,
quanno s’arlevàa dal letto, fera ’n so
ghé de scompagno, ’n’ parìa mango
lora: sci lìi sposada, armanìsci ’mpo’
male. Se dicìa anca: “Smorciado la
luma è tutte uguale!” Prò adè è gambiàdo nigò, anca pe’ noi vecchiarèlli:
c’è i divertimenti de tutte le spece,
sci uno pôle se va alle gide, c’è le
ferie pe’ ansiàni… Sci uno vôle cuéi
du’ soldi de pensiô’ ce l’arvôle tutti.
Pe’ ’n conto è ’na cosa bella , scinó
noaltri vecchi non sapémma mango
quanto fa due più due.
fare il pane e non si è lavata di nuovo
il muso!” E se una contadina si metteva il rossetto o lo smalto nelle unghie,
era giudicata una ragazza di strada.
Le donne le volevano genuine, (queste) piacevano di più di quelle di città.
Finché non c’era la guerra, quando si
andava a trebbiare, c’erano i giovanotti
e le giovani: se ti truccavi, quando stavi
mezza giornata tra la polvere, diventavi proprio malandata; allora era meglio
rimanere come Iddio ci