i giorni della guerra - Le parole di Sara

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i giorni della guerra - Le parole di Sara
SARA A. RUBAGOTTI
I GIORNI DELLA GUERRA
www.miolibro.it
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I Giorni della Guerra
di Sara A. Rubagotti
Proprietà letteraria riservata
©2010 www.miolibro.it
E-mail: [email protected]
Sito: www.sararubagotti.altervista.org
I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.
Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta o utilizzata
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A Francesco per la pazienza...
e la pazienza...
e ancora tanta pazienza.
Ma la pazienza è la virtù dei forti, soldato.
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Can't you see that I'm stuck here underneath
And you're making it hard to breathe
So take a look around and tell me what you see
You'll find me underneath
If only you could feel what I dream
Maybe you could hear what I mean
There is nothing gone
But there's something missing
( I.Hanson – T.Hanson – Z.Hanson)
Non puoi vedere che sono bloccato qui sotto
E mi rendi difficile respirare
Allora dai un'occhiata intorno e dimmi quello che vedi
mi troverai sul fondo
Se solo tu potessi sentire quello che io sogno
Forse capiresti quello che voglio dire
Non c'è niente che non vada
Ma c'è qualcosa che manca
( “Underneath” di I.Hanson – T.Hanson – Z.Hanson)
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PROLOGO
Sto aspettando da tanto tempo.
Io sono qua, sulle mura di questo castello ed aspetto. Un segno, un
odore, un rumore, un singolo granello di te. Di voi. Di noi. E mentre
aspetto, l'attesa mi divora. La sento che rosicchia i nervi, si nutre della
mia disperazione, della mia nostalgia, delle lacrime che verso ogni
giorno della nostra lontananza.
Perché non so dove tu sia, amore mio.
Non ho idea di come tu stia: mangi a sufficienza? Dormi? Sei al
caldo? Sei al sicuro?
L'estate ormai sta finendo. Vorrei fermarla, vorrei che ci fosse
sempre il caldo, vorrei che non fosse passato così tanto tempo
dall'ultima volta che ti ho visto. Vorrei trattenere le foglie sugli alberi,
vorrei non sentire il freddo che si alza, vorrei che le giornate non si
accorciassero e vorrei che nulla mi ricordasse che sono diciotto mesi
che non sei più con me.
Guardo le foglie che cadono. Ondeggiano eleganti verso la terra, la
coprono dolcemente, come la trapunta che avevo cucito per il nostro
lettone matrimoniale. E come facevamo noi, sotto la trapunta di piume
d'oca e lana, anche la terra viene protetta e scaldata in vista del
prossimo inverno.
Il freddo sarà intollerabile.
Dove sei, amore? Amore mio, come faccio a prenderti?
Con lo sguardo cerco di andare oltre queste montagne, superare le
colline e poi le paludi, attraversare le pianure, guadare fiumi e torrenti,
superare le città degli uomini, i loro campi coltivati, le foreste
inaccessibili, e raggiungere il mare che non conosco, imbarcarmi sulla
distesa blu cobalto e scivolare verso di te, raggiungere la terra gelata
della neve perenne; vengo a cercarti sotto terra. Quanta strada, amore
mio. Ma non è abbastanza perché io mi arrenda. Lo è perché il cuore si
laceri per la mancanza.
Provo ad allungare le mani. Provo a toccarti con gli occhi della
mente, con il tatto dei ricordi; infondo il mio fiato nel tuo, ti amo come
farei e come ho fatto nel ricordo.
Ormai, posso solo ricordare. Di più, non mi è dato.
Dimmi dei nostri figli. Stanno bene? Mangiano? Dormono? Sono al
sicuro? Si ricordano di me? Di noi? Della nostra famiglia? E tu, ricordi
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la nostra famiglia? Ricordi che cos'eravamo noi nel periodo di pace?
E ora, dov'è la pace? Che cos'è la pace?
So che c'è stato un momento di pace per noi. Era la sera al tramonto
d'estate, seduti sotto l'ippocastano, dopo aver messo a letto i nostri
piccoli. Eravamo io e te che parlavamo del passato e del futuro, dei
nostri progetti, dei nostri figli, della piccola, banale, straordinaria
quotidianità. Tu ti accendevi la pipa, io cucivo. Alcune volte intagliavi
piccoli animali di legno per i nostri bambini. Alcune volte sedevamo
l'uno fianco all'altra e godevamo della quiete della sera. Ci
raccontavamo la vita. Molto spesso aspettavamo la notte in attesa
dell'amore benedetto dalle stelle. Il pane per la colazione cuoceva nel
forno e noi aspettavamo che fosse pronto. Alcune sere ti offrivo bicchieri
di amaro che avevo imparato a fare per te, poi ti offrivo una sigaretta,
poi le mie labbra e poi ancora tutto ciò che volevi prendere di me.
La pace era il tempo in cui aspettavamo. La pace era quel tempo in
cui parlavamo.
Adesso sta per tornare l'inverno gelido, intollerabile. L'inverno che
non aspetta. L'inverno che non ha tempo.
Il tempo è maledetto. Scorre via, implacabile e rimane sulle mani,
nell'istante in cui io alzavo gli occhi su di te e mi meravigliavo della tua
bellezza. Delle labbra che tenevano la sigaretta, degli occhi maliziosi ed
appassionati, delle labbra curve nel sorriso.
I ricordi sono una tortura subdola.
Desidero disperatamente tenere lontani da me i vostri visi, quelli che
accarezzavo, che seguivo ogni giorno, dal momento in cui mi alzavo a
quello in cui mi coricavo. Senza i vostri ricordi, però, non mi riesce di
mangiare né dormire, sono cieca e sorda. Procedo a tentoni ed allo
stesso tempo barcollo, giorno dopo giorno.
Nonostante tutto, preferisco soffrire che arrendermi.
Allungo le mani oltre queste mura e supero le montagne, le colline e
le paludi; riesco a guadare i fiumi, attraversare il mare e finalmente
toccarvi con le mani della speranza.
Perché io sono viva.
Ed ora so che anche voi lo siete.
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CAPITOLO 1.
1.
I passi di Corin risuonavano nelle alte volte del castello sotterraneo di
Hoss. La spada Co'ah, la Spada del Valore, batteva ritmicamente contro
il ferro battuto e finemente decorato dei suoi parastinchi di marmo nero
lavorato. Produceva un rumore acuto, che riempiva lo spazio attorno a
lui. Il mantello di cuoio impermeabile all'esterno e di morbida e calda
lana mista all'interno si sollevava ad ogni suo passo, gli stivali pestavano
il pavimento con la solita autorità, quella del Generale.
Perché lui era il Generale. Il Primo Generale del Re.
Corin era felice di vestire nuovamente la sua divisa conquistata sui
campi di battaglia, conquistata per difendere il popolo di Hakne,
conquistata con le gravi perdite della sua vita. Su quella divisa aveva
fatto incidere il nome di suo padre e di sua madre, della sua sorellina, dei
suoi nonni, del suo signore John Henry, della regina, della principessa
Giada, dei defunti principi William ed Orson. Quello di Rebecca. Quella
divisa aveva incisa sopra la sua memoria.
Corin era a disagio nella sua divisa. Sebbene in essa fosse racchiusa
la sua memoria, lui non era più Mastro Mayster e il Capitano d'Aquila né
Jesse Jordan. Chi fosse, egli, il Primo Generale del re, non lo sapeva.
Percorreva i corridoi labirintici del palazzo sotterraneo del suo
signore e si chiedeva chi fosse quell'uomo, quello che pestava i piedi con
tanta autorevolezza, quello con le spalle dritte e fiere, quello che provava
un brivido di eccitazione nell'impugnare la spada forgiata apposta per lui.
Perché quell'uomo non era più lui. Non era quello che aveva sposato la
piccola orfana dagli occhi di smeraldo, quello che aveva costruito la loro
casa, quello che aveva visto nascere i suoi figli, quello che aveva
coltivato la terra e quello che aveva visto bruciare la sua casa e rapire la
sua Bambolina dei Miracoli.
Aveva trentatré anni compiuti da meno di sei mesi e si sentiva un
vecchio sconosciuto. Percorreva i corridoi di quel palazzo immenso con
l'apparente certezza di sapere quello che stava facendo; ed invece non
aveva la minima idea di che cosa sarebbe accaduto ora.
La manina calda del figlio più piccolo, Tommy, di appena tre
anni e mezzo, s'insinuò nella sua grande e possente.
“In braccio” chiese il piccino.
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Corin si fermò. Davanti a lui Maestro Jamie, il fratello del sovrano di
Hakne, John Henry I, rallentò. Con tenerezza l'anziano sacerdote vide il
possente guerriero alto quasi due metri chinarsi verso il bimbo, che si
protendeva con le braccine aperte per aggrapparsi al suo collo. I riccioli
neri di Tommy risplendevano alla fioca luce delle torce alimentate dalla
torba, gli occhi dorati del piccolo guizzavano dal pavimento di granito al
soffitto infinito di quelle volte.
Il palazzo sotterraneo di Hoss era stato costruito centinaia d'anni
prima per la famiglia reale come ultimo baluardo in caso di guerra. Si
trattava di un palazzo ingegnosamente architettato e ricavato nel ventre
della terra perennemente gelata del Nord; poteva dare ospitalità ad oltre
diecimila persone se necessario, ma in quel momento ve n'erano più o
meno un centinaio.
Quando John Henry era fuggito quasi undici anni prima da Hakne per
mettere in salvo ciò che rimaneva della sua famiglia, quel centinaio di
persone era tutto ciò che rimaneva della sua Corte e dei fedeli servitori.
Il suo nemico, Jacob di Weer, aveva massacrato e distrutto tutto ciò che
aveva trovato sul suo cammino.
Dalle altissime volte del palazzo pendevano lampadari enormi, ma la
loro luce era così fioca che non si riusciva a vedere il soffitto e sembrava
che non vi fosse fine. Era quello ciò che stava fissando Tommy adesso.
“Tutto bene?” domandò Maestro Jamie a Corin.
Corin si era soffermato a scrutare il figlioletto, sovrappensiero. “Sì,
sì” rispose frettoloso.
“Dovete aver pazienza, ragazzi. - disse con allegria l'anziano agli altri
due figli di Corin, Jesse di nove anni e Mark di sei e mezzo – Per tutti
noi rivedere vostro padre è motivo di grande gioia”.
“Perchè lui è Mastro Mayster!” ribatté impettito ed eccitato il
vivacissimo Mark. Il bambino era nato e cresciuto – come quasi tutti i
bambini di Hakne – con la leggenda del Primo Generale del re. Mastro
Mayster, il guerriero che li aveva liberati dalla ferocia del sanguinario
Barone di Weer... quel Mastro Mayster era suo padre!
“Già, Mastro Mayster” ringhiò Jesse, incenerendo suo padre con gli
occhi di smeraldo ereditati dalla madre.
Ci fu un secondo di silenzio teso.
Jesse era furente e Corin sapeva che ne aveva tutte le ragioni. Perciò
distolse lo sguardo da lui e fissò il pavimento.
Il bambino stava per prendere fiato e urlare ancora una volta la sua
ira, quando qualcosa lo bloccò e si morse le labbra con violenza. Se si
fosse infuriato un'altra volta, avrebbe pianto un'altra volta e quella era
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una soddisfazione che al suo eroico padre non voleva assolutamente
dare.
Non come poco prima.
Non come quando lo aveva visto con l'elmo addosso del Capitano
d'Aquila, quando aveva capito finalmente perché suo padre sapesse
smontare le travi della loro casa per sbarrare la porta ai nemici, perché
avesse pronto il bagaglio per la fuga, perché sapesse dove andare a
rifugiarsi, a combattere, a guidare eserciti e andare a cercare la famiglia
reale. E, nel momento in cui la verità lo aveva assalito, era stato travolto
da un'ondata d'ira e odio – sì, proprio odio – per Corin. Per quell'uomo
che gli aveva dato la vita ed aveva pianto per la madre Rebecca, per il
guerriero che lo aveva addestrato a combattere ed obbedire nonostante
avesse solo nove anni e per quell'uomo che non aveva salvato l'adorata
madre. Pur essendo Mastro Mayster.
“Perché non l'hai salvata? Perché non hai salvato la mamma se tu sei il
Capitano d'Aquila?” gli aveva gridato.
Corin non aveva risposto e Jesse era diventato folle di rabbia. Sua
madre! Non vedeva sua madre da quasi sedici mesi e suo padre, il
Capitano d'Aquila, non era andato a salvarla!
Suo padre gli aveva mentito.
“Brutto bastardo, perché non l'hai salvata?” aveva urlato il bambino di
nove anni a suo padre, Primo Generale del re.
Per Corin era stata una stilettata al cuore.
Perché non l'aveva salvata? - Come avrebbe fatto a spiegare a suo
figlio Jesse che sua madre, quella donna che era alta meno di un metro e
sessanta e dalla forza possente di una combattente, gli aveva fatto
giurare di metterli in salvo, in caso di pericolo? Per tre volte – ad ognuna
delle nascite – Corin era stato costretto a giurare che, in caso di
necessità, i bambini sarebbero stati i primi ad essere messi in salvo.
Anche a costo della sua vita. No, Jesse non l'avrebbe capito. Jesse aveva
solo nove anni e non sapeva che agli occhi verde smeraldo di Rebecca
non si poteva giurare il falso né mentire. Così, quando il loro villaggio
era stato attaccato, Corin era stato costretto a mettere in salvo i bambini.
Pur avendo Rebecca a meno di trenta metri di distanza, tra le mani
del Soldato Rosso. Tra loro c'era stato un lungo discorso fatto in pochi
attimi, un discorso dove lei tratteneva le lacrime di paura, sorrideva a
suo marito, all'amante ed a tutto ciò che era la sua famiglia. Lei non
dimenticava la sua promessa e Corin non scordò i suoi tre giuramenti.
No, non avrebbe potuto spiegare questo a Jesse.
E davanti al ringhio pieno d'odio di suo figlio Corin avrebbe voluto
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essere annientato. Perché aveva cercato di fare del suo meglio,
proteggendolo dalla verità bastarda; perché suo figlio meritava di più,
suo figlio che aveva imparato a marciare e combattere, che aveva ucciso
un uomo senza saperlo per proteggere i suoi fratellini.
Si era aspettato la rabbia, Corin. Si era aspettato l'astio e la
disperazione. Ma non l'odio. No, per quello non era affatto pronto. Se
solo qualcuno gli avesse detto che qualunque genitore si sente annientare
davanti all'odio dei figli!
Corin aveva fatto il gesto di allungare la mano verso Jesse, come per
consolarlo – e consolarsi – ma il bambino si era discostato con violenza.
“Non mi toccare!” aveva gridato.
“Jesse...” aveva provato a dire il padre.
Jesse era così furibondo da tremare. Non aveva mai provato un'ira
così bruciante. Totale. Tale da portarlo a tremare tutto, da sentire la gola
piena di fuoco e gli occhi straripanti di pianto. Si odiò per quello e odiò
l'uomo che gli aveva dato la vita.
L'uomo che gli aveva mentito.
“Bastardo...!” gli urlò con tutto il fiato che aveva nel corpo e lo caricò
con tutto il peso dei suoi trentacinque chilogrammi. Lo caricò come
farebbe un toro e con la tecnica combattiva che gli stava insegnando suo
padre: il risultato fu di vedere Corin barcollare all'indietro.
Jesse era suo figlio: prometteva di diventare alto come lui e forse più
forte; i capelli corvini mossi che gli coprivano la fronte e gli occhi verde
smeraldo, il viso ovale, affilato, la bocca carnosa strafottente. Ora
piegata in quella smorfia piena d'ira.
Corin incassò tutte le botte che suo figlio gli diede, senza dire una
parola e senza fare un solo gesto. Si preoccupò solo che gli altri due
bambini non si mettessero in mezzo a loro. Ma né Tommy né Mark ne
ebbero il coraggio.
Poi una lacrima colse Jesse di sorpresa. E poi un'altra.
Il bambino non capiva che cosa fosse quell'emozione devastante,
nonostante avesse visto gli uomini morire, nonostante avesse marciato
con i feriti, nonostante avesse convissuto per mesi con la paura di
rimanere da solo a dover badare ai suoi fratellini.
Solo quando alla prima lacrima ne seguì un'altra ed un'altra ancora,
Jesse smise di picchiare suo padre e si accasciò per terra, senza più forze.
Corin s'inginocchiò accanto al figlio prediletto e prese tra le mani il
piccolo viso del combattente.
“Mi dispiace, piccolo” mormorò con voce rotta. - Mi dispiace, bambino
mio. Mi dispiace non essere riuscito a spiegarti. Spiegarti quanto è
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immenso il dolore che provo quando vi guardo e nei vostri occhi vedo
vostra madre, la mia Bambolina dei Miracoli. Non sai nemmeno quante
volte la sogno di notte, se e quando dormo, né quante sono le volte che
vedo il suo fantasma vicino a me, che galleggia nell’aria, come la
speranza. Ho provato, Jesse, ho provato a prenderla, ma lei mi ha fatto
giurare che mi sarei preso cura di voi. Mi avrebbe odiato, se avessi
mancato all’unico giuramento che aveva preteso da me. Lei vi ha dato la
vita ed ha concesso a me, ad un uomo semplice, di baciare ogni giorno
le vostre teste. Jesse, figlio mio, quante cose dovrei spiegarti.
Solo quando i singhiozzi di Jesse si erano affievoliti, Corin si era reso
conto della presenza di Maestro Jamie. Da quanto tempo era presente?
Quanto aveva visto? Gli occhi carichi di tristezza dell'anziano sacerdote
dissero molte cose a Mastro Mayster.
“Siete pronti?” aveva infine domandato.
“Sì” aveva risposto Corin con un sospiro.
“Andrea vi sta aspettando”.
Andrea, l'ermafrodita che proteggeva i tre figli di Corin in sua
assenza e che gli doveva la vita, storse la bocca in una smorfia di stupore
e amarezza quando lo vide. Lo riconobbe subito.
“Sono davvero un'ingenua” disse solamente.
Corin aprì la bocca per dire qualcosa – una qualunque cosa, purché
smettessero di fissarlo così -, ma lei gli fece un cenno con la mano. Non
c'era nulla da dire, era abbastanza delusa da se stessa per non aver capito
prima. Eppure capire non avrebbe dovuto essere così difficile: una sola
persona conosceva la residenza di Hoss del sovrano, una sola persona
poteva combattere come Mastro Mayster e organizzare dal nulla un
esercito. Non si trattava di un altro miracolo, si trattava sempre dello
stesso miracolo. Sempre di Mastro Mayster.
Adesso Jesse distolse lo sguardo da lui, nel corridoio – Jesse,
guardami. Jesse, sono papà.
Fu assalito di nuovo dalla nauseante sensazione della diversità. Corin
era il padre di Jesse, Corin era il Primo Generale del re, Corin era Mastro
Mayster. Corin era solo un uomo che agli occhi del mondo spiccava per
il suo coraggio, a se stesso spiccava perché per un lungo periodo non
aveva più avuto nulla da perdere.
Corin era stato insignito delle cariche militari più alte, era stato
osannato, era stato elevato ad eroe nelle ballate. Corin era quasi un dio
per la gente di Hakne e quando si levava gli stivali e mantello dopo una
lunga battaglia era un uomo esausto che nessuno vedeva.
Finché gli occhi di una ragazzina dodicenne non si erano posati nei
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suoi. Lei aveva letto la stanchezza e la solitudine del guerriero; aveva
visto l'uomo e lo aveva amato con la forza di un amore così giovane.
Dodici anni sono pochi? Corin allora ne aveva poco più di diciannove e
si era innamorato di lei e degli occhi che videro l'uomo.
Rebecca.
Rebecca si era chinata su di lui e aveva mostrato la via per la felicità
dell'uomo. Aveva accarezzato le sue ferite del corpo e dell'anima e gli
aveva dato un motivo per sperare in qualcosa di migliore. Rebecca lo
aveva aspettato per tre anni, rifuggendo alle lusinghe dei Corteggiatori,
alle insistenze di chi la voleva sposare contro la sua volontà e lo aveva
aspettato in un giorno caldo di fine estate, con i piedi immersi nel mosto
e la gonna tirata su sulle gambe. Gli aveva buttato le braccia al collo ed
aveva pianto di felicità e commozione, gli aveva servito il vino, gli aveva
servito se stessa sotto la notte stellata dell'estate successiva. Gli aveva
dato tre figli – e mezzo – e si era sacrificata per concedere loro la via di
fuga.
Ora, senza lei, Corin aveva perduto la sua identità. Dentro quella
divisa trovava incisa la sua memoria ed allo stesso tempo quella
memoria gli apparteneva a metà. L'altra metà era dinanzi a lui, che
voltava lo sguardo per non vederlo. Per non credere più in lui. In quel
momento Jesse di Makma non credeva più in nulla.
“John ci sta aspettando” ingiunse Maestro Jamie.
“Sì, certo”.
Ripresero a camminare.
“Papà, mi dai la mano?” trillò Mark.
“Adesso me lo chiedi anche?” sorrise beffardo Corin.
“Ma tu sei Mastro Mayster!”
“Davvero? Non me n'ero accorto”.
Mark ci mise qualche istante per capire che lo stava prendendo in
giro. Rise eccitato dalla novità di avere come padre il suo eroe.
Grazie alla Dea, Tommy era troppo piccino per rendersi conto della
novità.
Percorsero ancora dieci minuti di corridoi e scale, fino a raggiungere
gli immensi portoni dell'appartamento reale. Due guardie erano di ritte in
piedi, impettite e con aria beata ed eccitata sul volto. I loro sorrisi si
ampliarono quando scorsero Mastro Mayster giungere.
“Bentornato, signore” disse quello a sinistra del portone. Un uomo sulla
cinquantina, tarchiato e dalle sopracciglia così spesse da essere unite. Il
suo sorriso era smagliante e lo faceva assomigliare ad una rana per via di
quelle labbra spesse.
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“Grazie, caporale. - Corin cercò nella memoria il nome di quell'uomo,
ma non lo trovò – Sono felice di vedere che state bene”.
“Solo un po' annoiati, Generale. Ci possiamo permettere di offrirvi un
bicchiere di vino e qualcosa da mangiare nei nostri alloggiamenti più
tardi?”
“Sarà un vero piacere, ragazzi. E preparate anche le carte”.
“Consideratelo già fatto” sogghignò il caporale.
“A dopo”.
“A dopo, Generale” si misero sull'attenti e aprirono il portone.
“Papà, ma conosci tutti?” sussurrò Mark aggrappato alla sua mano. I
due soldati lo udirono e sorrisero.
“Vostro padre è conosciuto ovunque, bambini. - intervenne Maestro
Jamie, prendendo l'altra manina di Mark – Prima della tregua, villaggi
interi facevano a gara per averlo ospite”.
“Però è andato solo in quello della mamma” esultò il piccolo.
“No, sono tornato per la mamma” borbottò Corin.
Maestro Jamie incrociò il suo sguardo e vi lesse la malinconia mista
al dolore della lontananza. Tornare ora da Rebecca continuava ad essere
ciò che Mastro Mayster voleva più di ogni altra cosa.
Non appena le porte si furono spalancate, una luce accecante indusse
Jesse a coprirsi gli occhi. L'illuminazione fioca del resto del palazzo
aveva abituato i suoi occhi al buio; ora la luce intensa di quella stanza lo
costrinse a mascherarseli. Non si accorse anche di trattenere il fiato.
“Apri gli occhi, sciocco” gli sussurrò Andrea al di sopra della spalla.
Non le rispose. Gli bruciavano gli occhi. Ci mise qualche secondo per
mettere a fuoco l'appartamento reale. Con uno stratagemma ingegnoso,
uno specchio catturava la luce del sole intenso dell'esterno ed un sistema
di specchi la rifletteva nella sala. Sempre questi stessi specchi
riflettevano le fiamme dei bracieri e così si aveva l'impressione che
l'enorme sala fosse immersa nella luce. Faceva decisamente più caldo
che nel resto del palazzo.
“Jesse, guarda” Mark tirò la manica del fratello maggiore per catturare
la sua attenzione.
Il pavimento dell'intera sala era ricoperto da una superficie lanosa
morbida e calda, color ruggine.
Di per sé la sala del re era piuttosto spoglia, a parte gli imponenti
arazzi che tappezzavano le pareti con scene bucoliche. Rispetto alla porta
dalla quale erano entrati, di fronte c'era l'enorme camino con un divano,
due poltrone ed un paio di tavolini dinanzi, a sinistra una tavola in grado
di ospitare una dozzina di commensali e sulla destra un angolo con una
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lunga libreria.
Un uomo attendeva in piedi, davanti al grande camino.
Corin trasse un sospiro. Mise giù Tommy e sfiorò distrattamente le
teste di Jesse e Mark. Quindi avanzò.
Ogni passo una domanda.
Come state, mio signore?
Vi ricordate di me?
Vi ricordate del vostro Regno?
Vi ricordate che avete ricevuto in carico la vita di tutti noi?
Vi ricordate che cos’è il coraggio?
Perché ve ne siete rimasto qui nascosto così a lungo?
Coprì lo spazio che c’era tra lui ed il re in meno di dieci passi. E gli
anni procedevano a ritroso, mentre si avvicinava.
2.
L'acclamato Capitano d'Aquila aveva diciassette anni quando un messo
del sovrano John Henry si presentò nella sua tenda grezza per
annunciargli di essere stato caldamente invitato a presentarsi a Corte.
J.J. - usava ancora il nome di battesimo – quasi cadde dalla sedia
per la sorpresa.
I suoi ufficiali commentarono immediatamente quella convocazione,
alcuni nel bene, altri nel male. Era unanime però la convinzione che il
Capitano d'Aquila era ciò che serviva al Grande Regno per sconfiggere
Jacob di Weer e la sua armata di Soldati Rossi – creature di nate dalla
magia e composte di vegetali, con i brillanti occhi color rubino da cui
prendevano il nome.
J.J. lasciò l'accampamento nelle terre di Tulle per recarsi ad Hakne,
nella capitale. Era eccitato e confuso allo stesso tempo. Che cosa voleva
il re da lui? Che cosa avrebbe fatto una volta a Corte? Che cosa avrebbe
detto? Aveva incontrato i nobili cavalieri poche volte sul campo di
battaglia e tutti erano rimasti nelle retrovie, mentre lui si buttava nella
mischia con i suoi uomini. A quei pochi nobili cavalieri aveva rivolto
appena la parola, preferendo la massa dei soldati. Là almeno nessuno
giudicava il suo aspetto rude e il numero di parolacce con cui condiva
ogni frase.
Ma presentarsi al re... un'occasione unica nella vita. Soprattutto per
chiedere di mandare rinforzi, viste le ultime perdite. E guardare in
faccia quell'uomo per cui stava combattendo, quello che suo padre gli
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aveva imposto di rispettare a prescindere dal fatto che lo conoscesse
oppure no.
Se li mangiò i chilometri che lo separavano da Hakne.
Ad Hakne non vide e non sentì nulla di ciò che lo circondò, tanto era
concentrato sui suoi pensieri. Persino il messo che lo stava
accompagnando si stupì dell'assoluta indifferenza del Capitano d'Aquila
alla capitale fiorente e ricca di commerci.
Di quel primo viaggio ad Hakne J.J. serbò il ricordo di centinaia di
persone che lo fissavano ammutolite, stupefatte per la sua prestanza ed
il suo aspetto di guerriero. Qualche ragazza divenne paonazza e lo seguì
fino al Palazzo Reale, colpita dalla sicurezza e dalla forza di quel
giovane combattente. Andava anche detto che J.J., a diciassette anni,
era alto un metro e novantacinque, ricci capelli corvini tenuti cortissimi
e l'espressione di chi non ha più nulla da perdere.
Perché non aveva più nulla da perdere. Non aveva più una famiglia,
non aveva più amici e lentamente stava perdendo se stesso in quella
guerra.
Negli ultimi mesi ricordava a stento il motivo per cui stava
combattendo.
Ecco cosa videro le fanciulle colpite dal mal d'amore per lui. Un
uomo di mondo da conquistare.
Arrivato al Palazzo Reale le guardie batterono gli occhi più e più
volte davanti al suo viso giovanissimo: il Capitano d'Aquila?
Lo condussero nelle stanze che gli erano state adibite e J.J. credette
ad un errore quando vide tutto quel lusso. Fu lasciato da solo in attesa
di un bagno caldo e gli occhi del ragazzo si riempirono di lacrime. Sua
madre avrebbe desiderato almeno una volta dormire in lenzuola di seta
e sua nonna avrebbe pianto per avvolgersi in quelle coperte di
cashemere.
Era la prima volta da quattro anni a quella parte che si trovava in
una casa.
Entrò la giovane cameriera con quattro giovanotti a portare il
bagno. Lo vide, gli sorrise impacciata ed eccitata. Era chiaro che aveva
chiesto espressamente di poterlo servire. Si aggirò ancheggiando per
sistemargli il bagno.
J.J. la fissò ancheggiare ed attese che i quattro ragazzini se ne
andassero.
“Avete qualche altro desiderio, Capitano?” ammiccò lei non appena
furono da soli.
Lui lasciò gli occhi correre sulla scollatura che lei aveva
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generosamente aperto e scorse la luce di quegli occhi azzurri, un po'
acquosi, che lo fissavano.
“Devo fare il bagno, aiutami” le disse solamente.
Tutto sommato quella giovane cameriera di poco più vecchia di lui
non gli dispiaceva. Non lo entusiasmava più di tanto, ma neppure era da
buttare via. E lui aveva diciassette anni, solo diciassette anni.
Dopo, andò molto meglio. Era meno teso e quando fu chiamato per
andare dal sovrano le gambe avevano smesso di tremargli. Della
giovane cameriera non ricordava granché, forse doveva avergli detto il
suo nome, ma lui non ricordava.
Di quel giorno J.J. ricordò le porte della sala delle udienze aprirsi e
del silenzio assoluto che lo accolse.
Ricordò l'abbagliante bellezza della coppia dei sovrani. John Henry
era un uomo snello e longilineo, il viso senza rughe e la luce adorante
negli occhi per sua moglie e la sua famiglia. Di Esterella non fu in
grado di dare alcuna descrizione a chi glielo domandò. Esterella era di
una bellezza perfetta. I capelli biondi come l'oro, la pelle bianca di
alabastro, non un neo, non un difetto in tutta la sua persona.
L'espressione era limpida, consapevole del mondo che la circondava ma
ignara di quanto lei fosse così perfetta. Così sorrise apertamente al
giovanissimo Capitano d'Aquila e scese dal trono per andargli incontro.
“Finalmente!” esordì prendendogli le mani. Quelle lavorate e ruvide di
J.J. inghiottirono quelle delicate di lei, ma sembrava tutto tranne che
fragile.
Il ragazzo boccheggiò un saluto ed un inchino alla sua regina e
quindi abbassò il capo davanti a John Henry.
Il re ebbe un'espressione più consapevole di sua moglie. Aveva
compreso fin dall'inizio che il Capitano d'Aquila era un adolescente
senza adolescenza. Doveva sentirsi a disagio in quella Corte fatta di
pettegoli e ben pensanti.
“Benvenuto, ragazzo” lo salutò con calore.
J.J. non seppe dire null'altro.
Tutto si era aspettato, fuorché che il calore e la comprensione di
quelle due persone che lo accolsero come uno della famiglia. Parlò con
loro della situazione del Regno, delle battaglie, dei soldati, del popolo.
Giocò a carte con William, che aveva tre anni più di lui, e rimase negli
appartamenti della famiglia reale fino a tarda sera.
Esterella mandò i figli a letto - alzò la voce per imporsi come
qualsiasi madre e fece volare uno scappellotto al primogenito che si
permise di protestare – e si sedette con suo marito di fronte al Capitano
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d'Aquila.
“Parlami di te” lo esortò con dolcezza appena furono soli.
J.J. ammutolì.
“Dimmi della tua famiglia, ragazzo” ingiunse John Henry, una mano
appoggiata al suo braccio.
J.J. raccontò.
Fu la prima volta che raccontò della morte dei suoi, fu la prima volta
che ricordò la banale e meravigliosa vita quotidiana con la sua
famiglia. E fu la prima volta che sciolse il nodo del dolore. John Henry
ascoltò. Esterella pianse con lui e per lui.
“Sei stato coraggioso, figliolo. - sussurrò con voce rotta il suo signore
– Sono fiero di te”.
Per un istante al giovanissimo Capitano d'Aquila parve di avere
ancora una famiglia e comprese perché suo padre gli avesse imposto il
rispetto per il sovrano. Sembrava il padre del popolo.
3.
Corin provò una fitta allo stomaco quando si rese conto che il padre del
popolo era invecchiato. Provò una fitta al petto per la pena che provò in
quel momento, per sé e per la storia in generale. Gli parve di avere troppi
anni sulle spalle e di essere ancora e di nuovo il giovanissimo guerriero
di quel giorno ad Hakne. Con la dolorosa consapevolezza che questa
volta John Henry non avrebbe risolto la situazione.
Comprese, in un brutale, devastante, istante che adesso sarebbe
toccato a lui prendersi cura di John Henry. Che la vita del suo sovrano –
del padre del popolo – cominciava a declinare, che sarebbe invecchiato e
che sarebbe morto. Che adesso non era più un ragazzo, che ora era un
uomo. Ebbe la conferma ancora una volta della fragilità della vita, ma
non delle emozioni.
Ed era infuriato con John Henry, ma non poteva ignorare il suo
sguardo, che gli lesse dentro e gli annunciava di essere un uomo
invecchiato. Come un padre, che ti aspetti nella casa in cui sei cresciuto
ed ogni volta che torni, perché quella è la tua casa, lo trovi sempre più
curvo su se stesso. Ma rimane tuo padre e lo ami anche di più.
Fu così che le ginocchia del guerriero, marito e padre di tre creature,
cedettero e si ritrovò con il capo chino davanti al suo re – e padre del
popolo.
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“Mio signore” mormorò Corin.
“Figliolo, bentornato”.
John Henry gli fece cenno di alzarsi e lo abbracciò stretto, commosso
fino alle lacrime. Corin si rese conto che si stava appoggiando a lui.
4.
Rebecca invitò gli uomini a seguirla nella stanza con il grande tavolo
rettangolare che aveva adibito a sala delle udienze. C'era una buona
acustica ed era lontana dalle cucine e dalle sale di accoglienza per i
profughi, così quando doveva discutere e prendere le sue decisioni non
veniva interrotta ogni minuto.
Avevano già festeggiato l'Equinozio d'Autunno ed erano ad Alto
Castello da circa sei settimane; la popolazione dei profughi di Madrigal
si era moltiplicata con l'arrivo dei nuovi fuggitivi dalle terre di Tulle.
Attualmente ad Alto Castello c'erano circa duemila anime, di cui buona
parte vecchi, donne e bambini ed un'altra esigua, di uomini.
Loro non venivano da Madrigal. In realtà, pensavano che le donne di
Madrigal, i bambini di Madrigal se la fossero meritata la prigionia di
Madrigal, la schiavitù di Madrigal. A Rebecca quegli uomini fuggitivi
non erano piaciuti fin dall'inizio: si erano insediati nelle casette della
città di Alto Castello, avevano alzato la voce con i vicini provenienti da
Weast ed ora venivano a protestare perché una donna governava Alto
Castello.
Rebecca aveva intuito che ci sarebbero stati problemi fin dai primi arrivi
alla fine della stagione estiva. Gli uomini chiedevano di Spezzacolli e si
vedevano arrivare questa donnina minuta, dall'aspetto tutt'altro che
minaccioso, dai lineamenti inconfondibili di donna, gli occhi di
quell'incredibile smeraldo e le curve di una donna che aveva partorito dei
figli. Rimanevano perplessi soprattutto quando a Rebecca si
accompagnava l'altera ed aitante Freccia Letale, la guerriera che
combatteva principalmente con l'arco e che aveva una mira leggendaria.
Non poteva esserci accoppiata più strana: Freccia Letale era alta, atletica
e forte, le forme di donna erano appena accennate sotto i vestiti da uomo;
Spezzacolli era morbida e con gesti più femminili. Era ovvio che si
pensava subito ad uno scherzo.
Se solo Rebecca avesse sorriso. Rebecca Spezzacolli sorrideva molto
raramente. Era più facile vederla tirare le labbra in qualcosa che
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assomigliava ad un sorriso, ma i suoi occhi non si illuminavano mai.
V'era in essi una luce tetra che metteva in soggezione e quel modo di
scrutare qualcosa che andava ben al di là delle apparenze.
Gli uomini, stanchi del viaggio e disorientati, dovevano prima
pensare alle loro famiglie. Così Rebecca aveva affidato loro delle
abitazioni da rimettere in sesto, poiché Alto Castello era disabitato da
dodici anni, e forniva loro quello che poteva come cibo.
Rendere vivibile la grande fortezza era un'impresa difficile. Alto
Castello era stato costruito dentro e sulla montagna, era circondato su tre
lati dalle vette impervie ed inaccessibili; l'unico passaggio era a sud-est.
Questa posizione faceva della fortezza un luogo inespugnabile. Ma non
abbastanza perché dodici anni prima un uomo al soldo di Jacob di Weer
penetrasse da una via segreta – mai scoperta – e gettasse un incantesimo
sulla regina Esterella. La sovrana era caduta in un sonno profondo simile
alla morte, uno stato catatonico che nessuno era stato in grado di
spezzare.
Dopo quest'ennesima disgrazia, il re John Henry aveva deciso di
nascondersi nella fortezza sotterranea di Hoss; Jacob di Weer aveva
cessato di muovere il suo esercito da lì a poco e il Grande Regno si era
ritrovato in un periodo di tregua senza che nulla fosse stato detto o
scritto.
In quel momento il Grande Regno di Hakne si trovava senza un re e
senza un nemico.
Infine, Jacob di Weer aveva mosso un nuovo esercito, non più
composto di Soldati Rossi, ma anche di uomini in carne ed ossa – ed era
assurdo pensare che degli uomini liberi avessero giurato fedeltà a chi gli
aveva massacrato la famiglia. Era stata la fine della tregua e per molti la
fine della pace.
Alto Castello era rimasta disabitata dopo la partenza del re perché la
gente che l'abitava aveva il timore del fantasma della regina e del
maledetto incantesimo. Quando Rebecca Spezzacolli aveva deciso di
liberare i prigionieri di Madrigal, si era detta che l'unico luogo dove
avrebbe potuto condurli era Alto Castello.
Suo marito Corin – Mastro Mayster – le aveva spiegato come
sopravvivere in caso di assedio e le aveva raccontato che Alto Castello
aveva centinaia di terrazze da poter coltivare e per l'allevamento degli
animali. Inoltre l'acqua veniva tirata su da un sistema di pompe e di
pozzi che attingevano ad una falda acquifera sotto la roccia millenaria ed
era impossibile rimanerne senza.
Per Rebecca la speranza era stata di poter riabbracciare la sua
21
famiglia ad Alto Castello. Solo in seguito aveva saputo che tal Corin il
Fuorilegge, il nuovo nemico di Jacob di Weer, era stanziato a nord-est,
nella Contea di Giallo e che i suoi tre figlioletti lo accompagnavano in
ogni marcia e spedizione. Se solo lo avesse saputo prima, si era detta la
donna milioni di volte, avrebbe portato la “sua” gente nella Contea di
Giallo e non a sud.
Ora non poteva lasciare la guida di Alto Castello. Anche se avrebbe
voluto. Pretendenti non ne mancavano e i sei uomini che la stavano
seguendo verso la stanza delle udienze sarebbero stati ben felici di
sostituirla.
Sarebbero state meno felici le donne che aveva salvato dalla tortura e
dall'orrore di Madrigal. Aveva promesso loro che sarebbero state al
sicuro e con quei sei imbecilli pieni di sé ci si poteva sentire tutto tranne
che rassicurati.
“Giada, il fuoco. - Rebecca fece un cenno all'amica di ravvivare le
braci. Nella sala delle udienze aveva imposto che le braci fossero sempre
vive, poiché ogni giorno ci si riuniva con le compagne per fare il punto
della situazione – Marçela, per favore aiutami a togliere queste carte.
Tray porta dell'altra legna”.
Le tre compagne svolsero veloci i loro compiti, mentre i sei uomini si
stravaccavano sulle sedie e si accedevano le pipe, osservandole. Rebecca
trattenne un'esclamazione di protesta. Il più grosso di loro, Klaus, che
prima della fuga era comproprietario di una bottega di maniscalco, si
sedette a capotavola, sullo scranno un tempo appartenuto a John Henry.
Tray gli andò vicino e con un gesto plateale e violento sbatté sulla
tavola un grosso ciocco di legna. Gli occhi azzurro-grigi socchiusi,
feroci. “Questo posto appartiene a Spezzacolli” sibilò.
Rebecca si fermò per un secondo e tornò a fare ciò che stava facendo,
senza dire nulla.
“Non vedo come...” sogghignò Klaus.
“Alza quel culo molle” inveì Freccia Letale.
“Piccola baldracca, se...”
Intervenne Marçela: “Klaus, fa' il bravo e va al tuo posto. Ora ne
parliamo” il tono della donna era più paziente, ma autorevole. Un misto
di remissività e freddezza.
“Evitiamo di litigare subito” ingiunse Giada.
A Giada, bella com'era, bastava solo aprire bocca per farsi obbedire.
Non che Tray fosse brutta, ma restava il fatto che Giada sembrava
appartenere ad un altro mondo, tanto era perfetta la sua persona: capelli
biondi come grano al sole, la pelle di alabastro senza imperfezioni e gli
22
occhi azzurri come zaffiri. Il naso piccolo, senza gobbe, senza nei,
regolare; la bocca piena a forma di cuore e gli zigomi alti. Il suo
portamento era regale, il corpo statuario, di un'altezza media,
perfettamente proporzionato. Era così meravigliosa da mettere la gente
in soggezione.
Finalmente furono pronti per cominciare la riunione e Rebecca
Spezzacolli si sedette a capotavola, al suo posto. Giada alla sua sinistra,
Tray a destra ed accanto a lei Marçela. Dal lato di Giada, spostati di una
sedia, i sei uomini, con Klaus che aveva preso posizione all'altro capo
del tavolo.
“Sentiamo” esordì Rebecca.
“C'è poco da sentire. - rispose Klaus – Alto Castello ha bisogno di
essere guidato da chi ha competenza. Nessuno di noi vuole criticare
quello che tu e le tue amiche avete fatto, ma si vede benissimo che non è
abbastanza. Non so se mi spiego, ma sta arrivando l'inverno e non mi
pare che ci siano scorte per...”
“Siamo qui da meno di due mesi, Klaus. - interruppe Rebecca - e le
mani sono quelle che sono. Abbiamo pensato di trovare rifugio per le
mille persone che abbiamo liberato a Madrigal. E non so se hai notato,
ma si tratta per lo più di donne incinte e bambini”.
“E' proprio questo il punto, Spezzacolli – nessuno dei nuovi conosceva
il suo nome di battesimo e Rebecca aveva chiesto alle compagne di
chiamarla con il soprannome – Donne. Tu sei una donna. E una donna
non può guidare un castello”.
“Ma una donna deve andare a caccia per procurarti tutto ciò con cui ti
sei sfamato da quando sei arrivato. Finora ti è piaciuto ciò che Freccia
Letale ti ha procurato. O sbaglio?”
Klaus incassò con poca sportività: “Mi sono accontentato”.
“Accontentato per sei settimane, Klaus?”
Rebecca tirò le labbra in un sorrisetto.
“Mi vuoi prendere per il culo, donna?” alzò la voce.
“Mi basta risponderti per farlo. Non devo impegnarmi”.
Tray ridacchiò e, nonostante tutto, pure i compagni di Klaus. Lui li
fulminò. Rebecca sorrise angelica: “Perché non sentire anche loro?
Allora, che richieste avete?”
I cinque si schiarirono la voce, borbottando se e ma senza dire
null'altro.
“Parla lui per voi, allora?” soggiunse Spezzacolli.
“Sono io il capo” ringhiò Klaus.
“Di che cosa, Klaus? Di questi cinque cagasotto?” adesso Rebecca non
23
sorrideva più. Era ancora seduta, ma i palmi della mani erano aperti sul
tavolo, la schiena protesa verso l'uomo.
“Come ti permetti?” lui socchiuse gli occhi castani, arricciò le labbra e
mostrò i denti con aggressività ferina. Pareva un grosso cinghiale.
“E tu, grassone, come ti permetti? - ribatté lei – Per settimane ti
abbiamo dovuto sfamare. Ti abbiamo accontentato, perché tu sei così
vile da non voler uscire dalle mura. Né te né i tuoi amici. Ed ora, vieni a
dirmi che tu sei il capo? Se fosse per te, le mie donne ed i miei bambini
sarebbero già morti di fame. Tu non sei il capo”.
“Io sono un uomo. E questo mi dà il diritto di metterti a tacere. Donna”.
Rebecca rimase in silenzio impassibile. Appoggiò la schiena allo
scranno e si portò le mani alle labbra, come se stesse pensando. Nella
sala era sceso il silenzio più assoluto. Alla fine, la donna scostò la grossa
sedia e si alzò.
“Che cosa faresti, se fossi nella mia posizione, Klaus?” si mise a
passeggiare per la stanza. Il tono della voce era neutro e questo fece
sogghignare l'uomo.
“Innanzi tutto, non permetterei ad una puttana travestita da uomo di
rivolgermi la parola” rispose quello e rise.
Rebecca fulminò Tray, imponendole di stare immobile. Freccia Letale
era paonazza nel tentativo di trattenere la propria ira.
Spezzacolli continuò la sua passeggiata.
“E poi?”
“Ripristinerei l'ordine naturale delle cose: le donne in cucina, le donne
a pulire e le donne nel letto” era stato così spiritoso da scoppiare a ridere,
ammiccando in direzione di Giada. La ragazza, nonostante portasse un
velo sui capelli per nascondere parte della sua bellezza, ammutolì per
l'offesa.
Marçela lanciò un'occhiata a Rebecca carica di rimprovero:
veramente gli lasciava dire tutto ciò che voleva, a quel grassone
bavoso?
“E delle donne incinte? Dei prigionieri di Madrigal? Degli orfani?”
domandò invece Spezzacolli al maniscalco.
“La natura fa il suo corso. Se quelle donne non avevano mariti con i
coglioni a proteggerle, non vedo cosa si possa...”
“Neppure tu hai avuto i coglioni, mi sembra. - lo interruppe – Sei
scappato quando hai sentito solo l'odore della battaglia. Un uomo vero
avrebbe preso un'arma e avrebbe nascosto la sua famiglia, ma sarebbe
tornato a difendere la casa”.
“Mi stai dando del codardo?” ringhiò lui.
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“Sto cercando di capire come sia possibile che un uomo come te si
possa permettere di dire o anche solo pensare certe cose. Vedi, mio
marito era un ufficiale dell'esercito reale e mi ha insegnato la differenza
tra un codardo ed un uomo”.
“E tuo marito dov'è ora?”
“Sul Fiume Dorato a combattere”.
Klaus non rispose. La occhieggiò, prendendo nuove misure. Di
Spezzacolli si sapeva pochissimo: che era stata rapita, che aveva tre figli
e che la vecchia Ada, la guaritrice più istruita di Alto Castello, era
originaria come lei di Makma ed era la sua madre adottiva. Il fatto che
fosse stata sposata con un ufficiale spiegava la gerarchia con cui era
composto il suo gruppo. O come avesse fatto a sopravvivere alla
battaglia.
“Che cosa vuoi, Klaus? Vuoi governare su Alto Castello? Non sarebbe
male. - aveva ripreso Rebecca – Voglio dire, Alto Castello può accogliere
quasi cinquantamila persone. Allo stretto anche il doppio. Sarebbe un
popolo intero. E tu ne saresti il capo: ti basterebbe allungare una mano
ed imporre il tuo volere. Volendo, potresti coniare un soldo con la tua
immagine. E poi, qui, saresti al sicuro. Da umile maniscalco a signore di
Alto Castello. Non male, eh?”
Gli occhi dell'uomo si erano accesi della luce nera di brama. Lui,
Signore di Alto Castello.
“Ne avrei le capacità. - ribatté a Spezzacolli – Molte più di queste
quattro femmine che non hanno capito qual è il loro posto”.
“E il mio posto, Klaus? Qual è?”
Gli era al fianco. Lui le lanciò un'occhiata di valutazione. Spezzacolli
aveva sì partorito tre figli, ma aveva ancora un fisico attraente ed il suo
viso di certo non dimostrava i ventisette anni pieni. Appariva poco più
che adolescente.
“Potrei sempre tenerti una camera qui al castello. - fece un sogghigno
ed accennò con la testa a Tray – Con la tua amica”.
Giada scorse il lievissimo tremito della mano di Rebecca. Aveva
passato con lei un tempo sufficiente per intuire i suoi stati d'animo.
Aveva imparato che Rebecca poteva apparire padrona di se stessa, ma
era divorata da un fuoco indomabile: era capace di piangere senza
singhiozzare, tremare ma tenere la voce ferma.
Rebecca non rispose a Klaus. L'uomo era seduto su di una sedia
semplice, senza l'alto schienale. Lei gli passò alle spalle con passi
misurati.
Produceva un fruscio lievissimo.
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Lo scatto fece sobbalzare tutti dalle sedie.
Velocissima, Spezzacolli afferrò la mandibola dell'uomo con la mano
destra e gli torse la testa verso sinistra; con la mano sinistra faceva
pressione verso il basso, schiacciandolo contro il tavolo. La testa
dell'uomo era girata in modo forzato, innaturale. Aveva mani e piedi
liberi, ma la potenza con cui lei premeva sul suo collo era tale da
immobilizzarlo.
La fissava con l'occhio sinistro spalancato.
Lei aveva socchiuso gli occhi verdi e le guance le si erano accese per
l'ira.
Premette sul collo dell'uomo, sempre di più. Lui divenne vermiglio.
Le compagne di lei non riuscirono a parlare: si aspettavano il crack
della spina dorsale che già avevano udito centinaia di volte.
Gli uomini erano sbiancati, ma non uno che si alzasse in difesa di
Klaus. In fondo, lei era Spezzacolli.
“Klaus, di' il mio nome” sibilò lei.
Lui boccheggiò.
“Di'. Il. Mio. Nome” scandì bene lei, alzando la voce.
L'uomo rantolava.
“Di' il mio nome, schifosissimo bastardo!” la voce di Spezzacolli
riecheggiò per sala, togliendo il fiato a tutti.
Klaus non rispose e gemette. Lei torse ancora di più il collo. Ancora
un poco...
“Spe...z...zacolli” alla fine lui disse, accorgendosi che più aspettava a
pronunciare quelle parole, più lei serrava la presa. Gli occhi verdi non
mostravano alcuna pietà.
“Dillo più forte” impose lei.
Lui divenne viola nello sforzo di pronunciare il suo nome:
“Spezzacolli”.
“Spezzacolli. - scandì bene lei – Il carceriere che ci teneva prigioniere
l'ho ammazzato così. Ed era un porco come te. Voleva farmi la festa ed
invece è andata a finire che la festa l'ho fatta io a lui. Mio marito mi ha
insegnato a combattere a mani nude. E lo sai perché? Perché una donna
per difendersi spesso ha solo le mani. Ci ammazzavo i maiali per
l'inverno così, bastardo. E tu sei poco più di un maiale ora. Tu hai paura
di me, eppure sono solo una donna. Hai così paura che ti sei portato gli
amichetti, che però hanno più paura di te. Guardali: non fanno niente per
proteggerti. E fanno bene: qui dentro sono io che proteggo. Mille tra
donne, vecchi e bambini mi hanno eletta loro capo perché io ne ho le
qualità. E loro – fece un cenno con il mento alle amiche – hanno le
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qualità per aiutarmi: Freccia Letale è la migliore combattente che
abbiamo ed una cacciatrice senza pari. Dobbiamo ringraziare lei se ogni
giorno abbiamo di che mangiare. Marçela ha cinque creature, che erano
prigioniere a Madrigal e l'ho vista sgozzare più di un nemico per arrivare
ai suoi figli. Giada permette a tutti noi di vivere dignitosamente ed è lei
che ha riparato i grossi forni con cui le donne cucinano per la comunità.
Non ti permetterò di mancare di rispetto a nessuna di noi. Questa è la
legge qui dentro. Qui siamo tutti uguali, in attesa di ricevere il nostro
sovrano”.
Rebecca avrebbe voluto aggiungere altro, ma Klaus stava diventando
viola. Tenne in torsione il collo ancora per un istante.
Appariva più decisa ad ammazzarlo, che lasciarlo in vita.
Nella sala il silenzio era totale.
Giada scambiò un'occhiata furtiva e sconcertata a Marçela: lo
avrebbe ammazzato?
Spezzacolli lo lasciò andare all'improvviso.
Klaus rantolò, accasciandosi.
Lei fece un cenno a Tray di sfoderare la lunga spada sottile che
Giada, il genio inventore, aveva progettato per lei. Rebecca tornò a
sedersi a capotavola.
Li fissò gelidamente.
“Sarete convocati per una nuova seduta” disse solo.
Klaus non si alzò dalla sedia e Tray lo spinse giù malamente.
“Era un ordine” ingiunse secca.
L'uomo, barcollante e con le mani premute alla gola, si aggrappò al
tavolo. Rebecca lo fissava impassibile.
“Ti consiglio di andare a lamentarti con le donne di Alto Castello. - gli
suggerì glaciale – Te lo consiglio caldamente”.
“Vieni, andiamo” si sentì uno dei compagni di Klaus, che lo sorresse
per uscire.
La porta della sala venne richiusa con uno strattone, come per
rivalersi. Tray allungò la mano per riaprire il battente, quando Rebecca la
fermò.
“Lascia perdere”.
Freccia Letale si tirò fuori dalla tasca una delle sue sigarette di timo
blu e cardo e se l'accese. Non era ancora finita.
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5.
John Henry batté affettuosamente la mano sul viso di Corin. Intanto con
l'altra si asciugava le lacrime di commozione.
“Ragazzo, che felicità rivederti!” sospirò il sovrano.
Corin sorrise mesto: “Lo è anche per me, mio signore. Ditemi, come
state?”
“Come vuoi che stia, J.J.?” ribatté l'altro allargando le braccia in un
gesto amaro e stanco.
Corin guardò il suo signore.
Continuava ad essere un bell'uomo, anche se i capelli color caramello
si erano ingrigiti, anche se il portamento fiero adesso era un poco più
curvo, anche se le labbra erano esangui e la pelle pallida. C'erano nuove
rughe sul suo volto, ma non fu quello a gettare un'ombra di panico nel
condottiero. No, furono gli occhi di John Henry a togliergli il fiato in
gola: era sparita completamente la luce della speranza, della lotta. Al suo
posto, la luce fioca della disperazione e – peggio - della rassegnazione.
Non aveva percorso migliaia di chilometri insieme ai suoi bambini
per trovare la rassegnazione!
Il sovrano scosse la testa con un sorrisetto amaro. “Ho anche
dimenticato le buone maniere. Vieni, ragazzo, siediti e mangia. - gli
versò un generoso bicchiere di vino rosso rubino – Lo coltiviamo noi qua
sotto, grazie agli specchi. Non è forte come quello di Hakne, ma è pur
sempre vino”.
“Dopo settimane in mare e sulla pianura gelata, qualunque cosa che non
sia acqua o tè è ben accetta” ringraziò Corin e mandò giù tutto il
bicchiere. Il vino aveva un sapore fruttato e un poco più denso, pareva un
succo di frutta lievemente alcolico. Ci mangiò su delle tartine di
formaggio e noci e si volse a guardare verso Andrea ed i bambini.
Maestro Jamie aveva fatto servire per loro delle ciambelle al miele e
piadine al prosciutto cotto e formaggio fuso.
“I tuoi bambini?” chiese John Henry con un sorriso.
“Sì. Le mie piccole pesti” Corin tirò le labbra in un sorrisetto intenerito.
“E lei? Tua moglie?” indicò Andrea.
“No, è la governante dei bambini. Non guardatemi così, signore, non è
una scusa: Andrea è un'ermafrodita ed è figlia di un maestro di spada.
Suo padre l'ha cresciuta con la spada perché sapesse difendersi... per
quanto non le sia servito, purtroppo”.
“Che intendi?”
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Corin mandò giù il pezzo di tartina e inchiodò gli occhi corvini in
quelli del suo signore. “Sono successe delle cose, in vostra assenza”.
6.
Rebecca attese che Tray si fumasse la sua seconda sigaretta e si
calmasse. In fondo, lei stessa aveva bisogno di calmarsi. Klaus l'aveva
fatta andare su tutte le furie.
Nonostante tutto non era solo Klaus ad averla irritata. Ce l'aveva un
po' con tutti ad Alto Castello. A cominciare dalle compagne: Tray non
poteva smetterla di ricordare alla gente il suo passato? Certo, era
evidente che era stata una puttana, una ragazzina schiavizzata e costretta
a prostituirsi, ma ora basta. Ora non lo era più. Che la smettesse una
buona volta di scattare come un animale ferito! Oh, cazzo, certo che la
capiva, ma vittimizzarsi a che cosa portava? Nessuno le avrebbe ridato il
suo passato, ma del suo passato nessuno dei presenti era colpevole.
E di Marçela e delle sue adorabili creature? Merda, riusciva a capire
pure lei, che lottava ogni giorno per allontanare i demoni dei figli. Ma se
si fosse ricordata qualche volta che oltre alla sua famiglia ne esistevano
anche altre? Che il mondo non iniziava e finiva con lei e i suoi bambini?
Che l'universo intero non girava attorno a loro? I bambini avevano la
loro mamma, avrebbero recuperato la normalità, non c'era bisogno di
farne un dramma.
Cosa dire di Giada? Oh, Giada era il più grande cruccio di Rebecca.
Giada, la principessa di Hakne.
Rebecca l'aveva ritrovata, per un caso della vita, nella stessa cella del
castello di Weast, quando era stata rapita. Giada, lasciata dal padre al
fedele Conte di Weast, quando era partito per le terre di Hoss nel
tentativo di spezzare l'incantesimo in cui era stata gettata sua moglie.
Forse il re aveva pensato che non sarebbe occorso tanto tempo, che la
sistemazione della bambina era solo provvisoria... chissà? Il fatto era che
Giada aveva passato ben dieci anni in attesa del regale genitore e intanto
il Conte si era ammalato all'improvviso dopo il matrimonio del suo unico
figlio vivente con una donna di nome Elma. Giada era finita adolescente
a pulire le scale e le cucine come l'ultima delle sguattere. Aveva otto anni
quando aveva salutato il padre e ne aveva diciotto quando Rebecca aveva
deciso di salvarla – avrebbe avuto alternative? Era la sua principessa, la
sua futura sovrana e Rebecca era la moglie del Primo Generale del re.
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Rebecca aveva pensato che, fino al ritorno di sua Maestà, fosse meglio
non rivelare la reale identità della ragazza, ma non si era aspettata che
Giada si rivelasse così impaurita dal proprio ruolo da preferire essere una
serva piuttosto che una principessa. Forse aveva un'idea utopica della
classe nobiliare, ma la viltà di Giada la deludeva come mai avrebbe
potuto confessare.
Dopo tutto, le veniva difficile capire tutte loro: lei non vedeva i suoi
figli da più di un anno, sapeva solo che suo marito era sul Fiume Dorato
ed era stata vittima dello stupro come tutte. Era ovvio che soffriva, ogni
giorno della sua vita, ma sapeva di non essere l'unica. Combatteva, ecco
che cosa faceva. Non che Marçela o Tray o la stessa Giada non
affrontassero i propri doveri, ma influenzavano moltissimo gli altri con
le loro tragedie personali. Se tutti avessero fatto come loro, come
sarebbero sopravvissuti?
Rebecca non capiva come si facesse ad arrendersi alla vita. La vita
andava affrontata, afferrata e combattuta. Perché, per quel che ne sapeva
lei nonostante la religione, era l'unica vita che possedessero.
Fece un sospiro e Tray la occhieggiò.
“Che cosa ce ne facciamo di loro? Abbiamo fatto a meno degli uomini
finora e siamo state bene”.
“Parla per te” borbottò Marçela.
Giada si sedette accanto al fuoco senza commentare.
“Adesso è diverso. - Rebecca si alzò ed andò vicino al fuoco. Lo
ravvivò e le fiamme lambirono i suoi calzoni. Quando stava per
bruciarsi, la donna si scansò, accorgendosi del calore. Era evidentemente
esausta. - Klaus ha ragione: siamo alle porte dell'inverno e gli uomini ci
servono. Ve lo dissi anche in cella: in uno scontro frontale con un uomo
avremmo la peggio, perché è indiscutibile che sono più forti di noi
fisicamente. Abbiamo bisogno di quelle braccia. E c'è un altro motivo,
ben più grave, che m'impedisce di cacciarli... cosa credete che faranno se
li buttiamo fuori di qui? Prima di tutto si porteranno via le loro donne ed
i loro bambini, che sono il motivo per cui ho smosso mari e monti. In
seconda battuta, loro cercano qualcuno che dia loro un tetto sulla testa e
cibo. Si venderanno al nemico. E il nemico può anche chiamarsi Tulle,
anche se poi alla fine diventa Jacob di Weer. Questa gente non combatte
per la libertà, loro se ne fottono della libertà. Donne e vino lo ottengono
lo stesso... prendono ciò che vogliono, che sia permesso che non lo
siano. Potrei dare ospitalità alle loro famiglie, ma fuori lascerei liberi
degli sciacalli. E il cerchio si chiuderebbe di nuovo. Weer ci
attaccherebbe e noi con cosa ci difenderemmo? Pannolini sporchi?”
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“Weer non attaccherà subito” rispose Tray.
“No, sul Fiume Dorato ha avuto una bella batosta. Però nessuno
conosce le sue forze militari e potremmo essere assediati da Tulle”.
“Anche questo è vero” ammise infine Freccia Letale. La ragazza si
accese di nuovo da fumare e prese a camminare su e giù per la sala. I
suoi calzoni di cuoio producevano un fruscio rigido; insieme a Rebecca
era l'unica a portare abiti maschili e capelli corti, con la sola differenza
del lungo codino fino alla cintola. Tray sembrava un felino con quella
sua criniera leonina che su una qualsiasi altra donna sarebbe apparsa
ridicola ma che su di lei calzava a pennello. Rebecca invece teneva i
mossi capelli corti come voto finché non avesse riabbracciato la sua
famiglia e non era così elegante come l'amica.
“Tuo marito... - intervenne Marçela – è vero quello che hai detto a
Klaus? Lui è veramente sul Fiume Dorato?”
Rebecca gettò un'occhiata sfuggevole a Giada. “Sì, per quel che ne
so”.
“E i bambini?”
L'altra scosse la testa ed evitò di incontrare lo sguardo pieno di pena
della compagna.
“Che cosa possiamo fare allora?” pragmatica come sempre Tray spense
la sigaretta.
“Non... - Rebecca fece un respiro profondo per trattenere l'urlo che le
stava salendo in gola - non lo so. Ci devo pensare”.
Si mise il mantello e lasciò la stanza. Chiuse la porta con delicatezza,
quando avrebbe voluto sbatterla. Le mani tremavano nel tentativo di
controllarsi.
7.
Per Corin fu difficile cominciare a raccontare. Qual era il principio?
E la fine? Quanta morte, paura, dolore, malinconia gli erano passati sulla
pelle, su quella dei suoi piccoli, innocenti bambini?
E di Rebecca, di lei, che cosa avrebbe raccontato? Come avrebbe
potuto spiegare la ferrea volontà di sua moglie,che al momento della
nascita di ognuno di loro, si era fatta giurare che le sue creature
avrebbero avuto priorità assoluta in caso di pericolo?
Le parole scivolavano via dalla bocca, gli occhi guizzavano sul volto
del suo signore – così invecchiato, così distaccato –, il fumo ed il fuoco
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della sua casa che veniva incendiata, le urla terrorizzate della sua gente,
gli occhi di smeraldo di Rebecca, il suo sorriso rassegnato alla sorte per
la salvezza dei loro bambini, il bosco che li aveva accolti, la pioggia che
li aveva accompagnati, il sole che li aveva scaldati fin quasi a bruciarli
sul mare, l’acqua di fiumi, torrenti e ruscelli che li avevano dissetati, le
mura dei castelli che avevano dato loro rifugio, la spada insanguinata, la
spada sguainata, la rabbia, l’eccitazione, la paura della battaglia, gli
intrighi, le tattiche… dinanzi a quel fuoco, in quella sala, le cui pareti
risplendevano di una luce innaturale data dagli alti ed immensi
lampadari, le immagini di quell’ultimo anno di vita si animarono. Le
mani del Generale tessevano magicamente la tela di cui erano fatti i
ricordi, la voce malinconica, rabbiosa e talvolta distaccata
accompagnava quelle immagini oniriche come una musica fioca,
d’accompagnamento.
John Henry si stava nutrendo della vita che Corin gli presentava ora,
fagocitava alberi e valli, cieli azzurri ed acque turbinose, terra bagnata e
fiori che ondeggiavano al vento. Ma gli uomini… la natura violenta
dell’uomo disperdeva la meraviglia di quei fiori e del cielo terso. Erano
in guerra.
“Che ne è stato delle donne?” chiese il sovrano.
“Rapite”.
“Tutte?”
“Hanno fatto prigionieri tutti. Solo i neonati e gli anziani sono stati
uccisi. La sensazione che abbiamo avuto è che Weer cercasse schiavi. E’
evidente che i Soldati Rossi non gli bastano più”.
“Deve aver capito che presto o tardi saremmo arrivati a comprendere la
natura di quei mostri. Nonostante la loro forza mi pare chiaro che siano
facili da sconfiggere. Più degli uomini”.
“Sì, è vero. Per quanto riguarda la situazione delle donne devo finire di
spiegare. Poco prima della battaglia sul Fiume Dorato una cantastorie ci
ha raggiunti nelle terre di Ground. Ha raccontato di aver viaggiato per
mesi con una guerriera di nome Spezzacolli, nelle terre di Weast.
Spezzacolli ha tenuto testa al nemico con coraggio ed astuzia. Le sue
donne vengono chiamate Donne-ombra per la loro capacità di
confondersi con il buio e la foresta. Poco prima di partire si favoleggiava
sulla liberazione delle donne, tenute prigioniere insieme ai bambini nella
fortezza di Madrigal. Non ho idea se questo sia vero oppure no. Ritengo,
comunque, che ci sia un fondamento a tutto ciò. La mia domanda, però, è
un’altra. Se le donne sono state portate a Madrigal, gli uomini dove
sono?”
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“Non pensi che possano essere con loro?”
“No, è escluso. Come potrebbe Weer gestire tanta gente tutta insieme?
A mio parere sono altrove”.
“Le Cave di Marmo Nero. – John Henry si versò una generosa dose di
liquore e ne mandò giù metà in un sorso – Probabilmente sta sfruttando
gli uomini come schiavi. Il suo obiettivo sono le armi, la lavorazione del
Marmo Nero può avere molteplici usi. Immagina uomini con spade,
lance e armature di Marmo Nero: sarebbero invincibili”.
“O quasi” sorrise di sé Mastro Mayster che aveva ricevuto in dono dal
re armi ed armatura in Marmo Nero finemente lavorato.
“In ogni caso per tre dei nostri che cadono ce ne sarebbe uno dei loro”.
“La proporzione è terrificante” ammise il Generale.
“Pensi che questa Spezzacolli sia riuscita nell’impresa?”
Corin lanciò un’occhiata ad Andrea, indugiando – Se avesse detto
quelle parole, se avesse ripetuto ciò che Andrea gli aveva detto su
Spezzacolli, forse la speranza si sarebbe consumata come una candela.
“Se non c'è niente tra te e Andrea, mi spieghi perché la guardi così?”
domandò piccato il re.
“Perché pensavo alla vostra domanda circa Spezzacolli. Andrea ci ha
riferito che potrebbe essere Rebecca. La cantastorie le ha detto che
qualche volta le guerriere più vicine a Spezzacolli la chiamavano così”.
Dopo aver pronunciato quelle parole il fantasma di Rebecca
comparve accanto a Corin, evocato dalla magia della speranza.
“E questo ti dà speranza?” chiese il re.
“Tanta, mio signore. Conosco Rebecca abbastanza bene da sapere che,
se vuole una cosa, ci proverà con tutte le sue forze ad ottenerla”.
“Perché non ti sta cercando, se è vero che è lei?”
“Forse ritiene che a Madrigal ci potrebbero essere i suoi figli. O forse
ha altri mille motivi… non lo so. D’altro canto neppure io sono andato
subito alla sua ricerca, avevo il dovere di venirvi ad avvertirvi”.
John Henry sorrise con tristezza.
“Sempre questa tua dedizione al dovere, ragazzo”.
“Il Grande Regno ha bisogno di voi, mio signore”.
“Il Grande Regno ha bisogno di un miracolo, Mayster. Tu sei il suo
miracolo e, se Spezzacolli è davvero la tua amata Rebecca, allora Hakne
deve ringraziare per un altro miracolo”.
“Maestà… - Corin ebbe un’esitazione – dov’è vostra figlia?”
Il re si abbandonò sulla poltrona con rassegnazione. “Lascia che ti
racconti una cosa, Mayster”.
Corin non capiva. Più di dieci anni prima aveva accompagnato il
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sovrano in quelle terre desolate e gelate senza sua figlia e l’unica
spiegazione che aveva ricevuto era che la salvezza di Giada non sarebbe
stata ad Hoss. Corin aveva attraversato foreste, valli, pianure, fiumi ed il
mare impetuoso, convinto di ritrovare la famiglia reale sana e salva;
adesso scopriva che della principessa non c’era traccia. Peggio ancora
era l’atteggiamento del re suo padre, all’apparenza disinteressato.
Un moto di sdegno assalì il guerriero, che si trattenne dal rispondere
con astio. Attese in silenzio le parole del sovrano.
“Vedi, ragazzo, quando sei arrivato a Corte, quella sera di tanti anni fa,
non sono rimasto tanto impressionato dalla tua mole, quanto dalla luce
scura dei tuoi occhi. Cercavi vendetta. L’avevi trovata ed avevi scoperto
che non dava soddisfazione, ma colmava la tua anima di rancore. Eri
giovanissimo… quanto avevi? Diciassette? Diciotto anni?... gli amici
della tua infanzia erano stati massacrati, la tua famiglia uccisa senza
alcun ritegno e tu avevi questi occhi… così pieni di tristezza, ragazzo
mio. Troppa tristezza. Ti sei presentato a me, a mia moglie, ai miei due
figli, alla mia piccola con tutta la bontà che il tuo cuore ancora serbava.
Combattevi per la libertà. Per quella di cittadini come i tuoi genitori, per
quella dei tuoi amici, dei bambini strappati alla vita con tanta brutalità.
Hai donato ad Hakne tutto te stesso.
“Esterella pianse nel sentire della tua gente. Esterella pianse per tutti
coloro che erano stati sepolti, per la brutalità di questa guerra. E dire che
avevamo cercato di aiutare Weer in ogni modo! Lei più di tutti si era
prodigata a Corte perché le malelingue cessassero, perché quel giovane
trovasse la moglie adatta. Forse Esterella aveva capito che tipo d’uomo
era Jacob di Weer… e qualche volta penso che si disperasse per il senso
di colpa nei suoi confronti, avendo intuito che mostro fosse.
“Quando William morì, – John Henry ebbe un tremito della voce nel
ricordare il figlio primogenito caduto sotto i colpi di Weer e dei suoi
assassini – tu non ti tirasti indietro: rimanesti fedele alla nostra famiglia,
ti prodigasti perché il mio povero Orson fosse sempre protetto e con una
scorta. Hai fatto i salti mortali per noi, Mayster.
“Poi ritornasti con un piccolo baule tra le mani. Lo accarezzavi come
se fosse stato l’unico tesoro esistente al mondo. Ti girasti verso di me e
finalmente nei tuoi occhi ci lessi la dolcezza dell’amore. In tutto l’orrore
della guerra eri riuscito ad innamorarti. Qualcosa di straordinario,
ragazzo mio, un miracolo.
“Non parlasti mai di lei, ma bastava la luce dei tuoi occhi per capire.
Successe quel che successe… - John Henry inghiottì la saliva per non far
tremare nuovamente la voce – e quando decisi di andarmene, mi rifiutai
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di accollarti la responsabilità di Giada.
“Aspetta ad interrompermi. – lo quietò il sovrano con un gesto della
mano – Ho dovuto nascondere Giada perché era l’ultima delle mie eredi.
Se Weer era riuscito a penetrare in Alto Castello, chi mi assicurava che
non facesse la medesima cosa qui ad Hoss? Se tu avessi saputo dov’era,
avresti rinunciato alla tua vita.
“Non lo avrei mai permesso, Mayster. Meritavi l’amore di una donna
e di conoscere la pace di un focolare”.
Lo sdegno di Corin si trasformò in gratitudine e, lentamente, ogni
istante di quella vita di pace di cui aveva goduto con sua moglie ed i suoi
bambini gli passò davanti agli occhi con la consapevolezza che il suo
signore aveva preferito lasciarlo libero di vivere la sua vita, anziché
legarlo a quella della figlia. Gli aveva regalato la libertà assoluta.
Corin si dovette asciugare un viso rigato da lacrime di commozione,
sorridendo buffamente a John Henry per quei sentimenti scappati al suo
controllo.
“Grazie, Maestà. Io non ho parole per…” sussurrò.
“Non ne voglio. Era un tuo diritto, figliolo. E ora, ti prego, fammi
conoscere i tuoi bambini”.
“Sì” Corin si asciugò il viso e sorrise ai suoi figli, facendo cenno di
avvicinarsi.
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CAPITOLO 2.
1.
Rebecca camminava pestando i piedi con rabbia. A grandi falcate
percorse i lunghi corridoi, le scale, passò per l'appartamento personale
dei sovrani, si arrampicò su per le scale che conducevano alle camere
della Corte, uscì sotto il porticato che collegava il castello con l'area
riservata alla guardia reale e di nuovo passò in sale, stanze, innumerevoli
corridoi e innumerevoli gradini, sempre più su, sempre più lontana dagli
altri. Ci mise quasi quindici minuti, camminando di corsa, a giungere
alla torretta più alta. E più si allontanava più dalle sue labbra uscivano
parole sconnesse di rabbia verso chi la circondava.
Si arrampicò sulla strettissima scala a chiocciola di legno che
scricchiolava e sembrava voler cedere ed infine aprì la botola.
Era fuori.
Il vento la accolse con una feroce zampata gelida. Penetrò il mantello
di cuoio e la casacca di lana grezza, pungendola con mille aghi. Le fece
male tanto era ghiacciato e quel male le ricordò che era viva. Il fiato le si
condensava denso come fumo davanti alla bocca e lei respirò una, due,
tre volte, perché se c'era quel fiato caldo voleva dire che non solo era
viva, ma reale. Le pareva impossibile.
Il dolore, no, quello non lo sentiva, se non all'ultimo.
Il sonno, no, non ne aveva ed allo stesso tempo gli occhi le
bruciavano per la mancanza di una notte intera di riposo.
Fame... non aveva neppure quella, era lo stomaco a ricordarle che
doveva mangiare per avere energia sufficiente a lavorare.
Il freddo ed il caldo, li sentiva solo quando erano all'estremo. Come
ora.
Fu il vento ghiacciato a calmarla.
Contemplò il paesaggio. Dall'alto della torretta, se si voltava verso
sud-est, poteva vedere il castello, la sua cittadella, il sentiero esterno e,
più giù, la vallata. Da là dominava ogni cosa e non la stupiva che John
Henry fosse riuscito a resistere a Weer per anni, rinchiuso là dentro.
Dalla parte opposta, le montagne. Scorgeva la cima degli altri monti, già
innevate, perennemente ghiacciate.
Era uno spettacolo da togliere il fiato.
Sotto di lei, persone e cose erano minuscole.
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Sollevò il bavero del mantello per coprirsi il collo nudo e si strinse le
braccia attorno al corpo.
Che cosa le stava accadendo?
Cominciava a non sopportare più quella vita, l'attesa. Il suo unico
desiderio era di ritrovare Corin, abbracciare i bambini – affondare naso,
labbra, chiudere gli occhi per assaporare l’odore delle loro pelli, il loro
fiato, la morbidezza dei loro capelli, ritrovare quel calore avvolgente,
rassicurante – ed invece si ritrovava a gestire un castello con uomini e
donne così ottusi da non vedere nulla, oltre a se stessi. Non avrebbe mai
imparato che il più volte gli uomini pensavano sempre e solo a se stessi.
Si tirò i capelli via dal viso, che il vento sferzante le faceva ricadere
negli occhi. Era tempo di tagliarli di nuovo.
All’improvviso le parve un pensiero stupido. Alzò gli occhi al cielo
bianco di nuvole e si domandò se, aprendo le braccia, ci fosse stata la
possibilità di volare oltre quelle cime aguzze ed innevate, superare la
palude, le colline, le pianure, i boschi, le foreste, le città per giungere
infine da coloro che amava. Infine aprì veramente le braccia come se
fossero state delle ali e rabbrividì per il freddo. Poi, lentamente, le
braccia scivolarono lungo il corpo, abbandonate, impotenti, perché non
poteva volare.
Si accasciò contro i merli delle mura, la testa tra le gambe. Provava
un dolore insopportabile al petto, la testa le pesava come se mille pietre
le fossero cadute addosso, i pensieri – troppi – si affollavano senza che
riuscisse a coglierne uno. Non sapeva più che cosa fare. Arrivò a
desiderare che oltre Alto Castello non ci fosse la sua vita – Corin ed i
bambini – così avrebbe potuto lasciarsi andare alla disperazione, non
avrebbe più dovuto combattere. Fare come facevano gli altri.
Era stanca di combattere.
Quel dolore incessante non le permetteva neppure di piangere, perché
troppe lacrime versava ogni giorno nel pensare ai suoi cari. E quanta
invidia per Marçela, che aveva ritrovato tutti e cinque i suoi bambini!
Quanta invidia per lei, che la sera dormiva in mezzo a loro e baciava una
ad una quelle piccole testoline, godendo dei profumi e del calore di quei
piccoli corpi.
Corin…
Cercò il suo fantasma, il suo aiuto.
Fino a quando non aveva sposato Corin, aveva contato solo su se
stessa. Dopo il matrimonio aveva sempre avuto al fianco l’appoggio di
suo marito, che era diventato il suo amante, il padre, il fratello e spesse
volte il miglior amico, quello che ti prende per le spalle e ti scrolla per
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farti rinsavire. Dopo il rapimento era tornata a far affidamento solo su se
stessa, ma non era stata la stessa cosa, non riusciva a farsi carico
totalmente delle proprie emozioni. Corin era stato il suo interlocutore per
così tanto tempo e in un modo così intenso, che le riusciva difficile
essere indipendente. Lui era il filtro, l’appoggio.
In quel momento avrebbe voluto averlo accanto a sé, sentirsi scrollare
e riemergere dall’intorbidimento del dolore.
2.
“Adesso basta!”
Corin l’aveva afferrata per un braccio e la rabbia aveva fatto
barcollare Rebecca. Mark e Jesse erano a letto, ma l’urlo di Corin
doveva averli certamente svegliati.
Sua moglie si era lasciata scrollare, gli occhi sgranati per lo
sgomento.
“Basta! Rebecca, ti prego, smettila! Non ce la faccio più!” aveva
continuato a gridare Corin al colmo della collera.
Lei aveva fissato gli occhi corvini del suo uomo, spalancati, feriti,
rabbiosi. Non riusciva a capire, non riusciva più a pensare, la mente
intorbidita dalla sofferenza della morte.
Aveva perso la bambina che portava in grembo di sei mesi e mezzo.
Da quando l’avevano seppellita erano passati più di sette mesi, ma
Rebecca non riusciva ancora a riprendersi. Non riusciva a cancellare
l’immagine della minuscola vita che era scivolata fuori da lei nel
sangue, così piccola, così fragile, con gli occhietti serrati, molle.
Minuscola, bellissima e che il suo ventre non era riuscita a proteggere.
Non era stata in grado di prenderla tra le braccia, dopo il parto, perché
era caduta senza sensi, travolta dal dolore e dall'angoscia. Al suo
risveglio la sua bambina era stata sepolta e non aveva potuto far altro
che piangere sulla sua minuscola tomba.
La mente di Rebecca si era spenta, tra sensi di colpa e dolore.
Il cuore le era stato distrutto, l’unica immagine che aveva della sua
adorata bambina era quella di quel fragilissimo esserino senza vita e
senza forza.
In casa la vita si era spenta con Rebecca. I due coniugi non
riuscivano più a parlare, a fare l’amore, a mangiare, a sorridere.
Rebecca era ridotta ad uno scheletro, sempre pallida, sempre emaciata.
38
Eppure…
Eppure quella casa era abitata da altre due creature, due bambini
piccoli che della morte non avevano conoscenza, che sorridevano alla
vita per il solo fatto che il sole sorgeva e la notte era luminosa di stelle.
Rebecca vedeva i suoi bambini e tuttavia il vortice della depressione
l’aveva trascinata verso il fondo fino a trattenercela. Non mangiava
perché non sentiva la fame, dopo poche ore di sonno gli occhi le si
spalancavano, le gambe e le braccia si trascinavano lente nelle faccende
di casa. Si respirava la polvere nelle sue stanze, come se il sole non ci
fosse entrato da secoli, così come i suoi occhi erano pieni di ragnatele,
fitte fitte al punto di non poter più scorgere il colore smeraldo.
Fino a quella sera.
Rebecca si era fatta scrollare, finché qualcosa dentro di lei non si era
ribellato a quei gesti bruschi. Come una voce che la richiamasse da
lontano – sua madre, che per lei aveva dato la vita - , per ricordarle che
nessuno avrebbe mai dovuto permettersi di trattarla così.
“Lasciami!” aveva risposto a suo marito, reagendo alle sue scrollate.
Corin era rimasto immobile, incredulo per quella reazione così
vitale. La prima che Rebecca avesse da tanto tempo.
“Non ti permettere mai più! Il fatto di essere quello che sei non ti dà
alcun diritto di mettermi le mani addosso!”
“Non volevo farti male” si giustificò Corin, spaventato da se stesso e
dalle mani enormi sulle spalle fragili di lei.
“Sei… un… un!” Rebecca si era sentita assalire da una rabbia
omicida. L’ira stava per traboccare prima che potesse controllarla e
uscì di casa. Era estate, la sera era serena, così correre nei campi le era
sembrato naturale. Ci vedeva e, se anche non ci avesse visto, poco le
sarebbe importato.
La rabbia la accecava.
“Sono cose della vita” le avevano detto, alla morte della piccola.
Cose della vita? Quale vita? Un grembo che dà la vita e poi non la
sa conservare? Quale vita poteva dare lei? Quale vita poteva
conservare? Quale vita aveva combattuto fino ad ora? Quale vita aveva
sacrificato sua madre?
Maledetta vita!
Il cibo che non sapeva più di cibo, il sonno senza sogni, l’amore
senza emozioni. Che vita era allora quella?
“Rebecca! – Corin le era alle spalle, la rincorreva – Rebecca,
aspetta…!”
No che non l’avrebbe aspettato, non questa volta. Forse in un’altra
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vita, ma non adesso, basta aspettare. Doveva sempre aspettare. Di
essere più grande, di riavere il suo amore, di avere una casa, una
famiglia, di far passare quel dolore maledetto nel petto, nella testa, in
mezzo alle gambe. Aspettare, aspettare, aspettare.
Aspettare di impazzire.
Corse più forte, con la volontà di fuggire a Corin, allo scontro, alla
vita, al dolore, anche solo per un minuto, anche solo un istante e
liberarsi di quel peso opprimente al petto.
Corin dovette far ricorso a tutte le proprie energie per raggiungerla,
atterrito da quella fuga. Non era un gioco e non voleva essere
raggiunta.
Voleva scappare.
La schiena della donna che amava più di se stesso si allontanava,
lasciandolo solo in un mondo che aveva imparato di nuovo ad amare
grazie alla sua sola presenza. Non poteva farlo! Non poteva scivolargli
via dalle dita come aveva fatto il corpicino di sua figlia, la mattina che
aveva dovuto seppellirla.
Aumentò la velocità fino a travolgere Rebecca e buttarla in terra. La
luna con la sua luce pallida si specchiava sul prato di tenera erba
ondeggiante al vento; Rebecca si girò di scatto e con tutta la forza di cui
era capace colpì Corin alla spalla per toglierselo di dosso.
“Lasciami! – gridò fuori di sé – Lasciami, bastardo maledetto!”
“Se ti lascio, tu dove vai? Dove vai?” Corin doveva far appello a se
stesso per non alzare la mano e colpirla in pieno viso; sua moglie invece
non risparmiava alcun colpo. Voleva veramente liberarsi di lui.
“Via! Non ne posso più! Mi hai rovinato la vita!”
“Come? Come, Rebecca? Ho combattuto per te, maledizione! Ho
percorso un intero continente per rivederti!”
Le parole di lei erano più letali di una lama infilata nella schiena e
rigirata.
“Tu… tu sei un maledetto che mi ha rovinato la vita! Se tu… tu…non
fossi mai comparso, se tu non…” Rebecca ansimava nel tentativo di
divincolarsi da Corin, qualcosa in lei si era sciolto, un nodo che l’aveva
trattenuta per mesi e mesi. Le sembrava di essere una bestia selvatica
che per tanto tempo avesse sopportato la cattività ed ora non ne potesse
più.
“Rebecca, fermati, ti prego” Corin stentava a bloccarla. Sua moglie
stava rivelando una forza fisica di inaspettata potenza.
“Tu potevi andartene…potevi far finta che non te ne importava niente,
tu… ero poco più di una bambina, tu… ce l’avevi una donna… potevi
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avere tutte le donne! Ma io che cosa c’entravo? Perché mi hai fatto
questo…? I bambini…! Perché la famiglia… i bambini…”
Il colpo di spada finì Corin. La lasciò andare e lei si rimise in piedi.
Era sconvolta, il viso in fiamme.
Suo marito la fissava in ginocchio, con occhi spalancati. Terrorizzati.
Persi.
“Non… non mi ami?” le chiese con voce strozzata.
Per l’uomo fu il crollo di tutto. Dell’amore, della felicità, della
famiglia, della vita.
Rebecca tacque, troppo sconvolta di quella domanda.
Sembrava che le fosse stato chiesto se fosse stata felice d’essere
rimasta orfana.
“Se… se tu non fossi tornato, - provò a rispondergli con la voce che
tremava per la rabbia – io non avrei avuto dei figli e non avrei provato
questo dolore qui. Qui…! – si batté una mano con forza sul petto – mi fa
male! Io non avrei conosciuto questo dolore che…”
“Non sei l’unica ad aver perso una figlia” la rimbeccò Corin.
“Che cosa pensi di saperne, tu? Tu non li porti dentro! Tu non li
partorisci! Tu non li nutri!”
“Ma li amo più di ogni parte di me e di te! – gridò a quel punto lui
balzando in piedi, quasi a volerla divorare – Io ero suo padre, Rebecca!
Come pensi che mi senta? Io dovevo proteggerti e proteggere lei! Come
pensi che mi sia sentito il giorno che l’ho vista morire? Eh?”
Rebecca gelò all’istante. “Era viva…?”
“Mezz’ora” rispose Corin con un soffio – così simile a quello che
aveva spirato la sua piccola minuscola nelle sue mani così forti.
“Com’era?”
“Bellissima… - Corin abbassò la testa, abbattuto dal ricordo –
Sembrava di porcellana. Era perfetta, con le sue manine. Aveva tutte le
dita, di mani e piedi. Il tuo naso, le tue labbra. Non aveva capelli. Ma
non è riuscita ad aprire gli occhi…” la voce si spense piano.
Rimase il silenzio ed il vento della notte.
Rebecca era paralizzata dalla sorpresa. Di sua figlia lei ricordava il
corpicino senza vita e la tomba. Non sapeva neppure se era stata vestita
con l’abitino che gli aveva confezionato pensando a quando sarebbe
nata – viva - . Niente.
L’immobilità di Corin, con la testa china a terra la spaventò.
“J.J….” lo chiamò. Era l’unica a conoscere il suo vero nome
d’infanzia.
Fece qualche passo verso di lui. Corin non rispose al richiamo
41
antico.
“J.J…” Rebecca si fece sotto. La rabbia si era sciolta come neve al
sole.
Suo marito piangeva.
Senza ritegno, senza più difese.
“J.J…!” Rebecca non l’aveva mai visto piangere così. Era fragile, un
bambino spaventato, solo, abbandonato, che tenta di sopravvivere.
Le lacrime di Corin cadevano oltre il mento, sul petto di uomo
bambino.
Quando il dolore ebbe raggiunto il suo culmine, Rebecca si trovò ad
abbracciare la testa di suo marito contro il ventre caldo.
“Non eri l’unica… non sei mai stata sola a soffrire per la sua morte”
singhiozzava lui.
Rebecca imparò allora che il pianto di un uomo è devastante per il
cuore di ogni donna.
Non ebbe parole di conforto, ma la forza delle sue braccia per
stringerlo, per aiutarlo a venire fuori da quel buco nero che è la perdita
di un figlio. Se lei si era sempre alimentata con la rabbia, Corin non
aveva alcun’arma per combattere quel dolore devastante.
“Era anche figlia mia…! Era la mia piccola…!Non puoi…”
“Io ti amo. – gli sussurrò – Non ti lascerei mai”.
“Lo so che stai male… io sto malissimo… ma i bambini, abbiamo due
bambini, ti prego, non lasciarmi”.
Fu come se qualcosa si svuotasse in loro. Le lacrime trattenute di
Corin e la rabbia omicida di Rebecca verso se stessa, che non era
riuscita a trattenere la vita di sua figlia.
Quel prato conobbe tutte le lacrime, le bestemmie, la rabbia, la
sofferenza e l’amore di due individui che avevano provato il vuoto di
perdere un figlio. Perdersi per ritrovarsi. Morire e ritornare a vivere.
Piangere e tornare a ridere con il cuore.
Guardare le stelle nel cielo e trovare la più luminosa per scorgere la
loro piccola.
Dieci mesi più tardi era nato Tommy.
3.
“Bastardo…!”
Rebecca batté il pugno chiuso sulla pietra gelida dov’era seduta. Era
divorata dalla frustrazione della lontananza. Se la prendeva con Corin
42
sapendo benissimo che lui non c'entrava nulla. Se lui fosse stato lì,
avrebbe accettato lo sfogo, perché lo avrebbe riconosciuto come tale.
Rebecca non ce l'aveva con lui, Rebecca non sopportava più nulla di
quanto aveva intorno.
Voleva andarsene, lasciare Alto Castello per cercare la sua famiglia.
Stava friggendo d’impazienza.
L’attesa era diventata snervante ed ancora più snervante era il fatto
che Giada non prendesse alcuna posizione riguardo alla politica di
conduzione di Alto Castello. Rebecca si era sempre detta che la
responsabilità della principessa era affar suo, ma, adesso, al riparo nel
castello di suo padre, avrebbe potuto dichiarare la sua legittimità al trono
e recarsi ad Hakne, dove il trono era detenuto dall’ultima cugina diretta
di John Henry, Justine.
Lo stress dell’attesa la portava a provare una rabbia convulsa per suo
marito, che non era tornato per lei. Per quanto tutto ciò non avesse alcun
senso, anelava l’arrivo di qualcuno che la sollevasse dal peso di
governare Alto Castello e le permettesse di pensare alla sua famiglia.
Allo stesso tempo era consapevole di non poter lasciare il comando a
gente come Klaus e compagni: avrebbero alzato le mani in segno di resa
quando un messo di Weer fosse andato a chiedere loro di arrendersi. Il
Barone non avrebbe neppure dovuto sbattersi per andare fin lì. E le
prime persone che Klaus avrebbe consegnato, sarebbero state proprio le
donne ed i bambini di Madrigal.
Respirò l’aria fredda delle vette, a fondo, per farsi coraggio.
Corin. Jesse. Mark. Tommy. Corin. Jesse. Mark. Tommy. Corin.
Jesse. Mark. Tommy.
Ripeté i loro nomi come una litania, le parole sillabate con un sibilo
dolce, suadente, che andò ad insinuarsi tra le pieghe del vento. E
volarono via alla ricerca.
4.
John Henry si ritrovò sopraffatto da due piccole pesti, che lo studiavano
con la spudorata innocenza dei bambini.
“Ma se tu sei il re, - chiedeva Mark al sovrano – dove hai messo la
spada?”
John Henry si cambiò un’occhiata divertita con Corin.
“Perché dovrei portarla? Sono a casa mia” rispose.
Mark sorrise furbetto e gli salì in grembo, seguito da Tommy. I due
43
fratellini litigarono per lo spazio e Corin stava per intervenire, ma fu
fermato dal suo re: “Piano, fate piano. Non vedete che ho due ginocchia?
Potete sedervi uno di qua ed uno di là”.
Corin si accorse della luce divertita ed allo stesso tempo malinconica
di Sua Maestà, mentre giocava con i bambini. Il tempo parve essersi
fermato. Lui tornava ad avere venticinque anni e William ed Orson che
litigavano per salire sulle sue ginocchia.
Corin scostò lo sguardo verso Jesse, rimasto al suo fianco, rigido - ed
improvvisamente Jesse fu lui medesimo, che invidiava la spensieratezza
degli altri due, così ignari della realtà - . Istintivamente cercò la mano
del primogenito con dolcezza, quasi a voler accarezzare se stesso tanti
anni addietro. Aveva raccontato a Jesse del giorno in cui i suoi nonni
erano morti, probabilmente era venuta l’ora di raccontargli di come
aveva conosciuto il re.
Jesse era chiaramente stupefatto. Corin pensò che fosse dovuta
all'incredibile normalità di John Henry, che le leggende dipingevano
come un dio ed invece era solo un uomo. Se glielo avesse chiesto, Jesse
avrebbe risposto che era stupefatto da quanto anziano ed indifeso gli
sembrasse John Henry.
Un vecchio nonno che non ha più voglia di combattere.
“Secondo me, però – dichiarò Mark dopo un po’ – la spada la dovresti
portare anche qui in casa tua”.
“Perché?” sorrise John Henry.
“Perché Ada mi ha raccontato che ad Alto Castello è entrata una spia e
la regina Esterella è stata colpita”.
Scese un silenzio imbarazzato e stupefatto nella sala.
Ora Mark non sorrideva più e scrutava con sospetto tutti i presenti.
Improvvisamente il visetto dai tratti infantili si tramutò in una
maschera di severa indagine. Il bambino era stato incaricato dal padre,
durante la loro fuga, di percepire grazie al suo dono misterioso, la vera
natura di coloro che li circondavano.
“Imbecille!” berciò Jesse, colpendo suo fratello alla testa con uno
scappellotto.
“Ahia! Non sono imbecille. – si difese il bambino – Ada mi aveva
raccontato che una spia è entrata nelle stanze della regina e le ha fatto un
incantesimo”.
Corin cercò preoccupato la reazione di John Henry. Il suo signore
parve non scomporsi. Osservava Jesse con aria assorta.
“Tu sei Jesse, vero?” gli disse.
Il ragazzino annuì sostenendo lo sguardo dell’adulto.
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“Avvicinati, ragazzo” gli disse il sovrano.
Jesse gli si fece sotto. John Henry fece scendere gli altri due bambini
dalle ginocchia.
“Grande Hilu, quanto assomigli a tuo padre!” esclamò con genuino
stupore.
“Gli occhi sono della mamma” s’immusonì Jesse.
“Non ho mai avuto il piacere di conoscere tua madre. Ma credo che sia
una donna eccezionale, quantomeno per tenere testa a tuo padre” John
Henry tirò le labbra in un sogghigno verso Corin.
Il Generale non riuscì a cogliere la battuta. Nella sua mente aleggiava
una sola domanda. Il motivo che aveva spinto il re a fuggire.
“… e lei? Come sta?” chiese a mezza voce.
5.
Rebecca terminò di mangiare la sua scodella di zuppa e lo stomaco smise
di brontolare. Quella zuppa era sempre meglio delle radici che erano
state costrette a mangiare durante i primi mesi di fuga. Era stata rapita
agli inizi della primavera e condotta senza sensi a Weast. L'ultima cosa
che ricordava era suo marito con Tommy stretto al petto e poi la terra che
le si schiantava negli occhi. Era stata gettata faccia in giù sulla superficie
sassosa della strada ed aveva battuto la testa con violenza tale da perdere
i sensi per tre giorni.
Era stato un bene – la zuppa sembrò tornarle su in gola al pensiero.
Al suo risveglio si era resa conto d'essere stata stuprata e... e al resto
non ci voleva pensare. Era più di un anno che rimandava il momento di
pensarci, perché non ne aveva il coraggio. Il suo corpo ora non era più
quello di prima, non osava pensare a ciò che avrebbe detto a Corin.
Serpeggiava angosciante il pensiero che lui avrebbe potuto ripudiarla.
Provava un disperato senso di colpa per il fatto di non essere riuscita ad
evitarlo ed allo stesso tempo il senso di vergogna per essere stata
umiliata fin dentro la sua carne.
Per distogliere – per l'ennesima volta – il pensiero dalla realtà
opprimente di se stessa violata, fece vagare lo sguardo nella grande
cucina di Alto Castello. Ansimava ed il cuore batteva per un senso di
panico che non sapeva calmare. Respirò a fondo, tentando di recuperare
il controllo.
Adesso poteva usufruire di una cucina vera e funzionale, che Giada
aveva rimesso a nuovo. La principessa aveva la rara capacità di saper
45
aggiustare, rinnovare e inventare gli oggetti, trasformandoli in veri e
propri capolavori. Come quella cucina con i forni in grado di conservare
il calore anche per un giorno e mezzo grazie ad una valvola oppure
all’acqua disponibile da una pompa arrugginita, senza dover scendere al
pozzo principale.
Nella cucina in quel momento non c’era nessuno.
Era ridiscesa dalle mura quando ormai il sole era tramontato e
l’aveva fatto di proposito, per non dover incontrare le compagne.
Il silenzio di quel luogo la confortò ed allo stesso tempo la fece
sentire così distante da se stessa. La rabbia non era scemata, ma di nuovo
controllata. Solo le palpebre pesavano per le lacrime che alla fine erano
scese fino a gonfiarle gli occhi.
Udì dei passi che scendevano le scale e varcavano la soglia della
cucina. Rebecca riconobbe quei passi e non si volse neppure a guardare
chi la raggiungeva.
Ada, la vecchia guaritrice del suo villaggio, le si sedette accanto e le
passò una mano tra i capelli corti. Rebecca le sorrise per quella carezza.
Ada le aveva fatto da madre quando sua madre era stata uccisa e l’aveva
spronata a non lasciarsi andare alla disperazione. Pur non avendola mai
adottata formalmente, la donna si era sempre presa cura di lei.
“Tutto bene, bambina?” le chiese con dolcezza.
“Potrebbe andare peggio” rispose lei.
“Ti mancano, vero?”
“Da morire. Eppure ho da fare qui”.
Lei sospirò tristemente. “Vorrei poterti dire che Alto Castello
andrebbe avanti senza di te, ma non sarebbe la verità”.
“Che cosa intendi?”
“Suvvia, tesoro, ci vogliamo prendere in giro? Giada è poco più di un
cerbiatto impaurito, Tray un animale selvaggio ferito pronto a uccidere
per sopravvivere e Marçela troppo presa a tenere a bada le sue cinque
pesti per poter badare a noi tutti”.
“E tu?”
“Io sono vecchia, lo sai. Una vecchia che può solo darti qualche buon
consiglio”.
Rebecca sorrise mesta di quell’invito. Allungò la tazza verso la tisana
calda e dolce che Ada le aveva preparato e si fece servire. La cucina
poco prima solitaria si scaldò dell’affetto e la gratitudine filiale di
Rebecca per la sua madre adottiva.
46
6.
Fu come se la notte fosse calata d’improvviso su di lui.
John Henry si chiuse a riccio su se stesso, abbattuto da una bastonata.
Corin seguì il suo sguardo fino alla porta alle sue spalle, quella che
aveva ipotizzato portasse agli appartamenti reali.
Oltre quella porta chiusa c’era lei, la regina Esterella, il grande
amore di John Henry, sua moglie, la sua metà, la sua vita.
Esterella era stata la donna più bella che Hakne avesse mai
conosciuta. Nulla l’aveva intaccata nella vita: era bella d’animo e
d’aspetto, eterea, per taluni impalpabile. Una visione onirica. L’ovale del
viso era perfetto, i capelli dorati, naturalmente ondulati, gli occhi di un
celeste così chiaro, così intenso da incantare qualunque interlocutore. Un
uomo normale sarebbe impazzito di gelosia nel possederla, tanto era
splendida; John Henry l’aveva avvolta in un abbraccio caldo e stretto da
cui lei non si era mai sciolta. Tra loro l’amore era nato con la stessa
naturalezza con cui sboccia un fiore. Inevitabile. L’intesa era totale,
alcune volte non avevano avuto neppure il bisogno di parlarsi per capirsi.
A colpire Corin non era mai stata la bellezza effimera della regina,
ma la sua prontezza d’animo. Nonostante il dolore per la perdita dei figli,
la donna aveva resistito alla guerra con il solo intento di liberare il
popolo dalla sete di potere distruttrice di Jacob di Weer; il Generale si era
accorto già da tempo che la vera forza di John Henry era sua moglie.
Non era stato invidioso di John Henry per la sua donna, ma del legame
complice e solidale che avevano saputo costruire.
Adesso, che era un uomo sposato e che con sua moglie aveva vissuto
la stessa intensa complicità, comprendeva quale vuoto abitasse l’animo
del suo signore.
Negli occhi oscuri di John Henry Corin vi lesse la sofferenza senza
tregua.
“E’ lì” disse solo John Henry, alzandosi dalla poltrona.
“Vorrei poterla vedere”.
John Henry annuì titubante.
Tra i due ci fu un secondo immobile. Era come un figlio che torni a
casa e chieda al proprio padre di sua madre malata; c’è la riserva del
padre a non volergli mostrare una donna, un tempo energica, ora
invalida. Sa che il ragazzo rimarrà scioccato dall’incontro. Ed allo stesso
tempo ha bisogno di condividere quel dolore.
“Perché esitate?” interloquì Jesse allarmato.
47
Corin attese la notizia.
E’ morta.
John Henry si mosse verso la porta. Invitò Jesse a seguirlo
porgendogli la mano, che il bambino prese ansioso. Corin li seguì con il
cuore in gola.
Quando la porta si aprì, il freddo penetrò la stanza calda in cui si
trovavano. Al fianco di Corin, Andrea – spettatrice silenziosa – tremò per
il gelo. Corin passò oltre il re, varcando il confine tra il mondo dei vivi e
quello di coloro che aspettano.
Lei giaceva sul letto, composta. Sulla schiena.
Un paio di luci permettevano di vedere in una stanza altrimenti
oscura; i contorni del letto erano sfumati nel buio e in particelle d’aria
impalpabili che portava in quel mondo così confuso. Non c’era che il
letto, un tavolino per appoggiare piccoli oggetti ed una poltrona rivestita
in caldo velluto rosso scuro e pelliccia. Un fuocherello riscaldava appena
la stanza.
Corin cercò gli occhi del suo signore: “E’…?” rantolò.
“No. E’ sempre lì” rispose lui con la sofferenza al colmo.
In quel momento il Generale comprese il perché di tanta oscurità
nello sguardo dell’altro uomo: era condannato a gemere e sperare che la
sua donna si risvegliasse, intrappolata tra due mondi. Non gli era dato
consolarsi con la rassegnazione della morte, così come non poteva
esultare per il fatto che fosse viva, perché non lo era. Una morte
apparente, non definitiva. E la vita sospesa. La rabbia non serviva, il
dolore era devastante, la frustrazione un cancro che divorava le intestina.
John Henry era stato prosciugato delle proprie forze.
Corin si avvicinò al letto, cercando di fare meno rumore possibile,
con il timore di spezzare la quiete irreale di quel luogo. Si sentì stupido a
pensare che, forse, producendo rumore avrebbe potuto svegliarla,
disturbarla.
Esterella dormiva. Riposava di un sonno perenne.
I capelli un tempo biondi come l’oro erano adesso di un biancore
albino, il volto non aveva rughe, era immutabile in quella sua
espressione indecifrabile. Né felice, né addolorata. Non c’era più l’odore
di piccole viole di cui si circondava, non muoveva un muscolo, neppure
involontariamente.
Corin volle toccarla. Era tiepida, segno della vita che ancora
l’abitava. Provò a stringerle la mano con gentilezza. Se la portò alle
labbra e vi depose un bacio leggero. Il braccio di lei era molle, senza
alcuna resistenza.
48
“Mia signora, sono tornato” mormorò.
Si aspettava una smorfia, un sorriso. Invece le sue labbra rimasero
immobili, in quella loro espressione indecifrabile.
“Non ti può sentire” disse John Henry alle sue spalle.
“Volevo comunque renderle omaggio”.
“Sarebbe stata felice di vederti”.
Corin pose la mano della regina sulla coperta e la rimboccò. “Lady
Esterella è ancora tra noi, mio signore. Non parlatene come se…” non
riuscì a trattenersi il Generale.
“Un tempo la pensavo anche io così. Fino a due anni fa sotto le sue
palpebre gli occhi si muovevano; adesso non c’è più movimento in lei.
Ho dormito al suo fianco per tutto questo tempo, illudendomi che il mio
calore l’avrebbe riportata a me. Non è servito a nulla, il mio amore non è
più in grado di riportarla in vita. Credo che in fondo abbia smesso di
amarmi. Con la morte dei nostri due figli ho deluso ogni sua fiducia nelle
mie capacità di regnante e marito. E come padre”.
Corin rimase senza parole per quell’affermazione.
John Henry si era arreso. Totalmente.
Tornò a fissare la regina addormentata.
Esterella non glielo avrebbe mai permesso. E non era neppure certo
che Esterella avesse smesso di amarlo; era più probabile che in quel
mondo onirico, a metà tra l’aldilà e la realtà, lei vivesse il suo tempo con
i figli morti. Nel mondo dei sogni ogni cosa è possibile; qualunque
madre che avesse provato il dolore devastante della morte di un figlio si
rifugerebbe in un luogo dove la vita continua. Ad Esterella, suo
malgrado, era stato concesso il dono dell’eterna illusione.
E tuttavia… Se si fosse trattato di Rebecca, Corin non le avrebbe mai
permesso di abbandonarsi all’illusione. Perché se sei vivo hai il dovere
di combattere ed essere ancora felice, perché questa è la vita.
Come alla morte della loro piccola.
7.
Corin aveva accolto il corpo della sua bambina, così minuscola, così
simile a Rebecca. Era tiepido, il piccolo petto che si alzava a stento, alla
ricerca dell’aria.
Corin se l’era tenuta accanto alla propria bocca, nel vano tentativo
di aiutarla a respirare, di passarle la propria forza. L’aveva pregata di
non morire, di non lasciarli perché non erano in grado di accettare la
49
sua morte, non dopo che la vita era stata tanto crudele con loro.
E aveva studiato ogni particolare della sua fragilissima figlia: gli
occhietti chiusi; i due capelli castano scuro come quelli di sua moglie; le
manine perfette, i piedini dalle dita delicate; le gambette che cercavano
lo spazio; le braccine strette contro il corpo di suo padre.
Corin non le aveva dato un nome perché prima della sua nascita lui
e Rebecca avevano pensato ad Mary, come la nonna materna.
E come la nonna materna, la piccola aveva tenuto duro per ben
mezz’ora. Fin quando i polmoni prematuri avevano fallito l’impensabile
impresa di trattenere l’aria e lei, con un singulto impercettibile, aveva
cessato la sua vita terrena.
Corin era rimasto con la piccina tra le braccia a piangere lacrime
che aveva sperato di non piangere mai più. Non era capace di
separarsene ed allo stesso tempo aveva bisogno di stare accanto a
Rebecca, che non si risvegliava.
Era stata Ada ad abbracciarlo forte ed aiutarlo a seppellire la
piccina. Gli aveva spiegato che per Rebecca sarebbe stato orribile dover
vedere la sua bambina divenire cadavere; già sarebbe stato difficile
superare quella morte.
“Potremmo avere ancora figli?” aveva chiesto Corin.
“Sì, credo di sì. In ogni caso non dovete dimenticare che avete altri due
bambini, sani e forti, a cui badare. La vita prosegue, ragazzo mio, anche
per tua figlia, nei Campi Fioriti di Thron. Non dimenticartelo”.
No, Corin non poteva dimenticarlo. Era stato un soldato a cui
avevano sterminato la famiglia, che aveva seppellito i suoi amici
d’infanzia: aveva bisogno di credere che la vita fosse una tappa verso il
mondo eterno del dio Thron. Sapere che la separazione da coloro che
aveva amato era solo temporanea – in confronto all’eternità – era una
grande consolazione.
E non dimenticava che per sua moglie, così emotiva, così fragile nei
sentimenti, la morte della sua bambina, così amata, desiderata, sarebbe
stata devastante.
l giorno del funerale della piccola, Rebecca era ancora senza
sensi. Corin aveva deposto il corpicino con delicatezza nella terra,
avvolta da un sudario ch’era stato ricamato da Rebecca e doveva essere
il panno che l’avrebbe avvolta alla nascita.
Nonostante le belle parole di Ada, Corin non riuscì a riprendersi dal
dolore. Non quel giorno.
Forse, si era detto, domani andrà meglio.
Il giorno dopo Rebecca aveva riaperto gli occhi e Mark aveva
50
esclamato il suo nome con gioia e trepidazione. Davanti al sorriso di
suo figlio, al bisogno di Jesse di stare accanto a sua madre, Corin aveva
capito che non ci si può rassegnare. Non fintanto che resta una fievole
speranza di cambiare le sorti della vita. Si può pazientare, ma non
rassegnarsi.
E quando sua moglie cadde nel vortice della depressione lui non si
diede per vinto, finché non la salvò – come ci si sarebbe aspettato da un
cavaliere quale era nell’animo. E salvò se stesso perché la battaglia
della vita non era ancora vinta.
8.
Quando Rebecca la fece chiamare, Giada stava già dormendo nella
camera che fu sua da bambina.
Lì tutto era rimasto immutato: le sembrava di poter respirare ancora il
profumo di violette di sua madre; l’aria primaverile, frizzante, quando
finalmente la neve cedeva il posto al sole; il vento autunnale che portava
via le foglie estive; la legna crepitante nel camino durante le lunghe
nevicate; l’odore invitante delle ciambelle alla cannella e miele; il bagno
fumante e l’olio di mandorle sui suoi capelli per renderli morbidi e
lucenti. Ricordi che si rincorrevano uno dopo l’altro nella sua mente,
immagini che la sommergevano strappandole il cuore di malinconia ed
allo stesso tempo la consolavano perché finalmente era a casa. Una casa
maledetta perché lì sua madre era stata colpita dall’incantesimo lanciato
dal mago di Weer, ma comunque la casa dove aveva vissuto da quando
aveva ricordi.
In fondo non aveva che otto anni quando suo padre si era ritirato
nelle terre del Nord, lasciandola nel castello di Weast.
Nella stanza che fu dei suoi genitori ed ora disabitata, Giada si
rifugiava per cercare lo spirito di sua madre, chiedersi che cosa ne fosse
stato di lei, di suo padre. Fortunatamente l’altro punto di riferimento
della sua vita, Mastro Mayster, era il marito di Rebecca e, a seguito della
voci riportate dalle genti che cercavano rifugio tra le mura di Alto
Castello, sembrava che un certo Corin avesse inferto una sconfitta
rilevante alle forze nemiche. E c’era un solo uomo con quel nome e
quelle qualità capace di tanto.
Alto Castello era per lei lo stesso luogo protettivo e misterioso di
quando era bambina. Pur sapendo di dover prendere una posizione nei
confronti della propria gente, rimandava quel momento, vivendo ancora
51
sotto le mentite spoglie della serva di Weast. Era certa che, se si fosse
rivelata, avrebbe distrutto quello che Rebecca aveva costruito. Con lei,
Giada si sentiva forte, protetta, dalla parte della ragione. Nonostante tra
le due ci fossero appena sette anni di differenza, Rebecca aveva ai suoi
occhi l’aura della guida.
Dopo la vita vissuta fino a quel momento alla deriva era tutto ciò di
cui aveva effettivamente bisogno.
Tray stava già fumando una sigaretta, quando Giada e Marçela
entrarono nella sala, dove qualche ora prima Rebecca aveva avuto lo
scontro con Klaus ed i suoi.
La principessa sorrise a Tray, che mosse le labbra in una smorfia
simile ad un sorriso. Tray sorrideva poco, ma non era cattiva. Con lei
Giada condivideva l’affetto che provava per Rebecca.
“Scusate l’ora. – esordì subito Rebecca, strofinandosi la faccia e
tirandosi indietro i capelli – ma era necessario parlarci”.
“Senza uomini tra le palle” finì Tray.
“Quegli uomini, sì. Allora, il nostro problema è che vogliono
comandare senza saperlo fare. Direi che possiamo farglielo fare se…”
“Ma che cosa stai dicendo? Eh?” s’infervorò Freccia Letale.
“Domina i bollori, ragazza. – la redarguì Marçela, che ad una certa ora
cominciava a perdere la pazienza – Va’ avanti, Becca”.
“Grazie. Il fatto è che non posso buttare Klaus fuori da qui, si
venderebbe a Weer. E non ho intenzione di farmi da parte. Inoltre
cominciamo ad essere in tanti, senza contare che l’inverno è alle porte.
Giada ha fatto un ottimo lavoro con gli impianti dell’acqua ed il sistema
di riscaldamento delle cucine; ma temo non basteranno. Alto Castello è
rimasto abbandonato da troppo tempo, l’inverno si prospetta lungo”.
Rebecca si alzò e si sedette sul bordo del tavolo, davanti a Tray.
“Cominciamo da te. Ho bisogno di tenere a bada i giovani scapestrati. I
vecchi padri ormai si sono rassegnati alla guerra ed accetteranno ogni
mia decisione; lo stesso non vale per tutti quei ragazzi che hanno le
fregole di dimostrare quanto sono valorosi. Arruola tutti i ragazzi dai
dodici anni ai diciannove. Fanne due classi: i ragazzini dai dodici ai
quindici e quelli dai sedici ai diciannove. Addestrali. Voglio dei
combattenti veri. I più piccoli torneranno a casa dalle famiglie un giorno
alla settimana, i grandi ogni due. Se, naturalmente, non saranno di
servizio di guardia”.
“Dove mi metto?”
“Prenditi l’ala est della cittadella. C’è il palazzetto da ristrutturare, ma
potete farcela. Questo terrà i ragazzi occupati. Giada ti aiuterà con i
52
progetti. Pensi di potercela fare?”
“Certo”.
“Perché vuoi metterli di guardia?” chiese Marçela, visto che il suo
più grande aveva dodici anni appena compiuti.
Rebecca e Tray si scambiarono un’occhiata. Marçela era una donna
energica e solare, ma poco perspicace alle varie sfumature della vita
politica.
“Ci servirà in caso Weer dovesse assediarci” rispose Rebecca infine.
“…Attaccarci?” all’altra donna mancò il fiato.
“Credi che ci attaccherà?” proruppe preoccupata Giada.
“Ne ho la certezza. – ammise Rebecca non poco delusa dall’ingenuità
della principessa – se tutta questa gente arriva a noi tramite le voci che
vanno spargendosi, perché non potrebbero arrivare anche Weer? Voglio
essere pronta”.
“Ma sono solo bambini!” inorridì Marçela.
“Sono abbastanza grandi da sorvegliare le mura. A combattere ci
penseranno quelli grandi. Io voglio solo essere certa che Alto Castello
non sprofondi nel caos. Questo ti può chiarire il motivo delle mie
scelte?”
Per tutta risposta lei scoppiò in lacrime. “Sono così stanca! Così
esausta di tutto questo!”
Le amiche corsero a consolarla in abbracci e parole di conforto.
Marçela era una donna capace di riprendersi facilmente, molto più
equilibrata di ognuna di loro. Si scusò dello sfogo e Rebecca le sorrise
comprensiva.
“Non hai nulla di cui scusarti, cara. E’ frustrante per tutte noi”.
“Se il re tornasse o se almeno qualcuno si prendesse cura di noi…”
“Il fatto è che noi possiamo badare solo a noi medesimi. – considerò
con disprezzo Tray – dubito che Sua Maestà si ricordi del suo popolo. La
regina forse era diversa, ma John Henry è pur sempre un uomo”.
Rebecca guardò di sfuggita Giada, la quale però non parve essere sul
punto di ribattere - Come se non le interessasse.
“Mi chiedo se Mayster esista ancora. – ribatté Marçela – dovunque
passasse, le cose per noi andavano meglio”.
“Mayster tornerà” le assicurò d’istinto Rebecca e Tray le fece eco.
La sicurezza con cui avevano affermato quelle parole diede conforto
alla donna.
“Adesso ti dico quale sarà il tuo compito” proseguì Rebecca.
“Sì”.
“Le donne, i vecchi ed i bambini di Alto Castello dovranno prenderti
53
come punto di riferimento. Dobbiamo fare in modo che la depressione
non le divori e sai che cosa intendo”.
“Fin troppo bene”.
“Le donne incinte potranno abitare nella villa della Piazza Azzurra;
insieme a loro voglio che si trasferiscano le sei levatrici e gli anziani che
non possono più coltivare i campi né lavorare altrove. Le nuove vite
porteranno serenità nell’animo di tutti e quelle poverette riusciranno a
superare il momento traumatico di un figlio non voluto. Parliamo dei
bambini: dividili in classi ed affidali agli anziani che sono in grado di
seguirli. I piccoli possono stare insieme, ma dagli otto anni sono in grado
di imparare un mestiere. Le puerpere, passato il periodo appena
successivo il parto, possono tornare a lavorare per la comunità. Marçela
confido che tu sappia far comprendere quanto sia importante la saluta
psichica di queste donne. Vorrei evitare episodi d’infanticido”.
“Va bene. Ho già un’idea”.
“Grazie. Stai meglio?”
Lei sorrise beffarda e maliziosa: “E’ che mi manca qualcosa”.
Rebecca rispose alla battuta: “Temo non solo a te. Giada, parliamo di
te”.
La principessa, ancora imbambolata per il sonno, si riscosse appena.
“Dimmi”.
“Ho bisogno che aiuti Tray e Marçela ad organizzare gli spazi della
caserma e della casa per le madri. Se puoi, fatti aiutare dalle ragazze e
dagli anziani. Lascia perdere Klaus ed i suoi, a loro ci penso io”.
“Servirà parecchio materiale”.
“E’ un grosso problema? Fai una stima di quello che serve e faccio in
modo di procurartelo”.
“E Klaus?” chiese Tray.
“A lui ci penso io. – Spezzacolli fece una smorfia disgustata – mi
metterò d’accordo con lui per la suddivisione delle terre di Alto Castello.
Voglio che ogni acro di terra venga coltivato e che ci siano bestie a
sufficienza per sfamare la gente che ci abita. Ho sofferto la carestia, non
desidero far soffrire questa povera gente anche di quello”.
“E noi che cosa possiamo fare?” era Marçela.
“Cercate di pestare i piedi il meno possibile a Klaus. Dobbiamo dargli
l’impressione che abbia assunto il potere. In fondo è solo un bottegaio.
Vuole la terra? E noi gliela daremo. Sarà una sua responsabilità far
fruttare Alto Castello. Sua e dei suoi amichetti. Quello che noi
pretendiamo è di allevare i figli e gestire al meglio le case: su questo non
discuteranno nessuno di loro; governare la casa è compito delle donne”.
54
“Non farà delle storie per l’addestramento?” intervenne Tray.
“Può darsi, ma è anche vero che possiamo far ruotare i tuoi ragazzi
nelle terre ed in caserma. Oppure metterli per qualche ora al giorno a
disposizione degli uomini. Però vale solo per quelli dai sedici ai
diciannove. I piccoli si rovinerebbero tra addestramenti e lavoro nei
campi”.
“Quanti scrupoli. – si stupì Marçela – Io lavoravo nei campi a dieci
anni”.
“Tu ci manderesti tuo figlio adesso nei campi?” ribatté l’altra.
“No, è piccolo”.
“Appunto. A quell’età i ragazzini non sono ancora uomini. Io voglio
responsabilizzarli ed educarli; la vita sarà abbastanza dura con loro
dopo”.
Giada si era appisolata sulla poltrona davanti al fuoco.
Era tranquilla: come sempre Rebecca aveva trovato una soluzione. La
cosa giusta da fare.
9.
Tap-tap-tap.
I passetti veloci di Mark e Tommy ruppero il silenzio spettrale della
stanza in cui riposava e (non) viveva la regina. Il secondogenito si buttò
di peso sul letto, salendoci su con un balzo.
“Chi è lei? La regina?” squittì, avvicinandosi al suo volto
addormentato.
“Sì, ma ora scendi” rispose suo padre.
Mark lo ignorò.
Jesse ed Andrea li raggiunsero. “Papà, ma che cosa fa la regina?
Dorme?” proseguì Mark.
“Non ti ricordi che cosa diceva Ada? La spia di Weer le ha lanciato un
incantesimo” s’intromise Jesse.
“E ancora non si sveglia?”
“Non abbiamo trovato ancora un modo per farla svegliare” rispose con
gentilezza John Henry.
Mark si sdraiò contro il corpo immobile della signora, i capelli
biondicci così scuri in confronto a quelli albini di lei. Lui così vivo, lei
così immutabile come può essere il coma.
“Sta facendo un bel sogno. – sorrise Mark con la sua innocenza che
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stupefaceva gli altri – Un sogno dove fa caldo. E’ proprio bella, come
diceva Ada”.
Tommy intanto si era arrampicato dall’altra parte. Era buffo vedere
questa donna addormentata con i due monelli che la studiavano, la
spettinavano e scomponevano la sua ordinata immutabilità. Il più piccolo
passava le manine calde sul viso con carezze rozze; l’altro si acquattava
sotto la sua ascella, quasi a cercare rifugio.
“Scendete” esplose Jesse a disagio, perché suo padre non diceva
nulla. Poi si accorse che Corin e il re stavano ravvivando il fuoco e
parlottavano. Maestro Jamie si avvicinò loro.
“C’è una cosa di cui volevo ancora parlarvi. L’avrei fatto dopo, ma
Mark mi ha costretto a farlo ora” esordì il Generale.
“Che cos’è?” si preoccupò John Henry.
“Mark ha un potere speciale. E’ in grado di percepire l’animo delle
persone, al punto da saper riconoscere il male. E’ stato grazie a lui se non
siamo caduti nelle mani di Weer: Mark fiuta i tradimenti”.
“Sente solo le percezioni negative?” s’interessò Maestro Jamie, forse
l’ultimo dei maghi conosciuti di Hakne dopo la Grande Migrazione.
“No, anche quelle positive. Purtroppo non posso dirvi molto altro”.
A Maestro Jamie gli occhi s’illuminarono di quella luce speciale che
c’è tra individui simili.
“E di Jesse, che mi dici?” chiese John Henry.
“No, lui è come me. Un combattente”.
“Tommy?”
“Lui è… - Corin sorrise teneramente – Tommy porta la serenità. Basta
che entri in una stanza e con lui entra la luce”.
John Henry seguì lo sguardo di Corin. Negli occhi, nelle parole del
padre si manifestava l’amore infinito per le proprie creature. Un amore
di cui John Henry non conosceva più il significato. Si sentiva gelato,
intorpidito dalla sofferenza e dalla nostalgia. Grazie ai tre bambini del
suo Generale il senso di lontananza dalla vita si era affievolito e
l’imprevedibilità di Jesse insieme alla vivacità di Mark veniva condita
dalla solarità di Tommy, così da aiutare l’uomo a risentire il calore, il
sapore, il colore della realtà.
Era ancora vivo.
“…se poteste aiutarmi a controllare l’emotività di Mark, ve ne sarei
grato” stava finendo di dire Corin a Maestro Jamie.
“Il suo è un potere molto particolare” ammise l’anziano consigliere.
“Il fatto è che qualche volta Mark ne perde il controllo e fa degli incubi
terribili. Non gli si riesce a parlare per giorni”.
56
John Henry si distaccò dai loro discorsi per osservare i bambini.
Se Esterella fosse stata viva, si sarebbe inginocchiata per essere alla
loro altezza e poi si sarebbe messa a giocare a qualsiasi gioco avessero
chiesto. Gli pareva di scorgerla giovane, i capelli sciolti sulle spalle, i
loro figli piccoli, il vestito di seta correre con lei, ondeggiando al vento
come l’erba morbida dell’estate. Le risate che riecheggiavano per il
castello…
...il sole…
quanto tempo era che non vedeva il sole? Ci si scaldava? Rideva?
Aveva ancora bisogno di ridere!
“…Weast…” il re colse il nome della città e di scatto interrogò il suo
Generale.
“Sei stato a Weast?”
Corin s’interruppe, colpito dalla domanda precipitosa del suo signore.
“Sei stato a Weast?” ripeté John Henry.
“Vivevo a Makma, mio signore. Makma è un villaggio al limitare della
Contea di Weast. – Corin indugiò, quindi proseguì abbassando la voce –
Weast pare essere il castello da dove sono fuggite Spezzacolli e le sue
donne. Quello che sappiamo di certo è che il figlio del vecchio conte si
sia sposato con una donna fedele a Weer e che abbia saltato il fosso. E’
un’altra cosa di cui dovevamo parlare, Maestà. I nobili che un tempo…”
John Henry era raggelato. Sul suo volto già pallido era comparso il
colore bianchissimo del terrore.
Traballò su gambe incerte.
“Mio signore! – Corin fece appena in tempo a prenderlo e sorreggerlo –
Andiamo fuori di qui, non avevo pensato all’effetto di…”
“A… aspetta, Mayster” John Henry si divincolò dalla presa del suo
Generale.
“Che cosa vi succede?”
“Rispondi alla mia domanda: sei stato a Weast?”
“Sì, alcune volte. L’ultima è stato questo inverno, quando sono andato a
comprare dell’eucalipto azzurro per la polmonite di Tommy”.
“No, intendo dire: sei entrato nel castello?”
“No, nella città. Non avevo motivo per…”
Corin tacque all’improvviso.
Giada.
Fissò John Henry con occhi stralunati. Lo afferrò malamente per un
braccio, in una stretta convulsa. “Vi prego, non ditemi che lei era lì!”
John Henry e suo fratello Jamie di scambiarono un’occhiata di
stupefatto terrore.
57
CAPITOLO 3.
1.
Jacob di Weer giocava con il figlio Xanatos, tenendolo nelle sue mani
enormi.
L’estate era appena iniziata e il piccolo cominciava finalmente a
perdere lo strabismo di Venere e sorridere. Quando allargava le labbra in
una risata sdentata, Jacob si divertiva a notare le fossette così simili alle
sue.
Adorava suo figlio.
Xanatos era suo figlio. Figlio del suo seme. Per quanto fosse così
ridicolo agli occhi di molti uomini, per uno come Jacob di Weer il
problema dell’accoppiamento era sempre stato un enorme ostacolo. Il
Barone era un uomo alto due metri e mezzo e pesante centosessanta
chilogrammi, le sue mani potevano contenere la testa di un uomo ed era
forte più di un toro. E come un animale tanto possente aveva anche un
membro tanto grande. Le sue ex mogli avevano trovato la morte proprio
nel giacere con lui: chi l’aveva fatto non era riuscita a contenere il
membro o il figlio enorme; chi si era rifiutata di giacere era morta
comunque per le botte del Barone.
Jacob di Weer era convinto e si sentiva giustificato a combattere e
sottomettere tutti coloro che fossero stati più deboli di lui. Tanto
convinto da aver cominciato una guerra contro un sovrano che
ammetteva la libertà assoluta del popolo a patto che fossero rispettate le
tasse e le poche regole imposte. Non si arricchiva, non sperperava, non
viveva di eccessi pur essendo nella posizione per poterlo fare.
Jacob di Weer aveva cominciato una guerra personale contro John
Henry perché invidioso fino alla morte della sua felicità. Voleva
distruggerla.
Non si chiese dove fosse ora tutto quell’odio. Adesso aveva anche lui
un figlio suo, un castello, una casa, una moglie.
Alzò lo sguardo su di lei, intenta a ricamare il vestito da indossare per
il Solstizio d’Estate.
Rihanna era una donna di dubbia bellezza, anzi nessuno avrebbe
potuto dire che fosse bella. Neppure carina. Rihanna era una donna alta
un metro e ottanta e pesava circa un centinaio di chilogrammi. Aveva
seni enormi, un ventre prominente per il grasso e gambe pesanti per la
58
troppa carne. I capelli erano di un castano tendente al nocciola. Ci erano
voluti mesi perché le donne del castello facessero risplendere la sua
pelle.
Rihanna aveva fatto la puttana fino a quando non aveva chiesto
udienza a Jacob. E dopo esserselo scopato davanti a tutti, un quarto d’ora
dopo essere stata ricevuta, era diventata sua moglie. Jacob stava
invecchiando e voleva un figlio. Voleva una donna capace di dargli un
figlio; non gli importava quali fossero le sue origini. Il Barone di Weer
aveva rivendicato da tempo per sé il trono di Hakne e nelle sue terre si
investiva del titolo di sovrano assoluto di Grande Regno. La donna che
fosse riuscita nell’impresa di giacere con lui e dargli un figlio avrebbe
condiviso il potere e le ricchezze.
La donna del suo destino era Rihanna la Botte.
“Perché mi guardate così?” chiese lei senza alzare gli occhi dal suo
lavoro. Rihanna aveva imparato da poco a ricamare e lo faceva con
risultati apprezzabili sebbene non eccezionali.
“Ti guardo quanto voglio” ribatté lui.
“Liberissimo. Ma vostro figlio non è più bello?”
Jacob abbassò gli occhi su Xanatos. Sgambettava cercando di
prendere la barba fulva di suo padre. Era un neonato forte ed era bello.
Come sua madre.
Il mondo avrebbe potuto dire quello che voleva, ma Jacob non poteva
distogliere gli occhi da sua moglie. Senza sapere che quel sentimento era
l’amore, avrebbe ammazzato chiunque avesse offeso la sua donna; era
pronto a farsi tagliare entrambe le braccia per lei. E non era capace di
distogliere gli occhi dai suoi, color nocciola e oro, vivaci, intelligenti,
accesi di quella luce combattente che le aveva permesso di partorire
Xanatos sulla tavola della sala da pranzo davanti a tutti, perché Jacob
vedesse la nascita di suo figlio. L’aveva afferrato con la violenza inaudita
di cui è capace una donna con le doglie e l’aveva trattenuto in quella
sala, obbligandolo a prendere Xanatos per primo tra le braccia.
Gli aveva concesso il dono più grande della vita, cioè assistere al
principio di essa.
Rihanna era diventata la sua compagna, il bastone che accompagna e
che qualche volta viene dato in testa per far rinsavire dalla stupidità.
“Vi piaccio tanto?” sogghignò lei.
Jacob l’aveva trattata fin da principio con sufficienza e disgusto,
accettandola solo per il fatto che potesse partorire la sua prole; Rihanna
sembrava immune a tale atteggiamento, dopo aver vissuto una vita
difficilissima in mezzo alla strada ed agli stenti. A lei bastavano il piatto
59
pieno ed un letto caldo. Suo figlio poi aveva il futuro assicurato, almeno,
fintanto che il padre deteneva la posizione di potere.
Dopo la pesante sconfitta sul Fiume Dorato pesava il dubbio che
Jacob avrebbe potuto essere ancora sovrano.
“Idiota” borbottò lui abbassando gli occhi.
Lei continuava ad avere una smorfia divertita sulle labbra. E lui si
stava perdendo nella pelle chiara del viso con piccole efelidi di un
marroncino chiarissimo, senza rughe. Rihanna avrebbe compiuto ventitré
anni quell’anno, un giorno imprecisato per entrambi. Probabilmente la
madre stessa di Rihanna faceva la puttana ed alla figlia era toccato lo
stesso destino. L’intelligenza di Rihanna era stata ascoltare ed imparare
dagli errori della madre, apprendendo l’arte della compiacenza e
dell’indifferenza al resto del genere umano.
Rihanna non era né migliore né peggiore degli altri; viveva la sua vita
come il resto del genere umano, ricordandosi che uomini e donne,
nonostante si fregiassero di ranghi e ceti sociali elevati comprati con la
forza o i soldi, alla fine mangiavano, bevevano, cagavano, scopavano e
morivano come tutti i poveri diavoli.
Jacob aveva compiuto cinquantadue anni. Avrebbe potuto essere il
padre di Rihanna. Invece era suo marito. Da quando era nato Xanatos
aveva cominciato a domandarsi che tipo d’infanzia potesse aver avuto
sua moglie, come sarebbe stato bello vederla bambina, i sorrisi innocenti,
ignari della crudeltà della vita, e poi preservarla dalle violenze subìte.
Voleva dimenticare che sua moglie era stata la donna di migliaia di
uomini; lo relegava nella mente, ma il pensiero ritornava e gli strozzava
la rabbia in gola. Per la prima volta assaporava la gelosia. Il gusto acre
che gli lasciava in gola era intollerabile.
“Non sono io ad essere idiota” rispose lei con naturalezza.
“Che cosa intendi?” s’irritò lui.
Rihanna era l’unica persona al mondo che non lo temesse, nonostante
la sua vita dipendesse da Jacob. Gli doveva la salvezza, eppure non si
tirava indietro quando aveva delle osservazioni da fargli. In privato,
sempre e comunque. Dinanzi al popolo intero ed alla Corte Rihanna
quasi non gli rivolgeva la parola e si disinteressava della politica. Per
quanto in separata sede gli facesse sempre notare particolari che non le
andavano a genio. Rihanna era attenta ai particolari. Attenta e capace di
cogliere le sfumature.
“Che il mio posto è qui, nei nostri appartamenti, mentre il vostro è
fuori, a conquistare Hakne”.
Jacob indugiò prima di rispondere.
60
Sua moglie gli stava ricordando che aveva un Regno da portare
avanti, un dovere a cui non poteva sottrarsi. Il problema era che Jacob
non desiderava affatto scendere ed affrontare la sua Corte. Dopo la
sconfitta sul Fiume Dorato ad opera di Corin il Fuorilegge e la sua fuga
dal campo di battaglia, Jacob di Weer non era più lo stesso, né lo era la
sua autorità. Si era sentito improvvisamente stanco di combattere,
desideroso solo di quiete.
A tal proposito aveva fatto allestire i propri appartamenti con quelli di
Rihanna: una camera matrimoniale, una stanza attigua per Xanatos ed
una saletta dove potevano desinare in assoluta intimità e godere di spazi
privati. Rihanna aveva arredato quelle stanze con mobili semplici e
funzionali: non c’erano coppe dorate né armature a decorare. Lei stessa
ricamava piccoli quadri da appendere alle pareti nude.
“Sta’ zitta” le intimò Jacob.
“Probabilmente avete ragione, mio signore. – Rihanna si alzò dalla
poltrona, dopo aver riposto il vestito – Ma vedete, ora avete un figlio a
cui pensare: rimanendo qui con me state perdendo il controllo della
situazione”.
“Vuoi le botte, donna? Sta’ attenta a quello che dici perché ti
accontento”.
Lei gli andò vicino, le braccia arrendevoli lungo al corpo. Modulò la
voce in tono tenero, in contrasto con quello brusco di lui: “Maestà, voi
avete perso una battaglia. Corin può averla vinta, ma come farà a
conquistare i nobili signori? Le alleanze di John Henry sono debolissime
ormai, Corin ha l’appoggio del popolo. Ma se i signori di Hakne
cambiassero idea su John Henry, la gente si troverebbe a seguire loro. E
quindi voi. Corin ha solo vinto la battaglia, ma voi lavorate ai fianchi da
dieci anni. E John Henry? E Mastro Mayster? Dove sono?”
“… non lo so” ammise Jacob. Xanatos cominciò a sgambettare e
chiedere da mangiare, girando la testolina verso le mani di suo padre.
“Perché non avete verificato. La guerra è ancora in atto, voi potete e
dovete vincerla. Per vostro figlio, mio signore. E ora passatemelo. – si
chinò a prendere il figlio ed avvicinò il viso a quello del marito – a meno
che non siate in grado di allattarlo voi” sogghignò.
“Prendi, stupidina” Jacob provò l’impulso di avvicinare le labbra a
quelle di Rihanna.
La madre prese il figlioletto scostandosi da lui. Sciolse i lacci del
vestito e liberò uno degli immensi seni. Xanatos vi si attaccò vorace. Un
altro neonato non sarebbe neppure riuscito a prendere l’enorme
capezzolo.
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“Non capisco perché ti ostini ad allattarlo tu” protestò Jacob.
“Perché il mio latte è più buono. – Rihanna e Xanatos si stavano
scambiando quello sguardo di amorevole e totale intesa che c’è tra madre
e figlio. Lei gli spettinò i fini capelli color carota, eredità paterna – E poi
dubito che esista una donna in grado di sfamare questo piccolo gigante”.
Su questo Jacob era d’accordo. Tuttavia gli era stato insegnato che le
nobili donne non allattavano, non era decoroso. Qualcuno favoleggiava
che fosse a causa della loro delicatezza. Altri per la bellezza. Jacob aveva
visto Esterella allattare il suo primogenito – immagine rubata spiando
negli appartamenti privati di John Henry quando ancora faceva parte
della sua Corte - e sapeva che non era né per l’uno né per l’altro motivo.
Semplicemente allattare era ritenuto qualcosa di troppo plebeo.
Eppure non c’era niente di più bello che spiare gli sguardi innamorati
tra una madre ed il proprio piccolo.
Jacob osservò la moglie cambiare seno e girare Xanatos per allattarlo
dall’altro. La visione fugace della pelle nuda di Rihanna accese un certo
desiderio dentro il Barone.
Abbassò lo sguardo, quasi per pudore e tornò a cercare quella pelle
bianca e nuda. Già ricoperta. Pensò che erano passati due mesi dalla
nascita del figlio, che forse…
Già due mesi. – si disse, andando alla finestra.
Il tempo passava. Tempo assassino. Lui invecchiava, Xanatos
cresceva.
E c’era quel patto maledetto, stipulato in un tempo lontano dove
l’odio dominava la vita. Fino a distruggerla.
2.
Questa volta Corin accettò il liquore acro e pungente che gli bruciò la
gola.
Avevano lasciato che Esterella riposasse del suo sonno perenne, per
tornare nella sala adiacente. I bambini stavano mangiando i biscotti alle
mandorle con il miele insieme al latte; Andrea badava loro e scrutava
l’espressione sconvolta del Generale.
John Henry giaceva sulla propria poltrona, abbandonato come un
sacco vuoto.
“Weast era il mio alleato più fidato, Mayster” sussurrò il sovrano,
fissando sconvolto le fiamme del fuoco.
“Quando Esterella cadde vittima del maleficio – spiegò Maestro Jamie,
62
non meno sotto shock – ci trovammo in preda al panico. Alto Castello
era inespugnabile ed invece neppure lì eravamo al sicuro. Hakne stessa
ormai era un nido di serpenti. Weast era risultata la soluzione migliore:
una contea relativamente piccola, tranquilla, il suo signore un uomo
saggio e forte. Il posto ideale per Giada”.
“Quando è successo? Quando si è ammalato Weast?” interloquì John
Henry quasi piangendo.
“Non ve lo so dire di preciso, Maestà. Dalle poche cose certe che mi
sono state confermate, pare che la nuora di Weast sia una donna fedele a
Weer e che la malattia sia dovuta proprio a lei”.
“Che intendi?” era Maestro Jamie.
“Sospetto qualcuno capace di… di fare ciò che è stato fatto a Lady
Esterella”.
Cadde un silenzio pesante.
Corin tirò fuori dalla tasca interna del mantello la pipa e il tabacco.
Pestò il tabacco dentro al pipa piccola e dagli intarsi d’oro – uno dei
primi regali di sua moglie – e l’accese. Aspirò una boccata generosa ed
espirò.
“Non è tutto perduto, Maestà” dichiarò quindi.
“Mh.” John Henry non aveva neppure la forza di rispondere.
“Pensi che Giada sia riuscita a fuggire?” Maestro Jamie spostò gli occhi
dal fratello minore.
“Sì. Il fatto è che nessuno ha riportato notizie circa la presenza di Giada
a Umm o Hakne. Di certo Weer la sta cercando e sono convinto che, se la
principessa fosse tornata alla Capitale, Justine l’avrebbe fatto sapere.
Spezzacolli è fuggita da Weast, Giada era a Weast. La principessa
potrebbe essere fuggita con lei”.
“Può darsi che Spezzacolli sia la stessa Giada” sorrise Maestro Jamie.
Corin non rispose, ma annuì appena. Se Spezzacolli fosse stata Giada
e non Rebecca, allora che ne erano delle sue speranze su Rebecca?
“Può darsi che Giada sia insieme ai suoi fratelli” rimbeccò cupo il
sovrano, perso nelle fiamme del camino.
Con questa frase John Henry riuscì a portare il silenzio definitivo tra
di loro.
La rabbia pervase Corin fin nello stomaco, bruciandoglielo. Il sapore
acre dell’ira gli riempì la gola. Si dovette alzare per non mettersi ad
urlare: ho percorso migliaia di chilometri con i miei bambini! Ho
abbandonato mia moglie al suo destino quando avrei potuto andare a
cercarla! E tutto per sentirvi dire che sono tutti morti, che tanto è tutto
inutile! Alzatevi! Tornate a combattere, maledizione! Siete il re! Il re!
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Siete nato re per proteggerci! Vi paghiamo, lavoriamo per voi! Moriamo
in nome del vostro potere e tutto quello che sapete dire è questo? I miei
figli hanno passato un mare per voi!
Il Generale era furente.
Si rifugiò nella stanza di Esterella nel vano tentativo di controllare la
propria rabbia. Strinse i pugni fintanto che la mano piccola e coraggiosa
di Jesse non gli si infilò dentro il palmo.
“Papà, - sussurrò il figlio con le lacrime agli occhi – adesso andiamo a
cercare la mamma?”
“Sì, Jesse. Adesso abbiamo compiuto il nostro dovere”.
Jesse ebbe un singulto che non poté spiegarsi e si appoggiò al padre.
Sollevato.
3.
Jacob di Weer non riusciva a dormire.
Sua moglie riposava pacifica accanto a lui, la camicia da notte di
cotone bianco scopriva la pelle candida ed abbondante. Quando dormiva
aveva la stessa innocenza dei bambini. La fronte rilassata, l’espressione
di chi si gode davvero il sonno ed i sogni.
Jacob studiava nei minimi dettagli, dalle sopracciglia al primo capello
bianco che, solitario, veniva nascosto dagli altri castano-chiari.
Con una nuova consapevolezza si chiese quale vita avesse condotto
fino ad allora Rihanna, come facesse a dormire così quieta. Alcune volte,
prima che Xanatos nascesse, avevano fatto l’amore e lui aveva infilato le
mani sotto la casacca, per afferrarle i fianchi. Aveva sentito i solchi di
una cicatrice sul fianco. Non aveva mai visto sua moglie nuda, se non il
giorno del parto – ma allora l’attenzione era focalizzata altrove.
Pensare alla nascita di suo figlio, indusse il Barone ad alzarsi per
controllare che riposasse bene. Il piccolo dormiva profondamente con
un’espressione innocente, uguale a quella della madre.
Passò una mano sulle manine di Xanatos. Così piccole… e le sue,
così grandi.
Suo figlio…
In un attimo la mente lo ricondusse in terre lontane, dove il sole
brucia la pelle e la notte è fredda da far battere i denti.
64
4.
Jacob doveva ancora compiere quarant’anni. Era un uomo vigoroso,
alto, imponente, arrogante. Un uomo così appariscente ad Hakne e così
anonimo nelle Terre di Sabbia e Fuoco. Non vedeva l’ora di scendere
dalla nave che l’aveva intrappolato per quattro settimane; non appena i
piedi toccarono la terra, essa cominciò ridicolmente a rollare come la
nave. Il mondo pareva essersi capovolto: lì non c’erano tanti cavalli ma
strani animali da soma con tre gobbe e musi lunghi e buffi.
Assurdamente ricoperti di peluria fitta color miele nonostante il caldo
soffocante. Jacob non aveva mai sofferto un caldo tanto asfissiante.
Sotto le suole dei suoi stivali la terra bruciava come i carboni ardenti. E
ciononostante i bambini nudi del porto correvano scalzi; flessuose ed
alte indigene dalla pelle d’ebano sedevano dietro piccoli banchetti pieni
di frutta e verdura dai colori ed odori più svariati.
Nel grande porto di affaccendavano le genti più bizzarre: c’erano
nani dall’aspetto quasi ferino, il volto schiacciato e le sopracciglia
pronunciate, cispose, labbra spesse ed umide, le braccia innaturalmente
lunghe per gambe tozze e robuste; poi c’erano giganti come Jacob, dalla
pelle tanto nera da confondersi con la pece. C’erano uomini dall’aspetto
più normale e c’era la comunità degli Uomini-gatto. Una specie umana
che affascinò immediatamente il Barone: individui dagli occhi felini,
sotto la pelle delle dita, là dove gli uomini avevano le unghie, loro
avevano artigli bestiali; capigliature chiare, scure, a chiazze, la pelle
ricoperta da una sottile peluria morbidissima. Non avevano sesso
all’apparenza. Vestivano tutti indistintamente con casacche e calzoni
aderenti. Solo avvicinandosi si poteva cogliere l’accenno di un seno, la
protuberanza di un pene.
Per prima cosa Jacob volle provare a salire su di una di quelle
strane bestie, quella con tre gobbe. Girovagò con un servitore per le
strade tortuose del porto, senza preoccuparsi di tenere a mente la strada
del ritorno. Jacob non aveva paura di nulla. Annusò odori e scorse
migliaia di occhi differenti. Imparò che era più facile barattare che
comprare con il denaro; era logico, vista la molteplicità di genti con il
conio differente. Imparò qualche parola che universalmente voleva dire
“sì” e “no”; imparò che cosa valeva di più e cosa di meno; come non
farsi fregare e come abbindolare i fessi.
Jacob era un uomo potente, capace, intelligente. E tuttavia non lo
era abbastanza da leggere negli occhi della gente la deferenza, così
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come era abituato nella sua terra. Nessuno lì aveva paura di lui.
Comprese che doveva esserci qualcuno molto più potente: tutti gli
uomini temono qualcuno o qualcosa.
Tornò alla propria nave solo nel tardo pomeriggio e decise di
dormire nella sua cabina ancora per una notte. Il suo Caballa’h,
l’animale dalle tre gobbe, aspettava sul ponte della nave, insieme alla
sua guida, un ragazzetto di tredici anni con le forme definite di un uomo.
La mattina seguente si perse di nuovo nella città per fare gli affari
necessari e trovare di che vivere per sé e per il suo seguito. La sera
successiva era finalmente seduto in una locanda di ricchi mercanti e si
gustava la visione di due gemelle una color latte e l’altra d’ebano che
ballavano sinuosamente tra loro.
Si fermò alla locanda abbastanza a lungo da farsi conoscere dalla
popolazione e per capire che quel qualcuno abbastanza potente da
mettere tutti in soggezione era lo Stregone Neropece, della Città di Na’h.
Cominciò dunque a mettere su l’equipaggiamento per la traversata
del deserto infuocato; quando un uomo si sedette dinanzi a lui.
Era sera tardi, Jacob stava fumando un’erba dolce e acre, la mente
avvolta in una sordità voluttuosa. Stava bene. Stava pensando di non
tornare ad Hakne, di fottersene della gente che gli rideva ancora alle
spalle.
“Buona serata, amico mio” salutò lo sconosciuto.
Jacob lo aveva fissato con aria ebete.
Lo sconosciuto ordinò qualcosa da bere al padrone della locanda e
aveva poi invitato Jacob a servirsene. Intontito dal fumo, Jacob aveva
obbedito; la bevanda era amara e forte, tanto da strozzargli il dolce
fumo nella gola e riportarlo bruscamente alla realtà.
“Chi siete?” aveva sbottato il Barone, rosso per la terribile bevanda.
“Non mi conoscete?” chiese quieto l’uomo. Non era affabile, né
condiscendente. Appariva di una sicurezza naturale di sé.
La mente di Jacob, ormai risvegliata, si concentrò su di lui.
Un uomo alto, imponente, la pelle di un colore scurissimo, in
contrasto con occhi di un dorato quasi gelido. I capelli erano cortissimi,
pettinati in piccoli ricci, e la barba curatissima conferiva al volto un’età
indefinibile. Era un uomo, certo, di quanti anni? Di quale ceto? Le vesti
non sembravano denunciare il suo status, né c’era oro a sottolineare la
sua ricchezza. Jacob cercò dei servitori, delle guardie del corpo. Non
c’erano.
Il suo volto era fiero, i tratti morbidi e decisi allo stesso tempo, di
una perfezione incredibile.
66
“Sono straniero” si giustificò il Barone a mezza bocca.
“Lo so. Si vede”.
Per Jacob l’osservazione fu pungente. Erano giorni che provava a
confondersi e conquistare quella gente. Quell’uomo era il primo che si
permetteva di fargli notare la sua diversità. E Jacob aveva dei problemi
con la diversità.
“Chi siete?” chiese laconico, abbandonato sui cuscini morbidi della
sua saletta personale.
“Davvero non mi conoscete? Eppure siete venuto per me”.
Solo allora Jacob si trovò a sbattere le palpebre incredulo. Quello
sconosciuto parlava la sua lingua!
“Neropece?” domandò alla fine.
“Sì”.
Jacob non credette a tanta fortuna. Lo Stregone gli aveva
risparmiato una marcia forzata nel deserto. Decise che finalmente il
Fato si era deciso ad aiutarlo; non si accorse che Neropece non aveva
aggiunto “per servirlo”.
“Che cosa vi porta da me? Posso offrirvi da bere?” chiese allo
Stregone con esultanza.
“Preferisco mangiare”. Fece un cenno al locandiere, comparso dal
nulla, ed ordinò un cesto di frutta fresca.
“Dammi del vino” ordinò invece Jacob al locandiere.
Una volta che furono serviti i due uomini parlarono del più e del
meno come vecchi amici. Jacob stava perdendo la pazienza; che cosa
voleva lo Stregone? Che cosa poteva chiedergli? Quale sarebbe stato il
prezzo?
“Parliamo d’affari” Jacob fermò bruscamente le amabili chiacchiere.
“Quali affari, mio nuovo amico?”
“Lo sapete”.
“Dovrei?”
Un silenzio imbarazzante e teso avvolse la sala. Jacob provò il
bruciante desiderio di scuotere Neropece per le spalle, di rompergli il
naso. Odiava la sua naturale tranquillità, quel modo affabile ed allo
stesso tempo enigmatico di parlare. Niente era chiaro, niente era detto.
Un gioco troppo sottile per poterlo comprendere. Incontrando gli occhi
di Neropece, la ferocia che si nascondeva dietro l’oro ghiacciato, si rese
conto che lo Stregone non aveva seguito armato perché non ne aveva
bisogno.
Il Barone rabbrividì.
Chi era quell’individuo?
67
“Sono venuto qui per trovare un uomo tanto coraggioso da imporre la
propria saggezza al comando di piccoli individui ignoranti”.
“E dunque?” lo invitò a continuare Neropece.
“Quest’uomo tanto coraggioso potrebbe condividere il potere”.
“Avete trovato quest’uomo”.
L’alleanza fu così stipulata.
Senza contratti e senza testimoni.
Neropece impose a Jacob di tornare con uomini a lui fedeli; il
Barone obiettò che per certe cose ci voleva tempo.
“Non è il tempo a mancarmi. – rispose lo Stregone – Semmai è a voi,
Uomini di Hakne, a mancare”.
Jacob incassò. “Tornerò presto”.
“Tornerete perché io posso farvi immortale”.
Così Jacob lasciò le Terre di Sabbia e Fuoco per la prima volta. Ci
tornò quattro mesi dopo insieme ai quattro nobili, lontanissimi cugini
della casata reale. Li aveva blanditi e ricoperti di idilliache promesse al
punto che apparivano ubriachi, gli occhi sempre lucidi. Erano stati
condotti al cospetto dello Stregone e di lui si erano fatti beffe.
Neropece poteva aspettare.
Jacob no. Era scivolato alle loro spalle ed aveva sguainato l’enorme
spada. Non si sentiva in colpa; non sentiva nulla se non l’ebbrezza
dell’immortalità. Era più ubriaco dei suoi nobili accompagnatori.
La spada si era alzata ed abbassata quattro volte sulle teste di
costoro, decapitandoli di netto. L’esecuzione aveva avuto luogo nel
deserto buio, dove l’unica luce era quella della luna. Poco prima di
ucciderli, il sangue di Jacob aveva ribollito nelle vene, scaldandolo,
bruciandogli le carni.
Neropece aveva assistito senza una parola. Quando l’ultimo corpo
cadde senza vita, la testa ancora rotolante nella sabbia, il sangue si era
sparso come un lago scuro. Solo allora Jacob si era reso conto del
sudore che trasformava in gelo e della notte ghiacciata. Il lago di
sangue si allargava, Jacob ne aveva le suole piene e ci affondava,
complice la sabbia.
Lo Stregone unì le mani, come per pregare. Con gli occhi scuri fissò
il Barone tanto intensamente da intimorirlo; pronunciò parole
sussurrate alla notte che il vento del deserto condusse con sé. Ogni
lettera, ogni frase rotolò giù dalle sue labbra e accorpò un po’ del
sangue.
Jacob batté le palpebre incredulo.
Ora centinaia di minuscole bolle argentate contenente un po’ di
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sangue si librarono nell’aria all’improvviso rischiarata.
La luce della vita, comprese più tardi.
Nel sangue c’erano le particelle della vita di quegli uomini che lui
aveva decapitato.
I sussurri cupi dello Stregone durarono un tempo indefinito che
Jacob non seppe mai quantificare, neppure a distanza d’anni.
Quando ebbe terminato, Neropece fissò con gelido odio il Barone.
“Con questo sacrificio, avrai il tuo esercito. Per la tua immortalità,
dovrai darmi il sangue del tuo primogenito”.
Jacob annuì. Che cos’era la vita di un figlio in confronto alla sua?
Sarebbe morto in fasce, abbastanza presto da non accorgersi che cosa
fosse la vita. Accadeva spesso ai bambini, erano fragili. La vita di un
figlio perché lui potesse averne per l’eternità.
Un’inezia.
5.
Jacob si sentì prendere la gola dal fuoco.
La vita di suo figlio era la sua vita!
Come poteva essere stato tanto cieco, tanto sordo, tanto vile, tanto
egoista, tanto infame? Forse Xanatos non si sarebbe accorto che cos’era
la vita, ma Jacob sì, aveva finalmente compreso quale significato avesse.
Che cosa fosse la nascita e la morte, l’amore e l’odio. La paura. La
solitudine.
E con che faccia avrebbe ora detto a Rihanna che il loro bambino era
destinato alla morte per l’immortalità del padre? L’avrebbe perduta per
sempre. Anche perché, sotto il manto mansueto, Rihanna celava una
forza distruttiva. Piuttosto che far uccidere il proprio bambino, avrebbe
combattuto fino alla morte. E così Jacob l’avrebbe persa per sempre.
E ora?
E ora?
E ORA?
Le forze gli scivolarono via, il corpo venne sconquassato dai
singhiozzi. Che cosa aveva fatto?!
69
6.
Joseph di Hakne si aggirava nella minuscola stanza della casa di fango e
calcinacci, emettendo suoni gutturali come una bestia trattenuta in
gabbia. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo omicida verso la donna che
per anni aveva avuto come amante.
E che pensava di conoscere.
Grace fuggiva quelle occhiate assassine, cercando anche un granello
di polvere da fissare pur di ignorare completamente l’uomo.
La notte era tranquilla nel quartiere Nord degli Uomini-sordi di Na’h.
Ancora per poco.
Neropece, lo Stregone a capo della città, avrebbe dispiegato tutte le
sue forze per ritrovare l’Uomo-sordo di Weer, venuto in missione
diplomatica per capire se il patto era stato tradito. L’Uomo-sordo di Weer
aveva aizzato i cittadini schiavi di Na’h contro la classe dominante degli
Stregoni, che ormai da secoli comandavano la città.
Joseph non riusciva a crederci. Era stato scoperto. L’amante di
Neropece, Beatrice, l’aveva informato della rivolta organizzata da Joseph
con uno dei più violenti fomentatori tra gli Uomini-sordi, l’eunuco
Francis.
Francis aveva tutte le giustificazioni a voler distruggere gli Stregoni,
dopo che loro l’avevano reso uno scherzo della natura. Menomato nella
sua virilità, Francis non sarebbe mai più stato un uomo. In realtà tutta la
popolazione degli Uomini-sordi aveva ottime giustificazioni per avercela
con gli Stregoni. Venivano chiamati Uomini-sordi proprio perché “sordi”
al potere della mente, incapaci di sentirlo. Uno stregone poteva vivere
fino a cinquecento anni –dipendeva dalla purezza del suo potere -, contro
i cinquanta di un Uomo-sordo; per il resto la loro vita ed i loro bisogni si
nutrivano delle medesime cose di cui necessitavano gli altri esseri umani.
Era proprio il potere a render forti gli Stregoni della propria supremazia,
tanto da render schiavi i loro simili e sfruttarli fino alla morte. Gli
Uomini e le Donne-sordi vivevano ai limiti dell’enorme città di Na’h,
fondata tre secoli prima dai servitori e maghi di Grande Regno, scappati
alle persecuzioni della Regina Bianca.
La leggenda voleva che la Regina si fosse innamorata di uno di loro,
ma che questo giovane si fosse rifiutato di accontentare le sue voglie per
non tradire il sovrano. Allora la Regina aveva ucciso il marito e
promesso una taglia favolosa su coloro che avessero portato la testa di un
mago o di una maga. Agli uomini privi di potere, ostili ai maghi perché
70
occupavano sempre posizioni di potere ed ottenevano ricchezze a titolo
gratuito, quella era sembrata la legittimazione per perseguitare la razza
degli Stregoni.
Ciò che era certo era stata la persecuzione dei maghi ad opera degli
uomini e delle donne di Hakne. La popolazione vedeva in loro una setta,
chiusa e razzista. Così era nato l’odio, il pregiudizio. Quindi lo
sterminio.
Nelle lontane Terre di Sabbia e Fuoco i maghi profughi avevano
fondato la loro città, in grado di ospitare almeno sei milioni di persone
ed avevano assoggetto le popolazioni locali con il loro potere per
renderli schiavi. Neropece ne era il capo da centocinquant’anni ed era
l’ultimo, vero Stregone rimasto.
Beatrice era la governante della sua Torre, la sua amante, la madre dei
loro cinque figli. Ed era una Donna-sorda.
Dopo secoli di assoggettamento, gli uomini e le donne di Na’h
avevano accolto questa notizia con l’odio. E quella notizia l’aveva
riportata Joseph, stanco dei giochi di Neropece, il quale si rifiutava di
rispondere alla domanda diretta sul possibile tradimento a Weer.
Per Joseph quell’occasione era stata ghiotta: servirsi della rivolta di
Na’h per acquisire un esercito ed il potere di contrastare lo stesso Weer.
Avrebbe potuto scendere in campo contro il suo signore e rivendicare il
trono. Non gli mancavano né l’esercito né l’arroganza per farlo.
Il fatto che Beatrice fosse al quartiere Nord quando avevano messo
sulle picche le teste dei vecchi Consiglieri della città, incaricati di
mediare tra la popolazione e gli Stregoni, aveva fatto precipitare tutto.
Joseph occhieggiò di nuovo Grace.
Era stata lei a salvarlo.
Perché Grace era lì? Come aveva fatto a non accorgersi della sua
presenza?
Weer l’aveva fatto seguire?
Spiare? Controllare?
La sola idea gli fece salire il sangue al cervello ad una velocità tale da
farlo urlare. Più volgeva lo sguardo alla donna che per mesi aveva
abitato il suo letto, più gli veniva voglia di metterle le mani attorno al
collo.
L'aveva tradito.
Grace pareva indifferente alle sue occhiate di fuoco. Fissava con
insistenza la polvere sul pavimento, gli occhi castani acquosi ed il
minuscolo volto appuntino e piatto concentrati verso qualcosa che a lui
era inaccessibile. Come lo era lei.
71
Improvvisamente parve dimenticare il suo odio per lei, preso a
chiedersi come fosse possibile non capire tutto e subito di quella
creatura. Anonima, nella sua essenza. Silenziosa, inconsistente come il
fumo. Il motivo per cui la loro storia d’amore era terminata. Lui ad un
certo punto non l’aveva più cercata, dimenticandola.
“Che cosa sta succedendo?” Francis sbatté la porta della stanzetta.
“Neropece sa tutto. – tagliò corto Joseph – Non abbiamo più tempo.
Bisogna agire stanotte”.
L’eunuco rimase in silenzio, gli occhi ridotti a due fessure. Grace, nel
suo angolo, rabbrividì dinanzi a quello sguardo, intuendo qualcosa di
inquietante nella sua persona. E dunque preferì mimetizzarsi
nell’intonaco bianco dei muri della casa.
“E tu, come fai a saperlo?” chiese infine l’eunuco sospettoso.
“La donna di Neropece era al mercato. Ha sentito e visto ogni cosa”.
“Come sei riuscito a fuggire dalla Torre?”
Questa volta fu Joseph a tacere e girare lo sguardo verso Grace,
rimasta silenziosa nel suo angolo di casa. La giovane donna venne
trapassata dagli occhi giallo-verde dell’ex amante e da quelli scuri, più
minacciosi, di Francis.
“Lei mi ha condotto via. Le guardie ci stavano inseguendo” spiegò
Joseph con un ringhio.
Lei, Grace, si fece minuscola.
“Chi sei?” la inchiodò l’eunuco.
“Grace” fece lei debolmente, tenendosi il più lontano possibile.
Quell’uomo le faceva accapponare la pelle, grosso come un toro e pazzo
per la mutilazione subìta. Ogni mano sarebbe stata in grado di
spappolarle la testa.
“E’ una dei nostri per forza” intervenne Joseph, cui infastidiva la
vicinanza dell’eunuco con la donna. Era furibondo nei suoi confronti, ma
si riteneva l’unico a poterlo essere e poter infierire. Anche con tutta la
violenza di cui era capace, se necessario. Ma no, che Francis le stesse
lontano. Grace era sua. Una faccenda da sistemare con Jacob di Weer.
“Che cosa vuol dire, per forza?”
“Questa donna viene da Hakne. Serve il mio stesso signore”.
Francis sogghignò: “La tua innamorata?”
“No, una puttana doppiogiochista”.
Grace avrebbe voluto ribattere, ma l’addestramento ricevuto da
bambina le ricordò che doveva tacere.
Si trattenne dal rispondere rabbiosamente che avrebbe fatto meglio
lasciarlo nelle mani di Neropece, quando di chiese perché non lo avesse
72
fatto. Avrebbe potuto, non era una sua responsabilità salvargli la vita.
Tanto più, e lo sapeva bene, Weer non si fidava di nessuno dei suoi
uomini. Riponeva la massima fiducia nelle “sue bambine” - come amava
definirle - quasi paternamente. Le bambine che aveva raccolto dalla
strada dopo la fine della Guerra Rossa, quelle senza una casa e senza una
famiglia, a cui aveva dato da mangiare e dormire, e che aveva fatto
addestrare dai migliori farabutti di Hakne – pirati, fuorilegge, assassini e
truffatori. Costoro venivano pagati profumatamente per selezionare ed
insegnare alle ragazze l’arte del mimetismo, del raggiro e della truffa.
Fin dalla più tenera età Grace aveva imparato a mentire, ostentare
sicurezza, trattenere le emozioni fino a congelare l’animo. L’alternativa?
Grace e le poche bambine che avevano superato le prove potevano solo
intuire la sorte terribile che era toccata alle più deboli. Nella migliore
delle ipotesi venivano sottoposte alle peggiori sevizie e buttate in mezzo
alla strada; nell’ipotesi più orribile da credere era la morte sotto tortura.
Se Joseph avesse conosciuto solo una parte di ciò che lei era
veramente non avrebbe ostentato tanta arroganza. Il fatto era – e Grace
non poteva negarlo – che non aveva il coraggio di tradire il suo signore.
Nonostante tutto, provava per Weer qualcosa di simile al rispetto perché
lui solo, quando era poco più di un ratto che mangiava nell’immondizia,
l’aveva raccolta e le aveva dato una casa e cibo fresco. John Henry e la
sua civilizzatissima Corte se ne erano fregati degli orfani come lei.
Sapeva benissimo che John Henry e tutta la sua bella compagnia erano
quelli “buoni”, ma lei, piccola innocente di quattro anni a cui era stata
trucidata la famiglia, era “cattiva”? No, eppure l’avevano dimenticata o,
peggio ancora, ignorata. Dunque, la giustizia non era uguale per tutti.
Jacob di Weer e la sua filosofia di vita le avevano insegnato che nella
supremazia della forza l’ingiustizia non esiste. Esiste solo chi ce la fa.
Come lei.
Ciononostante, qualcosa, con il passare degli anni, le si era incrinato
dentro, facendo vacillare la sua sicurezza.
Era stato fatale l’incontro con Rihanna. La moglie di Weer era una
figlia della guerra come lei. Una di quelle che aveva dovuto prostituirsi
per mangiare, che aveva sofferto il freddo e la fame, che aveva visto la
miseria estrema. Eppure Rihanna, con tutto il carico di dolore che si
portava dietro, viveva la vita come se fosse una cavalcata. E decideva
l’animale dove condurla, lasciandole cogliere quel che poteva. Lei
doveva solo intuire dove si sarebbe diretto. Rihanna non si portava dietro
la sua rabbia, in lei c’era la dolcezza della vita, quella vita così saporita
nel cibo e nelle bevande, così accogliente nelle coperte del letto caldo in
73
cui finalmente poteva dormire. Quella vita nuova che le cresceva nel
grembo.
Contò che mancava un mese alla nascita dell’erede. Le sarebbe
piaciuto tornare per vederlo, per aiutarla a crescere. Alla fine, l’amore
per la vita e per la pace aveva avuto il sopravvento sul piano di totale
supremazia di Weer: Grace aveva seguito Joseph perché le era stato
ordinato.
Ma lo aveva salvato perché per tanto tempo era stato il suo
compagno.
Non lo amava più, di questo ne era certa, ma c’era qualcosa che
restava di loro, dei baci sotto le coltri, degli abbracci stretti. Di un amore.
“Se doppiogiochista può averci tradito” sbottò l’eunuco.
“Sei un idiota. – rispose Joseph – Lei è venuta per controllare me. Non
è vero, fiorellino?”
Grace scosse la testa con aria umile.
“E allora che cosa ci fai qui?” la incalzò l’ex amante con rabbia.
“Le vostre liti non m’interessano. – sentenziò Francis – Non abbiamo
più tempo. Dobbiamo ribellarci”.
Uscì a larghi passi dalla stanzetta ed andò a svegliare i vicini. Joseph
rimase in silenzio, fumante d’ira a fissare Grace. Lei era immobile, in
attesa di un suo scatto. Fuori la gente cominciava a riversarsi nelle
strade; le torce si accendevano, le voci si alzavano minacciose.
La notte divenne giorno.
E quel giorno nella notte divenne l’inferno per la città di Na’h.
7.
Neropece continuava camminare furiosamente per la stanza avanti e
indietro, senza sapere che in una casupola di fango e cocci l’uomo di
Weer stava facendo lo stesso. Non parlava e non ruggiva, ma – come
Joseph – alzava occhi truci sulla propria donna.
Beatrice rimaneva seduta e lasciava che gli occhi gelidamente dorati
del suo compagno la trafiggessero. Non lo temeva. Sapeva che era il
modo di Neropece di sfogare la sua ira.
“Come ha fatto a fuggire?” le domandò lui per la quinta volta.
“A questo punto vi posso dire che dev’essere stata la nuova serva che
ho preso qualche settimana fa. Doveva venire per pulire le cucine e l’aia
nel cortile posteriore, non ricordo di averle dato il permesso di salire”.
74
“La conoscevi?”
“No. Merito di essere punita, lo so benissimo. E potete farlo”
Neropece sentiva le mani fremere per l’irritazione. Sì, sapeva bene
che Beatrice si sarebbe fatta battere, così come sapeva che si sarebbe
immolata pur di salvare lui e i loro cinque figli.
Si lasciò cadere sulla poltroncina dinanzi a lei.
“No, questa non è la soluzione” sussurrò.
I due si fissarono negli occhi per lunghi istanti, senza proferire
parola. Non ve n’era il bisogno, non dopo tredici anni di convivenza e
amore.
Quella situazione estrema era frutto di tante e troppe scelte sbagliate.
Ingiuste. La città stessa di Na’h era stata fondata sull’ingiustizia: non
c’era nulla che giustificasse la supremazia degli Stregoni sulle altre
popolazioni, né che desse loro il diritto di rendere i loro simili schiavi e
schiave. Senza contare che gli Stregoni amavano e vivevano con i
medesimi bisogni di tutti gli uomini: così molte erano le Donne-sorde
che avevano partorito i figli dei loro padroni. Come i bambini più belli
venivano strappati alle loro famiglie per essere venduti come compagni
di giochi ai figli degli Stregoni.
Questo aspetto della loro società era solo una piccola parte delle
ingiustizie.
In un mondo dove la popolazione Sorda era schiacciata dal potere
degli Stregoni, Neropece si era innamorato di Beatrice nel sol vederla.
Era bastato che la ragazzina appena quattordicenne varcasse la soglia
della sua sala perché lui perdesse la testa. L’aveva corteggiata per poterla
amare e lei aveva accettato il corteggiamento perché qualcosa di
misterioso, come un richiamo ancestrale, la riportava a lui. Tra loro era
sorto un amore forte, passionale, quasi distruttivo. Ma contornato da
questa società ingiusta, dove la popolazione Sorda era poco al di sopra
della considerazione animale.
Le incomprensioni si erano aggiunte le une alle altre, senza trovare
risoluzione. Adesso, dopo la nascita della sua ultima figlia, Neropece
sentiva il bisogno di porre chiarezza. Per sé e per la sua gente.
Sarebbe stato un atto dovuto ed allo stesso tempo necessario: la razza
degli Stregoni ormai andava estinguendosi. Lui, il capo supremo di Na’h,
era l’unico vero Stregone in vita. Gli altri, dopo tante unioni con Uomini
e Donne-sorde, avevano perduto i poteri. E le unioni tra consanguinei
non aveva migliorato le cose. Neropece avrebbe dovuto cambiare le
leggi tra la popolazione e gli Stregoni.
Oppure far rinascere la stirpe, con nuovi poteri.
75
Da questo bisogno era nata l’alleanza con Jacob di Weer: lo avrebbe
aiutato a conquistare Hakne se gli avesse condotto la figlia di John
Henry, Giada. La principessa era dotata di poteri immensi, che Neropece
conosceva solo per averne letto sulle cronache degli antenati fuggiti da
Hakne. Giada poteva manipolare la mente umana, interagire con gli
animali e gli altri esseri viventi. Neropece e la sua gente avevano la
capacità di telepatia, telecinesi e dominio sugli elementi naturali.
Dall’unione dello Stregone con la principessa sarebbe nata una nuova
stirpe.
Neropece era consapevole del bisogno disperato che avevano gli
Stregoni di rinnovarsi; ciononostante non compiva nulla perché il tempo
e le azioni accelerassero. Avrebbe anche potuto rintracciare Giada, a
questo punto, però così facendo avrebbe lasciato Beatrice. E, se l’unione
con Giada era un dovere verso la sua razza, l’amore per Beatrice era una
scelta dettata dall’animo.
La rivolta era nell’aria, Beatrice gliel’aveva detto. Neropece non
aveva fatto nulla non tanto per inerzia quanto per viltà: avrebbe dovuto
ammettere la sua umanità e uguaglianza con gente che, fin dalla nascita,
gli era stato insegnato inferiore; allo stesso modo sarebbe stato costretto
a portare alla luce il suo amore, la sua famiglia, esponendoli. E
Neropece, cresciuto tra i pregiudizi della classe dirigente, sapeva quanto
potessero essere crudeli i suoi simili.
E ora? – si domandò spaventato.
Beatrice non era più al sicuro. Non lo sarebbe stata mai più adesso
che sapevano di lei, delle loro creature.
“E’ necessario convocare il Consiglio” propose lei.
“No, è troppo tardi. – Neropece andò alla grande finestra che dava sulla
città. La Torre sorgeva sull’unica collina della pianura di Na’h e per
costruirla avevano dovuto allargare le mura della città di oltre cinquanta
chilometri – Non riuscirebbero mai a giungere qui in tempo”.
“Possibile?” Beatrice si alzò e gli andò accanto. Alzò gli occhi adoranti
e preoccupati verso il suo uomo, stupendosi come sempre del suo fascino
e della prestanza e di quanto fosse scura la sua pelle, color della notte; lei
era chiara di carnagione, gli occhi color dello smeraldo e le forme
morbide della maternità.
“Giudica tu stessa” in quel momento qualcuno bussò alla porta.
Beatrice vide le torce invadere le strade, simili a tante lucciole. Le
luci si unirono le une alle altre, fino a formare una fiamma unica,
facendo intuire il presagio terribile della morte. Perché, che lei avesse
voluto oppure no, qualcuno sarebbe morto. Anzi, era già morto. Le teste
76
degli Anziani della Città stavano marcendo sulle picche.
Una delle giovani guardie parlottava con Neropece. Beatrice rimase
in disparte, assorta nei suoi pensieri.
“La città è data alle fiamme. – le comunicò Neropece, una volta che il
ragazzo fu congedato – Possiamo contare solo su noi stessi”.
Quelle parole riecheggiarono nell’aria, nonostante fossero state
sussurrate. Come le ebbe pronunciate, lo Stregone comprese la gravità
della situazione. Forse più di Beatrice, che aspettava una sua decisione.
La vide fremere.
“Prendi i bambini e chiudetevi qui”.
“Sì” lei stava già uscendo, la mente rivolta a tutto ciò di cui aveva
bisogno per sopravvivere.
“Amore…” Neropece l’afferrò per un polso prima che si allontanasse
troppo.
Beatrice rimase immobile, inchiodata da quel richiamo così intimo.
Era sembrata una preghiera.
“Abbi cura dei nostri figli” sussurrò ancora lui.
Per la prima volta, esplicitamente, aveva riconosciuto la propria
paternità. Il segno del cambiamento che l’ultima figlia aveva portato in
sé.
“Per sempre” rispose la compagna, appoggiando le labbra a quelle
calde e morbide di lui.
Uno scambio di sguardi diede voce alle loro paure: era l’ultimo
bacio?
77
CAPITOLO 4.
1.
Grace non aveva il coraggio di avvicinarsi alla piccola finestra della
capanna, impietrita dalle urla. Joseph osservava la fiumana di gente
passare, cercando Francis con lo sguardo.
La casupola si faceva sempre più piccola e stretta, le pareti stavano
opprimendo la giovane donna al punto da toglierle il fiato. E tuttavia mai
sarebbe uscita da quel buco puzzolente.
La sola idea di scendere in mezzo alla folla feroce la terrorizzava.
Nella sua mente vivevano spettri di fuoco e urla, di cenere e sangue. Per
quanto gli anni di addestramento le avessero insegnato ad essere al di
sopra di qualunque fatto, c’erano ricordi con il potere di disintegrare il
suo autocontrollo.
E quella situazione si specchiava troppo bene nei suoi ricordi.
Si guardò attorno, alla disperata ricerca di una fuga. Quando aveva
salvato Joseph, non avrebbe mai immaginato di finire coinvolta in una
vera e propria rivoluzione. Voleva disperatamente essere miglia e miglia
lontana da quella casa di fango!
Eppure, non era troppo tardi.
Poteva scivolare alle spalle di Joseph e dileguarsi dalla finestra.
Avrebbe fatto ritorno al Porto ed avrebbe atteso di avere notizie. Cercò di
riscuotersi dallo stato di torpore della paura e si mosse alle spalle di
Joseph. Non aveva nessuna intenzione di stargli accanto ancora, le era
bastata la sua considerazione sul fatto che fosse una puttana
doppiogiochista.
Scivolò lungo il muro, silenziosa come un gatto.
Joseph si girò verso di lei in quel momento, con una strana
sensazione di pericolo alle spalle. La vide muoversi verso la stanzetta da
letto di Francis e si buttò di peso per prenderla.
“Dove cazzo pensi di andare?” ringhiò rabbioso.
Grace fu afferrata da mani dalla presa salda e sbattuta contro il muro
con violenza.
“La…lasciami andare” sussurrò con voce strozzata in gola.
“Dove? Dove vuoi andare, troia?” prese a scuoterla per le spalle, fino a
farle battere i denti.
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“Via, via. – Grace cercò di divincolarsi. Joseph era un uomo forte,
atletico. A differenza di Paul Mann e Borok non beveva fino a perdere la
ragione ed i suoi riflessi erano pronti. Non si fece vincere dalla botte che
lei provava a dargli, cosicché alla donna non rimase che implorare
d’essere lasciata – Ti ho salvato la vita, Joseph. Lasciami andare via”.
“Da chi, eh? Da chi pensi di scappare adesso? Chi pensi di tradire
adesso?”
Arrivò uno schiaffo tanto potente da farle battere la testa al muro.
Grace si ritrovò per terra senza rendersi conto di come avesse fatto a
finirci. Più per istinto che coscienza si rimise in piedi e lo guardò
sconvolta. Prima che qualsiasi altra violenta emozione potesse
sopraffarla, Joseph l’afferrò per il braccio e la trascinò fuori dalla
casupola. La bocca era contratta in una smorfia dura, imperscrutabile.
La guancia di Grace bruciava come il fuoco. Tremava stupidamente
in una notte bollente, il braccio tirato fin quasi alla slogatura dall’uomo
che fino a poco tempo prima aveva dichiarato di amarla.
“Dove andiamo? Dove vuoi portarmi?” strillò lei, improvvisamente
conscia della devastazione che si stava consumando attorno a loro. Provò
a divincolarsi da Joseph, che per tutta risposta alzò nuovamente la mano
minaccioso.
“Tu…! Tu sei…!” inveì lui con una luce folle negli occhi.
“Venite con noi” Francis comparve dal nulla alle loro spalle, munito di
un grosso machete, accompagnato dal cognato e dal cugino.
Grace e Joseph lo scrutarono confusi per l’intrusione. Lui abbassò il
braccio e rispose al sorriso predatorio dell’altro.
Grace fu strattonata, trascinata nelle viscere dell'inferno.
2.
Beatrice percorse di corsa lo stretto corridoio che conduceva al suo
piccolo appartamento. Una saletta per il pranzo con una cucinotta, una
camera dove dormiva con i figli minori, la piccola Kathie, di appena tre
mesi ed Adam, di quattro anni; nell’altra i figli maggiori Jason di dodici
anni ed i gemelli Tea e Michael, di otto anni. Assurdamente si ripeteva i
loro nomi, quasi ad enumerare il suo orgoglio, la capacità di dare la vita
tante volte come le dita di una mano ed essere sul punto di poter perdere
ognuna delle dita della mano.
Un terrore gelido le attraversava il corpo, costringendola quasi a
saltare.
79
Se avesse potuto, si sarebbe messa a correre. Il più lontano possibile,
il più velocemente possibile.
Dopo tanti anni dalla morte di sua madre, si mise a chiamarla, nella
speranza che, ovunque si trovasse, potesse aiutarla. Pensava a lei con
tanta intensità, da sentire la sua voce ronzarle nella mente.
“Pensa ai bambini. Cibo. Acqua. Coperte. Qualcosa con cui
proteggerli”.
“Jason. Jason” chiamò il primogenito.
Il ragazzino dormiva profondamente e si destò solo quando sua
madre prese a scuoterlo veementemente per la spalla. Il sonno gli
appiccicava gli occhi castano dorati come quelli del padre, al punto da
farglieli lacrimare e bruciare.
“Che… che cosa…?” piagnucolò.
“Amore, alzati. – impose la madre – Ho bisogno che mi aiuti. Siamo in
pericolo”.
Jason scattò in piedi. “Incendio?” Jason aveva il terrore del fuoco,
che invece pareva essere l’elemento favorito di Michael.
“No, Jason. E’ la rivolta”.
Il ragazzino sbatté le palpebre inebetito. “Contro chi?”
“Contro… - Beatrice stava per dire gli Stregoni, ma il sangue dei suoi
figli era misto – contro la classe dirigente”.
“Gli Uomini-sordi si sono ribellati?”
Beatrice stava per perdere la pazienza. Non aveva voglia di stare a
discutere di politica con quel polemico di suo figlio, considerando ch'era
il figlio dell’unico sovrano di tutta Na’h e sarebbe stato difficile per lei
trovare una spiegazione logica a quel tumulto.
In fin dei conti – e di questo ne era consapevole –, la popolazione
aveva ragione. Ma era sempre stata dell’idea che la violenza non servisse
a nulla. Anzi, gli scoppi d’ira così incontrollati lasciavano appresso solo
una scia di cocci difficili da rimettere insieme.
“Figlio, sta’ zitto ed aiutami” impose.
Jason chiuse il becco, riconoscendo il tono duro della madre. Pur
sapendo di suo padre, Jason aveva passato tutta la sua vita con sua
madre, sviluppando un rapporto profondo con lei, arrivando ad amarla
come si può amare l’unico punto di riferimento della propria esistenza.
“Vestiti e aiutami” Beatrice prese a impilare sulla tavola il cibo, due otri
d’acqua e qualche abito per ognuno dei suoi ragazzi. “Porta tutto questo
negli appartamenti di Neropece”.
“Sì.”
Beatrice svegliò allora i due gemelli e quindi fu la volta del piccolo
80
Adam. I bambini ciondolavano in mezzo alla stanza, in lontananza
arrivavano le prima grida della devastazione portate dalla rivolta.
Beatrice afferrò Kathie in braccio e Adam per una manina, quindi si mise
a correre nelle stanze di Neropece.
Mentalmente stava facendo un calcolo che non le piaceva per niente:
dubitava che gli Stregoni sapessero difendersi, così come dubitava delle
forze di polizia della città. Na’h era stata per troppo tempo ferma nelle
sue abitudini, non ci sarebbero stati tempi di reazione veloci. Su chi
potevano contare se non su se stessi? Che cosa avrebbero potuto fare in
caso di sconfitta? E cosa avrebbe potuto fare Neropece da solo?
Era atterrita.
Aveva imparato a conoscere profondamente il compagno abbastanza
da sapere che non era né immortale né infallibile. Il fatto di non poter
agire direttamente, di essere lei a prendere le decisioni su come mettere
in salvo i suoi bambini, la stava facendo impazzire. Se solo avesse potuto
controllare…
Non appena furono negli appartamenti di Neropece, affidò la piccola
in braccio al primogenito e cominciò a sbarrare la porta d’ingresso.
Sbuffando, aiutata dai gemelli, spostarono la grande trave per lo
sbarramento della porta.
Kathie aveva cominciato a piangere sommessamente e Jason stava
facendo del suo meglio per ninnarla, senza successo. Provò a passeggiare
e canticchiare, ma nulla. Beatrice si affaccendava nella grande sala per
prepararsi all’assedio.
“Mamma, ma Kathie non smette” piagnucolò Jason dopo venti minuti
di ninne.
Beatrice sbuffò. “Sedetevi sul divano e sdraiala lì sul mio mantello.
Piange perché è spaventata. E finché piange vuol dire che è viva e sta
bene”.
Jason le obbedì ed obbligò i fratelli minori a fare lo stesso. Adam era
accudito dai gemelli, che avevano preso sul serio il compito di dover
badare a lui in quanto maggiori.
Poco dopo Beatrice non seppe più cosa fare. Rimase alla grossa
finestra a guardare Na’h andare a fuoco.
3.
Neropece non finiva di darsi dell’idiota. Era stato un ingenuo ed un
imbecille a credere che Joseph sarebbe stato buono buono al suo gioco
81
ed ancora di più a non prendere un serio provvedimento verso la
popolazione Sorda. Erano ormai trent’anni che la rabbia e la frustrazione
ribollivano, anche senza una nuova stirpe di Stregoni, avrebbe dovuto
trovare una soluzione a quella convivenza così difficile.
Neropece era un uomo intelligente e fin dall’inizio della sua vita di
Stregone si era reso conto che il possedere dei poteri non giustificava i
suoi antenati per la crudeltà e ingiustizia dimostrata verso le popolazioni
del posto. Peggiori erano stati i loro successori, che avevano arrogato
diritti inesistenti. La rivolta degli Uomini-sordi era del tutto legittima,
ma questo non bastava a placare il suo terrore per la sua famiglia. I suoi
bambini avevano comunque il suo sangue ed erano dotati di poteri
evidenti.
Scese le lunghe ed intricate scale della Torre alla ricerca delle sue
guardie. Disponeva di un corpo di guardia di due dozzine di uomini, per
lo più giovani poco dotati di poteri, ma imparentati con le famiglie più
nobili. Costoro venivano mandati nelle sei caserme della città e venivano
addestrati alle armi. Non erano né Stregoni, né Uomini-sordi.
Li fece radunare nell’immenso androne della Torre.
“Voglio che sbarriate le porte della Torre. Anche quelle di servizio.
Controllate anche il canale di scolo”.
Le guardie si scambiarono occhiate perplesse e preoccupate.
“Qualche domanda?” chiese lo Stregone.
“Nossignore” rispose il loro capitano. Gli occhi tradivano l’incertezza.
“C’è una rivolta, signori. Non voglio correre il rischio che…”
“Scusate, mio signore, ma chi è in rivolta?” era il suo capitano.
Neropece sentì un urlo frustrato salirgli in gola. Ma come potevano
non essersene mai accorti? Come potevano i suoi simili non aver mai
respirato l’aria greve della città, delle strade, dove loro erano la
minoranza e ricevevano occhiate dure, piene di odio?
“Gli Uomini-sordi. Sono in rivolta” rispose con tutta la calma di cui era
capace.
“Come, signore?” strabuzzarono gli occhi increduli. Ovviamente per
dei ragazzi tanto giovani la sola idea che il sistema di sempre fosse
rovesciato in modo tanto repentino era pura fantasia.
E Neropece avrebbe voluto tanto che fosse così, che quella notte
fosse solo frutto della sua mente.
“Sei sordo forse?” tuonò lo Stregone.
Trasalirono.
“Ora ascoltatemi attentamente. – cercò di recuperare la calma parlando
lentamente – Questa è guerra e voi siete al mio servizio come militari. Il
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vostro dovere è di difendere la mia persona e la mia autorità. Ora,
sprangate tutto e preparatevi alla battaglia”.
Il capitano si era accorto della tensione nervosa del suo padrone e si
limitò ad annuire. Era l’unico ad aver afferrato la gravità della
situazione.
“Ora andate” impose lo Stregone.
Il capitano d’armi ordinò agli uomini di andare nella sala delle
armature. Più d’uno di quei ragazzi si volse a guardare il loro padrone
come se fosse impazzito d’improvviso. Era impensabile che la
popolazione Sorda si ribellasse. Poteva forse farlo l’ometto venuto dal
mare, ma non la popolazione Sorda. Vivevano in schiavitù da sempre.
Era persino impensabile considerarli loro pari.
Dai loro sguardi Neropece si rese conto d’essere solo a proteggere la
sua famiglia. Represse la rabbia omicida verso le guardie inette – e se
stesso – per far volare la mente verso una risoluzione. Salì le scale due a
due per arrivare al suo laboratorio.
Dalla finestrella delle labirintiche scale a chiocciola vide che la
marea dei rivoltosi si stava avvicinando. Rabbrividì.
4.
La folla si era riversata nei vicoli e nelle strade brandendo coltellacci,
picche, bastoni appuntiti, forconi e qualunque altra arma in grado di
ferire e uccidere. Le loro facce erano congestionate dalla rabbia e
dall’esaltazione della violenza. C’era anche un che di straordinariamente
affascinante in loro e nella loro foga: era la luce negli occhi, gli sguardi
illuminati dal coraggio di chi affronta le ingiustizie.
Perché, nonostante la paura ed il disgusto per quella violenza
innaturale, quella gente aveva ragione. Grace non lo avrebbe mai negato.
Ed era quello uno dei motivi per i quali aveva salvato Joseph, ovvero
portare alla luce l’iniquità di quel sistema. Portare la libertà.
Ma era proprio necessario cercare la libertà in questo modo? –
Grace non poteva fare a meno di chiederselo. In fondo, quella gente
sapeva che gli Stregoni non sarebbero mai stati in grado di respingerli,
anche se avessero deciso di protestare più pacificamente.
Grace non aveva preso in considerazione la frustrazione e le
umiliazioni che il popolo di Na’h aveva dovuto sopportare negli anni.
Grace non voleva pensare all’ingiustizia della vita. Perché, se avesse
pensato alla sua vita, a tutto ciò che aveva vissuto e subito, il fuoco della
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rabbia l’avrebbe divorata.
5.
Neropece superò il piano dov’erano situati i suoi alloggi, tentato di
andare a controllare come stessero Beatrice ed i bambini; invece
proseguì fino ad arrivare al suo laboratorio.
Aprì la pesante porta di legno massiccio rinforzata con il Marmo
Nero, che veniva usato come isolante per le sue pratiche magiche, e se la
richiuse alle spalle.
Là, a quasi settanta metri di altezza da terra, il silenzio era totale.
La stanza era enorme. Costruita sulla stessa superficie dei suoi
alloggi, era occupata da un tavolo lungo dieci metri ed una libreria di
quasi trenta metri di lunghezza occupava la parete interna. Dalla parte
opposta la grande vetrata di vetro affumicato, che rivestiva tutta la parete
esterna e dava sulla città.
Il fuoco della rivolta stava distruggendo ogni villa e casa padronale.
Non ci avrebbero messo tanto ad arrivare a lui.
Alla sua famiglia.
Osservò le migliaia di ingredienti sulle sue mensole. Quindi prese la
sua decisione.
6.
ìJoseph la trascinò per alcune decine di metri lontano dalla casa di
Francis, quando l’eunuco comparve magicamente al loro fianco insieme
ad altri due compagni. L'uomo di Weer la stava strattonando di peso in
mezzo alla folla inferocita; in alcuni punti delle vie piccole e contorte
dell’Area Nord non si poteva camminare e si veniva sospinti dalla gente.
Chi era giunto nei quartieri a Ovest, dove abitavano le famiglie più
abbienti degli Stregoni, aveva spaccato le finestre ed era entrato nelle
ville signorili per distruggere ogni cosa e poi dare fuoco. L’odore acre
del fumo riempiva i polmoni e faceva lacrimare gli occhi. I padroni di
casa scappavano per le strade e provavano a difendersi; qualche servitore
fedele provava a difenderli e le poche guardie cittadine soccombevano
sotto i colpi di esasperati e incontrollabili cittadini sfruttati.
Ovunque guardasse, Grace vedeva sangue scorrere a fiumi, il rosso
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delle fiamme e la violenza più bruta. Tremava da capo a piedi, incapace
di fermarsi. Continuava a pregare Joseph di lasciarla andare e la sua
implorazione assomigliava sempre più ad una litania.
Fu sbattuta dentro una casa padronale, rovinò a terra quando fu spinta
contro Francis e poi, con un gesto fulmineo rimessa in piedi. Le ci
vollero dei secondi per abituare gli occhi al buio della stanza.
Era l’atrio della casa: un ambiente vasto e sgombro, senza mobili e
con ricchi affreschi e mosaici sul pavimento.
Nel momento in cui la vista di Grace riuscì a distinguere i contorni
della casa, due dei compagni di Francis fecero ritorno portando quello
che doveva essere il padrone di casa e sua moglie. Era evidente che i due
avevano provato a difendersi. Lei si dibatteva e cercava di far scaturire
piccole scintille di fuoco dalle proprie mani; tuttavia era talmente
terrorizzata da non poter smettere di tremare.
Grace cercò di scappare.
“Lasciatemi! – gridò il padrone di casa a pieni polmoni – Lasciatemi
andare!” si divincolò, pestò piedi e ginocchia. Era un uomo ben pasciuto,
ma in gioventù doveva essere stato aitante e forte come un toro; di quella
forza conservava la posa delle gambe ed il collo taurino. Riuscì a
sfuggire alla presa di uno degli assalitori e menò un pugno sulla guancia
del malcapitato. Questi cadde a terra con un tonfo sordo e levò un urlo
disumano.
Grace si sentì il cuore saltare in gola. Joseph accorse ad aiutare
l’uomo di Francis e lei ne approfittò per scivolare nel buio e fuggire dalla
casa.
Non si sarebbe voltata indietro.
Ce l’aveva quasi fatta – la pelle del braccio per cui l’aveva trattenuta
Joseph fino a quel momento le bruciava di dolore -, quando fu ripresa
con uno strattone.
“Dove pensi di andare?” Joseph le piantò le unghie nella carne,
tirandola indietro e facendola cadere una seconda volta. Questa volta
sbatté la guancia e, suo malgrado le lacrime le punsero gli occhi.
“Fammi andare via” lo implorò con la voce rotta di un cucciolo.
“Tirati su, in piedi!” tuonò lui e l’afferrò prima dai capelli e quindi per il
braccio di nuovo. La trascinò di peso nel giardino interno della villa,
circondato da un portico quadrato, dalle colonne alte e finemente
decorate.
Erano riusciti a immobilizzare il padrone di casa e, dopo vari
pestaggi, lo legarono alla colonna. Pesto e con il volto tumefatto, lo
Stregone non si piegava alle brutalità degli Uomini-sordi. Sua moglie,
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annichilita dalle percosse, era buttata a terra come un cencio e si teneva
la testa.
Grace era nauseata, i succhi gastrici le impedivano di respirare.
Davanti a quella scena di violenza inumana, protestò. “Lasciateli. Non
dovete…”
Lo schiaffo di Joseph la fece cadere in terra dopo una mezza piroetta
su se stessa. “Zitta, troia! Zitta!” le urlò contro.
Grace riprese a parlare. “Joseph, ti prego, non c’è ragione di tanta
violenza… mi hai detto che vuoi lo Stregone, non fare…” tentò di
rimettersi in piedi ma un secondo ceffone le fece traballare le gambe.
“Ti ho detto di stare zitta!” la redarguì Joseph.
Grace cercò i suoi occhi con terrore; scoprì che l’uomo amato in
passato era per lei uno sconosciuto sanguinario. Fu devastata dalla
crudeltà di Joseph come dalle sue botte; su gambe malferme riuscì a
rimettersi in piedi.
Lo spettacolo diversivo, che aveva creato, aveva attirato l’attenzione
dello Stregone e di sua moglie. La fissarono inorriditi ed allo stesso
tempo speranzosi che lei potesse mettere fine a quelle violenze – ma sì,
che gli Uomini-sordi andassero a cercare Neropece! Lui era tanto potente
da potersi difendere!.
“Oh, ma noi andiamo dal tuo amato Stregone! – ridacchiò Francis,
avvicinando il volto a quello del suo padrone – vero, Governatore? Dopo
ci andiamo dal tuo Stregone… dopo che abbiamo finito di divertirci”.
Lo Stregone lo fissò con l’odio più puro, gli avevano tappato la bocca
con un bavaglio e gli riusciva solo di grugnire e rantolare senza senso.
“Ci divertiamo tutti insieme…” sibilò Francis e con il coltellaccio fece
a pezzi la veste da notte del padrone, lasciandolo nudo. Sua moglie fece
correre lo sguardo dal marito a Grace con occhi tanto spalancati da
uscirle dalle orbite. Il coltello dell’eunuco punzecchiò sadicamente i
genitali del Governatore, che prese a mugolare terrorizzato. Gli occhi gli
si fecero umidi di lacrime. Gli produsse alcuni tagli sulle cosce, erano
poco più che graffi.
Grace era impietrita.
Lo volevano torturare? Quanto si poteva spingere lontano la crudeltà
e la depravazione di Francis? E quella di Joseph, che sorrideva divertito
di quella scena?
“Hai paura per il tuo cosino, vero?” lo stuzzicò ancora l’eunuco.
Il padrone provò a parlare, a gridare di risparmiarlo.
“Non ti preoccupare. – rispose Francis a quel mugugnare – Io so cosa
farebbe incazzare il cosino, sai? E ho proprio voglia di vederti
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incazzato”.
Grace comprese all’istante.
Lo sguardo fuggì dal padrone a sua moglie, a Francis ed ai suoi
uomini.
“No!” provò a mettersi in mezzo e fu raggiunta da un manrovescio di
Francis. Rovinò a terra e fu tirata su per i capelli.
La mano possente dell’eunuco le si strinse sulla gola, bloccandole il
fiato.
“Attenta, donna. – la redarguì lui con un sibilo – perché dopo potrei
aver voglia di farti lo stesso servizio. Straniero, tieni ferma la tua
puttana” fu letteralmente buttata di peso contro Joseph e trattenuta con le
braccia dietro la schiena. Non aveva idea di come liberarsi.
L’aria si stava facendo sempre più secca per via del fumo e stagnava
un odore rancido di paura corporale, di malvagità e depravazione.
L’intera scena sembrava avvolta in una bolla umida di orrore, come se
questo si potesse toccare.
Grace comprese che non c’era nulla in suo potere da fare. Allora si
volse verso Joseph e lo implorò di lasciarla andare, di risparmiarle lo
spettacolo, che si stava sentendo male.
Gli altri uomini la udirono e si misero a ridere delle sue preghiere,
dell’uomo inchiodato alla colonna e di sua moglie per terra.
Poi Francis fece un cenno ai suoi e si buttarono sulla povera donna
con denti sfoderati, simili a belve. Stracciarono la veste da notte,
morsero la pelle mulatta, tirarono i capelli fino a farle sanguinare il cuoio
capelluto, la rigirarono in tutte le posizioni per poterla prendere e
devastarono quel corpo con una ferocia disumana. La donna si difese
finché ebbe le forze per farlo, poi queste l’abbandonarono e rimase con
occhi vitrei a fissare in direzione di Grace, che non poté far altro che
assistere impotente allo scempio.
La testa della donna di Hakne vorticava, la gola le si era riempita di
orrore e quel poco che aveva mangiato a pranzo le stava risalendo dallo
stomaco.
Quando gli uomini furono sazi della violenza, della moglie del
Governatore rimaneva solo un corpo tumefatto e sanguinante; il marito
era letteralmente impazzito durante lo stupro, adesso piangeva come un
neonato e le lacrime si mescolavano con il muco del naso, per scivolare
sul panno in bocca e impregnarlo.
La stessa Grace era stravolta dall’orrore.
La parte peggiore doveva ancora venire.
Francis si piazzò dinanzi al suo prigioniero, alitandogli in faccia.
87
Erano della stessa statura; l’eunuco aveva occhi spiritati, da pazzo. Solo
allora, solo in quel preciso istante, Grace comprese il perché
dell’evirazione di Francis: doveva essere stato uno stupratore. Un pazzo
criminale da fermare.
“Non ti sei divertito?- sogghignò l’eunuco – cosa ti fa più male?
L’orgoglio o l’uccello? Entrambi?”
Il Governatore mugolò qualche parola, qualche preghiera e Francis si
limitò a fissarlo in silenzio, con aperto divertimento.
“Basta eliminare una delle due parti che ti fa più male” rispose dopo
qualche minuto di assoluto silenzio.
Un gesto fulmineo ed evirò di netto il Governatore. Persino i suoi
compagni rimasero inorriditi da tale gesto; per il dolore indicibile il
prigioniero si mise a urlare, finché le vene del collo, per lo sforzo
dell’urlo, non si riempirono al punto da scoppiare.
Là dove un tempo c’era il pene ora c’era la pelle lacera, la carne più
viva; il sangue scivolava orrendamente dall’amputazione.
Il Governatore si accasciò all’improvviso e, solo perché tenuto su
dalle corde, non cadde per terra. Era morto.
Questo indispettì Francis al punto da farlo infuriare. “Svegliati,
bastardo! – si mise a gridare folle – Schifoso bastardo, non credere di
potermi fare questo! Capito?” Picchiò il cadavere con violenza, ma i suoi
colpi sordi non ottennero alcun risultato.
Ormai era morto.
Quell’esplosione d’ira incontrollabile preceduta dall’evirazione
brutale fece trasalire i compagni di Francis, i quali si trattennero dal solo
fiatare.
Grace aveva il cuore in gola, incapace di respirare. Con la stessa foga
assassina Francis prese la moglie del Governatore per i capelli. Lei era
ancora viva nel corpo, ma l’animo aveva spiccato il volo da tempo
insieme al marito. Gli occhi vitrei erano in quelli di Francis e solo il
battito delle ciglia testimoniava la sopravvivenza. L’eunuco le tagliò la
gola, quindi la gettò per terra.
La pozza di sangue andò lentamente allargandosi, come l’acqua di un
lago che lambisca la riva. L’odore della morte si alzò nauseabonda,
mescolandosi con il fumo e il silenzio assoluto dei presenti.
“Troia” commentò l’eunuco ed alzò gli occhi folli sui compagni. Si
aspettava che ridessero. E loro risero, sguaiatamente, forzatamente.
Joseph tirò le labbra in un sogghigno che Grace trovò orribile e fu a
quel punto che i succhi gastrici risalirono la gola. Fece appena in tempo
a mettere la testa nel giardino che vomitò tutto.
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Sull’erba fresca lasciò il pasto della giornata, il dolore del tradimento,
l’orrore dello stupro e dell’assassinio, il proprio cuore e l’ultimo barlume
di innocenza che le era rimasto da quando era bambina.
Una bambina che non sarebbe più stata. E che ricordava fiamme
d’inferno, come il giorno in cui perse tutto.
7.
Grace aveva poco più di quattro anni e mezzo. La sua mamma era una
contadina, una donna esile e dal volto sempre magro, con ossa
sporgenti, gli occhi enormi, verdone. Suo padre era maniscalco nella
bottega di proprietà di uno zio. Non erano ricchi, ma neanche poveri. La
costituzione gracile della madre di Grace non le aveva permesso di
avere altri bambini, sebbene fossero desiderati fortemente.
Grace era una bambina timida, ma gioiosa. Amava tanto imitare la
sua mamma quando la vedeva cucinare o cucire, fare la spesa con lei,
aiutarla a preparare le marmellate da vendere ai vicini.
Grace aveva solo quattro anni e mezzo quando gli occhi le si
colorarono di rosso. Rosso sangue e rosso rubino.
Era giorno di riposo quando le truppe di Weer penetrarono nel
villaggio. Avevano fatto i calcoli giusti: avevano aspettato che tutti
fossero tranquilli nelle case per sorprenderli e non dar alcuna
possibilità di difesa.
Un’orda barbarica di creature mostruose abbatté porte e finestre;
disintegrò porcellane e vasellame, appiccarono il fuoco, fecero volare
lame ed il sangue, prese a scorrere. Il suo odore non avrebbe mai
abbandonato la memoria di Grace.
Suo padre riuscì a prendere la daga e ordinò alla moglie ed alla
figlia di stare ferme. La madre di Grace fu percorsa da un presentimento
nefasto e nascose la bimba nella botte dietro la piccola casa.
“Ma mamma, - protestò la piccina – qui c’è l’acqua”.
Era rimasto un po’ di acqua piovana dall’ultima volta che aveva
piovuto.
“Lo so, tesoro. Poi la mamma ti pulisce” Sua madre si mise a piangere.
Grace non capiva. Sua madre era terrorizzata al destino a cui stava
andando incontro.
“Se sono buona mi fai uscire?” chiese ancora Grace.
“Ma, amore, non lo faccio perché sono arrabbiata con te! – sua madre
rise stupita - E’ un gioco. Un gioco dei grandi a cui possono
89
partecipare anche i bambini. Però le regole sono più complicate. Pensi
di poterlo fare?”
“Tu giochi, mamma?”
Sua madre trattenne un singhiozzo. “Sì, tesoro, la mamma sta già
giocando a questo gioco”.
“Non ti piace, mammina?”
“E’ che… che le regole dei grandi sono più complicate”
“E allora?”
“Tutti i bambini devono restare nascosti nelle botti e uscire solo
quando c’è silenzio. Ma tutto dev’essere silenzioso, capito? Se no, non
vale”.
“E il premio?”
“Quello – la madre l’abbracciò stretta – quello è una sorpresa per
tutti. Ora promettimi che farai come ti ho detto”.
“Promesso” Grace non avrebbe mai deluso la sua mamma. Era tutto,
per lei.
“Bravo, topino. Dammi un bacio”.
Grace accostò le labbra a quelle della madre. Uno schianto nella
casa fece trasalire la bimba. Sua madre la tenne contro di sé per un
istante intollerabile. E Grace assaporò per l’ultima volta l’odore dolce
di sua madre, quello che conosceva da sempre.
La donna la mise nella botte e rientrò in casa, sprangando la porta
posteriore. Grace vedeva il cielo azzurro con nubi bianche correre nel
vuoto. Udì alcuni colpi sordi e si spaventò, e solo allora qualcosa le fece
capire quel gioco dei grandi non doveva essere bello. Tuttavia obbedì ai
comandi della mamma.
Attese il silenzio.
Un silenzio che ci mise moltissimo a venire, tanto che la bimba si
addormentò. Nel sonno si fece la pipì addosso perché l’acqua ai piedini
le stimolò la vescica. Si risvegliò che il sole era tramontato e lontani
raggi morenti illuminavano quel che restava del giorno.
Ora il silenzio era assoluto.
Non c’erano neppure i cani, o il muggito delle vacche.
Grace aveva fame e i piedini stavano gelando nell’acqua stagnante.
Uscì dalla botte e, se anche la mamma si fosse arrabbiata, preferì essere
sculacciata che rimanere lì.
Dovette fare il giro della casa perché la porta posteriore era chiusa.
Vide.
Aveva appena quattro anni e mezzo, ma comprese che quello non era
un gioco, che la mamma non voleva che anche lei si facesse male.
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Perché lì, tutti, si erano fatti male. Riconosceva il sangue, sapeva per
esperienza che, quando esce del sangue, fa male.
Davanti alla casa vide suo padre. Riverso per terra, la spalla destra
tranciata di netto, gli occhi spalancati al cielo.
“Papà…?” lo chiamò spaventata. Non osò toccarlo.
Il piccolo cuore cominciò a galopparle nel petto: la mamma!
Corse in casa, dove tutto era stato devastato. La sua mamma giaceva
in una pozza di sangue rosso scuro con la gola tagliata, tra la cucina e
la camera da letto, dove si trovava la porta posteriore.
Aveva cercato di difendere la sua piccola fino all’ultimo.
“Mamma!”
Grace si chinò sulla madre e provò a svegliarla.
“Mamma! Mammina!...Mammina, svegliati!”
Sua madre pesava tantissimo e non dava segni di averla udita.
Grace scoppiò a piangere. Aveva freddo e fame e la mamma non la
sentiva e il papà si era fatto male. Pianse tanto da farsi venire il
singhiozzo, ma la fame non passò e presto fu buio. Con la poca luce le
riuscì di trovare la pesante coperta con il lato di cuoio dei suoi genitori
e ci si avvolse. Si sdraiò accanto al corpo della madre, per trovare
calore.
Al mattino sua madre era fredda come la pietra.
Sebbene Grace non conoscesse la morte, né il suo significato, si rese
conto che la mamma ed il papà avevano bisogno di aiuto e che toccava
a lei trovarlo.
Nella piccola bisaccia che suo padre le aveva confezionato mise il
cibo che trovò in casa e si cambiò gli abitini di cotone con quelli
dell’inverno, pesanti e resistenti. Si mise anche le scarpe dell’inverno
perché doveva camminare e suo padre le aveva spiegato che per
camminare tanto ci volevano scarpe buone.
Poi si inginocchiò accanto al corpo della madre. La strinse in un
abbraccio forte forte e le baciò le labbra, come aveva fatto lei per
rassicurarla quando si era fatta male.
“Torno subito, mammina. Vado a cercare aiuto” disse solenne. La
coprì con la coperta pesante perché non prendesse freddo in sua
assenza.
Fuori anche suo padre non si era mosso di un passo e Grace sistemò
un lenzuolo perché l’aria e le mosche non gli dessero fastidio. Baciò
anche lui.
“Vado, papà. Cerco qualcuno che può aiutarmi”.
Si mise la bisaccia a tracolla e si mise in cammino.
91
Il villaggio era pieno di gente che stava male, Grace comprese che
doveva essere coraggiosa e prendere la strada grande per arrivare al
paese più vicino, quello con i due dottori, da cui era andata per la
febbre. Loro avrebbero saputo cosa fare.
Sulla strada vide la sua amica Maddie che piangeva. Maddie aveva
un anno in più di lei e singhiozzava. Grace le disse che dovevano
cercare aiuto e, mano nella mano, le due bimbe percorsero la lunga
strada per il paese dei dottori. Là scoprirono che anche gli altri si erano
fatti male; una coppia di fratellini si aggirava tra i cadaveri. Si divisero
il poco cibo che rimaneva a Grace e si misero in cammino sulla strada
grande.
Arrivarono alla città grande. E furono troppo impegnati a
sopravvivere assieme ad altri migliaia di profughi per fare ritorno alla
propria casa. Ma Grace si ricordava della sua mamma. E piangeva
spesso per la sua mamma, che forse aveva freddo.
Poi, quando era sicura d’essersi ammalata, qualcuno la prese in
braccio, l’avvolse in una coperta calda e le diede da mangiare il latte
caldo, come quando era con la sua mamma. La vide nei suoi sogni, che
mescolava la marmellata insieme alle vicine di casa e vide che stava
finalmente bene.
Grace aprì gli occhi e si accorse che quella non era la sua casa, ma
la sensazione di calore provata nel vedere la sua mamma sana e salva le
fece capire che quella era una nuova casa.
8.
Grace aprì gli occhi, il volto rigato di lacrime.
Nella sua vita tutto era sempre stato così orribile, così
insopportabilmente ingiusto ed iniquo da soffocarla ora. Si chiese che
senso avesse allora la vita. Nessun senso, se l’uomo che avevi accolto
dentro te stessa aveva permesso che fossi insultata, malmenata e godesse
di tanta crudeltà gratuita.
Si sentì svuotata di ogni sentimento d’amore e rispetto per il genere
maschile e forse anche della stessa vita in Generale.
Mentre alzava la testa vide delle ombre nella notte.
Si volse per cercare di capire se anche gli altri uomini si fossero
accorti di quelle ombre. Stavano commentando la morte del Governatore
e di sua moglie.
Grace tornò a cercare nel buio.
92
Le ombre ripresero a muoversi. Erano vestite di bianco ed alcune
poco più che gattini.
Bambine!
Grace fu assalita dal panico.
Dovevano essere i figli del Governatore ed avevano assistito a quello
scempio!
Si dovette trattenere dal mettersi a cercarli, dopo quello che aveva
visto era certa che la stessa sorte sarebbe toccata a quegli innocenti.
Vide come sgattaiolarono verso il fondo del giardino e poi sparire nel
buio assoluto del lato sud del giardino, contro il muro di cinta. Pensò
dovesse esserci una porta di servizio – dopo tutte quelle settimane
passate a Na’h aveva appreso su quale pianta architettonica fossero
costruite le ville degli Stregoni. Attese qualche istante senza rivedere i
piccoli fantasmini bianchi ed allora si convinse che fossero sortite dal
giardino.
“Certo che fai proprio schifo” la derise Joseph, che finalmente aveva
smesso di trattenerla.
“… senti chi parla” borbottò lei e si divincolò dalla presa.
Barcollando, prese la via della porta.
“Torna qui” Joseph allungò un braccio per afferrarla ancora, ma lei si
voltò e lo affrontò rabbiosa.
“Sennò? Che cosa fai? Mi ammazzi? Non mi aspetto niente di meglio
da un idiota, incapace di capire che il suo ospite lo tiene sotto controllo!
Ti stupisci ancora che il Barone ti abbia fatto seguire? O non hai pensato
all’eventualità che volesse semplicemente liberarsi di te?” si voltò ed
uscì dalla villa.
Cercava i piccoli fantasmi bianchi.
Fu quasi travolta dalla folla e si dovette appiattire contro la parete
della casa. Si coprì la testa con il mantello e scivolò lungo il muro.
Dove, dove potevano essere andati a rifugiarsi?
Alle sue spalle Joseph tentava di mantenere il contatto visivo, ma
Grace aveva la capacità di farsi invisibile nella folla. Ne ebbe timore.
Come delle sue paure, le quali certamente trovavano un fondamento
nelle parole di Grace.
Come un’onda gigante in un mare in tempesta, la folla crebbe e
nascose Grace.
Joseph si rese conto di aver perduto qualcosa d’indispensabile per la
sua vita.
93
9.
I bambini si erano calmati e questo fu di grande aiuto per Beatrice. Erano
calmi, svegli e con i sensi all’erta. La piccolina stava dormendo sulla
poltrona di suo padre, mentre gli altri quattro giocavano con le biglie
nere che Michael aveva sempre con sé nel sacchettino legato al collo.
Era stato un regalo del padre per i cinque anni e, da allora, non se ne era
mai separato.
Beatrice sedette accanto a loro e Jason, inaspettatamente, le si mise
vicino. Lei lo circondò con un braccio – il mio bambino! Com’è bello il
mio bambino, Grande Dea, non puoi decidere di portarmelo via!.
“Che cosa c’è?” gli sussurrò.
“Ho paura” ammise Jason.
“Perché?”
“Un pememento” disse solenne Alan, il piccolo di quattro anni.
“Un… cosa?” sorrise sua madre.
“Un pememento” ribatté lui.
“Un presentimento, mamma” tradusse Jason.
“Per cosa?”
“E’… - Jason si scambiò un’occhiata con il fratellino – è difficile da
spiegare. Io non lo sento così forte, ma Alan riesce a vedere qualcosa e
sta cercando di dirmelo”.
Beatrice non rispose.
Che cosa poteva dir loro? Non possedeva le loro medesime
percezioni, né il potere. Era prevedibile che i bambini ereditassero i doni
del padre; alcune volte lei si sentiva esclusa. Non le riusciva di capirli.
Alan era telepatico e fino a quel momento il suo potere era latente. Lo
stesso Jason cominciava solo ora a dominare la levitazione.
“Sono qui, bambini. E il nostro Stregone non ci abbandonerà” li
rassicurò con dolcezza.
Li raccolse tutti sulle sue gambe, fece in modo che ogni parte del suo
corpo di madre fosse a contatto con le sue creature. Raccolse tutto il
calore di cui fu capace, senza pensare al “dopo”.
In fondo, che cosa ci sarebbe stato dopo, quando la rivolta si fosse
sedata?
94
10.
Grace vide l’ombra bianca di uno dei fantasmini. Si era infilata in un
vicolo buio. La seguì.
Andò a sbattere contro piccoli folletti vestiti di bianco appena girato
l’angolo. Erano quattro. La più piccola doveva avere non più di tre o
quattro anni; la grande forse arrivava ai dodici. Fu la grande a interporsi
tra lei e le sorelline.
La fissò con occhi roventi, di fuoco.
Grace mostrò il volto e si mise in ginocchio, in modo da essere
all’altezza di tutte loro.
“Eravate nel giardino, vero?” chiese con un sussurro.
La bambina più grande annuì e l’ombra della sofferenza le indurì il
viso.
“Come ti chiami?” le domandò ancora Grace.
“Ambra”.
“Ora ascoltami, Ambra. – Grace le prese la mano. Era calda e sudata.
Tremava. – Ascoltatemi tutte e quattro”.
“Perché ti dobbiamo ascoltare?” rispose una delle bimbe sui sette, otto
anni.
“Lei ha provato a fermare i cattivi” ribatté la più grande.
Grace sorrise tristemente dentro sé. “I cattivi”. I bambini avevano
sempre modi semplici ed efficaci per parlare, per dire la verità. Lei
avrebbe detto che erano dei bastardi, degli infami. Ma non “cattivi”. E,
invece, in quella parola c’era l’intero significato di ciò che era stato
commesso nella villa.
“Ma la mamma sta bene?” chiese la più piccina.
Grace rivide se stessa. Le accarezzò il viso tondo, liscio. Non si
accorse di piangere.
“La tua mamma sta bene. E’ sicuramente insieme alla mia. Adesso devi
pensare… dovete pensare a trovarvi un posto sicuro, lontano dai cattivi”.
“Dove?”chiese Ambra.
“Per questa notte nascondetevi nel posto più buio che trovate e non vi
lasciate mai. Domani mattina prendete della stoffa, rubatela se
necessario, e copritevi i capelli. Fate in modo che nessuno si accorga di
voi, scivolate luongo i muri. Cercate parenti o amici, trovate rifugio
lontano da qui. – le passò le mani sul viso. Ambra era una ragazzina di
una bellezza sorprendente e prometteva di divenire ancora più
affascinante: era forte, coraggiosa. – Ambra, dalla tua forza dipende la
95
vita delle tue sorelle, ricordatelo”.
Ambra annuì, gli occhi celesti sgranati dalla paura.
Grace la strinse in un abbraccio a cui la bambina si aggrappò e con lei
le sorelline. Grace baciò le loro testoline – perché non poteva fuggire
con loro? Aiutarle a sopravvivere?
“Grace…? Sei qui?” sopraggiunse il motivo per il quale non avrebbe
potuto scappare. Avrebbe condannato le bambine alla morte, se Francis
avesse scoperto le figlie del Governatore.
“Ora andate. – le baciò di nuovo, desiderando in quel momento
prendersi cura di loro (e di sé) – Sii forte, Ambra”.
Si rimise in piedi per affrontare l’uomo.
Ambra si nascose nell’ombra di Grace, le sorelline dietro di loro.
“Grace?” Joseph riuscì a distinguere l’ombra della donna.
Lei si volse verso Ambra ancora per un momento, le sorrise
incoraggiante, si sfiorarono le mani e si scrutarono l’un l’altra per
l’istante necessario a capire che adesso Ambra era grande, che la propria
innocenza era sfiorita ed era in grado di prendersi cura delle sorelle.
“Ma che…?” Joseph credette di vedere qualcosa o qualcuno dietro
Grace. Quando si sporse non scorse alcunché.
Grace lo affrontò con la stessa durezza di poco prima. Lui non tollerò
che lei lo fissasse con quella sufficienza; la prese con violenza per il
braccio e la trascinò fuori dal vicolo buio.
“Portami alla Torre” le impose.
“Lasciami” ribadì gelida Grace e, suo malgrado, Joseph fu costretto a
farlo.
Gli occhi della donna non promettevano nulla di buono. La situazione
gli stava lentamente scivolando di mano; preferì ignorarlo e procedere,
piuttosto che cambiare idea e strategia.
11.
Neropece posò per terra la grande anfora dal lungo collo; accanto le
mise quella dell’acqua. Tuffò la mano scura dentro la terra asciutta e
sabbiosa e ne tirò fuori un pugno pieno. Contemporaneamente tuffò
l’altra nell’anfora dell’acqua e strinse il pugno con la medesima
intensità.
Si concentrò.
L’acqua si ghiacciò, si solidificò e prese la forma del suo pugno.
Estrasse entrambe le braccia dalle anfore nel medesimo istante e, nel
96
compiere quel gesto, fu costretto a passare le braccia muscolose
attraverso i colli stretti dei vasi. Le mani chiuse a pugno passavano
appena; quando furono entrambe fuori la quantità di terra e d’acqua
ghiacciata avevano la stessa consistenza e la stessa quantità. Le anfore,
infatti, erano state progettate da lui medesimo dopo una serie di prove
d’incantesimo non sempre terminate con i migliori risultati.
L’incantesimo che si apprestava a compiere era tra i più difficili.
Come ogni Stregone, Neropece era in grado di dominare solo gli
elementi naturali e, se necessario, poteva scatenarli. Un evento più aveva
portata più era pericoloso perché la Natura “si presta all’opera
dell’uomo ma non è una sua creatura” – così citava il Primo Libro della
Magia, unica e suprema legge per le Arti Magiche.
Pose molto lentamente terra e acqua sul pavimento. Il liquido
ghiacciato si sciolse non appena lontano dalla sua mano, ma anziché
sciogliersi rimase compatto, sebbene in forma liquida.
Tutta l’operazione costò a Neropece non poca fatica dal un punto di
vista della concentrazione. Aveva dovuto legare la velocità alla
precisione; tuttavia la tensione per quanto stava per accadere lo
costringeva a pensare a cose che non desiderava affatto.
Si tolse la tunica e rimase in calzoni di tela e seta. Si apprestò a
compiere la seconda parte dell’incantesimo.
Con il potere dell’acqua e della terra avrebbe richiamato la forza del
vento e con esso avrebbe prodotto un vortice di aria e terra, i cui granelli
avrebbero intessuto una rete invisibile attorno alla Torre, isolandola dagli
attacchi esterni.
Perché l’incantesimo funzionasse, era vitale che le parti di terra e
acqua fossero uguali in quantità, fino alla più minuscola particella.
Neropece cominciò ad evocare la forza del vento.
Un elemento impalpabile, ma potente. Affascinante e devastante. Un
elemento che, diversamente dal fuoco, era silenzioso. Scorreva nelle
vene di un uomo fluido, non scaldava il sangue nelle vene e non faceva
battere il cuore a mille.
Neropece entrò in una fase di trance profonda, dove la
consapevolezza della mente penetra il corpo, le proprie carni e cerca nei
vasi sanguigni, nelle fibre di muscoli, negli organi interni quella traccia
impalpabile di vento.
La ricerca fu lunga, Neropece dovette rincorrerlo, il vento, serrare le
dita invisibili del potere per trattenerlo; esso gli scivolò dalle dita una,
due e solo alla terza volta lo Stregone fu in grado di non farlo sfuggire.
Quando aprì gli occhi era sudato.
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Grosse gocce di sudore gli bagnavano le tempie, colavano lungo la
schiena nuda. Quand’ecco che una, solitaria, goccia di quel sudore –
acqua e sale – cadde nell’esatto centro tra terra e acqua.
Neropece sbatté gli occhi come istupidito.
Il cuore cominciò a battere frenetico.
E ora?
98
CAPITOLO 5.
1.
Joseph andò alla ricerca di Francis e dei suoi compagni.
Grace era costretta a precederlo per non venire spintonata malamente.
Allorché si riunirono, appariva chiaro dalle chiacchiere degli uomini che,
dopo la casa del Governatore, dovevano aver fatto visita ad altre famiglie
nobili. Adesso erano insanguinati e un poco contusi, segno che questa
volta c’era stata della lotta.
Grace sfuggì alle loro occhiate ferine per accorgersi che nel cuore
della città Alta, la parte abitata dagli Stregoni, assomigliava ad un
cimitero. Era stata compiuta una carneficina di innocenti.
Era orribile – fino a che punto arriva lo spirito di devastazione
dell’essere umano? – si chiese la donna con un senso di orrore crescerle
nel petto.
Mentre era sovrappensiero, Joseph la buttò davanti all’eunuco. Lui la
tirò su di peso per la gola.
“E ora, donna, andiamo dallo Stregone. E vedi di non fare scherzi”.
Come la lasciò andare, Grace sentì le gambe non reggere: aveva
stretto troppo la gola e le mancava il fiato. Zoppicando, si rimise in piedi
quasi subito, precedendo gli uomini. Fu difficile uscire dal quartiere,
spintonati e acclamati come i liberatori.
Percorsero il tratto di strada pavimentata priva di abitazioni e
verdeggiante, che conduceva alla Torre. Adesso l’aria era più fresca, la
notte rivelava di essere chiara con le sue solite stelle luminose. Grace si
riprese dalle botte e si accorse, allora, che dei vari compagni di Francis
ne erano rimasti due.
In cima alla collina comparve infine il profilo imponente e severo
della Torre Nera.
Grace comprese che qualcosa stava succedendo.
Vide piccole luci, che si accendevano ad intermittenza nella notte.
Non fu in grado di capire che cosa fossero quegli strani fenomeni. Gli
uomini al suo seguito non parvero accorgersi di nulla.
La donna si volse verso la città in fiamme. Qualcosa le suggeriva che
nella Torre sarebbe stato peggio che nella casa del Governatore, sebbene
non riuscisse a pensare a nulla di più orribile di quanto vissuto nella
99
villa.
2.
E ora?
Neropece cercò di respirare con quanta più calma possibile.
Non gli era mai accaduto di sbagliare a quel punto dell’incantesimo.
Aveva sbagliato le dosi di terra e acqua prima di richiamare il vento;
in quei casi si era creato un mare di fango denso e capace di inghiottire
un uomo. E tuttavia non era nulla di così pericoloso; più che altro era
stato il fastidio di dover ripulire l’intero studio dalla melma.
Ma ora?
Come doveva considerare quella goccia di sudore?
Acqua?
Terra?
Il vento nella sua mano percepì lo squilibrio degli elementi a esso
essenziali per alimentarsi; qualcosa si alterò e con una zampata la goccia
di sudore fu divorata dalla creatura invisibile nelle mani dello Stregone.
Neropece fece un balzo indietro per la sorpresa di quella novità.
Il vento gli scivolò via dalla mano e cercò altro cibo. Trovò l’acqua e
la terra. Senza la guida dello Stregone, la Natura si sarebbe nutrita di ciò
che avrebbe trovato sul suo cammino. Nell’impeto produsse un ruggito e
la terra tremò – segno che la terra nel vortice era più abbondante
dell’acqua.
Si sarebbe creato un terremoto, capace di inghiottire la Torre e tutti i
suoi abitanti.
Neropece si buttò sul piccolo vortice, iniziando una lotta di cui non
conosceva l’esito.
3.
Beatrice sentì il boato sotto di sé, la sensazione della terra che
fluttuava sotto il suo corpo e che le impediva di sentire se stessa salda.
La scossa durò vari secondi e, per ogni secondo, aumentava d’intensità.
Alla fine anche i bambini la percepirono.
Jason si tenne a sua madre, i gemelli ed Alan si misero a gridare,
svegliando la neonata. Le urla acute della piccina spaccarono l’aria.
Presa alla sprovvista, Beatrice afferrò la neonata d’istinto e la strinse a
100
sé; gli altri figli erano terrorizzati.
“Sttt!” impose la madre presa dal panico. “Basta! Basta urlare!
Bambini…!”
La terra smise di tremare progressivamente e, quando furono certi
che tutto fosse finalmente immobile, tacquero sconvolti.
Il silenzio era assoluto nella grande stanza. Anche Kathy taceva, gli
occhi grandi e smeraldo spalancati, sulla madre.
Beatrice fu richiamata dallo sguardo di sua figlia e le sorrise,
vezzeggiandola. Le parlò con dolcezza e quindi rivolse la stessa dolcezza
agli altri quattro. In quel modo le riuscì di calmare i propri sensi e
placare le paure.
“Mamma, ma… che cos’era?” Jason ritrovò finalmente la voce.
“Non ne sono certa. – Beatrice alzò gli occhi al soffitto. Due piani sopra
c’era lo studio di Neropece – credo che sia opera di un incantesimo”.
“Quale incantesimo?” chiese ancora il primogenito.
Beatrice stava scavando nella sua memoria per trovare la risposta.
4.
Lei non aveva ancora compiuto quindici anni, quando Neropece l’amò
per la prima volta. Sarebbe rimasta incinta pochi mesi dopo quella
notte; fino ad allora le sue ore libere erano insieme all’uomo che
l’aveva presa a servizio e di cui, suo malgrado, si era innamorata. Era
ricambiata, almeno fino a quel momento.
La notte era fredda fuori dagli appartamenti del Primo Stregone, ma
dentro la stanza da letto, dentro quel letto, la temperatura era bollente.
Beatrice era un animaletto giocoso e curioso, dotato di una dolcezza e
di una sensualità dettate dal puro istinto.
In una pausa d’amore, Neropece le aveva fatto un indovinello:
“Quante cose si possono creare con l’acqua e terra?”
“Non lo so. – rispose lei sbarazzina – il fango maledetto che mi tocca
pulire con lo spatolino?”
“ A parte quello”.
“Vasi d’argilla. Mattoni”.
“Puoi fare di meglio” la solleticò sui peli pubici. Lei tenne le gambe
chiuse.
“Non lo so. Ti posso dire che con una certa acqua ed una certa terra
creo l’humus per concimare le piante di albicocche nane che tanto ti
piacciono”.
101
“Non solo. Sforzati, dai” il dito scuro di Neropece disegnò curve dolci
sulla pelle chiara di lei.
“Un aiutino?”
“Va bene. Dall’unione della terra e dell’acqua possono nascere alcune
piante, puoi forgiare armi e, con qualche acCortezza, dare la nascita ad
alcuni piccoli animali”.
“E…? mi sembra di capire che non è tutto”
Neropece giocherellò con le dita sulle gambe dell’amante, saggiando
la pelle fresca e soda.
“No, non è tutto. – ammise lui – puoi creare il vento”.
Beatrice si sottrasse alle sue carezze. “Un secondo. Tu mi hai sempre
spiegato che il vento, così come il fuoco e l’acqua, vive in ciascuno di
noi”.
“Beh, ci sono tante manifestazioni di vento. Ci sono i tornado, le
tempeste di sabbia. Le trombe d’aria”.
“E che cosa c’entrano con la terra e l’acqua?”
Neropece si sedette a gambe incrociate davanti a lei. “Come nascono
le trombe d’aria?”
“Dal cielo e dalla terra” rispose la ragazza.
“Esattamente. Nello specifico la tromba d’aria nasce quando una
scarica di energia fredda proveniente dal cielo tocca una scarica calda
proveniente dalla terra. – Neropece aprì la mano destra, con indice,
medio e anulare, toccò il centro della propria mano e granelli si sabbia
rossa scivolarono al centro; con la mano sinistra aperta sopra la destra
lasciò cadere alcune gocce d’acqua, nate dalla sua pelle. Quando la
sabbia rossa e l’acqua si toccarono un piccolo cono d’aria prese vita –
come vedi questo è quello che ne scaturisce. Ma solo se i due elementi
sono in perfetta e totale sintonia”.
“E il vento? Si crea da solo con acqua e terra?”
“Sei attenta. Se vogliamo creare un piccolo vortice, bastano i due
elementi soli. Per qualcosa di molto più grande il vento dev’essere
richiamato dall’uomo”.
“Io pensavo che un tornado nascesse dalla potenza del fuoco”.
“Perché?”
“Forse per via dei fulmini. O forse per la sua forza distruttrice.
Probabilmente è solo una questione di logica”.
“Logica apparente, però” sottolineò Neropece.
“Perché?”
“Terra e Acqua dominano il Fuoco; in entrambi i casi sono gli unici
due elementi a poterlo contrastare”.
102
“E tuttavia il Vento alimenta il Fuoco”.
“Allora la usi bene quella tua testolina. – Neropece sorrise beffardo e
sfiorò le labbra di Beatrice con le sue – In realtà, nel caso di un tornado
il fuoco viene creato dal vento”.
“Come?”
“Quando l’aria e l’acqua cominciano a vorticare insieme, ad una
velocità tale che l’occhio umano non può cogliere, i granelli di sabbia
cozzano tra di loro e la carica energetica dell’acqua fa sì che si scateni
una terza carica. Questa carica si scontra tra un granello e l’altro,
creando una rete d’energia. E se noi mettessimo un legnetto in questa
rete…”
“Daremmo origine al fuoco” concluse lei, affascinata dalla capacità di
Neropece di dar vita agli elementi.
“Sempre più perspicace” Neropece fece per baciarla sul seno, ma lei si
scostò.
“E se le quantità di terra e Acqua sono inesatte? Non c’è il rischio che
sfoci in un terremoto? O in un’inondazione?”
L’amante sorrise della sua osservazione: “Brava. Il rischio c’è. Più è
grande il vortice, più è difficile controllarlo”.
“E si può usare come arma?”
“Come arma di offesa è difficile. Il fatto è che Natura si presta alla
volontà degli uomini, ma non è creatura degli uomini. Non puoi far
muovere un tornado; puoi invece utilizzarlo come arma di difesa”.
“Ovvero?”
“Guarda dentro il nostro piccolo vortice. Vedi? Dentro è sereno. Ma
fuori ci sono le mura più letali che si siano mai conosciute. In questo
modo un uomo può costruirsi l’armatura più solida che esista, oppure
circondare una casa”.
“E non è… dannoso per colui che domina il tornado?”
“Per me sarebbe come dover combattere appesantito da un’armatura
di acciaio, munito di spada e scudo e tre nemici contro.”
“Sarebbe devastante” mormorò Beatrice, immaginando la portata di
un evento come quello.
“…sì” a quel punto lo Stregone lasciò sciogliere il piccolo incantesimo
della sua mano e baciò l’ombelico della sua amante.
Beatrice provava una strana inquietudine. Si domandò se Neropece
avesse mai fatto ricorso al potere della Natura e, se fosse accaduto,
quali fossero stati i risultati. Rabbrividì.
“Hai freddo?” le chiese lui.
“Un po’”.
103
Amorevole, lo Stregone la strinse in un caldo abbraccio. E
l’inquietudine passò.
5.
“Mamma?” Jason la tirava per la manica della veste.
Beatrice gli passò una mano tra i capelli folti e ricci, nerissimi come
quelli del padre. “E’ una tromba d’aria. Vengono costruite mura di acqua
e vento attorno alla Torre”.
“E come si fa?”
“Non… non te lo saprei spiegare bene. A me l’ha detto una sola volta”.
“E funzionerà, vero?”
Beatrice percepì ancora la terra tremare. No, poteva non funzionare.
La forza della Terra si stava spostando, qualcosa non era andato secondo
i piani.
“Mamma!” la richiamò Jason spazientito.
“Sì, tesoro. Funzionerà” si sforzò di sorridergli nonostante la pietosa
bugia.
Alan ed i suoi poteri telepatici colsero la menzogna e tuttavia tacque.
Come ogni bambino aveva compreso che ciò che diceva sua madre era
verità, anche nella menzogna.
Beatrice accarezzò la testolina di Kathy. Come poteva aiutare il suo
uomo?
6.
“L’avete sentito?” Joseph si fermò a gambe larghe sulla strada.
“Che cosa?” ansimò Francis per la grande corsa.
“La terra. La terra ha tremato” rispose l’uomo di Weer senza proseguire
il suo cammino. Finalmente lasciò andare il braccio di Grace, trattenuto
fino a quel momento per il gomito – sembrava che cercasse di
accompagnarla, più che tenerla.
Lei non s’intromise e prese le distanze da lui.
“Tu sei bevuto” scherzò uno dei due compari di Francis.
La terra tremò di nuovo, adesso per quasi mezzo minuto. Tutti se ne
accorsero.
Francis scrutò Joseph con occhi stretti.
Sul gruppo scese un silenzio assoluto.
104
Si era alzato il vento, notò Grace. Il suo sguardo corse alla Torre.
Quel terremoto poteva dipendere da molteplici cause – qualcuno tra gli
Stregoni forse si era difeso lanciando incantesimi – e, ciononostante, le
sembrò ovvio guardare alla Torre. Davvero pensavano che Neropece si
sarebbe fatto sorprendere così? Davvero pensavano di coglierlo alla
sprovvista?
Si volse verso la città in rivolta. Stava ancora pensando ad Ambra ed
alle sue piccole sorelle. Per quanto assurdo potesse essere, l’istinto la
portava ad unirsi a loro, a prendersi cura delle loro vite. Le sembrava
che, in qualche modo, le appartenessero, quasi come delle figlie.
“Donna” la chiamò Francis con un sibilo.
“Sì”.
“Che cos’è questa storia?”
“Non lo so” rispose la donna senza abbassare lo sguardo.
“Che cosa vuoi fare? – lo derise Joseph – hai paura?”
Francis sorrise ferino, gli occhi pieni di quella luce folle. “Paura?
Non ho idea di che cosa sia la paura, io. Non vedo l’ora di assaggiare la
donna dello Stregone. E voglio i suoi mocciosi”.
Grace rabbrividì d’orrore per ciò che lesse nell’espressione
dell’eunuco. Era peggio di un incubo, un incubo terrificante dal quale
non le riusciva di svegliarsi.
Il vento si fece sempre più forte.
“Allora andiamo” Joseph fece un cenno con la testa a proseguire.
Francis si rimise in cammino, ma presto si fermò e si volse verso i
compagni.
“Venite” impose loro.
I due lanciavano occhiate cupe alla Torre di Neropece. Un bagliore
innaturale ed inquietante nasceva ai piedi della costruzione, facendo sì
che risaltasse nel buio totale di quella notte. Grace era d’accordo con
loro, qualcosa non andava e l’istinto le suggeriva di allontanarsi da lì.
Alla svelta, anche. “Muovetevi” impose l’eunuco.
I due uomini si scambiarono occhiate veloci. Quindi, senza una
parola, si volsero e si diedero alla fuga. Grace fece un passo indietro, ma
prima che potesse farlo, Francis l’afferrò per il polso e la tirò in avanti,
facendola rovinare a terra.
“E tu? Dove pensi di andare?”
Grace si rimise in piedi e scosse la testa. Con passo zoppicante si
rimise in cammino verso la Torre. Qualcosa le suggerì che quella era
l’ultima aria fresca che respirava e che, probabilmente, non avrebbe mai
più rivisto Ambra e le altre bambine.
105
In fondo, per cosa era nata a fare, se non per soccombere? Era solo
una donna.
7.
Neropece decise di lasciar libero il vento.
Sentì come risaliva il suo sangue, i suoi muscoli, ogni fibra del suo
corpo. Non doverlo più trattenere gli avrebbe permesso di usufruire della
forza necessaria per controllare il muro d’acqua e terra.
Non appena il peso del vento si divincolò da lui, Neropece sentì i
muscoli rilassarsi, come dopo una lunga fatica. Respirò a fondo,
dominando l’affanno.
Ora doveva pensare a prendere il vortice, plasmarlo secondo le sue
volontà. Ne andava della salvezza della sua famiglia. La prima immagine
che la sua mente rievocò furono gli occhi verde smeraldo della sua
donna ed il piccolo corpo di Kathrine nelle sue mani, pochi secondi dalla
nascita. Si sentì improvvisamente onnipotente.
Si buttò sulla base del vortice. Stava divorando voracemente la terra
ed un altro terremoto, più potente del primo, avrebbe scosso la terra fin
nelle sue viscere. Il vortice di per sé non era ancora imponente, ma alto
come un bambino di otto anni; doveva essere dominato subito. Impedire
che divenisse troppo esteso.
Con un gesto simile ad uno schiaffo impose al fondo del vortice, alla
sua origine, di dirigersi sull’acqua, per compensare la troppa quantità di
terra.
Quel gesto gli fece saggiare la potenza del suo incantesimo: la mano
sinistra, sul dorso, era tagliuzzata da centinaia di piccoli graffi. I granelli
di sabbia avevano già formato la terribile rete di energia.
Intanto, però, ottenne di equilibrare gli elementi del vortice. E gli
diede il tempo per chiedersi se poteva praticare un incantesimo di
protezione su se stesso.
Il vortice ebbe un guizzo e tornò a dirigersi verso la terra. Ne bastò
due o tre granelli perché divenisse più alto di due spanne.
Lo Stregone lasciò perdere l’idea di proteggersi. L’immagine della
sua compagna e della sua ultimogenita era più forte della sensazione di
dolore che provò nel toccare di nuovo il vortice.
D’istinto tirò indietro le mani.
“Maledizione!” imprecò con un urlo.
La sua voce rimbombò nell’immensa sala. Si sentì improvvisamente
106
più forte e si avvicinò nuovamente al vortice.
Questa volta non si sarebbe fatto scansare dal tornado. A costo di
perdere le mani nel tentativo.
Mentalmente richiamò il fuoco, l’elemento più facile di evocare per
qualsiasi Stregone. Le sue mani divennero incandescenti e questo bastò
per fortificarlo un poco.
Si buttò sul vortice, le mani aperte.
Provò ad afferrarlo. Si tagliò e bruciò.
Rimase là dov’era.
Il piccolo punto d’origine del vortice scivolava via come un pesce,
guizzava viscido, complice anche il sangue delle mani di Neropece. Lo
Stregone rimase fermo al suo posto, non ebbe tentennamenti.
I suoi occhi erano fissi sul cono dell’origine.
Un tentativo, ancora un altro.
Non si accorse d’essere ferito in più punti. Non sentiva nulla, se non
il fuoco. Il fuoco della conquista, della rabbia e della volontà assoluta –
aveva aiutato Beatrice a mettere al mondo sua figlia, lui poteva fare
qualsiasi cosa.
Afferrò il vortice. Lo tenne saldamente nelle sue mani, stretto.
Si riappropriò del vento. Domarlo fu sfiancante, era difficile
costringerlo ad adattarsi al piccolo corpo di un uomo.
Ci fu un momento, un lunghissimo istante in cui Neropece fu, per la
prima volta in vita sua, sopraffatto dalla sua stessa creatura.
E si perse nel turbinio della Natura.
8.
...Neropece!
...Neropece, non lasciarmi!
9.
Neropece aprì gli occhi di scatto.
Aveva perso i sensi e non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse
passato, se minuti oppure ore.
Ricordava solamente la voce di Beatrice. La sua voce nel vento.
Preoccupata, ansiosa, spaventata come quella di una bambina. Che cosa
avrebbe fatto Beatrice se lui fosse stato sconfitto? Ed i loro bambini?
107
Sanguinava, gli bruciavano gli occhi. Le mani andavano a fuoco.
Chiuse gli occhi, cercando il vento. Non lo udiva più.
Godette del silenzio.
Aprì gli occhi si scatto una seconda volta… perché c’era silenzio?
Come aveva fatto a non accorgersene?
Il vortice aveva avvolto le fondamenta della Torre. Era riuscito a
ricondurre il vento a sé, l’aveva domato.
Si sdraiò a terra, le ferite della schiena nuda scivolarono nel sangue.
Aprì le braccia e si preparò per andare in trance. Ora la parte più faticosa.
Costruire il muro attorno alla Torre.
Poi, forse, avrebbe potuto capire in che stato era ridotto.
Quando raggiunse lo stato di trance completo, sentì il corpo terreno
sciogliersi in minuscole particelle e divenne vento.
Si domandò se sarebbe riuscito a tornare indietro.
10.
Il vento andava aumentando, man mano che si avvicinavano.
Inizialmente era poco più di una brezza un po’ sostenuta, quindi giunsero
le raffiche.
Anche Joseph si trovò a proteggersi gli occhi con il braccio.
Grace era rimasta indietro. Dopo tutte le botte che aveva preso,
arrancava a fatica contro il vento. L’uomo di Weer si rese conto che era
arduo già per lui procedere; lo scricciolo avvolto nel mantello, che
cadeva a terra ogni cinque passi, non ce l’avrebbe fatta a resistere.
Rimase fermo a fissare la figura della ex amante arrancare.
Cadeva, si rialzava, si difendeva dal vento violento, cadeva un’altra
volta. Qualche volta procedeva carponi perché aveva difficoltà a stare in
piedi. Aspettava che la raffica passasse, si rialzava. Alla fine si rialzava
sempre. Era dotata di una forza non comune, nonostante sembrasse così
fragile.
L’aveva amata. Ora la temeva. Lo faceva infuriare perché, da qualche
parte nel suo animo, si risvegliava il ricordo di lei ancora calda, ancora
distesa, sorniona, dopo l’amore e senza alcuna parola sul loro rapporto.
Non aveva mai avanzato richieste, non aveva mai detto di essere più di
un’amante. Non le importava essere una donna per bene, perché lui
avrebbe potuto sposarla. Ora si rendeva conto che era un’estranea.
Decise di non aiutarla. Grace non aveva bisogno di lui. E questo lo
faceva infuriare. Come poteva quell’esserino non aver bisogno di lui?
108
Lui, che era uomo, che era uno dei cavalieri di Weer?
“Straniero, che cosa stiamo aspettando?” era Francis.
Da quando i suoi amici l’avevano abbandonato, era diventato
silenzioso e imprevedibile nella sua ira folle.
“La donna. Lei sa entrare nella Torre”.
Grace li raggiunse. Non si fermò, fin quando Francis non la trattenne
con forza.
“Che è quello?” chiese con un cenno al muro di vento che stava
chiudendo la Torre.
Grace fu costretta a stringere gli occhi per sottrarsi alla violenza della
tempesta.
Lo vide.
“E’… è un incantesimo. – rispose stupefatta – Neropece sta cercando di
chiudere la Torre. Dobbiamo sbrigarci”.
“No, non lo farà” sibilò Francis, scagliandosi addosso a lei.
Una raffica non gli permise di picchiarla perché si dovette tenere in
piedi.
“Piantala – ringhiò Joseph spingendolo per la spalla – ha comunque
ragione lei: è un fottutissimo incantesimo. E dobbiamo muoverci”.
Si misero a correre.
Videro la porta di servizio indicata da Grace. Il muro di vento e
sabbia era quasi completo, si ferirono nell’oltrepassarlo. In tre dovettero
richiudere il portone, facendo ricorso a tutte le loro forze.
Improvvisamente fu il silenzio.
La tempesta era fuori. E loro dentro la Torre.
109
CAPITOLO 6.
1.
La terra smise di tremare.
Beatrice se ne accorse più per intuito che per una sensazione fisica,
dei suoi piccoli fu Jason ad averne la consapevolezza totale. Lo vide
rilassarsi all’improvviso.
“Meglio?” gli sorrise rassicurante.
Lui annuì, troppo preso dal riprendere a respirare normalmente.
La madre passò i successivi minuti a prendersi cura di tutti loro con
carezze, baci, vezzeggiamenti. Volse lo sguardo al soffitto, dove sapeva
che il suo uomo aveva compiuto una grande impresa.
Era tentata di andare a controllare come stesse, perché sapeva come
quei lunghi incantesimi lo sfinissero; e sapeva di non dovergli
disobbedire.
Neropece aveva compiuto quel grande sacrificio per tutti loro.
Desiderò ardentemente avere solo un pochino dei poteri dei figli per
comunicargli tutto l’amore e la gratitudine che provava nei suoi
confronti. Lo immaginò così chiaramente sdraiato sul pavimento del suo
studio, sudato ed esausto, ansimante e incapace anche solo di muovere
una mano. Se fosse stata lì in quel momento avrebbe posato un bacio
sulle labbra scure e se lo sarebbe tenuto con la testa sul grembo.
Grazie – poté solo pensare.
I bambini erano quieti. Fuori dalle finestre l’ululare del vortice faceva
traballare i vetri, il crepitio del fuoco invece era rassicurante. Beatrice
pensò di poter mettere i bambini a letto nella stanza del padre, sicura
ormai che non sarebbe accaduto più nulla.
Tea e Michael si presero per mano e si alzarono.
Beatrice li seguì con lo sguardo.
Si fermarono dinanzi alla parete apparentemente nuda della sala.
I loro volti erano terrei, la madre si rese conto che c’era qualcosa che
non andava.
“Bambini?” andò al loro fianco.
I gemelli si mordevano il labbro inferiore, spaventati.
Beatrice si volse verso Alan e Jason. Anche loro sembravano intuire
qualcosa ma il primo non possedeva capacità telepatiche ed il piccolo era
110
troppo ingenuo per comprendere il pericolo.
Il vento ululava e dentro la stanza il silenzio era assoluto.
Attendevano.
2.
Grace apriva il gruppo. Francis la sospingeva con un pugnale nelle
scapole, intuendo un possibile tradimento da parte sua.
Grace aveva pensato di condurli nelle segrete labirintiche della Torre
e di lasciarli marcire lì fin quando le guardie o Neropece stesso non li
avessero scoperti. L’eunuco era stato più furbo. La donna era troppo
attaccata alla propria vita per farsi ammazzare ed aveva obbedito. Si odiò
profondamente per la propria viltà.
Ripercorse le scale a chiocciola dei passaggi segreti, attesero che le
poche guardie della Torre si levassero di torno.
Imboccarono l’ultima scala, quella per gli appartamenti di Neropece.
Disperata, Grace provò a parlar loro: “In cima alla scala ci sono le
stanze dello Stregone. Vi prego, ripensateci”.
L’eunuco sorrise beffardo. “Ma non eri tu che alla casa del
Governatore chiedevi di venire qui?”
“Non volevo che l’ammazzaste” rispose lei con timore.
“E ora? Che cos’è che non vuoi?”
“Non lo fate. Qualsiasi cosa, ma non aggiungete altra violenza. E’ solo
una donna e quelli sono solo dei bambini… Joseph, sai meglio di me che
Neropece può averla costretta”.
L’uomo di Weer si accalorò. “Le donne sono tutte puttane e tutte
vogliono essere costrette. Tu come le altre. Lo stesso vale per la puttana
dello Stregone”.
“Che cosa ve ne viene, alla fine? – ribatté lei – Usate l’astuzia. Potete
anche ricattarlo, Neropece, senza fare del male alla donna ed ai suoi
figli”.
Francis si era messo a ridere prim’ancora che lei avesse terminato la
frase. Si prendeva gioco delle sue suppliche.
“Ve ne prego…” Grace stava anche per inginocchiarsi, quando fu
raggiunta da uno schiaffo potente.
Cadde sugli scalini, battendo la testa all’altezza del sopracciglio
sinistro, che prese a sanguinare copiosamente. Per un lungo istante tutto
fu costellato di luminosi puntini bianchi. L’istante in cui i due uomini la
superarono e si avviarono nelle stanze dello Stregone.
111
3.
Tea tirò su con il naso.
Beatrice decise che non era più momento si aspettare. Senza
accorgersene parlò telepaticamente ad Alan: “Dì’ ai tuoi fratelli di
andare in camera da letto”.
Si volse verso il piccolo. Alan si ficcò il ditino in bocca e la fissò con
occhi sgranati.
“Dai” l’incitò la madre.
Alan andò da Jason.
Il primogenito aveva preso tra le braccia la neonata e fissava sua
madre attonito. “La mamma ha detto che dobbiamo andare in camera da
letto” disse Alan rificcandosi il dito in bocca.
Jason era confuso. Lo sguardo correva da Alan alla madre.
Ora Beatrice sentiva qualcosa.
Una sensazione di pericolo la pervase.
Con una dozzina di falcate coprì lo spazio dalla parete davanti alla
quale erano i gemelli fino al camino, dove era appesa una grossa spada,
tenuta ben affilata da Neropece.
Con un suono stridulo la tolse dal fodero ricamato e si interpose tra la
parete ed i gemelli.
I figli erano ancora lì.
Il cuore della donna batteva all’impazzata.
Sentiva qualcosa…
Alan si strinse a Jason, succhiandosi il dito rumorosamente.
I gemelli rantolavano per la paura.
Kathy cominciò ad agitarsi tra le braccia del fratello maggiore.
Le mani di Beatrice erano sudate sull’elsa della spada.
Il vento ululava…
Il crepitio del fuoco…
Alan che si succhiava il dito nervosamente…
I gemelli indietreggiarono.
“Bambini! Correte in cam…” Beatrice urlò mentre la parete della
stanza veniva spalancata e i due uomini armati irruppero.
112
4.
Neropece era esausto.
Il cuore gli batteva fin nelle orecchie, assordandolo.
Per alcuni minuti non sentì altro che il pulsare del suo cuore e il suo
fiato. Gli parve di scoppiare. Non c’era abbastanza aria nella stanza.
Si sentì bruciare, non capiva dove.
E in lontananza, molto lontano dal luogo in cui era – nella mente o
nel corpo – qualcuno stava combattendo.
5.
Beatrice incrociò il metallo con quello di Joseph.
L’uomo di Weer non si sarebbe mai aspettato che la donna fosse
armata e men che meno che fosse tanto agguerrita. Sorpreso da
quell’attacco, gli riuscì solo di parare il colpo e indietreggiò appena.
I bambini si misero ad urlare all’unisono.
Beatrice si pose tra i figli e i due uomini. Alan le stava attaccato alle
gonne e gridava; anche Kathy gridava con la sua acutissima voce.
“Via! VIA! ANDATE IN CAMERA!” impose la madre ai figli.
I suoi piccoli erano terrorizzati, il clangore delle spade un suono
assordante, spaventoso.
Qualcuno!... – gemette la donna tra sé e sé – che qualcuno mi aiuti!
Neropece!
6.
Grace non capiva.
La testa vorticava per il colpo subito. Si rimise in piedi e le forze le
vennero meno.
Doveva fermarli… doveva impedire la strage…
Non le riusciva di mettere insieme le parole, pensieri razionali. Si
ritrovò lunga distesa sulle scale.
Rimase immobile.
Niente panico, si disse.
Doveva ritrovare la calma.
Si passò una mano sulla ferita. Bruciava terribilmente, il volto era
113
coperto di sangue, che le gocciolava lungo il viso e poi sul collo. Per
esperienza sapeva che non era una ferita grave. Si tastò la gonna, ne
prese un angolo e con l’aiuto dei denti stracciò la stoffa.
Si tamponò la ferita.
Sotto di lei il pavimento di pietra fredda. Tremava, ma quel gelo le
servì per riprendersi. Era viva. Ammaccata ma viva.
La ferita già sanguinava di meno.
Adesso udiva il proprio respiro. L’ululare inquietante del vento. E
voci…
…Urla!
Si tirò a sedere di scatto. Quei bastardi erano entrati nelle stanze dello
Stregone!
7.
Francis si mise a ridere davanti a quella donna agguerrita e decisa a non
cedere alla paura.
“Guarda guarda, quant’è feroce la puttana dello Stregone!” sogghignò
all’amico.
Joseph si sentì scaldare il sangue da quella piccola donna combattiva.
“Sarà divertente… e dopo i suoi figli. Guarda che bei faccini”.
Beatrice brandì la spada con foga omicida. “State lontani, bastardi
maledetti!” sibilò loro.
“E non ha paura nemmeno un po’” proseguì Joseph.
Francis la pungolò con la daga e lei ribatté il colpo. La spada di
Neropece pesava moltissimo e le faceva sprecare forze necessarie alla
difesa dei suoi bambini. Alan continuava a starle appiccicato alle gonne
ed il suo piccolo peso contribuì a farle perdere l’equilibrio dopo il
fendente.
Si rese subito conto di aver mostrato il fianco.
I due uomini sogghignarono, ma non attaccarono.
Con un gesto disperato lei si staccò il bambino dalle gonne e lo
spinse contro i fratelli. “Tenetelo fermo!” impose loro e si parò di nuovo
dinanzi ai nemici.
Joseph la pungolò ancora.
Lei tenne la punta della spada bassa – complice il peso dell’arma – e
solo all’ultimo alzò il tiro, che andò a ferire Francis al braccio. Si mise
sulla difensiva con l’eunuco, che socchiuse gli occhi con odio.
Il cuore fece un salto in gola.
114
… qualcosa… stava perdendo qualcosa…
Nell’espressione di Francis lesse una luce maligna.
“Mamma…” piagnucolò Jason con la piccola che tra le sue braccia si
agitava forsennata.
“Maaammaaa…!” singhiozzava Alan, trattenuto a forza da Tea e
Michael, muti nel loro terrore.
…non posso perdere… qualcosa…
La mente della madre era avvolta nella nebbia del panico: Jason la
stava implorando di fare qualcosa, Alan singhiozzava e la piccola
neonata gridava da farsi esplodere i polmoni – e il cuore di Beatrice che
la sapeva così male -.
“State lontani, maledetti bastardi! Lontani dai miei figli!” gridò
afferrando con la mano destra l’attizzatoio del camino, incandescente
sulla punta.
Si volse di scatto.
Erano troppo vicini al camino! Stava indietreggiando!
Joseph sogghignò. “Te ne sei accorta, eh? Alle tue spalle c’è il fuoco.
Allora che cosa pensi di fare?”
“Via! Andate via!” Beatrice cercò di guadagnare terreno, brandendo le
due armi.
La spada era difficile da sollevare con un solo braccio, ma lei era
aiutata dalla forza della disperazione più nera.
“Chiudiamola. – disse Joseph a voce alta a Francis – dovrà decidere: o
noi o i suoi figli nel fuoco”.
Caldo.
Beatrice cominciò a sentire il calore del camino.
“Via! Lontani!” no, non si sarebbe arresa, non avrebbe ceduto i suoi
bambini…
… ma il caldo, faceva caldo…
Si girò di scatto per guardare quanto spazio c’era tra loro e il camino;
tornò a fissare i nemici, consapevole di aver offerto loro il fianco.
Era disperata.
Avevano ragione, stava arretrando.
Maledizione maledizione maledizione…!
Francis allungò una stoccata verso le sue ginocchia – verso i gemelli
ed Alan -, Beatrice parò il colpo; Joseph dall’altro lato attaccò verso
Jason e la neonata.
Lei fu in grado di allontanare l’arma dai figli.
I due bastardi stavano giocando al gatto ed al topo. E lei non riusciva
a far altro che arretrare verso il fuoco.
115
“Mamma…” Jason singhiozzò per la disperazione del calore del fuoco.
Kathy urlava per la paura e la sofferenza di quel calore.
Alan la chiamava disperato.
I gemelli avevano preso a ululare il loro terrore per il fuoco.
Jason la implorava di fare qualcosa…
… qualcosa… maledizione! Sto perdendo… qualcosa…
Le lacrime di frustrazione ed orrore le salirono agli occhi, assieme
alla rabbia cieca, alla voglia di uccidere i nemici. Ma era soprattutto
spaventata. Decisa a non mollare, ma terrorizzata all’idea di dover
perdere qualcosa – lo sapeva, avrebbe perduto qualcosa.
Joseph era adirato verso quella donna. Così minuta, così femminile,
così bella e così feroce, come una lupa con i suoi cuccioli: era pronta al
massacro pur di salvarli. Stava giocando con lei, la stava mettendo alla
prova, ma voleva di più da lei. Di più che solo vederla combattere senza
vittoria.
Neropece!
…Neropece Neropece Neropece.
Caldo. Sempre più caldo.
“Decidi, donna: o noi o i tuoi figli” la provocò Francis.
Le urla dei bambini sovrastavano persino l’ululare potente del vortice
esterno.
Beatrice fu sul punto di mettersi a gridare e piangere angosciata; le
riuscì solo di ringhiare contro i due uomini – No, non si sarebbe mai
arresa! La morte piuttosto!
Caldo.
Caldissimo.
… aiuto aiuto aiuto!
Joseph smise di guardarla, attonito. Francis lo imitò.
Beatrice si girò atterrita – Nel fuoco, i bambini sono finiti nel fuoco!
Invece, girandosi sentì che stava per piangere di sollievo.
Jason e la sua disperazione avevano compiuto il miracolo: levitava a
tre metri da terra con i suoi fratellini attaccati al corpo, lontano dal fuoco
e lontano dai nemici. Nei suoi occhi c’era il medesimo sconcerto degli
uomini; salì ancora nell’aria di mezzo metro e fu totalmente fuori
portata.
In salvo.
116
8.
Clangore di armi.
... Combattimento.
Neropece si riebbe con un sussulto.
Gli parve di precipitare da un’altezza vertiginosa e di essersi
fracassato tutte le ossa su di un pavimento di rocce aguzze.
Il rumore secco delle armi che si incrociano però lo udì ancora.
Qualcuno stava combattendo…
… nei suoi appartamenti!
Prima si mise carponi, quindi si appoggiò alla parete per rimettersi in
piedi.
Le forze erano poche, ma per la prima volta in tutta la sua vita
comprese il significato dell’espressione “forza della disperazione”. La
sua, quando spalancò la porta dello studio e si precipitò ai pieni inferiori.
Beatrice! I bambini!
9.
Il silenzio della sala fu assoluto.
Il vortice all’esterno della Torre ruggiva potente, sottolineando la sua
paternità. Neropece.
Quel vortice assassino.
Quel ragazzino che aveva messo in salvo i fratellini.
Tutto portava la mano di Neropece, della sua forza, della sua potenza.
Joseph si sentì invadere da una rabbia cieca, assoluta. E quella
donna… Tutta colpa di quella donna!
“Fermatevi! Fermatevi, bastardi!”
Grace irruppe nella sala malferma sulle gambe e sanguinante. Negli
occhi la cupa decisione di chi vuole giustizia a tutti i costi.
Francis la fissò con meraviglia e aperto divertimento.
Joseph sentì montare ancor di più l’ira e la frustrazione. Quelle due
donne maledette gli stavano distruggendo la vita… due donne odiose,
inutili, buone solo a scaldare la minestra e il letto!
Donne, fottutissime donne!
117
10.
Neropece sentì che le forze gli tornavano man mano che procedeva. Man
mano che, avvicinandosi alle sue stanze, udiva le urla della sua famiglia.
Fu pervaso da una rabbia assassina.
I bambini gridavano da spaccare il cuore, Beatrice imponeva a
qualcuno di stare lontano. La voce di Joseph si burlava di lei – che ci
faceva nella Torre l’uomo di Weer? Non era mai fuggito? Lo avevano
avuto sempre sotto gli occhi? Che avesse dei poteri? Che fosse stato così
ingenuo? Arrogante? Poteva aver sottovalutato quel barbaro?
“Beatrice! – provò a forzare le porte. Le spinse con tutte le forze
possibili – Apri! Bea…!”
Alan singhiozzò ancora più forte, l’uomo di Weer disse qualcosa.
“… lontano!” risuonò la voce della sua donna.
“Non toccatela! Non provate nemmeno a toccarli!” Neropece credette
di impazzire.
Cominciò a prendere a pugni le grandi porte dei suoi appartamenti, le
mani ferite ripresero a sanguinare, le membra a dolere. Non si fermò.
Kathy strillava con tutto il fiato che poteva esserci nel corpo di una
neonata – figli di puttana! Non… non provate neanche a toccarla, la mia
bambina!
Si buttò di peso sulle massicce porte di legno e metallo. Beatrice era
stata di parola: aveva sprangato la stanza con la grossa trave e con i
mobili. – ma allora, da dove cazzo erano entrati quei bastardi?
“Bambini…! Beatrice!” provò a chiamarli ancora.
Dalla stanza le urla si elevarono alte, qualcuno parlò del fuoco.
A Neropece sembrò di diventare pazzo. Si buttò contro le porte
ancora, ancora e ancora. Non aveva più forze, ma bruciava di furia
omicida – Jason! Tea! Michael! Alan! Kathy! La mia… la mia piccola
donna! Beatrice!
Pensò di ricorrere alla magia.
Una Sfera di Fuoco? E se i bambini fossero stati lì vicino? Escluse la
Sfera di Fuoco. Il corpo era spossato dall’incantesimo per creare il
vortice. Tremava.
Urlava: “Lasciatela stare! Avete capito…? Non provate a toccare uno
dei miei figli…! Non vi avvicinate!”
La sua voce non sovrastava quella dei suoi figli spaventati, quella
della sua donna che difendeva come una leonessa i loro piccoli.
Neropece gridava fino ad implorare di lasciare stare la sua famiglia –
118
la sua vita. Comprese che cosa fosse la disperazione, cosa fosse
l’angoscia. La paura. Quella vera.
Non si sarebbe mai arreso! Non…
Improvvisamente nella stanza cadde il silenzio più assoluto.
Il cuore gli balzò in gola.
Era sgomento.
Solo il feroce ghermire del vortice attorno alla Torre…
Che cosa era successo? I suoi bambini…? Erano…?
“Fermatevi! Fermatevi, bastardi!”
Una voce femminile. Una voce che non apparteneva a Beatrice.
Neropece sbatté i pugni sul legno massiccio delle porte.
“Beatrice!” questa volta la sua voce superò il muro delle porte e
penetrò il silenzio attonito di là.
11.
Beatrice riconobbe la donna insanguinata. Era una delle donne a servizio
nelle cucine. Forse una sguattera. Quelle andavano e venivano e non
salivano oltre il primo piano, negli appartamenti della servitù. Ma sì, se
la ricordava. E dunque, doveva essere stata lei a tradire lo Stregone, a
farlo fuggire.
Ma chi era quella donna? Come faceva a conoscere la Torre meglio
di lei? I passaggi segreti?
Beatrice sentì l’ira montarle dentro; allo stesso tempo vide come era
conciata e si chiese che cosa avesse spinto quella sconosciuta ad aiutare
l’uomo di Weer e poi a pentirsene ed essere pestata in quella maniera. Di
certo lui doveva averla raggirata per ottenere quelle informazioni. Come
avrebbe spiegato sennò quelle botte?
“Beatrice!”
La voce di Neropece!
La donna ebbe un sorriso di sollievo, gli occhi le si riempirono di
lacrime suo malgrado.
“Neropece!” lo chiamò.
Finalmente!
119
CAPITOLO 7.
1.
Joseph si scambiò un’occhiata furtiva con Francis.
Lo Stregone.
Che cosa potevano fare ora? Se Neropece avesse buttato giù la porta
– ed era una cosa scontata, dopo quello che aveva fatto con il vortice
eretto attorno alla Torre -, sarebbero stati braccati. Tanto più che i suoi
figli erano irraggiungibili, là, sul soffitto alto della sala.
Grace si mosse. Si parò tra Joseph e Beatrice.
“Ora basta” impose tremando per l’ira ed il fisico debilitato.
L’ex amante la fissò gelido. Sconvolto. Due donne. Due donne così
piccole, così insignificanti che stavano decidendo della sua vita. L’ira
montò tutta d’un tratto.
Uno schiaffo potente, dato con il pugno chiuso, fece volare
letteralmente Grace per la stanza.
“Stai zitta!” le urlò diventando paonazzo.
Grace non fece neppure in tempo a pararsi il viso e le ruppe uno
zigomo.
Joseph fece cadere la spada dalla mano di Beatrice con uno scatto e
lei, impreparata, perse l’equilibrio in avanti. L’uomo la buttò a terra e le
fece sbattere la fronte con violenza.
“Puttana! – inveì folle d’ira – Tu… piccola puttana…! Come ti sei
permessa di combattere? Tu non devi neanche pensare di combattere! Tu
sei solo una stramaledetta puttana! Una fottutissima troia!”
Beatrice si chiuse a riccio per parare le botte, i calci, i pugni che
piovevano ovunque e che la stavano ferendo, mozzando il fiato.
“Lascia la mamma! – Jason si mise a gridare – Lasciala! Non toccare la
mamma!”
“Lasciala!”
“Non devi picchiare la mamma!”
I bambini unirono cori di spavento e rabbia, nel vano tentativo di
fermare quel bruto.
Joseph non si sarebbe più fermato. Era furibondo, incontrollabile –
quella donna schifosa…! Quella donna così disobbediente, così forte!
Continuava a difendersi e invece doveva arrendersi! Consegnarsi! Fare
120
quello che lui voleva che facesse! Perché lei era una stupida, stupida
donna!
La girò supina, Beatrice era ferita, tumefatta, ma nei suoi occhi verde
smeraldo la forza combattiva, la ferocia, l’assoluta volontà di
combattere. Quella era la donna dello Stregone, quella era una donna che
non valeva niente, ma che era libera e difendeva la sua libertà.
Beatrice sentiva di sanguinare, tutto le bruciava ma non più dell’odio
viscerale per quel bastardo. Non avrebbe mai permesso che un verme del
genere l’avesse vinta, mai!
“Stai ferma! – le strillò lui con voce impotente e acuta – Ti ho detto che
devi stare ferma!”
Lei stava lottando.
Joseph le mise le mani attorno alla gola, l’aria nei polmoni di
Beatrice non arrivava più, boccheggiò – sto morendo! …Non voglio
morire! Ne…ro…
La vista le si stava offuscando, vedeva a tratti con piccole luci chiare.
“No!” Grace si buttò di peso su Joseph, permettendo all’altra donna di
recuperare coscienza.
Aria! – Beatrice sentì come l’ossigeno nei polmoni bruciasse simile
al fuoco. La testa vorticava ed aveva la nausea, ma era comunque viva.
Non riusciva a crederci.
...in pace... lasciatemi in pace...
Joseph si liberò facilmente dell’altra donna con un calcio. Grace
rimase piegata su se stessa, senza forze.
I bambini continuavano gridare, inveire, supplicare e imprecare.
Francis cercava di prenderli; Jason e i suoi fratelli erano saliti fino al
soffitto. “Zitti! Zitti, piccoli bastardi!” imprecava l’eunuco, di nuovo
animato dalla follia.
Joseph tornò alla donna di Neropece.
Si sfilò la cinta di cuoio e le si sedette sullo stomaco. Beatrice lottò
per toglierselo di dosso, le braccia le dolevano per le botte che avevano
dovuto parare poco prima. Per l’uomo fu facile immobilizzargliele sopra
la testa.
Prese a darle violente cinghiate dal lato della fibbia di metallo. La
gonna era salita, strisciate rosso sangue si andarono disegnando sulla
pelle olivastra della donna. Non smetteva di lottare.
La mente contorta dell’uomo di Weer si fissò sulle gambe ferite della
donna.
Grace lo vide – no! Questa volta non lo avrebbe permesso…!
Joseph fece passare la cinta attorno ai polsi di Beatrice, che ormai
121
aveva piantato le unghie nella faccia e nel collo del suo aggressore. Farlo
fu complicato; la tramortì momentaneamente con un pugno.
Beatrice si riprese quando lui si era già calato i calzoni e provava a
violarla.
NO NO NO!
La donna di Neropece fu presa dal panico, dal disgusto, dall’orrore.
Immediatamente fu assalita da conati di vomito che le ostruirono la gola
con il sapore rancido. L’uomo la bloccò e le fu impossibile ruotare il
capo per vomitare.
“Ferma!” le sibilò.
Beatrice era tumefatta, ferita, senza forze. Ma alle spalle di quel bruto
sentiva i suoi figli.
“Lasciami stare…” implorò con un rantolo.
“Puttana” rispose lui, con il cuore che batteva violento nel petto –
recondito da qualche parte un senso di colpa serpeggiava, ma troppo
debole in confronto alla rabbia dell’orgoglio ferito.
“Lasciala, bastardo!” Grace si era rimessa in piedi e si era buttata su
di lui di peso.
Joseph non ci andò per il sottile questa volta. Le prese la testa e gliela
sbatté sul pavimento di marmo due volte. Senza una parola, solo con un
grugnito ferino. Grace giacque per terra senza sensi.
Beatrice era sconvolta dall’orrore per quell’uomo: aveva ucciso la
sua stessa compagna!
2.
Non toccatela…! Non osate provare a toccare la mia donna…!
Neropece udì le voci sconvolte e rabbiose di Jason e dei suoi fratelli.
“Lasciala!”
“Lascia la mamma!”
“Smettila!”
Una voce di uomo – Joseph – che insultava Beatrice, il suono della
cinghia contro un corpo, di un’altra voce femminile che si metteva di
mezzo. La voce di un altro uomo contro i suoi figli.
La pazzia. Era prossimo alla pazzia...!
Cercò convulsamente una soluzione maledetta. Ma le urla crescevano
d’intensità e la sua mente era risucchiata in un vortice di panico che non
riusciva a controllare.
Per la prima volta nella sua vita non era padrone di nulla.
122
Poggiò entrambe le mani alla porta. E sentì… flebile, spaventato, un
piccolo richiamo.
…aiuto…
Beatrice?
…paura…
No, non era la voce di Beatrice.
Si concentrò. Una voce flebile… una piccola voce…
Alan!
3.
Beatrice sentì distintamente il pene di Joseph cercare di varcare la sua
soglia. Spostò le anche, agitò le gambe – No, non si sarebbe fatta
prendere! – e questo gesto costrinse l’uomo a sbilanciarsi per trattenerla.
Le riuscì di liberarsi di una mano e la strinse al collo dell’aggressore,
ma non bastò.
Joseph le artigliò le gambe, il pube - non l’avrebbe mai avuta, lo
sapeva, ma lui non si arrendeva, non la lasciava.
Beatrice sapeva che sarebbe morta, qualcosa in lei si sentiva
sconfitto, il corpo non aveva più molte risorse.
Non ce la faceva più a combattere. Sarebbe morta, sì, ma dopo di
loro. Dopo di lui, certamente.
Odio quell’uomo in modo così viscerale da trasformare la propria
faccia in una maschera ferina.
Allungò una mano e lo artigliò alle palle nude, indifese. Strinse e lo
fece urlare; le unghie penetrarono lo strato sottile della pelle dello scroto.
Il grido atroce di dolore di Joseph si elevò oltre il frastuono del
vortice e la batté selvaggiamente, perché lo lasciasse andare, perché
stava morendo, lo sentiva.
Intanto, alle loro spalle, l’ultimo ostacolo si stava spostando dalla
porta d’ingresso. Lentamente, magicamente.
4.
Neropece chiamò la piccola voce.
‘Alan!’
La vocina del figlio ammutolì.
‘Alan, rispondimi’.
123
Ancora silenzio.
Alan dall’altra parte della porta non riusciva a capire. Aveva però
smesso di piangere, nello sforzo inimmaginabile per un bambino della
sua età di arrivare a concentrarsi su qualcosa che non fosse la propria
sopravvivenza.
‘Alan, rispondimi. Fallo per la mamma’.
‘…sì’.
Neropece tirò un sospiro di sollievo.
Non si era mai reso conto di quanto potesse essere potente il potere
dei suoi figli – non aveva avuto tempo, modo, voglia per indagare – e se
ne pentì.
In quel preciso istante si stava pentendo di tantissime cose.
‘Alan, guarda la porta. Non ti distrarre. Guarda la porta'.
Neropece s’insinuò nella mente del figlio, utilizzò i suoi occhi per
controllare la situazione.
… sospeso nell’aria…
Lo stregone ci mise qualche minuto a capire. Non era opera di Alan,
né dei gemelli. Kathy? Gli occhi di Alan si volsero al fratello maggiore.
Jason!
… Jason li teneva sollevati dal suolo, la piccola stretta al petto.
Contro la porta c’era la mobilia e la grossa trave di legno. E lei…
Il contatto si ruppe.
Neropece ci mise non pochi minuti per riprendersi. La stava…
Fu assalito da una nausea dettata dall’ira incontrollabile.
No, così non va. – si autoimpose.
Cercò di nuovo suo figlio, i piccoli occhi sulla porta.
Doveva spostare quei mobili. Uno alla volta. Era stremato, sentiva
che le forze gli sarebbero venute meno, ma non ora, non adesso. Gocce
di sudore scivolavano lungo le tempie, le guance, sul corpo ferito e teso
nello sforzo.
“Che cosa fai?” era Tea verso Alan.
Il bambino era inchiodato da suo padre. Non rispose subito.
“Alan” era Michael.
“Lui mi ha detto di guardare la porta” fu lapidario il piccolo.
Per Neropece quel lui diceva tante cose. Non aveva detto “nostro
padre”, ma lui. I gemelli compresero all’istante. Quel lui era lo Stregone.
“Guarda” Tea indicò il divano prima contro la parete, ora in mezzo alla
stanza.
La bambina si concentrò sulla pesante libreria. Neropece sentì la
forza di Tea che lo aiutava a sollevare i mobili. Sorrise e in quel sorriso
124
c’era tutto l’orgoglio per i suoi figli.
Lentamente, con scricchiolii impercettibili, gli oggetti si spostavano
all’insaputa degli uomini che lottavano contro la sua famiglia.
Giunse alla trave e lì il tempo parve fermarsi per quanto scorreva
lento.
Dentro la stanza, nel caos e nelle urla generali, Beatrice continuava a
lottare.
5.
“Troia maledetta…!” Joseph la colpì con il pugno sulla faccia, le lacrime
di dolore che solcavano le guance.
Beatrice dovette lasciare il suo aguzzino per parare il volto dalle
botte.
…qualcosa… sto perdendo qual…cos…a...
6.
La trave cadde per terra con un tonfo violento.
Neropece aprì l’enorme portone con entrambe le mani e fece il suo
ingresso simile ad un demone, nudo fino alla cintola, sanguinante da
piccole e numerose ferite, gli occhi dorati fiammeggianti per l’ira.
Francis sobbalzò quando lo vide entrare. Arretrò verso il passaggio
segreto. Lo Stregone parve non vederlo.
Come una furia si fiondò su Joseph.
“Sta’ lontano da lei…!” lo colpì con un calcio poderoso al fianco,
facendolo rotolare sul pavimento di pietra.
Con i bambini che gridavano e il dolore acuto alle palle, Joseph non
l’aveva neanche sentito entrare.
La sorpresa fu totale.
Neropece era fuori di sé dalla rabbia: ma non avrebbe usato la magia,
no, lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
“Tu…! – inveiva mentre lo colpiva con una violenza inaudita – Tu hai
osato uccidere la mia donna…! I miei figli! Tu… dannato, piccolo,
insignificante topo di fogna!”
Più Joseph si chiudeva a riccio per parare i colpi, più Neropece
diventava furibondo. Lo fece volare per metà della stanza e fu allora che
Francis ebbe l’idea di colpire lo Stregone alle spalle.
125
“… lo ammazzo” mormorò Michael a Tea.
Il bambino sollevò con il pensiero l’attizzatoio, lo scaraventò di
piatto, come un bastone, dietro al collo dell’eunuco. Questi crollò a terra
e guardò stralunato da dove fosse venuto il colpo.
Negli occhi verde scuro di Michael c’era un odio genuino.
Nell’espressione dura qualcosa che ricordava paurosamente Neropece.
Tea aiutò il gemello a teletrasportare una sedia, che cadde con uno
schianto sulla schiena di Francis.
“Usate il carbone ardente” suggerì loro Jason, che cominciava ad essere
stanco di mantenere tante persone in levitazione. Gocce di sudore gli
bagnavano la fronte.
Michael e Tea ubbidirono. La brace nel camino prese a sollevarsi
piano e Francis, che ben aveva udito, comprese di essere in pericolo. I
figli di Neropece lo avrebbero ucciso. Con la rabbia incontrollabile dei
bambini, Michael gli scagliò addosso alcuni tizzoni ardenti.
Francis prese a scappare per la stanza. Vide la camera da letto, ma le
porte gli si bloccarono con uno schianto.
Tea le aveva bloccate.
Francis si mise a correre verso la porta principale. Alcune guardie gli
bloccarono il passaggio. Scivolò via dalle loro mani prima che potessero
afferrarlo e si diresse verso l’unica via di fuga che gli rimasse: quella da
cui era entrato.
Braci ardenti gli caddero addosso. I figli di Neropece erano passati
all’attacco, l’eunuco provò una rabbia accecante, la stessa che aveva
portato Joseph con Beatrice. Il suo mantello prese fuoco, Francis si buttò
contro il muro per spegnere le fiamme.
Almeno, con il fuoco che lo stava divorando, le guardie non erano in
grado di avvicinarsi.
7.
Grace sentiva dei rumori. Rumori violenti, di colpi dati ad un corpo
umano. Si domandò se fosse il suo, di corpo. Non sentiva più nulla. O
almeno, così credeva.
Si costrinse ad aprire gli occhi, gonfi. A respirare normalmente. Fu
trafitta dal male.
Sono viva – pensò immediatamente con una nota di rammarico. Il suo
pensiero andò a Beatrice – era lei che stavano massacrando di botte?
Grande Hilu, no no no!
Si girò prima sul fianco, poi prona. Si mise carponi e cercò di
126
procedere verso la donna. Lei era distesa supina, senza forze, le gambe
nude e graffiate, la faccia tumefatta. Era irriconoscibile. Uno spettacolo
da togliere il fiato per la violenza inaudita, a cui era stata sottoposta.
Strisciò fino a lei, piangendo.
“Beatrice…! – la donna di Neropece roteò l’unico occhio che riusciva
ancora a tenere aperto – Beatrice, ti prego ascoltami…! Beatrice, io non
volevo che lui facesse questo… io l’ho salvato perché un tempo l’ho
amato, lo capisci? – l’altra non parlava, ma era vigile con il suo occhio
aperto a fatica, tumefatto – Lo capisci? Io ho pensato che ci fosse ancora
qualcosa, che fossi ancora in grado di costruire qualcosa…!”
“Stalle lontano! Non toccarla!” Neropece furibondo calciò Grace in
pieno stomaco e la spinse contro il muro.
Grace comprese che non avrebbe avuto alcuna possibilità di
spiegarsi, né di giustificare il suo gesto. Spaventata dagli occhi di brace
dello Stregone trovò la forza di tirarsi contro il muro e rimettersi in piedi.
La vista era annebbiata, nella gola un gusto acre e salato di lacrime e
sangue. Le gambe non reggevano.
Gli occhi erano fissi sul passaggio segreto da cui era arrivata – un
altro passo, bambina, poi ti potrai riposare… è quasi finita, un ultimo
sforzo.
Le gambe si mossero, finché non venne sollevata di peso da Francis:
“Portami via da qui!” le impose.
“A…aspetta!” protestò lei, ma era già nello stretto corridoio, lungo le
scale a chiocciola.
Più scendevano, più aumentava la potenza del vento e Grace realizzò
solo allora che non esisteva alcuna via di fuga dalla Torre.
Si mise a protestare: dapprima era un lamento flebile, quindi fece
perno sulle sue ultime risorse per calciare e divincolarsi.
“Lasciami andare! - impose – non lo capisci che non possiamo
scappare? Il vortice ha circondato la Torre!”
“Piantala, donna! – inveì l’eunuco – Non ho nessuna intenzione di
morire qui come un imbecille perché il tuo amico…”
Grace gli piantò i denti nel braccio e con un urlo di dolore lui la buttò
per terra, lontano da sé. Erano arrivati ai piedi della Torre, là da dove
erano entrati.
“Fai come ti pare. – ruggì ancora lui – resta pure qui a farti ammazzare.
Io...”
Aprì la porta con rabbia, il vortice ruggiva. Grace rimase impietrita
dal terrore. In quel momento con una zampata il vento afferrò il suo
mantello e lo trascinò via.
127
Bastò un solo istante.
Francis scomparve da davanti ai suoi occhi.
Riapparve. La rete energetica lo aveva smembrato in decine di parti.
Grace rimase pietrificata dall’orrore.
Non si accorse delle guardie di Neropece afferrarla con violenza. Ci
vollero tre di loro per chiudere quella porta.
Il vortice, fuori, faceva sentire la sua voce di belva ancora affamata.
8.
Jason e i fratelli scesero per terra.
Il ragazzino era stremato e le braccia gli tremavano, con i rischio di
far cadere la neonata. Tea gli andò in soccorso e poggiò la sorellina sul
divano, parlandole dolcemente. Dopo tanto pianto la piccina si era
addormentata.
Neropece era inginocchiato accanto alla sua donna.
Non aveva il coraggio di toccarla. Pianse nel vedere le ferite sulle
gambe, sul pube, il volto tumefatto.
“Mamma…!” singhiozzò Alan.
Neropece bloccò il figlioletto prima che si gettasse su Beatrice. “No,
piccolo. – mormorò – la mamma ora sta male”.
Con un gesto delicato le coprì le gambe e si accorse di piangere.
Ordinò alle guardie di buttare Joseph in cella, poi si rivolse al
primogenito. “Prendi i tuoi fratelli, ragazzo. Pensa a loro. Io devo curare
vostra madre”.
128
CAPITOLO 8.
1.
Zampette veloci ed alacri di topolini spaventati si stavano muovendo
rapide sugli alti cornicioni interni della grande sala da pranzo. Nel
silenzio totale del castello di Ground riecheggiavano come urla. Un
silenzio assoluto riempiva le orecchie di George, il giovane capitano
dell’Esercito dei Fuorilegge.
George provò a capire dove fossero diretti i topolini. Non che gliene
importasse qualcosa, sarebbe stato un diversivo.
Erano fermi a Ground da settimane. Dalla battaglia sul Fiume Dorato
non c’erano più stati scontri, né alcuna notizia dell’avversario. Con
l’impazienza dei suoi ventuno anni, George era inquieto, desideroso di
conoscere il futuro. La sosta obbligatoria lo stava rendendo nervoso.
Da quando Corin era partito con i suoi figli alla ricerca di Mastro
Mayster, che, si diceva, fosse l’unico a conoscere il rifugio del re, ogni
evento, ogni giornata, ogni movimento pareva essersi fermato.
George non era mai riuscito a capire chi fosse stato realmente nel suo
passato Corin; non aveva indagato per rispetto all’uomo che gli aveva
salvato la vita e che era stato l’ufficiale in comando del suo povero,
coraggioso, padre combattente. In qualche modo, nel corso dei lunghi
mesi di combattimenti fianco a fianco, Corin aveva guidato George come
un fratello maggiore, diventando un punto di riferimento.
Ed ora, che Corin era partito, gli mancava. Così come gli mancavano
i bambini – Jesse, tenebroso e testardo, Mark vivace e irrequieto, Tommy
sereno e gioioso. Aveva osservato Corin tante volte prendersi cura dei
bambini, provando una nostalgia folle per suo padre e sua madre; era
stato colto dalla malinconia della propria infanzia, dove trovava rifugio
tra le braccia sicure di uno dei due genitori.
George non aveva fratelli o sorelle. Suo padre era partito a
combattere prima che lui nascesse; durante una licenza aveva messo
incinta la moglie e poi aveva fatto visite sporadiche tra una battaglia e
l’altra, fino alla fine della Guerra Rossa. Si ricordava del proprio padre
da quando aveva dieci anni circa… fino alla morte, durante la razzia al
villaggio. Suo padre Ygolas si era battuto come cinque uomini ed era
stato abbattuto da quattro soldati nemici; con il suo sacrificio George era
129
scappato con una ventina dei suoi compaesani.
Il dolore della perdita era ancora vivo, nonostante tutto.
Passi metallici risuonarono lungo i corridoi del castello. George non
si mosse dalle proprie riflessioni.
Prima che il padrone di casa partisse alla volta della Capitale, il
castello risuonava delle voci divertite delle servette; adesso il maniero
era divenuto una caserma militare e, di donne, erano rimaste solo le
prostitute o le moglie dei combattenti. I residenti del castello si erano
trasferiti più ad est verso le colline di Ohm per coltivare le terre.
La Contea di Giallo adesso era affollata e serviva cibo; i commerci
stavano crescendo, a dispetto dei bisogni della Capitale.
Mas fece il suo ingresso nella sala.
“Immaginavo fossi qui” gli disse brusco.
George non rispose, prendendo a dondolarsi sulla sedia, le mani
dietro la nuca.
Mas era l’altro capitano di Corin; si era congiunto al loro gruppo
dopo aver sentito di un esercito di fuorilegge più organizzato del suo.
Di lui si sapeva che aveva superato la quarantina e che era stato uno
dei tenenti di Mastro Mayster, che era originario di Leman e là vi era
rimasto finché il signore di Leman non aveva saltato il fosso e si era
alleato con Weer. Tutta Leman si trovava sotto il controllo del nemico e
per Mas era venuto il momento di trovare quel po' che rimaneva
dell'esercito fedele al re. Mas non aveva una famiglia. Per la verità
accennava pochissime volte ad una madre e mai ad un padre. Era stato
cresciuto nella taverna gestita dalla zia materna dove la madre lavorava e
un intero paese l'aveva allevato. Non aveva moglie, per quanto era chiaro
che apprezzasse le compagnie femminili. Semplicemente non aveva
trovato la donna giusta – qualsiasi cosa volesse dire “la donna giusta”,
considerò il giovane George - .
Di Corin e del suo passato, Mas sembrava saperne di più di quanto
desse a vedere, ma non si era mai sbilanciato. Con Corin erano ottimi
amici e di tanto in tanto gli occhi di Mas si fermavano sui figli del suo
comandante con un'espressione dolce, intenerita.
“Dove pensavi che fossi?” rispose quindi George apatico.
“Con qualche donna” sogghignò Mas.
Per una volta George non rispose al ghigno beffardo. Qualche volta
quella vita da caserma lo deprimeva, soprattutto per la sua indole
romantica.
“Forza, ragazzo” Mas gli batté affettuosamente la mano sulla spalla.
“Forza. Per cosa? Corin è partito da settimane e non abbiamo sue
130
notizie. Passo le mie giornate tra addestramenti e a risolvere problemi
logistici che non hanno senso”.
“Corin ti ha dato una grande responsabilità, affidandoti queste truppe”.
“Lo so”. George si strinse nelle spalle; va bene, Corin gli aveva dato il
comando delle truppe – contadini, artigiani, commercianti, cittadini di
Hakne, che combattevano per la libertà e la salvezza -, ma lo aveva
escluso da un’avventura ancora più emozionante come rintracciare
Mastro Mayster.
“Mi preoccuperei più per Ground adesso” borbottò il guerriero,
versandosi una generosa quantità di vino rosso nel bicchiere cesellato
grossolanamente.
“Hai visto come gli brillavano gli occhi, quando Corin gli ha chiesto di
andare ad Hakne?” convenne George.
“Sì. Penso che sia stata una mossa ingenua da parte di Corin”. Tracannò
il vino.
“Non… non ne sarei convinto” George indugiò prima di proseguire.
Come previsto, Mas gli lanciò un’occhiata obliqua.
“Se Ground fosse rimasto qua, avremmo potuto controllarlo. Quello è
solo un opportunista, non gliene frega un niente della nostra causa”.
George scosse la testa. “A quale nobile importa della nostra causa?
Ground aveva due scelte, quando siamo capitati qui: o aiutarci oppure
veder sequestrato il suo castello. Tra le due ha scelto il male peggiore”.
“Se è per questo a nessuno degli uomini che stiamo addestrando
importa della libertà. Lo fanno solo per non dover soccombere”.
La visione così pessimistica di Mas fece sorridere il ragazzo.
“E adesso perché ridi?” grugnì il compagno.
“Eri meno catastrofico sul campo di battaglia”.
Mas si versò dell’altro vino. “Forse dipende dal fatto che sul campo
da battaglia so che cosa devo fare. Non sono un uomo da salotto, io. E
tutto quel cincischiare di Ground non lo capisco”.
“Neppure io” convenne George.
Non era del tutto vero, comunque. George aveva sentito Corin
discutere con Ground dell’esigenza di ristabilire un contatto con Justine,
la parente più prossima di John Henry per preparare la Corte al ritorno
del sovrano; il giovane guerriero aveva intuito il pensiero di Corin: in
sua assenza le persone avrebbero tessuto trame e azioni che lui non
avrebbe potuto impedire, la sua intenzione era di limitare i danni. E
allontanare Ground dal numero sempre più crescente di truppe per
mandarlo a frequentare i salotti era sicuramente il male minore.
“Non sopporto di stare qui ad aspettare” proruppe ancora Mas.
131
“Lo so, ma gli ordini sono ordini”.
Il vecchio amico tracannò l’ultimo sorso di vino e tirò fuori dalla
tasca del gilet di cuoio duro le carte da gioco. Si mise a mescolarle e le
distribuì anche a George, senza domandargli se avesse voglia o no di
giocare.
George si versò del vino e prese le sue carte.
2.
Jacob di Weer fissò con aperto disgusto il modo in cui Paul Mann, il suo
primo Generale, aveva di parlare di tutte le donne, non riconoscendo loro
alcun pregio, se non quello di servire come oggetti sessuali. Rihanna era
a tavola con loro e silenziosa come sempre in presenza di quell’uomo.
Jacob non era stato tenero nei confronti di tante donne, ma aveva
capito che alcune di loro sapevano essere più letali di tanti uomini. E la
fantasiosa Spezzacolli di cui alcuni riportavano notizie non doveva
essere stata da meno.
Come non lo erano Amalia. Grace. Elma.
Rihanna.
Il Barone non volle neppure chiedersi cosa avrebbe dovuto dire avere
Rihanna come nemica. Con il tempo aveva imparato che sua moglie
aveva in serbo qualità combattive solo immaginabili.
“Vogliate scusarmi” Rihanna aveva finito di mangiare – e neanche
tutto.
“In effetti mangiare con una scrofa è disgustoso” rise Paul Mann.
Rihanna non rispose.
“Sparisci” impose Jacob al suo Generale.
“Brava. Sparisci” ridacchiò quello, senza capire.
“No, stronzo. Tu sparisci. Fuori tutti” ribadì il Barone, ingollando un
calice di vino forte.
Una nuova rabbia gli stava divorando lo stomaco. Era inquieto. Teso.
Gli mancava la battaglia?
Rihanna lasciò la sala da pranzo. Con lei avrebbe parlato dopo.
“Non ti voglio vedere per un po’. – berciò Jacob a Paul Mann – trovati
un altro posto dove stare. Fuori dai coglioni”.
“Finisco di mangiare” s’intestardì quello.
Jacob si pulì la bocca sul tovagliolo e bevve di nuovo.
Si alzò e con un calcio alla sedia mandò a terra Paul Mann. Lo
schianto fece sbattere gli occhi di sorpresa e ferocia all’uomo.
132
“Ti ho detto di andare fuori dai coglioni” ripeté Jacob senza perdere la
calma apparente.
Paul Mann si mise in piedi e si pulì il mento sporco di sugo
dell’arrosto. Lo fronteggiò.
“Come Joseph? Vuoi liberarti di chi ti ha praticamente messo qui sul
trono? Credi veramente di avere tutto sotto controllo?”
“E tu?” fece il Barone.
All’apparenza sembrava solo voler rispondere e non scatenare una
vera e propria guerra. Questo fece credere a Paul Mann di poter osare di
più, di aver visto la fine del suo signore.
Fece qualche passo indietro, s’inchinò con mille moine per sfotterlo e
uscì dalla sala da pranzo.
Jacob riprese a mangiare.
La sua mente rivolta a Grace. Non aveva sue notizie da tanto. Non gli
importava di Joseph – un imbecille che credeva nella propria superiorità
solo per l’aspetto piacente-; lo preoccupava la mancanza di notizie di
Grace.
Voleva sapere di Neropece, voleva sapere se l’aveva tradito. E capire
come proteggere Xanatos. Rihanna.
Di quel bastardo di Paul Mann non aveva paura.
Pensava a sua moglie. Ormai pensava sempre a lei.
3.
Il giorno dopo aver riabbracciato Corin, il sovrano decise che era venuto
il momento di tornare alla luce del sole ed al suo popolo.
“Rimane il problema di Esterella” esordì il re davanti alla colazione.
“Non vi seguo” Corin pulì la bocca di Tommy dalle briciole e dal miele,
poi gli porse il bicchiere di latte caldo.
“Che figura faccio a tornare ad Hakne senza mia moglie?” borbottò
cupo l’altro.
La figura di uno che si è arreso. “Non credo che il Regno in questo
momento si chieda dove sia la regina”.
“La danno per morta? Già?” era sarcastico.
“Con il dovuto rispetto, - ribatté piccato Corin – il popolo è stato troppo
impegnato a sopravvivere e ricostruire la propria vita per chiedersi se
foste riuscito a risolvere il maleficio che ha colpito Madama Esterella.
Ed in questo momento Hakne è travolta da eventi di maggiore portata
per domandarsi se siete stato o no un bravo marito”.
133
Quest’ultima parte Mastro Mayster avrebbe potuto risparmiarsela, ne
era perfettamente consapevole. Tuttavia gli era difficile trattenere la
propria delusione verso quell’uomo che aveva servito come un padre e
che ora riusciva solo a lamentarsi di quel che poteva credere il popolino.
Dall’altra parte del tavolo Andrea, si schiarì la voce e fece cenno ai
ragazzi di alzarsi da tavola. Non risparmiò al Generale un’occhiata di
malevolo avvertimento.
John Henry attese che la sala da pranzo fosse vuota, prima di
rispondere. “Che cosa ti è successo, ragazzo?”
“Potrei rivolgervi la stessa domana, mio signore”.
“Un tempo eri diverso” ebbe a lamentarsi il re.
“Un tempo tutto era diverso. Invecchiando mi sono reso conto che la
nostra vita è troppo breve per essere spesa a chiederci che cosa penserà
la gente. Perdo la pazienza con molta facilità… ma dovete anche
capirmi, Maestà: ho perduto mia moglie, ho tre bambini che hanno
attraversato il Grande Regno ed il freddo inumano di Hoss per seguirmi
e venirvi ad avvertire che, senza di voi, la guerra è perduta. L’unica cosa
che voglio fare, mio signore, è cercare Rebecca; invece sono qui da voi”.
Il sovrano lo scrutò con cipiglio cupo, sorpreso del tono e delle parole
del suo supremo Generale. Si rese conto fin troppo bene che quel legame
di padre-figlio che si era instaurato più dieci anni prima si era evoluto;
Corin era a sua volta padre ed un uomo adulto. Mentre John Henry stava
invecchiando, era ancora il sovrano, ma la sua autorità veniva messa in
dubbio.
E, se a metterla in dubbio era quell’uomo che lui amava come un
figlio, che ne sarebbe stato con la Corte, con i suoi alleati? Con il suo
popolo?
“Hai ragione, Mayster. – si arrese allora – non avrei dovuto accusarti di
egoismo. Star chiuso qua dentro per tutto questo tempo mi ha reso
vecchio e brontolone”.
“Non pensiate che non vi comprenda, signore. E’ per questo motivo che
ho scelto di cercare voi e non mia moglie. Se avessi saputo di Giada,
forse avrei dato la precedenza alla principessa… ma è andata così”.
“Già. Rimane il fatto che se torno senza Esterella, Grande Regno
comprenderà che Jacob di Weer ha vinto. Senza mia figlia e senza mia
moglie sono un uomo senza certezze”.
“Sono d’accordo con voi sul fatto che potreste perdere credibilità se si
sapesse che Madama Esterella è ancora vittima del maleficio; tuttavia vi
ricordo che la vostra figura è ancora motivo di libertà per tanti uomini
nobili e non. Sfruttate la vostra fama di uomo giusto e nascondete a tutti
134
che la regina sta come sta”.
“Devo mentire? E Giada?”
“Un mezza verità, signore. Diremo che l’incantesimo è stato spezzato,
ma che la regina è molto debole e non in grado di affrontare questa
nuova guerra. Quanto a Giada rimane la possibilità che sia con
Spezzacolli”.
“E se non la dovessimo ritrovare?”
Corin non rispose.
Quante volte si era posto la stessa domanda su Rebecca? E se non
l’avesse ritrovata? Se Spezzacolli non fosse stata lei? Se il corpo di
Rebecca fosse in mezzo agli altri cadaveri di Makma?
Il solo pensiero gli fece tornare su l’intera colazione.
“Non lo pensate, mio signore. – mormorò a mezza voce – non dovete
neppure pensare una cosa del genere. La troveremo”.
John Henry annuì grave.
“Ora, se mi volete scusare” Mayster si alzò dal tavolo con il cuore che
batteva nel petto. Il medaglione con impressa l’immagine di sua moglie
gli bruciava sulla pelle.
“Ci vorrà qualche giorno, Mayster. – concluse il re prima che si
congedasse – Devo organizzare la permanenza di Esterella qui”.
Il Generale annuì ed uscì.
Fuori dalla porta Andrea lo aspettava con i bambini impegnati a
correre nel corridoio.
“Allora?” gli domandò.
“Allora, cosa?”
“Tornerà ad Hakne?”
“Ovviamente. E’ il nostro sovrano”.
“Ma tu gli hai mancato di rispetto”.
Corin fece un cenno ai ragazzi di proseguire fino ai loro
appartamenti. Andrea gli camminava accanto pestando i piedi. Era
adirata.
“Perché non mi rispondi?” lo incalzò brusca. Jesse era a qualche passo
da loro.
“Perché non ho nulla da dirti. – ribatté il Generale – Ho detto ciò che
pensavo”.
“Sei stato brusco, Corin. Lui rimane il re”.
“Sarà anche il re, - s’intromise Jesse – ma la verità è che non lo vuole
più essere. Ha paura e non vuole tornare a combattere”.
“Combattere fa sempre paura, Jesse” rispose suo padre.
“Lo so, ma non può lasciarci soli. Abbiamo bisogno di lui”.
135
“Ora basta, Jesse. Taci” Andrea fu brutale.
Jesse si volse di scatto e si piazzò a gambe larghe pronto a dar
battaglia. Corin si fermò in mezzo al corridoio, sorpreso di quel tono.
“Tu taci” rispose feroce Jesse. Gli occhi di smeraldo brillavano di una
rabbia bruciante.
“Non puoi sempre intrometterti nei discorsi degli adulti, sei poco più di
un bambino” Andrea era alterata.
“Ho detto una cosa vera. E poi non stavo parlando con te, ma con
papà”.
“Ero io che stavo parlando con tuo padre. Impara a rispettare chi è più
grande di te”.
“Sei tu che devi stare zitta!” reagì il ragazzino.
“Jesse! Corin, gli permetti di…”
“Zitta! Tu non sei la mamma! Tu sei solo la nostra governante!”
Andrea boccheggiò paonazza. Non trovava nulla con cui ribattere, si
volse verso Corin in cerca di aiuto ed il Generale cercò di accarezzare la
testa del figlio per indurlo a ragionare. Jesse si scostò dalla mano di suo
padre.
“La devi smettere di fare la mamma con noi. E la devi smettere di
comportarti come se lei non dovesse più tornare, capito? Tu non sai chi è
la nostra mamma, capito?” Adesso Jesse gridava sconvolto dalla rabbia.
“Jesse, calmati” lo redarguì Corin.
“No! E se devi darle ragione, va’ al diavolo anche tu!”
“Ehi” Corin alzò il tono della voce.
Ma suo figlio non avrebbe indietreggiato neppure di un passo. Non
quando si parlava di sua madre. Gli lesse negli occhi un’ira troppo
precoce per essere di un bambino della sua età.
“D’accordo, Jesse. - si arrese quindi il padre – prendi i tuoi fratelli ed
andate a giocare”.
I bambini si allontanarono, Corin fece un cenno ad Andrea di
seguirlo. L’ermafrodita bolliva tanta era la rabbia.
S’inoltrarono in una parte del corridoio tranquilla.
“Cosa mi sono perso?” chiese ad Andrea.
“Non capisco di che parli”.
“Se Jesse dice che ti comporti come se Rebecca non dovesse tornare,
deve avere i suoi motivi”.
“Ti fidi più del giudizio di un bambino che del mio? Allora per cosa mi
hai tenuto con te?”
“Mi fido di mio figlio, è diverso”.
“Quante possibilità ci sono che sua madre torni? Eh? Ti sei mai chiesto
136
perché, se Rebecca veramente fosse Spezzacolli, non abbia mai cercato
di mettersi in contatto con voi? Mark e Tommy sono piccoli, Corin,
hanno bisogno di una madre. Di vivere in serenità”.
Corin la scrutò senza dire una parola. Sentiva montare dentro di sé
rabbia e pena – oh, che sentimento deplorevole, la pena! – per quella
creatura che lo aveva seguito fino a quel punto e che nulla aveva
compreso di loro. Tutti loro.
“Perché non parli?” incalzò Andrea.
“Perché… perché vorrei ammazzarti, ragazza. – non gli riuscì di
sorridere – Come puoi tu permetterti di giudicare le azioni di Rebecca,
l’esistenza di Rebecca per il solo fatto che mi ami e che sei qui con noi?
Lo so benissimo quello che provi per me, ma non basterebbe alcuna
donna di questo mondo, né di quello di Hilu, a sostituire la mia
Bambolina dei Miracoli. – la gola gli bruciava, aveva alzato la voce – Ho
amato Rebecca nel momento in cui l’ho vista, ho sentito il suo odore, la
sua voce. Tu non puoi permetterti di dire che lei si è arresa o, peggio, che
non vuole occuparsi di noi. Tu non la conosci. Rebecca è… è là fuori. E
se si tratta di Spezzacolli, ha compiuto un’impresa degna del migliore
degli eroi di Hakne: ha salvato migliaia di vite rinunciando a se stessa.
Tu… - Corin era sul punto di battere Andrea, si trattenne a stento – tu
non provare mai più a parlare così di lei. Mai più. Tu non sai”.
Andrea scoppiò a piangere.
All’uomo venne voglia di prenderla a pugni. Si girò e se ne andò per
non esplodere.
4.
Rebecca attese che gli uomini fossero seduti al tavolo e fece passare le
brocche con il poco vino che avevano a disposizione.
“Non è molto” esordì quando tutti si furono serviti.
Klaus la fissò con aperto disprezzo. Lei gli riservò un’occhiata gelida,
indifferente a quel sogghigno. L’uomo non gradì.
“Se ci siamo tutti, credo di poter cominciare” disse ai suoi ospiti.
“E dove sono le tue amichette?” era Klaus.
Rebecca mise la spada sul tavolo con un gesto che aveva tutta
l’intenzione d’essere intimidatorio. “Hai di nuovo voglia di litigare?” lo
sfidò.
“No, lascia perdere” uno dei compagni dell’uomo frenò Klaus dal
reagire.
137
“Signora, per favore…” era un altro.
“Bene, vedo che ci siamo. – Rebecca sorrise appena – se il vostro
compagno sapesse tenere a bada la lingua, sapreste perché vi ho
convocati qui. Premetto che la nostra dev’essere cooperazione, pacifica e
che porti prosperità per ognuno di noi… e spero che su questo almeno
siamo tutti d’accordo”.
“Sì” mugugnò Klaus.
“Il problema sono le terre. Le mie compagne ed io ci prenderemo cura
del castello e della sorveglianza; da voi ci aspettiamo l’amministrazione
delle terre al meglio. Sulle vostre spalle la responsabilità di sfamare
questa gente”.
“Come?”
“Come, cosa? Mi era sembrato che voleste essere voi ad amministrare
le terre”.
Seguì un silenzio imbarazzato e d’ansia.
“Tutte le terre?” chiese Klaus sospettoso.
“Sì. Vi dirò di più: non mi interessa come ve le dividerete. Io voglio che
qui tutti abbiano di che mangiare e voglio essere in grado di poter
resistere ad un eventuale assedio. Mettetemi nelle condizioni di poterlo
fare”.
“Assedio?” gli uomini si guardarono l’un l’altro.
“Assedio. – Rebecca lasciò che la parola e l’idea di che cosa fosse un
assedio s’insidiasse nelle loro menti, che evocasse le penurie della guerra
– Non ditemi che non ci avete mai pensato”.
“Sì… cioè, no. – Klaus pareva spaventato – Insomma, credi veramente
che potremmo essere assediati?”
“Non vedo perché escluderlo. – Rebecca sprofondò nella sedia di pelle
– Weer e i suoi alleati stanno saccheggiando i villaggi per rapire ogni
essere umano che torni loro utile; presto o tardi gli giungeranno notizie
di questo rifugio. Muoverà il suo esercito, cercando di espugnare Alto
Castello. Si aspetterà di trovare della povera gente. Ecco perché mi
aspetto che facciate miracoli: dobbiamo essere in grado di sopravvivere”.
“E tu, come pensi di proteggerci?” la derise Klaus.
“Adesso vuoi la mia protezione? – Rebecca inarcò un sopracciglio
divertita – Che strano, mi ero sentita dire da un uomo della tua stazza e
con la tua stessa voce che sono solo una donna”.
“Tu sei Spezzacolli” bofonchiò lui paonazzo, mentre gli altri
cominciavano a ridacchiare malgrado le occhiatacce di lui.
“Vedo che ricordi il mio nome. – Si scrutarono in cagnesco per qualche
secondo, poi lei addolcì l’espressione del viso ma senza sorridere – A
138
questo punto non rimane molto da dire. Consultatevi tra di voi, eleggete
un vostro rappresentante e ditemi come pensate di agire. Per le questioni
logistiche parlate con me e Giada”.
“E per proteggere il castello?” insistette Klaus.
“Ho già disposto Freccia Letale e le altre guerriere. – Rebecca alzò una
mano per fermare la replica dell’uomo – Klaus, tu e i tuoi uomini dovete
pensare a come sfamarci; io ti copro le spalle. Ognuno al suo posto, se
vogliamo sopravvivere”.
“E l’esercito reale? Come possiamo far sapere se…” interloquì un altro.
“Ho mandato due delle mie donne a cercare notizie. Ma stando a quel
poco che so di sua Maestà, nessuno ha idea di dove sia. E quindi non ci
sono altre possibilità che avvertire Hakne e la cugina del re”.
“E Mastro Mayster?”
Il cuore di Rebecca ebbe uno spasmo. Fu doloroso come una stilettata
in pieno ventre.
“N…non so niente neppure di lui” sussurrò.
Agli uomini non sfuggì il turbamento della donna nel parlare di
Mastro Mayster.
“E’ grave” convenne l’uomo che aveva chiesto dell’esercito reale.
“La verità è che il paese è senza una guida. – rispose lei – Possiamo
solo fare del nostro meglio per sopravvivere”.
“E patteggiare con il nemico?” propose un amico di Klaus, dagli occhi
iniettati di sangue. Forse un cugino di Klaus.
Rebecca gli riservò un’occhiata gelida. Nella sala scese un silenzio
mortale, da penetrare nelle ossa.
“Hai figli?” chiese infine la donna.
“No”.
“Una donna?”
“No”.
“C’è qualcuno che ami, a parte te stesso?”
Lui sogghignò: “Il mio cazzo. Vuoi provare?”
“Venditi a Weer, allora. Spero che quel tuo adorato cazzo te lo ficchi in
gola e che tu goda, come non mai. Nessuno degli abitanti di questo
castello verrà dato al nemico”.
“Donne e bambini moriranno comunque. Vivono solo i più forti”.
Rebecca si alzò dalla sua sedia e si mise a passeggiare, la spada che
batteva contro la gamba. Lei passò lenta, minacciosa, dietro la schiena di
ognuno di loro.
Silenziosa.
Il suo volto era una maschera di rabbia cieca.
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“Uomini, - disse lentamente – questo serpente ha dichiarato che le
vostre mogli e i vostri figli sono buoni come carne da macello… che
cosa dovrei fare io?”
“Non ci provare, donna…” sbottò quello.
“A fare cosa?”
“Un uomo con un po’ di senno sa che donne e bambini sono i primi a
morire. E che…”
“Taci!” uno dei compagni gli si avventò contro.
Ne seguì un tafferuglio, a cui Rebecca assistette senza scomporsi.
Dopo qualche istante di urla e scontri – Klaus cercò di difendere il
parente -, la situazione parve quietarsi.
“Sono stanca di porci ignoranti di questo stampo. – dichiarò lei – volete
autonomia e l’avete: organizzate la divisione delle terre ed il lavoro. Io vi
difendo, voi mi sfamate. Questo è l’accordo; se mancherete, sarete i
primi ad essere consegnati come schiavi al nemico. In questo castello c’è
posto solo gente leale e civile; del resto non mi interessa. E credo che la
mia fama possa ampiamente spiegare il resto”.
Gli uomini annuirono, non poco spaventati.
Spezzacolli era all’apparenza una donna normale, ma tutti sapevano
che dei suoi nemici pochi erano sopravvissuti. Durante la guerriglia
prima di liberare Madrigal era solita razziare le basi nemiche e uccidere
tutti i soldati. Non ultimo, si narrava che fosse aiutata da poteri in grado
di comandare animali di ogni razza. Le sue donne erano letali, le sue
mani delle armi proibite.
Con un gesto lei fece segno di congedarsi.
Gli uomini sortirono uno ad uno, senza una parola. Il cugino di Klaus
zoppicava.
La pesante porta di noce di richiuse con uno scatto.
Rebecca li aveva fissati uno ad uno, in silenzio, mentre uscivano,
immobile.
La moglie di Mastro Mayster attese d’essere sola. Solo allora gridò:
“Vigliacchi!” e colpì così forte il tavolo con i pugni da sentirli pulsare.
Fuori, gli uomini rabbrividirono e si affrettarono a tornare alle loro
famiglie.
Vigliacchi! – si ripeté con il volto in fiamme e le lacrime di rabbia
negli occhi.
140
5.
Rihanna tolse la bottiglia di vino dalle mani del marito. Lo fissò con
aperto disgusto, le mani sul fianchi.
“Ma vi siete visto?” gli disse con aperto disprezzo.
Jacob era solo al primo giro, era ancora lucido e quindi s’incazzò
immediatamente per il tono di sua moglie.
“Che cazzo vuoi, donna? Ti piace essere battuta?” le rispose.
“Dimostrereste finalmente che vi sono rimasti un po’ di coglioni”.
“Taci, Rihanna” la redarguì.
“No. Sono settimane che vivete barricato qui dentro, quando il vostro
posto è fuori a conquistare Hakne”.
“Vivi barricata anche tu qui dentro e non mi sembra che nessuno ti
faccia storie”.
“Io sono una donna e sono la madre di vostro figlio. Il mio posto è tra
queste mura. Il vostro è là, a prendere ciò che spetta di diritto a voi e a
vostro figlio”. “Smettila”.
“Ho appena cominciato”.
“Che vuoi da me, maledizione?”
“Quello che mi avete promesso sposandomi: il Grande Regno per mio
figlio. Lo pretendo ora”.
“Comincia finalmente a venire fuori la piccola ambiziosa ragazza di
strada” come l'ebbe detto se ne pentì. Abbassò gli occhi – non aveva mai
abbassato gli occhi per la vergogna – ed attese di scoprire l'espressione
ferita di sua moglie.
Rihanna non sembrò averci fatto caso. E, se quelle parole l'avevano
ferita, fu molto brava a nascondere i suoi sentimenti.
“Ho scelto voi per avere il mio primo figlio perché siete l’unico su tutta
la terra a poter assicurare al mio bambino il cibo, la casa e la ricchezza
per il resto della sua vita. L’ho fatto perché ci credo in voi. L’ho
promesso a Xanatos”.
“Così saresti stata tu a scegliermi?” Jacob sorrise non poco divertito.
“Di avere un figlio con voi, sì. Perché la mia creatura avesse una vita
migliore della mia”.
“E ora? Che cosa vuoi?”
“Che manteniate la vostra promessa: date a Xanatos quel Regno per cui
avete dato più di vent’anni della vostra vita”.
“A Xanatos? Ne siamo certi?” sogghignò.
“Sapete benissimo che senza Xanatos io non sono altro che una puttana.
141
Ma non permetterò che mio figlio viva in miseria perché suo padre si è
arreso”.
“Non mi sono…”
“Ascoltatemi. – Rihanna non aveva alcuna intenzione di calmarsi – la
guerra non è perduta. La battaglia, sì, ma non la guerra. Avete peccato di
ingenuità, pensando di combattere contro Corin in pieno inverno; ma
d’altro canto, come potevate prevedere che fosse tanto esperto? Avete
perso la battaglia, ma cos’ha guadagnato Corin? Solo un po’ di tempo”.
“Che intendi?”
“John Henry e Mastro Mayster non sono ricomparsi magicamente.
Chissà dove sono. E al nostro matrimonio c’erano nobili che dieci anni
fa non avrebbero mai pranzato al vostro tavolo. Sappiamo tutti perché
hanno accettato il vostro invito: sanno che sarete il prossimo signore di
Hakne e vogliono assicurarsi la vostra benevolenza. Ma se continuerete a
ignorarli, vi troverete con un pugno di mosche in mano”.
Jacob si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò la moglie.
La ragazza stava dimostrando una volta ancora di avere coraggio da
vendere e la testa di una regina. Non aveva timore di incontrare i suoi
occhi, né di dire quel che pensava. Sprovveduta non lo era mai stata.
“E’ solo per Xanatos?” le chiese infine.
“Per mio figlio ucciderei, mio signore” lo sguardo ferino che seguì
l'affermazione non fece sorgere alcun dubbio nell'animo di lui.
“Anch’io” mormorò il Barone.
Si alzò e si mise a guardare fuori dalla finestra la vita che passava, la
vita che trascorreva.
Xanatos aveva già due mesi, il tempo stava correndo e lui
invecchiando. Sì, stava pensando che cosa avrebbe lasciato a suo figlio ed una morsa assassina lo prese alla gola, perché lo sapeva che il proprio
egoismo aveva condannato il suo bambino alla morte.
Si volse verso Rihanna. Lei attendeva una risposta.
Bella, no, bella non sarebbe mai stata. Ciononostante era sua,
l’amava. Rihanna era il completamento di sé. Dopo averla conosciuta,
non avrebbe mai potuto fare a meno di lei. Nel bene e nel male.
Nel cortile interno del castello alcune sguattere stavano scrostando
delle pentole alla fontana; piccoli monelli scorrazzavano dietro due
cagnetti; un uomo bestemmiava loro dietro per il chiasso che facevano.
Xanatos avrebbe giocato con altri monelli, avrebbe riso delle urla
degli uomini del cortile. Xanatos sarebbe stato presto in grado di correre.
E doveva assicurarsi che potesse farlo in completa sicurezza.
“Vattene, donna - le disse burbero - ho bisogno di pensare”.
142
“Penserete a ciò che vi ho detto?” arrendevole e tenera, Rihanna gli si
fece al fianco.
“Ci tieni così tanto?” le sorrise appena.
“Sono nata e cresciuta nella vostra città. Non abbiamo altro che voi.
Xanatos più di tutti. In dieci anni chi si aspettava che John Henry
tornasse ha capito che quello era l’ennesimo nobile fallito. Hakne non
può essere lasciata a se stessa, lo sapete bene. E voi siete l’unica
certezza”.
“Il popolo non mi ama”.
“Il popolo ama chi distribuisce il cibo in abbondanza e chi protegge le
loro case. Il popolo è come un cane randagio: dategli cibo e carezze e
sarà vostro. Stringete le vostre alleanze e il popolo vi seguirà perché
seguirà i vostri alleati. Non aspettate oltre”.
“Lo so. Ho già aspettato abbastanza” la scrutò con attenzione negli
occhi.
Rihanna abbassò lo sguardo, pudica.
Jacob pose una mano calda, grande sulla sua guancia e rimase lì
fissare sua moglie. L’aveva sposata perché voleva un figlio, ora ne era
innamorato come un ragazzino. Rihanna riponeva in lui ogni fiducia. Lei
rimase immobile, come a godere di quel calore.
“Manda a chiamare quei due leccapiedi di Borok e Paul Mann. – le
disse infine – e organizza il mio seguito”.
“Si, signore”.
Lei si allontanò, quando Jacob trovò insopportabile l’idea di vederla
uscire dalla porta.
“Rihanna” la chiamò.
“Ditemi”.
“Grazie”.
Rihanna sorrise con dolcezza. In quel sorriso ci vide l’orgoglio, e se
ne riempì l’animo.
Per la prima volta in vita sua saggiò il bisogno di dipendere dalla
soddisfazione di qualcuno che non fosse lui medesimo. Si sentì piccolo e
grande allo stesso tempo, stupido e invincibile. Innamorato.
Rihanna uscì dalla sala e lui andò nel suo studio per scrivere le
missive.
143
6.
Borok stava dormendo, quando Paul Mann ed un servitore andarono a
buttarlo giù dal letto e prendere a calci le due puttane che gli dormivano
addosso.
“Che volete?” bofonchiò l’uomo alla ricerca delle brache.
“Il Barone vuole vederci” rispose l’altro accendendosi la pipa.
L’odore acre del tabacco si diffuse per la stanza e Borok osservò il
compagno con espressione contrariata.
Erano mesi che ormai non si muovevano dalla città e il Barone non
metteva mai il muso fuori dai suoi appartamenti; stavano vivendo un
momento di pace totale in cui l’unico passatempo oltre a mangiare e
dormire era scopare. Essere convocati da Jacob di Weer era un pessimo
segno.
“Che cosa vuole?” Borok era sempre alla ricerca delle sue brache.
“Secondo te?”
“Vuole finalmente darci un taglio?”
“Non lo escludo. Comincio ad essere stanco di quel vecchio bastardo”.
Borok lo fissò senza parlare, desto.
Era la prima volta che esplicitamente Paul Mann parlava così di
Weer. In seguito alla battaglia del Fiume Dorato aleggiava nell’aria il
disprezzo del Generale per il suo signore; le parole dette apertamente
furono come una porta spalancata durante una tempesta. Fecero gelare.
Se c’era una cosa che in quindici anni nessuno di loro aveva mai
messo in dubbio era l’assoluta fedeltà al Barone. A lui dovevano la vita e
il potere di cui godevano. Quando avessero compiuto la conquista di
Hakne, le maggiori risorse di ricchezza sarebbero state spartite tra loro.
Ora che Joseph il Bello era via la fetta di ricchezze si era allargata.
Nessuno di loro voleva farsi sfuggire questa opportunità. Ma provare a
fregare Jacob di Weer… quella era un’altra storia. Tutti sapevano che il
vecchio Barone sembrava un orso senza cervello, ed era altrettanto vero
che non lo era.
Era difficile fregarlo.
“Dammi da bere” disse a Paul Mann.
“Muoviti, invece. Ci sta aspettando. Ha mandato quella scrofa della
moglie a farci chiamare. Forse si è dimenticato qual è il nostro posto”.
Borok recuperò gli stivali e si finì di vestire. Scese dabbasso e fu
salutato con mille ossequi dalla padrona, che volle sincerarsi della sua
serata.
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“Non male, non male” borbottò lui e finalmente gli fu offerto da bere e
da fumare. Fuori li aspettava la carrozza.
“Sentiamo che cosa ha da dirci. – disse dopo un silenzio prolungato
Paul Mann – poi decidiamo”.
“Cosa?” Borok osservava la città scorrere.
“… vedremo. Vedremo” ribatté meditabondo Paul Mann, scrutandolo
come se stesse prendendo le misure.
A Borok quell’espressione non piacque per niente, ma tacque. Così
come non disse più nulla quando il Barone annunciò loro che da lì a
pochi giorni sarebbero partiti per andare a consolidare la loro alleanza
con i nobili dell’est.
7.
Jacob giocava con le dita piccine di Xanatos e rispondeva ai suoi sorrisi
un po’ strabici. Suo figlio cresceva a vista d’occhio, il latte non mancava
a Rihanna e si vedeva nelle guance paffute del piccino. Di lì a poco
sarebbe stato in grado di stare seduto.
La ragazza chiuse infine il bagaglio con lo stretto necessario che suo
marito si sarebbe portato sulla sella. Fuori era buio, i grilli cantavano in
onore di quell’estate calda e accogliente.
“Sei felice” notò Jacob vedendo come si stava dando da fare.
“Sono soddisfatta, è diverso. – poi sorrise con timidezza – no, sono
felice, è vero. Che manteniate fede al vostro patto”.
“Non perché mi tolgo dai piedi per settimane?” la provocò lui.
“Siete un burbero insopportabile, quando dite così” rispose lei con un
sorriso.
“E’ vero, però: non so quanto tempo starò via”.
“Il tempo necessario per concludere i vostri affari”.
“Venite con me. Tu e il bambino”.
Rihanna lo fissò sorpresa e si rese conto con incredulità che suo
marito era serio. Era palese quanto gli fosse insopportabile lasciare il
bambino. Sembrava volerla implorare di seguirlo.
“Non la trovo una grande idea. – rispose lei con tenerezza – Voglio dire,
Xanatos è poco più di un neonato e non potrebbe viaggiare veloce.
Inoltre, se ci fosse qualche pericolo, saremmo i primi bersagli”.
“Già. – Jacob giocò con le manine del figlioletto – è solo per Xanatos?”
“In che senso?”
“E’ solo per Xanatos che non mi segui?”
145
Rihanna lo fissò sorpresa. “Certamente. Mio signore, sono vostra
moglie. E’ ovvio che se me lo comandate, vi seguirò. Ma sono anche la
madre di vostro figlio e sono certa che un viaggio tanto lungo, per un
bimbo così piccolo, sarebbe pericoloso”.
“Va bene, va bene” la quietò lui.
Jacob era a disagio con lei.
Dalla nascita di Xanatos, era sempre rimasto al fianco di sua moglie,
che l’aveva consolato, ascoltato ed infine spronato a riprendere la guerra.
Si sentiva come spoglio all’idea di partire senza di lei. Come se gli
venisse a mancare un’arma di difesa indispensabile. Si sentiva
vulnerabile.
“Datemi il piccolo, che deve poppare prima della nanna” gli disse
dolcemente e si chinò su di lui per prendere il figlio.
I capelli morbidi di un color biondo scuro sfiorarono le spalle del
Barone, il viso a pochi centimetri. Lo sguardo di lei era sul bambino,
quello di lui sul viso della moglie, per cercare un contatto.
Rihanna alzò gli occhi, scrutandolo. Abbozzò un sorriso, al quale
Jacob non rispose. Il Barone stava solo pensando a quanto fosse giovane
sua moglie, con la pelle liscia e tesa, le guance rosee. Profumo di latte
materno, sudore e mandorla lo sopraffece.
“Volete allattarlo voi?” ridacchiò Rihanna.
“Prenditi il marmocchio” borbottò Jacob.
“Grazie” la madre prese il piccino e si sedette sulla poltrona dinanzi al
piccolo fuoco per allattarlo.
Suo marito rimase immobile a fissare gli sguardi innamorati che
madre e figlio si scambiavano. C’era silenzio nella stanza. Un silenzio
sereno, di pace.
Infine Xanatos si addormentò attaccato al seno, lasciando sua madre
a ridacchiare per quanto fosse buffo con il rivolino di latte che scivolava
giù dalla bocca.
“Guardatelo. – sghignazzò la ragazza al Barone – è così ciccio che il
latte si ferma nelle pieghe della pelle”.
Jacob rise con lei, quindi lo misero nel lettino.
Rihanna tornò nella stanza da letto coprendosi il seno. Era raro che
Jacob la vedesse svestita; in genere la sera, quando lui entrava in stanza,
la trovava già pulita e cambiata per la notte.
Come vide il pezzo di pelle nuda e chiara del seno gli si risvegliò
l’appetito. Anche se non gliel’aveva chiesto apertamente, sapeva che sua
moglie era di nuovo fertile.
“Aspetta” la chiamò dopo che lei ebbe spento il fuoco ed era in procinto
146
di mettersi nel letto.
Rihanna lo studiò per un secondo e poi sorrise complice. “Andiamo a
letto, marito. Non dovete preoccuparvi, non vi lascio partire così”.
“No, aspetta a metterti a letto” la frenò ancora lui.
Rihanna sorrideva senza capire. “Cosa…?”
Jacob fece il giro del grande letto matrimoniale. “Voglio guardarti”
disse solo.
Rihanna sorrise, evidentemente a disagio. “Guardarmi? Per quale
motivo? Mi avete forse sposata per guardarmi? Se volete deliziarvi la
vista, ci sono ragazze più belle”.
“Spogliati” le rispose lui senza ridere.
Sua moglie comprese che stava parlando sul serio. Non le rimase che
obbedire e stette a guardare un punto oltre Jacob, nel buio della stanza.
Era una donna grassa, Rihanna. La sua pelle era liscia e morbida, la
carne da affondarci le mani. Da quando si erano sposati fino a quel
momento, lei gli si era sempre concessa con gli abiti addosso.
Nonostante gli anni passati a battere e la lunga esperienza in fatto di
sesso, Rihanna era in evidente disagio. Non si era mai spogliata perché
per fottere non ce n’era bisogno e adesso si sentiva senza alcuna
protezione.
Vulnerabile.
“Andiamo nel letto. – gli disse con voce terrorizzata – sarete più
comodo”.
“No”.
Rimase a guardarla, a riempirsi gli occhi di lei. Rihanna era tutta sua.
Tra le pieghe del ventre, nascosto come un segreto, l’ombelico. Si chiese
all’improvviso che neonata doveva essere stata, la bambina, con quali
occhi aveva conosciuto il mondo. Se avesse potuto difenderla dalle
brutture della vita.
Voleva sapere tutto di lei.
Aprì la bocca per domandarle della sua infanzia, poi la richiuse.
Gli occhi di lei erano lucidi di vergogna. Non l’aveva mai vista così
impaurita. E, nonostante tutto, non scappava.
“Siete un sadico” gli disse infine con voce roca.
“Per molti lo sono. – confermò lui – ma non per te”.
“Andiamo a letto, signore”.
“No, voglio toccarti. Starò via per un tempo imprecisato; stanotte
voglio passarla con te”.
“Durante il vostro viaggio avrete fanciulle decisamente più belle di me;
state sprecando il vostro tempo”.
147
Fece una smorfia divertita. “Questo lascialo decidere a me”.
Sul volto della moglie si dipinse un’espressione rassegnata. Rimase
in piedi immobile, con gli occhi bassi, su se stessa. Cominciava ad
impallidire visibilmente.
Jacob l’attirò vicino a sé e le strofinò il naso contro il collo,
assaporando l’odore della sua donna. Si sentì prendere da una forza
invincibile.
“Che vi succede?” mormorò lei ferita.
“Secondo te?” Jacob si era liberato dei calzoni e le mostrò l’enorme
membro eretto.
A Rihanna sfuggì una risatina. “Che tipo che siete!” disse.
“Già”.
Jacob le baciò il collo, le clavicole, scese giù sull’attaccatura del seni
ed assaporò il capezzolo. Ci giocherellò con la lingua e sentì i nervi di
sua moglie cedere, quasi barcollare. Fu una sensazione inebriante il
potere che aveva su di lei, qualcosa che lo portò a godere nel solo vedere
che cosa potevano fare i suoi baci. Per la verità era la prima volta in
trentacinque anni di vita sessuale attiva che si dedicava ad una donna. Fu
esaltante sentirla appoggiarsi a lui, concederglisi.
“Ma… che fate?” mugolò Rihanna stupita.
In quel momento Jacob ebbe la certezza, dalla luce accesa dei suoi
occhi e quel delizioso rossore che aveva sulle guance, che per lei fosse la
prima volta in cui le si donava piacere.
“Dovete smettere” provò a dirgli, tenendo una mano salda sulla spalla,
quasi non riuscisse a stare in piedi.
“Smetto…?” Jacob la guardò dal basso, staccandosi appena.
Lei annuì appena, ma era chiaro che mentiva. Così lui non smise di
baciarla. La baciò ovunque, finché sua moglie non fu bollente dentro e
fuori. Lo implorò di essere più forte, lo pregò di essere dentro di lei, lo
supplicò di tenerla stretta, ma non di smetterla.
Non lo chiese più.
Rihanna infine si addormentò profondamente, sul viso un’espressione
serena e soddisfatta. Jacob rimase si mise ad accarezzarle i capelli
quando il respiro di Rihanna fu regolare ed ebbe la certezza che stesse
dormendo. Assomigliava così tanto a Xanatos quando dormiva!
Il bambino piagnucolò, ma Rihanna dormiva profondamente. Non lo
udì.
Il padre si alzò per andare a controllare. Il piccolo aveva rigurgitato
un po’ di latte. Gli pulì il visino e lo girò sul fianco opposto; quando lo
fece Xanatos ruttò e infine si addormentò tranquillo.
148
Jacob si fermò nell’anticamera davanti al fuoco spento. Prima si
volse a guardare il lettino del bambino, poi Rihanna addormentata.
Ti amo. – pensò.
L’immagine di Neropece che chiedeva il suo pegno lo sopraffece.
Come avrebbe potuto dire a Rihanna che il loro piccolo era destinato
alla morte? Come poteva consegnare suo figlio a quel mostro?
Scoppiò a piangere disperato.
Avrebbe tanto voluto che più di dieci anni prima Mastro Mayster lo
avesse finito, perché il destino che lo attendeva era molto, molto peggio.
8.
Alto Castello fu avvolto dal silenzio della notte.
Rebecca era l’unica a non dormire. Il fuoco scoppiettava nel camino,
la donna buttò ancora un ceppo. Le fiamme erano alte, faceva caldo. Un
caldo che Rebecca non sentiva, il suo corpo non lo percepiva, le dita
erano ghiacciate.
Si guardò le mani alla luce del fuoco. Erano callose, ruvide, come
quelle di un uomo. Mani assassine, non lo dimenticava mai. Si erano
macchiate di sangue umano e non umano e lei, senza mentire a se stessa,
sentiva quanto bruciava quel sangue. Nessuno aveva mai capito perché si
ostinasse a usare le mani per uccidere il nemico e per Rebecca spiegarlo
sarebbe stato difficile.
Forse solo Corin avrebbe capito. Usava le mani per non dimenticare
che quel gesto l’aveva dovuto compiere per non morire, per ricordarsi di
ogni morte che aveva dato.
E della vita che aveva salvato con esse. Dei bambini ricongiunti alle
madri dopo la liberazione di Madrigal, dei nonni che avevano potuto
riabbracciare i nipoti, dei piccoli orfani che ora avevano altre famiglie.
Dei neonati figli dello stupro. Li aveva visti nascere tutti e ventisei e si
era presa la responsabilità di dare loro lo stesso amore che avevano i figli
legittimi.
Quasi tutti erano orfani. Le madri, dopo averli allattati, avevano
scelto l’abbandono e non se ne prendevano cura, pur appartenendo alla
comunità di Alto Castello
Ma che colpa ne hanno quelle creature? - si chiese la donna per
l’ennesima volta.
Parlare con le puerpere non era servito a molto, ma molti degli
anziani avevano deciso di aiutare Rebecca ad allevarli. E c’era un amore
149
commovente, quando con mani rugose accarezzavano i piccoli volti lisci
dei lattanti.
“Mi ricordano te quando sei nata” le aveva detto Ada, mentre Rebecca
metteva a dormire l’ultimo.
“Perché?”
“Avevi la stessa luce fiduciosa negli occhi”.
“Già”.
Ada le aveva passato una mano sulla schiena con una carezza.
“Qualche volta quella luce diventa scura, bambina. Non perdere la
speranza”.
Rebecca non aveva perso la speranza.
Ma un anno era passato, un anno senza avere notizie dei suoi figli…
si sentiva intontita dal dolore, come quando diventa martellante, costante
e comincia a far parte di te.
Ora le fiamme erano alte, lambivano i suoi stivali. Piegata verso il
fuoco, Rebecca cercava di sentire calore.
…Calore…
9.
Le anime vagavano.
Oltre i monti innevati di un inverno freddo, le valli addormentate, le
colline, pianure e fiumi, laghi e torrenti ghiacciati, oltre il Mare di Hoss
e poi indietro, chiamandosi, implorandosi l’un l’altra di rispondere al
richiamo. Le anime che serbano memoria dei particolari, degli odori,
dei sapori, dei colori, delle espressioni, della pelle calda. Le anime che
si conoscono, che si riconoscono anche in un luogo senza spazio e senza
tempo, anime che una senza l’altra sono come un frutto perfetto tagliato
a metà.
Le anime che si toccano, che si trovano, che si feriscono, che
combattono il dolore. Che si amano fino all’annullamento, che trovano
l’apice nell’orgasmo di appropriarsi dell’altra anima e poi si fondono in
una cosa sola.
E poi i corpi della terra che ignobilmente richiamarono le anime al
loro posto. Le anime precipitarono in una discesa vertiginosa; i monti, le
valli, i fiumi, le colline, le pianure e i mari sparirono in un baleno e
furono di nuovo gli occhi del corpo a vedere.
Rebecca sentì il petto oppresso dal peso del dolore. Una lacrima
150
dopo l’altra scorse sul suo viso, le mani che cercavano calore.
Corin si mascherò gli occhi dal sole accecante che si rifletteva sulla
neve candida. Una lacrima cadde all’angolo del suo occhio e lasciò che
scorresse. Si sentiva sul punto di impazzire, lacerato dalla nostalgia.
Jesse seguì la lacrima di suo padre, ma dalla “ruga della tristezza”
sulla fronte capì che il sole non c’entrava niente. Davanti alla
disperazione di suo padre era impotente. Allungò la mano verso i
fratellini e sentì calore.
…calore…
151
CAPITOLO 9.
1.
George e Mas non si erano scambiati una parola durante la cena. Da
quando Corin era partito e da quando anche Ground aveva lasciato il
castello, avevano messo riunito poco più di centoventi nuovi uomini.
Attualmente l’esercito che combatteva per la libertà di Hakne contava
circa millecinquecento unità. Troppe poche, rispetto a quello che sarebbe
servito per sconfiggere Weer.
Quel giorno alcuni tra i capitani d’armi avevano asserito che era
inutile aspettarsi l’arrivo di Corin con il re e Mastro Mayster, che serviva
un’azione di forza e costringere tutti gli uomini a prendere le armi in
mano e muoversi contro il nemico.
Solo dopo ore e ore di confronti e discussioni, George era riuscito a
far capir loro che un’azione di quel genere era un vero e proprio suicidio
di massa: pensavano mica che Weer fosse stato immobile per tutto quel
tempo? E se anche fossero riusciti nell’impresa, che ne sarebbe stato del
Regno? C’erano troppi se e troppi ma per condurre un’azione di quel
tipo: la cosa migliore era aspettare delle notizie. D’altro canto – aveva
spiegato – che male poteva far loro addestrare le nuove reclute?
Tuttavia, molte delle loro proteste erano lecite. E se, mentre loro
aspettavano, Ground stesse muovendo un esercito contro di loro? Magari
con l’appoggio dell’unica cugina di John Henry che poteva ancora
rivendicare qualche potere? Come avrebbero giustificato la loro azione
di combattenti? E come si sarebbero difesi?
“Zar ha ragione. – disse alla fine Mas, riferendosi alle considerazioni di
uno dei capitani – qui siamo allo scoperto: in un caso e nell’altro. La
stagione è buona, Weer potrebbe attraversare il Fiume Dorato e
sorprenderci. Se non fosse lui e fosse Ground saremmo comunque
spacciati”.
“Lo so benissimo che quel viscido serpente starà cercando di muoverci
contro le guardie reali” imprecò George a denti stretti.
“E’ probabile, sì. – Mas si accese la pipa e fumò la prima boccata con
calma – Ma incazzarsi non serve a nulla. I nostri hanno ragione, ma io
non me la sento di prendere alcuna iniziativa e muovere guerra a Weer.
Sento che Corin tornerà. E che con lui ci sarà il nostro Capitano
152
d’Aquila”.
“Mi stavo chiedendo perché così pochi uomini” George cambiò
argomento.
A proposito di Mastro Mayster Mas sembrava saperne di più, ma non
si era mai sbottonato.
“I nostri ragazzi dicono che Tulle ha saltato il fosso e che ha cominciato
le razzie”.
“Come a Brealle, sì. – annuì il giovane grave, cercando di allontanare
per un attimo l’immagine agghiacciante di suo padre che si batteva come
un leone contro i nemici e delle urla disumane delle donne che cercavano
di mettere in salvo i figli – Li deportano”.
“Te la ricordi Elaka, la Cantastorie?”
“Sì”.
“Pensavo a Madrigal”.
George ci rifletté un minuto, sorseggiando del vino.
Elaka e le sue storie. Donne-ombra che liberano una delle due
fortezze più inespugnabili del Grande Regno e che conducono i suoi
prigionieri verso la libertà. Spezzacolli era il capo delle Donne-ombra.
Non se ne avevano avuto notizie. Né di Madrigal né Elaka. Il Grande
Regno era così vasto che lei poteva essere ovunque a diffondere la
leggenda della battaglia sul Fiume Dorato, così come poteva essere stata
catturata da una delle innumerevoli spie di Weer ed ora marciva in una
cella simile a quella da cui era scappata.
Elaka si era presentata da sola, a Ground: una donna femminile e
dalla voce roca, voce di donna e di uomo, seducente e commovente,
capace di creare grazie alle sue parole intrecciate e fuse in un abbraccio
stretto la trama di una storia vera. Nessuno di loro voleva credere che
Madrigal e la cella da cui erano fuggite Spezzacolli e le compagne
fossero vere; ma avevano assistito alle razzie dei villaggi e sapevano che
quello era ciò che realmente potuto accadere.
Era terrificante.
“Posto che Elaka non si sia inventata nulla, - proseguì Mas – Madrigal
ora sarebbe libera”.
George gli lanciò un’occhiata penetrante, senza profferire parola.
Madrigal libera.
Spostare l’esercito a Madrigal e farne la nuova base.
In un caso del genere, se anche Weer o Ground avessero tentato di
attaccarli, avrebbero potuto resistere e a lungo. La fortezza era stata
costruita sulla cima di un’ampia collina che da due lati era circondata da
una foresta fitta, impenetrabile e su due lati dava su di uno strapiombo
153
inaccessibile.
“Va bene, - concesse il giovane – poniamo che Madrigal sia stata
liberata, dove sono i profughi? I nostri sui confini ne avrebbero sentito
parlare. E i profughi di Tulle?”
C’era un solo posto che loro non controllavano ed erano le paludi
centrali, i monti di Alto Castello.
Alto Castello.
I due evitarono di guardarsi.
Rimaneva Alto Castello.
Il maniero costruito nella montagna stessa e con un’unica via
d’accesso e quindi di difesa. Un luogo capace di ospitare più di mezzo
milione di persone. Se si era costretti alla fuga con donne, vecchi e
bambini, la meta sarebbe stata quella. E con questo si spiegava la
presenza dei pochi uomini.
“Sempre che non siano prigionieri” disse all’improvviso Mas.
“In quel caso Spezzacolli sarebbe solo una bella storiella” rispose
l’altro. L'ombra di Elaka che tesseva le storie di Spezzacolli e delle sue
compagne divenne troppo vivida perché Spezzacolli fosse una bella
storiella.
“Rimane il fatto che Madrigal per noi sarebbe perfetta. Abbiamo una
missione adesso. Occupare Madrigal”.
George buttò giù l’ultimo sorso di vino.
Zar e i compagni avrebbero avuto la loro missione.
2.
Davanti a Jesse, la sera prima di lasciare il castello sotterraneo di Hoss,
Andrea si scusò con Corin.
“Davvero, scusatemi” disse con semplicità.
Non diede alcuna motivazione del suo comportamento, ma Jesse vide
come suo padre le sorrise con comprensione.
“Passato, Andrea”.
Per Jesse non fu altrettanto facile perdonare.
Certo, voleva bene ad Andrea e le era grato di prendersi cura così
bene dei suoi fratellini, del calore che sapeva trasmettere, ma non era la
mamma. E non voleva che suo padre s’innamorasse di Andrea, che
decidesse di lasciare stare la mamma per mettersi con la loro governante.
La vita andava avanti, sì, ma per ritrovare la sua mamma. E quel sorriso
tra Andrea e suo padre non gli era piaciuto per niente.
154
Jesse tenne il broncio per tutto il tempo che occorse a Corin e
all’esigua compagnia del re attraversare i ghiacci perenni di Hoss e
raggiungere l’unico centro abitato sul Mare del Nord. Da lì avrebbero
preso la nave ed avrebbero fatto ritorno verso la costa meridionale.
Ora, l'arrivo di quella compagnia così numerosa per la popolazione
del Nord fu una novità assoluta. L'uomo che aveva provato a truffare
Corin, quando all'andata aveva comprato i “ghiacciosi”, i pony dalle
zampe tozze e dal lungo pelo, fece tanto d'occhi nel vederlo tornare.
“Quanti soldi hai perso per colpa mia, vecchio?” lo derise Corin quando
andò a riportare gli animali.
“Non avevo nessuno che scommettesse, signore” rispose l'altro piccato.
“Davvero? Peccato”.
Corin sogghignò e scoprì la casacca su cui era cucita una placca di
metallo nero leggerissimo. Sul metallo era incisa la figura d'Aquila che
lo identificava come Mastro Mayster.
Il vecchio si strozzò con la pipa che stava fumando.
“Mi...mio signore! - balbettò – io non avevo idea che voi foste...”
Ora, con la casacca dell'ufficiale, i bracciali e Co'ah al fianco era
palese chi fosse lo straniero con i bambini.
Nessuno si osò fare domande sulla sua compagnia perché era chiaro
che il Primo Generale del re poteva solo accompagnare il re in persona.
Questa volta non ci furono bastardi truffatori e pedofili che li
perseguitarono. E a Corin bastò far sapere che adesso sapeva cosa
accadeva ad Hoss. Improvvisamente furono tutte persone cordiali,
sorridenti e oneste.
Tanto oneste, che furono tre i capitani che si proposero di condurre
sua Maestà e il leggendario Mastro Mayster ad Hakne. Se all'andata
Corin aveva penato e non poco a trovare posto, adesso viaggiava con
tutti gli onori e gli agi – in questo caso, sì, che era valso qualcosa far
riconoscere la propria carica, si disse con divertimento.
John Henry, invece, vide qualcosa di più, qualcosa di cui Mastro
Mayster non era affatto consapevole: il rispetto, la disponibilità e la
fedeltà andavano al Capitano d'Aquila. Era con lui che si discuteva del
futuro, dei problemi; era con lui che ci si sedeva al tavolo ed era con lui
che la testa si chinava in segno di ossequio. Un tempo - un tempo che
John Henry ricordava solo lontanamente, il tempo di un altro uomo che
gli era estraneo – veniva fissato, cercato, ammirato come Corin.
Mi dispiace. - avrebbe voluto dire al suo popolo – mi dispiace, ma è
difficile. Cercate di capirmi, senza Esterella non riesco a respirare, non
riesco neppure a pensare. Dovete capirmi. Mia moglie non è morta e
155
non è viva. Mia moglie non è. Dovete giustificarmi, io non ho più i figli
che mi svegliano nel cuore della notte perché hanno bisogno dei miei
abbracci.
Essere di nuovo Mastro Mayster, nel mondo là fuori, fu di grande
aiuto a Corin. Lo riavvicinava alle persone, che adesso capivano la luce
dei suoi occhi, che adesso lo circondavano di un affetto profondo.
Burberi e dissacranti, anche i ladri ed i manigoldi di Hoss avevano
un'anima. E, se in fondo a quell'anima rimaneva il loro spirito di uomini,
quegli uomini comprendevano meglio di John Henry e meglio di Andrea
la disperazione di Corin di aver dovuto scegliere se salvare sua moglie o
i loro figli e venire a richiamare il re piuttosto che cercare la donna
amata.
Era un preludio. John Henry avrebbe voluto giungere alla fine il
prima possibile.
Nonostante l'affetto mostrato dal popolo, Jesse continuava a
trincerarsi dietro il silenzio ostinato di chi non vuole parlare perché ha il
terrore di conoscere. Solo i suoi fratelli riuscivano a distrarlo dal broncio.
“Prima di salpare, mi vuoi dire il perché della tua faccia?” chiese Corin.
“No” rispose il figlio testardo.
“Sembri Tommy. E mi fai anche ridere”.
“Non sono io ad essere stupido” replicò piccato il ragazzino.
“Sono io?”
“Sì, tu”.
Jesse incrociò le braccia in quel gesto che anticipava la sua rabbia.
Era pronto a dar battaglia e suo padre sorrise dentro di sé d’orgoglio per
quel figlio così combattivo. Ma non esternò nulla di tutto ciò.
“Mi hai stancato, ragazzo. – gli disse infine – e sai che di pazienza ne
ho poca”.
Finalmente Jesse parve sul punto di comprendere di aver osato più
del dovuto. Si volse a guardare i fratellini, Andrea e tornò con gli occhi
sul genitore. Si arrese.
“Pensavo alla mamma. – ammise alla fine – non si è dimenticata di
noi…vero?”
Corin avrebbe voluto girarsi e incenerire Andrea con lo sguardo. Ci
aveva messo più di tre mesi per tranquillizzare Jesse sulla salute della
madre e ora erano di nuovo daccapo. Non rispose subito e fu Mark a
trillare:
“La mamma non può dimenticarci!”
“Mamma è bene” sorrise Tommy con quel suo sorriso angelico in grado
di mettere la pace nel cuore del mondo.
156
“Mamma sta bene, si dice” lo corresse Mark, in qualità di fratello
maggiore.
“Mamma sta bene” ripeté Tommy convinto.
Al terzogenito Corin accarezzò la testa riccia e se lo prese in braccio.
Sembrava che Tommy avesse la capacità di sentire le persone lontane,
ciò che le azioni portavano a fare. E con quella sua espressione serena
comunicava fiducia assoluta.
“Ma, papà, siamo stati sotto terra per mesi! Come…” provò a ribattere
il primogenito.
“Siamo stati sotto terra per appena ventitré giorni, Jesse” rispose
interrompendolo.
“Però è passato tanto tempo. Cioè, come fai a sapere che le cose vanno
bene, che la mamma non ci abbia dimenticati?” adesso piagnucolava.
Corin avrebbe dovuto consolare suo figlio. Se fosse stato Rebecca, se
fosse dotato di quella sensibilità particolare delle madri avrebbe visto
che nelle parole, nei gesti del figlio c’era la solitudine, la paura di un
bambino senza la madre. Jesse si era dimostrato grande e responsabile,
cosicché forse – troppo presto, troppo preso dalla vita che sfuggiva –
Corin non si era accorto di quanto fragile fosse suo figlio.
Perciò gli rispose brusco: “Jesse, ne abbiamo già discusso. Vuoi
metterti anche nel mio cuore? Vuoi sapere tu quello che c’è per tua
madre?”
“No, papà. Scusa” Jesse abbassò il capo rosso per la vergogna.
Non si erano capiti. Jesse un piccolo, incerto, bambino grande e suo
padre, un grande guerriero con un buco doloroso nel petto.
Corin attirò bruscamente Jesse in un abbraccio goffo, protettivo.
Che cosa poteva dirgli? Che non vedeva l’ora di lasciare quelle terre
ghiacciate? Lasciare il potere dell’esercito per cercare sua moglie?
Lasciò solo che lo sguardo vagasse verso l’orizzonte, verso il punto
in cui c’era il mare, la nave che li attendeva per salpare, le settimane di
navigazione e poi, finalmente, casa. Hakne.
Più che un abbraccio, il loro sembrava un modo di sostenersi.
3.
Tap, tap, tap.
Passi veloci, passi affrettati, il tallone che pestava con autorità.
Rebecca aveva dormito non più di quattro ore ed era ancora notte
fonda. Da un mese a quella parte non le era concesso di più. La sua
157
stanza era quella che un tempo appartenuta a Mastro Mayster; Giada
aveva insistito perché prendesse la stanza che era stata di suo padre e
quindi vicina a quella che un tempo fu la sua camera, ma Rebecca aveva
rifiutato l’offerta. In quel modo godeva dell’intimità che le serviva, ma
non era troppo distante dalla vita del castello. Soprattutto viveva e
respirava l'aria di Corin, rafforzava lo spirito pensando a suo marito da
ragazzo, in quella stanza, nella stessa situazione d'emergenza e che
pensava a lei. Ne aveva l'assoluta certezza perché quando aveva
esplorato la stanza per la prima volta aveva trovato un medaglione con la
sua effige di quando aveva appena dodici anni. La sera che si erano
conosciuti.
Nell’udire quei passi Rebecca spalancò gli occhi.
Marçela.
La donna si alzò e si vestì velocemente. Uscì dalla stanza nel
momento in cui l’altra, venuta per chiamarla, stava per bussare. Marçela
non si stupì di vederla già pronta.
“Ne sono arrivati altri cento. Almeno, così dicono le vedette” disse
senza preamboli a Spezzacolli.
“Non saranno più di quaranta. – Rebecca si passò una mano sul viso per
svegliarsi. I ragazzi che stavano di vedetta non avevano la capacità di
quantificare e due erano sempre tre – vai sotto da Ada e dille di chiamare
le sue ragazze. Tu torna pure a dormire. Grazie, Marçela”.
“Niente” le due si separarono.
Rebecca andò nella sala dove negli ultimi trentadue giorni avevano
accolto quasi seicento persone.
Profughi da tutte le parti del Regno. Jacob di Weer aveva deciso che
Hakne valeva bene il rastrellamento a tappeto di tutti i villaggi. Per far
fronte al numero spropositato di bisognosi, Rebecca aveva stabilito che
nella sala più grande del castello il fuoco fosse sempre acceso e ci fosse
un numero minimo di coperte, acqua e frutta secca con cui sfamare i
poveretti. Spesso le loro fughe erano precipitose, non avevano neanche il
tempo di portarsi dietro del cibo e mangiavano quello che trovavano sul
loro cammino. Il problema vero era che le guardie del nemico li
inseguivano, cercavano di braccarli e questa gente camminava, correva
per giorni e giorni interi pur di mettersi in salvo. Arrivavano affamati,
assetati e stanchi morti. Così stanchi da non riuscire a muoversi per dei
giorni interi e da avere i piedi piagati per tutti i chilometri macinati.
Ada e quindici delle sue ragazze giunsero nella sala. La guaritrice le
mise a mettere l’acqua a bollire.
“Abbiamo avanzato della zuppa” disse a Rebecca.
158
“Perfetto. Ho anche visto che è stato cotto il maiale”.
“Doveva bastare per la settimana” sospirò la donna.
“Noi possiamo mangiare i legumi. Fa’ tagliare la carne e aggiungete del
farro alla zuppa”.
In quel momento i profughi fecero il loro ingresso nella sala, aiutati
dalle giovani guardie del castello, addestrate da Tray.
Freccia Letale era tra loro.
“Spezzacolli. – la chiamò – questi sono messi male. Davvero male”.
Ma Rebecca se n’era già accorta.
Uomini, donne, vecchi e bambini gemevano dal dolore e
singhiozzavano. Tumefatti, ferite, il sangue rappreso, zoppicanti,
incrostati di fango e vomito. L’odore della morte e della distruzione
invase la sala. Si buttarono sul pavimento, sui tappeti di canapa che
erano stati messi per loro. Ci furono grida e parole di esasperazione
come di sollievo per essere finalmente arrivati a destinazione.
Rebecca diede loro il benvenuto con carezze e sorrisi preoccupati.
“Benvenuti. Qua, mettetevi qua. Bevete… mangiate. Fatemi vedere”.
La situazione era drammatica. Tutti avevano necessità di cure.
“Ada, - Rebecca chiamò la guaritrice – manda a chiamare altre dieci
delle ragazze. E che si mettano a cucinare!”
Giunse Giada. “Posso fare qualcosa?”
“Sì. Sistema coperte e distribuisci cibo. Cerca di capire che cos’è
successo” Rebecca era occupata a guardare una gamba spezzata e
steccata alla bell’ e meglio. La signora poco più di cinquantenne aveva le
lacrime che solcavano le guance, ma non piangeva con singhiozzi forti.
“Andrà tutto bene” le disse Rebecca con un sorriso affettuoso. Le
carezzò i capelli come una bambina e fece un cenno ad un’altra ragazza
di portarle della grappa all’oppio grigio.
L’oppio grigio - avevano scoperto – era una pianta che prosperava
sulle cime di quelle montagne ed era facile da coltivare. Più blando
dell’oppio nero, poteva essere un ottimo sostituto di laudano e semi di
papavero come antidolorifico e come sonnifero, se utilizzato in maniera
più massiccia.
Spezzacolli fece bere la bevanda alla donna e si premurò che fosse
ben coperta. L’oppio grigio fece presto effetto e placò il dolore alla
gamba, permettendo alla donna di dormire un poco, stremata com’era
dalla fuga e dal dolore.
“Occupatevi dei casi più gravi, poi prendete gente come questa donna e
medicatela. Abbiamo di che dare da vestire?”
“Sì, qualcosa troveremo, signora” asserì la ragazza.
159
“Qualcuno… qualcuno che mi aiuti!” un voce si levò tra le altre.
Spezzacolli vide un uomo sulla trentina che fermava le ragazze
intente ad aiutare i profughi.
Negli occhi la pazzia della sofferenza.
Era spaventoso lo stato in cui si trovava: pestato e sporco di sangue,
gli occhi rossi per il terrore. Le ragazze non sapevano che dirgli.
“Sono qui” Rebecca gli si fece sotto.
Lui la prese per le spalle, scuotendola.
“Devi aiutarmi…! Aiutami!”
Lei gli prese i polsi con decisione e se li levò dalle spalle. “Ti ascolto.
Sono Spezzacolli”.
Nel sentire il suo nome, l’uomo si mise a ridere di sollievo e isteria
“Lì, lì” la spinse.
In un angolo della sala c’era una donna. Una donna poco più giovane
di lei, in stato interessante piuttosto avanzato e senza sensi. Era adagiata
sulle stuoie come gli altri, ma era così bianca da far temere il peggio.
“Grande Hilu…!” sussurrò Rebecca con voce strozzata. “Ada! Ada!”
urlò e chinandosi sulla giovane.
“Per la Grande Dea!” ad Ada si mozzò il fiato in gola per l’orrore.
La poveretta aveva il viso tumefatto e diverse escoriazioni sul corpo,
segno di un pestaggio.
Rebecca aveva l’orecchio sul petto della donna. “E’ viva, Ada”.
La guaritrice pose una mano sul ventre gonfio e senza tante
cerimonie mise due dita nella vagina. “Il piccolo è vivo. Si muove. Lei
ha cominciato la dilatazione, ma dubito che riesca a partorire da sola”.
Rebecca mise un dito sulla giugulare. “Il battito si fa debole. – si
volse verso l’uomo – che cosa è successo?”
“Ha… hanno attaccato il villaggio, hanno cercato di portare via le
donne, ma molte sono scappate o sono morte. Gli uomini… gli uomini
sono stati deportati e i bambini… loro hanno seguito il nostro
capovillaggio dieci giorni prima dell’attacco in una località protetta.
Karina doveva andare con loro, ma stava male, aveva i dolori e io
dovevo rimanere a difendere la casa… cioè, la nostra casa, perché nostro
figlio avesse una casa…”
Ada strinse forte la mano del giovane. “Quanti morti?”
“Tanti… tutti quelli che si ribellavano”.
“E tua moglie?”
“Lei si è difesa, ma loro l’hanno picchiata e io ero...”
Rebecca studiò le labbra spaccate, i lividi, la mano rigonfia, forse
rotta. “Ti stavano tenendo, vero?”
160
“Sì”.
“Grande Hilu, picchiare una donna incinta!” gemette ancora la
levatrice.
“Io l’ho portata fin qui a spalle… ho fatto più in fretta che potevo,
signora. Dovete salvarla! Io ho fatto più in fretta che…” si mise le mani
sulla faccia, crollando in un pianto disperato.
Rebecca passò la mano sul viso di Karina.
Aveva già sentito quel pianto… se lo ricordava il pianto di un uomo
per la vita della sua donna.
4.
“Ada, salvala! Ti prego, devi salvarla…”
Era Corin che piangeva.
Era Corin che singhiozzava come un bambino, senza alcun ritegno e
senza alcun freno. Rebecca aveva socchiuso gli occhi, avvolta in quel
dolore che era così totale da non farle sentire null’altro che il dolore
stesso. Aveva visto suo marito pregare con mani giunte, piangere e
lacrime e muco confondersi, la luce disperata negli occhi.
Non sapeva ancora di aver perduto la sua bambina. Ma aveva visto,
capito, fino a che punto era amata, fino a che punto era così adorata.
5.
“Ada, prepariamo la stanza e facciamo nascere il piccolo” decise
Rebecca.
“Potremmo aspettare il corso degli eventi” la guaritrice non era
entusiasta all’idea di praticare un taglio cesareo.
“Karina è debole e non voglio correre rischi” fu risoluta lei.
“E sia” Ada si allontanò e tornò con tre delle sue migliori ragazze.
Intanto Rebecca aveva detto all’uomo delle sue intenzioni.
“Come ti chiami?”
“Manuel”.
“Manuel, faremo nascere il tuo bambino, ma ho bisogno che tu sia
forte, che tu mi aiuti”.
“Sì… che cosa devo fare?”
Portarono Karina nella stanza che avevano adibito alle operazioni
chirurgiche. La deposero su di una lettiga che Giada aveva costruito
161
apposta: un letto alto, con un materasso duro, ma adatto ad un malato. Le
ragazze avevano scaldato la stanza e messo alcuni bisturi e gli aghi per
ricucire i tessuti in acqua bollente. Tutte loro si misero dei camici puliti e
con cura di pulirono le mani con una polvere di saponaria e cenere.
Rebecca mise Manuel seduto accanto al volto della moglie.
“Ci siamo?” chiese Rebecca.
“Sì” risposero le altre donne.
“E io?” era Manuel.
“Prega, ragazzo. Con canti di gioia per tua moglie e per tuo figlio”
ribatté Spezzacolli.
Fu Ada ad incidere sotto il ventre di Karina, in corrispondenza
dell’utero. Manuel vide il piccolo arnese acuminato incidere la carne di
sua moglie e si sentì venire meno.
Tutte le donne della stanza erano concentrate in ciò che stavano
facendo.
“Manuel, voglio sentirti cantare” impose Spezzacolli senza alzare gli
occhi dal suo lavoro. Di tanto in tanto poneva la mano sull’arteria del
collo.
L’uomo cominciò a cantare una canzone propiziatoria per la semina e
l’abbondanza delle messi. Doveva essere una canzone gioiosa, forse
quella del loro matrimonio, ma dalla gola dell’uomo vennero solo note
strozzate di paura.
Incisero l’utero.
“Che cosa stai facendo?” chiese l’uomo terrorizzato.
“Facciamo un taglio nell’utero e tiriamo fuori tuo figlio, perché Karina
è debole e non può partorire normalmente” rispose Spezzacolli.
Manuel sentì che stava per dare di stomaco. Se lo sentiva. Inoltre le
donne erano silenziose e concentrate, distanti. Lui era un uomo, un uomo
non conosce i segreti del parto; un uomo non assiste.
Spezzacolli era certa di ciò che stava facendo.
“Sto per tirare fuori il bambino” annunciò Rebecca.
“Eccomi” una ragazzona bassa e tarchiata, dal seno esageratamente
abbondante come i fianchi, si accostò a Manuel e gli porse un caldo
panno di cotone.
“Che cosa devo fare…?” all’uomo mancò la voce.
“Prendi tuo figlio” rispose Spezzacolli.
“No, io non…” protestò Manuel.
Rebecca perse la pazienza: “Ora, uomo, mi ascolti con attenzione,
chiaro? Se ami tua moglie canti canzoni di gioia e prendi tuo figlio
appena ti sarà passato perché di questo, Karina ha bisogno. Sapere che tu
162
ci sei. In alternativa, fuori dalle palle”.
Manuel sobbalzò per quel tono. Quello del comando, quello di una
madre. “Sì, va bene” sussurrò.
“Bene”.
Silenzio.
Ada e un’altra ragazza tennero aperto i lembi dell’utero e veloce
Rebecca tirò fuori il neonato. La terza assistente tolse il cordone
ombelicale che si era arrotolato attorno al collo del neonato e solo allora
Manuel colse l’occhiata tra Rebecca e Ada: era evidente che Spezzacolli
stava dicendo che quel cesareo era stata un’ottima idea.
Il piccolo sputacchiò fuori dalla bocca un po’ di liquido amniotico ed
esplose con uno strillo potente. Era bianco di vernice caseosa e paonazzo
per il sangue della nascita, ma sano e forte. Muoveva le gambine con la
prepotenza dei neonati che hanno freddo. Ed era infuriato come tutti i
neonati che debbano respirare l’aria bruciante del mondo.
“Oh, che voce!”
“Che bell’ometto!”
“Che forza, questo piccolo guerriero!”
Le donne esplosero in risate e gioia per quella piccola vita prepotente
e forte. Spezzacolli diede il piccolo all’assistente corpulenta, la quale lo
avvolse nel panno morbido e lo passò al padre.
“Così… tienilo così” gli disse con allegria.
Manuel non credeva ai suoi occhi.
Suo figlio.
Il neonato strillava forte, chiedendo calore e suo padre avvicinò
istintivamente le labbra per baciare quel miracolo e il piccino sentì
l’odore di suo padre.
Si calmò subito.
Si volse allora a guardare Spezzacolli.
Lei e Ada stavano ricucendo il taglio del ventre di Karina. Se poco
prima Spezzacolli gli era sembrata un’autorità, ora era sul punto di
adorarla come una dea. Eppure così umana… Valutò che non doveva
avere tanto più di Karina, aveva piccole rughe attorno agli occhi, due fili
bianchi tra i capelli. Ma era giovane. Era una donna bassa ed era difficile
credere che in combattimento fosse tanto letale; ma su di lei giravano
storie leggendarie.
Qualcuno la paragonava a Mastro Mayster, ad una creatura mandata
da Hilu per salvare Hakne dalla distruzione. Si diceva che fosse
invincibile, che possedesse poteri magici. Guardandola, Manuel si disse
che era solo una donna determinata a non lasciarsi sconfiggere.
163
C’erano gli occhi di Spezzacolli che la rendevano così speciali: non
tanto per il colore, certo, brillante, ma per quella luce di cui erano dotati.
Sembrava vagare nell’animo di chi veniva scrutato.
Lei e Ada finirono in fretta di suturare il taglio e quindi l’anziana
donna diede ordine all’assistente corpulenta di lavare il piccolo e vestirlo
con una piccola tunica.
Lo pesarono e Ada si scrisse lunghezza e peso su di un piccolo
taccuino.
Intanto Spezzacolli stava dando ordini di preparare una stanza per
Karina e la sua famiglia.
“Karina” Rebecca chiamò la puerpera, all’apparenza senza conoscenza.
Il vociare sereno della stanza si spense all'improvviso.
Rebecca fece segno a Manuel di tenere il piccolo tra le braccia. Il
neonato mugugnava tutto il suo disappunto di essere passato da una
persona all’altra.
Ci fu silenzio, interrotto solo dai pianti del piccino.
“Karina, ascoltami” Spezzacolli le prese la mano e gliela strinse.
Parlava vicina al volto della puerpera.
Manuel muoveva gli occhi impazziti da Rebecca e sua moglie.
“Karina, apri gli occhi. – Spezzacolli usava il tono dell’autorità –
Karina, devi svegliarti. Devi aprire gli occhi e guardare tuo figlio.
Manuel lo sta tenendo in braccio, Manuel ci ha aiutato a farelo nascere;
ma Manuel non lo può crescere da solo vostro figlio. Manuel ha bisogno
di te, tuo figlio ne ha bisogno. Via, ragazza! Hai preso le botte, hai
percorso non so quanta strada e lo hai messo al mondo! Karina…?
Karina, apri questi occhi. Guardami. Guarda tuo figlio, Karina. Kar….”
Lei aprì gli occhi un poco.
Manuel strozzò un’esclamazione in gola. Il piccolo si spaventò e
pianse.
Le donne sorrisero per il sollievo.
“Karina, lo senti?”
“Karina, guarda che bel bambino!”
“Karina….!”
“Apri gli occhi!”
Karina provò a muoversi per vedere il bambino.
Rebecca fece un cenno a Manuel di porgere il piccolo.
“Guarda che guerriero, ragazza!” le disse con un sorriso.
Karina tirò le labbra in un sorriso. Un sorriso debole, ma lì, visibile
da tutti. Era un sorriso di trionfo.
Rebecca Spezzacolli si commosse di scoprire ancora una volta quanto
164
la vita poteva essere potente – e prepotente.
“Brava, ragazza” le pose un bacio tra i capelli, come ad una sorella e
allora Manuel vide gli occhi lucidi di gioia per quel gesto fatto da
Karina.
Spezzacolli aveva le lacrime agli occhi per il sorriso trionfante di sua
moglie.
“Ora riposa, Karina. Riprenditi”.
Finalmente Karina riuscì ad annuire piano con la testa e tutte furono
sollevate.
Di lì a poco Manuel, Karina e il piccolo furono spostati in un’altra
stanza tutta per loro, già preparata. L’uomo si mise a piangere di
gratitudine.
6.
George, Mas e circa duecento uomini partirono alla volta di Madrigal. Il
capitano Zar rimase a Ground e preparava le altre truppe.
“Marciamo su Madrigal” aveva annunciato il giovane Generale ai suoi
capitani.
“Madrigal?” chiesero stupiti.
“Sì. Abbiamo ascoltato attentamente quanto ci avete detto e di certo
siamo d'accordo con voi sul fatto che Ground è un nobile e già Corin
nutriva dei dubbi sulla sua lealtà. Ora che è andato a sud possiamo
aspettarci di tutto” rispose Mas.
“E vogliamo anche dare fiducia a quanto ha riportato Elaka la
Cantastorie. – proseguì George – perciò marciamo su Madrigal”.
“Siete veramente convinti che delle donne possano aver liberato quella
fortezza? – Zar era più che scettico – Insomma, e tutta quella gente come
ha fatto a passare per Tulle senza essere vista?”
George e Mas si scambiarono un’occhiata. “Resta un mistero”
ammise Mas.
“Questo non toglie che, se quella di Spezzacolli è solo una bella
leggenda, Madrigal è un luogo di orrori e di torture. Ci potrebbero essere
veramente le nostre donne e i nostri figli incatenati là dentro”.
“E’ un dovere marciare su Madrigal” insistette Mas.
“Madrigal sarebbe ideale” commentò dopo un breve silenzio Zar.
Perciò era stato stabilito che una colonna di duecento uomini avrebbe
marciato sulla fortezza in avanscoperta e che intanto Zar avrebbe
organizzato la partenza del resto di loro. In qualunque modo fosse andata
la loro missione, gli uomini rimasti a Ground avrebbero ricevuto un
165
messaggio.
Poiché era da poco passato il Solstizio d’Estate faceva caldo e
soleggiato; viaggiarono per tutto il tempo che la luce glielo permise.
Dalla Contea di Giallo a quella di Weast, fino a Madrigal c’erano più di
venti giorni di marcia. E loro, con carri e opliti, marciavano a passo
d’uomo.
Per George uscire dalla Contea di Giallo fu un sollievo. Era figlio di
un combattente, suo padre gli aveva insegnato a tirare di spada e la lotta
libera, ma rimaneva un uomo semplice; la vita sedentaria del Generale
cominciava a pesargli. Se non fosse stato per il compagno Mas, sarebbe
andato via già da tempo.
Gli mancava suo padre. Anche se non avevano mai avuto un rapporto
particolarmente affettuoso, a suo modo gli aveva voluto bene. Suo padre
era stato una specie di traguardo da raggiungere; traguardo che ora non
avrebbe mai più raggiunto perché suo padre era morto combattendo
come un eroe.
Durante la marcia gli veniva da pensare alla ragazza che aveva visto
portare via durante le razzie. La sua ragazza. O presunta tale. Insomma,
una ragazza a cui si era affezionato. Innamorato… no, innamorato non lo
era mai stato. Era difficile che si legasse a qualcuno. Era piuttosto cauto
nei rapporti personali e tendeva a legare con troppa facilità, una facilità
che in passato, da bambino, gli era costata non pochi problemi.
Soprattutto con un padre come il suo: ci si aspettava che fosse un
guerriero come lui.
George non si sentiva all’altezza di suo padre e una parte di sé odiava
il padre per il fatto di essere morto tanto valorosamente. Si sentiva in
competizione con uno spettro.
“Tuo padre sarebbe fiero di te” gli aveva detto Corin mesi prima,
quando preparavano la battaglia sul Fiume Dorato.
“Credi? Mio padre non era un uomo che faceva complimenti”.
“Nessuno ha mai fatto i complimenti a Ygolas quando ha salvato la sua
squadriglia. Non ce n’era il tempo”.
George aveva fissato Corin di traverso.
Lo metteva a disagio parlare con un uomo che aveva guidato e
comandato suo padre, un uomo che era certamente più giovane di lui.
Chi era Corin veramente?
Il giovane capitano se lo chiese nuovamente, guardando sottecchi
Mas che gli marciava accanto.
Mas sapeva chi fosse Corin, ma non si era mai lasciato sfuggire nulla
a riguardo. Per certi versi Mas assomigliava al padre di George, con la
166
sola differenza che Mas non si era mai fatto una famiglia e aveva
dedicato la sua vita alla causa della libertà di Hakne. Un compito che
assolveva come la più naturale delle mansioni, senza paura e senza
quella solennità ch’era stata tipica di Ygolas.
Ma Corin…
Con quei suoi tre bambini che aveva imparato ad amare come dei
fratellini, con quello sguardo velato di malinconia e sofferenza. Corin
non parlava granché di sé. Gli mancava sua moglie, in tanti mesi non
aveva mai fatto entrare nessuna nel suo letto ed aveva preso
un’ermafrodita come governante dei suoi ragazzi, quasi detestasse la
presenza di un’altra donna.
C’era solo sua moglie nei suoi pensieri.
George aveva vent’anni e non era mai stato innamorato. Si chiese
come fosse possibile legarsi, amare sempre la stessa persona, senza che
questa venisse a noia. Era assolutamente certo – con la certezza che
hanno i giovani di essere uomini esperti del mondo – che a lui una cosa
del genere non sarebbe mai accaduta. Era impossibile. L’amore è utopia
e leggenda.
Eppure, adesso che era diventato un combattente a tutti gli effetti, si
chiese che senso avesse battersi se non c’era nessuno da salvare. Non
aveva più una famiglia e, se Corin non fosse tornato con Sua Maestà e
Mastro Mayster, non avrebbe più neppure avuto una patria.
“Guarda” Mas interruppe il fiume dei suoi pensieri.
“Mh?”
“Madrigal” l’uomo indicò il profilo grigio della fortezza.
Distavano almeno mezza giornata dalla loro meta, ma la costruzione
già era visibile. Imponente. Estranea in quella natura così incontaminata.
Tanto più che nel corso di quei giorni non avevano incontrato alcun
nemico. Per la verità avevano smesso di vedere altri esseri umani non
appena penetrati nella Contea di Weast.
Non c’erano né amici né nemici.
Era come se la Contea fosse stata abbandonata. Per lo più ad
accompagnare la loro marcia fu il silenzio. Era strano pensare alla guerra
quando si era circondati da una pace totale come quella.
Adesso il profilo cupo di Madrigal ricordò al giovane il motivo per
cui Weast fosse disabitata: tutti i suoi abitanti erano stati ammazzati o
deportati. E la pace della foresta si trasformò nella guerra di centinaia di
fantasmi che chiedevano giustizia
167
7.
Rihanna pettinò i capelli rossicci di suo figlio e passò la mano con
nervosismo sull’abito più bello che possedesse. Si chiese perché,
nonostante fosse la Baronessa, nel suo armadio ci fossero solo sei abiti,
di cui uno solo adatto ad occasioni speciali.
“Dai, svegliati” mormorò al figlioletto, che dormiva in braccio.
Era improbabile che, dopo la lauta poppata, il piccino si svegliasse.
Anche Xanatos era vestito con l’abitino della festa; aspettavano che
Jacob uscisse dal cortile interno del palazzo per salutarlo. Sarebbe stato
lontano diverse settimane e Rihanna sapeva che quella era l’ultima
possibilità di scusarsi.
Di nuovo, passò la mano nervosa a mettere a posto le pieghe della
gonna color avorio. Il vestito era tagliato sotto il seno, copriva
sensualmente del forme abbondanti della giovane, la quale si era anche
acconciata i capelli con una piccola spilla d’oro e rubini rossi – l’unico
gioiello che possedesse. Insomma, aveva cercato di rendersi presentabile
al meglio delle sue capacità. E, tuttavia, continuava a sentirsi la figlia di
qualche piccolo arricchito: fuori posto.
Fuori posto è tutto quello che è successo – si rimproverò con
vergogna.
Scalciò qualche pietra, ma visto che sollevava la polvere, smise per
non rovinare il vestito e le scarpe.
Aspettò ancora una decina di minuti prima di vedere suo marito
comparire sulla dal portone delle stalle.
Jacob era già a cavallo – un esemplare enorme, dal pelo nero e
pezzato di grigio -, i suoi capitani lo seguivano a piedi. Da lontano e in
una posizione poco appariscente, Rihanna si accorse del modo truce di
Paul Mann di osservare Jacob. Borok aveva intercettato il medesimo
sguardo, ma sembrava quantomai impaurito.
Jacob venne verso di lei e finalmente si accorse della sua presenza.
Nella piazza principale del maniero la compagnia del Barone
attendeva il segnale di partenza.
“Che cosa ci fai qui?” si sorprese lui.
“Siamo venuti a salutarvi. – lei sorrise impacciata – starete via
settimane”.
“Mh”. Jacob la fissava con la stessa intensità della notte precedente,
quando lei aveva atteso i suoi voleri, in piedi e nuda.
“Io… - Rihanna mandò giù della saliva e parlò – volevo scusarmi. Per
168
ieri notte”.
Una luce beffarda si accese negli occhi del Barone. “Scusarti?”
“Sì. – Rihanna sentì che il viso era bollente, le mani sudate per la
vergogna – non accadrà mai più”.
“Davvero?” il tono usato da Jacob si fece divertito.
“…” lei fece per parlare, ma poi richiuse la bocca, rosa
dall’umiliazione.
“Sai, è assurdo come una che fotte da prima di diventare donna non
sappia che cosa sia un orgasmo” continuò lui.
“Il piacere è per i clienti” rispose a mezza voce.
“Ma io sono tuo marito”.
Solo allora Rihanna alzò lo sguardo meravigliata.
Di tutti gli uomini con cui era stata, Jacob di Weer era l’unico che
non riusciva a capire. Era un tiranno, un mostro crudele, un bastardo
senza eguali; eppure lei aveva visto di lui solo la tristezza, il peso di una
responsabilità che lui si era preso perché – che si credesse o no – Jacob
aveva tutto l’interesse a mantenere alto il tenore di vita di Hakne. Era un
uomo brutale, ma lei aveva visto la tenerezza con cui accudiva il
primogenito neonato; era un sadico, ma non aveva preteso nulla da lei
fino a più di due mesi dal parto.
Lui ridacchiò beffardo di quell’espressione.
“Mi prendete in giro?” arrossì lei.
“E’ che è… così penoso che tu non conosca il piacere”.
“Non mi avete sposata perché fossi perfetta, ma solo per scodellare
figli” rispose piccata.
“E lo fai benissimo. Volevo solo dirti che è stato… spettacolare”.
Rihanna rimase ammutolita dalla sorpresa.
“Anche stanotte avevi la stessa espressione” le sbirciò nella scollatura
del vestito.
Rihanna rispose con un sogghigno: “Siete strano, lo sapete vero?”
“Non sai quanto”.
La ragazza scoppiò in una risata sguaiata, di cuore. Rideva con la
pancia, Rihanna, la sua risata risuonò per il cortile attirando l’attenzione
di molti. Borok e Paul Mann la fissarono come si farebbe con una cagna
randagia. Jacob, invece, trovò che quella risata così spontanea fosse un
richiamo.
Ebbe una voglia, una voglia pazzesca, di mollare tutto e di prenderla
seduta stante.
L’aria spaventata scomparve dal volto di Rihanna, che rispose:
“Vedete di tornare in fretta. Vostro figlio cresce velocemente”.
169
“Torno a fare il secondo”.
Si scambiarono un’occhiata complice.
Nei corridoi del palazzo, poco prima che Jacob partisse per il Fiume
Dorato ad affrontare Corin, lontano da occhi e orecchie indiscrete, lei lo
aveva pregato di tornare sano e salvo per la nascita di suo figlio.
“Fate attenzione, allora, marito”.
Lui si chinò sul piccolo e gli baciò la testolina fulva; poi con labbra
leggere e tenere baciò la bocca di sua moglie. “Fate attenzione anche voi,
d’accordo? E fatti fare qualche vestito, che così sei splendida”.
“S… sì” Rihanna arrossì e lui sorrise.
Con il dorso della mano le fece un’ultima carezza e quindi salì in
groppa al suo destriero.
A lei non rimase altro che rimanere nel cortile con suo figlio in un
braccio e con l’altro salutarlo. La compagnia le passò accanto, senza
quasi notarla. I più si domandavano come avesse fatto il Barone a
sposarsi una puttana.
“Dovremmo vestire così tutte le nostre vacche” sogghignò Paul Mann
allontanandosi dal palazzo.
“Forse è il caso, bastardo, che ti ricordi che stai parlando di mia
moglie” ruggì Jacob dandogli le spalle.
Paul Mann ammutolì.
170
CAPITOLO 10.
1.
La prima tappa del viaggio di Jacob fu nella Contea di Brealle, presso il
Conte Abbot di Greenrock.
Il Conte non era stato avvertito della visita del Barone e Jacob si era
ben guardato dal mandare qualcuno ad annunciarlo: voleva scoprire se
gli alleati erano veramente tali.
Dal giorno della sua partenza da Umm, aveva sentito dentro lo
stomaco il nodo della nostalgia di Rihanna e di Xanatos. Una sensazione
mai provata in tutta la sua vita, che lo obbligava a fermare i pensieri su
cose che prima non avrebbe mai notato: la terra che stava conquistando, i
colori del cielo, il pensiero costante verso sua moglie.
Si tenne lontano dai due generali. Non aveva affatto gradito le
considerazioni su sua moglie. E non aveva affatto gradito il loro modo di
sbeffeggiare Rihanna. Più di una volta si domandò come avesse fatto un
tempo a trovarli una buona compagnia: erano rozzi, ignoranti e viscidi.
Certamente essere superiori a individui come quelli era molto facile;
ciononostante non fu in grado di provare vergogna verso se stesso. Fino
a quel momento, anche circondato da bastardi, era riuscito ad ottenere la
vittoria. E Rihanna aveva ragione: aveva perso la battaglia, non la
guerra. Fino a prova contraria lui c'era e John Henry no.
Questo valeva ben qualcosa nella corsa al potere.
Abbot di Greenrock si mise quasi carponi per omaggiarlo della sua
visita. Fu un leccaculo strabiliante. Un opportunista quasi commovente.
Un ipocrita senza eguali. Ma in ogni caso un verme fedele, perché la
visita a sorpresa del Barone non produsse scandali.
Jacob si trovò a parlare con Abbot della situazione di Brealle. Abbot
governava in sua vece la fetta più grande di Brealle, ma aveva avuto la
capacità di condurre alla causa del Barone tutti i piccoli proprietari
terrieri della contea, anche grazie ad opere di convincimento con bastoni
e fruste.
“Come vanno i rastrellamenti?” chiese il Barone, sorseggiando il vino.
“Benone, Maestà” Abbot sorrise ossequioso.
“In tutta la Contea?”
“Oh, ci sono state delle rappresaglie, ma nulla che non abbiamo saputo
171
tenere a bada”.
“I prigionieri?”
“Tutti alle miniere di Marmo Nero”.
“Qualcuno ha saltato la barricata?”
Abbot si mise a chiocciare felice: “Solo qualcuno, Maestà? Almeno
un terzo dei prigionieri si sono alleati con voi. E hanno giurato fedeltà
assoluta alla vostra causa!”
Jacob accolse la notizia in silenzio.
I nobili, sì, i nobili ipocriti che vogliono curare con attenzione il
proprio orticello, li conosceva bene. Ma il popolo che fino a dieci anni
prima gli aveva giurato vendetta era una sorpresa.
“Fedeltà?” chiese con cautela.
“Certo, mio signore! – Abbot si mise le mani lisce e grassocce sul
ventre prominente – assoluta fedeltà. E come biasimarli, mio signore?
Del vostro nemico non c’è più traccia”.
“Di chi parli?”
“Di John Henry, Maestà. In lui sono solo gli idealisti che ci credono
ancora… se fosse così semplice cancellare anche il ricordo di quel bruto
di Mayster. Cioè, non sarebbe stato difficile se quel Corin non tenesse
vivo il ricor…” si interruppe, conscio della terribile gaffe. Una gaffe
ricercata.
Jacob preferì lasciar correre, anche se l’ira aveva cominciato a fargli
pulsare il sangue nelle vene. Quel verme ipocrita lo stava prendendo per
il culo!
“Che cosa sapete di Corin?” chiese con falsa noncuranza.
“Non se ne hanno più notizie dalla terribile battaglia in cui… oh,
perdonatemi, mio signore!” nuovamente Abbot si era divertito un
mondo a ricordare a Jacob la sconfitta totale sul Fiume Dorato ad opera
di un ex-soldato e del suo esercito di contadini.
“Va’ avanti!” ruggì il Barone.
“Non ci sono notizie di Corin, signore. Forse sta riorganizzando le sue
fila. Di certo l’esercito è rimasto nel castello di Ground. Vedete –
pasticciò tra le sue carte – ho ricevuto alcune missive di James da Kirma,
che vive a est, sul confine con Tulle e Taroh di Gennes, giù a sud-ovest è
stato ad Hakne da poco e dice che a Corte non nessuno abbia notizie di
alcunché. Insomma, John Henry è sempre più simile ad un fantasma,
Mastro Mayster sembra ritornato da dove era venuto – Abbot fece un
cenno verso il cielo, come se Mayster fosse veramente una creatura
divina – e Corin non sembra essere un Generale riconosciuto perché
nella capitale nessuno ne sa nulla”.
172
Nonostante tutto, si disse Jacob, non erano cattive notizie.
“E come vanno le cose a Madrigal?”
Il sorriso sul volto di Abbot si spense. Sembrava avesse quasi paura
di parlare.
“Che cosa c’è?” insistette Jacob.
“Ah… ecco, mio signore… su Madrigal non mi sono arrivate delle
buone notizie. Insomma, girano delle voci…”
2.
Rebecca seguì Manuel rientrare nella stanza, dopo che l’uomo si fu
lavato, curato e rifocillato. Karina dormiva un sonno pesante e
ristoratore, ma era meno pallida di prima. Il piccolo – per il momento
senza nome – dormiva al fianco della madre.
“Come ti senti?” chiese Rebecca all’uomo.
“Come uno che ha bisogno di dormire almeno un giorno” sorrise lui.
I due si fissarono. Manuel era più giovane di Corin ed era un uomo
semplice, ma onesto. Glielo si leggeva negli occhi.
“Sei stato molto coraggioso” gli disse infine lei.
“Ero solo spaventato a morte”.
“Non ne dubito”.
“Lei… guarirà?”
Spezzacolli sorrise con dolcezza verso Karina. “Sì, è una guerriera, la
tua Karina”.
Manuel parve sollevato e con occhi velati d’amore fissò la sua
compagna.
“Il fatto è – proseguì Rebecca – che non è finita qui”.
“Che cosa intendi?”
“Che il piccolo ha bisogno di essere nutrito”.
“E lo dovrei fare io?” sogghignò Manuel incredulo.
“In un certo senso. – Spezzacolli non sorrideva – Karina produce il latte
che serve al bambino per crescere. Toccherà a te attaccarlo al seno di sua
madre, fare attenzione a come si attacca, che faccia il ruttino, che sia
sempre pulito”.
“Aspetta. Ma una delle donne non può…”
Rebecca alzò la mano per metterlo a tacere. “No, Manuel. Non ho
donne che possano assistere Karina tutto il giorno; in questo castello
vivono centinaia di uomini e donne come voi. E ci sono parecchi orfani.
Loro, sì, che hanno bisogno delle mie ragazze. Tuo figlio ha te e tu te ne
173
devi prendere cura”.
Manuel era sconvolto. Non sapeva che dire. Come si faceva a far
poppare un neonato? E il ruttino? Cambiarlo? Lavarlo? E se si spezzava
tra le sue mani maldestre?
“Ami Karina?” chiese ancora Spezzacolli.
“Da impazzire” gemette lui.
La donna sorrise con tenerezza. “Allora farai come ti insegneremo.
Dovrai essere sua padre e sua madre, dovrai prenderti cura di tuo figlio
totalmente”.
Manuel carezzò la manina del suo piccolo. “…Sì”.
“Per le prossime ore ci sarà qualcuno di noi con lui e con Karina. Poi ti
faremo vedere cosa devi fare. Abbi fiducia, Manuel: nessun genitore
attento e premuroso come te sa cos’è meglio per il proprio figlio”. Gli
strinse con forza il braccio.
“E’ difficile” ribatté lui.
“Anche per noi donne è difficile. Solo che la Grande Dea non ci ha dato
alternative: dobbiamo reagire subito”.
Manuel accarezzò i capelli di Karina.
Pensava a quante volte la moglie era andata dalle vicine, dalle
amiche, dalle parenti per parlare di bambini, capire che cos’era meglio,
come vestirli e come nutrirli. Tutte cose che un uomo ascolta
distrattamente, preso dall’euforia della nuova vita.
Ora capiva le paure di sua moglie. La sua ansia di essere una buona
madre. Se solo le avesse dato ascolto…
“Riposati, Manuel, avrai bisogno di forza per badare al tuo piccolo
guerriero” .
“Sì”.
Manuel vide la tenerezza di Spezzacolli nell’accarezzare il neonato,
la luce scura negli occhi, il dolore della mancanza.
“Dove sono i tuoi figli?” le chiese a bruciapelo.
“Non lo so” si vedeva che cercava di controllare il pianto.
“E tuo marito?”
“E’ con loro”.
“Non hai saputo niente?”
Lei sorrise triste e amara: “So solo che ha combattuto sul Fiume
Dorato. Chiedo a chiunque, dovunque io vada, se ha notizie di loro”.
“Non perdere la speranza”.
“…”
Manuel la strinse in un abbraccio intenso, pieno di gratitudine e
solidarietà. Altro che dea! Altro che guerriera! Una donna… Spezzacolli
174
era una donna che disperava alla ricerca della sua famiglia.
“Grazie” le mormorò in un orecchio.
Lei sorrise mesta e si asciugò il volto.
In tutto quel buio, in tutto quel caos, in tutto quel dolore c’erano
ancora uomini e donne che dimostravano di credere in qualcosa di vero.
E combattere per questo, per loro, ne valeva ancora la pena.
3.
Dopo aver lasciato il castello di Abbot di Greenrock, Jacob fece tappa a
poche decine di chilometri da Einaki in un minuscolo villaggio che
aveva come punto di riferimento la locanda, che era anche l’unico
negozio della zona.
Il Barone e la sua compagnia non passarono affatto inosservati, ma
poco importava a Jacob. Quella sera era scoppiato un violento temporale
ed di aspettare che i servitori gli montassero la tenda sotto la pioggia
scrosciante non ne aveva affatto voglia.
Così erano al caldo, in una pensione modesta, ma che aveva della
buona birra e all’asciutto.
Il padrone della locanda era stato relegato nelle cucine con la sua
famiglia e la Corte del Barone si era impossessata del locale. Dopo la
cena, lasciarono Jacob e i suoi due generali a parlare nella sala
principale.
“Che cosa sappiamo di Madrigal?” interrogò i due uomini,
accendendosi la pipa.
“Madrigal dovrebbe ospitare circa un migliaio tra donne, vecchi e
bambini. Probabilmente ci sono già stati i primi parti” rispose Paul
Mann.
“Abbot sostiene che ci siano voci veritiere su una tale Spezzacolli, una
ribelle, che ha fatto fuggire questa gente”.
Paul Mann sogghignò: “Probabilmente Abbot si è divertito alle vostre
regali spalle”.
“…” Jacob interrogò con lo sguardo Borok, ancora muto e
occupatissimo a fissare il fondo del suo boccale.
“In ogni caso, le parole di Abbot non hanno senso. – riprese Paul Mann
– Se anche Spezzacolli fosse riuscita nell’impresa di fare fuggire tutti i
prigionieri, come avrebbe fatto a trasferirli in un luogo sicuro? Si tratta
di donne, donne incinte prossime al parto, bambini piccoli, neonati,
vecchi, senza contare i malati. Insomma, avrebbe avuto bisogno di carri,
175
animali e quant’altro. Senza contare che una compagnia di simili
dimensioni non può passare inosservata”.
Jacob rivolse al suo Generale un’occhiata sprezzante. “Abbot se la fa
addosso quando sente il mio nome, dubito che mi abbia raccontato una
stronzata”.
“Anche prima di marciare verso il Fiume Dorato dubitavate del vostro
nemico” ribatté con un certo disprezzo.
Era stato proprio Paul Mann a cercare di dissuadere il Barone dal
marciare contro un esercito di cui non sapeva nulla in pieno inverno.
Tuttavia Jacob aveva risposto altezzoso d’essere sicuro di chi avrebbe
battuto. Ne era stato assolutamente certo.
Paul Mann non ebbe il tempo per scappare.
Jacob scattò contro i suoi uomini con la velocità di un serpente –
movimenti di una velocità sorprendente, data la mole del Barone.
Paul Mann si trovò per terra con un piede del suo signore, grande
quanto il suo sterno, che con la punta di metallo dello stivale premeva
sulla gola; Borok, con la bocca ancora piena di birra, cercò di fuggire ma
gli riuscì solo di buttare giù la sedia e di finire con la testa schiacciata
brutalmente sul tavolo. Pur avendo mani e piedi liberi, la pressione
esercitata da Jacob tra nuca e collo era tale da farlo soffocare e da
impedirgli qualsiasi movimento.
“Ora voi due bastardi mi state a sentire – tuonò il Barone. – io sono il
vostro signore e padrone. Senza di me, voi non siete un cazzo. Non
provate neppure a pensare di prendermi per il culo, perché mi basta usare
una sola mano ed un solo piede per ammazzarvi. Sono stato chiaro?”
I due erano immobili. Negli occhi di Paul Mann lo sconcerto e l’odio.
Jacob represse immediatamente quell’atto di ribellione,
intensificando la presa che aveva su di loro. Divennero pericolosamente
paonazzi.
“Sono stato chiaro?” Jacob urlò tanto forte da far tremare le pareti della
locanda. Dai piani superiori nessuno aveva il coraggio di muoversi.
L’intera casa vibrava della rabbia del Barone.
Fu Paul Mann che riuscì appena ad accennare ad un assenso.
Borok non si accorse delle lacrime che bagnavano il tavolo,
schiacciato com’era. Ma gli riuscì di comunicare con gli occhi il suo
assenso.
Jacob tenne la presa su di loro ancora per un minuto buono; un
minuto in cui il Barone parve essere più propenso alla morte dei due che
a lasciare la presa.
Il silenzio per quell’istante fu totale.
176
Jacob mollò la presa come un mastino.
Paul Mann finalmente boccheggiò per riprendere fiato, mentre Borok
barcollò alla ricerca della porta e vomitare la birra che aveva ingollato
fino a poco prima. Non raggiunse l’uscita e finì per rigettare tutto sul
pavimento della locanda e qualcosa gli finì sui vestiti.
Jacob li guardava sprezzante, di nuovo seduto e intento a fumare la
sua pipa. Dal suo modo di fissarli compresero che erano tutto tranne che
congedati. Paul Mann riprese posto e il compagno con lui. Al primo le
mani tremavano visibilmente quando tentò di versarsi della birra. Borok
decise che era meglio non bere.
“Che cosa si sa di Spezzacolli?” chiese allora Jacob.
Ci volle qualche minuto perché Paul Mann ritrovasse la voce per
parlare. “E’… si dice che fosse una vostra prigioniera, signore”.
Tracannò la birra, ancora paonazzo.
“Dove? Madrigal?”
“No, Weast”.
“A Weast? Sicuro?”
“Così pare”.
Aveva già saputo dei problemi di Weast. Più otto mesi prima aveva
mandato una squadra perché riportassero al loro posto le donne fuggite
dal Weast e tuttavia di una squadra di ventisei persone ne erano tornate
solo tre. Dopo la Battaglia del Fiume Dorato, però, aveva dimenticato
questo fatto. Tanto più che non c’erano più stati saccheggi nella Contea
di Weast e aveva dato per scontato che i suoi uomini, nonostante i
numerosi caduti, avessero fatto pulizia delle fuggitive ribelli.
E se Spezzacolli fosse sopravvissuta ai suoi uomini?
“Parlami di Spezzacolli” insistette con il suo Generale e maledicendosi
per aver fatto passare tanto tempo dall’ultima volta che aveva invitato i
suoi alleati a riunirsi a Umm.
“Non sappiamo nulla, Maestà. – era Borok, che puzzava di vomito. La
cosa però sembrava non importare più di tanto a Jacob – Cioè, non più di
quello che si dice in giro”.
“Ti ascolto”.
“Pare che fosse proprio una vostra prigioniera. Che sia stata lei a far
scappare le altre donne dalla prigione del conte e che abbia organizzato
una vera e propria resistenza. Dicono che la sua intenzione fosse
assaltare Madrigal”.
“Intenzione? O è una cosa veramente accaduta?”
“Come vi dicevo prima, - interloquì Paul Mann – è improbabile che
l’abbia fatto. Cioè, non ci sono notizie di alcun tipo da Madrigal, ma
177
Hinos, il responsabile del sito, diceva che tutto procedeva per il meglio.
Inoltre, anche se fosse riuscita nell’impresa, come poteva passare
inosservata? Si tratta di quasi un migliaio di persone!”
“Ammettiamo che abbia liberato le donne di Madrigal. – insistette il
Barone – dove le porterebbe?”
Paul Mann e Borok si scambiarono un’occhiata. Era chiaro che
ritenevano l’eventualità talmente irreale da non averci neppure pensato.
Jacob non disse nulla. C’era un solo luogo dove Spezzacolli avrebbe
potuto condurre la sua gente al sicuro.
Alto Castello.
4.
“Voi con Mas, voialtri con me. – stabilì George una volta che furono a
poche centinaia di metri dalla fortezza di Madrigal. Dopo averla
avvistata, avevano valutato di dormire ancora una notte a distanza di
sicurezza e avvicinarsi al loro obiettivo di prima mattina – Voi, - indicò i
restanti centottanta uomini – sparpagliati nella foresta a coprirci le
spalle”.
Gli arcieri si arrampicarono sugli alberi in modo da avere sotto tiro le
mura e le guardie nemiche.
Madrigal aveva una pianta romboidale e tre cinte di mura. Le mura
erano spesse non meno di un metro e tra un muro e l’altro c’erano ancora
tre metri. In pratica, se gli assaltatori riuscivano a scavalcare le prime
mura, si trovavano in una galleria di tre metri di larghezza e una pioggia
di dardi dall’alto. Madrigal non era mai stata espugnata ed era stata
teatro di sanguinose battaglie. Durante la Guerra Rossa, era stata la sede
degli approvvigionamenti del sovrano. Nonostante i continui attacchi
nemici, aveva sempre resistito ed era stato questo il motivo per cui John
Henry aveva resistito così a lungo, tenendo in conto che il suo esercito
era composto da uomini normali e non da mostri invincibili come i
Soldati Rossi.
Dopo dieci anni la foresta, che a suo tempo era stata disboscata, era
nuovamente rigogliosa. Tanto da permettere agli arcieri di puntare alle
mura della fortezza senza esser visti.
All’apparenza era tutto tranquillo. Si udiva solamente la foresta che
viveva: uccelli, topolini, daini spaventati, le migliaia di insetti. Solo
quegli uomini armati stonavano in tanto idillio. Nonostante la pace della
natura, George aveva timore a scoprirsi troppo.
178
La fortezza sembrava disabitata.
Gli uomini si sparpagliarono.
Mas e George fecero un segno alle loro rispettive squadre e i due
generali si fissarono l’un l’altro. Un cenno con la testa e scattarono
carponi nell’erba alta e fra i cespugli.
Il più velocemente possibile corsero sotto le mura. Il sole stava
sorgendo ad est e il lato delle mura contro cui appoggiavano George e i
suoi era buio. L’erba produceva fruscii che nel silenzio della natura quasi
riecheggiava. C’era un odore intenso di fiori, il ronzio delle api che
coglievano il nettare, il respiro degli uomini armati.
Dalle mura non arrivava altro rumore se non quello.
George teneva la spada pronta, ma non c’era ansia. Cominciava a
convincersi che non c’era nessuno. Con i suoi ragazzi fece il giro del
muro esterno. L’erba frusciava contro gli stivali e le punte delle spade si
abbassarono. Smisero di correre e finalmente si azzardarono a cercare lo
sguardo degli arcieri che li coprivano: anche loro fecero segno di non
aver visto nessuno.
Allora George volse lo sguardo in alto, a cercare qualche segno di
vita all’interno della fortezza.
“E’ disabitata” disse uno dei compagni.
“E se fosse una trappola?” era un altro.
George si permise di controllare attentamente i dettagli di Madrigal.
C’erano segni di incuria, c’erano segni di abbandono, come l’erba
altissima fuori dalle mura e che avrebbe potuto ostacolare la vista di
eventuali nemici.
E se Spezzacolli fosse riuscita veramente nell’impresa?
L’ipotesi era quasi inverosimile, ma sotto i suoi occhi.
“Signore?” lo interrogò un terzo, scorgendo l’espressione assorta di
George.
“Penso che sia disabitata” disse solamente il giovane, quando Mas
richiamò la sua attenzione semplicemente urlando.
Se c’era qualcuno nel castello, ormai sapeva che erano lì.
George maledì il compagno e per alcuni istanti attese l’arrivo del
nemico. Il sangue prese a pulsargli dolorosamente nelle tempie, mentre
aspettava la battaglia.
Non successe nulla.
Solo il ronzio delle api, delle vespe, il cinguettio degli uccelli, i
fruscii del vento tra le foglie e l’erba.
Giunse di nuovo il profumo intenso di fiori.
A parte i rumori e gli odori della natura, non accadde nient’altro.
179
“George!” fu il secondo richiamo di Mas a rompere il silenzio.
Procedendo verso di lui, il giovane si disse che gliene avrebbe cantate
quattro e anche più; mentre si avvicinava al gruppo di Mas e vedeva gli
uomini raggruppati si rese conto che aveva tutte le ragioni di stare
tranquillo.
Per terra, ai piedi di un grande faggio, i corpi di tre uomini e di un
Soldato Rosso. Di loro non rimanevano che ossa con qualche brandello
di carne marcita e gli abiti. L’odore della decomposizione si sentiva
ancora, qualcuno preferì allontanarsi.
“Va’ a chiamare gli altri. –disse Mas ad uno dei suoi – La via è libera.
Allora che ne pensi?” si rivolse a George.
Il giovane si inginocchiò accanto ai corpi e provò a decifrare la causa
della morte. Rimaneva un dardo per terra. Una freccia di una lunghezza
superiore alla norma, ma più sottile e scagliata con precisione. L’uomo
era morto per quel colpo alla gola.
Proseguì l’ispezione. Un altro uomo era caduto per un colpo al petto
e il Soldato Rosso era stato letteralmente divorato dagli animali.
Sulla quarta vittima, un uomo, i due generali si soffermarono più a
lungo. Non c’erano lesioni esterne, date da armi da taglio, ma si vedeva
la piega innaturale del collo. Era stato spezzato.
Di netto. A vedere le vertebre pareva di sentire il rumore sordo e
micidiale di quando era stato spezzato.
George ebbe i brividi.
“Quanto pensi che sia alta?” gli mormorò Mas.
Spezzacolli.
Dunque, esisteva realmente.
“Non lo so” rispose l’altro cominciando a prendere molto più sul serio
ciò che Elaka aveva raccontato loro.
Tornò sui suoi passi e prese una delle frecce che aveva centrato e
ucciso una delle guardie.
Freccia Letale.
Fece ritorno da Mas, che ancora guardava il cadavere con il collo
rotto.
“Non ci credevo, ti giuro. – disse a George – Cioè, pensavo che Elaka
avesse esagerato per impressionarci. Adesso sono veramente senza
parole. Quanto può essere alta Spezzacolli? Guarda quest’uomo: da vivo
doveva essere quasi un metro e ottanta. Giovane e robusto”.
“Magari era ubriaco” interloquì George.
“Anche se fosse stato ubriaco, ucciderlo a mani nude non sarebbe stato
facile”.
180
George non poté fare a meno che dargli ragione. Che poteva dire a
questo punto? La realtà cominciava a farsi strada con una chiarezza a cui
non era preparato. Adesso non rimaneva che controllare il resto di
Madrigal.
Il grande portone di ferro e legno era stato accostato, come se
qualcuno avesse lasciato la fortezza con l’intento di far credere che fosse
ancora abitata. A parte un po’ di fatica a causa dei cardini arrugginiti, non
ebbero problemi a penetrare nella seconda cinta muraria.
La percorsero per tutto il suo perimetro senza far alcun ritrovamento.
Spezzacolli e le sue guerriere si erano liberate dei corpi? Il fatto era che
non c’era stato segno di alcuna colluttazione.
Era strano. Come se a guardia della fortezza ci fossero poche guardie.
Ragionandoci, la soluzione poteva essere solo una: c’era poca
sorveglianza perché Madrigal era un luogo di prigionia di donne, vecchi
e bambini. I deboli. Con l’arroganza tipica degli uomini, anche Jacob di
Weer aveva deciso che non c’era affatto bisogno di disporre di tanti
uomini di guardia per quella gente e da quelle stesse donne – i deboli –
erano stati massacrati.
Passarono oltre la seconda cinta muraria e penetrarono nella terza. Di
nuovo non trovarono altro che erbacce e silenzio. Assoluto adesso, non
c’erano neppure gli animali con il loro laborioso lavoro di
sopravvivenza.
Niente.
Ed infine entrarono nel cortile della fortezza. Polveroso e soleggiato.
Vuoto di ogni cosa. Lo perlustrarono da cima a fondo. Era stato spogliato
di ogni oggetto che potesse essere utile. E c’era l’odore di fiori. Un odore
intenso…
“Guarda” George indicò diversi piccoli tumuli nella parte esposta ad
ovest dell’ampio cortile. Su ogni tumulo erano stati piantati diversi fiori,
che ora ondeggiavano profumati al vento. Colorati. Come colorati
dovevano essere stati i sorrisi dei piccoli che adesso erano sepolti.
Contarono più di trenta, minuscole, tombe.
“Grande Hilu” gemette Mas.
Alcuni degli uomini al loro seguito si sedettero tra i tumuli e presero
a piangere. Disperarsi.
“E se il mio bambino fosse qui? Aveva solo quattro anni” singhiozzava
uno di loro.
“Io dentro non ci entro” disse un altro.
“No, non sopporterei di vedere mia moglie” era un altro ancora.
Si levarono un coro di voci provate e sofferenti, voci che non
181
avrebbero mai pensato alla realtà delle parole di Elaka. Non sembrava
veramente reale. Le donne a Madrigal. E ora quelle tombe.
George radunò gli uomini.
“Ascoltatemi: - esordì – capisco perfettamente che la sola idea di
ritrovare il corpo di vostro figlio o vostra moglie o magari vostra sorella
possa terrorizzare. Però resta, a questo punto, che Elaka non ha
raccontato fandonie. E Spezzacolli ha liberato Madrigal. Mi sembra
chiaro... a voi no? Voglio dire, guardate che ordine, che silenzio. E sono
altrettanto convinto che gli unici corpi che vedremo di bambini o donne
siano in quelle tombe. I prigionieri di Madrigal non sono più qui. Adesso
alzatevi ed aiutatemi a controllare 'sto posto. E, per piacere, - aggiunse
con esasperazione - cercate di essere ottimisti”.
Si sparpagliarono e controllarono ogni angolo di Madrigal.
Nelle segrete trovarono i corpi a marcire degli uomini di Weer, corpi
buttati senza alcun ritegno e mutilati. Trovarono le sale in cui erano state
rinchiuse le donne, quelle dei bambini, le catene.
Nella torre più alta trovarono il corpo del comandante in carica di
Madrigal: era stato ucciso con una ferocia ferina e mutilato ai genitali.
Nella sua stanza c’era sangue ovunque e niente era stato toccato: il
comandante stava scrivendo una missiva per Weer al momento della
morte. Per loro fortuna, era arrivato alla fine della lettera:
“adesso contiamo più di millecento prigionieri. Alcune donne sono
già gravide, altre partoriranno tra poco. Il Nuovo Grande Regno sta
nascendo tra le mie mani e molti di questi figli sono figli dei vostri
combattenti, mio signore. La vitt…”
Era stato ammazzato sulla parola “vittoria”. Un ironico, quanto
macabro segno del destino.
Finalmente all’aperto e dopo aver ispezionato tutta Madrigal, George
e Mas trassero le loro conclusioni: sì, Spezzacolli e le sue donne avevano
assaltato e liberato la fortezza. Avevano condotto via i prigionieri e
avevano portato con loro tutto ciò che poteva servire. Quello che era
emerso dai documenti del comandante di Madrigal era che ancora una
volta la fortezza era stata sede degli approvvigionamenti e che erano stati
portati via più di cinquanta cavalli e un centinaio di vacche. Senza
contare gli animali da cortile.
Quella di Spezzacolli doveva essere stata una marcia lunghissima e
con una carovana che difficilmente passa inosservata. Se tanta gente si
fosse fermata in un villaggio, lo avrebbero saputo. No, avevano cercato
182
rifugio altrove.
Alto Castello.
“Passami da bere” disse George ad uno degli uomini, dopo essersi
seduto con un tonfo sull'erba del cortile.
Gli uomini erano tutti stravaccati, a parlare, a fare le loro
considerazioni e lanciare occhiate stupefatte quanto pensierose al
maniero.
George doveva bere qualcosa di forza, bagnarsi le labbra.
Aveva i brividi, dopo essere stato negli appartamenti dell’ex
comandante di Madrigal. Spezzacolli e le sue guerriere erano
intenzionate a lavare la vendetta con fiumi di sangue. E il sangue,
quando a versarlo sono delle donne, è più caldo. Perché loro la vita la
danno ed è terribile quando la tolgono. Si chiese quanto terribile doveva
essere stata la loro pena per voler cercare vendetta così. E quello che era
successo nelle segrete di Weast… beh, adesso alle parole di Elaka ci
credeva. Fino all'ultima sillaba.
5.
Jacob aveva cacciato via i due generali.
Weast.
E Spezzacolli.
Se anche quei bavosi dei suoi uomini sapevano che Spezzacolli era
stata una prigioniera di Weast era chiaro che un fondo di verità ci doveva
essere. Ma poteva anche esserci un’altra verità.
Perché quegli imbecilli non sapevano.
Non sapevano che a Weast lui aveva pronte nuove truppe di Soldati
Rossi, che nelle segrete del castello per anni lui aveva coltivato
letteralmente un nuovo esercito.
Spezzacolli era a capo delle Donne-ombra. E le Donne-ombra
potevano essere donne come tutte le altre oppure creature non umane. I
tre sopravvissuti alla spedizione contro di loro avevano raccontato di
averne uccise, ma di essere stati battuti da questa donna-ombra che
finiva gli uomini a mani nude.
Una donna poco più alta del metro e mezzo e con gli occhi della
foresta.
E se Spezzacolli avesse subito l’influenza dei Soldati Rossi? Se la
matrice fosse stata la stessa?
Jacob non poteva non prenderlo in considerazione. Ogni dettaglio a
183
questo punto diveniva importantissimo. Indispensabile da conoscere per
vincere.
Bevve la birra. Sentiva la solita vena del collo pulsare.
Nervosismo.
Spezzacolli era parzialmente originata come i Soldati Rossi? In
questo caso, perché era sfuggita al suo controllo? E se invece il conte di
Weast avesse giocato la sua donna, Elma? Se avesse assoldato uno
stregone perché creasse un nuovo esercito per lui?
Possibile che Neropece fosse giunto ad Hakne?
Il nervosismo si trasformò in terrore.
...Xanatos…
6.
Passò appena una giornata dall’arrivo di Manuel e di Karina, che altri
quindici disperati si presentarono alle porte di Alto Castello per chiedere
aiuto. I viveri cominciavano a scarseggiare; c’erano parecchi malati.
Rebecca radunò le sue compagne per discutere della questione prima
che Klaus e compagnia bella andassero da lei a piangere perché non
c’era abbastanza cibo.
“E’ difficile così, Rebecca, - disse Marçela passandosi sulla faccia
stanca le mani – non ci sarà abbastanza cibo per tutti al termine
dell’inverno. E io sono così stanca…” le sfuggì un singulto e Rebecca le
carezzò i capelli.
Marçela si asciugò il volto. “Vi prego, scusatemi. – disse – è solo che
tra queste responsabilità, i miei figli e che mi sento così sola… uff,
vorrei che ci fosse un uomo a prendersi un po’ del mio peso!”.
Rebecca sorrise comprensiva. “E’ difficile per tutti questo periodo. –
si rivolse a Tray – dimmi della caserma”.
Tray si alzò in piedi e si accese una sigaretta. L’odore acre e dolce,
pungente, pervase la stanza. Lei si mise a passeggiare nella sala come
una belva in gabbia. “Non bene” esordì.
“In che senso?”
“Tra le nuove arrivate sono in parecchie quelle che hanno bussato alla
mia porta. – aspirò una boccata. Il fatto era che, nonostante fossero tutte
al castello, si incrociavano pochissimo. Solamente Giada e Rebecca
riuscivano a trovare il tempo per parlarsi qualche minuto al giorno, con
Tray si vedevano pochi minuti la settimana – e mi chiedono di diventare
guerriere”.
184
“E tu?” Rebecca andò a guardare fuori dalla finestra. Quel giorno
faceva bello e il cielo era di un celeste pulito, senza nubi con un profumo
di pino e resina nell’aria.
“Le ho fatte entrare. Che cosa dovevo fare? Le capisco: non vogliono la
protezione di uomini che tanto chiacchierano e non sono stati capaci di
proteggerle”.
Forse erano impegnati a prendere le botte o a mettere in salvo la prole
– si disse Rebecca. “Come l’hanno presa i ragazzi?”
“Quelli piccoli basta metter loro una spada in mano e farli correre come
pazzi per la palestra; quelli grandi li mando a casa. Purtroppo però non
basta…”
“Immagino – la interruppe Rebecca – che le giovani aspiranti guerriere
siano piene d’odio e siano in piena competizione con gli egocentrici
giovanotti. E posso quindi immaginare che cosa ne scaturisca”.
“Già” finalmente Tray si sedette sul bordo della grande tavola e osservò
il suo capo che, braccia incrociate, guardava fuori dalla finestra.
“Uomini e donne non posso addestrarsi insieme” proseguì Tray.
“Non nella nostra società. Ci sono ancora troppe diseguaglianze tra i
sessi” ammise Rebecca senza voltarsi.
Calò il silenzio. Giada mormorò: “Che cosa si fa allora?”
Rebecca non rispose, ma Tray vide come si irrigidì. Parve infuriarsi.
Si chiese se il motivo fosse la sua scarsa capacità di coordinare le attività
di addestramento. Insomma, anche se era arrivata a dormire poche ore la
notte, le sembrava sempre che qualcosa le sfuggisse, di non essere mai
all’altezza della situazione. Sebbene Rebecca le avesse ripetuto più di
una volta che di Tray la Puttana non rimaneva niente, Tray non riusciva
ancora a prendere coscienza di ciò che era. Forse era più esatto dire che
lei non era. Alcune volte guardava le sue mani senza riconoscerle, come
se fosse estranea al suo corpo. Un corpo che comunque veniva ammirato
e che cercava di nascondere in tutti i modi sotto abiti informi.
“A cosa stai pensando?” domandò Freccia Letale a Rebecca alla fine.
“Perché dovrei pensare a qualcosa? – sogghignò l’altra – potrei essermi
persa in sogni d’amore”.
“Sì, aspetta che mi faccio una risata. Allora?”
“Allora faremo così: separeremo le donne e le addestreremo nei boschi
alla nostra maniera. Che gli uomini imparino a brandire le loro spade,
mentre noi ci confonderemo con l’ombra e la terra!”.
“Come faccio a gestire entrambe le cose?” si lamentò Tray.
“Ti aiuterò io. Sono passate nove settimane da quando hai cominciato
l’addestramento, dovresti avere qualcuno in grado di fare le tue veci”.
185
“Sì, ci sono quattro o cinque elementi validi che potrei elevare di
grado”.
“Bene. Giada, pensi di poter prendere il mio posto?”
“Ho solo bisogno che Ada o una delle sue ragazze più fidate mi
sostituiscano per gli inventari della dispensa”.
“Con Ada ci parlo io. Marçela, vieni con me a parlare con quei
rincoglioniti di Klaus e dei suoi. Ho bisogno che si rendano conto di
quanto abbiamo bisogno che si diano una mossa e dobbiamo parlare dei
razionamenti”.
“Razionamenti?” era Giada.
“Razionamenti. – confermò Rebecca – l’inverno sarà lungo qui sulle
montagne e dobbiamo essere previdenti”.
“Anche volendo, però, - interloquì Marçela – se arriverà altra gente non
ce la faremo”.
“Lo so. Infatti da domani riprenderemo i saccheggi contro gli alleati di
Weer. Voglio che ci si organizzi comunque per un razionamento, in caso
di assedio”.
Alla parola assedio le altre trasalirono ma Rebecca non diede segno
di esserne sconvolta. Qualche uomo di Weer doveva saperlo che i
disperati e i profughi stavano andando ad Alto Castello e forse una
mattina, svegliandosi, avrebbe trovato il nemico alle porte. Non voleva
farsi trovare impreparata.
“Riprendiamo la guerriglia?” era Tray.
“Sì. Quei bastardi hanno scelto di allearsi con un traditore? Peggio per
loro. Si sono alleati con la persona sbagliata. O pensi che le tue ragazze
avrebbero dei problemi ad affrontare i loro stupratori?”
Tray tirò le labbra in un sorrisetto cattivo: “Non vedono l’ora”.
Rebecca tornò a guardare fuori dalla finestra. Anche se i figli del suo
sangue erano lontani, ce n’erano altri che avevano bisogno della sua
protezione. E, si sa, una madre che difenda i cuccioli è il peggior
assassino nato.
7.
Einaki era cambiata notevolmente negli ultimi dieci anni.
Jacob pensò a questo, mentre si avvicinava a cavallo al centro di
quello che una volta era poco più di un villaggio di pastori di montagna.
Aveva fatto piantare il campo qualche chilometro fuori dal confine di
Einaki e si era diretto con Paul Mann e con Borok al paese.
186
Ora, procedendo al passo verso il centro abitato, si rese conto che
trovare la persona che cercava non sarebbe stato poi così semplice. Ma
soprattutto si diede dell’idiota per averla trascurata tanto a lungo. Si rese
conto fin da subito che Einaki era divenuto un punto nevralgico
dell’economia di Brealle.
Giunti dentro il paese, fece segno ai suoi di scendere da cavallo.
Il vecchio villaggio di pastori possedeva ora diverse vie lastricate e
diversi palazzi a tre piani, di commercianti e orafi. C’erano diverse
botteghe del pane, pasticcerie, macellerie, maniscalchi, sarti, maestri
d’armi, e tante, tante altre attività commerciali in piena attività. Da poche
centinaia ora gli abitanti erano diverse migliaia.
La sorpresa fu la grande piazza principale. La fontana comune a cui
tutti andavano ad attingere adesso era un’opera scultorea che brillava nel
sole estivo e dove giocavano i bambini, mentre le loro madri si
affaccendavano nel grande e affollatissimo mercato. Le bancarelle
occupavano tutta la superficie della piazza e si smerciava di tutto. Sulla
piazza di affacciavano anche diverse botteghe di stoffe pregiate e ben tre
oreficerie, dove la gente era dentro a contrattare.
Là sembrava che la guerra non fosse mai giunta, quando a meno di
quaranta chilometri i saccheggi e la resistenza contro le guardie del
Barone erano stati feroci.
Uomini e donne ad Einaki sfoggiavano abiti e gioielli, c’era aria di
lusso e ricchezza.
“Questo è un buon posto per un bordello” sogghignò Borok.
“Perché pagare quando te la puoi prendere gratis?” rispose Paul Mann,
impegnato a mandare bacetti volgari ad una ragazzina che si era appena
affacciata all’adolescenza. Lei corse dal padre macellaio, che non gradì
l’atteggiamento dello straniero.
Non erano ben visti, Jacob e i suoi uomini. Era ovvio che, dovunque
passasse, fosse riconosciuto: era Jacob di Weer, il Sanguinario. Dove
passava lui la folla si apriva e ci si schiacciava pur di non dover
intralciare il suo cammino.
Jacob cercava una persona.
“Che cosa ci facciamo qui?” domandò Paul Mann accendendosi da
fumare.
“Cerchiamo informazioni. Le mie fonti dicono che Corin è partito da
qua. E forse qui sapremo dove si è rintanato il bastardo”.
“Chi?” insistette Paul Mann.
“Chi, cosa?”
“Chi sono le vostre fonti”.
187
Jacob gli riservò un’occhiata sprezzante, la stessa della notte in cui
gli aveva ricordato di essere il suo signore e padrone. Non gli rispose e
prese a passeggiare per il mercato.
Paul Mann fissava la schiena del Barone, la mano sull’elsa delle
spada.
Per un istante lunghissimo l’arma fu sfilata di qualche centimetro dal
fodero e poi rimessa al suo posto.
8.
“Weer è in città”.
Ad Amalia cadde la brocca di mano. Il chiaro vino rosato si rovesciò
per terra e sulla sua gonna.
“Amore…!” Moag rimase sconvolto dalla reazione della giovane
moglie quando seppe dell’arrivo di Jacob di Weer.
Amalia era incapace di muoversi. Dopo le nozze del Barone, aveva
pensato di non vederlo né sentirlo mai più. Non ora che era uscita
dall’incubo, non ora che aveva imparato ad amare la vita con suo marito
– l’uomo che aveva sedotto -, non ora che aveva imparato ad amare la
sua vita di madre adottiva.
Moag era il medico della comunità di Einaki ed era stato anche
l’artefice di gran parte del cambiamento della cittadina, da semplice
villaggio a punto di riferimento per l’economia della regione; Moag era
anche il padre adottivo di quasi trenta piccoli orfani e Amalia aveva visto
nascere la sua casa, la sua famiglia, la sua vita. Ora no, non voleva che
tutto questo sparisse.
Moag le accarezzò il viso: “Amore, ma che cosa è successo?”
Amalia non fu in grado di rispondergli. In tante occasioni lei non gli
aveva dato delle spiegazioni, ma lui aveva capito e rispettato la sua
intimità. Amalia non era una donna di molte parole, ma una lavoratrice
infaticabile ed una persona solitaria. Che sarebbe sempre stata sola
perché serbava in sé il segreto di una violenza inaudita. Moag l’aveva
curata nel corpo, l’aveva amata e l’aveva sposata. Tuttavia sua moglie
non gli aveva mai detto della violenza.
Amalia si fece pallida e lui si premurò di farla sedere. L’unico pranzo
che erano riusciti a fare insieme – con trenta piccoli pesti per casa e i
pazienti del paese era difficile mangiare alle stesse ore – era rovinato.
Moag si chinò a cogliere i cocci della caraffa.
Amalia fissava con occhi sgranati la nuca il collo di suo marito.
188
Un uomo che andava verso i sessant’anni, un uomo che poteva essere
suo padre, un uomo ancora agile e scattante, un uomo intelligente e
sensibile. Come poteva dire, a quell’uomo, a lui che aveva rispettato i
silenzi e i sentimenti che lei in realtà veniva dalla strada? Che era una dei
piccoli orfani della Guerra Rossa? Che era stata addestrata e che era
stata una spia di Jacob di Weer?
E che cosa avrebbe detto all’uomo che l’aveva raccolta dalla strada?
A quell’uomo che l’aveva sfamata e scaldata quando la fine in mezzo
alla neve, congelata, era certa? L’uomo al quale doveva la sua intera
esistenza?
Perché lo sapeva benissimo, Jacob di Weer era lì per lei.
189
CAPITOLO 11.
1.
C’è un volto.
Un volto che lei conosce bene.
Un volto che un tempo aspettava di vedere dalla finestra della sua
stanza. Un volto giovane e vecchio. Un volto stanco e forte. Un volto che
lei vuole vedere perché è l’unico volto ora a ridare un sorriso a genitori
piegati dalla rabbia e dalla preoccupazione.
Il suo volto ora porta i segni del tempo, ma è sempre lui. Il volto
dell’uomo che abita l’immaginario collettivo, il volto che abita i suoi
ricordi di bambina.
Il cuore si scalda al ricordo di un tempo in cui aveva una famiglia,
aveva vestiti fatti su misura, in cui tutto era facile. I ricordi sono tutto
ciò che le rimangono di un’identità che ormai le sfugge, mentre un’altra
s’impossessa di lei, si plasma su di lei e che troppo spesso la fa sentire a
disagio.
Ma ora, davanti a quel volto tutto è differente. Tutto è bello e lei
crede di poterlo fare, di possedere un’altra identità. Di essere quella che
vuole essere.
Lui ride.
Ride e gli occhi sono pieni di tenerezza, la piega della bocca in una
smorfia nuova e una luce negli occhi che tradisce una nostalgia mortale.
In qualche modo penetra gli occhi nostalgici e cerca nella mente
l’origine. Così la vede.
Lei.
Lei che è tutto. Origine e fine; vita e morte. Lei è ciò che trasforma
un prato in una casa, lei è ciò che fa di lui un uomo coraggioso, lei è la
sua fonte di vita.
Il contatto è labile, si dissolve lentamente e inesorabile. Ma ha fatto
in tempo a sentire la sua risata. Calda, famigliare. A suo modo dolorosa.
Lui è lontano.
190
2.
Rebecca si asciugò il volto bagnato di lacrime. Non era sofferenza. Era
rabbia. Cieca, incontrollabile, repressa da troppo tempo. Giada aveva
assistito a quel riversare di sentimenti ed aveva atteso che l’amica si
sfogasse.
“Non è possibile. – gemette alla fine Rebecca – Non ne posso più di
tutto questo. Sono esausta”.
“Lo so”. Giada le strofinò la mano sulle spalle, per confortarla.
“Grande Hilu, quell’uomo è impossibile!” imprecò lei allora.
Si riferiva a Klaus e agli altri uomini.
Dopo aver messo in chiaro con le compagne quanto ci fosse da fare
per permettere ad Alto Castello di sopravvivere, Rebecca aveva
convocato Klaus e, insieme a Marçela, avevano fatto notare agli uomini
che andava fatto qualcosa al più presto per le colture, che dovevano
cominciare a rendersi conto della vera responsabilità di cui erano
ricoperti. Era chiaro che ognuno guardava al suo orticello. Gli animi si
erano scaldati, avevano litigato come al solito e come al solito Rebecca
aveva dovuto mettere in campo tutte le sue abilità di ambasciatrice per
trovare un accordo.
Aveva quindi raggiunto un accordo e mandato via Marçela, ma
quando Giada era entrata nella sala, l’aveva trovata piegata su di sé a
piangere.
“Cioè, io metto una pietra per bloccare la frana e dall’altra parte tutto
viene giù… sono distrutta” proseguì Rebecca.
Giada le posò un bacio tra i capelli. “Non ti buttare giù. Ora passa” la
consolò.
Rebecca si passò le mani sul volto, strofinandolo. “Giada, non lo
so… non ce la faccio più. Vorrei essere più forte. Più determinata”.
“Più di così?” la derise dolcemente l’altra.
“Che intendi?”
“Che sei la nostra forza, che sei la colonna portante di questo castello”.
“Come no. Sono una musona e mi sento così sola”.
Rebecca si passò le mani sul volto, strofinando, come per cercare di
destarsi. “Il fatto è – confidò con voce rotta – che non ce la faccio. Corin
e i bambini… se solo potessi sapere qualcosa di loro! Mi mancano al
punto che sto male, ho sempre male allo stomaco, al petto, è… mi sento
congelata”.
Giada le prese le mani tra le sue e accostò la fronte alla sua. Le mani
191
di Rebecca erano veramente gelate. La fronte calda, le guance rosse per
il pianto, gli occhi di smeraldo lucidi ed anch’essi rossi.
“Loro stanno bene. – le sussurrò con un sorriso. Le teste vicine e
l’affetto che c’era tra le due le facevano sembrare sorelle – io li ho…
visti. Non chiedermi come, ma sono capace di uscire da questo mondo…
ho visto Mastro Mayster”.
Gli occhi di Rebecca si spalancarono si speranza e gioia. Non le
riuscì di parlare per l’emozione.
“Sta bene. – le assicurò Giada – Sta bene, Rebecca. E pensa a te, in un
modo assoluto”.
Mi pensi, Corin? Lo senti il mio richiamo? Mi senti, Corin? MI
SENTI?
“Dov’è?”
“Non lo so. Devo… devo imparare a comandare questo potere” si scusò
la principessa.
“E i bambini?”
Giada scosse il capo con rassegnazione.
I miei bambini…! Loro stanno male? Loro sono…?
Gli occhi della madre si riempirono di lacrime, la gola di un grido
strozzato.
“Non lo so, Rebecca. Credo che sia perché non li ho mai conosciuti…
però sta’ tranquilla, la mente di Mastro Mayster l’ho percepita: e lui
pensava a te, non ai bambini. Anzi, eri tu l’unico pensiero che gli dava
ansia e nostalgia, quindi vuol dire che i tuoi figli stanno bene”.
Rebecca si mise a ridere e piangere.
“Grazie!” esclamò di slancio, abbracciandola stretta.
La principessa sorrise raggiante: “Ho anche sentito la sua voce”.
Lo stomaco di Rebecca si chiuse in una morsa.
La voce di Corin. Cos’avrebbe dato per sentire la voce dei suoi
uomini!
Giada lesse la disperata rassegnazione dell’amica e si pentì di averle
detto che lei poteva sentire la voce di Mastro Mayster. Rebecca si
affrettò a sorriderle, forse meno raggiante di prima.
“Non so come ringraziarti. Mi hai fatto un regalo… - ridacchiò come
una ragazzina – regale, principessa”.
192
3.
Amalia puliva casa.
Puliva incessantemente, i bambini erano fuori nel cortile a giocare e
lei agitava lo straccio, ci dava dentro.
Perché la mente non pensasse, perché quella brocca non cadesse
prima, alla presenza del marito, perché non voleva che Jacob di Weer
fosse nel suo paese, lì a cercarla.
Einaki era diventata grande, trovare la casa di Moag non sarebbe
stato semplice. E lei poteva nascondersi. Evitare di parlare con Jacob di
Weer.
Anche perché non ti ha mica invitato al suo matrimonio. Tu sei una
nullità – c’era una vocina che malignava nella sua mente.
Amalia lo sapeva da sé di essere nulla.
Nulla di importante per Weer, indispensabile per l’uomo che l’amava,
per quel marito che con tenerezza devastante l’aveva accudita e amata
silenziosamente.
Si sedette sulla sedia nel corridoio. Vi si buttò sopra come avrebbe
fatto nel gettare lo straccio tenuto in mano. Si sentiva uno straccio. Era
uno straccio.
Jacob di Weer era in città.
Jacob di Weer era venuta per cercarla.
Ma lei non voleva incontrare Jacob di Weer. Tanto più che, se
l’avesse fatto, avrebbe rischiato di far saltare la sua copertura. Al Barone
non gliene sarebbe venuto niente, ma lei… lei avrebbe perduto tutto ciò
che aveva conquistato con fatica in quegli anni. Aveva trovato un uomo
in grado di capirla ed aveva una famiglia. La mattina si alzava con la
coscienza pulita, la notte si coricava felice che la giornata fosse passata
in pace. La mattina si alzava felice di essere con Moag.
Aveva tanto e troppo da perdere. Moag non era eterno. Conosceva la
fragilità della vita – la straordinaria fragilità della vita, che la rendeva
così intensa – e conosceva i limiti dell’esistenza. Lei non voleva perdere
Moag. Lei non voleva perdere ciò che aveva.
E all’uomo che ti ha salvata dalla strada? Che ti ha sfamata?
Chiuse gli occhi. Respirò a fondo, ma l’aria era di fuoco. Bruciava di
dolore.
Lo sapeva… quello che andava fatto.
Glielo devi.
Aveva un debito con Jacob di Weer.
193
Quale debito? – gridò la coscienza ferita – Quale debito hai con quel
bastardo? Hai dovuto farti ferire, farti stuprare, hai dovuto soffrire
realmente per arrivare a Moag! Solo tu sai il sangue che hai buttato, i
dolori del corpo che sono rimasti! In nome di cosa? Del suo Regno di
forza? Della sua supremazia assoluta sui più deboli? Non ricordi le
amiche, le sorelle, tutte le donne che non hanno superato
l’addestramento semplicemente perché provavano qualcosa? Magari
per se stesse? Magari perché non volevano che il corpo fosse poco più
di un oggetto per sedurre? Che la mente è sentimento, che il cuore è
anima? Che la vita è bella anche nella sua debolezza?
L’urlo della coscienza la fece crollare in un pianto.
Non poteva…! Non poteva più tornare a credere in quello che aveva
tanti anni prima perché lei non era più la Amalia di quel tempo.
Ma cosa poteva fare ora? Weer la stava cercando. Lei era la moglie
del capo di Einaki, tutti la conoscevano. L’avrebbe trovata.
E quando si sarebbe presentato alla sua porta? E quando avrebbe
chiesto di lei? E quando Moag le avesse chiesto che cosa c’entrava Weer
nella sua vita? E quando Weer si fosse divertito a dirgli che lei era da
sempre stata una sua spia? E quando Moag avesse reagito e l’avesse
difesa – perché lui l’avrebbe difesa, non avrebbe mai creduto alle parole
del Barone – che ne sarebbe stato del coraggioso Moag?
… la testa di Moag spaccata, gli occhi aperti in un’espressione
contorta, il corpo molle e senza vita…
Amalia sapeva come sarebbe andata.
Si asciugò il volto dalle lacrime. Solo allora si rese conto che l’uomo
che la amava era l’uomo che lei amava.
Doveva fare qualcosa.
Si alzò dalla sedia con lo stomaco chiuso. Camminava su gambe
malferme e pensava ad ogni singolo istante con suo marito. Alle mani
calde, gli occhi che la seguivano con affetto e apprensione, gli abbracci
teneri e discreti, il rispetto del silenzio, quel modo di capirsi al volo. Lo
vedeva in tutta quella casa. La casa che un tempo era modesta e con solo
tre stanze; la casa che loro avevano progettato e costruito. I figli che
avevano accolto, le persone che avevano confortato, le persone che
Moag aveva curato.
Passò in camera a prendere lo scialle.
La sua camera da letto, il baule con l’abito delle nozze, la casacca
della notte di Moag appoggiata sulla sedia. Il respiro di lui, la presenza di
lui.
Ora no, non poteva avere paura e non poteva lasciarsi sconfiggere.
194
Scese le scale, aprì la porta della cucina e uscì dal retro per non farsi
vedere dai ragazzi. Per la prima volta in vita sua andava a fare qualcosa
di veramente altruistico e senza doppi fini.
4.
“Papà, guarda la terra!” Mark si sporse oltre il parapetto della nave,
cercando si arrampicarsi più in alto. Le coste di Fillin si stagliavano alla
loro destra ed era tutto un tripudio di verde scuro, oro e bronzo per le
prime foglie che si coloravano dell'autunno. Il mare di un blu intenso
rendeva lo spettacolo ancora più appariscente, proprio per il contrasto.
Ancora pochi giorni di navigazione e finalmente sarebbero sbarcati.
Corin respirava l'aria di Hakne, più calda e più dolce, con gli occhi
pieni della visione di una quindicenne paonazza che proprio con i piedi
nel mosto della vendemmia d'autunno lo aveva accolto dal suo ritorno da
Hoss. Ricordi.
Corin si affrettò a tener fermo Mark e sollevarlo perché contemplasse
il panorama della costa oltre il parapetto. “Hai visto?”
“E’ estate, vero?”
“E' la fine dell'estate, tesoro. Siamo all'inizio dell'autunno”.
“Però non c'è la neve. Non voglio più vedere la neve. Mai, mai più”
disse serio il bambino.
“E’ fredda la neve!” trillò Tommy, ai piedi di Corin. Il bambino agitò le
braccia verso l’alto per essere sollevato. Corin lo accontentò.
“La neve fa parte della Natura. – spiegò Corin – Ma di certo non ne
vedremo più come ad Hoss”.
“Torneremo nella casa del re?” domandò Mark.
Hilu non voglia! - gemette tra sé il guerriero.
Tornare ad Hoss voleva dire che non avevano altro luogo al mondo
dove rifugiarsi.
“Eh, papà?” lo scrollò il bambino.
“No, tesoro. Non credo proprio torneremo ad Hoss”.
“E la regina? La lasciamo lì?” Mark si mise a fissare le rive del Grande
Regno, il visetto tirato in una smorfia di dolore che un piccolo di sei anni
non dovrebbe conoscere.
“C’è suo marito, Mark. E, quando le cose saranno sistemate, lui tornerà
a prenderla” Corin posò una mano sulla testolina del figlioletto.
“Come noi andiamo a prendere la mamma?”
“Sì, proprio così”.
195
Corin fece scendere Tommy e i bambini corsero per il ponte di
coperta.
I bambini… come invidiava la loro capacità di sopravvivenza. A lui
non era stato dato. Era abbastanza grande da conoscere il significato
della vita e della morte; era abbastanza grande da sapere cos’era un addio
e cosa fosse l’inizio di qualcos’altro. Era sopravvissuto, ma dentro
portava delle cicatrici che non smettevano mai di sanguinare.
Lasciò correre lo sguardo sulla riva, alle colline verdi in lontananza.
Là c’era la Contea di Monn, là c’era la tomba di sua sorella, di sua
madre e suo padre, di suo nonno e di sua nonna, di cugini, di amici.
C’era la tomba della sua infanzia.
Mark rideva esuberante, mentre Tommy lo rincorreva. Jesse si stava
battendo con Andrea. Contemplò i suoi figli.
Hilu era stata generosa. Tre figli maschi vivi e sani. E dentro, nel
petto, un’altra cicatrice, un’altra tomba piccina sotto il castagno. Corin
batté le palpebre per sconfiggere l’immagine di una tomba più grande,
quella della madre della creatura. In fondo allo stomaco rimaneva quel
nodo duro della paura di non arrivare in tempo, di non riuscire a vederla.
Erano passati diciotto mesi da quando si erano separati.
Diciotto mesi lunghi, diciotto mesi di nebbia e fango. diciotto mesi di
lacrime e di ricordi. Che cos’è la vita? , si chiese il guerriero. Una
costruzione che ognuno di noi mette su giorno dopo giorno con i ricordi.
E ai suoi figli che cosa sarebbe rimasto di tutto quello? A vederli
giocare in quel modo, Corin non avrebbe saputo dirlo. Erano cambiati
tanto.
Rebecca, se tu potessi vederli…
Tommy aveva più di tre anni adesso. Era diventato alto quasi quanto
Mark e i suoi capelli erano sempre più ricci sul viso tondo e dalla pelle
chiara. Adesso pronunciava bene molte parole e solo alcune volte
incespicava su suoni difficili. Tommy non aveva perduto il suo sorriso
raggiante; bastava la sola presenza perché tutti gli animi si quietassero.
Non si separava mai dal ciondolo di sua madre, ma aveva cominciato a
parlare di lei come di una fata e Corin ne era preoccupato. Per Mark e
Jesse il ricordo di Rebecca era più vivo che mai; era qualcosa di
tangibile.
Mark non era cresciuto molto in altezza, ma aveva acquisito una
nuova luce nello sguardo; alcune volte gli occhi nocciola si perdevano in
mondi sconosciuti e sulla sua faccia comparivano espressioni troppo
serie per un bambino di sei anni. Maestro Jamie aveva spiegato che Mark
aveva un grande potere, ma che la realtà empirica impediva al bambino
196
di vedere ciò che contava. In qualche modo la vista fisica impediva a
quella della mente di essere limpida. Mark aveva incubi spaventosi;
c’erano notti in cui Corin non sapeva come tranquillizzarlo. In Mark
c’era ancora molto del bambino, però, e la dolcezza dei lineamenti gli
faceva perdonare il fatto di essere una peste. A differenza degli altri due,
era meno robusto, ma agile come un furetto.
Se Rebecca avesse potuto vedere Jesse. Il suo Jesse. Il piccolo Jesse.
Jesse era quello che in assoluto aveva compiuto una metamorfosi
straordinaria. Andava per i dieci anni ed era alto quasi un metro e mezzo;
le spalle si stavano irrobustendo per l’addestramento a cui veniva
sottoposto ed il suo corpo stava perdendo le rotondità infantili.
Prometteva di diventare un giovane alto, forse anche più alto di suo
padre.
Jesse aveva ereditato tanto da lui. Dal modo di combattere al modo di
parlare; ma lo sguardo, no, quello era di sua madre. Il viso del bambino
si stava allungando, gli zigomi si facevano sporgenti, il naso sottile ed
aquilino, le sopracciglia spesse e nere a sottolineare gli occhi verde
smeraldo, eredità di Rebecca. Bello era bello, Jesse. Di una bellezza
rude, certo, ma comunque bello.
Se tu potessi vederlo, amore… saresti orgogliosa del nostro
soldatino.
Jesse ed Andrea avevano terminato l’addestramento. Jesse si tolse la
sottocasacca e rimase a petto nudo. Si poteva tranquillamente dire che
aveva dodici anni, in quel momento.
L’ermafrodita andò da Corin, tergendosi il sudore con una pezza
bagnata. Andrea indossava una tunica di cotone arancione e comodi
calzoni di panno beige; i capelli brillavano nella luce del riverbero
dell’acqua. Mastro Mayster le lesse immediatamente che doveva dirgli
qualcosa.
Le porse dell’acqua.
“Che fai?” chiese Andrea.
“Guardavo i miei ragazzi. Sono cresciuti tantissimo”.
“Soprattutto Jesse”.
Corin annuì, poi il silenzio dell’ermafrodita si prolungò e lui
comprese che c’era di più, riguardo a Jesse.
“Che sta succedendo?” le domandò.
“Uhm, da dove posso cominciare? – Andrea storse le labbra in una
smorfia – quasi una settimana fa mi ha detto che voleva lavarsi da solo.
Gli ho fatto notare che c’erano anche i suoi fratelli da guardare e lui mi
ha risposto che si sarebbe occupato lui di lavarli. Alla fine abbiamo avuto
197
una discussione e l’ho lasciato stare. Ha preso a lavarsi da solo e non fa
entrare neppure Mark nel bagno quando ci va. Insomma, mi sono presa
un colpo. Mi segui?”
“Mh”. Corin osservò le spalle ampie del figlio, le gambe atletiche e,
quando si slanciò per prendere il fratellino più piccolo, vide un’ombra di
peli sotto le sue ascelle.
“Stamattina ho perso la pazienza. Sono entrata di forza nella stanza. –
Andrea arrossì violentemente – Corin… ti giuro, non volevo… Jesse è…
- Corin la guardò con aperto divertimento e lei balbettò ancora di più –
Cioè, io non pensavo che a quest’età…”
Fu allora che Mastro Mayster scoppiò in una risata che gli aprì la
pancia.
“Grande Hilu, che cosa mai avrai visto per diventare così rossa?”
Andrea si rese conto che la stava canzonando.
“Ridi, ridi, Generale. Ma tu immaginati che scena: io entro strillando
isterica e pensando a chissà quali ferite possa avere il mio piccolo Jesse e
mi ritrovo il corpo in miniatura di un uomo!”
“Sta solo crescendo. Sta’ tranquilla, è tutto normale: ho cominciato
anch’io alla sua età”.
Poi Corin si perse.
Rebecca, se tu potessi vederlo… il nostro soldatino che diventa un
uomo.
5.
Jesse aveva quattro ore di vita.
Né sua madre né suo padre riuscivano a riposare. Tenevano fra loro
il loro piccolo sogno e gli toccavano mani e piedi. Così piccoli, così
fragili. Jesse dormiva sereno.
“Te lo immagini, amore? Un giorno sarà un uomo” sussurrò Corin per
non svegliare il figlio.
“Non ci voglio neppure pensare” ribatté lei con un’ombra ad oscurarle
il viso.
“Perché no? Potrebbe assomigliarmi. O non ti piaccio più?”
Lei sorrise e finalmente il viso le si illuminò: “Mi auguro proprio che
ti assomigli”.
“E allora? Perché quella faccia?” le accarezzò il viso con il dorso
ruvido della mano.
“Perché non avrà più bisogno di me. Sarà diventato un uomo ed io
198
sarò vecchia. Non voglio che il tempo passi, voglio che si fermi. Come
ora”.
Corin vide che una lacrima scivolò sul volto di sua moglie. Aveva
compiuto da poco diciassette anni, la sua pelle era liscia e morbida,
neanche l’ombra di una ruga. A diciassette anni Corin marciava in
battaglia e non sapeva se sarebbe arrivato a sera; quando la sera
giungeva e lui era incolume si diceva che non poteva morire perché era
troppo giovane.
“Cosa farai il giorno che vedrai il tuo soldatino con i peli neri sul
pisello?” la stuzzicò per farla sorridere.
“Controllerò che i tuoi non siano diventati bianchi” rispose con aria
birichina.
“Attenta, perché potrei farteli controllare da molto vicino”.
“Non potrai, caro Generale. – Rebecca avvicinò il volto a quello del
neonato addormentato. Era lungo poco più di quarantacinque
centimetri- ci sarà il mio soldatino a proteggermi. Te la dovrai vedere
con lui, sai?”
Corin rimase abbagliato dalla bellezza di sua moglie e di suo figlio.
Tutte le battaglie, la guerra, il sangue e la violenza si dissolsero per
arrivare a loro due. Capiva perché Rebecca voleva il tempo immobile.
Sentì che stava per commuoversi.
“E tu, papà, che farai quando il tuo piccino avrà i peli sul pisello?” lo
stuzzicò lei, notando i suoi occhi lucidi.
“Controllerò che non ce ne siano di bianchi sul mio”. Rebecca era
scoppiata a ridere.
6.
Corin sorrise. Forse doveva correre in cabina a controllare.
Lo stomaco era serrato in un nodo stretto.
Rebecca, Rebecca… il nostro soldatino ha i peli sul pisello. E tu non
ci sei ora, qui, con me, a controllare i miei, che non siano bianchi, le mie
rughe, a contare i miei capelli bianchi.
Rebecca…
“Va tutto bene?” era Andrea, che lo strappava dai ricordi.
“No. – Corin si cercò da fumare – Rebecca ed io avevamo aspettato
questo momento dal giorno in cui Jesse nacque. E ora sua madre non c'è:
come pensi che mi senta?”
Andrea non rispose – d'altro canto, che cosa si poteva dire? Si
199
sentiva di troppo ed in colpa per il solo fatto di essere lì al posto di
Rebecca.
“Mi spiace” fu tutto ciò che rispose.
“Più a me” Corin terminò di fumare, quindi notò lo sguardo avvilito
dell'ermafrodita e le sfiorò gentilmente la spalla. “Che cosa c'è?”
“Jesse”.
“Che cosa c'entra Jesse?”
“Mi chiedevo se non fosse il caso di dirglielo” Andrea era cupa,
ansiosa.
“Dirgli che cosa?”
“Mi stai prendendo in giro?” ringhiò paonazza.
“Assolutamente no. Allora?”
Mastro Mayster la guardò apertamente, troppo per apparire come uno
che si stava divertendo a schernirla. Attendeva una risposta.
“Dirgli... di me” mormorò infine Andrea.
“Dirgli che cosa, Andrea? Detto tra noi, tu non hai mai avuto nulla da
dire. Smettila di sentirti in colpa per il solo fatto di essere quello che sei.
- scosse il capo e batté la pipa al contrario perché ti levassero gli ultimi
grumi di foglie secche e tabacco – E poi, che senso avrebbe? Non faresti
altro che confonderlo. Guardati: sei una donna. In questo momento Jesse
sa a malapena cos'é un uomo, figurati comprendere la complessità della
tua persona!”
“Pensi che lo confonderei e basta?”
“Io penso che tu sia confusa, e basta”.
Andrea non replicò. Corin ebbe solo voglia di andare da Jesse ed
abbracciarlo per un attimo ancora, prima che diventasse troppo grande.
Desiderò con tutto se stesso che suo figlio avesse quattro ore e che
Rebecca gli sorridesse ridendo di loro e della loro malinconia.
“Andrea, - riprese quindi il guerriero – Jesse lo sa chi sei, io anche e
così tutti noi. Sei tu che devi trovarti. Allora, e solo allora, potrai dirlo ai
ragazzi”.
Ciò detto, andò dai suoi figli e fece i complimenti a Jesse per il
combattimento.
7.
Ad Einaki era giorno di mercato.
Amalia scivolò avvolta nel lungo telo tra le mura e la gente,
silenziosa ed invisibile. Erano anni che non metteva in atto le arti del
200
mimetismo. Non aveva perduto il tocco dell'invisibilità: era tanto brava
che avrebbe potuto introdursi a casa d'altri ed essere confusa con le
pareti.
Le parve strano e terrificante dover confondersi con la gente che lei
tanto bene conosceva. Ad Einaki aveva finalmente un volto, una
personalità. Era qualcuno di cui la gente si sarebbe ricordata; essere
invisibile le fece provare una paura che la prese là, sulla bocca dello
stomaco, e le fece martellare il sangue in testa. Ciononostante era più
atterrita da quello che Jacob di Weer avrebbe potuto fare al suo uomo, se
non fosse intervenuta.
C'era troppo da perdere. - si ripeté.
Trovare il Barone fu semplice. Non passava inosservato e la gente di
Einaki – artigiani, contadini, fabbri e tanti altri – sussurrava al suo
passaggio. Quello era il Barone Jacob di Weer.
Che cosa ci faceva il Barone in una cittadina ridente e assolutamente
ignota come Einaki? Qualcuno malignava sul fatto che Jacob era alla
ricerca di nuove terre da saccheggiare; erano state molte le voci che
riportavano dei combattimenti ad est della Contea e nessuno si era
stupito della battaglia sul Fiume Dorato. Avevano invece tutti pregato
affinché la guerra rimanesse lontana dalle loro terre.
Ma non è venuto per le terre – pensò Amalia cupa – è venuto per me.
Arrivò a sfiorarlo, il Barone. Per due volte lo vide voltarsi e scrutare
la folla come quello che la sa lunga. Sarebbe riuscita a superare il suo
signore nell'arte del mimetismo? Probabilmente nessuno l'avrebbe mai
detto, ma Jacob era un uomo di un certo ingegno. Spietato, sì, ma
calcolatore.
Altrimenti non sarebbe riuscito a mettere a soqquadro Hakne con
dieci anni di guerra.
Amalia doveva stare molto attenta.
Poco più in là vide la testa brizzolata di Paul Mann. E quella bruna di
Borok. I due stavano conversando e all'apparenza pareva che l'argomento
fosse futile.
Jacob si girò ancora una volta e alla donna il cuore fece un salto nel
petto.
Aveva paura.
Deviò verso i due uomini di Weer.
Sedevano ai tavoli esterni di una locanda a ridosso della piazza,
appartati e lontano da occhi e orecchi indiscreti.
Amalia scivolò alle loro spalle passando per le cucine della locanda e
scivolò in un angolo nascosto, così vicino da sentire il loro fiato. Avrebbe
201
potuto toccarli allungando appena la mano.
Avrebbe potuto far saettare il pugnale che aveva nella mano sudata.
Un solo gesto... un gesto fulmineo e di Borok non sarebbe rimasto più
nulla. Era stato lui a infierire...
Amalia inghiottì l'aria, sconvolta dalla propria sete di vendetta.
Tremava.
La mano si chiudeva e riapriva sull'elsa dell'affilato pugnale. Si
apriva e si chiudeva. Lo ammazzo... non lo ammazzo.
Le bastò ripensare a Moag che attendeva in silenzio una spiegazione
da lei, che le accarezzava il volto, che le baciava la fronte e le
sussurrava: “Non è colpa tua, tesoro. Non è colpa tua. Tu non c'entri
nulla”.
La mano si serrò sul pugnale. I muscoli si tesero per mettere a tacere
per sempre quella pagina della sua vita. Tutto il resto – Jacob di Weer -, a
quello ci avrebbe pensato dopo.
Alzò la mano nell'angusto spazio del cono d'ombra.
“Non credo di voler sentire quello che dici” disse Borok con gli occhi
spalancati di orrore.
“Invece tu devi ascoltare” Paul Mann si accese la pipa finemente
lavorata e controllò che Jacob fosse abbastanza lontano da non udire
quanto stava pronunciando.
“Non voglio entrarci in questa faccenda” protestò Borok.
“Cos'è? Te la fai sotto?”
“No, sono prudente. E' diverso” sottolineò l'uomo.
Paul Mann lo fissò con aperto divertimento.
“Che patetico rincoglionito” considerò.
Borok pose mano alla sua daga. “Attento a quello che dici, bastardo,
potrei fartene pentire” sibilò.
“Che cosa vuoi dimostrare, eh? - lo provocò l'altro uomo – Non sono io
il nemico, qui”.
“Non ricominciare”.
“Fai come vuoi, imbecille. Ma ti sei chiesto che cosa ne sarà di noi
quando quel bastardo grassone verrà passato dalla spada di Corin o di
Mayster?”
Borok volse lo sguardo torvo dove si trovava il Barone. Tacque.
“E di Joseph? Ti sei chiesto che fine abbia fatto? Sono mesi che è
partito. Col cazzo che è andato in missione diplomatica: Weer si è
disfatto di lui”.
“Potrebbe aver avuto dei problemi”.
“Se fosse stato così urgente, il nostro signore – e fu sarcastico – avrebbe
202
mosso il culo. No, la verità è che se ne è liberato. Quella vacca gli ha
dato alla testa e quel moccioso ha dato il colpo di grazia... fra poco dirà
'va bene, abbiamo scherzato', chiederà scusa alla Corte e dirà che non è
stata colpa sua. Indovina su chi scaricherà le responsabilità?”
Borok scosse la testa, senza dire nulla. Poi smise anche di scuotere la
testa.
“Hai capito a chi la metterà in culo, eh?” lo sbeffeggiò Paul Mann.
Il compagno fumò la sua pipa con aria persa. Borok non era mai stato
un genio, anzi. Ma era uno spietato figlio di puttana e completamente
pazzo; quanto bastava per far parte delle fila di Jacob di Weer.
Paul Mann fumava in silenzio ed era compiaciuto di sé. Cazzo, se era
compiaciuto di sé... il gusto dolce e inebriante dell'onnipotenza lo prese
alla gola, scese lungo allo stomaco e poi più giù, alle palle. Oh, sì, era
proprio eccitato.
“Tu sei fuori di testa” disse infine Borok.
Tutta l'esaltazione di Paul Mann scemò e si ritrovò a fissarlo a bocca
aperta.
“Quale parte della storia non capisci, pezzo d'idiota?” gli sibilò in
faccia.
“E tu quale parte della storia non hai capito? - gli rispose l'altro – Su
una cosa Weer ha ragione: se lui finisce con il culo per terra, per noi è
peggio”.
“E se lui muore?”
Borok non rispose e lo scrutò umettandosi la labbra con
un'espressione stupefatta.
“Non ci hai pensato, eh? - incalzò Paul Mann – Hai un'idea di quanti
anni abbia il nostro benamato signore? Mezzo secolo passato. E'
vecchio”.
“E' in piena salute”.
“Ora sì, ma se tra qualche mese di becca qualche malattia strana?
Magari se la prende da quella scrofa di sua moglie. Se ci lascia le penne?
Noi che fine facciamo?”
“Ci spartiamo Umm”.
“Sì, e poi combattiamo il resto della nostra vita con Tulle e gli altri
nobili alleati di Weer. Noi per loro siamo solo soldati, carne da macello;
non siamo degni di governare”.
“E allora?”
Borok finalmente vedeva la situazione da un'altra prospettiva. Era
vero, con Jacob aveva tutto il potere che voleva e tutti i privilegi, ma se
lui fosse morto per cause naturali? Di quello nessuno aveva mai parlato.
203
E rimaneva il fatto che non aveva alcuna intenzione rimanere con il culo
per terra, se Jacob avesse tirato le cuoia.
“Uniamoci a Corin”.
A Borok si strozzò il fiato in gola.
Amalia, dietro di loro, sentì di non riuscire più a respirare. La sua
mente, già sconvolta dalla rabbia per trovarsi a pochissimi centimetri
dagli uomini che l'avevano ferita a morte, viaggiava velocissima a
calcolare le conseguenze di un'alleanza tra Corin – Mastro Mayster, così
come le aveva rivelato il marito quando ancora lo teneva sotto il
controllo dell'ipnosi – e i tirapiedi di Jacob.
Il salto della barricata avrebbe comportato la morte di Jacob, di
questo ne era certa. Ma come avrebbe reagito Mastro Mayster? Mastro
Mayster ufficialmente non era ancora ricomparso e quindi neppure il re.
A questo punto, dopo la vittoria schiacciante sul Fiume Dorato, nessuno
poteva sapere quale sarebbe stata la prossima mossa di Corin:
logicamente, avrebbe potuto combattere con l'identità di Mastro Mayster
e certamente avrebbe ottenuto più aiuto; il fatto che non lo avesse fatto
dava da pensare che aveva ben altre idee.
E se Corin avesse accolto quei due bastardi tra le sue fila?
Amalia ebbe il pensiero agghiacciante di Hakne in piena anarchia
perché nessuno, nessuno, avrebbe compreso quel gesto. Forse, ora Corin
avrebbe preteso il trono per sé, ormai libero dal fardello della
reputazione di Mastro Mayster, il Primo e fedele Generale del re.
Sarebbe scoppiata una guerra civile, peggiore di quella che già era in
corso perché il popolo avrebbe appoggiato in pieno Corin, mentre i
nobili avrebbero sfoderato le spade contro gli umili natali del Generale.
Grande Hilu, che disastro! - pensò attonita la donna. Questo riuscì a
distrarre per un istante la rabbia che la divorava dentro.
“Unirsi... a Corin?” ripeté Borok.
“Sei sordo? Sì, unirsi a lui”.
“Aspetta... e se Corin fosse un fedelissimo di John Henry?”
“Umpf! Non sono tutti Mastro Mayster”.
“Forse no. Ma hai almeno preso in considerazione questa ipotesi?”
“Che intendi?”
“Perché non andare da Tulle? Lui è abbastanza sveglio ed è ben
agganciato per...”
“Bravo, e se poi andasse a spifferare? No, se devi fare una cosa, deve
essere fatta fino in fondo, ecco la verità”.
“Ma Corin è....”
“Corin è il nemico, ora. Lui è quello vincente. L'ho visto combattere: è
204
giovane, è forte ed è incazzato nero perché gli abbiamo messo la moglie
a novanta e ci abbiamo fatto quello che volevamo”.
“Proprio per questo ci apre in due, appena ci vede!” lo interruppe
Borok.
“Non ci apre in due, se possiamo dargli il vero ed unico responsabile.
Lui vuole Jacob di Weer e noi gli diamo Jacob di Weer”.
Borok si accese nuovamente da fumare e rimase impassibile a
scrutare la gente del mercato.
Alle sue spalle, Amalia aveva tirato giù il pugnale.
No, non lo avrebbe ammazzato. Aveva un'idea migliore su come
usare quelle informazioni.
Rimase ad ascoltare.
“E poi?” soggiunse Borok a Paul Mann.
“Poi, cosa?”
“Metti a tacere Weer tramite Corin. E poi?”
“Che cosa intendi?”
“Che cosa vuoi? Il trono...?” possibile? Tanta ambizione?
Paul Mann non sorrise e non tentennò. “Perché no?”
Borok aveva terminato pazienza e coglioni. Era sconcertato. Un
conto era pararsi il culo per il futuro, un conto era puntare a mettere il
culo al sicuro per sempre. In entrambi i casi, c'era tanto e troppo da
rischiare. Il suo cervello non era tanto veloce da cogliere le diverse
sfumature che un progetto di quella portata possedeva.
Era attonito.
Completamente perduto.
“Dammi del tempo. - mormorò infine a Paul Mann – Ci devo pensare
su”.
“Ne avrai fino a Weast. - Paul Mann fece scattare uno stiletto alla gola
del compare – poi saprò a quanti vermi dovrò dare da mangiare. Se per
un grassone solo o anche per un porco come te” terminò minaccioso.
Amalia decise di aver udito a sufficienza.
Con uno svolazzo ripose il pugnale sotto il mantello e, così facendo,
mosse l'aria. Lo fece di proposito.
Borok si volse di scatto a guardare le proprie spalle, lo stiletto ancora
puntato alla sua gola.
Paul Mann seguì il suo sguardo.
C'era solo il muro della locanda. Il muro grigio.
I due uomini non fiatarono, in attesa.
Qualcosa alitò gelido e minaccioso alle loro spalle.
Paul Mann rinfoderò l'arma, Borok volse lo sguardo spaventato di
205
preda ovunque: c'era il mercato, c'erano centinaia di persone e Weer,
dalla parte opposto della piazza lo stava fissando.
Lo trapassava con i suoi occhi azzurri, vigili e molto più attenti
di quanto Paul Mann non volesse. Weer aveva visto.
206
CAPITOLO 12.
1.
Dopo appena un giorno dal loro arrivo, George inviò una missiva Zar per
confermargli lo stato di abbandono di Madrigal. E della verità che Elaka
aveva raccontato loro. Il giovane comandante aggiunse laconico nella
sua lettera:
“...Ci riesce appena di immaginare che cosa sia accaduto qui dentro,
guardando le catene nelle stanze. Preparati e prepara gli uomini alla
follia della voce del vento dentro la fortezza, perché la notte ci sono
fantasmi che non vorremmo vedere. Non credo che avremmo combattuto
sul Fiume Dorato, se prima avessimo saputo di questo posto...”
Il capitano Zar di Brealle, figlio di Sue e Thommas, aveva richiuso la
lettera di George ed aveva cercato con gli occhi il cielo azzurro d'estate.
Fantasmi.
Dunque Spezzacolli aveva liberato Madrigal. Ma prima che Madrigal
fosse liberata, che cosa era accaduto? Che cosa ci facevano con le donne
incatenate? Con i bambini? Con tutti coloro che erano così deboli da non
riuscire a combattere?
Ah, ah, ah...
Fantasmi.
Zar ne vide uno, là in quello squarcio di cielo azzurro estivo. Lo vide
svolazzante, che si prendeva gioco di lui e lui, mesto, che si lasciava
deridere dalla sua risata perché mai, per nessuna ragione al mondo,
avrebbe smesso di ascoltare quella voce.
Fantasmi.
No, si disse, non sono in grado di sopportarlo. Non voglio andare a
Madrigal.
Come tanti, aveva pensato e sperato che Madrigal fosse solo una
leggenda. D'altro canto, era stata raccontata da una donna e le donne
sono brave a tessere la realtà con dovizia di particolari; come tutti aveva
sperato che Elaka avesse inventato gran parte delle sue storie, insomma,
le avesse arricchite di particolari, ma fosse stata, lei, l'unica, vittima di
violenza bruta.
207
Perché nessun uomo riesce a sopportare l'idea di tanta brutalità verso
la donna, perché a Madrigal c'erano le donne e i bambini di tutti.
A Madrigal c'era Sonja, sua sorella. La sorellina che aveva allevato
da solo, quando i loro genitori erano morti durante la Guerra Rossa.
Sonja aveva appena due anni quand'erano rimasti orfani e Zar di anni ne
aveva dieci, era un bambino ed era “un ometto. Il mio ometto. Prenditi
cura di tua sorella” - erano state le ultime parole di suo padre quando li
aveva nascosti nella casetta del bosco. La mamma era morta da appena
due settimane con un colpo d'ascia in mezzo alla fronte e l'uomo aveva
solo pensato di mettere in salvo i bambini, per poi andare alla ricerca di
qualcuno con cui difendere il poco che possedevano.
Il padre di Zar e Sonja non aveva più fatto ritorno.
Zar aveva fatto del suo meglio, in quel bosco. Per quasi due anni e
mezzo si erano sfamati con ciò che il bosco dava loro, aveva fabbricato
abiti rozzi per la sorellina che cresceva, l'aveva stretta nella notte
dell'inverno per proteggerla dal freddo e dalla tosse. Aveva aspettato che
suo padre tornasse.
Qualche volta il bosco veniva rastrellato, ma la loro casetta era così
piccina e così ben nascosta che non li avevano mai trovati. Avevano
pianto di terrore e sollievo quando i Soldati Rossi passavano e non li
vedevano.
Infine, i Soldati Rossi avevano terminato di rastrellare il territorio e
loro avevano atteso. Quando l'inverno giunse alle porte ed erano ormai
cinque mesi che non vedevano l'ombra di un nemico, Zar si caricò del
poco bagaglio che possedevano e si diresse con la sua sorellina di quattro
anni e mezzo per mano al centro abitato più vicino. Erano vestiti di pelli
di lepre e piume di fagiano, che erano gli animali che Zar cacciava con
più facilità. Avevano bisacce piene di frutta secca e radici; qualche pesce
di fiume essiccato ed erano scalzi perché le scarpe Zar proprio non era
stato capace di farlo.
Avevano raggiunto il piccolo villaggio di Hutye, al confine con la
Contea di Verde, e Zar aveva provato a barattare un po' del suo pesce
essiccato con del pane, che non mangiava da più di due anni. Sonja, che
non beveva latte da due anni, era una bimba vispa, ma magrissima
perché la dieta del bosco non le permetteva di cibarsi di tutto quel che
hanno bisogno i bambini.
Fu proprio davanti alla commovente solennità di quel dodicenne che
serio chiedeva pane e latte in cambio di pesce essiccato per la sua
sorellina, che il locandiere decise di offrirgli il pane, il latte, la carne
cotta al fuoco e un abito vero con delle calzature.
208
Il piccolo paese accolse i due orfani. E fu un bene che ad accoglierli
fosse quella povera gente, perché se Zar, settimane prima, quando
doveva decidere se andare a est o a ovest, avesse preso la strada verso
occidente, sarebbe stato raccolto da uno degli uomini di Weer e allevato
per diventare uno di quei ragazzi senza scrupoli e del sorriso angelico di
Sonja non sarebbe rimasto più nulla.
Invece, si era diretto ad est, spinto dal solo desiderio di vedere il
mare. Erano giunti a Hutye, aveva chiesto del latte e del pane, aveva
trovato duecento persone che li avevano accolti a braccia aperte. Il
locandiere aveva dato loro una stanzetta con due letti di paglia e lenzuola
di cotone grezzo, ma pur sempre due letti con delle coperte che una
donna del villaggio aveva fatto per loro. Poi erano state donate delle
scarpe e abiti veri; Sonja aveva conosciuto altri bambini e Zar, che aveva
l'età, aveva cominciato a lavorare nella bottega di un armaiolo come
apprendista e aiutare il locandiere Armand, che intanto li aveva
formalmente adottati.
Armand aveva preteso che entrambi i figli adottivi sapessero leggere
e scrivere e far di conto quanto gli bastasse per non venir fregati.
Sonja si ambientò benissimo a Hutye, mentre Zar non poteva
dimenticare la guerra, i genitori, i due anni e mezzo nel bosco,
abbandonato da tutti. Nella serenità di sua sorella trovava consolazione a
quel dolore fisso che sono i ricordi di una famiglia che non avrebbe mai
più avuto, di tutto quel sangue versato.
Sonja era tutto per lui. Le permetteva di prendersi gioco di lui, di
vezzeggiarlo e coccolarlo; e Zar, mesto, lasciava che la sorellina facesse.
La vedeva crescere, dimenticare la paura, la fame, il freddo, la penuria.
Sonja dimenticò la guerra.
Cominciò ad avere i primi pretendenti e suo fratello ed Armand a non
essere d'accordo che lei avesse dei pretendenti. Armand, che aveva
perduto sua moglie nella guerra, era rinato con quei bambini e si
comportava con loro come un padre. Thommas, probabilmente, sarebbe
stato felice di lui. Armand era spaventato quanto Zar della velocità con
cui Sonja stava crescendo, ma essendo adulto sapeva che era un fatto
della vita e provò a convincere Zar a cercarsi una brava ragazza,
sposarsela e mettere su famiglia. In fondo aveva vent'anni.
Non ci fu verso. Zar viveva per sua sorella ed era troppo preso dal
controllare che cattive compagnie non la prendessero per farsi una vita
sentimentale propria. Nel suo intimo, sapeva anche che rifuggiva ad una
qualsiasi relazione perché avrebbe dovuto mostrare i fantasmi del suo
passato ad un'altra persona e, se Sonja sapeva e comprendeva l'animo di
209
Zar solo guardandolo, con un'altra donna non sarebbe stato altrettanto.
No, Zar non era ancora in grado di mostrare il fianco. Forse non ne era
neppure capace.
Questa era la situazione quando gli uomini di Weer avevano assalito
Hutye.
Zar aveva combattuto senza respiro per difendere il villaggio, la
locanda di Armand, lo stesso Armand e tutti coloro che li avevano aiutati
nel corso dei dieci anni. Zar era stato un eroe, anche se Armand era
morto, anche se molti degli uomini erano stati deportati, anche se tutti i
bambini erano stati rapiti, anche se delle donne non era rimasto più nulla,
neppure il ricordo.
Sonja non era a casa quando Hutye era stata assaltata. E Zar lavorava
alla bottega. Nel caos, il fratello aveva perduto di vista la sorellina.
E dopo, dopo la disfatta, dopo la fuga con i quattro superstiti di
Hutye, Zar aveva pianto tutte le lacrime per la morte della sua piccola
Sonja. Aveva passato il suo personalissimo inferno fatto di sensi di colpa
snervanti e notti insonni a rimpiangere tutto ciò che era stato fatto e
l'errore commesso, dieci anni addietro, nell'uscire allo scoperto. Maledì
la Dea che da la vita, maledì se stesso, maledì qualunque cose gli fosse a
tiro. Finché, come succede spesso, si rassegnò alla vita e pregò per
l'anima di Sonja, che certamente stava meglio ora nei Prati Fioriti di
Thron, piuttosto che in questo mondo di merda.
Fantasmi.
Zar, come tanti uomini di Grande Regno, aveva trovato buona pace
all'idea che la donna cui era affezionato fosse morta.
Ma Madrigal. No, a Madrigal non sperava che fosse, perché
l'oltraggio dello stupro non sapeva come affrontarlo.
L' unica, indiscutibile verità era che Zar, come tutti gli altri, preferiva
sua sorella morta piuttosto che violentata e per sempre rovinata, magari
da una gravidanza indesiderata.
Zar non rispose subito alla missiva di George. Non disse nulla a
nessuno.
Due settimane dopo Mas inviò una seconda missiva per imporre di
muovere il culo e andare a Madrigal. Il tono della lettera di Mas non
ammetteva repliche e Zar fu costretto a dare il via al dislocamento delle
truppe da Ground, nella Contea di Giallo, a Madrigal.
Il morale delle truppe era alto. Zar, alla fine, non aveva avuto il
coraggio di raccontar loro delle catene.
210
2.
Jacob vide il luccichio alle spalle di Borok.
Guardava Borok, sì, ma non era lui l'oggetto della sua attenzione.
Sì, la riconobbe all'istante.
Amalia.
Jacob si scrutò attorno, umettandosi le labbra. Dov'era finita lei, ora?
Si concentrò sulla folla del mercato e la folla era concentrata su di lui;
Jacob faceva guizzare gli occhi azzurri, muovendo passi incerti in
direzione del suo accampamento.
Diamine, era sicuro di averla vista.
“Scusate” mormorò sovrappensiero quando inciampò in una donna con
il suoi due figlioletti.
“Venite qui! - la donna richiamò i bambini e li mise dietro il proprio
corpo, pronta a proteggerli - vogliate accettare le mie più umili scuse,
mio signore” sussurrò paonazza e visibilmente terrorizzata.
Jacob la fissò perplesso.
Dietro le gonne di quella madre che aveva forse ventitré, ventiquattro
anni, il maschietto di sei anni lo fissava torvo, incattivito. Era ovvio che
il bambino sapesse chi fosse lui, Jacob di Weer il Sanguinario.
Il Barone scorse le mani della madre, chiuse a pugno, lungo i fianchi,
serrate e con le nocche bianche. Non lo guardava in faccia, ma si capiva
che avrebbe dato battaglia se avesse alzato una mano sui suoi figli.
“Sono solo bambini” rispose il Barone.
“S... sì, mio signore”.
Il maschietto scoprì i denti in un ringhio, al quale Jacob rispose con
una smorfia divertita. Oh, sì, lui avrebbe difeso la sua mamma e la sua
sorellina dall'alto del suo metro scarso di altezza!
Jacob si avviò verso l'accampamento, ridendo di quel piccolo
coraggio: un giorno anche Xanatos avrebbe mostrato i denti per far
vedere che era forte?
Non lo urtò affatto il fatto che le nuove generazioni lo odiassero a tal
punto. E non si chiese affatto che cosa avrebbe pensato di lui suo figlio,
quando gli amici gli avessero detto della fama di suo padre.
Semplicemente Jacob sognava il giorno in cui avrebbe messo un'arma
in mano al suo Xanatos per insegnargli ad essere il capo, un capo che
comanda. E Rihanna avrebbe assistito agli addestramenti, avrebbe
approvato ed avrebbe offerto loro da bere quando avessero terminato
l'addestramento.
211
Fu questo sognare ad occhi aperti che gli fece perdere la cognizione
della realtà così quasi urlò quando l'alito freddo di Amalia gli soffiò sul
collo.
E lei, la pelle pallida, comparve all'improvviso nella sua visuale, per
poi scomparire in direzione di una radura appartata.
Jacob seguì il pallido viso, ricordandosi cupamente che suo figlio non
avrebbe avuto alcun futuro se prima lui non avesse sistemato quella
faccenda.
3.
George divenne inquieto.
Passeggiava per la fortezza e discuteva con gli altri sul
disboscamento che andava fatto attorno alle mura, sulle sCorte di cibo,
su quello che Elaka aveva raccontato loro – e adesso avrebbero pagato
per averla là, a ripetere ogni particolare su Spezzacolli e sulle sue
guerriere.
Non c'era un vero motivo per cui George dovesse essere così
inquieto. A Madrigal lui non aveva perduto nessuna donna, forse
conosceva ragazze del suo villaggio, ma con nessuna di loro era entrato
così in confidenza da disperarsi ora che era nel luogo della tortura. Di
certo, le poverette gli facevano pena e sapeva che quanto accaduto là
dentro era ingiusto e disumano... e quell'inquietudine?
“Che cosa c'è?” gli domandò il buon vecchio Mas.
“Non lo so”.
George si accese da fumare e si allontanò dal compagno, che stava
per indagare più approfonditamente.
Che cos'era che lo rendeva tanto inquieto?
Va bene, Zar non aveva risposto con tanta solerzia alla sua lettera, ma
non credeva possibile che Mas potesse aver ragione riguardo il capitano:
insomma, Zar, aveva paura di Madrigal?
No, era qualcos'altro.
Il giovane comandante mangiava, beveva, fumava, giocava a carte
con gli altri, lavorava per rendere agibile la fortezza, discuteva riguardo
Elaka e la notte non chiudeva occhio. Non erano passati più di dieci
giorni dal loro arrivo a Madrigal che George aveva cominciato a soffrire
d'insonnia.
La prima notte si era voltato e rivoltato sulla sua branda e solo
all'alba aveva preso sonno, per essere svegliato poi un'ora dopo.
212
La seconda notte aveva atteso un sonno che non arrivava.
La terza notte era esausto, aveva lavorato per tre, ma gli occhi non gli
si chiudevano.
La quarta notte non dormì perché era crollato addormentato quel
pomeriggio.
E così tutte le notti, gli occhi spalancati nel buio rischiarato solo dalla
luce della prima falce di luna e dalle stelle. I grilli cantavano in quel
luogo silenzioso, il vento s'insinuava nel castello e lo faceva parlare, gli
uomini lo ascoltavano e ci ritrovavano le proprie donne. Alcuni
piangevano, alcuni mormoravano risposte al vento.
I più ascoltavano, come lui.
George non aveva il coraggio di mettere piede fuori dalla sua stanza
per affrontare i fantasmi della notte – quelli degli uomini, quelli di
Madrigal -, ma all'undicesima notte l'esasperazione per l'insonnia
divenne insopportabile.
“E' che ti manca una donna” aveva sogghignato Mas.
“E' che qui ce ne sono state troppe che ora hanno smesso di essere
felici” rispose malinconico.
“...” Mas si era solo versato un goccio di grappa e l'aveva lasciato stare.
Il ragazzo era inquieto, ma chi tra loro non lo era? Vent'anni di guerra
renderebbero inquieto chiunque.
Fuori dalla sua stanza l'aria era meno soffocante, si disse George
nella prima notte di luna piena.
Respirò a fondo e si mise a passeggiare a passi lenti e silenziosi per il
corridoio, con l'intento di scendere in cortile. La luce lunare penetrava
nei corridoi dalle feritoie e dalle strette finestre dai vetri rotti. Disegnava
ombre lievi, confuse, e George finì per seguirle.
Fu così, per istinto.
Ne seguì una che scomparve non appena girò l'angolo. Allora l'ombra
si trasformò, si fuse con l'oscurità, nacque da un'altra apertura
sull'esterno ed ebbe un'altra forma. George la seguì.
Ce ne fu un'altra ancora che adesso aveva una superficie stretta, che
sembrava correre. George la inseguì e si sentì idiota perché quello era un
gioco da marmocchi, rincorrere le ombre, ma non ne poteva fare a meno.
Per la prima volta da quando era scoppiata quella nuova guerra,
sentiva l'animo leggero. Era felice.
L'ombra che aveva ora davanti ai suoi occhi somigliava ad un cane,
poi ad un gatto ed infine a quella di un topolino spaventato. L'ombra
nacque dalle sue mani, che giocarono a creare animali e cose sul muro.
Poi, l'ombra fuggì dalle sue mani.
213
George la vide plasmarsi da sé.
Il ragazzo batté le palpebre incredulo. La gola riarsa.
Stava sognando? Stava vedendo realmente ciò che si stagliava sul
muro?
Si guardò intorno attonito.
Era solo.
L'ombra si stendeva piano piano, sinuosa, spuntavano le braccia, le
gambe, il corpo armonioso.
Era una donna.
Ma che razza di scherzo è questo? - si disse il ragazzo.
Rientrò nelle sue stanze e per due giorni fu intrattabile, così Mas
mandò la missiva a Zar imponendogli di alzare quel culo e di condurre a
Madrigal le truppe.
Alla terza notte il vento chiamò il suo nome e George si tappò le
orecchie – ma a chi aveva mancato così tanto di rispetto per essere
perseguitato in quel modo?
Alla quinta notte, decise di affrontare il vento, i fantasmi, le ombre e
chiunque gli si parasse innanzi, purché lo facessero dormire.
Era agguerrito, deciso a far prevalere la sua ragione su chiunque
trovasse divertente torturarlo in quel modo. Pestò i piedi furibondo,
percorrendo i corridoi di qualche notte prima, ma si distrasse subito a
cercare l'ombra della luna: ora la figura di donna si stagliò
immediatamente sul muro.
Come lui avvicinò la mano, l'ombra si dissolse, per poi ricomparire
poco più in là. Non che gli facesse cenni o cose del genere, no.
Semplicemente, stava là, il corpo sinuoso, le braccia arrendevoli lungo il
corpo e sembrava fluttuare nella luce lunare.
George s'innamorò di quelle braccia arrendevoli, del corpo che
sembrava chiedere di essere preso e che non si poteva prendere. Perché il
problema era proprio questo: l'ombra non lo stava respingendo, lo stava
chiamando.
Cercò di toccare l'ombra... ma come si può toccare un'ombra?
Passò tutta la notte a guardare, studiare, tentare di comunicare con
essa e poi stremato si sentì prendere da un sonno pesante e senza sogni.
Finalmente dormì.
La notte successiva anziché essere spaventato o furibondo, era
eccitato. Attese trepidante che tutti fossero assopiti per uscire dalla
stanza come un adolescente innamorato, che si nasconda dagli adulti.
“Dove sei?” la chiamò con un sussurro nella fortezza addormentata e
ridacchiò di sé perché la voce aveva riecheggiato per i corridoi.
214
L'ombra comparve e di nuovo giocarono a prendersi e lasciarsi,
eccitarsi e arrendersi. George cominciò a parlarle, come se fosse stata
una persona. Perse l'imbarazzo della sua voce che si confessava nel buio
e l'ombra era vicina, mentre il giovane raccontava di suo padre, di sua
madre – una donna fluttuante quanto quell'ombra, dolce e assente,
innamorata di quel soldato che non riusciva a parlare di sé, persa per
quell'unico figlio avuto e addolorata per gli altri mai arrivati -, di Corin
e dei suoi figli, di se stesso e di quanto si sentiva teso e sfiduciato da
tutta quella situazione, così immobile.
Fu quando parlò di sé, che l'ombra parve circondarlo con braccia
leggere e sfumate. Questa volta lui non si addormentò; ma con le prime
luci dell'alba l'ombra andò dissolvendosi, la fortezza si risvegliò e lui
rimase lì. Silenzioso e malinconico.
Si sentì solo.
Per tutto il giorno fu assente e muto, non più teso, ma abbattuto. Non
lo comprese subito, ma gli mancava qualcosa. Non era il fatto di
possedere, quanto di condividere. Era la fiducia, l'onestà, la sincerità e la
totale consapevolezza di potersi affidare a qualcun altro. La
consapevolezza di non essere più soli.
Per quel giorno non ebbe fame, né sete, né voglia di giocare con le
carte. Poteva far buon viso a cattivo gioco con gli altri, ma l'unica cosa
che gli riusciva effettivamente di fare era fumare e chiedersi come
avrebbe fatto ad entrare in contatto con l'ombra. Passeggiava pensoso,
avanti ed indietro lungo il corridoio, mentre il suo posto era seduto tra i
soldati a scherzare e discutere sul futuro di Grande Regno.
“Che ha il nostro giovane eroe?” chiese uno dei soldati a Mas.
“Un male oscuro. Si chiama figa” rispose solenne l'altro comandante.
Il soldato sogghignò: “Allora io sono in fin di vita”.
“Io praticamente sono morto” convenne Mas e scoppiarono a ridere.
George, con una parte recondita del cervello, aveva sentito quelle
parole, ma era troppo preso dai suoi problemi per replicare. Gli parvero
così superficiali!
Aspettò quella notte con l'ansia.
Eccola.
La luna era al massimo del suo splendore e lei, così vivida, così
piena. Quasi tangibile.
Per la prima volta, l'ombra allungò una mano, come per toccarlo, ma
quando fu a meno di qualche millimetro, quando la pelle di George prese
fuoco, l'ombra si dissolse.
Non poteva toccarlo! Non che non volesse, non poteva!
215
Per tutta la notte, l'ombra provò a sfiorarlo; George provò a prenderla
perché quando la notte fu al suo culmine, lei era così abbagliante e ne
scorgeva i fili dei capelli, un viso sfumato con ciglia lunghe, con labbra
piene, con la linea sinuosa e sensuale del seno, del fianco. L'ombra che si
offriva, che cercava di farsi prendere.
Fu tutto inutile.
Giunse l'alba, che si portò via il suo amore.
George dovette piangere di frustrazione e dolore lacerante nel petto
per la mancanza di lei, per rendersi conto d'essere innamorato.
Ma non fu lui ad accorgersene per primo, fu Mas, quando lo vide a
colazione a capire.
“Che c'è?” berciò George con gli occhi cerchiati.
“Mi sembra di vedere Corin, ragazzo. Il dolore che ha sempre avuto lui
scritto negli occhi ora ce l'hai anche tu”.
George non rispose, ma comprese.
Corin amava sua moglie al punto di provare un dolore lacerante ed
esso gli si leggeva negli occhi.
Così quel giorno infinito, prima che arrivasse la notte, lo passò in un
silenzio mesto e rassegnato.
La luna era di nuovo luminosa e lei meravigliosa. Così la notte fu
piena di dolore e felicità, di immediato e fermo, di niente e tutto. Fino
all'alba che se la portò via e lo lasciò spossato.
Ora era infuriato verso il mondo e verso chi gli aveva imposto di
amare un'ombra di donna. Reale ma intoccabile.
Grande Hilu, strappami il cuore, ma smettila di farmi soffrire così!
Invece, Hilu non gli strappò il cuore ma glielo fece sanguinare. E la
notte fu meno luminosa per via di alcune nuvole che passarono nel cielo,
oscurando la sua donna-ombra. E soffrì, il giovane comandante, come
soffrì!
Il giorno seguente fu molto nuvoloso, in serata giunsero le nuvole
nere di un temporale e non la vide.
Credette d'impazzire.
Il mattino dopo aveva sofferto così tanto che la testa gli doleva
impedendogli di camminare, di pensare e anche di pisciare.
“Che cosa c'è, ragazzo?” gli domandò Mas, preoccupato.
“Non lo so... è che odio stare fermo ad aspettare. Non poter far niente”
rispose George abbattuto.
Mas lo lasciò stare e mandò un uomo ad intercettare Zar per sapere a
che punto fosse.
Quella notte la luna aveva cominciato la sua discesa e George si
216
accorse che lei era meno vivida, meno piena. Il terrore gli attanagliò lo
stomaco: doveva aspettare la luna per vederla? E quando pioveva? E
quando il cielo era coperto dalle nubi basse della foschia? E quando la
luna non c'era perché era nel suo corso non esserci alcune notti del ciclo?
No, non poteva più vivere così.
“Ti prego, - implorò la donna-ombra – parlami”.
Lei scosse la testa con un gesto impercettibile.
“Non puoi parlare?”
Lei scosse la testa ancora, ma George vide. E si accorse che si stava
allontanando da lui. La rincorse, folle di paura e d'amore.
“Aspetta! Aspetta...! non puoi lasciarmi...!”
L'ombra si arrestò e solo allora George si rese conto d'essere finito
sulla torretta di sud-est. Rincorrendola, si era spinto oltre il castello, oltre
il grande cortile, aveva superato la prima cinta di mura, la seconda ed
infine era salito sulla prima cinta muraria di difesa. Fuori da Madrigal
ora era diverso: non c'era più il bosco incolto che aveva protetto
Spezzacolli e le sue guerriere quando avevano attaccato, ma uno spazio
sgombro con decine di tronchi sistemati in attesa di venire lavorati per
divenire carri, ruote e quant'altro.
La notte era calda, soffocante per via dell'afa. Aveva piovuto, sì, ma
durante il giorno il calore della terra aveva fatto evaporare tutta l'acqua
ed adesso il caldo era umido. Persino là, sulla torretta esterna.
George osservò l'orizzonte buio. Non vedeva granché, ma si perse ad
immaginare qualcosa che non conosceva.
Come l'amore.
Si volse verso la donna-ombra.
“Dove devo andare per trovarti?” le chiese all'improvviso.
L'ombra mosse appena il capo e si mise di profilo. E lo sguardo immaginando che ve ne fosse uno là nel disegno del profilo – indicava
sud-ovest.
“E' là?” chiese lui.
L'ombra rimase fissa, verso sud-ovest.
George stette zitto, cavalcando nella direzione che lei gli indicava. Il
cuore galoppava nel petto, l'eccitazione saliva, gola si riempì del sapore
dolce dell'emozione.
Ora sapeva.
“Va bene. - le mormorò infine – Vengo a cercarti, mia piccola ombra
dispettosa. - le sorrise e allungò la mano sicuro, anche se lei, come
sempre, sfumò al suo contatto – Ti vengo a prendere”.
Ammirò la notte ed amò il caldo soffocante che sentiva, nel cuore e
217
nella pelle.
Dormì meravigliosamente.
Il mattino dopo, ancora con gli abiti stropicciati, andò da Mas e si
versò da bere. Lo guardò negli occhi, scolò il bicchierino di grappa e si
accese da fumare.
“Partiamo per Alto Castello. - sentenziò – E non me ne frega un cazzo
se Zar si è perso per strada. Non me ne frega niente neppure se Corin
torna qui con Mayster e compagnia bella: domani si parte per Alto
Castello e si va da Spezzacolli”.
Mas sbatté le palpebre attonito.
Era inutile replicare perché tanto il ragazzo già era uscito per
preparare la partenza.
4.
Incontrarsi in un luogo di morte.
Iniziare una nuova vita innamorandosi di lui.
Lo vide la prima notte che vagava, quando l'anima si stacca dal
corpo, quando - finalmente! - riesce a lasciarsi indietro il corpo pesante
ed ingombrante. Lo vide che sonnecchiava.
Come definire l'amore? L'attrazione?
Il corpo tanto odiato fece sentire prepotentemente il suo bisogno di
quel calore che era nato dal cuore e poi giù, giù era sceso, nella pancia,
verso le cosce, nel luogo della vita e poi era tornato su, dove la vita
viene sfamata e poi nella gola piena di emozione.
Il contatto non durò molto. Durò l'amore e la straziante
consapevolezza della lontananza. L'anima non lo sapeva in quale luogo
fosse avvenuto l'incontro e la seconda notte aveva avuto paura di non
ritrovarlo.
Il richiamo del corpo, dei sensi, era stato più forte.
L'aveva trovato.
Aveva ritrovato il viso squadrato, gli occhi chiari, le labbra sottili, i
capelli fini e soffici, le spalle quadrate e le mani che cercavano,
tenevano, combattevano. Le mani che proteggevano.
“Toccami!” avrebbe voluto gridare e, quando lui cercava di prenderla,
il corpo aveva il sopravvento e per un istante il contatto si rompeva.
Non le rimase che ascoltare i suoi racconti. Non le rimase che
contemplare i suoi occhi e rassegnarsi ad essere ombra. Lui parlava e
parlava – sì, sì, ti prego, parlami di te! Ho bisogno che mi parli, che mi
218
racconti di te, che ti affidi, che tu sia mio! - e lei ascoltava. Lui pianse e
lei pianse, perché era infuriata e avvilita.
Lo vide rassegnarsi e amarla per il solo fatto che lei esistesse, senza
sapere altro che lei era contorno.
Poi, l'anima si perse in una tempesta. E dovette volare, volare alto
per trovare la strada di casa e la strada per giungere a lui; così capì
dove si trovasse.
“Vieni a prendermi. Ti prego, ho bisogno di te” lo implorò, volgendo il
capo a sud-ovest. “Io sono qui, ti sto aspettando. Vieni a prendermi”.
“Va bene. Vengo a cercarti, mia piccola ombra dispettosa. Ti vengo a
prendere” le disse in un sussurro.
L'anima si librò in un volo d'estasi. Era felice.
Ricadde nel corpo. L'anima finalmente amò quel corpo, che ora non
era più solo. Aveva trovato la sua corrispondenza.
Giada sorrise raggiante a Rebecca.
“Sei abbagliante quando sorridi” le disse con affetto l'altra.
“Sono felice” rispose la ragazza.
5.
“Maestà”.
La voce di Amalia si perse nel vento. Forse era vento.
La sua bambina era intangibile come l'aria.
“Vieni fuori” le impose.
No, lei non venne fuori. Fu Jacob a seguirla dietro una capanna
abbandonata, diroccata, nascosta dalla fitta vegetazione e lontana da
occhi indiscreti. Il Barone non seguì la figura di Amalia, ma la sua
ombra.
Donne-ombra...
Il pensiero lo colse all'improvviso, ripensò alle parole che sua moglie
gli aveva detto tempo prima a proposito delle Donne-ombra: “Le donne
sono ombra. Quando cucinano, quando mettono al mondo i figli, quando
vi riempiono le botti e vi fanno trovare il cibo in tavola; quando fanno in
modo che gli abiti e le scarpe siano asciutti e puliti e anche quando vi
fanno passare le sbronze. Tutte le donne alla fine sono ombre: non
valgono mai più di un uomo, vengono fatte prigioniere da padri, fratelli
e mariti e poi dimenticate dai figli. Sebbene, poi, siano proprio le donne
a condizionare la vostra vita: l’amore che sapete provare, i figli che
219
sapete allevare, il modo di comandare. Solamente che sono ombre e,
quando siete stufi di loro, ve ne liberate senza tanti complimenti”.
Non si accorse che Amalia si era fermata, al riparo di un angolo
ombroso della capanna diroccata, preso com'era dal pensare a Rihanna.
In quel momento si pentì di non aver mai raccontato alla sua donna di
Amalia e delle “sue bambine” - ammesso che Rihanna già non
sapesse... -.
“Finalmente” rispose brusco alla giovane donna.
La scrutò. Era cambiata, rispetto a quasi dieci anni prima. Perché i
suoi ricordi erano così vividi, se era passata quasi una decade? Come
faceva la sua memoria ad essere ancora così fresca? Lei era diversa, ma
lui?
6.
Amalia era appena uscita dalla Casa.
Era una delle migliori, gli avevano detto. Raccolta dalla strada con
una polmonite che non lasciava scampo ad un uomo adulto, era stata
curata ed era guarita. La sua pelle pallida aveva un che di malaticcio,
sempre, ma gli occhi vigili e le mani dalla stretta formidabile
controbilanciavano perfettamente.
Amalia era una delle bambine più forti che avessero. Negli occhi
verdoni non le si leggeva nulla, era imperscrutabile. Senza sentimenti.
“Ho una missione per te” esordì il Barone, tagliandosi il lardo.
“Sono stata allevata per questo, mio signore” rispose lei atona.
“Uhm... bene. Allora, è molto semplice.”
Mangiando, ruttando e sputacchiando ciò che stava ingurgitando – il
tutto senza che lei battesse ciglio, per quanto fosse disgustoso -, le
spiegò nel minuscolo villaggio di Einaki viveva un medico. Un ottimo
medico. Fonti non ufficiali lo indicavano come un alleato fedelissimo di
John Henry e, meglio ancora, come il medico che aveva salvato la vita
di Mastro Mayster. Ora, questo signore era forse l'unico che vivesse
lontano dal grande Generale e che lo avesse visto in volto.
Il suo compito era reperire informazioni.
Il medico era avvicinabile da tutti coloro che avessero bisogno di
aiuto, ma pareva fosse un misantropo, una di quelle persone che non
parla con nessuno. E men che meno uno abituato a fidarsi.
“Non sprecherei le forze delle mie Bambine, se posso evitarlo. - le
confidò con un certo fastidio – Di tante che ho raccolto, poche si sono
220
rivelate all'altezza del compito e non mi va di sprecare le forze così...
ma, vedi, questo signor Moag di Einaki è un osso duro. Bisogna
entrargli nel cervello. E pare che le uniche persone con cui leghi siano i
suoi malati”.
Le spiegò ancora che Moag aveva un'ideale nella testa, che era la
libertà dell'uomo e la democrazia: non potevano esserci difetti peggiori.
Il fatto era che Jacob aveva già provato a pagarlo, intimidirlo e
picchiarlo pur di avere le informazioni desiderate, ma il vecchio
testardo non demordeva.
“Non posso neppure ammazzarlo, perché potrebbe avere informazioni
utili su Mastro Mayster” disse togliendosi un ossicino finitogli nei denti
giallastri.
“...” Amalia aveva aspettato che lui finisse la spiegazione.
“Il tuo compito, bambina, è quello di andare da lui ferita e in fin di
vita. Fargli pietà e stare abbastanza al suo fianco da sedurlo. Pensi di
poterlo fare?”
“Sono stata addestrata” ribatté lei impassibile.
“Bene, non dimenticartelo. Ora, veniamo alla parte che meno mi
piace: come arriverai da lui. Le tue ferite saranno reali e quindi mi
aspetto che tu sia molto forte. Non sarai sfregiata, non ti preoccupare.
Hai paura?”
“No”.
“Brava, bambina. - Jacob sorrise appena – Lo sai vero che la tua vita
mi appartiene?”
“Sì, mio signore. Voi mi avete salvato dalla strada e mi avete guarita
dalla polmonite. Mi avete dato di che mangiare, vestirmi e scaldarmi.
Mi avete dato un'istruzione ed ora la mia vita vi appartiene” recitò lei,
quasi come un litania. Ogni giorno, da quando era stata salvata dalla
strada all'età di sette anni, aveva ripetuto quelle parole, come una
preghiera.
Aveva finito per crederci.
Dopo la strada e i topi che ti camminano addosso, finiresti per
credere a qualunque cosa.
“Il tuo compito sarà quello di avvicinare Mastro Moag, di sedurlo e
convincerlo a confidarsi con te. Non ti do alcun limite di tempo, ma
pretendo che tu non fallisca. In nessun caso”.
“Non fallirò, mio signore”.
Jacob l'aveva congedata con un gesto della mano.
Amalia era uscita dalla sala senza far alcun rumore, era scivolata
lungo i corridoi del castello ed era tornata alla Casa, in attesa di nuovi
221
ordini.
Era stato Borok a dirle di prepararsi. Le impose di non portarsi
nulla, neppure un cambio, anche se da Umm a Einaki c'erano più di
quattro settimane di cammino serrato. Così Amalia aveva indossato tre
abiti uno sopra l'altro e si era messa il mantello.
Non si era chiesta cosa volesse dire il Barone con la frase “andare
da lui ferita e in fin di vita”.
Si fidava di Jacob di Weer.
Lui l'aveva salvata.
Era un dogma e Jacob un dio da venerare; l'unica legge a cui
obbedire, poiché il re John Henry era fuggito anziché pensare alla
povera gente rimasta.
Aveva viaggiato con Borok e Paul Mann senza concedersi tante
soste. Loro le rivolgevano appena la parola e lei, abituata, era
invisibile. Preparava loro i pasti, sellava le cavalcature, ma per il resto
era un fantasma.
Con il passare dei giorni smise di chiedersi quando e come sarebbe
stata sistemata per giungere “in fin di vita”.
Oh, com'era stata ingenua! Lo scoprì presto, un tardo mattino, a
meno di mezza giornata di cammino da Einaki, mentre sistemava la sua
cavalcatura.
Borok la prese per le spalle, bloccandole le braccia dietro la schiena.
Amalia aveva respirato con le narici dilatate, come una cavalla
terrorizzata. Lui le aveva alitato qualcosa nell'orecchio. Qualcosa del
tipo: “Finalmente siamo arrivati”.
La ragazza si era trovata carponi nell'erba a mangiare il fango e
gridare contro la terra il suo orrore. Stava solo implorando di fare piano
– almeno la prima volta... sono vergine... almeno una volta...
In fin di vita. Lo capì bene, ora. Lo capì bene mentre veniva
picchiata e seviziata, mentre del suo corpo facevano scempio perché
l'inganno non fosse scoperto – Quale inganno? Quel dolore era reale! -.
Il resto divenne storia.
7.
Amalia non era più una bambina, né la ragazza senza espressione con cui
aveva conversato l'ultima volta ad Umm. Amalia era una donna più in
carne e con qualcosa nello sguardo che gli ricordò Grace – Una nuova
consapevolezza? Una nuova forza? -.
222
Era chiaro che Amalia non aveva più alcuna paura di lui.
Ma cosa leggeva ancora negli occhi color verdone? Era forse rabbia?
“Allora?” ingiunse in Barone controllando a stento la voce – no,
quell'espressione non gli piaceva per niente.
“E' passato tanto tempo, mio signore. - rispose lei con tono fermo – Vi
fidate ancora di me?”
“Non dovrei?” sibilò lui.
“Mi stupisce, dal momento che mi sembrava di non essere più tra le
vostre Bambine”.
“Sei cresciuta. - berciò lui e la scrutò ben bene – e sei diventata una
bella donna. In ogni caso ti ho mandato dei doni”.
“Rammento, mio signore. Che cosa posso fare per voi?”
Il cambio repentino di argomento mandò Jacob in confusione. Tacque
un istante prima di domandare: “Le Donne-ombra. Chi sono
esattamente?”
“Se volessi giocarmi di voi, risponderei tutte. - sogghignò lei, poi
cambiò espressione quando si accorse che il Barone non aveva
apprezzato la battuta – Non mi sono giunte molte notizie. Le Donneombra sono al di là della catena montuosa, a Weast. Qui non si sono mai
fatte vedere. Noi ne abbiamo avuto notizie da una cantastorie, Elaka, che
si è fermata alla taverna per un paio di giorni quasi un mese fa”.
“Che cosa diceva questa cantastorie?”
“Poche cose rilevanti: si tratta di donne che sono fuggite da Weast e che
hanno combattuto nei boschi contro le vostre guardie”.
Jacob fece un gesto con la mano, infastidito: “Questo lo so già: dei
miei ne sono tornati tre”.
Alla notizia Amalia tacque, come se stesse meditandoci su.
“Dimmi qualcosa che non so” ingiunse Jacob sbrigativo.
Mastro Mayster è Corin di Makma. Viaggia con i suoi tre figli alla
volta del Nord, presumibilmente ad Hoss, per andare a richiamare John
Henry.
Quante cose avrebbe potuto dire Amalia a Jacob di Weer! E quante ne
omise, pronunciando queste parole: “Sulle vostre spalle strisciano
serpenti velenosi a cui voi date la schiena”.
Jacob la fissò con durezza – parlava di se stessa?
Il silenzio si fece carico di tensione. Lei non mosse un passo indietro,
nonostante il Barone pronto a saltarle alla gola.
“Che cosa intendi?” ringhiò l'uomo.
“Vostra moglie non è gradita a chi vi da consiglio, Maestà. Né a chi era
con voi sul Fiume Dorato. Adesso vi si ritiene vecchio e istupidito dalla
223
vostra progenie... Umm è in pericolo”.
“Le mie spalle sono sempre coperte”.
“Ne siete sicuro? Vi assicuro che chi mangia alla vostra tavola non è
più un servitore fedele. Presto se ne approfitterà”.
“Dove l'hai sentito?”
“Al mercato. Al mercato si parla tanto e pochi ascoltano”.
Paul Mann e Borok seduti al tavolo della locanda.
“Quando?”
“Entro il vostro arrivo a Weast la più giovane delle serpi dovrà dare una
risposta”.
Paul Mann aveva proposto a Borok di eliminarlo.
“Che altro?”
“Strisciando si può arrivare molto lontano. Anche ai piedi dell'ultimo
vincitore. Una volta eliminato anche lui, non ci sarà più nessuno ad
opporsi al trono. Un piano elementare... e quindi potenzialmente
efficace”.
Vogliono passare dalla parte di Corin... - in realtà su questo ultimo
punto Paul Mann non aveva mai fatto mistero sull'ammirazione che
provava per il Fuorilegge.
“Va bene. - Jacob aveva voglia di fumare, ma non poteva per non
attirare l'attenzione – Che cosa sai di Corin?”
A parte che è Mastro Mayster? A parte che ha tre bambini, di cui uno
dotato di potere?
“Niente” rispose troppo velocemente perché il Barone non se ne
accorgesse.
“Che cosa sai di lui?” ringhiò Jacob.
Amalia chinò la testa con umiltà. “Pochissimo, mio signore. E' vero,
l'ho incontrato più di quattordici lune fa, con i suoi figli. Non gli ho dato
alcun peso perché neppure Moag si ricordava di lui... - gli occhi bassi le
permisero di dar credibilità alla menzogna – sono rimasti un giorno ed
una notte. Poi sono andati via. Apparivano come profughi, facevano
pena. Non mi sarei mai aspettata che Corin fosse capace di tanto”.
“Che grado aveva prima?”
“Un semplice sottufficiale. Diceva di aver combattuto con Mastro
Mayster per poco più di due lune”.
“Che ruolo?”
“Per il poco che mio marito ricordava, era nelle retrovie”.
Jacob era confuso.
Corin nelle retrovie? La difesa al Fiume Dorato e la resistenza nelle
foreste di Brealle denunciavano uno stratega astuto ed esperto. Come
224
poteva essere un semplice sottufficiale? Le cose erano due: Corin poteva
aver mentito a Moag oppure doveva aver avuto un grande guerriero a
suggerire come comportarsi. Magari un grande guerriero con l'elmo
d'aquila. Ma se così fosse stato, perché Mastro Mayster non aveva
reclamato il potere a sé?
Mai, nemmeno per un istante, Jacob pensò che Amalia mentisse.
Perché aveva di nuovo il capo chino, perché il tono era flebile.
Arrendevole.
“Mi aspettavo di più” le disse asciutto.
“Qui siamo stati isolati per lungo tempo. E, comunque, il mio compito
era un altro” ribatté lei a sorpresa, stringendosi nelle spalle.
“D'accordo. Che cosa sa allora Moag di John Henry?”
“Poco o niente. Il vecchio re si fidava solo del Capitano d'Aquila ed è
solo Mayster che può condurre al rifugio. Vi posso solo dire, ma questo è
un'ipotesi di mio marito, che John Henry potrebbe trovarsi a nord”.
“Nord, dove?”
“Moag crede verso il Vallo del Ghiacciaio Azzurro”.
“Crede? O sa?”
“Vi ho appena detto che è un' ipotesi. Avete sopravvalutato le
conoscenze di Moag”.
“Lui conosce il volto di Mayster. - Jacob non poteva credere di aver
sprecato quasi dieci anni appresso a quel maledetto medico! – Te lo avrà
descritto!”
“Certo. E mi sono girata Brealle e Weast in lungo e in largo, ma non ho
mai trovato nessuno che corrispondesse a quella descrizione” a parte
Corin il Fuorilegge.
“Che notizie da Hakne?”
“Nessuna. Le ragazze che ho spedito qualche mese fa mi hanno fatto
sapere che di John Henry non ci sono notizie e che al momento il potere
è detenuto da Justine di Malle, la cugin...”
“Sì, sì, lo so chi è Justine. Una vecchia oca dal culo grosso che crede
nell'ideale di libertà di John Henry” la interruppe brusco.
“Uhm. - Amalia sembrò non apprezzare l'interruzione – In ogni caso,
Mayster non è neppure ad Hakne. E di Corin nessuno al sud ha mai
sentito parlare”.
“Dov'è Corin adesso?”
“Da Ground mi hanno fatto sapere che è partito alla ricerca di Mastro
Mayster o di un modo per comunicare con lui”.
Silenzio.
Jacob respirò una, due volte ed espirò per mantenere la calma.
225
Che cazzo di gioco era quello? Corin che era solo un sottufficiale,
nelle retrovie, sapeva dove si nascondeva il Capitano d'Aquila?
“Mi stai prendendo per il culo, ragazza” sibilò, afferrandola per un
braccio.
Amalia fu lesta, più di quanto lui non si aspettasse, e scivolò via dalla
sua presa come un'anguilla.
“Credete che faccia piacere pure a me? Mi rendo conto da sola che
queste notizie non hanno alcun senso, ma questo è quello che so e quello
che Moag sa”.
Moag.
Come se Rihanna fosse là al suo fianco a suggerire, Jacob si
domandò se Amalia potesse, in qualche modo, essersi affezionata al
vecchio medico. Così come il pensiero gli venne, così se ne andò.
Sulla strada per tornare all'accampamento, vide comparire le due
serpi.
“Continua ad indagare” le disse frettoloso, pronto ad affrontare i due
capitani.
“Quando mi salvaste, - rispose allora Amalia, cogliendolo di sorpresa –
mi diceste che avevo un debito di vita con voi. Se ascolterete le mie
parole circa Paul Mann e Borok, la vostra vita sarà salva. E il mio debito
saldato”.
Jacob rimase sbigottito.
La fissò senza dire una parola. Aveva preso dalla strada centinaia di
orfane, aveva eliminato la feccia, aveva fatto studiare quelle che
valevano qualcosa. Nessuna di loro si era mai tirata indietro.
E ora arrivava questa puttanella, che lo sfidava. A viso aperto.
“Altrimenti?” le sibilò.
“Potrei catturare i vostri serpenti” e scagliarveli contro.
Scese il silenzio.
Jacob aveva compreso. Con lucidità – con gli occhi nuovi che
Rihanna gli aveva dato – aveva compreso che Amalia amava Moag e che
non aveva più intenzione di tradirlo. E, se lui, Jacob, si fosse messo di
mezzo, avrebbe utilizzato ogni conoscenza per eliminarlo. Amalia voleva
solo la sua libertà.
Non aveva né tempo né motivo per perdere ancora tempo con lei. E,
in ogni caso, era vero: lei aveva saldato il suo debito.
“Vattene. - le ringhiò girandole le spalle – Non sei stata di alcun aiuto.
Ti sei meritata tutto quello che ti è successo, topo di fogna. Ora sparisci”.
“Ho saldato il mio debito” insistette lei con ferocia.
Jacob non rispose. Ovvio, aveva ragione lei. Ma non riusciva ad
226
accettare che una delle due Bambine si ribellasse. Lui era il Padre.
Silenzio.
Jacob si volse.
Pretendeva un segno di riconoscenza per la sua magnanimità.
Lei era scomparsa senza una parola od un sospiro. E lui solo.
227
CAPITOLO 13.
1.
Per Mas fu difficile spiegare agli uomini l'urgenza di George di lasciare
Madrigal per Alto Castello: neppure lui aveva capito che diavolo
passasse per la testa del ragazzo. Tuttavia, non disse di no ed aveva i suoi
motivi:
“A questo punto sono convinto che Spezzacolli possa essere andata
verso sud, magari ad Hakne o Alto Castello” spiegò ai due tenenti che
avrebbero dovuto a questo punto custodire Madrigal fino all'arrivo di
Zar.
“Se fossi nei panni di Spezzacolli andrei fino ad Hakne passando da
Tulle” replicò uno dei due uomini.
“Sono d'accordo”.
Mas e l'impaziente George lasciarono Madrigal in un mattino di piena
estate, con l'idea di passare per Tulle e scoprire dove si fosse diretta la
compagnia di Spezzacolli – ed eventualmente capire quanti fossero
sopravvissuti alle sevizie della prigionia.
Viaggiare con George, ansioso ed euforico per qualcosa che non volle
raccontare era snervante per un uomo alla giornata come Mas. I due, che
non avevano mai viaggiato da soli, cominciarono una convivenza forzata
che al terzo giorno li portò a discutere anche della sola andatura del
cavallo. E si permisero di discutere proprio perché, fintanto che furono
entro i confini di Weast, non incontrarono anima viva.
Weast era florida e pacifica. Senza esseri umani.
Attraversarono campi e grandi frutteti abbandonati, vissero con ciò
che la terra generosa aveva dato loro e che gli uomini non avevano colto.
Se questa solitudine totale non diede alcun fastidio a George, perso nei
suoi sogni ad occhi aperti, a Mas mise non poca inquietudine.
La natura era così ricca... e loro gli unici a poterne godere. Ci furono
mattine, quando il sole dell'alba estiva è dello stesso colore dell'oro e la
brezza è fresca, che il guerriero dovette battere le palpebre incredulo: gli
sembrava di essere nei Prati di Thron. Il silenzio, gli animali così vivi, i
colori così vividi, la terra così ricca di cibo che non pareva vero.
Erano in tempo di guerra?
In due, viaggiavano più veloci e lasciarono Weast in poco meno di
228
dieci giorni di cammino serrato.
Entrarono nel territorio di Gras. Dovevano costeggiare le Paludi
malariche di Gras per entrare nel territorio di Tulle. Lì l'aria salubre era
pesante ed umida, non si respirava e, nonostante non fossero all'interno
della palude, le zanzare non davano loro tregua.
“Schifosissimi insetti!” imprecò George al mattino, quando al posto di
fare colazione fu lui la colazione per le zanzare.
Con uno schiaffo sul proprio braccio già coperto dalla casacca di tela
leggera, Mas ne uccise una e sospirò: “Allora conviene darsi una mossa”.
“Che posto di merda” borbottò il giovane comandante, rinunciando a
cuocersi un pezzo di carne secca per mettersi subito immediatamente in
marcia.
Sotto il sole implacabile dell'estate e con il tormento delle enormi e
innumerevoli zanzare che li tormentavano, i due uomini procedettero
senza concedersi neppure un momento di pausa. Nonostante tutto, non
riuscirono a lasciare Gras.
Era molto più grande di quanto non pensassero.
Ne vennero fuori solo dopo altri quattro giorni di cammino ed al
primo villaggio in cui fecero sosta, furono costretti a fermarsi presso una
guaritrice perché curasse le infinite bolle che avevano sulla pelle.
Addirittura, George era stato punto in pieno viso ed aveva un
sopracciglio gonfio come se lo avessero pestato in tre.
“Signora, sapete nulla di una grossa compagnia di donne e bambini
passata di qui questa primavera?” chiese Mas alla brava donna.
Quella, stupita, lo fissò come se fosse impazzito tutto in una volta.
“Donne e bambini? Ma che dite?”
“Sì. Ci hanno detto di una grossa compagnia di donne e bambini,
provenienti da Weast e diretta verso sud”.
“No, no, non è possibile. - la donna scosse la testa con vigore – Vi dico
che non è possibile. Insomma, avrebbero dovuto fare la vostra stessa
strada e dubito che i bambini ce l'avrebbero fatta. Ma di chi state
parlando?”
“Spezzacolli”.
La donna sorrise di quel nome, come se fosse una burla.
“Spezzacolli?”
Mas non le rispose e si accese la pipa, meditabondo.
Spezzacolli non era affatto passata di lì. Da dove era passata allora?
Al villaggio constatarono che nessuno sapeva dei saccheggi e che,
anzi, le parole dei due forestieri erano dettate dalla follia. La guaritrice
poi diffuse quanto si erano detti con Mas e la gente prese a deriderli ed
229
indicarli non appena mettevano il muso fuori dalla sua piccola casa.
Quanto a George, nonostante l'occhio gonfio e il malessere diffuso in
tutto il corpo per le numerose punture, girò per il villaggio e dintorni. Il
suo sguardo si posava su ogni fanciulla, donna sulla ventina che gli
attraversava la strada.
Cercava.
“Vedete qualcosa che vi piace?” lo stuzzicò un giorno la guaritrice.
“No, no. - George appariva abbattuto – E' solo che sto cercando una
persona che ho...” perso? Smarrito?
Andò a finire che lasciò la frase a metà e gli occhi della donna si
illuminarono di idee romantiche e romanzesche.
Non appena furono in grado di riprendere il cammino, i due pagarono
la guaritrice e se ne andarono. Entrambi tacevano le loro considerazioni
su Spezzacolli: era chiaro che non era passata di là, quindi l'ipotesi era
che si fosse addentrata dentro Tulle. Il problema era, questo punto, che
poteva essere passata dalla padella alla brace, vista l'alleanza del Conte
con Jacob di Weer.
Oppure poteva essere tornata verso Weast ed essere passata attraverso
Leman. Di nuovo in territorio nemico.
“Dici che Spezzacolli fosse tanto ingenua?” era George.
“Non lo so. Conosceva Madrigal, quindi una parte di me esclude che
possa essere stata tanto superficiale. Però, può essere stata solo molto
fortunata” rispose l'amico.
“Mh” George non sapeva che pensare. Il fatto era che Leman aveva già
delle simpatie per Weer al termine della Guerra Rossa e questo era un
fatto risaputo; Spezzacolli ne doveva essere al corrente.
Vollero evitare il confine con Gras e si addentrarono nella Regione di
Tulle. I villaggi erano presidiati dalle guarnigioni, anche se tutto pareva
tranquillo. In più di un'occasione i due viaggiatori furono fermati e fu
chiesto loro di fornire una spiegazione per il loro viaggio, poiché
sprovvisti di carico da commercianti e armati con spade di buona fattura.
“Mercenari?” chiese uno dei caporali masticando tabacco di timo
azzurro.
George lo guardò dall'alto del suo grado. Gli occhi chiari del ragazzo
gelarono il caporale, che si rese conto di essere dinanzi ad un ufficiale –
tutto in George denunciava il fatto che lo fosse, le spalle fiere, il modo di
camminare, di tenere l'arma, di parlare.
“Siamo diretti a sud” si limitò a spiegare.
“Passerete per la Capitale?”
“E' possibile. Porteremo i saluti al Marchese”.
230
Quando George rispondeva così, difficilmente si sentivano delle
repliche. Ciononostante venivano controllati fintanto che non se ne
andavano; alcune volte furono seguiti per quasi una giornata.
“Sanno chi siamo?” si stupì George.
“Siamo soldati e non siamo dei loro” replicò Mas.
“Di Spezzacolli che cosa ti hanno detto?”
“Niente, come al solito. Non è passata di qui”.
“Elaka?”
“Mai sentito parlare. Probabilmente la nostra brava narratrice sapeva
che Tulle non era sicura e si è diretta nelle regioni di Nord. E tu, hai
trovato quello che cercavi?”
George scosse la testa, muovendo le braci del loro fuocherello. Il
compagno non chiese nulla, nonostante fosse proprio il comportamento
del giovane a destare più sospetti: se ne andava in giro alla ricerca.
Sembrava un segugio in cerca della preda e, dal modo in cui scrutava
ogni donna sul suo cammino, doveva essere proprio una donna.
L'estate volgeva al termine e cominciarono le vendemmie. Come tanti
uomini, i due si sedettero sulle panche a fissare estasiati le gambe delle
ragazze che pestavano l'uva. Sedevano e bevevano, commentando le
annate, i nobili signori, le guerre, il re fantasma e la cugina, alla fine più
evanescente di John Henry.
“A questo punto tanto vale allearsi con chi è più forte” considerò l'oste,
che si era seduto al tavolo con i suoi ospiti.
“E quello per cui avete combattuto finora?” chiese George, dominando
la propria voce.
“C'era qualcosa per cui combattere. Ora guardate un po': ci siamo
arrangiati per undici anni senza di lui e siamo sempre qui. Forse un po'
meglio, perché le tasse non le versiamo più ad una Corte invisibile ma a
soldati che vediamo qui, ogni giorno”.
Mas bevve del vino e si astenne dal dire che, sì ora c'erano i soldati,
ma che non erano lì per proteggerli. Una di quelle mattine si sarebbero
svegliati e quegli stessi militari cui offrivano di che mangiare e bere, li
avrebbero deportati verso un luogo non ben precisato avrebbero rapito le
loro donne per farne delle vacche da riproduzione e avrebbero addestrato
i loro figli perché combattessero venerando Jacob di Weer.
Era chiaro che parlare di libertà là era solo fiato sprecato – Gli
uomini vedono solo ciò che rende i loro letti caldi, piatti abbondanti e
otri pieni. La libertà è per coloro che vedono oltre ciò che è evidente.
Il loro viaggio li portò verso la città-capitale del Marchesato di Tulle,
complice una strada sbagliata e qualche burlone che si era divertito a
231
dare le indicazioni errate. Da un lato fu un bene, perché si accorsero che
là, vicino alla città, alcuni villaggi riportavano notizie di Spezzacolli – le
stesse che Elaka andava raccontando per il Grande Regno. La gente,
comunque, ne parlava con leggerezza e sorrisi di comprensione,
inteneriti da quella leggenda.
Mas e George avrebbero voluto descrivere Madrigal, le piccole
tombe, le catene delle sale, i fantasmi che richiamavano gli uomini.
Quella non era leggenda. Quella era realtà.
Si limitarono ad ascoltare, annuire e omettere particolari del loro
viaggio a chi chiedeva della loro meta. Certo era che i soldati
cominciarono ad essere più sospettosi, i gradi di molti di loro erano più
alti e George era una testa calda: litigare fu facilissimo. Mas pagava i
locandieri per evitare di indagare, ma una o due volte fu necessario
nascondersi per evitare la galera “preventiva”.
Adesso qualcuno sapeva chi fossero Mas di Leman e George di
Brealle, i capitani di Corin il Fuorilegge. Mas era un nome comune ed
anche George, ma Mas più George erano una coincidenza di troppo.
L'autunno fu clemente le prime due settimane, poi il freddo si fece
pungente e la nebbia del mattino avvolse il mondo, preparando la natura
per la quiete ed il sonno invernali. Dormire all'addiaccio divenne
difficile, soprattutto a causa delle prime piogge. Si rifugiarono nei fienili,
nelle grotte, ma non poterono evitare i villaggi.
Il denaro scarseggiava e cacciarono qualche lupo e qualche orso per
venderne la pelle e comprarsi di che mangiare e dormire. Una sera Mas
tornò con una donna, vicina di casa della locanda, e George dovette
cedere la camera e dormire nella sala principale, sulla sedia scomoda, ma
davanti al fuoco scoppiettante, mentre fuori la pioggia cadeva incessante.
Non ce l'aveva con Mas, sapeva benissimo che una donna molte volte
può essere il rimedio a tante malattie degli uomini; era malinconico e
nostalgico.
Da quando aveva lasciato Madrigal, non l'aveva più vista.
Sognava la sua donna-ombra tutte le notti. La cercava in ogni donna
che incontrava e scopriva un nuovo universo, fatto di piccoli particolari
che non aveva mai notato: i capelli raccolti, le piccole rughe sfoggiate
con noncuranza, labbra mordicchiate perché apparissero più gonfie e
lucide, sfumature fatte con il carboncino dei cerini per sottolineare lo
sguardo, gli occhi persi, gli occhi a terra. Le donne, creature mutevoli e
sfuggevoli.
Le guardava le altre, e provava una disperata nostalgia di lei.
La rivide un'unica volta e fu proprio davanti a quel fuoco, mentre il
232
suo compagno di viaggio si scaldava con una donna mai conosciuta.
George rivide la sua donna-ombra uscire dalle fiamme, stagliarsi sulla
parete alle sue spalle e finalmente rizzare la schiena in quella che doveva
essere la sua altezza effettiva. La sua silhouette era armoniosa,
bellissima, da passarci le mani come se scivolassero.
“Oh...!” a George mancò il fiato in gola, nel vederla così maestosa, così
perfetta.
Lei allungò la mano.
George chinò il capo, aspettando la sua carezza.
Un alito caldo, di fiamma e di fuoco lo sfiorò e, quando alzò lo
sguardo, lei era scomparsa.
Fuori la pioggia cadeva incessante e lui l'ascoltava, che andava al
ritmo del proprio cuore.
2.
Era inutile dire quanto Jacob di Weer si sentisse un idiota in quel preciso
istante.
Procedeva a passi lenti e ben misurati alle spalle dei suoi due capitani
– i serpenti traditori.
Era stato un idiota ed un ingenuo a pensare che Amalia avrebbe
servito la causa per sempre, soprattutto dopo le torture subite. Il fatto che
dopo più di sette anni non avesse fatto ritorno ad Umm avrebbe dovuto
fargli capire che, tutto sommato, tra lei e Moag c'era qualcosa. Il
vecchiaccio aveva dimostrato di avere un cuore d'oro e di essere capace
di amare profondamente.
E neppure questo era stato previsto.
La vera idiozia di Jacob era stata non ascoltare le parole di sua
moglie: nascondendosi per dei mesi non aveva ottenuto nulla, se non il
disprezzo di chi collaborava con lui. Ed ora ne pagava le conseguenze.
Certo, di Paul Mann aveva sempre avuto il sospetto, ma Borok era
poco più di uno scemo armato, quasi sempre troppo ubriaco per capire il
senso della realtà. Restava il fatto che adesso la congiura – perché di
quella si trattava – era reale.
Avrebbero cercato di ammazzarlo.
Il Barone era alle loro spalle, ma i due non se ne accorsero. Jacob
possedeva lo straordinario dono della leggerezza, suo padre aveva
insistito per fargli apprendere l'arte della discrezione. E gli aveva
insegnato a non avere amici.
233
Jacob aveva compiuto uno sbaglio enorme con quei due figli di
puttana: si era fidato. Pur sapendo che erano solo degli opportunisti,
aveva lasciato correre, perché era convinto che mai lo avrebbero tradito.
Di Amalia aveva un solo rammarico: aver permesso al tempo di
passare e non averla tolta prima da Einaki. Era stata un'ottima spia, ma si
era perduta nella quotidianità della vita a due; Amalia aveva fallito come
spia quando aveva capito di avere un futuro. Aveva fatto progetti ed
aveva capito che la vita non era solo vincita e sconfitta.
Che la vita è fatta per essere vissuta, con le mille battaglie di ogni
giorno.
Jacob provò una nostalgia lacerante di Rihanna. Aveva così voglia di
parlarle! Di confidarsi! Di sentirsi al sicuro.
Rihanna adesso non c'era, anche se a lui mancava come l'aria. Adesso
sua moglie era in pericolo e lo era anche Xanatos. Ed era la
consapevolezza di essere lui, il padre ed il marito, la causa del pericolo.
Lui e la sua superficialità.
3.
“Una buona nottata?” chiese con un mezzo sorriso George, quando vide
comparire Mas per la colazione.
“Uhm, non mi lamento” l'amico si versò del succo di frutta.
“Non mi sembri entusiasta”.
“Alla mia età mi posso permettere di dire che non è stato granché. Alla
fine era solo apparenza”.
“Freddina?”
“Un pupazzo di neve”.
George non replicò. Sapeva che c'erano uomini che apprezzavano
partner immobili durante l'amore, anche se non smetteva mai di chiedersi
come facessero a sopportarlo. Aveva avuto qualche esperienza amorosa
e, nonostante tutto, non aveva ancora capito come riconoscere una donna
attiva da una passiva. Probabilmente non sapeva che quasi tutti gli
uomini del mondo avevano lo stesso problema.
“Tu? Passato una buona nottata?” domandò allora Mas, imburrando una
fetta di pane.
“Mi sono rilassato davanti al fuoco”.
Fecero un'abbondante colazione e ritirarono la loro roba. Dopo aver
pagato, Mas fece un cenno a George di fare il giro largo: non aveva
intenzione di rivedere l'amante.
234
“Sono ancora dentro?” dietro la locanda tre uomini in divisa si stavano
fumando una sigaretta.
Mas e George rimasero immobili, ad ascoltare senza farsi vedere.
“Sì. Il vecchio si è scopato Emma”.
“Ed è riuscito a scrollarsela di dosso?”
“Che ne so? Antonyo mi ha detto che mi avrebbe avvertito appena se ne
fossero andati”.
“Siamo sicuri che siano loro?”
“Sì, uno dei nostri ha riconosciuto quello più giovane. Pare che sul
Fiume Dorato si sia scatenato, il giovane capitano... un bambino alle
giostre”.
“Bastardo. Dobbiamo portarli vivi a Tulle?”
“Questi sono gli ordini”.
Uno di loro, rimasto muto fino a quel momento, espirò il fumo e
considerò laconicamente: “L'importante è portarli vivi”.
Mas fece un cenno con la testa a George di allontanarsi. Non avevano
bisogno di sentire altro, era sufficiente quello. Far procedere i cavalli
silenziosamente fu difficile, il suono degli zoccoli sul selciato attirò
l'attenzione delle tre guardie.
“Merda” sibilò George sguainando la spada.
Una fitta pioggerellina cominciò a cadere, rendendo la superficie del
vicolo scivolosa. Mas estrasse la daga e si mise dietro l'angolo, mentre
George si allontanava con le bestie.
“Chi c'è...?” i tre uomini accorsero.
Mas allungò un piede, facendo inciampare il primo di loro che
giunse. Poiché doveva svoltare l'angolo, questi perse facilmente
l'equilibrio e rovinò a terra battendo il mento. Fu allora che Mas si
mostrò agli altri due, menando un fendente a quello più vicino, il quale,
per schivarlo, andò a battere contro l'ultimo di loro. In pratica, finirono
tutti e tre gambe all'aria senza che Mas dovesse combattere.
“Guardali un po'... tre coglioni” sogghignò George nel vedere la scena.
“Alza il culo” impose Mas saltando in sella e spronando la bestia al
trotto – che era il massimo che potevano ottenere in pieno centro
cittadino.
Lasciarono la città sotto una pioggia ora scrosciante e cavalcarono
per tutta la giornata in direzione sud-ovest, ovvero prendendo l'unica
strada secondaria che incontrarono. Il terreno era fangoso e le impronte
degli animali al galoppo rimanevano ben in vista; tuttavia dovettero
evitare la strada principale che avrebbe potuto avere altri posti di
guardia.
235
Si nascosero nel sottobosco e condussero le bestie in una piccola
radura.
“Leviamo la nostra roba” disse George.
Scaricarono le bestie del bagaglio e se lo caricarono sulle spalle, poi
diedero una poderosa pacca ai fianchi degli animali perché si
allontanassero liberi. Facendo attenzione a non imprimere le proprie
impronte sul terreno, i due uomini si nascosero nella boscaglia.
George notò una piccola altura e strisciò sulla terra bagnata per
raggiungere la cima di essa; sotto si vedeva la strada. Erano ben nascosti
dalle piante e sufficientemente riparati per poter aspettare l'arrivo delle
guardie di Tulle.
Non dovettero attendere tanto: da lì a meno di due ore giunsero una
dozzina di uomini, armati fino ai denti.
“Dove sono andati”? chiese quello che pareva essere il loro capitano.
“Ci sono due cavalli più a nord, ma non hanno né sella, né bagaglio”
rispose uno degli uomini, forse un giovane caporale.
“Si sono allontanati nel bosco. Aspettiamo la notte: dovranno accendere
un fuoco per scaldarsi. Dubito che siano andati lontani”.
Mas e George si scambiarono un'occhiata. Quel capitano non aveva
tutti i torti, ma sottovalutavano le capacità dei due capitani di Corin il
Fuorilegge. I due fuggiaschi strisciarono nel sottobosco per svariate
centinaia di metri, prima di mettersi a correre, carichi delle selle e dei
bagagli.
Mas e George marciarono per ore sotto la pioggia battente, la foresta
li proteggeva, ma era anche vero che il picchiettio delle gocce sulle
foglie colorate dell'autunno copriva gran parte degli altri rumori. Calò la
notte e si nascosero in un buco tra due rocce, che coprirono con alcuni
pezzi di corteccia, felci e muschio. Utilizzarono grossi ciocchi per
accendere il fuoco e nascosero il fumo con il muschio appena più
asciutto: in questo modo crearono un po' di brace con cui scaldarsi.
Barricati com'erano sarebbe stato difficile individuarli nella notte.
Stabilirono i turni di guardia ed il primo toccò a George.
Il giovane capitano guardava la foresta addormentata, il proprio fiato
che si condensava nell'aria fredda ed umida dell'autunno.
“Sai che penso?” disse infine, sapendo che Mas ancora non dormiva.
“No, che pensi?” rispose infatti l'altro.
“Spezzacolli è andata ad Alto Castello. Ed il fatto che abbiamo perso
tempo a cercare notizie su di un percorso alternativo è stata un'emerita
stronzata”.
“Cosa ti fa pensare che sia andata là? Nessuno sul confine di Tulle l'ha
236
vista passare”.
“Avrà fatto in qualche modo”.
“Pensi sul serio sia passata per Gras?”
“Ha liberato Madrigal. Neanche quello ci pareva possibile. Non
perdiamo altro tempo e andiamo ad ovest, ad Alto Castello”.
“Che cosa ti aspetti di trovare laggiù?”
La donna-ombra fuggì in mezzo alla foresta. George batté gli occhi,
come se questo bastasse per condurla a sé. Lei era già sparita.
“Non lo so. - il dito che indicava nella direzione di Alto Castello – E'
istinto”.
“Come vuoi. Ora fammi dormire”.
George passò un'altra notte insonne, gli occhi gli bruciavano, ma
voleva vederla. Anche per un solo istante, ma vedere il suo amore. Forse
era l'essenza dell'amore, non avrebbe saputo dirlo. Non aveva neppure
idea di che cosa fosse l'amore, sapeva solo che sonno e spossatezza non
potevano impedirgli di rimanere sveglio per intravederla anche solo un
secondo.
Gli sarebbe bastato quello.
Mas lo trovò addormentato quando stava albeggiando. Attese che la
bruma del mattino si alzasse e lo lasciò riposare, domandandosi che cosa
stesse accadendo al ragazzo spudorato e temerario, ora silenzioso ed
introverso.
Lo chiamò due ore dopo e si rimisero in marcia. Non si scambiarono
una parola, impegnati com'erano a stabilire quale fosse la direzione
giusta da prendere per ritrovare la strada che conduceva ad Alto Castello.
Oltretutto dovevano procedere nel bosco per evitare le guardie di Tulle e
finirono con il perdersi.
Vagarono per il bosco per quasi una settimana, per sbucare infine,
esausti e bagnati fino alle ossa, sulla strada principale e lastricata che
conduceva a Tulle.
Erano tornati indietro di moltissimo, il confine con Gras non era
lontano. Solo alla fine della giornata trovarono un manipolo di case e
chiesero ospitalità a quello che era il capo della minuscola comunità.
L'uomo vide le selle e non vide i cavalli.
“Dove sono le bestie?” chiese loro, tenendo fermamente il suo forcone.
Mas scosse la testa, rispondendo: “Siamo stati assaliti e ce le hanno
rubate”.
“E le selle?”
“Ci stavano inseguendo, abbiamo dovuto lasciarle libere e poi le hanno
portate via”.
237
“Siete mercenari?” il contadino sembrò sul punto di colpirli.
George intervenne con un gesto stanco della mano.
“Aspettate, signore. Non siamo mercenari, ma mercanti di ferro e armi.
In qualche modo, sì, lavoriamo con le armi. Abbiamo lasciato il nostro
carico e stavamo tornando indietro. Mio zio è di Leman”.
“Leman? E' lontano da qui” s'intromise un anziano, comparso alle
spalle del contadino.
“Mio padre” presentò brusco l'uomo.
“Piacere” salutarono i due avventori.
“Leman è dall'altra parte di Hakne. Che ci fate qui?” indagò l'anziano.
“Commerci. Da queste parti comprare il Marmo Nero è più economico
che là” replicò Mas senza scomparsi.
“E dov'è il Marmo Nero?”
“Insieme alle bestie”.
“Cioè, avete salvato le selle, ma non il Marmo Nero?” si stupì il
contadino.
George evitò di guardarlo negli occhi. Il contadino lo prese come
segno di imbarazzo, il giovane capitano come un modo per raccontare
meglio la frottola. In ogni caso funzionò.
“Il carico non abbiamo avuto modo di nasconderlo bene ed è stato
facile trovarlo. In fondo, siamo solo armaioli, non soldati”.
“Lasciali entrare, Gabriel. - fece l'anziano – sono innocui. Non sono
mica guardie”.
Il figlio sbuffò e li fece passare.
Entrando in casa – finalmente un po' di tepore! -, George ebbe modo
di lanciargli un'occhiata incuriosita. L'anziano fece cenno con il mento di
andare a scaldarsi, ma era evidente che aveva qualcosa da aggiungere.
4.
Jacob fissava le due serpi traditrici abbuffarsi alla sua tavola.
Li osservava senza distogliere lo sguardo, ormai dimentico di Amalia
e della sua esistenza misera. Gli occhi azzurri, piccoli, gelidi anche se un
po' acquosi non si staccavano dalle mani unte di Borok e dalla bocca
piena e trasudante grasso del pollo arrosto di Paul Mann.
Facevano schifo.
Lui, faceva schifo.
Aveva la bocca dello stomaco stretta in una morsa, ma non era paura:
era disgusto e rabbia. Di quella livida, gelida ed allo stesso tempo di
238
fuoco. Se avesse voluto, avrebbe potuto tagliare la testa ad entrambi con
un colpo di spada; addirittura avrebbe potuto schiacciargliela, quella
testa di merda.
Ma no, non era quello che voleva.
Li voleva sentire dichiarare la propria colpevolezza.
Le sue mani enormi erano appoggiate con i pugni chiusi sulla tavola,
l'avambraccio forte era teso. Se Paul Mann o Borok avessero fatto
attenzione a quel particolare, avrebbero capito. Ma loro non guardarono
quelle mani: alzarono gli occhi nei suoi.
Borok parlò con la bocca piena, succhiandosi le dita con rumori
disgustosi: “Non mangiate?”
“No”. Tono di voce duro, glaciale.
“Non è di vostro gradimento?” indagò Paul Mann, ruttando.
Voi non siete di mio gradimento. “Ho mangiato prima”.
“Prima, quando?” insistette Paul Mann.
“Prima” ringhiò Jacob sfidandolo.
Paul Mann si strinse nelle spalle e e finì il pasto. I due sembravano
porci al trogolo, i loro nasi sfioravano la superficie del piatto e si
pulivano le dita unte sulla tovaglia e sui calzoni, lerciandoli. Con
risucchi rumorosi tracannarono quasi due litri di vino rosso durante il
pasto.
Paul Mann si pulì la bocca sulla manica della giacca.
“Beh, siete silenzioso” notò.
“Vi stavo guardando”.
Borok alzò lo sguardo sul Barone e calò un silenzio improvviso.
Borok smise di mangiare.
Paul Mann rimase con il bicchiere a mezz'aria.
Fuori dalla tenda i grilli frinivano in una serata d'estate.
Jacob non distolse gli occhi azzurri dai loro.
Paul Mann posò il bicchiere sul tavolo e volse lo sguardo verso
l'entrata della tenda.
“C'è qualche problema?” gli chiese.
“Dovrebbe?” gli occhi del Barone erano su Borok.
L'uomo si agitò visibilmente sulla sedia.
Paul Mann rifuggì lo sguardo: “Qui è tutto tranquillo, non capisco
che cosa ci siamo fermati a fare. Tutto qui”.
“Che cosa vuoi sapere?” Borok cercava di attirare l'attenzione di Paul
Mann muovendosi sulla sedia e Jacob non schiodava lo sguardo da lui;
Paul Mann gettava occhiate di fuoco al compare.
“La vuoi piantare di ballare su quella sedia? - infine Paul Mann perse la
239
pazienza con Borok e poi, rivolto a Jacob – Volevo solo sapere se volete
fermarvi a lungo, mio signore. Così faccio sistemare la vostra tenda”.
“No, non ci fermiamo a lungo. - rispose il Barone. Fece una pausa –
domani mattina ripartiamo”.
“Bene”.
Paul Mann fece un cenno con la mano, che si congedava ed uscì dalla
tenda.
Jacob rimase solo con Borok.
Lui era diventato pallidissimo, chino sulla tavola fino a far entrare la
faccia nel piatto.
Per cinque minuti abbondanti Jacob rimase a fissarlo senza mai
distogliere gli occhi chiari; per cinque minuti abbondanti Borok era
scivolato sotto la tavola con su scritto in faccia la propria colpevolezza.
Jacob sapeva.
Alla fine il Barone fece uno scatto con la testa, un segno che Borok
doveva alzare il culo ed andarsene.
L'uomo sgattaiolò fuori sotto lo sguardo glaciale di Jacob. Traditore.
5.
I due fuggiaschi percorsero un breve corridoio ed entrarono in una grossa
stanza fumosa, dove vivevano la moglie del contadino e i loro sei figli, di
età compresa tra i due ed i diciotto anni. Due delle figlie dell'uomo
avevano tredici e quindici anni ed arrossirono fino alla punta delle
orecchie quando videro il giovane capitano.
Il padre le occhieggiò malamente e la madre le spedì in camera loro
con due manate al sedere.
George respirò l'aria secca e fumosa della sala, che vedeva la vita
dell'intera famiglia: lì infatti si mangiava, si accoglievano gli ospiti, nei
mesi più freddi ci si dormiva, a scapito della privacy, ma sicuramente più
al caldo.
“Sedetevi” impose la moglie del contadino, una donna dai fianchi
robusti e mani lavorate quanto quelle del marito.
Mas si tolse il mantello bagnato, gli stivali e si sedette dinanzi al
fuoco. George, più intimidito, cercò di aiutare la donna e tentò di trovare
un posto dove la sua roba non desse troppo fastidio. Ma lei fu brusca:
“Siediti e bevi quel vino”.
Il giovane si sedette finalmente e le gambe ringraziarono per la sosta
davanti al fuoco. I muscoli gli tiravano da bruciargli, tanto aveva
240
marciato. Il vino che bevve era ad alta gradazione alcolica, così divenne
paonazzo.
Dopo aver ingerito la bevanda a stomaco vuoto e coccolato dal tepore
del fuoco, George non si accorse del trambusto di quella famiglia, che si
stava dando da fare per mettere su una tinozza di acqua calda per un
bagno. Un'ora dopo, lui e Mas furono sbattuti in una stanzetta attigua più
umida e meno calda dell'altra, e con la vasca da bagno piena. Vestiti
asciutti erano stati messi su di una sedia vicino al fuoco: appartenevano a
Gabriel ed al maggiore dei suoi figli.
Mas non fece complimenti, si spogliò e si mise nella vasca. Il bagno
caldo e poi dopo i vestiti asciutti gli diedero un sollievo immediato.
Quando fu il turno di George, si levarono risatine dietro la porta. Le
due ragazze adolescenti stavano spiando i due fuggiaschi ed avevano
trovato interessante il corpo asciutto e teso del giovane capitano.
“Hai un pubblico da soddisfare” ridacchiò Mas.
“Sono poco più che bambine” sorrise non senza imbarazzo George.
“La più grande è in età da marito. - Mas si accese la pipa,
miracolosamente asciutta – Ma forse tu hai già una donna, eh? Cosa ti è
preso, ragazzo?”
“Diciamo che ho un'idea di donna” ammise il giovane.
“Un' idea? Che diamine vuol dire?”
“Sei mai stato innamorato?”
“Centinaia di volte” sogghignò l'altro uomo.
“Centinaia? Sei sempre il solito esagerato. Forse una dozzina” lo
schernì George.
“Bimbo, dovevi ancora nascere che io già mi scopavo tua nonna”.
Argomento chiuso. I due risero e le due piccole spie compresero che
l'aitante biondo ospite aveva abbandonato il cuore in un luogo a loro
inaccessibile. Se solo avessero saputo che quel luogo era inaccessibile a
George stesso!
La cena con la famiglia di Gabriel fu piacevole, ma si tirò un sospiro
di sollievo quando i sei figli furono nei letti e gli adulti poterono
discutere.
L'anziano padre versò loro della grappa.
“Come mai commerciate Marmo Nero?”
“Mi pare una domanda ovvia” ribatté Mas accendendosi la pipa.
“Non c' è da combattere” insistette l'anziano.
“Dite di no? A Leman non si combatte di certo: il nostro signore ha
siglato l'alleanza con Jacob di Weer”.
“Anche Tulle è con Weer. Ma questa non è guerra”.
241
Mas evitò di rispondere, ma George, cullato dal liquore e dal calore
del fuoco, non tenne la bocca chiusa: “Come la definite, allora?
Un'amicizia?”
“Che cosa intendi, ragazzo?”
“...niente”.
Mas aveva lanciato a George un'occhiata di fuoco.
“Forse dai credito alle voci che girano?” l'uomo anziano sorrise di
sbieco.
Intontito dall'alcol, George non trattenne l'espressione curiosa: “Che
voci?”
“Riguardo ad alcune razzie a Weast. Pare che nell'intera Contea vi siano
stati dei rastrellamenti e che donne e bambini siano stati deportati”.
“Weast non era alleato di John Henry?” borbottò Mas.
“Oh, tanti erano alleati di John Henry quando faceva il sovrano. Adesso
dobbiamo allearci con chi può garantirci da mangiare”.
“Tulle lo fa?”
“Tulle ha schierato i suoi uomini. E, tanto, prima o poi li beccano...”
“Beccano, chi?” era George.
“I fuggitivi. Era stato divulgato un emendamento che imponeva
l'obbligo di dimora per un censimento. Tulle aveva bisogno di sapere
quanti abitanti ci fossero per stanziare le truppe... sul confine con le
montagne di Alto Castello diverse centinaia di persone se la sono data a
gambe. Dicono che ad Alto Castello ci sia chi li difende da Weer il
traditore, a nome di John Henry”.
Appena ebbe pronunciato queste parole, nella sala scese un silenzio
totale, interrotto dal crepitio delle fiamme.
L'anziano li scrutava con una luce severa negli occhi, Mas buttò giù il
suo liquore. George era troppo rincoglionito per capire il gioco del loro
ospite.
“Voi che ne pensate?” chiese infine Mas.
“Che era gente con qualcosa da nascondere. Un po' come il Marmo
Nero mollato nel primo posto che capita”.
Silenzio.
Crepitio delle fiamme.
L'anziano si alzò dal suo posto ed uscì dalla stanza. Restò via per
circa venti minuti; quando fece ritorno nella sala con il figlio ed il
maggiore dei suoi nipoti, non c'era più nessuno.
I bicchieri di grappa erano rimasti abbandonati sulla tavola; quello di
George ancora a metà.
“Le stalle” impose subito Gabriel al figlio.
242
“Si sono portati via l'asina” annunciò il ragazzo di ritorno dalle stalle.
“Non andranno molto lontani con un'asina” berciò il vecchio padre.
“Spero se ne vadano all'inferno” borbottò Gabriel e fece un cenno al
suo ragazzo di tornare a dormire, perché per un'asina non era il caso di
alzare un polverone. Non erano ricchi, certo, ma un'asina non aveva un
elevato valore come un cavallo e potevano rimpiazzarla.
Fuori aveva ripreso a piovere ed una nebbia fitta si era alzata dalla
terra calda. George evitò di guardare Mas, mentre fuggivano. Adesso
comprese che cosa avessero dovuto provare le donne in fuga, la paura
costante e l'ansia di ogni passo. Si sentì vulnerabile.
6.
Jacob era curioso di sapere come lo avrebbero ucciso. Lo avrebbero
avvelenato? Con una pugnalata alle spalle? Chi dei due lo avrebbe
tenuto? E chi avrebbe scagliato il primo colpo? A chi questo onore?
Su quello non aveva dubbi: sarebbe stato Paul Mann il primo a
sferrare il colpo. D'altro canto, Borok era buono solo per agire alle
spalle. Era un folle bastardo, ma senza palle.
Se invece avessero deciso di strangolarlo? Sarebbe stato curioso
vedere come avrebbero potuto strangolarlo vista la sua mole. E dopo?
Che ne avrebbero fatto di lui? L'avrebbero smembrato?
Magari, codardi com'erano, avrebbero atteso la notte per...
soffocarlo? Pugnalarlo? Tagliargli la gola?
Quanti metodi di omicidio e tortura aveva insegnato loro nel corso di
quegli anni? Li aveva avuti attaccati alle gonne per una dozzina d'anni,
quante cose aveva condiviso con loro?
Coglioni – pensò sprezzante. Per una dozzina d'anni, giorno dopo
giorno, aveva aspettato quel momento. No, non si era mai fidato di loro
ed ora era contento che quel viscido verme di Joseph fosse al di là
dell'Oceano per non doverlo ammazzare.
No, non si era mai fidato di nessuno.
Che bugiardo. - una vocetta dentro di lui urlò, facendolo sobbalzare –
Di Rihanna ti sei sempre fidato.
Aver scoperto di amare non faceva che tormentarlo: la mente era
annebbiata dai milioni di miliardi pensieri e sensi di colpa per qualcuno
che non fosse lui... un delirio, se si teneva conto che Jacob non aveva
mai amato e protetto nessuno a parte la sua persona.
...come dimenticare lei, nuda, indifesa, i capelli sciolti, morbidi, sul
243
seno enorme, infinito di madre e donna, il corpo accogliente, gli occhi
intelligenti, gli occhi attenti, gli occhi che vedevano e capivano, gli
occhi coraggiosi.
Diamine, ma milioni di miliardi di sensi di colpa valevano un solo
momento passato con lei e con suo figlio Xanatos tra le braccia.
Amalia aveva detto che entro Weast Borok avrebbe dovuto dare una
risposta; Jacob conosceva il suo pollo: avrebbe detto qualcosa a poca
distanza da Weast. Non si sarebbe sbilanciato prima e, quando lo avesse
fatto, sarebbe stato tardi e rischioso per mettere in atto la congiura.
Detto questo, rimaneva Paul Mann: lui non avrebbe aspettato, né avrebbe
esitato o rimandato. Bisognava ammettere che il bastardo era dotato di
un po' di sangue freddo. Non abbastanza però da affrontarlo faccia a
faccia.
Poteva e doveva giocare d'anticipo.
Si alzò dal tavolo senza aver toccato cibo ed uscì nella notte più
scura, avvolto nel mantello nero. Anziché sortire dall'ingresso principale,
sorvegliato da due guardie, uscì dalla parte posteriore della tenda e si
confuse con la notte estiva.
Non c'erano nuvole e la luna era al suo primo quarto – in quel
momento un giovane uomo correva dietro ad un'ombra della sua anima
eppure così estranea -; si portò dietro delle armi e delle funi, le nascose
in luoghi diversi del bosco che sorgeva limitrofe alla città – e dove Corin
si era fermato con i suoi figli durante la fuga da una Makma incendiata
e dalla sua vita sognata.
I bastardi traditori non avrebbero avuto scampo.
Tornando alla tenda si chiese perché fosse tanto infuriato. In fondo
non doveva essere così importante, se lo aspettava, il tradimento. Era
strano che tutta la storia fosse andata avanti tanto a lungo.
Davanti alla sua tenda, vide una giovane puttana risistemarsi il
corpetto e intanto tendere la mano ad una delle due guardie per avere
quello che le spettava. Nascosto nell'ombra, Jacob ascoltò i tre che
discutevano della contrattazione; alla fine i due si arresero e le diedero
ben dieci monete di bronzo.
A Jacob uscì, involontario ed incontrollato, un grugnito di disgusto.
Lo videro e lo salutarono, le due guardie non poco imbarazzate: “Uno
di noi comunque era sull'attenti...” provarono a balbettare.
Lui aveva occhi solo per la prostituta. Una ragazza sulla ventina, già
senza qualche dente e i capelli arruffati, che non vedevano l'acqua da
moltissimo tempo. L'abito sgualcito e sozzo copriva appena l'indecente,
che lei mostrava con orgoglio.
244
“Il nostro signore questa sera vuole compagnia?” gli domandò con voce
nasale ed ammiccando con volgarità, la lingua appena sporta sulle
labbra.
“Da te prenderei solo le pulci. Levati dalle palle” le rispose gelido.
Lei alzò le spalle, senza accennare ad alcun disappunto per l'offesa.
Se ne andò ancheggiando verso il fuoco centrale dell'accampamento per
trovare nuovi clienti. Le due guardie la osservarono incedere.
“Con quel culo fa resuscitare i morti” sogghignò uno dei due uomini
all'altro.
“Vedremo quando avrai la sifilide se quel culo ti piace ancora”
rimbeccò il Barone.
I due si zittirono e Jacob si accese la pipa, senza entrare nella tenda.
Guardava il buio e l'accampamento e pensava sua moglie. Pensava a lei
come non voleva assolutamente pensare.
La sua donna aveva fatto le stesse cose. La sua donna aveva
succhiato, allargato le gambe, si era stesa e si era piegata, messa a
carponi e chissà in quante altre centinaia di posizioni per far godere un
uomo e poi contrattare il pagamento della prestazione.
Quel pensiero era come un dardo infuocato, conficcato nel petto e
girato e rigirato con la sadica lentezza che solo un buon boia possa
conoscere. Era una dolore ed una rabbia che non aveva mai conosciuto e
che non sapeva gestire. Che non poteva gestire.
Per il semplice fatto che la Rihanna-Puttana non poteva affatto essere
la Rihanna-Moglie. Ciononostante non poteva dimenticare come lei si
fosse presentata, come lei avesse preteso il pagamento dopo averlo fatto
scopare, là, sul trono, davanti a tutta la sua Corte.
Ma come, come poteva la sua Rihanna, dagli occhi intelligenti, dalle
guance color porpora e dall'espressione sgomenta di chi prova il piacere
per la prima volta, essere la stessa che si vendeva per la strada per
sfamarsi?
Sarebbe stato immensamente più semplice se lei fosse stata mossa
solo dall'avidità e dalla bramosia accettare quel passato. Sarebbe stato
più semplice se fosse stato solo. Solo e tradito.
Aspirò rabbiosamente il fumo.
No, cazzo, non ne poteva più di raccontarsi le favole: poteva pure
essere che in quei dodici, tredici anni passati insieme i suoi due capitani
non avessero sviluppato nei suoi confronti sentimenti di amicizia e lealtà,
ma, porca puttana, almeno un minimo di rispetto! Quanto meno per i
campi di battaglia, per le donne che si erano spartiti, per tutte le volte che
aveva premiato la loro testa matta che li aveva portati alla vittoria!
245
Maledizione, ci era rimasto come una merda!
Va bene, si disse. Vada per i due stronzi traditori... ma lei? Lei lo
aveva tradito, lo aveva preso per il culo? E se fosse tornato ad Umm ed
avesse scoperto che lei era stata con un altro? Che aveva riservato gli
stessi mugolii caldi per un altro uomo?
Le due guardie non parlavano, ma lo scrutavano con la coda
dell'occhio, senza capire perché non entrasse nella tenda - non erano
stati abbastanza svegli da chiedersi quando lui ne fosse uscito.
Dentro la tenda i due traditori aspettavano che entrasse per tagliargli
la gola. Poteva sentire il respiro rantolante di Borok e quello più lieve di
Paul Mann che cercava di trattenere la frenesia. Li conosceva bene, lui, i
traditori, gli invidiosi.
Una delle poche lezioni che il suo vecchio gli aveva lasciato: se non
possono essere come te, allora faranno di tutto per distruggerti. Alla
Corte di John Henry ne aveva avuto la riprova.
Pensò a Rihanna. Pensava sempre a Rihanna ora. Se fosse stata lì in
quel preciso istante gli avrebbe detto che sarebbe stato più opportuno
entrare dall'uscita secondaria della tenda e sorprendere i due traditori. Se
lei fosse stata lì, né Paul Mann né Borok sarebbero stati presenti.
Rihanna li evitava e ora, solo ora, si rese conto del perché sua moglie si
fosse rifiutata di accompagnarlo: temeva per l'incolumità del loro
bambino.
Forse Jacob avrebbe risparmiato loro la vita, se i due bastardi
avessero smesso di deridere la sua famiglia alla nascita di Xanatos.
Avessero almeno avuto l'ipocrisia di partecipare alla gioia della nascita
del principe!
Perché Rihanna l'aveva incantato così?
Espirò il fumo, sentendosi bruciare dentro.
Ti piacerebbe che ti avesse mentito, eh? Ma lei non l'ha fatto. - la
solita vocetta lo assordò – Tua moglie non ti ha mentito. Tua moglie ti ha
implorato di continuare, di darle piacere... perché l'avrebbe fatto, se non
ti amasse?
Perché è una puttana – rispose lui.
Ma no, non era la verità. Quella era la verità degli uomini codardi
come Paul Mann e Borok; la verità degli uomini onesti era che Rihanna
non era una puttana. Era lui che era un coglione. Per non averla ascoltata.
Ci fu un rumore. Un altro. Passi nella tenda. Un sussurro che fu
un'imprecazione. I due traditori scapparono dalla tenda come ratti,
mentre lui, Jacob di Weer, aspirante sovrano al trono di Hakne, restava
fuori a fumare e asciugarsi il viso dalle lacrime di amore e delusione che
246
non avrebbe mai pensato di versare.
Per una donna che amava e per quelli che, nonostante tutto, aveva
pensato fossero amici.
7.
L'autunno si fece inoltrato e cominciarono a vedere i primi cieli scuri da
neve sui rilievi montuosi. La cosa non piacque per niente ai bambini, che
della neve ne avevano abbastanza. Corin spiegò loro che era normale,
avevano passato le settimane calde al nord e quindi l'estate era finita
anche ad Hakne. Invero, andava detto che per percorrere via nave le
miglia che li separavano dal porto della Regione di Fillin ci avevano
messo molto più di quanto non avessero impiegato all'andata. Il motivo
era presto detto: le correnti estive avevano favorito la navigazione verso
nord, mentre ora andavano in senso contrario. I rematori ci mettevano la
stessa lena, ma la stagione era diversa.
John Henry osservava le coste della sua terra con occhi lucidi e
acquosi. Era silenzioso e mesto; era comprensibile la sua sofferenza per
un ritorno senza vittorie.
Fu quando il capitano della nave cominciò le manovre di attracco che
il re parlò al suo Primo Generale:
“Sai, Mayster, per dieci anni ho pensato che sarei tornato qui con
Esterella al mio fianco, magari con un neonato o due al seguito. Per dieci
anni ho sperato di tornare alla vita, di tornare ed essere più forte.
Pensavo che, quando avessi finalmente toccato di nuovo il mio Regno,
sarei stato in grado di appendere la testa di Jacob di Weer su di una
picca. Ho sperato in una seconda giovinezza, come se starmene rintanato
nelle viscere della terra potesse fermare il tempo.
“Invece, figliolo, il tempo non si è fermato. Lo hanno fatto le mie
illusioni. Qui tutto è meravigliosamente vivo e vero e, maledetto me,
amo questa vita. E questi anni di attesa sotto terra mi hanno convinto di
essere morto. La cosa peggiore di tutto questo è che non sono
ringiovanito dentro, che non ho le forze per combattere... mi sento solo
un vecchio stanco e spaesato. Come un carcerato che venga rimesso in
libertà: il mondo è andato avanti e io sono qui, immobile, anacronistico.
“Ho paura, sai? Che ne è stato del Regno che conoscevo? E degli amici
fedeli? E degli ideali della libertà e della democrazia? A che cosa
credono ora i nostri ragazzi? Alla Dea Hilu o al potere della supremazia
fisica e dell'avidità?
247
“Vorrei capire quando sono diventato così vecchio. E di mia figlia
Giada, che Hilu la protegga, che cosa so? Che donna sarà diventata?”
Mastro Mayster non diede alcuna risposta. Si limitò ad appoggiare la
mano possente sulla spalla ricurva del suo signore, ne colse la fragilità,
ne percepì il profondo senso di sconfitta. Dentro il guerriero bruciava la
rabbia per quella rassegnazione ed allo stesso tempo provava pena e
comprensione per il suo sovrano. John Henry stava invecchiando.
Corin seguì il profilo delle prime montagne dalle cime imbiancate.
Rebecca, sono tornato. E tu, dove sei?
248
CAPITOLO 14.
1.
La fuga dalla casa di Gabriel fu accompagnata da una pioggia intensa,
che fece cadere le foglie dagli alberi. Mas e George si resero conto che
l'inverno era più vicino di quanto non avessero previsto e decisero di
proseguire il cammino con un ritmo serrato, quantomeno per essere ad
Alto Castello per il Solstizio d'Inverno. Era preferibile che trovarsi in
mezzo alla neve senza un rifugio.
A Tulle viaggiarono braccati. Mille occhi potevano seguirli ed i
confini erano battuti dalle guardie, così dovettero inventare centinaia di
stratagemmi per sottrarsi alla cattura. Addirittura era stato emanato un
bando che imponeva ai cittadini di consegnarli, previa lauta ricompensa.
Per un istante Mas contemplò l'idea di tornare a Madrigal, ma George
non era disposto a fermarsi.
Doveva andare ad Alto Castello.
Accompagnati dal tempo instabile dell'autunno, i due viaggiatori
camminarono finché le suole degli stivali non furono consumate e poi
furono costretti a rammendarli da sé, visto che non potevano avvicinarsi
ai villaggi. Si strinsero in piccole grotte e sotto i mantelli per far fronte ai
primi freddi e finalmente il paesaggio cominciava a cambiare.
Non era solo il paesaggio a cambiare.
Non appena giunsero più a sud, sul confine con la Regione di Alto
Castello, notarono una desolazione a loro ben nota: i villaggi erano
pressoché deserti ed i segni delle razzie erano evidenti.
C'erano cadaveri a terra, ma con sollievo notarono che erano di meno
di quelli di Weast e Brealle. La gente di Tulle doveva essere stata
avvertita.
Spezzacolli?
Solamente dopo quattro giorni riuscì loro di scovare una capanna ben
nascosta nel bosco ed abitata da una vecchia, quanto scontrosa,
guaritrice. Prima ancora che i due parlassero, lei li fece tacere con un
gesto secco della mano e mise le mani attorno al collo.
“Fai 'AH'” impose al giovane.
Lui obbedì e lei guardò la gola.
“Hai la gola un po' rossa e sei pallido, di questo passo ti piglierai un
249
febbrone” decretò e lo spinse in casa.
Gettò uno sguardo a Mas e gli disse: “Te, stai bene”.
“Le nuove generazioni non sono come quelle di una volta” sogghignò il
guerriero.
“No, è che se anche fosse, te sei troppo vecchio per guarire. Sarebbe
tempo sprecato” ribatté la guaritrice.
George si piegò in due dal ridere.
“Allora, che volete sapere?” chiese loro la donna mentre pestava delle
erbe per il decotto da dare a George.
“Che cosa è successo ai villaggi?” era Mas.
“Gli uomini di Tulle hanno attaccato. Un paio di villaggi sono stati colti
alla sprovvista, però sono riusciti a dare l'allarme. La maggior parte della
gente è riuscita a mettersi in salvo. - li occhieggiò e imbronciò le labbra
con una smorfia – Ma per voi due questa non è una novità. Di dove
siete?”
“Weast” Mas rispose d'istinto e George si stupì di tanta confidenza alla
donna.
“Sì, mi hanno detto che a Weast sono cominciate le razzie. Mi hanno
anche detto di Madrigal... grazie alla Dea, Spezzacolli è riuscita a
fermare lo scempio”.
“Conoscete Spezzacolli?”
“Non personalmente, ma qui tutti abbiamo saputo che si è fermata ad
Alto Castello perché era il posto più sicuro per i profughi provenienti da
Weast. E' stata lei a dare l'allarme sulle deportazioni. Tanto per cambiare
quei rincoglioniti degli uomini hanno pensato che dicesse una fesseria... la vecchia batté il coltello con durezza sul tavolo, gli occhi le si
riempirono di lacrime – Se le avessero dato retta, solo in parte, tante vite
sarebbero state salvate. Avete un'idea del numero di innocenti che sono
morti?”.
Mas e George si scambiarono un'occhiata avvilita e rassegnata.
Sì, lo sapevano quanti innocenti stava mietendo la guerra. Quanto la
folle sete di potere di Jacob di Weer e degli altri nobili stesse devastando
la vita di ciascuno di loro.
La misera capanna fu riempita dai rumori secchi che produceva la
vecchia, mentre era impegnata a prendersi cura degli avventori.
I due non si fermarono a lungo, ma la vecchia brontolona si prese
cura di loro in modo impeccabile e si congedò con parole affrettate, ma
affettuose.
Fu Mas a stringerle la mano: “Perchè non siete ad Alto Castello?
Potrebbe essere pericoloso qui per voi”.
250
“Qualcuno deve rimanere qui per i poveri disgraziati come voi. O come
i tanti che ho visto passare. E poi io sono vecchia, non sono più capace di
adattarmi altrove. Ora sparite e tu, ragazzo, curati quel mal di gola
perché altrimenti glielo attaccherai alla tua innamorata al primo bacio”.
Mas scoppiò a ridere e con un sorriso divertito baciò la guancia della
donna. “Abbiate cura di voi”.
A poche ore di distanza dalla capanna della guaritrice, i due
commentarono quanto saputo: dunque era vero che Spezzacolli era ad
Alto Castello, ma non era passata per l'interno di Tulle, bensì solo in
quella parte del territorio che era già della Regione di Alto Castello. Era
improbabile che avesse compiuto il giro largo, passando per Leman, ma
l'unica strada ancora percorribile appariva come un fatto impensabile.
“Le Paludi di Gras?” ribadì George.
“Non so che dirti. Se così foss...”
“Ma che razza di...?” George lo strattonò per un braccio.
Davanti a loro alcune delle guardie combattevano con delle... ombre.
2.
Mas e George rimasero basiti dinanzi alla scena.
Delle ombre combattevano con degli uomini di Weer.
I due capitani di Corin il Fuorilegge dovettero trattenere il fiato per la
sorpresa assoluta.
Una pioggia di dardi ben calibrati e mirati, proveniente dalla foresta –
non avrebbero saputo descrivere in altro modo quel che stava avvenendo
-, aveva costretto gli uomini del Barone a proteggersi con gli scudi sulle
teste e, prima ancora che potessero rendersene conto, furono affrontati
dalle ombre della foresta.
Ombre che avevano voci di donne e che incrociavano il metallo con il
metallo con rabbia e ferocia. Erano organizzate, erano addestrate ed
erano equipaggiate con armi differenti tra loro: le spade erano meno
spesse, meno pesanti e meno lunghe di quelle convenzionali. E non
erano neppure corte daghe, che sarebbero state svantaggiose in quello
scontro.
Le Donne-ombra attaccavano in due, entrambe ai fianchi degli
uomini e solo una, si accorsero, combatteva sola. Ma era lei a dare gli
ordini. Che erano pochi e comprensibili solamente da coloro che erano
state addestrate.
Gli uomini che cercavano rifugio dietro gli alberi vennero trafitti da
251
dardi lunghi e precisi, ma nella confusione né Mas né George riuscirono
a formulare un solo pensiero.
Era rimasto solo un uomo in piedi nella radura e il capo delle Donneombra lo stava affrontando in un balletto mortale. Era bassa e veloce,
sfuggevole come se fosse stata ricoperta di olio; utilizzava la foresta per
ripararsi e mimetizzarsi. Le sue compagne – anche se Mas e George non
se ne accorsero affatto – erano nascoste nel sottobosco, invisibili.
“Dove sei...? - ringhiò spaventato la guardia di Weer – Fatti vedere...!”
Arrivò un colpo frontale ed un secondo dopo era alle spalle; nel
compiere la torsione la guardia lasciò scoperto il fianco e lei lo infilzò e
poi girò la lama con un suono agghiacciante, truculento. Lui urlò da far
tremare la terra e lei sfilò la spada dalle sue carni con uno scatto.
Mas e George rabbrividirono fino a sentire la pelle accapponarsi.
Quando il soldato fu piegato sulle ginocchia, lei sferrò fulminea il
colpo alla gola e gliela tagliò.
Tutto questo in meno di tre minuti.
La foresta taceva. I due uomini di Corin sentirono il proprio cuore
battere nei petti.
La Donna-ombra era immobile in mezzo ai morti, ma erano troppo
lontani, ed a tratti lei pareva un elemento del bosco.
Mas fece segno a George di procedere. Fecero rumore di proposito
per essere visti da lontano ed avanzarono con le mani ben in vista, a
chiarire che non avevano intenzioni bellicose.
Una freccia si piantò con precisione millimetrica a pochi centimetri
dai loro piedi.
“Fermi” impose una voce.
Alzarono gli occhi sulla donna-ombra e compresero che a parlare non
era stata lei. Cercarono la presenza di qualcun altro sui rami degli alberi,
ma non videro nulla o forse videro tutto. Difficile a dirsi: il bosco era
fitto e, nonostante gli alberi semispogli, l'intrico dei rami era come un
muro.
La Donna-ombra si fece loro sotto.
George batté gli occhi incredulo: non gli arrivava che al petto!
Lei lo fissò con occhi del colore della foresta estiva, di smeraldo e
grigio, occhi capaci di strappare l'anima.
“Spezzacolli possiede gli occhi della foresta” - aveva raccontato loro
Elaka. Avevano sempre pensato che fosse una metafora per indicare che
lei conosceva la foresta a menadito. Invece era inteso nel senso letterale
del termine.
I due pensarono immediatamente a quel particolare, ma un conto era
252
avere un'idea della sua identità, un'altra era la conferma della sua
identità. Fino a prova contraria Spezzacolli per loro era stata solo una
presenza.
La Donna-ombra li scrutava senza dire una parola. Portava vestiti su
cui erano cuciti rami, foglie e muschio del sottobosco invernale; sulla
testa un copricapo di cuoio che aveva lo scopo di impedire agli avversari
di appigliarsi ai capelli ed era armata di una spada fatta su misura per le
sue proporzioni. Ad Alto Castello dovevano avere un mastro armaiolo
dalle grandi capacità per progettare e forgiare quell'arma. Del resto del
volto della Donna-ombra si capiva solo che aveva il viso tondo e
lineamenti regolari; fuliggine, terra e fango nascondevano tutti i tratti
non si riusciva a capire di che colore avesse le sopracciglia.
All'apparenza sembrava una donna minuta, fragile, ma aveva spalle
alte e fiere, il portamento del comandante.
A George ricordò Jesse e quel suo modo di affrontare il padre.
“Chi siete?” domandò loro con un po' di fiatone. Si stava ancora
riprendendo dallo scontro e non poterono immaginare che era rimasta
sorpresa della loro venuta, pensando che fossero nemici.
“E voi?” era George.
Un'altra freccia si conficcò ai loro piedi, questa volta più vicino.
“Non siete nella posizione per fare domande” ribatté lei glaciale.
“Io sono Mas di Leman. - rispose il più vecchio – E lui è George di
Brealle. Veniamo da parte di... - i due si scambiarono un'occhiata:
Spezzacolli sapeva di Corin? - Da parte del legittimo re” terminò la frase
il più giovane.
“Quale re?”
“...!” i due non seppero che rispondere. Era Spezzacolli, no? O no...?
Lei rimase impassibile dinanzi alle loro facce perplesse e d'istinto i due
pensarono di trovarsi davanti ad una delle donne di Spezzacolli.
“Siate cortese, - insistette George – diteci il vostro nome”.
Alle loro spalle uno degli uomini che pensavano morti si lamentò con
un ululato ferino.
Lei alzò la mano verso i due nuovi venuti, che aspettassero e tornò al
ferito. La videro girarlo prono, puntarsi per terra con un ginocchio,
afferrare saldamente la testa del ferito e con un movimento preciso la
storse.
Crack!
Il rumore del collo che si ruppe li fece indietreggiare con un singulto
in gola. Era stato terrificante.
Lei fece ritorno da loro e la videro allungare le labbra in uno
253
sberleffo: “Allora, signori, chi sono io?”
3.
Un'ora all'alba.
Jacob di Weer aprì gli occhi di scatto, i sensi all'erta.
Nel campo il silenzio era totale. I grilli avevano smesso di frinire
perché la notte era finita e le cicale non si erano ancora svegliate.
Un'ora all'alba. Il momento di agire.
Era seduto nell'angolo più scuro della sua tenda, con indosso il
mantello nero. Nella notte i due traditori erano tornati per colpirlo a
morte nel letto, ma non lo avevano trovato e se n'erano andati
bisbigliando bestemmie.
Jacob avrebbe potuto colpirli, ma quella notte di ascolto gli aveva
fatto capire che Paul Mann e Borok avrebbero trovato aiuto, se avessero
cercato di ucciderlo.
Uscì dalla tenda avvolto nel mantello e respirò l'aria fresca del
mattino estivo. Il campo era avvolto nel silenzio più assoluto: i fuochi
erano bassi, le guardie ubriache dormivano e anche le puttane che si
erano arricchite nella notte. Quella che si era proposta a lui ora dormiva
tra due sguatteri e senza molto pudore la sua gonna era tirata su oltre le
anche.
Un'ora all'alba. Era quello il momento migliore per agire perché il
sonno degli uomini era profondo.
Percorse lo spazio che lo separava dalla sua tenda a quella dei due
capitani. Un altro motivo di scontento era stata la volontà del Barone di
obbligarli a dividere la tenda; ma se erano insieme, sarebbe stato più
facile sorvegliarli.
Fuori dalla loro tenda rimase ad ascoltare il respiro. Borok russava,
Paul Mann ansimava appena, ma regolarmente e questo gli confermò che
stava dormendo. Dovevano aver passato gran parte della notte ad
attendere di poterlo aggredire e, non trovandolo, avevano optato per
un'altra occasione.
Silenzioso, Jacob entrò nella loro tenda. Si avvicinò alla branda di
Borok.
“Ehi, sveglia” gli sussurrò, quasi con un tono paterno.
“Eh...?” il capitano si passò la mano sul volto, istupidito dal sonno.
“Sveglia. Vi devo parlare nel massimo riservo”.
“Ora arrivo” Borok si mise il braccio sugli occhi ed un secondo dopo
ronfava di nuovo.
254
Jacob era soddisfatto. Borok era abbastanza cotto da non riuscire a
reagire. Si avvicinò alla branda di Paul Mann.
“Sveglia” impose con durezza.
Paul Mann, con più anni di esperienza alle spalle, aprì gli occhi di
scatto. Il rossore delle pupille confermò a Jacob che non riposava da più
di un'ora, un'ora e mezza. Per quanto sembrasse presente, era chiaro
quanto fosse confuso da quella sveglia.
“Che cosa succede?” domandò subito il capitano.
“Ho avuto delle notizie interessanti. Ma qui non possiamo parlare. calciò con violenza la branda di Borok e lo fece ruzzolare per terra –
Coglione, alzati. Quante volte ti devo chiamare?”
Borok cercò carponi i propri stivali, gli occhi socchiusi per via del
sonno.
“A...arrivo. - balbettò – Porca puttana, ma che cazzo succede ora?”
Jacob perse la pazienza e lo tirò su per la collottola. L'altro era
riuscito a mettersi solo uno stivale. Il Barone fece finta di guardarsi con
circospezione nel campo addormentato e segnalò ai due di seguirlo.
Paul Mann cominciava ad incuriosirsi. Che cosa stava succedendo?
Jacob non disse nulla, ma affrettò il passo.
Doveva finire tutto prima dell'alba.
Borok era troppo insonnolito per capire qualcosa; obbediva e basta.
Zoppicava per via del fatto che aveva un solo stivale, ma non sembrava
preoccuparsene. Paul Mann lo seguiva tentando di capire che cosa stesse
succedendo.
“Di qua” sussurrò il Barone, indicando la radura.
Paul Mann si volse indietro. Il campo era un punto. Erano saliti di
qualche centinaio di metri in altezza. L'aria era fresca, si respirava a
pieni polmoni, prima che la giornata si facesse calda ed afosa. Il cielo era
violetto, oltre i monti il sole cominciava la sua ascesa.
Anche Jacob si volse a scrutare il campo. Dormivano ancora tutti.
Bene.
“Che cosa...?” provò a chiedere Paul Mann.
Ma Jacob mise un dito sulla bocca, facendo segno di tacere. Erano
quasi arrivati.
A meno di venti metri dalla radura, il Barone lasciò loro il passo e
controllò che nessuno li avesse seguiti.
“Perché siamo qui?” domandò per l'ennesima volta Paul Mann,
accendendosi da fumare. L'acciarino brillò in quell'anticipo di alba.
“Dovevo parlarvi” rispose il Barone con il tono piatto di chi da una
risposta scontata.
255
“Perché tutto questo segreto...?”
Jacob questa volta alzò la mano, come a dire di attendere ad
aggiungere altro.
Passarono alcuni minuti di tensione nel silenzio del bosco ancora
addormentato.
Borok ridacchiò nervosamente: “Oh, qui mi sto pisciando addosso”.
Si girò verso l'albero più vicino e si mise ad orinare.
Paul Mann fumava ed era incazzato nero. Jacob li stava prendendo di
nuovo per il culo. Era l'ennesimo capriccio. Si fumò la sua sigaretta con
l'intento di cercare di calmarsi. La finì, la schiacciò sotto il suo tacco. E
finalmente alzò lo sguardo sul suo signore.
Con gli occhi chiari, fissi, cupi, Jacob lo scrutava.
Paul Mann vide quello sguardo.
Vide e mandò giù quel po' di saliva che non gli si era seccata in gola.
Jacob sapeva della congiura.
4.
I due uomini fecero qualche passo verso Spezzacolli, ormai sicuri che
fosse lei. Furono fermati da una guerriera alta un metro e ottanta, che usò
il proprio arco come bastone e s'interpose.
“Nessuno vi ha dato il permesso di avvicinarvi” disse raggelante. Il
tono era quello del comando ed evidentemente era abituata a farsi
ascoltare.
Mas, quello più alto in grado, la fissò dall'alto al basso, ma non
ottenne alcun risultato. Alla guerriera non fece alcuna impressione.
Oltre ad essere alta, aveva spalle atletiche, larghe e occhi grigiochiaro di un animale indomabile, incattivito. A differenza di Spezzacolli
portava i capelli liberi dal copricapo di cuoio ed erano una massa
leonina, castano chiari, con una lunga coda che arrivava fino in vita. Una
pettinatura che su un'altra donna sarebbe stata ridicola su di lei calzava a
pennello. Era originale, unica. Ma di certo non una di quelle donne che
attira simpatia e soprattutto attrae.
“Vi presento Freccia Letale” ribatté Spezzacolli.
I due annuirono e fu Mas a parlare: “Elaka ci ha detto di voi e del
vostro coraggio, signora”.
“Elaka è arrivata fin da voi?” si stupì Spezzacolli, che con i calci
verificava la morte dei nemici.
“Sì, ci ha raccontato delle razzie. Vi prego, smettetela, sono morti”
256
rantolò George, ancora scosso dall'immagine di quella donna tanto
minuta che metteva fine alla vita di un uomo in modo tanto brutale.
Spezzacolli lo fulminò e finì la sua ispezione.
“Tanto meritavano di morire” rispose Freccia Letale per il capo.
“Potevano essere utili per uno scambio” reagì George.
Spezzacolli fischiò. Un fischio prolungato e acuto, d'avvertimento. I
due uomini si guardarono attorno incerti.
Dal sottobosco, dai rami degli alberi, ben trenta Donne-ombra,
perfettamente mimetizzate, fecero la loro comparsa come dal nulla. Si
misero a rovistare i cadaveri dei nemici e presero tutto ciò che poteva
essere loro utile; alcune tornarono con i cavalli degli uomini. Il bottino di
guerra.
“Non mi avete ancora detto sotto quale bandiera combattete” ingiunse
Spezzacolli, ora sollevando gli occhi su di loro.
“Per l'unico re di Hakne” ribatté George.
“Quale?”
“John Henry” era Mas.
“John Henry è un'ombra esattamente come sono le mie guerriere”.
“Noi combattiamo agli ordini di Corin il Fuorilegge. E lui è fedele a
John Henry” puntualizzò piccato Mas.
Fu allora che il capitano fu certo di aver attratto la totale attenzione di
Spezzacolli. Lei lo fissò immobile, tesa. Le vide guizzare un'ombra negli
occhi, ma prima che potesse chiedere quell'ombra era passata.
“Corin il Fuorilegge?” bisbigliò.
“Corin di Makma, per i pochi che lo conoscono davvero” precisò
George con un certo orgoglio.
“E voi lo conoscete davvero?”
“Siamo i suoi Capitani, mia signora” Mas lanciò un'occhiataccia a
George ed alla sua vanesia.
“Ah”.
Spezzacolli deviò lo sguardo per un secondo. Nessuno dei due poté
scorgere gli occhi riempirsi di lacrime e le labbra tremare per l'emozione.
Corin... J.J...
“H... - le mancò la voce, se la schiarì – ho saputo del Fiume Dorato.
Insomma, che c'è stata una grande battaglia”.
“Una battaglia memorabile” s'impettì tutto George, come un ragazzino.
“Ho mandato delle guerriere in cerca di notizie settimane fa, ma non
sono ancora tornate” spiegò loro la donna.
“Che cosa vi preme sapere?” era Mas.
“Tutto. Dov'è ora Corin?” quasi le mancò il fiato. Poteva essere tanto
257
vicino...? avrebbe potuto finalmente abbracciarlo, mettere fine alla sua
agonia...?
“Corin è andato alla ricerca di Mayster. - spiegò George – in mancanza
del sovrano, la responsabilità governativa è passata al Marchese di
Ground. Ora dovrebbe essere ad Hakne a colloquio con la cugina di Sua
Maestà. A noi è stata lasciato il compito di formare il nuovo esercito in
attesa del ritorno di John Henry”.
“Quindi non sapete dov'è Corin ora?”
“No, signora”.
Spezzacolli annuì lentamente, aveva voltato di nuovo il capo e non
poterono vedere la delusione ed il dolore che le distorsero i tratti del
volto.
“Va bene, - disse dopo aver appurato che le sue donne avevano arraffato
tutto ciò che potevano – andiamo. Ci sono troppe cose di cui parlare e
questo non è il posto giusto per farlo”.
Si avviarono, i due uomini rimasero sgomenti davanti ai cadaveri dei
nemici lasciati così sul campo.
“Non li cremate almeno?” chiese stupefatto il giovane.
“Dovremmo?” alla fine Freccia Letale aveva lasciato loro il passaggio
libero. Si stava accendendo una sigaretta e ne porse una ai due. Videro
che fumava come un uomo e la cosa più stupefacente era che non lo
faceva di proposito. La guerriera di Spezzacolli era tutto il contrario del
suo capo: non aveva le movenze di donna e non ispirava il senso di
protezione di Spezzacolli.
“Erano uomini, anche se nemici” ribatté sprezzante George.
“Erano poco più che bestie” lei gli espirò in faccia e lui la trovò odiosa.
Già solo per il fatto che fosse alta quanto lui.
“Questo comportamento è...” fece lui, ma Spezzacolli alzò la voce,
glaciale:
“Fraccia Letale ha ragione. 'Sti bastardi hanno avuto quello che si
meritavano. Noi sappiamo quello che hanno fatto a donne e bambini e la
morte è stata fin troppo veloce”.
Mas non replicò.
Spezzacolli aveva voltato loro la schiena e si era incamminata al
fianco delle compagne. Freccia Letale si mise il suo lungo arco a
tracolla, inspirò l'ultima boccata dalla sigaretta e la spense sotto il tacco.
Le Donne-ombra se li lasciarono alle spalle come se non fossero mai
esistiti. Ed era difficile da far digerire a due ufficiali uomini, soprattutto
al più giovane. Galletto ed egocentrico.
258
5.
“Borok...” rantolò Paul Mann senza distogliere gli occhi da Jacob.
L'altro aveva finito di orinare e si stava riallacciando il calzoni.
“Cazzo, quella puttana ieri sapeva il fatto suo quando...”
“Borok...!” urlò con un rantolo allarmato Paul Mann.
Jacob era immobile, immenso, la sua sola presenza riempiva la
radura.
Paul Mann si guardò intorno alla ricerca di una via di scampo.
Adesso capiva. Erano isolati, se anche avessero urlato nessuno sarebbe
accorso. E comunque il resto degli uomini erano così ubriachi e
addormentati che non si sarebbero destati.
Erano in trappola.
Ma come...? Come aveva fatto il Barone a sapere? Come...?
“Ma che cazzo ti urli?” ringhiò Borok verso Paul Mann.
Paul Mann era uscito senza armi e la spada di Jacob scintillava nella
luce tenue di un'alba nascente.
Quello poteva essere un buon giorno per qualcuno. Per qualcun altro
poteva essere il peggiore della sua vita.
Paul Mann afferrò Borok per le spalle e se lo mise davanti,
interponendolo tra sé e Jacob, che tacendo camminava verso di loro. Si
stava facendo scudo con il corpo del compagno.
“Maestà... Maestà. Aspettate...!” provò a implorare Paul Mann.
Jacob muoveva la spada con la punta verso la terra, ondeggiandola e
fendendo l'aria.
“Non è come credete... è stato lui, lui che...”
Borok realizzò che cosa stesse facendo Paul Mann e prese ad agitarsi
per scappare.
“No! NO! Non è vero...! Mio signore, non è vero...! Io vi sono sempre
stato fedele...!”
La spada smise di ondeggiare, Jacob la fermò con la punta a terra.
I due ansimavano per il terrore.
Il gigantesco Barone di Weer incombeva su di loro con gli occhi
azzurri che mandavano fiamme di un fuoco nero.
I due congiurati ansimavano e il silenzio era totale.
La spada era ancora con la punta a terra.
Jacob immobile... ci stava ripensando?
“Maestà, io non so chi o che cosa vi abbia fatto pensare che...” Paul
Mann, con il sudore che gli bagnava la faccia, abbozzò un sorriso
259
pietoso.
Il Barone non cambiò espressione del viso.
Paul Mann ampliò il suo sorriso viscido per parlare ancora.
Fu un guizzo. Un guizzo di argento scuro della spada di Jacob e
Borok si trovò con quasi un metro di acciaio puro nel ventre.
Paul Mann aveva spinto in avanti il compagno prigioniero per
guadagnare terreno. La spada trafisse Borok fino all'elsa.
Il capitano di Jacob cercò di aggrapparsi al suo signore per non
cadere a terra e con lo stesso scatto fulmineo il Barone si liberò del suo
corpo.
Una chiazza scura di sangue si andò allargando immediatamente nel
prato verde della radura.
Jacob si allontanò per non sporcarsi gli stivali.
Di Paul Mann si vedeva l'ombra nel bosco.
Meno di un quarto d'ora all'alba e c'era ancora un traditore da
eliminare.
6.
A Rebecca Spezzacolli parve di sentire la voce di suo marito che la
sgridava con voce paterna e divertita: “Ragazza, quando imparerai ad
avere pazienza? Pretendi sempre tutto e subito”. “E' solo perché tu sei
molto più vecchio di me e hai l'esperienza di saper aspettare”. “Molto
più vecchio? Bambina, te lo faccio vedere quanto sono vecchio?”
Rebecca non aveva mai saputo aspettare. Non quando si trattava di
Corin: ricordava l'agonia di essere sua la prima volta, aveva dovuto
attendere per tutti gli otto mesi di fidanzamento, quando il corpo
bramava l'amore, solo un poco, molto, molto prima.
Così si fermò ed attese che i due uomini la raggiungessero.
“Ditemi una cosa: - esordì – è vero che Corin si accompagna ai suoi
figli?”
Mas annuì e George sorrise divertito: “Lui vive con i suoi figli”
rispose.
“E' strano, per un uomo...” la gola di Rebecca si era stretta per cercare
di trattenere le emozioni.
“Non siete né la prima né l'unica a dirlo” borbottò Mas.
“I bambini sono stati un problema?”
“I bambini sono sempre un problema in tempo di guerra”.
“La vostra osservazione mi sembra fuori luogo” gli fece notare lei.
260
“Scusatemi. - Mas scosse il capo – Il fatto è che Corin non ha mai avuto
un attimo di svago: se non era in guerra, era con i figli. E solo Hilu sa
quanto sia importante per un uomo trovare un po' di svago per ricordarsi
il motivo per cui combatte”.
“Pensate sul serio che stare con i propri figli sia motivo di stress?”
Rebecca inarcò un sopracciglio.
“Con tutte le attenzioni che richiedono?”
Lei lo sbeffeggiò: “Si vede che non avete figli”.
“Beh, forse per le donne è differente” borbottò tra i denti il vecchio
capitano.
“E i bambini come sono? Bravi?”
Vi prego, vi prego, vi prego, parlatemi di loro! Del mio soldatino,
della mia piccola peste, del mio sole che scalda il cuore...
“Corin ha di che essere orgoglioso. - rispose George entusiasta – Con il
mio gruppo ci siamo uniti a Corin fin dall'inizio della sua fuga da
Makma”.
E il giovane capitano galletto raccontò del primo incontro con Corin,
dello scontro, di come Jesse avesse protetto il suo fratellino, di come
Mark aveva sentito la loro presenza, di come i bambini obbedissero al
padre come piccoli soldati. Rebecca lo subissò di domande: si erano
ammalati? Avevano sempre mangiato bene? Assomigliavano al padre?
Alla madre? Il piccolo come parlava?
George non eluse alcuna domanda, anche se di molti particolari non
aveva conoscenza.
“Vedete, Corin ha sempre tenuto la sua famiglia separata dal resto
dell'esercito. - spiegò – anche quando eravamo a Ground, lui aveva gli
appartamenti lontani dai nostri e le sue cene erano quasi sempre con i
bambini”.
“E questo non fa bene ad un uomo” ribadì Mas.
“Perché no?” insistette lei.
“Perché il piccolo dorme con suo padre e suo padre dovrebbe dormire
con una donna”.
A Rebecca mancò il fiato in gola.
Corin non l'aveva...?
Poi si ricordò di quanto suo marito le aveva detto delle donne avute
prima di lei, quando era Mastro Mayster: nessuno aveva saputo chi
entrava nella sua tenda.
“Mai...?” lei sgranò gli occhi.
“Mai. La governante dei suoi figli ce l'avrebbe detto”.
“Governante...?”
261
Grande Hilu, l'aveva sostituita con un'altra che si prendeva cura dei
suoi bambini?
Fu accecata dalla rabbia e dalle lacrime.
“Un'ermafrodita di nome Andrea. - spiegò George – Che sia
un'ermafrodita lo sappiamo solo noi, in realtà. Corin le ha salvato la vita
tra le fila dell'esercito, mentre preparavamo l'attacco al Fiume Dorato.
Lei ha giurato fedeltà ed è diventata la guardia del corpo dei bambini.
Andrea combatte benissimo, era figlia di un mastro armaiolo, sapete? I
figli di Corin non lo sanno e soprattutto Jesse non l'ha presa bene. Lui è
attaccato alla madre in una maniera commovente”.
“Davvero?”
“La disegna ovunque. Anche se non la conosco, probabilmente la
riconoscerei. Jesse non se la cava male a disegnare...”
Il mio soldatino non mi ha dimenticata – Rebecca era commossa fino
alle lacrime.
“Mark gli va dietro come un cagnolino, a Jesse. - aggiunse Mas – e
stesse zitto qualche volta!”
Ah, meno male che non sono l'unica a pensarlo! - rise la madre, che
in realtà si sarebbe fatta amputare il braccio destro, pur di sentire i
discorsi del figlio logorroico.
“Tommy non parla tanto di sua madre. - continuò George, rammaricato
– Probabilmente dipende dall'età. E' piccolo e la chiama, ma alla fine si è
adattato ad avere solo suo padre accanto”.
Rebecca fu sul punto di scoppiare. L'idea che Tommy, il piccolo,
amato, desideratissimo Tommy potesse dimenticarla le squarciò il petto
di dolore.
No, grande Dea, non ce la posso fare... non puoi farmi questo....
“Corin ha sostituito sua moglie con la governante?”
“No, no. Corin non parla mai di lei... in realtà nessuno di noi sa come si
chiama sua moglie” rispose Mas.
“I bambini non l'hanno detto?”
George sorrise divertito: “Suvvia, la mamma è sempre la mamma. La
mia non aveva un nome, per me”.
“E vostro marito?” domandò Mas all'improvviso.
“Lui è... presumo sia tra le fila dei vostri”.
Rebecca si era morsa la lingua. Non seppe spiegarselo, ma preferì
non dir loro d'essere la famosa moglie scomparsa. Fu l'istinto o forse il
semplice fatto di dover controllare le emozioni allo sbando.
“Ora che ci penso: forse anche la moglie di Corin è tra le fila delle
vostre donne” soggiunse Mas.
262
“... può darsi” rispose lei con un filo di voce.
Poi allungò il passo e li lasciò soli.
7.
Adesso il cielo era rischiarato dalla luce rosea dell'alba.
Jacob di Weer si aggirava nella boscaglia facendo ondeggiare la
spada, con la punta verso la terra. E mentre ondeggiava, l'arma fendeva
l'aria con un suono raccapricciante.
Jacob cercava il suo traditore.
I primi uccelli del mattino si misero a cantare, le cicale si svegliarono
all'improvviso, una, due, dieci, cento, mille, infinite.
E la spada ondeggiava – Swuum...! Swuum...!
Paul Mann ansimava, il respiro strozzato in gola per la paura.
Paul Mann era terrorizzato.
Non era rimasto a guardare Borok che cadeva a terra, né era rimasto
per tentare di giustificarsi con Jacob – tanto lo sapeva, non sarebbe
servito a nulla.
Il traditore si era dato alla fuga nella boscaglia e si era nascosto tra i
cespugli, nel tentativo di riprendere fiato e calmarsi. Doveva trovare una
soluzione, si disse. Soluzione soluzione soluzione! - intanto il cuore
batteva all'impazzata e la gola era secca.
Non sentiva più Jacob. Intravedeva la sua ombra nel bosco dell'alba
estiva, ma non udiva i suoi passi.
Jacob era silenzioso, più di quanto ci si sarebbe aspettati da un uomo
della sua stazza. Camminava paziente tra i cespugli spinosi di lamponi,
more ed ortiche. Di tanto in tanto di fermava. Ad annusare l'aria. Fiutava
il bosco, la rugiada della notte passata, l'erba fresca, la dolcezza dei frutti
e dei fiori estivi.
L'alcol e l'urina.
Paul Mann lo vide poco lontano da dove si trovava lui. Scappare?
Aspettare? Magari non l'avrebbe visto.
Paul Mann ansimava. Il Barone avrebbe potuto parlare – Grande
Hilu, fallo parlare! - ma non lo fece. Taceva ed ascoltava il bosco.
Ascoltava lui.
Parla, porca puttana! Parla...! Confondi l'aria, crea rumore,
distraiti! - il gemito interiore di Paul Mann era così forte da spaventare
se stesso. Il cuore pulsava come un tamburo di guerra, non riusciva a
respirare.
263
Jacob tirò le labbra in un sogghigno impercettibile e Paul Mann
comprese d'essere stato individuato.
Una goccia di sudore scivolò lungo la tempia, sulla guancia. Una
goccia dolorosa, come se fosse stata ricoperta da centinaia di
piccolissime spine. Ne scivolò un'altra ed un'altra ancora, finché il gusto
vischioso e salato non gli fece capire che il suo stesso muco nasale gli
stava colando in bocca. E si era pisciato sotto come un ragazzino.
Si faceva pena.
E tuttavia, quello era il prezzo da pagare per non mettersi a tremare
come una foglia al punto che i denti avrebbero fatto quel suono, quel
tac-tac-tac terrificante.
Come aveva fatto a saperlo? Come aveva fatto a scoprire della loro
congiura, se la prima volta, seria, di cui avevano discusso era stata ieri
al mercato? Come aveva fatto a scampare ai loro agguati nella notte? E
come cazzo faceva a vederlo, lui, il Barone imbecille e ottuso?
Paul Mann era incapace di agire e pensare. Il terrore gli stava
annebbiando la mente e i ricordi stavano prendendo il sopravvento:
torture, battaglie, interrogatori, la crudeltà di Jacob di Weer. Quell'uomo
aveva dimostrato troppe volte di discendere direttamente dalla Dea Crill.
Jacob di Weer non conosceva carità e perdono.
Paul Mann lo sapeva, rivelarsi e costituirsi al suo signore sarebbe
stato inutile: gli avrebbe afferrato la testa tra le sue mani gigantesche e
gliela avrebbe schiacciata come un melone maturo. Pezzi del suo
cervello sarebbero andati sparsi per tutto il bosco.
Lo sapeva perché lo aveva visto farlo.
Oppure poteva cavargli il cuore dal petto.
Santa Hilu, aiut...
Paul Mann si passò la lingua secca su labbra ancora più secche.
Sudore e lacrime gli annebbiavano gli occhi, ostacolando la vista del
Barone. Si passò la manica sulla faccia per asciugarsi. Fu un attimo, solo
un attimo. Batté le palpebre. Un solo attimo.
Jacob era sparito dalla sua visuale.
Paul Mann era impietrito, la testa gelata. Il cuore che batteva con quel
suo Tum-tum-tum-tum assordante. Nella gola, nelle orecchie, nelle
tempie, nel bosco intero.
Tum-tum-tum-tum.
Non lo vedeva!
Tum-tum-tum-tum.
Dove sei, maledizione!
Tum-tum-tum-tum.
264
“Mi stai cercando?” sibilò Jacob con fiato bollente nell'orecchio di Paul
Mann.
Ce l'aveva alle spalle!
Paul Mann volse gli occhi verso il Barone, terrorizzato.
Ed eccolo, il tac-tac-tac dei denti che battevano.
“Paura?” proseguì Jacob.
Non lo stava toccando e tuttavia Paul Mann sentiva il metallo gelido
della spada contro di sé.
Tac-tac-tac. Cazzo, uomo, trova le palle e rispondi!
Invece tremava come un leprotto braccato.
“Mi fai ridere, Paul Mann” aggiunse il Barone con la sua voce a metà
tra il seducente e il sibilante.
Neanche pena. Lo faceva ridere...
“Conoscendomi, bastardo, come pensi che ti ammazzerò?”
Come pensi che ti ammazzerò...? - finalmente le gambe di Paul Mann
ritrovarono vita. Si alzò di scatto e si mise a correre, come il leprotto che
era – Trova, trova la tana, leprotto...! Scappa, scappa, leprotto....! - una
madre vissuta d'altri tempi rideva con lui nell'aia di una grossa fattoria.
All'epoca era un gioco.
Ora era vero... scappa, leprotto!
Paul Mann sbatté contro un tronco, inciampò nel rovi fitti, rovinò a
terra fino a mangiare il fango. Gattonò, tentando di rimettersi in piedi.
Jacob rise, gutturale, ferino: “Avevi pensato a tutto tu, eh? Avevi
organizzato tutto, no?”
Come cazzo faceva a saperlo?
“Ti ci è voluto un po' per convincere quel cagasotto di Borok, eh? Lui
aveva paura che lo ammazzassi”.
Come faceva a sapere anche di Borok e di tutte le sue scuse?
“Sei veramente convinto di potermi battere, Paul Mann? Credi che sul
Fiume Dorato io sia stato sconfitto definitivamente? Pensi sul serio che
in questi dieci anni io abbia solo aspettato?”
Aspettato, che...? Che cosa...?
Paul Mann non smetteva di correre a perdifiato, a cadere, incespicare
e riprendere la sua corsa. Ma Jacob era sempre alla stessa distanza da lui,
pur senza correre né affrettarsi. L'arma ondeggiava e fendeva l'aria, gli
occhi fissi sul fuggitivo, i passi lunghi, le falcate ampie.
Paul Mann dovette guardare avanti per non sbattere contro l'ennesimo
tronco a metà.
Si volse verso il Barone.
Ora in mano aveva la sua balestra! Da dove cazzo era saltata fuori?
265
“Allora, Paul Mann, come credi che ti ammazzerò?”
“N...No!” fu tutto ciò che uscì dalla gola del fuggitivo.
“Finalmente parli”.
Il sentiero andò diradandosi e trovò un sentiero battuto – poco più di
una mulattiera.
Se fosse, se fosse riuscito a tornare all'accampamento, a unirsi ai suoi,
a prendere un'arma...
Corse più veloce che poté, mentre la gola gli prese fuoco come il sole
dell'alba.
266
CAPITOLO 15.
1.
L'alba di un nuovo giorno, l'alba dell'ultimo giorno.
Paul Mann stava andando esattamente nella direzione che Jacob
voleva prendesse. Ovvero, opposta a quella dell'accampamento.
Verso la cascata.
Quel misero torrentello presso il quale avevano montato le tende
diventava, verso est, un'imponente cascata alta venticinque metri.
Jacob seguiva il traditore.
Il bastardo cercava qualcun altro con cui farsi scudo, così come aveva
usato quell'idiota di Borok. Jacob non aveva bisogno di correre perché
Paul Mann era terrorizzato: per quanto fuggisse, la paura lo teneva legato
al Barone.
Jacob aveva smesso di parlargli, aveva smesso di aiutarlo. Paul Mann
correva, incespicava, gattonava e finiva per strisciare; riusciva a
miracolosamente a rimettersi in piedi e di nuovo daccapo.
Jacob alzò il braccio con il quale teneva la balestra e premette il
grilletto. Aveva preso la mira. Aveva mirato al ginocchio di Paul Mann e
il dardo si piantò nella stoffa del calzone.
“A...aaah...!” fu tutto ciò che rantolò il fuggitivo, perdendo tempo
prezioso a levarsi il dardo dal pantalone. Nel farlo, inciampò ed andò a
sbattere contro una roccia.
Solo allora si fermò.
Se ne accorse.
Non stava andando verso l'accampamento, ma nella direzione
opposta. Il rumore violento, pieno della cascata rombante sul baratro ora
gli riempì le orecchie.
Si volse, controllò alle sue spalle: il muro d'acqua era a poche decine
di metri da lui.
Jacob aveva ancora a disposizione cinque colpi. La sua balestra era
stata fatta su misura per il suo braccio gigantesco ed era armata di due
dardi in più rispetto a quella convenzionale, a quattro colpi.
Il Barone fece partire il secondo e terzo colpo. Uno andò a finire a
pochi centimetri dai piedi di Paul Mann; l'altro gli sfiorò la spalla, quella
sinistra, dove si trovava il cuore – e lui, il leprotto, era rimasto lì
267
immobile ad aspettare quel colpo al cuore.
Jacob non aveva più neppure il sogghigno dipinto sul volto. Era
gelidamente immobile in quell'espressione che desiderava solo la morte.
Se Paul Mann avesse visto due settimane prima l'odio ed il rancore che
Jacob provava per lui, non si sarebbe mai sognato di congiurare alle sue
spalle.
Paul Mann si rese conto di essere in ginocchio. E che Jacob non
aveva sbagliato per errore, ma per volontà. Tenendo lo sguardo
terrorizzato sul suo signore – il suo assassino -, indietreggiò piegato
gattoni.
Jacob allungò il passo.
Lo scroscio della cascata era assordante, il fuggitivo non riusciva ad
udire nulla che non fosse il battito impazzito del proprio cuore. Avrebbe
dovuto sentire il caldo del sole che sorgeva, il sudore della corsa
mozzafiato; invece l'unica sensazione di caldo che rammentava era il
fiato di Jacob sul proprio collo.
Al Barone rimanevano due colpi. Jacob fece due falcate ed allungò il
braccio con cui impugnava la balestra.
Paul Mann non volle... non avrebbe mai pensato di abbassarsi a tanto:
singhiozzò. Non ebbe la forza di tirarsi in piedi, ma solo di girarsi e, in
una posizione ferina, si diresse verso la cascata ed il baratro – voleva
solo allungare... allungare un poco la sua vita... lo spazio tra sé e Jacob
di Weer...
“La terra finisce, Paul” lo avvertì Jacob alle spalle.
Paul Mann si era fermato e fissava il baratro con sguardo inebetito. E
ora? Che cosa poteva fare adesso?
“Allora?” la voce di Jacob non era sarcastica; era spettrale, come un
anticipo del Regno dei morti.
Paul Mann si gettò nel torrente, le cui acque mulinavano prima di
precipitare giù dalla cascata. Era disperato. Fu inghiottito
immediatamente ed annaspando gli riuscì di raggiungere una sporgenza.
Batteva i denti.
Boccheggiava, quando fu in grado di guardare dove fosse il suo
nemico.
“Vuoi affogare?” Jacob appariva stupito. Paul Mann preferiva morire
affogato che affrontarlo, da uomo a uomo.
Il fuggitivo mollò la sporgenza, come se Jacob fosse ancora troppo
vicino. Nel farlo, si ritrovò a muovere mani e piedi come un cane per
rimanere a galla.
“Sei patetico” sentenziò il Barone. Fece partire il penultimo dardo e
268
questa volta non mancò il bersaglio.
L'acqua divenne color porpora in pochi secondi.
Mi ha colpito! Mi ha preso...! - boccheggiò Paul Mann, senza essere
in grado di gridare, sconvolto. Non avrebbe mai pensato di avere tanta
paura in tutta la sua vita. Si pisciò sotto dalla paura.
Si portò la mano alla spalla sinistra, dove il dardo era conficcato in
profondità e smise di nuotare. La corrente lo travolse senza pietà. Allora
si mise ad annaspare e la spalla gli fece così male da strappargli un urlo
di disumano dolore. Smise di nuotare e capì di essere spacciato: doveva
lottare contro la corrente, contro la ferita profonda e contro Jacob.
Non ce l'avrebbe mai fatta, ne aveva la forza...
Jacob alzò la balestra per l'ultima freccia che rimaneva. E prese la
mira.
Paul Mann si mise di nuovo ad annaspare, per raggiungere la riva
opposta. Annaspava nonostante il dolore atroce, nonostante tutto –
lontano lontano lontano - .
La corrente era travolgente, andò sotto con la testa, riemerse, di
nuovo sotto. Jacob di Weer scomparve dalla sua vista e ora non gli
importava più di sopravvivere a Jacob, ma alla corrente, alla corrente di
quel torrente maledetto, che lo stava soffocando – annegando.
Il Barone scomparve dalla sua vista. Gli occhi di Paul Mann il
Traditore si riempirono d'acqua – lacrime? Poteva ancora avere il tempo
e la forza per piangere? -.
Paul Mann precipitò giù dalla cascata.
2.
Mas e George camminavano dietro alle donne e seguivano la schiena di
Spezzacolli. La leggendaria guerriera camminava come una donna: i
fianchi ondeggiavano sensuali e i piedi appoggiavano per terra senza
produrre alcun rumore. Le spalle erano dritte, di una donna fiera; di tanto
in tanto si voltava per controllare che fossero ancora con loro.
“Come la definiresti?” sussurrò George a Mas.
“In che senso?”
“Non riesco a capire. Cioè, l'hai guardata? E' alta poco più del metro e
mezzo”.
“E non è male” sogghignò il vecchio capitano.
George lo redarguì con uno sguardo: “Se fossi in te, eviterei questi
commenti. Ora che sappiamo della sua esistenza, possiamo dare per certe
269
le parole di Elaka: Spezzacolli ha subito violenza a Weast e potrebbe non
apprezzare i tuoi... apprezzamenti”.
“Uh, che faccia seria, ragazzo! - Mas sorrise appena – Ti dirò la verità:
preferisco apprezzarla che pensarla tra le mani di quelle bestie. Anche a
me sembra così fragile”.
“E' giovane, anche. Quanti anni avrà?”
“Elaka diceva una ventina”.
“Sì, forse venti. Probabilmente deve aver avuto un figlio”.
Poi, non dissero più una parola su di lei. Né sulle altre guerriere.
Dovevano ancora abituarsi all'idea che delle donne combattessero come
dei soldati. Si erano aspettati femmine dai muscoli definiti, più uomini
che donne; invece queste guerriere erano femminili, aggraziate e ferite.
Nei loro occhi si leggeva il comune dolore e la vergogna per essere state
vittime di stupri; non si poteva ignorare quanto riportato dalla cantastorie
circa il fatto che parecchie di loro avevano fatto i conti con gravidanze
indesiderate.
Ma tra di loro, sorridevano e scherzavano. Si proteggevano le une
con le altre.
I due uomini non immaginarono di essere vicini ad Alto Castello.
Quando si trovarono dinanzi all'immensa e grandiosa costruzione, in
parte incastrata nella montagna, non furono in grado di contenere
l'esclamazione di meraviglia.
“E'... stupefacente” commentò Mas.
“Inquietante” aggiunse George, il quale, senza poterselo spiegare provò
un brivido lungo la schiena. Un brivido legato all'orrore di quanto sangue
era stato versato là durante la Guerra Rossa e per le sorti della sovrana.
Da quando si era innamorato della sua donna-ombra, George aveva
cominciato a comprendere il vero dolore e la vera tragedia del re. La
curiosità sfrontata che aveva manifestato dinanzi a Corin ora lasciava
spazio ad una pena intollerabile – e se fosse accaduto a me? Come potrei
veder morire il mio amore?
La strada verso le mura di Alto Castello si fece in salita. Il fiato dei
due soldati si fece corto; il sentiero era ampio e sgombro, la
pavimentazione era stata sistemata per permettere ai carri di scorrere
senza il rischio di rompere qualche ruota. Le guerriere procedevano
tranquille, chiacchierando tra loro; le più giovani si stavano
implotonando per il rientro composto in caserma. Occhieggiavano
Freccia Letale, che pareva non prenderle in considerazione.
“Quello che cos'è?” chiese George a Spezzacolli, indicando un sistema
di montacarichi che era appoggiato su binari a lato della strada.
270
“Lo utilizziamo per portare su la roba. - spiegò al donna – E' stata una
delle prime cose che Giada ha rimesso a posto. Anzi, secondo me, ha
migliorato questa macchina”.
“Chi è Giada?” era Mas.
“La nostra piccola strega” ridacchiò Freccia Letale.
Il cuore di George fece un balzo nel petto. Giada. Che splendido
nome.
“Giada, - Spezzacolli incenerì Freccia Letale con un'occhiataccia
perché non voleva far sapere dei poteri della ragazza agli stranieri – è la
donna delle idee. Lei si occupa del castello ed è... ingegnosa. Non saprei
come altro definirla: Giada vede un qualcosa e quel qualcosa diventa una
macchina. Le nostre armi sono state pensate e fabbricate sotto il suo
consiglio”.
“Non è una guerriera?”
“Lo è a suo modo. - Freccia Letale sorrise con più dolcezza – Giada ci
copre le spalle. E, sì, all'occorrenza combatte” - le colline innevate,
l'attacco a sorpresa degli uomini di Weer, Annabel ed i suoi quindici
anni appena che guardano il cielo bianco eternamente: in
quell'occasione Giada aveva combattuto ed aveva messo in salvo le noncombattenti.
“Freccia Letale, Giada, Marçela ed io siamo insieme da Weast” volle
aggiungere Rebecca.
I due uomini annuirono gravi. Sì, sapevano di Weast. Credevano a
Weast, ora.
“Ecco Marcela” Freccia Letale alzò la mano per salutare una donna che,
di gran carriera, correva giù dalla collina dietro a due bimbe di sei anni
scarsi.
“Freccia Letale! Freccia Letale!” la chiamarono felici di vederla.
“Voi due!” inveiva Marçela raggiungendole.
“Sei tornata!” Matthie, la minore delle figlie di Marçela saltò in braccio
a Tray.
“Perché, non dovevo?” sorrise la guerriera, che si inginocchiò alla loro
altezza.
“Quanti erano questa volta?” chiese l'amichetta di Matthie.
Freccia Letale stava per rispondere, quando due manate raggiunsero i
sederini delle bambine, facendole cadere a terra.
“Io vi prendo a calci fino a domani! - urlò la madre infuriata – Lo
sapete che non si esce dalle mura senza scorta! E se ci fossero stati dei
nemici?”
“Ma non c'erano!” ribatté la figlia.
271
“Zitta, tu!” Marçela era paonazza dalla rabbia e apprensione. La picchiò
sulla bocca e le fece segno di tacere, se non voleva il resto.
Con il labbro inferiore di fuori e gli occhi pieni di lacrime, le
bambine ripresero mogie la strada per il castello.
“Cocciuta!” Marçela seguì la figlioletta con lo sguardo, tentando di
calmarsi. Dopo Madrigal, aveva il terrore di perdere i suoi bambini. Era
proprio grazie a questa apprensione, a tutto questo amore, che le cicatrici
della prigionia un poco stavano guarendo. Ma quanto costava alla madre!
Mas si ritrovò di fronte a Marçela e non fu in grado di dire nulla.
Una donna piena di vita, una donna dalla femminilità sfrontata e una
donna che, nonostante avesse tante responsabilità era curatissima: i
capelli morbidi e lucidi, i denti bianchi anche se irregolari, la pelle tonica
e rosea. Le poche rughe che aveva le sottolineavano gli occhi espressivi
e la bocca più propensa al sorriso che al broncio.
“Io proverei con un lazo” suggerì il capitano, quando fu in grado di
recuperare la parole – e spostare lo sguardo dalle tette agli occhi.
“Per il momento pensavo di passare alla frusta” sogghignò lei e gli
diede un'eloquente occhiata di valutazione.
Come un adolescente, Mas si fece paonazzo. Non gli era mai capitato
di boccheggiare davanti ad una donna – forse perché una donna così non
l'aveva mai incontrata.
“Piacere, George” il giovane s'intromise ridendo del compagno.
Marçela riservò la stessa occhiata di valutazione pure a lui:
“Marçela”. George non ebbe alcun problema a sostenere lo sguardo e
anzi ammiccò complice. Marçela era decisamente diversa da Freccia
Letale e dalle sue guerriere, che guardavano gli uomini di traverso per il
solo fatto di essere uomini. A lei, gli uomini piacevano ancora.
“Avete finito?” borbottò Tray e si caricò la piccola Matthie sulle spalle.
“Come sei acida. - le rispose Marçela – ti verranno delle brutte rughe
prima del tempo così”.
“Pazienza. Tanto non ho spasimanti”.
“Un tuo spasimante dovrebbe essere un suicida”.
“Sarebbe uno in meno di cui preoccuparsi”.
“Benedetta ragazza, sei insopportabile! E tu, Matthie, vedi di non darle
ascolto!”
“Io da grande sarò come Freccia Letale!” trillò la piccola.
“Che Hilu non voglia!” sospirarono all'unisono sia Freccia Letale che
Marçela; si accorsero della coincidenza e si sorrisero.
“Tu sarai come tua madre, Matthie. - rispose Fraccia Letale – Una gran
donna decisamente rompipalle”.
272
Marçela scoppiò a ridere di cuore e stampò un bacio sonoro sulla
guancia dell'amica, poi afferrò l'amichetta di Matthie per mano e
raggiunse Spezzacolli poco lontano da loro.
“Tutto bene?”
“Sì, sì, tutto bene”.
Marçela diede un'occhiata al bottino e fece un fischio. “Ci sono anche
dei documenti”.
“Sì, ma non gli ho ancora dato un'occhiata”.
Mas si fece loro accanto, più spinto dall'attrazione per Marçela che
dai loro discorsi. Averla accanto gli faceva sentire quel rimescolio nello
stomaco tipico dell'amore e si sentiva così esaltato e spaventato allo
stesso tempo da non riuscire a staccarle gli occhi di dosso. Ad ogni
movimento provava a sfiorarla, solo per sentire il profumo della sua
pelle. Sapeva di camomilla e latte. Tra i capelli qualche filo bianco, ma
erano lucidi e morbidissimi.
Lei alzò appena lo sguardo, di sfuggita, le guance paonazze. Gli
rivolse un sorriso, che non era più ammiccante. Era un sorriso più
spontaneo.
Rebecca colse lo sguardo tra loro ed in fondo al cuore percepì una
nota di struggente malinconia per quell'attimo, lo stesso che aveva legato
lei e Corin in quella tenda quasi quindici anni prima.
“Ehi, sei ferita” le fece notare l'amica all'improvviso.
Mas fece tanto d'occhi. Né lui né George avevano visto qualcuno
ferirla. Soprattutto era difficile notarlo, visto lo strato di cenere e
unguento color terra che ricopriva la pelle della donna.
Spezzacolli si guardò la spalla. La ferita era vicina a quella che aveva
ricevuto quando Annabel era morta un anno prima.
“E' un graffio”.
“Sì, sì, per te è tutto un graffio. Fammi vedere” la fermò e controllò il
graffio.
Marçela sbuffò: “Ti devo mettere dei punti”.
“E metterai dei punti”.
“Che cosa è successo?” si volse verso Freccia Letale.
“Hana voleva dimostrare di essere la nuova speranza di Grande Regno
ed è scesa prima dell'ordine. - spiegò Freccia Letale e interruppe Marçela
che stava per parlare – No, non ti preoccupare, ci ho già pensato io.
Laverà le stalle per tutto il mese, poi ricomincerà l'addestramento
daccapo. Evidentemente non ha capito come funziona”.
Hana era in coda, capo chino e con il viso paonazzo per le lacrime.
“Chi addestra gli uomini?” chiese Mas.
273
“L'addestramento è responsabilità di Freccia Letale. Abbiamo adibito
un'ala della città per le caserme. Vengono addestrati sia i ragazzi che le
ragazze”.
“E gli uomini?”
“Chi intendi?”
“Gli uomini... uomini”.
Le tre donne si sorrisero.
“Loro sono civili. Non combattono. Si occupano della terra”.
“In guerra anche i contadini diventano soldati” replicò aspro George.
“Non qui. E, se anche fosse, pensate che un uomo prenderebbe ordini
da una di noi?”
I due si scambiarono un'occhiata. No, non avrebbero preso ordini da
una donna sul campo di battaglia.
“Ci siete arrivati” fu la replica amara di Spezzacolli.
“E quindi...? Che cosa fanno questi uomini, se non combattono?” era
George.
“Coltivano la terra. Costruiscono le case. Il loro mestiere”.
“E mandano delle donne a combattere?”
“Se fossero stati soldati, avrebbero combattuto nei villaggi” fu la secca
risposta di Tray.
“Aspettate, non è esattamente così. - intervenne Spezzacolli, lanciando
l'ennesima occhiataccia a Freccia Letale – Ci sono uomini e uomini.
Alcuni di loro sono solo dei palloni gonfiati, codardi e opportunisti, ma
gli altri... e sono i più... lavorano seriamente e con impegno. Ad esempio,
c'è Manuel, che è riuscito a coltivare le terrazze a nord con le patate. Per
la prossima estate dovremmo avere anche gli alberi da frutto”.
“E Giada sta sistemando una terrazza coperta per coltivare gli olivi”
aggiunse Marçela con un sorriso entusiasta.
“E le donne che sono venute con voi da Madrigal?” chiese Mas.
“Che cosa volete sapere?” Spezzacolli fu asciutta.
“Abbiamo visto le catene” sussurrò George, rivivendo i terribili
momenti in cui gli uomini piangevano l'orrore, che potevano solo
immaginare.
“...” Spezzacolli alzò gli occhi sulle mura di Alto Castello. Erano quasi
giunti al ponte levatoio.
“Vi interessa sapere se ci sono stati i parti?”
“Anche”.
“Sì, gran parte di loro hanno partorito. E i figli non voluti sono cresciuti
dalla comunità” a rispondere fu Marçela.
“Ma lo sai che la mia mamma è arrivata vestita di nero per liberarci?”
274
disse Matthie serissima.
Mas allungò le braccia per prenderla dalle spalle di Tray. Fu un gesto
naturale, come se quella bambina gli appartenesse – d'altronde il cuore
già apparteneva alla madre.
La piccola si fece prendere. “Voi da dove venite?”
“Dal Nord” ribatté Mas.
Finalmente entrarono nella città. La gente era accorsa per dare il
benvenuto alle sue guerriere; Spezzacolli stringeva mani e distribuiva
parole e carezze come una madre con i figli. Una donna anziana
l'avvicinò e la strinse in un abbraccio materno: “Bambina, tutte le volte
mi sento morire”.
“Un po' di fiducia, dai!” ribatté lei con allegria.
Ada vide i due sconosciuti e si presentò.
“Ada è stata la mia madre adottiva. - spiegò Spezzacolli – Ed è il mio
punto di riferimento”.
“Mia signora” salutarono i soldati.
“Ada, per piacere” ribatté l'anziana con un sorriso.
“Giada?” domandò Spezzacolli.
“Sotto, nelle caldaie. Ieri abbiamo provato a riscaldare l'ala ad est, ma
c'è stato un ritorno di fiamma. E si è riempito tutto di fumo”.
“Qualcuno si è fatto male?”
“No, non c'era nessuno sotto”.
“Bene”.
Spezzacolli fece un cenno agli uomini di seguirla verso il castello.
“Alto Castello funziona grazie alla collaborazione di tutti. Qui ognuno di
noi ha un lavoro. Si lavora, si mangia. Non si lavora, si resta a digiuno.
Anche le puerpere in grado di lavorare danno il loro contributo alla
comunità”.
“Riuscite a far lavorare tutti?” sorrise Mas.
“Se serve, anche con i calci in culo. Di qua, vi porto a conoscere
Giada”.
3.
Jacob si avvicinò e scrutò giù dalla cascata.
Il suono era assordante, e dentro di sé tutto era silenzioso. Non
pacifico, ma silenzioso.
Paul Mann era svanito alla sua vista, non riuscì a scorgerne il corpo.
Non recitò alcuna preghiera, non ebbe pensieri di pentimento, lo sapeva
275
bene com'era la guerra, conosceva alla perfezione la crudeltà umana e
che l'unica maniera per sopravvivere era essere più crudele... ebbe solo
pensieri per sua moglie.
Avrebbe voluto parlare con Rihanna.
Averla là, davanti a sé, a sentirla ripetere la loro verità: Xanatos
aveva bisogno di essere protetto ed amato. Era il loro principe, suo padre
era responsabile di lui e della sua incolumità.
Alzò gli occhi al sole dell'alba. Fu pervaso dalla delusione per la fine
di qualunque cosa fosse stata la sua relazione con Borok e Paul Mann.
L'alba di un nuovo giorno.
Si volse e tornò all'accampamento.
Doveva riprendere il suo cammino, la guerra per Hakne non era
finita.
4.
George sentì il cuore accelerare i battiti, quando Spezzacolli li introdusse
nelle cucine e poi giù nei sotterranei, dove si trovavano le cantine e le
caldaie. Aveva come la sensazione di passare da un lato all'altro della sua
vita; si rese conto che dopo essere stato in quelle caldaie, niente sarebbe
più stato come prima. Non avrebbe mai saputo spiegarlo – così come
difficilmente avrebbe spiegato la sua donna-ombra -, ma il cambiamento
era per lui una realtà tangibile.
Voleva incontrare Giada.
Giada.
Man mano che scendevano lungo le scalinate, percorrevano i corridoi
e le gallerie, si sentiva il cuore impazzito e lo stomaco in subbuglio. Non
gli riusciva di pensare a nulla, si accorse delle mani che tremavano.
Un uomo disperato ed eccitato. E senza una vera ragione d'esserlo.
Solo per istinto.
Spezzacolli si fermò a far vedere loro le cantine con quel po' di vino
che erano riusciti a vendemmiare e quello rubato dalle stazioni di
approvvigionamento del nemico; i sacchi di farina e granturco,
proveniente dalle zone verso Leman.
“Vi siete spinte così in là?” chiese Mas.
“Se siamo solo noi guerriere, riusciamo a percorrere anche cinquanta,
settanta chilometri al giorno a cavallo. - spiegò la donna – Ci siamo
spinte verso est all'arrivo della gente dei villaggi. Chi ci ha raggiunte ad
Alto Castello è gente che non si è unita a Corin il Fuorilegge. O a te,
276
Mas di Leman. Anche se dalle tue parti ti chiamano Mas il Birraio”.
L'uomo sorrise divertito. “Glorie di gioventù”.
“E' probabile che da queste parti tu possa incontrare qualcuno dei tuoi
compaesani”.
“Ne sarei felice”.
Spezzacolli mostrò loro ancora la quantità di scorte: olio, frutta secca,
miele, sale, carne e pesce essiccato, salsicce, prosciutti, enormi forme di
formaggio che stagionava, patate e tanto altro ancora.
“Non abbiamo un sistema monetario, ovviamente. Lasciamo che i
contadini trattengano per sé quello che serve per sfamare le famiglie
nelle fattorie. Abbiamo messo a punto un sistema di valutazione per ogni
razione di cibo: conteggiamo quello e il resto lo portiamo via.
Ovviamente qualcuno ha cercato di fare il furbo, ma per il momento
prevale l'onestà e la collaborazione, perciò è stato denunciato. La pena è
di essere privati della terra e della casa, sia esso padre di famiglia o
uomo forte. Il cibo viene distribuito qui al castello e viene conteggiata
ogni cosa che esce dalle nostre cantine. Poi una parte dei profughi, non
ancora autosufficienti per le percosse subite, restano al castello finché
non si sono ripresi. Donne e bambini hanno la precedenza. Poi vengono
gli anziani, quindi le guerriere e gli uomini.
“Non abbiamo tanto vino, perciò difficilmente vediamo qualcuno
ubriaco.
“Viviamo in un regime di razionamento e utilizziamo tutto, anche le
bucce delle patate che peliamo. - alzò gli occhi verdissimi sui due uomini
– Se siete uomini di Corin so per certo che siete persone oneste e giuste,
altrimenti dubito che si sarebbe fidato di voi. Non nascondo che qui
faccio fatica a mantenere i galletti sotto controllo, ma ci riesco anche
grazie alla collaborazione di gente come Manuel e tutte le mie guerriere.
Non crediate, con le mie ragazze sono molto più severa che con i
ragazzini: il fatto è che sono loro ad aver scelto questa vita e quindi
devono esserne consapevoli.
“Adesso è inverno, dubito che vi rimetterete in viaggio ora... tra poco
comincerà a nevicare e sarà impossibile passare. Sarete nostri ospiti”.
“Che cosa dobbiamo fare?” alla luce di quanto gli aveva riferito
Spezzacolli Mas si accorse che la loro ospitalità non era gratuita.
“Aiutate Freccia Letale con le nuove truppe. Imponetevi e parlate con
gli uomini. A voi daranno ascolto e alleggerirete i nostri compiti con
loro. Sono assolutamente convinta che possiamo imparare molto gli uni
dagli altri”.
“Sarà un onore” Mas fu colpito dall'umiltà di quella donna. S'inchinò
277
con il busto di quarantacinque gradi, come se fosse stato davanti ad una
nobile signora.
E lo era. Comprese la grandezza di Spezzacolli: era una donna forte,
coraggiosa in combattimento, un capo fermo, severo, un capo giusto e
umile, che dava fiducia a chi sapeva; una donna pronta ad apprendere ed
una donna pronta a dare, se necessario.
Lei sorrise intimidita da quell'inchino.
“Vi prego, capitano, mi fate arrossire” sussurrò a disagio.
“Vi devo i miei complimenti, signora. - rispose invece lui – Pensavamo
foste una leggenda, invece siete una realtà. Voi e le vostre guerriere avete
rinforzato le nostre speranze di libertà e giustizia, per le quali
combattiamo da anni. I miei complimenti sono un dovere”.
Seguì un momento d'imbarazzo per Rebecca, che in tanti mesi di fuga
e combattimenti si era vista riconoscere i propri sforzi solo dalle amiche.
Spesso, troppo spesso, chi abitava con lei dimenticava gli sforzi
sovrumani che compiva tutti i giorni perché ognuno avesse di che
mangiare e coprirsi.
“Grazie, capitano. - accennò ancora un sorriso – Forza, Giada ci
aspetta”. Si volse ed andò a sbattere contro Freccia Letale, che sorrideva
solidale con Mas.
“Capitano, me l'avete fatta commuovere” rise Marçela, circondando
Rebecca con un braccio sulle spalle.
“Sì, sì, simpatici...” Spezzacolli borbottò tra le risa generali.
Li condusse ancora più giù nei sotterranei, spiegando loro che Alto
Castello era stato realizzato con moltissime comodità e che, in realtà, già
con John Henry solo un terzo delle tecnologie del maniero venivano
sfruttate. Leggendo le cronache e gli annali conservati nella biblioteca di
Alto Castello, Giada aveva rispolverato le macchine antiche.
Tra esse c'erano il montacarichi e le caldaie per il riscaldamento delle
camere del castello.
“Da quello che mi è dato capire, il riscaldamento avviene grazie alla
torba che viene bruciata nei grossi forni, di cui si può regolare la
pressione. Il calore riscalda a sua volta delle grosse cisterne d'acqua e
spinge il vapore nelle tubature del castello. In ogni stanza ci sono dei
cilindri di rame e ceramica, che si scaldano e diffondo il calore nella
stanza. In questo modo possiamo risparmiare sulla legna, perché la torba
dura di più ed il legname lo destiniamo alle costruzioni oppure a scaldare
le case in città.
“Esiste un sistema analogo per l'acqua delle vasche da bagno. In quel
caso però accendiamo le caldaie solo al mattino ed alla sera, in modo da
278
permettere alla gente di venirsi a lavare in un posto caldo. Dobbiamo
evitare epidemie e malattie respiratorie, se non vogliamo che la
popolazione sia decimata. In questo periodo le nostre guaritrici lavorano
senza sosta e i soggetti a rischio sono tenuti sotto stretto controllo”.
“Logisticamente, dietro a tutte queste persone, chi c'è?” chiese Mas.
“Io. Marçela, Freccia Letale e Giada prendono nota e riferiscono, ma
cerco di avere sempre chiaro quanto accade alla mia gente. Nella pratica,
però, sono loro a prendersi cura della gente di cui sono responsabili: io
coordino e basta. Eccoci”.
Aveva detto niente!
Nel locale delle caldaie l'illuminazione era rossastra a causa delle
fiamme tenute basse e del lento bruciare della torba, che non produceva
fiamme alte.
Due ragazzi ed una ragazza sui quattordici anni, sporchi di fuliggine
da capo a piedi, guardavano dentro la prima caldaia da sinistra: si
trattava di un'enorme cisterna di metallo, spesso diversi pollici, con
apertura circolare, in grado di tenere una persona adulta in piedi.
Rebecca si avvicinò loro. “Salve, ragazzi”.
“Madama Spezzacolli, salve. - salutò la ragazza – Giada è dentro
perché la canna è sporca, ma non riusciamo a vedere niente”.
“Uhm... vediamo che cosa mi dice il nostro genio. Intanto vi presento il
capitano Mas di Leman e George di Ygas, della Contea di Brealle. - li
lasciò alle presentazioni per mettere la testa e il busto nella caldaia
spenta. - Giada! Ehi...! - la sua voce risuonò nel tubo della caldaia e
George sentì come risuonava quel nome nel suo cuore. - Giada!”
“Sono diventata sorda” le rispose una voce dalla tubatura.
“E' colpa mia?” sorrise Spezzacolli.
“E' sempre colpa tua” seguì una risata di divertimento.
“Che cosa c'è?”
“Qualcosa che ha... otturato... la tubatura per il tira...aaah!”
Il corpo di Giada cadde addosso a Rebecca ed entrambe rovinarono a
terra, investite da una valanga di cenere vecchia di secoli. Poi in testa
delle due caddero oggetti inermi, come una pioggia.
“Via, via, che qui vien giù tutto!” Freccia Letale ebbe la prontezza di
riflessi di trascinarle fuori dalla caldaia.
“Spezzacolli!” Mas la rimise in piedi.
George aveva preso Giada sotto le ascelle per metterla in piedi e Tray
chiuse la porta della caldaia, perché tutta la sala non fosse invasa dalla
fuliggine. Dentro la caldaia continuarono i tonfi di corpi inerti ancora per
un minuto, poi fu il silenzio.
279
Giada, che nemmeno si era girata per vedere chi l'aveva aiutata, andò
ad aprire la porta spessa di metallo.
“Porca...!” esclamò sbigottita quando una valanga di fuliggine mista a
cadaveri di piccoli roditori carbonizzati le piombò sui piedi.
“Che cos'é?” chiese Tray.
“Ci credo che non tirava!” esclamò la ragazza con un sorriso trionfante
sulle labbra.
“Tutto bene?” le chiese Rebecca.
“Eh? Ah, sì, sì, sto benone. Ragazzi, fatemi un piacere, ripulite 'sta
roba. Domani mattina l'accendiamo” disse ai tre aiutanti e sorrise a
Rebecca.
Della principessa si vedevano solo i denti bianchi, brillanti e gli occhi
di zaffiro, che, nonostante la luce fioca, risplendevano. Tutto il resto era
coperto da uno strato spesso di cenere e fuliggine.
“Ti sei spaventata?” le chiese ridendo.
“Solo un coccolone di lieve entità”.
“La solita apprensiva”.
“E' che mi servi viva”.
“Allora sei la solita opportunista. Ti bacerei, se non fossi sporca da far
schifo”.
“Ha parlato Madama Pulizia. - si volse verso il nuovi arrivati – Mas,
George, lei è Giada”.
“L' Ingegnosa Giada” sorrise Mas, stringendole la mano annerita.
“Giada mi basta e avanza. E' un piacere” la stretta della ragazza non era
vigorosa come Mas si sarebbe aspettato, ma il sorriso valeva più della
stretta di mano, aperto e amichevole. Rimase incantato dagli occhi
celesti, così splendenti.
Giada si volse per salutare George.
Il giovane capitano era rimasto a bocca aperta.
Con la fuliggine, con la testa coperta dal copricapo, con abiti che la
nascondevano, George la riconobbe. La sua Donna-ombra.
Giada boccheggiò a sua volta, stupefatta.
“George...?” chiese alla fine.
“Vi conoscete?” era Spezzacolli.
“Solo... solo di vista” sorrise Giada allora enigmatica. E da quel sorriso
Rebecca comprese molte cose.
280
5.
Al campo tutti notarono il ritorno solitario del Barone di Weer.
La grande balestra sulla schiena, la spada al fianco e l'espressione
truce di chi non ha voglia di parlare. Le vesti sporche bastavano a
spiegare tante cose.
Gli uomini erano raccolti attorno al fuoco per la colazione, il Barone
si sedette sulla sua poltrona e fece un cenno che gli fosse portato il caffè
corretto, pane, lardo e crêpes ai frutti di bosco. Trangugiò la colazione in
silenzio, alzando gli occhi pochissime volte.
Il suo seguito attendeva, sull'attenti, cuochi compresi.
Si respirava un'aria carica di tensione e paura. A nessuno era sfuggita
l'assenza dei due comandanti del Barone.
Alla fine del pasto, dopo essersi acceso di che fumare, Jacob alzò gli
occhi chiari sui suoi uomini. Li fissò negli occhi uno ad uno: lesse astio,
odio, rabbia, indifferenza, paura, dolore. Non ce n'era uno che lo
stimasse, nonostante il fatto lui li pagasse per il loro lavoro, anziché
schiavizzarli. Avrebbe potuto e, si disse con ira, dovuto vista la fedeltà
che avevano verso di lui.
Ciononostante quegli uomini gli servivano. Sarebbero stati quei
conigli cagasotto ad accrescere la sua fama di bastardo senza cuore. A
riportarlo al suo posto.
“Smontate il campo. Partiamo” impose.
“Subito...?” si arrischiò a domandare il capo della guardia.
“Subito.- ribatté Jacob, inchiodandolo con lo sguardo – o aspetti
qualcuno?”
L'altro scosse la testa con vigore. Troppo vigore, gli occhi spalancati
di terrore. “No, mio signore. Nessuno”.
Jacob accennò con la mano che le fila potevano essere rotte e li
osservò lavorare per smontare il campo. Nessuno fiatò per tutta la
mattinata; quindi la carovana si rimise in marcia.
Allontanandosi, il Barone si volse per cercare con lo sguardo la casa
di Moag il Medico.
Con Amalia era veramente finita?
281
6.
Moag beveva il the del dopopranzo seduto sul dondolo, sotto il portico.
La grande casa riposava nel calore del pomeriggio estivo, sua moglie
aveva messo a dormire i figli piccoli, mentre i più grandicelli erano
andati al fiume con due delle tre Sorelle di Hilu.
L'uomo scorse la carovana di Weer allontanarsi. In quei giorni,
quando lui era stato lì, molti dei suoi concittadini erano venuti a
discorrere sui motivi che avevano portato il Barone a fermarsi ad Einaki.
Quello che sorprendeva Moag era lo scarso seguito di Jacob: non c'erano
intenzioni bellicose.
Moag si chiese che fine avesse fatto Mastro Mayster – Corin.
Scappato dalla sua casa nel silenzio della notte, come un fuggiasco.
Corin aveva smesso di fidarsi di lui. Moag non ricordava di che cosa
avessero parlato la sera prima della fuga dell'amico; poi lui era fuggito
con i suoi bambini. Perché Mastro Mayster aveva dubitato di lui? Era
così cambiato da indurlo a pensare di non essere più lo stesso, fidato,
amico che gli aveva salvato la vita?
Era stato per Amalia?
Con lei non aveva parlato del dolore che gli aveva arrecato la fuga di
Mastro Mayster. Moag aveva sessant'anni e soffriva per quell'amicizia
che finiva così, senza una spiegazione logica. Tutto ciò che c'era di
diverso in lui era Amalia.
...Mayster l'aveva lasciato per via di Amalia?
Lei comparve silenziosa come sempre e si sedette sul parapetto del
portico.
Suo marito la fissò, assorto.
C'era qualcosa, di lei, che gli sfuggiva. Sì, - si disse – Mayster l'aveva
lasciato a causa di Amalia. Era inutile mentire a se stesso, sua moglie
era una creatura misteriosa, sfuggevole e pericolosa. In fondo ai suoi
occhi Moag leggeva qualche segreto oscuro, un segreto che aveva a che
fare con il suo passato di cui non parlava, non aveva padre e non aveva
madre; non aveva avuto famiglia, né amici. Per mesi aveva cercato
notizie su di lei, mentre giaceva nel letto, sospesa tra la vita e la morte.
Niente. Di lei non v'era alcuna notizia, alcuna informazione. Come se
fosse apparsa dal nulla. Moag aveva creduto alla sua versione dei fatti ed
ai suoi silenzi. Ci credeva ancora, attendeva la sua spiegazione. L'amava,
si fidava. Anche dell'oscuro segreto che aveva portato uno dei suoi
migliori amici e il liberatore di Hakne a fuggire come l'ultimo dei
282
briganti con tre creature innocenti al seguito.
“Se ne sta andando” sospirò infine Amalia, gli occhi fissi sulla carovana
di Weer.
“Così pare. Non si è fermato che un paio di giorni”.
Lei non rispose. Moag vide le ombre nel suo sguardo, l'aveva
osservata e studiata così tanto nel suo amore da aver imparato a
riconoscere quando l'animo della moglie era rivolto al passato.
Amalia si chiese se era veramente libera. Jacob di Weer se ne stava
andando, ma con l'Oltrevista si accorse che si era voltato verso la sua
casa. La stava cercando?
Perché non si sentiva libera?
Moag la fissava, sentiva gli occhi del marito su di sé. Se Moag avesse
saputo ciò che l'aveva legata a Weer! Se avesse anche saputo del rischio
da lei corso per liberarsi del Barone, sarebbe riuscita in parte a
redimersi? Ne dubitava.
Eppure aveva fatto tutto per lui, per stare con suo marito.
Voleva vivere onestamente, essere sincera con Moag. Niente più
segreti. Niente più congiure. Aprì la bocca per parlare.
Moag aspettava.
Aspettava amorevole, fiducioso.
Che ne sarebbe stato del suo amore, della sua fiducia, quando avesse
saputo che era stata una spia di Jacob di Weer? Che si era prestata alla
crudeltà del Barone per arrivare a lui? Per arrivare a Mastro Mayster?
Moag sarebbe stato ancora amorevole? Ne dubitava fortemente.
Per la prima volta si domandò quanto amasse se stessa e quanto suo
marito. Raccontargli ora la realtà sarebbe stata una pugnalata e serviva a
lei solo per alleggerirsi l'animo. Sarebbe stato un atto crudele nei
confronti di un uomo che aveva sempre mostrato rispetto e fiducia per
lei, nonostante avesse intuito l'oscuro segreto dell'animo.
Nessuno dei due parlò.
La carovana di Weer procedeva, videro passare l'ultimo carro.
Né lui né lei rivelarono ciò che veramente pensavano: Moag non
disse che avrebbe accolto qualunque segreto maledetto di lei; Amalia
non disse che l'aveva fatto per non perdere suo marito, l'amore di una
vita.
Gli occhi della donna si riempirono di lacrime. Suo marito si alzò per
andarla ad abbracciare con l'usuale dolcezza.
“Perché piangi?”
“Pensavo al... passato”.
“Anch'io”.
283
Silenzio. Amalia fu presa da un attacco di ansia e dolore. Quando,
quando aveva capito di amare così intensamente Moag da non poter fare
a meno di lui? Gli si aggrappò, nascondendo la testa contro la spalla.
“Perché stai piangendo?” ripeté lui.
“Perché stavo pensando alla fortuna della mia vita di essere salvata da
te” provò a sorridergli tra le lacrime.
A palmo aperto, muovendo i pollici, Moag le asciugò il volto.
“Davvero sei felice, qui con me?”
Amalia annuì ed alzò il viso per ricevere un bacio. Un altro ed ancora
un altro.
Nella casa i bambini dormivano ai piani superiori, le cicale frinivano
e l'estate era calda, piena, colorata e profumata. Sul portico Amalia aveva
alzato le gonne e si era aggrappata al collo del marito per fare l'amore;
sullo sfondo la carovana dell'uomo che aveva governato la sua vita fino a
quel momento si stava allontanando.
Era libera, finalmente?
7.
Rebecca procurò ai due capitani qualcosa da mettersi di pulito, due
asciugamani e li spedì a farsi il bagno.
L'incontro tra George e Giada aveva lasciato tutti stupefatti, nessuno
riusciva a capire lo scambio di sguardi tra i due. Avrebbero anche potuto
lasciarli lì a guardarsi, ma tanto Rebecca, quanto le sue compagne
avevano bisogno di un bagno caldo e la donna anche di pulire la ferita
prima che si infettasse.
Quando Spezzacolli raggiunse le compagne alle vasche destinate alle
donne si lasciò sfuggire un sospiro.
Non poté fare a meno di ammirare la bellezza statuaria di Freccia
Letale, così alta e dalle forme sode; la perfezione assoluta di Giada in
ogni parte del suo corpo; la morbidezza delle forme floride di Marçela,
che di figli ne aveva avuti cinque e continuava ad essere invitante come
una torta di panna montata. Era con quest'ultima che Rebecca aveva
difficoltà a confrontarsi: anche lei aveva avuto dei figli, ma non aveva lo
stesso seno pieno, non aveva la pelle tanto luminosa. Anzi, i giorni duri
del combattimento le avevano rinforzato il fisico ed i muscoli,
rendendola più asciutta. Non era più la Rebecca di Makma.
Tray la vide arrivare e si accese una sigaretta. Una volta ripulita dalla
mistura che si mettevano per mimetizzarsi svelava una pelle olivastra e
284
liscia.
“Ti metto i punti” fece un cenno al capo di avvicinarsi.
“Ti fai curare da quel macellaio?” sogghignò Marçela.
“Un ottimo macellaio” le rispose Rebecca e si sedette accanto a Tray. In
realtà Freccia Letale aveva la mano più delicata di Marçela e metteva
punti piccoli e vicini tra loro, che lasciavano la cicatrice meno visibile,
una volta rimarginata.
“Devi stare più attenta” la redarguì Giada, in acqua a lavarsi i capelli.
“Sono cose che capitano” rispose Rebecca.
“Come li avete incontrati i due ometti?” indagò Marçela.
Tray glielo raccontò.
“Sei contenta?” le chiese con un ghigno.
“Dovrei?”
“Ho visto come ti sei mangiata con gli occhi il capitano Mas” ribatté
l'ex prostituta.
“Non l'ho mangiato” si difese Marçela divertita.
“Direi che è stato un rapporto completo” ribadì l'altra.
Risero di gusto.
“Fatto” Tray aveva finito di ricucirla e Rebecca poté scendere in acqua.
Prima di andare alle vasche, si era fatta una doccia per togliere il grosso
della fuliggine.
Spezzacolli si abbandonò in acqua, la testa indietro, i capelli corti che
ondeggiavano. Chiuse gli occhi ed assaporò il calore. Un altro inverno
stava per giungere e lei ancora non aveva ritrovato i suoi figli.
Si sentiva esausta. Voleva Corin, voleva vederlo entrare nella stanza e
dirle: “Vieni, bambina, vieni che ti metto a dormire. Ora ci penso io”;
voleva poter ridere ed essere di nuovo felice.
“E ai bambini che cosa dici?” Giada interrogò Marçela circa la sua
attrazione per Mas.
“Che cosa dovrei dire?” sorrise l'altra donna.
“Cioè... circa il loro padre” gli occhi celesti corsero da Marçela a Tray.
Aveva detto qualcosa di sbagliato?
“E cosa dovrei dire?” Marçela si stava divertendo un mondo a vederla
boccheggiare per l'imbarazzo.
Rebecca le lasciò perdere. Gli occhi chiusi, l'acqua calda e lei, secoli
prima, con i capelli lunghi che ondeggiano sulla superficie, le mani di
suo marito che l'accarezzano.
285
8.
Aspettava Jesse e la sua pancina era appena accennata. Ma lei si
sentiva l'ombelico del mondo, si sentiva la creatura più importante e
beata dell'universo intero.
L'inverno era alle porte e i novelli sposini avevano ottenuto di poter
stare nella vasca delle terme per un'ora, da soli. Rebecca aveva goduto
di quell'acqua calda, di Corin e delle sue mani enormi che la
sostenevano sotto la schiena per farla galleggiare, delle mani che
accarezzavano cosce, seno, ventre.
“Starei così per sempre” sussurrò una Rebecca giovanissima, gli occhi
chiusi per assaporare ogni gesto del suo amore.
“A chi lo dici”.
“Non vedo l'ora di sentirlo muovere”.
Corin sorrise, la mano sul ventre. “E quando si muoverà, non vedrai
l'ora che si fermi”.
“Il mio soldatino”.
Corin ebbe un sospiro strozzato. Rebecca l'aveva guardato, senza più
sorridere. “Che cosa c'è, amore?”
“Che non riesco a crederci. Diventerò padre”. Gli occhi corvini di
Corin, poco più che ventiquattrenne, erano spalancati per l'emozione.
“Sei spaventato?” s'intenerì lei.
“Felice che mi viene da piangere”.
Rebecca aveva scorto i suoi occhi umidi di lacrime. In quel momento
il leggendario Mastro Mayster era poco più di un ventenne abbattuto
dalle emozioni. Sembrava troppo fragile per affrontarle tutte insieme.
“Amore” lei sussurrò, abbracciandolo stretto, così stretto perché lui lo
sentisse, che era tutto reale.
Corin non aveva più detto nulla, si era lasciato cullare dall'acqua
calda, dal profumo di lei, dai capelli che ondeggiavano. E, senza che lui
parlasse, Rebecca sapeva che il pensiero andava ai lunghi anni di
combattimenti, quando l'unica cosa certa era la morte. Ora, tra di loro
c'era la piccola vita di Jesse.
La nuova vita.
286
9.
“Rebecca...? Becca!” Marçela la stava chiamando.
“Uhm, dimmi” Rebecca non aprì gli occhi.
“Hai sentito cos'ha chiesto la nostra fanciulla?”
“No, che ha chiesto?”
“Della fedeltà tra moglie e marito”.
“Allora?”
“Sto cercando di spiegarle che dopo un po' di anni di matrimonio la
passione svanisce, che è normale cercarsi qualcun altro”.
“Becca, tu lo sapevi che non tutti i figli di Marçela hanno lo stesso
padre?” intervenne Giada piccata.
“No, non lo sapevo. Ma Marçela avrà avuto i suoi motivi”.
“Oh, grazie alla Dea, qualcuno che mi capisce! Becca, diglielo anche tu
che è normale avere degli amanti. Per tutti”.
Giada la occhieggiò malevole: davvero aveva tradito Mastro
Mayster?
“Non lo so, Marçela. Non lo so se per tutti è così. Temo d'essere l'unica
sposa fedele allora”. Rebecca si mise dritta e prese a lavarsi i capelli con
uno dei tanti saponi prodotti da Marçela.
“Non hai mai tradito tuo marito?” si stupì l'altra.
“No, mai. Amo mio marito”.
Nessuna disse nulla per qualche minuto, poi fu Tray a parlare: “Come
vi siete conosciuti?”
“Avevo dodici anni e lui era un soldato di John Henry di passaggio a
Makma. Mi sono innamorata e l'ho aspettato”.
“Quanto hai aspettato?”
“Quasi quattro anni. Poi lui è tornato e ci siamo sposati”.
“Quattro anni?” Marçela era sconvolta.
Rebecca sorrise mesta. “Quattro anni” confermò.
“E non hai mai avuto altri spasimanti?” si stupì l'altra.
“No, nessuno. Ero decisa: o lui o diventavo guaritrice”.
Tray si accese un'altra sigaretta. “Quanti anni aveva lui, quando vi
siete conosciuti?”
“Venti all'incirca”.
“Era un uomo. Era innamorato anche lui?”
“E' tornato per me dopo quattro anni. Penso di sì, che mi amasse” Corin la sera del suo ritorno a Makma, nascosto tra le fronde
dell'ippocastano che sarebbe poi stato nel loro cortile: “Ti amo,
287
Rebecca. Ti ho amato dal momento che sei entrata in quella tenda.
Dovevo dirtelo... sono anni che me lo dico da solo”. Lei aveva sorriso
con il cuore in gola: “Avevo paura di restare da sola”. “Sei l'unico
motivo della mia vita, Bambolina”. Rebecca aveva alzato il viso verso di
lui ed aveva dato il suo primo bacio. “Sto baciando Mastro Mayster”
rise piano emozionata. “No, stai baciando un uomo che vive per te”.
“Vi siete sposati subito?”
“No, abbiamo aspettato la primavera. Mio marito voleva costruire la
nostra casa”.
“Ma in tutto quel tempo, non ti sei mai arresa? Cioè, quattro anni sono
tantissimi”.
“No, anche se ci piangevo la notte. - la voce le si ruppe, al ricordo di
una se stessa adolescente stretta con le ginocchia al petto a piangere di
solitudine – La verità era che non m'importava di saperlo sposato con
un'altra, ma solo di vederlo e sentire la sua voce. Mi sarebbe bastato
sapere che stava bene”.
“Quanto ti manca, tuo marito, Becca?” mormorò Tray, la cui voce era
spezzata in un rammarico profondo per non aver mai capito veramente in
tutto quel tempo.
“E'... è difficile da spiegare. - ribatté l'altra, gli occhi smeraldo fissi
sulle mani appoggiate sulla superficie dell'acqua – Mi sento un paletto
ficcato nello stomaco. Non riesco a mangiare, a dormire, a provare caldo
o freddo... mi sento come immobilizzata. Qualunque gesto mi porta a
pensare a lui ed ai bambini; alla nostra vita di una volta. Io non voglio
tornare alla mia casa, voglio tornare insieme a loro. E vorrei riuscire a
non sentirmi tanto disperata perché sono quasi due anni che sono
separata da loro. E vorrei non piangere, perché poi sto peggio”.
Furono parole inutili. Gli argini si erano rotti. Rebecca poté solo
prendersi il suo asciugamano ed andarsene.
Tray si spense la sigaretta. “Fine della chiacchierata”.
Marçela mise a posto i saponi e Giada si asciugò il viso. Anche senza
potere sentiva che l'amica era piegata con le ginocchia al petto a versare
tutte le lacrime che provava per il dolore della lontananza.
Rebecca dava loro speranza, ma chi dava speranza a lei?
288
CAPITOLO 16.
1.
Il Marchese Anton di Ground – questo era il suo nome intero – aveva
lasciato le sue terre a nord per attraversare in pompa magna Hakne e
soprattutto adempiere al dovere affidatogli da Corin il Fuorilegge:
raggiungere la Capitale per rappresentare la resistenza contro Weer.
Quando passava per un villaggio mandava avanti due delle sue sei
guardie perché la popolazione fosse preparata a dargli il giusto
benvenuto; qualche volta riceveva onori, qualche volta si trovava chiuse
le porte delle uniche locande del posto. Soprattutto a Tulle ebbe dei
problemi: il popolo appoggiava la scelta del Conte di seguire Jacob di
Weer e di conseguenza boicottava il Marchese alleato di Corin e
rappresentante di una monarchia decadente come quella di John Henry.
Più di una volta Ground dovette pagare profumatamente per avere una
stanza più simile ad una stalla, che all'alloggio di un nobile signore con
lui.
Lo accettava a denti stretti. Si ripeté fino alla nausea che la cugina
Justine avrebbe pagato anche quello, che la ricompensa della casata reale
avrebbe dovuto essere molto generosa per tutto ciò che stava subendo.
“Siete uno stupido” lo schernì un oste presso il quale si era fermato.
“Voi dite?” rispose il marchese con un grugnito.
“Lo direste anche voi stesso, se vi guardaste da questa angolazione:
state percorrendo questa strada in onore di un sovrano fantasma che
succhia i nostri soldi. Avete un'idea di quanto guadagna quel bastardo?
Lui e la sua Corte! Intanto i Soldati Rossi sono tornati!”
“Corin è la nuova speranza di Hakne” aveva replicato senza enfasi
Ground.
“Corin è un povero diavolo come Mayster. L'errore più grande che il
Consiglio ha fatto è stato di tenersi quell'inetto di John Henry invece di
levarlo dal trono. In tempo di guerra comandano i generali e Mayster era
un ottimo Generale”.
Ground non aveva più detto una parola, ma la frase rimbalzava nella
sua mente in continuazione: che se ne faceva Grande Regno di un re
fantasma come John Henry? E di un Generale come Mayster, che
rimaneva pur sempre un soldato?
289
La bella stagione favorì la sua marcia. Era ancora estate quando
infine raggiunse il sud del Regno, in assoluto la regione più fertile e
florida di tutto il territorio. Non c'era pianta che non trovasse la sua terra
ideale, si diceva che un incantesimo potente avesse avvolto la Regione di
Hakne, un incantesimo capace di benedire ogni acro. Leggenda o no,
certo era che per un millennio la Regione di Hakne era l'unica ad essere
abitata. Con tanta abbondanza, che senso aveva cercare altrove? Lì era
stata fondata tutta la cultura del popolo di Hakne così come si conosceva
e si vedeva: c'erano statue finemente lavorate, le abitazioni possedevano
un'architettura che, a confronto con quelle del Nord, era assai ricercata;
le strade erano pavimentate e, cosa ancora più incredibile per uno come
lui, c'erano cartelli che indicavano i percorsi. Cartelli! Segnalatori!
Per non parlare del clima: caldo, sì, ma non caldo afoso. Un caldo
ventilato favorito dalla vicinanza con il mare, che benediva la terra.
E c'erano case. Centinaia di case e fattorie: la Capitale si presentava
come un'enorme città intervallata di campi. Non esisteva un solo acro di
terra che non fosse coltivato o su cui non ci avessero costruito qualcosa
sopra – e questo ora spiegava al Marchese per quale motivo partirono i
primi esploratori alla volta delle Terre del Nord. Hakne era
sovrappopolata.
I palazzetti e le abitazioni della classe nobiliare erano di un bianco
abbagliante, a tre piani, con giardini privati ricchi di statue e decorazioni;
là, ad Hakne, non esistevano i borghesi. Non esistevano i bifolchi che
avevano fatto i soldi e che si permettevano di sedere alla sua tavola come
parigrado.
Ground non trattenne l'esclamazione di sorpresa quando, oltre una
piccola collina, apparve ai suoi occhi la città ed il castello reale. Hakne
era stata costruita nei secoli su di una pianura ampia, a pochi chilometri
dalle porte della città era possibile vedere il porto navale immenso con le
sue vele, simili a nuvole bianchissime. Era da lì che giungevano i frutti
ed ogni creatura esotica provenienti dalle Terre di Sabbia e Fuoco.
Man mano che la compagnia procedeva alla volta di Hakne la brezza
del mare portava loro gli odori di una città viva e piena di movimento,
così tanto che non se lo sarebbero mai immaginato. E l'odore, l'odore del
mare, per quegli uomini del Nord che non erano mai stati sull'oceano, li
fece esaltare.
“Mio signore, guardate che meraviglia!” indicò il giovane scudiero a
Ground, con il dito rivolto al castello reale.
La costruzione era imponente, di marmo bianco e quarzo, il sole
rifletteva i minuscoli cristalli e la rendeva abbagliante – così abbagliante
290
da ricordare al Marchese il giorno in cui Lady Esterella aveva varcato la
porta della sala e tutti, dagli uomini agli animali, avevano trattenuto il
fiato per la meraviglia della sua persona.
Procedendo lungo le strade pavimentate, Ground si rese conto in che
misura fosse barbara e retrograda la gente del Nord; gente che lavorava
le terre reali e che versava un misero contributo rispetto a quello che
avrebbe potuto. Se ad Hakne le terre appartenevano tutte alla casata reale
– ragion per cui i contadini versavano una tassa d'affitto nelle casse reali
ed in quelle del nobile che governava le terre -, al Nord era tutta un'altra
storia: le terre coltivate erano di esclusiva proprietà del contadino,
cosicché un quarto del suo guadagno annuale andava alla casata reale e
l'altro quarto al nobile signore che amministrava le terre per pace e
giustizia. Così al contadino rimaneva ben metà del guadagno annuale e
la terra, su cui la faceva da padrone: era così che centinaia di rozzi
bifolchi aveva fatto fortuna.
Ed era stata una legge di John Henry a concedere loro tanta
ricchezza.
Ground, come tanti altri nobili signori, non era affatto soddisfatto di
quella restrizione: in qualità del nobile nome che possedevano, avevano
il totale diritto di tassare anche le terre dei contadini e pretendere da loro
vino, bestie e cibo. Poco prima che la Guerra Rossa avesse inizio John
Henry stava lavorando ad una legge che alleggerisse anche i contadini di
Hakne, ma si era scontrato con il Consiglio che aveva fatto notare un
alleggerimento notevole delle casse reale. Sarebbero andati in perdita.
John Henry aveva risposto che sarebbe accaduto l'inverso: il popolo, con
più ricchezze, avrebbe cominciato a spendere e quindi ci sarebbe stato un
fiorire di commerci. Ci sarebbe anzi stato un incremento di entrate.
Si era scatenata una tempesta tra il re ed il Consiglio, che non voleva
nella maniera più assoluta concedere tanti privilegi alla classe popolare.
Che cosa sarebbe successo con la ricchezza? I figli del popolo avrebbero
cominciato a studiare, avrebbe cominciato ad avanzare pretese, sarebbe
stato l'inizio della fine di tutti quei privilegi unici dei nobili.
E poi? Cos'avrebbero voluto i contadini? Diritto di elezione? Il diritto
ai giorni di riposo? La possibilità di ribellarsi alle scelte del nobile
amministratore delle terre?
Ground era pronto ad andare fino ad Hakne, all'epoca, per dire la sua:
i contadini erano poco più che bestie, nate per zappare e strofinare
pavimenti. La loro esistenza era fondata su tre principi base: mangiare,
bere, scopare.
Con l'inizio della Guerra Rossa, però, il Marchese aveva dovuto fare
291
marcia indietro ed aveva dato l'appoggio al sovrano, solo per entrare
nelle sue grazie e poter entrare nel Consiglio. Era convinto, come tanti,
che la Guerra Rossa con Weer fosse poco più di una scaramuccia.
Durante gli anni di guerra aveva pensato più di una volta di cambiare
bandiera perché le idee di supremazia del più forte sul più debole non si
distanziavano tanto dalle sue, ma farlo sarebbe stata un'idea suicida:
l'intera classe nobiliare appoggiava John Henry.
Ma adesso...
Adesso la storia era diversa. Niente John Henry e, per quanto lo
riguardava, niente Mastro Mayster. Non c'era neppure Corin con i suoi
tre mocciosi e Mas e George facevano parte di quella gente buona ad
andare al macello. Dopo la sconfitta tragicomica sul Fiume Dorato,
anche Jacob di Weer era fuori dalla corsa al trono.
Rimaneva Giada.
Ground aveva tutta l'intenzione di scoprire se alla Corte della cugina
Justine era nascosta la figlia ormai diciannovenne di John Henry.
Nonostante il potere non passasse per via femminile, Giada poteva
tranquillamente trovarsi un marito, ricevere la benedizione della cugina
Justine e far proclamare il maritino re di Hakne. Era necessario ritrovare
la principessa.
Avanzare i suoi diritti al trono sarebbe stato assai complicato, poteva
solo vantare di aver appoggiato Corin il Fuorilegge per fermare la
conquista di Weer, ma dubitava che questo sarebbe bastato.
Doveva farselo bastare, e lo sapeva.
A pochi chilometri dalle porte della città si diede un'occhiata: indosso
aveva vesti di cuoio, lana e cotone, degne del miglior pastore della sua
regione. Osservò l'esigua compagnia. Faceva ridere dalla pena, si disse.
Non poteva presentarsi da Justine in quello stato.
2.
Rebecca raggiunse Ada appena fuori dalla sala da pranzo. Per festeggiare
l'arrivo dei due capitani di Corin il Fuorilegge avevano improvvisato una
piccola festa; le donne avevano preparato dei piatti semplici e veloci, ma
gustosi, gli uomini avevano aperto le botti e tagliato salami e formaggi.
Nella grande sala da pranzo c'erano almeno trecento persone a cenare ed
erano tutti adulti. I bambini venivano sorvegliati dagli adolescenti;
Marçela smise i panni della madre e vestì quelli della donna.
Dopo il bagno, indossò l'unico abito di cotone e lana colorata che
292
possedesse, ci mise sopra una cintura decorata con immagini fantastiche
e lasciò i capelli sciolti in una nuvola morbida e profumata. La pelle era
luminosa, il sorriso radioso, la scollatura generosa. Quando entrò nella
sala da pranzo, dove Mas e George stavano aspettando con altri venti
uomini, tutte le teste si voltarono ad ammirarla.
“Madama” Mas le andò incontro con un sorriso stupefatto e adorante,
salvo poi occhieggiare con malagrazia gli altri uomini presenti. Marçela
ora era affar suo.
Il gioco della seduzione non sfuggì alla donna, la quale sfoderò il suo
sorriso più smagliante al capitano.
“Come vi sentite dopo il bagno?” chiese.
“Meravigliosamente. Madama Spezzacolli ha ragione: Giada e le sue
caldaie sono la più grande invenzione che ci potesse essere” l'occhio
cadde sulla generosa scollatura e Marçela ammiccò verso il capitano.
Questa volta il sorriso fu complice.
Rebecca, fuori dalla sala, si consultò con Ada: “E' tutto a posto? Vuoi
che venga a dare una mano?”
La madre adottiva rise con allegria: “Benedetta bambina... prova a
rilassarti, no?”
Furono raggiunte da Tray e Giada. Le tre donne si scambiarono
un'occhiata triste per quanto accaduto poco prima alle vasche e le ultime
due raggiunsero gli uomini nella sala. Solo allora Ada si accorse degli
occhi rossi di pianto di Rebecca.
“Che cos'è successo?” le domandò obbligandola a fissarla.
“L'arrivo di Mas e George... niente, il fatto che siano stati con Corin mi
ha mandata in crisi” spiegò senza tanti complimenti.
Ada non le disse più di “portar pazienza”. Le accarezzò il viso e
mormorò qualche parola di rammarico, poi si dileguò verso le cucine,
per controllare che tutto fosse pronto.
Rebecca attese prima di entrare nella sala.
Lei era il capo. La cena non sarebbe cominciata in sua assenza.
Ciononostante l'idea di stare in mezzo agli altri, in un momento in cui
voleva isolarsi, le metteva l'ansia. Rimase a spiare i suoi ospiti.
Vide gli occhi spalancati di incredulità di George; vide quelli pieni
d'amore di Giada e comprese le frasi mezze mormorate della principessa.
Nel momento in cui lei era entrata nella sala, nonostante il suo abito
fosse di lana semplice, con piccoli ricami floreali sulla scollatura e i
capelli nascosti dal solito fazzoletto, era abbagliante nella sua bellezza.
Non si poteva sfuggire agli occhi color zaffiro, né alla fronte alta o alle
labbra morbidissime; così come non si poteva evitare di ammirare il
293
portamento e la perfezione del corpo.
Ma Giada - non ci fu bisogno di alcuna occhiataccia – apparteneva a
George. Si diresse verso di lui con il sorriso fiducioso di una bambina,
allungò le mani per farsele prendere.
“Senza fuliggine è meglio, che ne dici?” scherzò.
“Con o senza, non importa” rispose lui.
George non finì la frase, ma per Giada non ce ne fu bisogno. Si
misero a chiacchierare subito, ignorando i presenti, confondendosi con le
ombre che le torce ed il fuoco del camino facevano crescere sui muri.
Ada arrivò con le ragazze e le prime portate. Rebecca sospirò ed aprì
le grosse porte della sala per far spazio.
“Buonasera a tutti” salutò.
Sui visi di Mas e George il sorriso scomparve all'istante.
Ora vedevano Spezzacolli senza la mistura per mimetizzarsi.
Scorgevano i tratti del suo viso con chiarezza, gli zigomi appena
pronunciati, la fronte alta, le labbra sottili e ben disegnate, gli occhi
verdissimi. Finalmente potevano osservare ogni tratto di lei.
Non conoscevano il nome della moglie di Corin, ma i medaglioni li
avevano visti milioni di volte. E la somiglianza con Jesse, Mark e
Tommy era innegabile. Soprattutto gli occhi di smeraldo di Jesse.
Rebecca Spezzacolli era la moglie di Corin il Fuorilegge e la madre
dei suoi figli.
Mas si fece avanti e s'inchinò profondamente: “Mia signora, mormorò – ora mi spiego tante cose. E' un onore potervi servire”.
Rebecca incontrò lo sguardo del capitano.
Lui sapeva. Sapeva che Corin era Mastro Mayster. E sapeva che lei
era sua moglie.
“Più tardi, Mas. Più tardi ne parleremo. Ora godetevi la festa in vostro
onore” sussurrò con voce atona e triste.
“Spero con tutto il cuore, mia signora, che presto si possa festeggiare in
vostro onore”.
“Lo spero tanto anch'io, capitano”.
Mas vide gli occhi rossi ed ora di nuovo umidi di pianto. Lesse tutto,
l'immenso dolore di quella donna lontana dai figli e dall'uomo che
amava. Annuì e tornò con gli altri invitati.
Rebecca si servì da bere con mani tremanti.
Aveva rotto gli argini e per quella sera non c'era nulla da fare.
294
3.
Quando Mastro Mayster scese dal ponte della nave con i suoi figli al
seguito, la gente lanciò un'ovazione.
Jesse si nascose dietro il corpo di suo padre ed alzò il capo per
scorgere la sua espressione. Corin non portava alcun elmo, le spalle fiere,
l'espressione del viso solenne.
Suo padre sapeva esattamente chi era.
Non appena erano attraccati al porto, Corin aveva mandato alcuni
uomini a cercare carrozze e a procurare un posto dove John Henry
potesse alloggiare; la notizia del ritorno del re e di Mayster aveva fatto il
giro della grande città portuale, la gente aveva mollato tutto così com'era
per andare incontro al valoroso Primo Generale del re. Le notizie su di
lui volarono velocissime: si seppe subito che per mesi si era fatto
chiamare Corin il Fuorilegge, che aveva sconfitto Weer sul Fiume
Dorato, che aveva tre figli.
Ed eccolo, il popolo acclamatore. Osannavano il nome di Mayster
come se fosse stata una divinità, gli lanciavano fiori e rendevano
omaggio prostrandosi.
E lui, Mastro Mayster, Corin di Makma, Jesse Jordan di Monn, che
scendeva dalla passerella imponente, unico. I suoi figli gli si
appiccicarono alle gambe, mentre il Generale salutava tutta quella gente
venuta a porgergli omaggio; le mani si allungavano per toccarlo, per
accarezzarlo; alcune donne scoppiarono in lacrime, quando lui rivolse a
sua volta una carezza, un saluto.
Jesse non avrebbe mai saputo dire quante mani aveva stretto quel
giorno. In qualità di figlio primogenito di Mastro Mayster, la gente lo
vedeva come un giovane principe e lo trattava come tale; Mark strinse
tutte quelle mani con gioia, sopraffatto dalla forza degli animi di tante
persone ed il piccolo Tommy sorrideva incantevole.
“Generale, bentornato...”
“Generale...”
“Vostra grazia...”
Mastro Mayster aveva mille appellativi. Ed ebbe mille sorrisi, mille
strette di mano, mille parole diverse e gentili per quel popolo che
difendeva – anche a costo di rinunciare a se stesso, alla sua famiglia.
Gran parte del risentimento di Jesse verso suo padre, che gli aveva
taciuto la verità, morì quel giorno. Gli bastò vedere la benevolenza di
quel popolo verso tutti loro. Probabilmente, anche senza conoscere i
295
dettagli, la gente sapeva a quante rinunce andava incontro Mayster per
tutti loro.
Sei mio figlio, - gli aveva detto Corin durante la campagna di guerra
sul Fiume Dorato – si aspettano che tu li protegga. Che tu sia il loro
protettore.
Ci misero un tempo indefinibile per arrivare alla locanda dove
avrebbero alloggiato. Jesse non si volse neppure una volta, ma Corin sì:
dopo di lui veniva John Henry. Il sovrano ricevette un'accoglienza più
mite. Il popolo gli rese omaggio con deferenza, ma senza calore. Le mani
strinsero quelle del re, ma senza vigore. E il re sorrise, mite, triste,
rassegnato al suo ruolo di fantasma e di uomo finito.
La locanda che li accolse era la più lussuosa della città e,
ciononostante, non era minimamente paragonabile alle locande di
Hakne. Questo fu il pensiero di John Henry, non appena ebbe di che
mangiare e bere. Non si trattò di un pensiero malevolo, ma di una
semplice constatazione: se non ci fosse mai stata la Guerra Rossa, lui
sarebbe riuscito a portare la stessa cultura al Nord del Grande Regno?
Nell'ultima dozzina di anni aveva passato ogni santo giorno a
chiederselo. Se se se. Ma ma ma.
Corin finì di sistemare i bambini per andare a letto - “Papà, sono
grande, io” aveva protestato Jesse. “Non lo metto in dubbio. Ma rimane
il fatto che la notte continui a scoprirti”. “Non mi sono mai ammalato,
però”; “Certo, mi sveglio otto volte per notte a coprirti” - e tornò nella
sala principale della locanda, dove le più alte autorità della città erano
accorse per rendere omaggio al sovrano ed al suo Primo Generale.
“Bentornato, Generale” fu salutato.
“Grazie”.
I due uomini sorrisero appena imbarazzati: “Se avessimo saputo di
voi prima anziché di un certo Corin il Fuorilegge, avremmo inviato
immediatamente uomini per...”
Corin tirò le labbra in un sogghigno: “Come sono diverse le cose, se
le chiami con un altro nome, eh?”
Quelli risero e si accartocciarono su loro stessi per la figuraccia.
Corin rimase impassibile a fumare e fissarli con gli occhi corvini
indecifrabili, poi cambiò argomento: “Che mi dite di Ground?”
“Il Marchese è ad Hakne. Dicono che ci sia del tenero con la cugina
Justine. - evitarono di guardare John Henry – E le truppe... gli uomini
che hanno combattuto con voi sul Fiume Dorato... loro sono a Madrigal”.
“Madrigal?” Corin aspirò dalla pipa con forza.
Rebecca.
296
“Pare che Ground non fosse più un luogo sicuro”.
“Che ne è di Madrigal?” insistette.
“Che intendete?”
“Quello che si dice in giro”.
I due si scambiarono un'occhiata. Esitarono. Tutti sapevano della
moglie di Corin il Fuorilegge. E Corin il Fuorilegge era Mastro Mayster.
“Allora?” Corin non amava alzare la voce, ma suo malgrado fu ciò che
accadde.
“Madrigal era luogo di torture per donne, vecchi e bambini” spiegò uno
dei due uomini con un filo di voce. E sempre con un filo di voce
raccontò quello che gli uomini di George e Mas avevano trovato
giungendo alla fortezza, delle piccole tombe, dei fantasmi che
richiamavano i loro uomini, dei pianti infantili che riecheggiavano nei
corridoi. Elaka aveva avuto ragione e Spezzacolli non era una leggenda.
La leggenda era il nome di Spezzacolli.
“Come si chiama veramente?” insistette Corin.
“Chi?”
“Spezzacolli”.
“Non... - scossero la testa – non lo sappiamo”.
“E Weer? Ha rivendicato la fortezza per sé?”
“Weer non si è fatto vedere, Generale. Non sappiamo che cosa dirvi”.
Di lì a poco i due gentiluomini si congedarono e Corin rimase con
John Henry e Maestro Jamie a discutere:
“Rimanere qui è impensabile, Maestà” fece notare Corin.
“Forse. Ma è inverno e Weer non si rifarebbe sotto un'altra volta,
rischiando di perdere tutto” rispose il sovrano.
“In effetti, lui di persona non si muoverebbe fin qua, - ammise il
Generale – ma i suoi sicari sì. La situazione è diversa adesso, ci sono dei
simpatizzanti”.
4.
Ground non pensava che i prezzi di Hakne fossero tanto spropositati, né
la moda così essenziale da giustificare l'espressione di scherno sul volto
del sarto, al quale si rivolse per un nuovo paio di calzoni e casacca. Era
entrato impettito chiedendo del mastro bottegaio e si era presentato un
uomo decisamente più elegante di lui, che aveva riso del suo
abbigliamento rozzo e di quell'espressione arrogante.
“Che cosa volete?” aveva domandato il sarto.
297
“Quello che dice la vostra insegna” aveva ribattuto stizzito il nobile. Il
tono di derisione dell'uomo lo stava mandando su tutte le furie. Quel
maledetto bottegaio!
“Confeziono abiti, signore. Non miracoli”.
I due valletti di Ground si erano dovuti tenere l'un l'altro per non
cadere per terra e rotolarsi dalle risate.
Il Marchese aveva occhieggiato i due giovani con aria furente ed
aveva tuonato: “Sono il Marchese Anton di Ground e pretendo il rispetto
che si deve ad un nobile!”
Il sarto non si era scomposto.
“Venite dal Nord?”
Preso in contropiede dalla calma del bottegaio, Ground aveva annuito
semplicemente.
“Vediamo che possiamo fare”.
Ground fu servito nel silenzio più totale, ma trattato come un
buzzurro ed ignorante. Lì, in quella bottega, persino gli apprendisti
sapevano leggere, scrivere e fare di conto. Ed il più giovane di loro
vestiva abiti di cotone e lino fatti su misura, i sandali lucidi e la persona
pulita e profumata.
Mentre era nel retro bottega che prendevano le misure, sentì le voci
di altri avventori e comprese che quella bottega era appena mediocre:
serviva per lo più commercianti e cittadini, non nobili signori.
La grande Capitale era il crocevia di popolazioni intere, di costumi
variopinti, di musica, cibi, bevande, tecnologie. Se al Nord utilizzavano
tutti un solo modo per macinare il grano, ad Hakne ne utilizzavano
quattro o cinque differenti, la lingua stessa era diversa, più nasale e con
crasi che davano origine a parole quantomai fantasiose.
Sul prezzo del guardaroba Ground provò a contrattare come si faceva
dalle sue parti, ma fu tutto inutile. I prezzi spropositati fecero sì che
avesse denaro a sufficienza per farsi confezionare solo due abiti e nulla
per il suo seguito.
Trovarono alloggio in una locanda che per tutti era il massimo del
lusso, con cibo cucinato a richiesta e stanze di due vani, nonché un
bagno personale.
Così come accadde per il sarto, girovagando quel pomeriggio il
Marchese scoprì di aver preso alloggio in una locanda di mediocre
qualità e che i nobili signori – come lui – dormivano in veri e propri
palazzi nella cittadella, a poche centinaia di metri dal Palazzo Reale.
In compenso, il suo fiuto lo portò al bordello migliore di Hakne – ed
il più costoso - :si trattava di un palazzo di tre piani, ben tenuto e con la
298
padrona più Cortese che avesse mai conosciuto. Per omaggiare il nuovo
cliente, gli furono offerte dieci ragazze la cui età massima era di
diciassette anni, di cui tre vergini di poco più di tredici anni. Ma delle
vergini poteva prenderne solo una. “Sapete com'è... è difficile di questi
tempi trovare una vergine di tredici anni” aveva sospirato la matrona.
“Libertà di costumi?” aveva sogghignato il Marchese.
“Magari. E' povertà”.
Così Ground scoprì che nei quasi dodici anni di assenza di John
Henry, la Capitale stava cadendo in disgrazia. I nobili del Consiglio
avevano velocemente abbandonato l'idea di uguaglianze sociali e
giustizia ed avevano diviso la città in sei parti; ognuna di queste parti era
di loro dominio: in sostanza, versava tasse e contributi a piacere di
questo o quel Consigliere. I sopravvissuti alla Guerra Rossa avevano
allevato i loro figli al meglio delle loro capacità e con i mezzi accessibili;
tuttavia molti genitori erano stati costretti a vendere le figlie giovani
perché battessero già dagli undici anni.
“Bambine” aveva sospirato la donna.
Molte tenutarie pagavano uno stipendio per le bambine e le tenevano
nei bordelli come sguattere finché non raggiungevano un'età tale da poter
sopportare il peso di un uomo. Non era pietà, no. Si trattava di arginare
le malattie e salvare gli affari. Per strada quelle bambine sarebbero state
sfruttate e sarebbero divenute portatrici di malattie. Gli uomini avrebbero
smesso di andare nei bordelli e gli affari sarebbero andati a rotoli.
“Noi ci teniamo ai nostri uomini” aveva detto solenne la donna, ma poi
aveva ammiccato verso il cavallo dei calzoni del Marchese.
“Posso immaginarlo, come ci tenete” aveva sogghignato lui.
Rimaneva il fatto, aveva poi aggiunto il Marchese, che la gente
viveva in un lusso sfrenato.
“Sembra, caro amico. Pura apparenza. Il fatto è che pochi pagano e
nessuno riesce a vendere, a parte la carne degli altri esseri umani. Ce la
passiamo male, ma, d'altro canto, questa è Hakne: non è pensabile di
rinunciare alle sete, ai profumi, alle scarpette coi fiocchetti, alle spade
con gioielli incastonati... assomiglieremmo ai barbari del Nord. - la
donna storse la bocca – Il fatto è che i barbari del Nord una spada, in
qualunque caso, la sanno usare”.
“Prego?”
“L'apparenza ed il lusso stanno portando ad una decadenza dei costumi:
ai nobili signori o piacciono le bambine o i giovani atletici. Le donne,
pare, non vanno più di moda”.
“Non avete clientela?”
299
“Spesso sono le nobili signore a cercare le donne. Questo nostro Regno,
Marchese, comincia a dare segni di cedimento. Se John Henry non torna
per le povere ignoranti come me non ci sarà futuro”.
Ground non era d'accordo né sull'ignoranza della tenutaria né sulla
sua sorte incerta. Era una donna furba e attenta, una così sarebbe sempre
stata a galla nel mare di merda in cui il Regno versava.
“Perché Justine non fa nulla?” le domandò invece.
“Justine... la Cugina Justine, così la chiamiamo. La cara Cugina Justine
sa a malapena calarsi le mutande, figurarsi combattere con quei sei
tagliagole! E poi, siamo sinceri, Justine è una donna... siete veramente
convinto che la nostra società sia in grado di tollerare il comando di una
donna? Sarebbe ora che quella donna prendesse marito”.
Fu allora che Ground sentì il sangue accellerare.
Forse aveva capito male.
“Justine non è sposata?”
“E' vedova da quindici anni, ormai. Fu una tragedia: il marito morì in
una battaglia sanguinosa durante la Notte dell'Assedio ed il figlio
adolescente è morto per una ferita superficiale mal curata, che è
diventata cancrena. Ha perso marito e figlio in meno di due anni, povera
donna. Una vera tragedia, se...”
“Aspettate, amica mia. Aspettate, un minuto. Perché Justine non si è
rimaritata, dopo la partenza di John Henry?”
“E chi lo sa? Sono anni che ce lo chiediamo tutti. Un marito, anche un
fantoccio, metterebbe fine a questa guerra cittadina. Lo sapevate che tra
il Quartiere del Nord e quello del Porto ci sono state rappresaglie? E Che
c'è scappato il morto? La guerra civile non è lontana, caro amico. Se
quella disgraziatissima donna capisse che l'orgoglio personale non vale
la vita di tanti onesti cittadini, allora...”
“Uhm” interruppe lui, a disagio.
La tenutaria sorrise indulgente: “E' una donna, mio signore. Una
donna con potere e denaro. Una di quelle che nella tazza caga rose,
perdonate il linguaggio. Lei, un uomo lo deve sposare per l'animo, per il
suo cuore, non per la sua dote. E pare proprio che nessuno dei suoi nobili
Corteggiatori sia provvisto di ciò”.
Ground smise di ascoltare la donna con una parte del cervello. Le
elucubrazioni avevano preso il via.
Hakne aveva bisogno di un solo capo.
Justine di Malle governava in assenza di suo cugino, John Henry, e di
sua figlia Giada.
Justine di Malle doveva prendere marito perché il suo potere avesse
300
un certo peso – perché il potere di suo marito avesse un certo peso.
E quel marito era lui. Anton di Ground avrebbe sedotto e sposato
quella donna.
Infine la tenutaria lo lasciò alla scelta della ragazza e lui si prese una
sedicenne dalle gambe magre come stecchini e con le tette grosse come
quelle di una balia di professione. Nonostante i cinquant'anni pieni, fu in
grado di scoparsela fino a notte inoltrata e tornare saltellando alla propria
locanda, per tanta che era l'esaltazione.
Era partito dal suo patetico marchesato per fare da messaggero e
sarebbe tornato come signore di Grande Regno.
Praticamente era cosa fatta.
5.
Ed infine, venne la notte.
Alcuni degli invitati erano rimasti nella sala per continuare a bere,
cantare, giocare a carte; qualcuno trovava dolce compagnia negli angoli
bui della sala.
Marçela era stata chiamata nei suoi appartamenti perché uno dei suoi
figli non faceva che piangere e invocarla. Mas le era andato dietro e si
era trovato davanti a Charlie, appena sette anni e mezzo ed un incubo che
anche un adulto avrebbe avuto difficoltà a gestire.
“Mamma...! - gridava il piccino – Mamma, mi prendono con le
unghie!”
“Amore, no, la mamma è qui” Marçela se lo strinse al petto come un
neonato, cullandolo con forza. Fu costretta a svegliarlo per fargli capire
qual era il sogno e quale la realtà. Poi il bimbo non volle più rimettersi
giù.
“Se dormo, mi prendono di nuovo. - singhiozzò – Non voglio dormire”.
Intervenne Mas: “Tutti i guerrieri dormono, piccolo. Si recuperano le
forze”.
“Ma se dormo, tornano i sogni brutti”.
Mas lo prese dalle braccia della madre e lo avvolse nella coperta, per
poi sedersi davanti al fuoco a ninnarlo.
“Ascoltami. - gli disse con tono fermo e tenero allo stesso tempo – Tu
lo sai da quanto tempo combatto?”
Il piccolo scosse la testa.
“Sono più di vent'anni. E ne ho viste di tutti i colori. Però ho sempre
dormito. Ho recuperato le energie ed ho affrontato le mie paure. Non
301
puoi combattere stanco! - Charlie annuì solenne – Vedi, sei d'accordo con
me. Facciamo così: verso il sonno ti ci accompagno io, così sei al sicuro.
Ora mettiti giù”.
Charlie si adagiò sul suo grembo, si mise l'indice in bocca – per lui
era sempre stato più gustoso del pollice – ed appoggiò la testolina sul
petto caldo del capitano venuto dalla foresta.
Marçela non aveva detto una parola. Si era commossa di tenerezza e
sollievo nel vedere come Mas si stava prendendo cura di tutti loro.
Le fiamme crepitavano nel camino e il succhiare del dito del piccolo
erano gli unici rumori della stanza. Di lì a pochissimo Charlie dormiva.
Mas volse la testa verso di lei, ancora seduta sul lettone che il figlio
divideva con Matthie. C'era poi il letto con Anna e Francine e quello
singolo per Joe, il maggiore. Cinque piccole vite così meravigliosamente
fragili. E sue.
Incontrò lo sguardo della madre e lo incontrò come se da sempre
fossero stati loro due. Mas e Marçela si scrutarono per un istante
lunghissimo, conoscendosi e riconoscendosi. Sono strani i meccanismi
dell'amore: la consapevolezza della verità è sempre accompagnata dalla
sorpresa.
Lei si alzò e gli si sedette davanti, accarezzando la testa del piccino
addormentato.
“Io stasera volevo solo fare il soldato” le disse con un sorriso mesto.
“Ed io volevo avere di nuovo sedici anni”.
Si scambiarono una smorfia complice.
“Che ti posso dire?” le sussurrò.
“Non lo so. Io ti posso solamente dare il benvenuto nella nostra casa”.
La donna prese il piccolo tra le braccia e lo mise nel letto con la
sorellina. Mas sospirò e si strofinò le mani sudate sui calzoni, come un
adolescente teso. Non aveva più quindici anni, ma si era invaghito di
Marçela come si può solo a quindici anni: senza barriere. Aveva il cuore
annacquato dall'amore e dall'attrazione per lei.
Lei tornò e gli si sedette accanto.
“Vuoi un po' di vino?” gli chiese sottovoce per non svegliare i ragazzi.
“Sì, grazie”.
Lei gli versò il vino, ne servì per se stessa.
Gli parlò dei figli. Di dove era nata, della vita che aveva condotto, di
suo marito. Degli amanti e della prigionia a Weast. Gli raccontò di
Madrigal, della marcia attraverso le Paludi di Gras. Gli raccontò tutto di
sé.
Mas ascoltò e memorizzò ogni sillaba di quei racconti. Descrisse a
302
sua volta il luogo della nascita, l'adolescenza, la guerra, Corin il
Fuorilegge.
Finirono le parole e crollarono abbracciati sul divano, vestiti, a
dormire profondamente. Per la prima volta da quando Marçela aveva
liberato Madrigal, i suoi figli non fecero incubi. Forse Charlie si svegliò,
ma vide il capitano che proteggeva la loro stanza e si rimise giù.
Al sicuro.
6.
George fissava la sua donna-ombra con stupore e incertezza.
Avevano lasciato la sala da pranzo appena dopo il dolce, quando
Rebecca aveva salutato per andare a coricarsi, esausta della lunghissima
giornata. Si erano dileguati nella stanza della ragazza, ma una volta là
non avevano detto una parola.
Giada si era limitata a muovere le braci per alzare le fiamme ed avere
un po' più di illuminazione. George le fece cenno di smettere. Andò alle
due grandi finestre e spalancò le tende:la luce lunare riempì la stanza con
sfumature azzurrine e bianche.
Giada fissò la luna e poi volse lo sguardo verso il fuoco; lui ammirò il
profilo del suo volto.
Tornò a sedersi al suo fianco, le sciolse il nodo del fazzoletto che le
copriva i capelli biondi e rimase senza fiato.
“Finalmente. Finalmente ti ho trovata”.
Il capelli erano scivolati sulle spalle con un movimento dolce quanto
la seta, di un colore dorato e bianco come la luna; in contrasto con gli
occhi celesti, tanto chiari quanto luminosi.
Giada era bella da togliere il fiato.
Fu quello che successe al giovane capitano: rimase con la bocca
aperta per la meraviglia. Gli occhi gli parvero non poter sopportare tanta
bellezza.
“Ho aspettato così tanto” sussurrò la principessa.
“...” George non si era ancora riavuto dallo stupore. Il cuore batteva
così forte da assordarlo.
“Ti prego, toccami” Giada avvicinò il volto a quello di lui.
“Hai un'idea di quante volte io abbia provato? - ribatté lui con voce
carica di tristezza mista a malinconia – ti ho rincorso nel castello per
giorni interi. E quando ho provato a toccarti, tu sei svanita”.
“Toccami, George”.
303
Lui allungò la mano e la ritirò.
“Ti prego, non farmi questo...! - la implorò con voce rotta – Sei così
meravigliosa, che non sopporterei di doverti perdere. Lo capisci? Il mio
cuore non reggerebbe”.
Giada si alzò in piedi e tolse l'abito di lana. Tolse ogni indumento e
lasciò che la fissasse. Tutta. Senza difese. Aveva freddo, la pelle d'oca,
ma voleva che lui vedesse.
George dapprima ammirò la perfezione della sua persona, poi vide
che batteva i denti e sorrise mesto. “Che idiota! - rise di sé – Copriti, stai
gelando”.
“Se fossi un'ombra non avrei freddo” ribatté lei con un tono d'infantile
spiegazione.
Lui le mise la propria giacca di lana e cuoio sulle spalle e le pose un
bacio sui capelli d'oro. “No, amore mio, non sei un'ombra. Non più”.
Cercarla, desiderarla e amarla appariva ora come il senso ultimo della
sua vita. Appartenere a quella donna era il motivo della sua esistenza.
Non si sentì più George di Ygas, della Contea di Brealle, no, era George
di Giada, la donna-ombra.
Come spiegarglielo? Come descrivere la consapevolezza del proprio
animo?
Comprese tante cose, troppe cose, che fino a quel momento aveva
ritenuto frivole e prive di importanza. Suo padre, a differenza di quello di
Corin, non gli aveva mai spiegato che cosa avrebbe provato ad amare la
sua donna, né che cosa questo avrebbe comportato per sé. Era annichilito
dal sentimento ed allo stesso tempo vivo come non mai.
Fu lei ad alzare il collo e strofinarsi contro di lui, alla ricerca di
calore.
George abbassò la testa in un gesto naturale, accolse il suo bacio, la
strinse, la tenne a sé e la lasciò andare, senza che Giada se ne andasse.
Gli apparteneva.
Mentre facevano l'amore si riempì gli occhi di lei nella luce lunare,
riempì tutto se stesso con il senso del tatto, dell'udito, dell'olfatto, del
gusto, tutto che sapeva di lei e della sua persona. Fu perfetto.
Anche quando Giada si girò di schiena, i capelli di seta scivolarono
oltre la spalla e rivelarono il tatuaggio della rosa dell'albero.
La principessa Giada.
“Giada...” la chiamò baciandole il tatuaggio e la strinse a sé, come il
dono più bello che fosse concesso ad un uomo.
Giada non si preoccupò di essersi rivelata, non se ne sarebbe mai più
preoccupata. La luce della luna entrava dalla finestra e stagliava le sue
304
ombre sui muri. Ma, questa volta, le ombre rimanevano ombre e
finalmente loro si erano trovati.
7.
Jacob raggiunse Weast in un pomeriggio caldo d'estate.
Dopo aver lasciato Einaki, avevano viaggiato a ritmo serrato per
dodici giorni, alcune volte anche fino a notte inoltrata. Nel corso del
viaggio l'uomo a capo della sua guardia era inspiegabilmente scomparso.
Nessuno della compagnia aveva azzardato una domanda in proposito e
Jacob aveva ottenuto di nuovo la fama di feroce bastardo.
La carovana deviò per Makma, il villaggio da cui si diceva venisse
Corin il Fuorilegge. Il villaggio era abitato da qualche profugo –
straccioni senza fissa dimora -, le abitazioni distrutte. Al Barone sarebbe
piaciuto sapere qual era la casa del suo nemico, per trovare qualche
indizio; il fuoco aveva divorato tutto.
Weast odorava di primavera.
L'odore intenso di vegetazione fresca e neonata lo si doveva alla
nuova generazione di Soldati Rossi che si stavano addestrando nella
piazza principale del castello. Nelle celle di Weast aveva piantato ciò che
rimaneva dei Soldati Rossi della Guerra Rossa ed ora raccoglieva il suo
raccolto: cinquemila unità.
Elma ed il giovane conte di Weast con cui era sposata erano convinti
che si trattasse del nuovo esercito; per Jacob quella era una parte del
nuovo esercito.
Con la sua carovana Jacob si presentò a Weast nella sorpresa
Generale. Elma, una delle sue “bambine”, lo accolse comunque con un
sorriso di benvenuto. Incerto e con l'espressione più simile a quella di un
topo era suo marito, che si mise a tremare dinanzi al terribile Barone.
“Preparate l'arrosto. - ordinò la padrona del castello alla cuoca – e
cominciate con il portare in sala formaggi, salame, pane fresco e i dolci.
Voglio sidro fresco e voglio vino bianco frizzante fresco in onore del
Barone. E birra, donna”.
La grossa cuoca dal volto ovale non proprio con tutte le rotelle a
posto annuì e si dileguò verso le cucine.
“E' stupida come una vacca – spiegò Elma – ma cucina molto bene. Ha
già partorito tre figli per il vostro esercito”.
Jacob annuì e seguì la grossa donna che spariva nelle cucine. Come
aveva detto Paul Mann prima di lasciare Umm a proposito di Rihanna?
305
Qualcosa sul vestire così anche le loro vacche.
Rihanna.
Il Barone non disse nulla. Lanciò un'occhiata raggelante ad Elma e le
fece segno di procedere.
Elma era stata una delle sue bambine più portate e, a differenza di
Amalia, affascinante e spregiudicata. Forse avrebbe potuto fidarsi di lei,
ma l'esperienza con Amalia gli aveva appena dimostrato che il tempo
può portare grandi cambiamenti nelle persone.
Il tempo trasformista. Muta lo spazio e le persone, il loro animo. Il
tempo che scorre scalfisce il cuore come il mare contro lo scoglio, finché
l'aspetto non muta al punto di scomparire o di essere completamente
trasformato. Jacob sapeva quanto bene e quanto male può fare il tempo
che scorre.
Il Tempo imprevedibile.
Il Tempo e le sue sorprese.
Amalia.
Elma.
Grace.
...Rihanna ed il viso rosso come quello di una vergine.
Elma mandò via suo marito dopo dieci minuti. Tra i suoi complimenti
balbettati per il Barone e le mille giustificazioni per tutto, Elma aveva
perduto la pazienza.
“Vai da una delle tue servette, dai” lo cacciò via.
E lui si ritirò con la coda tra le gambe.
“Spero che a letto sappia farsi valere” sogghignò il Barone.
“Grazie alla Dea, nel mio letto ci entra poco” ribatté lei, ammiccando
verso il più aitante capitano delle guardie, in disparte, sull'attenti, in
omaggio al Barone.
“Non sta a me dirti di fare attenzione. - Jacob bevve il suo vino – Weast
padre?”
“La malattia se l'è portato via questa primavera” lei sorrise enigmatica.
“Che disgrazia. Dimmi delle Donne-ombra. Dicono che provengano da
qui”.
Silenzio.
Elma smise di sorridere.
Rimase immobile sulla sedia, indecisa su cosa dire e come dirlo;
infine si alzò e si accostò alla grande finestra decorata.
“Non so che dire” ammise cupa.
“Tutte le mie fonti parlano di un'origine da ricercare qua. Allora?”
“Mio signore, vi ho inviato missive non appena è accaduto il fatto.
306
Della fuga delle venti prigioniere, intendo. Erano ben sorvegliate e
l'uomo che le sfamava poteva contare sull'aiuti dei Soldati Rossi. Dopo
tre giorni dall'ultima arrivata, quel pezzente è stato ritrovato con il collo
spezzato e delle donne non c'era traccia”.
“E allora spiegami che cazzo è successo”.
“Non lo so. Il fatto è che Weast è ben sorvegliato e circondato. Io sono
sicura di averle anche... toccate”.
“In che senso?”
Elma raccontò di quella sera di un anno e mezzo prima, quando la
luce della candela si era spenta e qualcosa di viscido e puzzolente l'aveva
toccata nel buio del corridoio.
“Viscido?” riprese Jacob perplesso.
“Sì, nauseante”.
“Ma non hai visto nulla”.
“No, la candela è caduta per terra e siamo rimasti al buio”.
“Chi c'era con te?”
“Il coraggioso maritino”.
“Lui le ha sentite?”
“Dice che è stato un topo. Ha fatto disinfestare il castello... come se
servisse a qualcosa. Maestà, non so come spiegarmelo: nella cella sono
rimasti gli abiti cenciosi di quelle disgraziate e li abbiamo fatti fiutare dai
cani. All'inizio gli animali le hanno sentite, poi si sono persi pure loro”.
Donne che abbandonavano le vesti, che non erano state scorte da
nessuno, di cui non era rimasta alcuna traccia, viscide e dall'odore
nauseabondo.
“Quando sono arrivate qui erano tutte donne normali?” chiese infine.
“Tutte. L'ultima arrivata veniva da Makma”.
“Makma, hai detto?”
“Sì, mio signore. Perché...?”
Makma. Come Corin il Fuorilegge.
La testa cominciava a ronzare a Jacob. Possibile che ci fosse anche
quella coincidenza?
“Di che colore era il loro sangue?”
“Rosso, mio signore”.
“Come il tuo? Il mio?”
“Sì, Maestà. E vi dirò anche che quelle due o tre volte che sono scesa
per controllarle, mi sono sembrate patetiche e disgraziate. Normali”.
“E se fosse stata una copertura?”
Lei scosse la testa con vigore. “Copertura per cosa, mio signore? Mi
dispiace contraddirvi, ma penso che sia stato tutto casuale”.
307
Jacob sbatté il bicchiere sul tavolo, che si frantumò in milioni di
pezzetti. “Casuale? Continui a dire che è casuale? Una donna che spezza
il collo di un uomo grosso quanto un bue? Così me l'ha descritto il tuo
capitano d'arme. Casuale una donna che mi rimanda un uomo in fin di
vita? Vi ho fatto addestrare perché siete donne e non siete fisicamente in
grado di combattere come gli uomini. Altrimenti non sareste costrette a
nascondervi!”
Elma rimase con gli occhi a terra. Una luce dura e furibonda le
illuminava lo sguardo, come se avesse voluto gridare tutto il suo
dissenso per quelle parole. Jacob si aspettava una protesta che non
arrivò.
“Infatti” disse alla fine, cupo.
Ci fu una lunga pausa di silenzio entro la quale il Barone mangiò e
bevve.
“Quella che arrivava da Makma... in che condizioni era?”
“Senza sensi e con una crosta in testa grossa così. Può essere morta nel
frattempo. Il fatto era che respirava ancora”.
“L'avete curata?”
“No. E, se vi preme saperlo, il suo sangue era scarlatto come il mio ed
il vostro”.
“Non so se a deludermi sia più la sua superficialità o la tua stupidità”
borbottò cupo il Barone.
“Pensate che non me lo sia chiesto anch'io, mio signore? - ribatté lei
piccata – Le Donne-ombra potrebbero avere la stessa origine dei Soldati
Rossi? Non ne comprendo il senso, in ogni caso”.
Jacob tacque.
Lui sì, un senso ce l'aveva a tutto quello: non aveva ancora
consegnato Giada a Neropece e, quel che era peggio, era che aveva
assicurato di essere in grado di risolvere la faccenda in fretta. Che quella
fosse una vendetta?
Neropece era ad Hakne? - Rihanna era in pericolo? L'incolumità
della loro creatura messa a rischio?
Valutò che, questo ragionamento, non aveva del tutto senso: cioè,
Neropece era libero di cercare Giada senza di lui, quindi che ragione
c'era di distruggere anche il Barone? Il fatto era che tutto barcollava di
una precarietà assoluta. Joseph non aveva fatto ritorno e Grace non
aveva mandato notizie. Nulla era certo e nulla era più vero – a parte
Rihanna ed i suoi occhi lucenti, Xanatos nel palmo della sua mano...
“Dimmi di John Henry. Quali nuove?” ingiunse nuovamente alla sua
spia.
308
“Nessuna. E nessuna di Corin-come-diamine-si-chiama. Ecco, a questo
proposito: non ci sono testimonianze di John Henry né di sua figlia su
tutto il territorio di Hakne. Anche nella Capitale non si capisce se il
potere debba convergere su di voi”.
Alla fine, nonostante tutte le buone intenzioni, Elma aveva finito con
il dargli dell'usurpatore. Jacob preferì soprassedere: “E Justine?”
“Justine è una donna vecchia per avere figli ed è una vedova
inconsolabile. Anche si decidesse a prendere il potere, basterebbe
eliminarla. Nella Casa ci sono validi elementi”. La Casa era il luogo
dove le Bambine di Weer venivano allevate.
“Ci penserò”.
Jacob sperò di aver finito, ma non fu così. Elma si umettò le labbra e
lui fece cenno di procedere.
“Madrigal, mio signore...”
“Che succede?”
“Sono alcune settimane che non ho notizie da Madrigal. Mi sembra
strano”.
“E con ciò. Madrigal era organizzata in modo tale che potessero essere
indipendenti: è normale che non ci siano notizie”.
“Mi aspettavo qualche missiva con il numero delle nascite”.
Un punto a favore per Elma, si disse il Barone.
Anche Abbott aveva parlato a proposito di Madrigal, ma di Abbott
non si fidava. E, dopo quanto accaduto a Weast, neppure di Elma si
fidava più tanto. Forse aveva sbagliato a considerarla tanto capace.
“Passerò per Madrigal a controllare” rispose infine.
Si congedò prima di cena e, durante la notte, si domandò quale utilità
avesse a questo punto Elma. Le unità dei Soldati Rossi erano quasi
pronte e lei cominciava a fare i medesimi ragionamenti di Paul Mann.
Forse era ora che Elma chiudesse un po' la bocca e tornasse al suo posto.
309
CAPITOLO 17.
1.
Corin fumava la sua pipa, ammirando la luna bianca nel cielo stellato.
L'inverno alle porte ed il suo cuore pieno di nostalgia. Due anni
quasi. Non la vedeva da due anni. Qualche volta gli capitava ancora di
piangere per la mancanza, ma adesso c'era un filo rosso, di speranza:
Rebecca poteva essere Spezzacolli, o comunque con Spezzacolli. E
Madrigal era stata liberata.
Andare a Madrigal era la scelta giusta da fare. Questo nella teoria.
Nella pratica l'idea di alloggiare nel luogo di prigionia di tanti innocenti
gli faceva rivoltare lo stomaco - Se Rebecca fosse stata una delle donne
di Spezzacolli poteva essere stata rinchiusa a Madrigal...
Tirò una boccata profonda dalla pipa, fino a farsi venire le lacrime
agli occhi.
Rebecca, può un uomo soffrire così tanto?
Da quando aveva fatto ritorno ad Hakne con la sua divisa, Corin
aveva ricevuto inviti più o meno impliciti da decine di donne; non gli
riusciva di stare con i suoi figli che subito una di loro, dalla cuoca alla
dama, si precipitava ad “aiutarlo” - dimostrare che brava moglie e madre
sarebbe stata.
Corin non aveva usato mezzi termini per mandare a quel paese.
“Rebecca, non si può sostituire con una sciacquetta qualsiasi”aveva
detto al re, nel momento in cui si era intromesso. Aveva usato parole
dure, ma non gliene importava niente.
Da quando era tornato ad Hakne, l'unica cosa che voleva era lei.
Rebecca.
La luna era chiara nel cielo d'inverno. Il guerriero socchiuse gli occhi,
la testa indietro, così come ricordava di averla vista la prima notte di
nozze, quando Rebecca gli baciava il petto e sussurrava il suo nome.
2.
Il giorno del proprio matrimonio è un evento.
Ci sono uomini che sostengono che sia il giorno della loro morte e ci
310
sono uomini che si consegnano alla sposa rassegnati al proprio destino.
Questi i più.
Non valeva per Corin. No, lui si era preparato nella casa nuova,
emozionato come non mai. Aveva indossato l'abito di seta e velluto
scuro, aveva legato i capelli con un nastro di cuoio, si era rasato, si era
preso cura di sé in tutti i sensi per non esplodere appena l'avesse avuta
tra le braccia.
Aveva vietato ai nuovi amici del villaggio di andare da lui. Voleva
rimanere solo nella grande casa, viverla così vuota prima che Rebecca
la riempisse con la sua persona e il suo profumo.
Non l'aveva arredata con molto, anzi. Aveva tenuto da parte del
denaro per comprare ciò che sarebbe servito a sua moglie – Grande
Dea, Rebecca stava per diventare sua moglie! - e si era limitato a
mettere su la cucina, il lettone in camera da letto ed una cassapanca.
John Henry l'aveva sempre pagato con generosità; di ritorno da
Hoss Corin aveva distribuito una parte del denaro a chi ne aveva
bisogno. Il rimanente gli era servito per mettere su la casa. Gli piaceva
quello che aveva fatto, aveva amato le serate ad intagliare il legno del
letto con lo stesso motivo floreale del cofanetto, donatogli da Rebecca
tanto tempo prima.
Quando l'aveva rivista in quel pomeriggio di fine estate a pestare il
mosto il cuore gli era rimbalzato nella gola e l'aveva assordato. Lei era
più bella di quanto non ricordasse: era cresciuta ancora un poco in
altezza, i capelli lunghi e mossi le arrivavano alla vita, il seno era pieno,
la vita sottile e gambe sode; le braccia erano forti, le spalle atletiche. Le
spalle di una ragazza abituata al lavoro. La pelle era ambrata per il sole
d'estate, gli occhi smeraldo spiccavano ancora di più.
Non era il solo ad ammirarla, ma lei pareva ignorare gli altri uomini
attorno a sé. Come se non esistessero. Rebecca aveva la capacità di
annichilire la gente semplicemente ignorandola.
Era rimasto per una manciata di minuti a contemplarla, ma uno
straniero e con la sua stazza difficilmente passava inosservato in un
villaggio mediamente piccolo come quello di Makma. Le ragazze erano
state le prime a vederlo, poi i giovanotti e quindi gli uomini adulti.
Corin si era avvicinato con l'aria spavalda e dentro il terrore: e se
non mi riconoscesse? Se si fosse dimenticata di me?
Aveva cercato i suoi occhi chiari, la gola secca e le ginocchia che
tremavano – sì, lui, Mastro Mayster aveva paura di quello scricciolo! - .
Se lei non l'avesse riconosciuto, cos'avrebbe fatto? La sua vita, il motivo
della sua esistenza quale sarebbe stato?
311
Si era fermato poco distante e lei non era sfuggita a quello sguardo.
Gli occhi di smeraldo si erano riempiti di lacrime ed aveva messo il
broncio, quel broncio tanto adorabile, tanto infantile per quello sguardo
tanto adulto e consapevole.
Rebecca non l'aveva dimenticato.
L'eccitazione di quel momento era solo paragonabile a quella che
provava la mattina delle sue nozze. Ci aveva messo un istante a
prepararsi; poi aveva vissuto quella casa nuova e vuota.
Pensò a suo padre, a sua madre. Ai suoi nonni. Alla cerimonia che
avrebbero avuto, se i suoi parenti fossero stati vivi. La gioia lasciò il
posto alla malinconia, alla sofferenza per la morte violenta della sua
famiglia. Non aveva mai pensato alla possibilità di NON incontrare
Rebecca perché, guerra o non guerra, loro due erano destinati a vivere
assieme.
Mai come in quel momento gli mancava la sua famiglia. Lui, l'unico,
amatissimo figlio che si sposava. A sua madre Rebecca sarebbe piaciuta,
forse di più a suo padre. Probabilmente sua nonna materna l'avrebbe
trovata troppo indipendente.
Aveva sorriso, ripensando alla vecchia nonna brontolona.
E Mark. Il suo miglior amico... che festa gli avrebbe fatto, se fosse
stato vivo.
Il sorriso era scomparso nuovamente. Di tutti coloro che erano stati
la sua famiglia, il suo mondo più intimo non rimaneva nulla. Neppure
della famiglia reale, che lo aveva accolto come un figlio. Se avesse
potuto spiegare a Rebecca la sensazione che provava: adesso aveva una
casa nuova, aveva una nuova identità, fra un po' avrebbe avuto un
nuovo ruolo, ma dov'era lui, J.J? Lui aveva una memoria e nella
memoria non era solo Corin. Si sentiva troppo pieno di ricordi ed ora, in
tempo di pace, veniva divorato dalle emozioni strazianti di quei ricordi.
Era così felice di sposarsi con Rebecca ed era così immensamente
addolorato per essere tanto solo. In qualche modo, Rebecca era tutto ciò
che gli rimaneva di se stesso: un pezzo di quella memoria di ragazzo. Se
quella sera di tanti anni prima avesse potuto raccontarle della sua vita,
era certo che lei avrebbe accolto ogni sua parola, ogni suo gesto e
l'avrebbe serbato dentro di sé.
Adesso era sollevato all'idea di essere da solo. Piangeva.
Mamma. Papà. Nonni...
Nessuno di loro ci sarebbe stato. Nessuno del suo villaggio, che
l'aveva veduto bambino, a presenziare nel giorno più importante della
sua vita: lui avrebbe cominciato una nuova esistenza ed avrebbe dato
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l'avvio di una nuova famiglia.
Mai come in quel momento si sentì solo.
Versò tutte le lacrime del lutto e della mancanza e all'altare si
presentò sorridente ed eccitato. Si era fatto dei buoni amici a Makma,
ma anche dei nemici, come i pretendenti di Rebecca, che per anni
avevano aspettato di averla. Si erano detti che, tanto, prima o poi, lei
avrebbe reso le armi e si sarebbe concessa.
Alle loro nozze c'era tutto il villaggio. Poiché Rebecca era orfana,
apparteneva un po' a tutti loro e Corin aveva insistito perché quei tutti
fossero presenti. C'erano voluti quasi quattro giorni per preparare la
festa.
In quel giorno di fine primavera l'intero villaggio si era presentato
vestito a festa, la giornata era splendida e calda, fiori freschi
adornavano i tavoli e le sedie.
Dopo un tempo che a Corin parve eterno, si presentò Ada, la
guaritrice. In mancanza di sacerdoti della Dea Hilu, erano i guaritori a
officiare il rito: la donna era vestita di rosa, verde e rosso, i colori della
vita – Rosa per la pelle degli uomini che Hilu proteggeva, Verde per la
terra che donava loro, Rosso per il sangue mortale – ed era felice fino
alle lacrime perché quella che andava a sposare era la sua bambina.
Infine, giunse la sposa. Rebecca.
L'accompagnavano le amiche di sempre e le madri del villaggio che
almeno una volta l'avevano ospitata.
Rebecca era radiosa ed accecante nei suoi sedici anni non ancora
compiuti, i capelli scuri intrecciati con fiori bianchi, rosa e rossi –
Bianco il colore della verginità, Rosa per la vita che avrebbe dato ai suoi
figli, Rosso per il sangue del suo sangue -; l'abito color bianco e pesca
di seta fine, leggero. Sorrideva con emozione, le guance rosse, gli occhi
splendenti.
Il cuore di Corin andò su in gola – e non solo quello.
Ed eccola, infine, al suo fianco, la piccola mano nella sua, enorme.
“Figli miei, - intraprese con dolcezza Ada – benvenuti per celebrare
l'unione di quest'uomo e di questa giovane donna” si era dovuta
trattenere perché l'immagine di Rebecca a cinque anni, orfana, era fissa
lì, dinanzi a lei.
Era stata una cerimonia emozionante, alcune delle madri del
villaggio avevano pianto per quella bambina di tutti. Quando, infine,
Corin si era chinato per baciarla, lei aveva stretto le braccia al suo
collo e si era fatta sollevare, in un equilibrio perfetto sulla sua testa.
La comunità intera aveva riso di quello straniero gigante e della
313
piccola orfana, che gli arrivava a malapena all'ascella. E i due sposi
avevano ballato quel ballo tutto loro, ridendo degli altri e di se stessi
per il solo fatto di essere lì. A scapito della guerra e della vita stessa.
Si erano messi a tavola, Corin era affamato – in tutti i sensi.
Durante la cerimonia non aveva fatto caso alla scollatura di sua
moglie, ma ora al banchetto non poteva staccarle gli occhi di dosso. E
l'aveva vicina, con quel calore che lo faceva sudare per trattenersi.
Rebecca Rebecca Rebecca.
Così pompava il sangue nelle vene. Così implorava il sangue nelle
sue vene.
Mangiarono, bevvero, cantarono e ballarono per tutto il giorno.
Verso sera i bambini furono portati a dormire e cominciarono canzoni
licenziose, battutine maliziose che facevano arrossire la sposa fino a
farla diventare paonazza, con quel colorito che a Corin faceva sempre
più pompare il sangue.
Rebecca Rebecca Rebecca.
Sotto il tavolo, Corin allungò la mano sulla coscia di sua moglie,
strofinò piano, vicino all'inguine. Era la prima volta che ci andava così
vicino. In otto mesi di fidanzamento si era auto-inflitto la pena di non
fare nulla di quello che aveva fatto in passato perché ogni cosa fosse al
posto giusto e con l'ordine giusto; in otto mesi si era dato del coglione in
milioni di modi differenti.
Rebecca non riuscì a reprimere l'esclamazione eccitata.
“Ti vuoi far sentire da tutti?” le aveva sussurrato lui all'orecchio.
“Quanti modi eleganti ci sono per dirti che sei uno stronzo?” aveva
ribattuto lei, rossa ed accaldata nel tentativo di trattenersi.
“Siamo sposati da meno di un giorno e già mi dai dello stronzo?”
sogghignò lui.
“Lo sai che mi stai facendo diventare pazza. - lei sorrise, imbronciata –
Se continui così, urlo”.
“Urli? E perché?”
“Perché non riesco a controllarmi”.
Corin aveva sorriso da un orecchio all'altro e si era allungato per
baciarle il collo. Piccoli baci sotto la mandibola...
“Oh-oh, i nostri sposini non sanno aspettare!” era scoppiato a ridere
uno dei commensali.
Rebecca era diventata viola. Corin aveva riso e solo a quel punto, al
limite della sopportazione umana, si era alzato, prendendo Rebecca per
mano.
“No, decisamente, non posso più aspettare” aveva risposto. La risata
314
si era scatenata nel vedere che NO, NON POTEVA PIU' ASPETTARE.
“I lor signori comprenderanno che ci sono questioni più importanti che
ci aspettano. - aveva ribattuto Corin alle risate – Perciò vi prego di
continuare a mangiare, bere e divertirvi alla nostra salute”.
Furono alzati i calici: “Salute!”.
Impacciata e paonazza la sposa aveva seguito lo sposo lungo il
sentiero illuminato dalle piccole candele, che erano state messe per
indicare la via della nuova casa. I convitati avevano ancora festeggiato
alla loro salute, ma nessuno li aveva seguiti.
A meno di cento metri dalla festa, c'erano loro, le candeline e la luna
bianca in un cielo sereno e stellato.
“Vieni” all'ultimo momento Rebecca aveva deviato. In un silenzio
quieto i novelli sposi si erano diretti sul loro appezzamento di terra.
Nell'unico tratto non coltivato, l'erba era alta e odorosa.
Ad illuminare ora c'era solo più la luce della luna.
Era stata Rebecca a protendere il volto per avere un bacio, poi un
altro ed un altro ancora. Aveva guidato le sue mani sul seno e si era
stretta.
“Lo sai che ho costruito una casa per noi?” le aveva detto divertito.
“Faremo l'amore in ogni angolo della casa, ma questa notte voglio che
sia benedetta dalla Dea”.
Alla luce bianca ed evanescente della luna, Jesse Jordan di Monn
era diventato un uomo e Corin di Makma era nato. In quella luce bianca
aveva assaporato il corpo della donna che lo aveva aspettato ed amato
per quattro anni, aveva ritrovato la forza e la fragilità della vita. Era
stato ferito a morte dai suoi occhi smeraldo ed era guarito dalle sue
mani. Nel suo grembo si era annullato per rinascere.
La luna... la luna era la luce che aveva intravisto oltre gli occhi della
sua sposa, una luna benedetta, l'occhio della Dea che aveva consacrato
la loro unione.
3.
Rebecca ammirava la luna, sulla torre più alta. Nell'unico luogo di Alto
Castello dove il tempo le apparteneva.
Sotto di lei, c'erano uomini e donne che legavano il destino, c'erano
bambini che piangevano e sposi che forse litigavano. Sotto quella torre
c'era una vita che proseguiva; là, nell'alto del cielo c'era la luna
immobile. Bianca ed evanescente, sempre identica, sempre maestosa.
315
Rebecca chiuse gli occhi. La luce della luna fu calda come quella del
sole e sentì le mani di suo marito sul volto. Aveva sedici anni scarsi e
l'erba sotto la schiena.
Sono ancora qui, Corin. Vieni da me. Ti aspetterò per sempre.
4.
Jacob rimase a Weast il tempo necessario per controllare che i suoi
Soldati Rossi fossero in perfette condizioni e ne approfittò per parlare
con il capitano d'armi, che tanto gentilmente teneva compagnia alla
contessa.
“Voglio le truppe ad Umm per l'inizio dell'inverno” gli impose.
“Sì, signore”.
“E voglio che Elma se ne stia tranquilla nel suo angolo, non so se mi
spiego. E' una di quelle donne che pensa di avere il controllo di tutto;
sarebbe curioso vedere cosa accade se perdesse il controllo”.
L'uomo sorrise da lupo. “Vi siete spiegato alla perfezione, mio
signore”.
Jacob si rimise dunque in viaggio con sommo piacere del conte ed il
dubbio di Elma: sarebbe passato per Madrigal?
Fu la stessa cosa che si chiese il Barone arrivato al bivio tra Madrigal
e Tulle. L'istinto gli diceva di deviare per Madrigal; il buon senso di
proseguire per Tulle. Il fatto era che Madrigal era governato dalle bestie
e le bestie non congiurano; Tulle era un covo di serpi che andava
controllato. E Rihanna si era raccomandata di tenere sotto controllo le
alleanze.
Lasciò perdere l'istinto e seguì il buon senso.
Più di una volta si volse indietro, pentito di quella scelta. Che cosa
era successo a Madrigal?
5.
Paul Mann riuscì a trascinarsi fino alla spiaggia di sassi e fanghiglia.
Era sopravvissuto al volo dalla cascata. Come, non lo sapeva neppure
lui. Aveva una caviglia spezzata, era pieno di ecchimosi, ma vivo. Forse
c'era qualche costola rotta, ma non gli sembrava grave.
Non poteva rimanere su quella spiaggia.
Se Jacob si fosse sporto dall'altura della cascata, avrebbe potuto
316
vederlo. Ed era l'ultima cosa che desiderava.
Si trascinò verso il bosco, trattenendo urla di dolore. Il dolore era
lancinante, vedeva bianco a tratti. Aveva bisogno di un letto e di cure.
Tentò di rimettersi in piedi, appoggiandosi ad un bastone. Aveva
bendato la caviglia con due pezzi di casacca strappati e due pezzi di
legno.
Gli parve di essere all'inferno. Il sole si era alzato nel cielo e
cominciava a fare caldo – o era la febbre che si era alzata? - così aveva
una sete, una sete terribile.
Un passo dopo l'altro.
Dove stava andando? Non capiva.
La mente era solo rivolta alla vendetta contro Jacob di Weer, quel
bestione imbecille che credeva di averlo sconfitto. No, non si sarebbe
fatto sconfiggere da un bastardo di quella risma: lui era più bastardo.
Forse fu rabbia o forza di volontà: gli riuscì di arrivare in prossimità
di una grossa fattoria e farsi vedere dal fattore, prima di cadere a terra
senza sensi.
Aiuto.
6.
“Non mi dici niente?” Giada si appoggiò con il mento sul petto di
George, le labbra piegate in una smorfia infantile.
“Che cosa dovrei dirti?” il ragazzo le scostò una ciocca biondissima
dagli occhi celesti.
“... il tatuaggio”.
Lui aveva sogghignato e di colpo l'aveva voltata per mettersi in
ginocchio davanti alle sue gambe aperte: “Vuoi che m'inginocchi davanti
alla mia principessa?”
“Cretino...!” Giada era scoppiata a ridere.
George aveva baciato il suo ginocchio piegato, senza più sorridere.
“Che cosa vuoi che ti dica, amore? - replicò – Io ti ho amato nel
momento in cui ti ho vista sui muri di Madrigal, senza sapere che sei la
figlia del re. Pensi che per me abbia una qualche importanza? Ti amerei
anche se tu fossi una mendicante zozza e piena di pulci”.
“O una serva con cui il signore ha fatto ciò che voleva, come con una
puttana” rispose lei con un sussurro ferito.
George non disse nulla, Giada chiuse le gambe e si coprì con il
lenzuolo.
317
“Non so se hai fatto un grande affare con me” gli disse, dandogli le
spalle.
“Affare? Quale affare, Giada? Dov'era tuo padre, quando quel bastardo
ti ha umiliata?” ringhiò lui, girandola verso di sé.
“Non lo so. E non so neppure ora dove sia. Rebecca dice che è ad
Hoss”.
“Rebecca? Chi è Rebecca?”
Giada sorrise triste: “Ah, è vero. Voi la conoscete come Spezzacolli.
Il suo nome è Rebecca di Makma”.
“Sì, la moglie di Corin il Fuorilegge. L'ho capito dai disegni che faceva
suo figlio Jesse. E dalla somiglianza con i bambini. Come fa a sapere
dov'è tuo padre?”
“Gliel'ha detto suo marito”.
George batté le palpebre un paio di volte. La risposta di Giada
sembrava tanto elementare, ma non era affatto intuibile per lui.
“A noi Corin ha detto di dover andare a Fillin, dove aveva conoscenze
per rintracciare Mastro Mayster” ribatté, cercandosi da fumare. Qualcosa
non tornava.
“Ma dai!” rise Giada, come se la stesse prendendo in giro.
George armeggiò con la cintura e prese tabacco di timo azzurro e i
sottili fogli fatti con la sottile Corteccia di betulla bianca. Si fece la sua
sigaretta e se l'accese, inspirò ed espirò una nuvoletta azzurrina.
Non rideva.
Giada si rese conto che si stava innervosendo.
“Ehi! - lo richiamò con dolcezza – pensavo lo sapessi”.
“Che cosa?” lui la fulminò.
“Di Corin”.
“Cosa, di Corin?”
“Corin è Mastro Mayster. E Rebecca è sua moglie. Corin è andato fino
ad Hoss a richiamare mio padre, dovunque sia” Giada snocciolò la verità
con l'ansia di aver combinato qualcosa di irreparabile – ma se George
era il capitano di Corin, possibile che non gliel'avesse detto?
George non replicò e si fumò tutta la sua sigaretta.
Giada aspettò, ma il silenzio nella stanza si stava facendo opprimente,
intollerante. - possibile che non ne facesse una giusta? Che in ogni caso
riusciva a dire la cosa sbagliata?
Si alzò dal letto e con gesti nervosi si mise calzoni e casacca. Infilò
gli stivali e si sistemò il velo per nascondere la chioma bionda. Infine,
avanzò verso la porta con l'intento di andarsene e trovare un angolo
tranquillo dove poter sfogarsi.
318
George seguì ogni suo movimento e la fermò quando si rese conto
che stava per lasciare la stanza. “Oh, piano, piano, bambina. Ma dove te
ne vai?” la bloccò con dolcezza.
“Dove vado? Vado a pulire le caldaie, ecco dove vado. - ribatté lei con
le lacrime agli occhi – Vado dove sono sicura di non far danni”.
“Aspetta, amore. - la tenne ferma per le spalle, impedendole di
muoversi – Guardami. Non ce l'ho con te. Sono incazzato nero con Corin
per non avermi detto la verità... anche se credo di essere io l'unico
imbecille a non aver mai capito: quando abbiamo combattuto sul Fiume
Dorato Corin cavalcava come Mastro Mayster”.
“Perché è Mastro Mayster” s'imbronciò lei.
“Adesso lo so. Finora l'avevo completamente ignorato” le sorrise
mesto, per farle tenerezza.
“E' meraviglioso: - borbottò lei – siamo insieme da meno di un giorno e
già litighiamo”.
“Vuol dire che siamo una coppia affiatata”.
Lo stomaco di George brontolò, la principessa scoppiò a ridere: “Più
che affiatati, siamo affamati!”
Lei fece per aprire la porta, ma con un gesto deciso George la
richiuse. Lui era ancora nudo e lei pronta per andarsene.
“Affamati sì, ma c'è fame e fame...”
Giada alzò il viso per accogliere il suo bacio. Il velo che le copriva i
capelli scivolò a terra e di nuovo a ballare l'amore tra le risate e gli
scherzi.
7.
Fare colazione con cinque bambini fu per Mas un'esperienza traumatica.
Era tutto un:
“Ma io non volevo il latte!”
“Mamma, mi fai le frittelle?”
“Mammina, oggi volevo le ciambelline con il miele... buaaah!”
“Mamma, ma Joe mi tira i capelli”.
“Cheppale che sei te!”
“Mammina, dai, fai le frittelle!”
“Joe è stupido, Joe è stupido!”
“No, le femmine sono stupide! E tu più di tutte!”
Marçela sorrise incoraggiante al suo capitano, ex scapolo, e preparò
latte, biscotti alle nocciole e frutta secca con cereali al miele da mettere
319
nel latte. Servì in tavola e dichiarò: “Joe, le femmine non sono affatto
stupide e, giusto perché tu non debba mai dimenticarlo, tua madre ha
combattuto e con ferocia per venirti a recuperare; pur essendo una
femmina. Anna, tu smettila di fare la prima donna: aspetta di avere due
peli sulla figa e un po' di sale in zucca. Ma a quel punto avrai smesso di
fare la prima donna. No, Charlie, niente frittelle e no, Matthie, niente
ciambelline. Francine, vedi di bere quel latte o te lo faccio andare giù dal
naso... non mettermi alla prova, monella, perché ho pochissima pazienza,
dovendola dividere per sei – Mas ormai era entrato a far parte della
famiglia – Se vi sento dire ancora una parolaccia, vi striglio la lingua con
la spazzola che uso per gli stivali. E, ora, fate colazione o digiunate. Ma
se venite a lamentarvi che avete fame, ve ne prendete a sufficienza da
non sedervi per una settimana. Allora?”
I ragazzi tacquero e mangiarono la loro colazione.
Come ogni mattina, tutto era tornato al suo posto.
Marçela mise una tazza di latte e caffè d'orzo per sé e Mas, quindi gli
porse i biscotti alle nocciole e la frutta secca. “Quello che c'è. - gli spiegò
– se fossimo alla fine dell'inverno, preparerei le frittelle, ma le uova
servono alla dieta dei bambini piccoli e delle donne incinte”.
“Questo va benissimo” le sorrise lui.
Durante il pasto discussero dei programmi della giornata: Joe doveva
recarsi da Freccia Letale per gli addestramenti al mattino ed al
pomeriggio doveva andare da Ada ad aiutarla per la preparazione di
alcune erbe; Anna e Francine avevano la scuola al mattino dalla sarta,
dove imparavano anche a far di conto ed al pomeriggio le aspettava la
scuola della panettiera – un gioco per le bambine che pasticciavano con
la farina, sale e un poco di lievito a fare piccoli pani piatti; Matthie
sarebbe andata a scuola dall'anziano Robert per imparare a leggere e fare
le forme, mentre Charlie andava al nido con gli altri bambini della sua
età.
A Joe piaceva quello che imparava con Ada, un po' meno le armi che
gli metteva in mano Freccia Letale; Anna e Francine adoravano la
panettiera perché aveva dei figli simpatici e Charlie aveva tanti amici a
scuola. Matthie piagnucolò che voleva restare con Mas a casa, ma
Marçela le fece notare che quel giorno avrebbero avuto molto da fare.
“Ma poi Mas se ne va” pianse la piccola.
Lui se la prese sulle gambe. “Torno stasera a cena. Che ne dici? Mi
sembra un buon patto”.
Matthie tirò su con il naso. “Prometti che torni?”
“Promesso, piccola. Adesso fila” la mise giù e le diede un buffetto sul
320
sedere.
Joe lo fissò con occhi roventi: “E quante sere pensi di tornare qui a
cenare?” il tono era aggressivo, minaccioso.
Mas s'irrigidì e Marçela fulminò il primogenito. “Tutte le sere che io
riterrò opportuno che lui ci sia” gli sibilò.
“E se io non fossi d'accordo?” replicò il ragazzino.
“Beh, te lo fai piacere. Fino a prova contraria, l'adulta qui sono io e
sono tua madre: so quello che faccio”.
“Embè, speriamo...”
“Joe, come ti...!”
“Joe, smettila!” intervenne Matthie, in difesa del capitano.
“Stai zitta, mocciosa!” replicò il maggiore, cercando di allungare uno
scappellotto, ma lo schiaffo di sua madre fu istantaneo.
“Joe, alza il culo e fuori di qui. - lo redarguì inferocita – Non ti
presentare a casa senza delle scuse, stasera, perché ti lascio fuori. Mas è
un nostro ospite e tu gli devi rispetto”.
“E alla memoria di papà tu gliene devi?” ribatté il dodicenne con le
lacrime agli occhi. Si volse ed uscì di casa sbattendo la porta.
L'appartamento fu invaso da un silenzio carico di tensione. Gli altri
bambini sgattaiolarono via prima che Marçela scoppiasse.
Mas si accese da fumare appena i piccoli furono fuori. Lo fece con
calma, mentre Marçela rimaneva immobile davanti a quella porta chiusa
e sbattuta.
Suo figlio non le aveva mai chiuso la porta in faccia.
Che cos'era accaduto al suo bambino? Che cosa gli avevano detto o
fatto a Madrigal per trasformarlo in quel ragazzino incollerito ed
intrattabile?
“Non... non so che cosa dirti...” balbettò quindi con gli occhi lucidi di
pianto. Nervosa, si mise a riordinare la cucina.
Mas la scrutò affaccendarsi per la cucina, fumando la sua pipa.
“La smetti?” le disse infine.
“Di fare cosa?”
“Di agitarti”.
“Non posso. Sono fatta così. Non ti piace? Quella è la porta”, sparì
nella camera da letto dei bambini per rifare i letti.
Mas scoppiò a ridere divertito e scosse la testa. “Mi è capitato di
venir messo alla porta, ma almeno dopo aver fatto del danno dentro al
letto!”
Marçela si fermò e scoppiò a ridere a sua volta. Lui le si fece accanto,
prendendola per le spalle, perché lo guardasse in faccia: “Joe ha dodici
321
anni, è un adolescente. Un ragazzino sveglio e ferito dalla guerra. Suo
padre è morto e lui si sente responsabile per te... è ovvio che spera di
ritornare come prima di venir rapito”.
Marçela si lasciò andare ad un pianto liberatorio. “E' che lui è l'unico
che non so come aiutare! E' così... chiuso... non mi dice tutto, io lo so”.
Mas le baciò la tempia: “Sono sicuro che con il tempo riuscirete a
parlarvi”.
Marçela annuì e si staccò per finire di riordinare la camera. Lui attese
ancora qualche minuto, ma i fianchi di lei lo stavano facendo impazzire.
Lei si chinava e lui stringeva i pugni per non fare quello che l'istinto
suggeriva.
Marçela si accorse dell'occhiata e ammiccò divertita. “Che cosa c'è,
capitano?”
“Te lo do io, il capitano, te lo do....” borbottò lui, spegnendo la pipa.
“Ma cosa...?”
Mas la prese in braccio e se la mise sulla spalla come un sacco di
patate: “Donna, mi stai facendo ammattire. Ti conosco da un giorno e già
non ti sopporto più”.
Marçela scoppiò a ridere di cuore; lui la portò nella camera da letto e
la depose sul lettone.
“Non puoi fare così” le sussurrò strofinando la guancia ruvida per la
barba di due giorni contro il collo morbido di lei.
“Così come, capitano?”
“Che fai finta di niente e ti muovi... e... dammi un bacio, ragazza, uno
solo...”
“Abbassa l'arma, soldato” ridacchiò lei, baciando le labbra.
“Dopo, Marçela, dopo”.
Dopo fu tutta la giornata finché i bambini non tornarono dalle loro
occupazioni. Marçela li accolse con gli occhi lucidi di felicità e Matthie
lanciò gridolini di gioia nel vedere che il capitano Mas, decisamente più
rilassato, sedeva alla loro tavola e pelava le patate per la cena.
Joe fu un po' meno contento, ma presentò le sue scuse. Mangiò la sua
cena e si chiuse in camera senza dire altro.
8.
“Papino, ma dove stiamo andando?” chiese Mark la mattina in cui
nevischiava e loro erano pronti per partire.
“Madrigal” rispose Corin, mentre controllava che Tommy fosse ben
322
coperto nel suo cappottino. Aveva dovuto far confezionare dei nuovi
abiti: Jesse in particolare era cresciuto così tanto che aveva avuto
bisogno di tutto, dal cappotto agli stivali nuovi.
Nel guardarlo come montava sul suo pony con una certa destrezza si
sentì il cuore riempire d'orgoglio: era un bambino bello, forte e
coraggioso. Era alto più o meno come Rebecca ormai ed aveva spalle
larghe per i suoi dieci anni; ma dentro rimaneva un bambino bisognoso
della sua mamma.
“Ma Madrigal non è quel posto dove le donne e i bambini erano stati
rapiti?” domandò serio il piccino.
Corin si rese solo allora conto di quello sguardo. Mark aveva sette
anni ormai, non era più il bambino innocente di quando erano fuggiti. E
la sua memoria si era fatta più lunga. - Grande Dea, perché ne abbiamo
avuti tre e tutti così vicini? Ho appena finito di scornarmi con Jesse su
questo....!
“Sì, Mark, stiamo andando a Madrigal. Quella Madrigal. Mas e George
l'hanno occupata perché da Ground non eravamo più al sicuro”.
“Papà, ma ci sono ancora tutti quei prigionieri a Madrigal?”
Due anni fa non si sarebbe espresso così.
“No, tesoro. Madrigal è stata liberata da Spezzacolli e dalle sue
guerriere. Adesso andremo a Madrigal per l'inverno, poi appena ci sarà il
disgelo ci sposteremo a sud, verso Alto Castello”.
“Spezzacolli è ad Alto Castello ora” s'intromise Jesse.
“Sì, da quello che mi hanno riferito. Il fatto è che viaggiare fino ad Alto
Castello in questa stagione è impossibile: si rischia di morire congelati in
una bufera”.
“Ma se la mamma è là, dovremo aspettare tutti i mesi dell'inverno,
prima di rivederla?” nella voce di Jesse c'era rabbia e frustrazione.
Ma mai quanto nell'animo di Corin che, se avesse potuto, avrebbe
anche attraversato l'Oceano di Mezzo a nuoto, pur di rivederla.
“Jesse, non so che dirti. - padre e figlio si fissarono con lo stesso
sguardo deluso – Lo sai bene che non vedo l'ora di riabbracciare
Rebecca”.
“Uff! - sospirò il ragazzino trattenendo la rabbia omicida verso tutto e
tutti – Cheppalle!” si allontanò dal carro dove viaggiava suo padre con i
fratellini.
“Che ha Jesse?” chiese Maestro Jamie, raggiungendoli sul suo pezzato.
“Vuole andare dalla mamma” rispose Tommy.
Corin lanciò un'occhiata al figlio minore. Due anni fa non avrebbe
dato spiegazioni.
323
“Ah, bambino...” sussurrò l'anziano sacerdote. Scrutò Corin e sorrise
con tenerezza. “Ma quale bambino dei due?”
“Ho motivi molto meno innocenti per aver voglia di rivedere mia
moglie, Jamie” borbottò Corin, diventando paonazzo. Agli occhi di
Maestro Jamie non arrivava mai ad avere più dodici anni.
Il sacerdote scoppiò a ridere e Corin avrebbe voluto fare come lui se
la mancanza di Rebecca non fosse stata tanto dolorosa per il cuore – e
qualcos'altro.
La compagnia del re partì. Insieme ai servitori, cuochi e guardie non
raggiungevano il centinaio di persone; il re viaggiava su di una carrozza
anonima con al fianco Mastro Mayster a difenderlo. La gente accorreva
per vedere il grande Generale, si facevano avanti per porgere i loro
omaggi, per parlargli del Regno, per avere una benedizione da lui.
Man mano che avanzavano nel territorio, John Henry diveniva il
simbolo del Grande Regno e Mastro Mayster la realtà: con solennità il
popolo salutava il sovrano, con affetto profondo il Primo Generale, che
per mesi si era nascosto sotto le mentite spoglie di Corin il Fuorilegge
per proteggere i suoi bambini. Agli occhi della gente Mastro Mayster era
doppiamente leggendario, sia sul piano militare che quello personale.
E naturalmente tutti si domandavano dove fosse sua moglie.
Da Fillin a Madrigal, a causa delle condizioni avverse del tempo ci
misero quasi sei settimane per arrivare e Corin si diede dell'imbecille
perché a quel punto, tanto valeva passare l'inverno a Fillin.
La compagnia raggiunse stremata la fortezza imbiancata; i bambini
scendevano pochissimo dal carro coperto e Corin aveva dovuto
minacciare Jesse per farlo stare sul carro. Per dimostrare di non essere da
meno del padre, il ragazzino aveva preteso di poter montare sul pony
comunque.
Il lato positivo di tutta quella faccenda fu che, abituati al clima
rigidissimo di Hoss, i bambini avevano sviluppato una resistenza
inusuale al freddo intenso. Ma, soprattutto, alcune delle settimane che
avrebbero dovuto passare immobili dentro Madrigal, le trascorsero in
viaggio.
A parte tutto questo, i tre figli non smisero di lamentarsi neppure un
minuto di quanto si annoiavano.
“I tuoi figli mi fanno passare la voglia di averne, di bambini” borbottò
una sera Andrea, quando i ragazzi dormivano.
Corin aveva sogghignato e si tolse la casacca pesante, cambiandosi
con quella più leggera della notte. Alloggiavano nel carro coperto tutti e
cinque assieme e la sera, quando si coricavano, non c'era più spazio per
324
mettersi in piedi. In realtà Corin dormiva semiseduto, perché era troppo
alto per riuscire a stare sdraiato.
Andrea aveva riso con tristezza di quel sogghigno.
“Che fai, mi prendi in giro perché sai che non potrò avere figli?”
“No, ridevo perché la gente continua a ripetermi che sono adorabili”.
“Mi piacerebbe che qualche volta scendessi sul personale”.
Corin non rispose subito, ma si premurò di controllare che i figli
dormissero. Non aveva intenzione di avere tre piccole pesti ad
intromettersi in un discorso da adulti e così delicato.
“Andrea, mi spiace” le disse infine.
“Per cosa?”
“Perché ti aspetti da me frasi galanti che non avrai. Sono innamorato di
mia moglie e non provo per te nulla che non sia affetto profondo”.
“Dovrei farmi andare bene quello” sospirò l'ermafrodita con
nervosismo.
“Ma?”
“Ma sono stupida e non ci riesco. Non so neppure perché ti sto dicendo
queste cose” distolse lo sguardo, adirata verso se stessa.
“Forse perché non ti va di tenertele per te. Davvero nutri ancora delle
speranze nei miei confronti?”
“Ti amo, Corin... o Mastro Mayster, chiunque tu sia. In ogni caso, nutro
qualcosa per te, anche se so che è impossibile averti. Però, sii sincero, se
io non fossi questo scherzo della natura che sono e tu non fossi sposato,
mi avresti trovato attraente?”
Corin sogghignò: “Ragazza mia, tu sei più che attraente. Anche così”.
Lei arrossì: “Idiota. Lo dici per prendermi in giro”.
“Prima mi fai una domanda come quella e poi mi dai dell'idiota?” rise
lui.
“Non riesco mai a capire se lo dici per circostanza. Uff, qui dentro fa un
caldo atroce”.
“Sei tu che sei paonazza. Non credo sia possibile risponderti di
circostanza: ti farei infuriare. - accarezzò i capelli di Tommy,
addormentato vicino a lui – Sei una splendida ragazza, Andrea, e forse
mi saresti piaciuta. Non te lo so dire. Da un punto di vista estetico non ti
manca nulla, forse è caratterialmente che non ci saremmo trovati”.
“Perché?”
“Rebecca è l'unica donna con cui io abbia avuto tanta confidenza. Lei
sa cosa dire e quando dirla, come dirla... fin dall'inizio. Rebecca possiede
tutto ciò che mi serve per completarmi, ecco” alzò gli occhi e vide che
lei stava per piangere.
325
“Parliamo di noi e finisci per parlare di lei” rispose l'ermafrodita con
voce rotta.
“Perché non c'è alcun noi in quel senso. Andrea, io ti auguro di trovare
l'uomo o la donna giusta, il tuo equilibrio e la tua strada. Ti voglio bene e
ti stimo moltissimo, ma non ti amo. Per me sei diventata come una di
famiglia, ti ho accordato la mia totale fiducia ed è tutto ciò che ti posso
dare”.
Andrea rimase in silenzio. Sembrava che stesse prendendo coraggio.
Corin non le staccava gli occhi nerissimi da dosso ed alla fine la vide
sospirare: “Senti... - mormorò lei – per una volta... prima che tu riveda
Rebecca... posso dormire appoggiata a te?”
Corin non seppe risponderle subito. In realtà, si sentiva un traditore.
No, non era più in vena di certi problemi sentimentali. Soltanto che, per
un misero istante, si mise nei panni di quella ragazza: se lui fosse stato
dall'altra parte, innamorato come lo era lei, non avrebbe goduto per la
sola vicinanza? Un minuscolo attimo di felicità.
“Dai, siediti qui” ribatté con un sussurro.
Spostarono Tommy dall'altro lato ed Andrea si appoggiò alla sua
spalla. Con un sospiro Corin le circondò le spalle con il braccio e
l'ermafrodita si poté accomodare con il viso contro il collo.
Lui spense la luce tenue del lumicino.
“Grazie, Corin” mormorò lei.
“...”
Corin non dormì affatto quella notte. Andrea si appisolò alcune ore,
ma per il resto rimase nella veglia; avrebbe voluto parlare, ma lui non
avrebbe risposto. In fondo a se stesso l'uomo provava un profondo senso
di colpa: come l'avrebbe detto a Rebecca?
Il mattino seguente il comandante si alzò all'alba e suo figlio Jesse lo
trovò fuori da carro per le abluzioni mattutine con un'espressione
corrucciata.
“Tutto bene?” gli chiese.
Corin distolse lo sguardo da lui, come se gli occhi di smeraldo
ereditati dalla madre potessero leggergli dentro.
“Sono stanco di viaggiare” ribatté.
“Madrigal è lontana?”
“No, ma con questo tempo i viaggi sembrano eterni. Non siete i soli a
non poterne più” Corin si cercò la pipa nei calzoni.
Jesse accolse quella dichiarazione nel silenzio più assoluto, ma
quando ripresero il viaggio s'impegnò perché i fratellini non tediassero il
padre con mille e mille lamentele. S'inventò giochi con le dita,
326
costruirono piccoli oggetti con legnetti e pezzi di corda, inventarono
storie, ascoltarono quelle del padre.
Madrigal apparve ai loro occhi imbiancata e spettrale. Forse erano
influenzati da quello che era successo là, fatto era che Madrigal non
apparve come una meta accogliente. Jesse si strinse nelle spalle, quando
suo padre cercò i suoi occhi: neppure Corin era contento di dover vivere
nella fortezza. Se solo Fillin non fosse stata pericolosa per il Re! Se solo
Ground non fosse stato un serpente viscido!
Rimaneva il fatto che non avevano avuto altra scelta, se non
Madrigal. Era la più semplice da difendere e c'erano tutte le truppe di cui
disponevano. Non v'era altro luogo più sicuro, ora, nel Grande Regno.
John Henry contemplò Madrigal con occhi umidi. Mastro Mayster, in
piedi, accanto a lui.
“Mayster, questa fortezza è bella d'estate. Esterella aveva diciannove
anni, quando ci è venuta la prima volta. William fu concepito qui...
facevamo l'amore con il ronzio delle api fuori dalla finestra. Adesso
vorrei che Madrigal venisse cancellata dalle carte”.
“Vedete anche voi i fantasmi?” s'intromise Mark appendendosi alla
mano di Maestro Jamie.
Gli occhi nocciola del piccolo erano coperti da un'ombra scura,
terribile: lui vedeva la sofferenza di quelle mura, sentiva le voci degli
altri bambini, annusava l'odore della morte e del sangue innocente.
Scoppiò a piangere.
Corin fece per prenderlo in braccio, ma intervenne l'anziano
sacerdote: “Mark, chiudi gli occhi. - gli impose – concentrati, piccolo.
Chiudi gli occhi e guarda i fantasmi con gli occhi della mente. Che cosa
vedi?”
“I bambini... loro... l... vogliono la mamma...” singhiozzava il bambino.
Maestro Jamie accarezzò la fronte di Mark con mano lieve, un
movimento armonioso in cui la mano descrisse una danza, come se
stesse voltando una pagina.
Il sacerdote era concentrato, la sua pelle bianca e trasparente divenne
quasi luminescente.
“Ora cosa vedi, Mark?” gli domandò con gentilezza.
Mark smise di piangere. Aprì gli occhi stupefatto: “I bambini...! Gli
altri bambini stanno correndo ad una festa con le loro mamme!”
Maestro Jamie gli sorrise con dolcezza: “Hai visto? La realtà è
meglio degli incubi”.
Il piccolo sorrise sollevato: “Sono con le loro mamme” e trotterellò
alla ricerca di Tommy e Andrea per raccontar loro quello che aveva fatto
327
il magico fratello del re.
Corin cercò lo sguardo di Maestro Jamie.
“E' la realtà?”
“Quella che vorremmo” rispose il sacerdote con rassegnazione e si
allontanò.
328
CAPITOLO 18.
1.
Adesso Rebecca era pronta ad affrontare Mas ed i suoi omaggi.
Dopo averlo incrociato nei corridoi, lo invitò insieme a George a
discutere di Corin e di quello che sarebbe stato più opportuno per il
Grande Regno. Ma soprattutto chiarire la propria situazione personale.
I due capitani si sedettero dopo che la donna ebbe fatto loro un cenno.
Non c'erano né Giada né le altre due fidatissime compagne; la cosa stupì
George.
“Marçela e Tray non conoscono né la mia identità e soprattutto non
conoscono quella di Giada” rispose Spezzacolli servendo loro del vino
bianco e pane senza lievito con un po' di sale e rosmarino.
“Perché no?” era Mas.
“Beh, per quanto mi riguarda perché sarebbe stato difficile al momento
della fuga spiegare che sono la moglie di Mayster ma che lui non sarebbe
venuto in nostro soccorso perché impegnato a salvare i nostri figli ed
andare dal sovrano ad Hoss. Per quanto riguarda Giada, credo possiate
immaginarlo da soli”.
“Sarebbe stato rischioso, sì, ma il popolo vi avrebbe aiutate” ribadì
stizzito George, che ricordava perfettamente Elaka e la descrizione della
battaglia in cui Annabel aveva perduto la vita.
“Il popolo – Rebecca alzò il tono della voce – era stato razziato ed
imprigionato da Weer”.
“Perdonatemi, ma ho perso un pezzo del discorso: Giada chi è
esattamente?” Mas alzò la mano per interromperli.
Rebecca annuì: “Giada è la figlia di John Henry, Mas. Era prigioniera
con me a Weast”.
“Un istante: che cosa ci faceva Giada a Weast?”
Rebecca spiegò come John Henry, disperato, avesse deciso di
lasciarla in custodia al fidato amico, il conte di Weast, mentre tentava di
sciogliere l'incantesimo sulla moglie Esterella.
“Quindi, in realtà, a comandare è Giada” Mas si fece due conti, dopo
aver saputo la verità.
“No, sono io. Fin dopo la nostra fuga da Madrigal ho cercato di
convincere Giada a prendere il comando, ma lei mi diceva di non essere
329
pronta. Io ho solo rispettato la sua volontà”.
George bevve tutto il suo vino e scosse la testa mesto: “Perdonatemi,
Madama Rebecca, se non sapessi che siete la moglie di Mastro Mayster
penserei che volete usare questa gente per il controllo di Alto Castello”.
Glaciale, lei rispose: “Meno male che sapete chi sono”.
Mas si accese la pipa e fulminò George con lo sguardo: “Lasciate
stare questa testa calda: sul campo di battaglia si fa onore, ma quanto a
rapporti umani è un completo imbecille”.
“Penso che mio marito qualche volta gli abbia detto che fa
considerazioni stupide” sorrise divertita lei.
“Vostro marito non faceva altro” borbottò George.
Rebecca scoppiò a ridere e si sporse per battere la mano con affetto
sul braccio del ragazzo di poco più giovane di lei. “Forza, che Corin non
è poi così terribile”.
“Prima di diventarlo lascia sciolto il guinzaglio di Jesse” ribatté Mas tra
le risate.
“Vi prego, parlatemi dei miei bambini. Voglio ogni particolare”.
I due capitani descrissero nuovamente i momenti passati con i
bambini e, almeno questa volta, Mas evitò di fare considerazioni circa il
fatto che Corin avrebbe dovuto dormire con una donna e non con il figlio
minore.
Rebecca si nutrì di quei racconti. Li vide crescere, li vide soffrire, si
sentì divorare dalla nostalgia e dalla mancanza di loro; era come se un
animale vorace le stesse strappando il petto. Soffriva così tanto ed allo
stesso tempo implorava i due uomini di dirle tutto.
Alla fine, non riuscì a trattenere le lacrime, ma si ricompose in fretta.
Con una semplicità disarmante si scusò con loro: “Cuore di mamma”.
“Non dovete giustificarvi, mia signora” sorrise Mas.
“E' solo che... non lo so, mi sembra di rivedere la luce dopo un tempo
lunghissimo”.
Fu George, malgrado lo scambio di battute che avevano avuto prima,
a stringerle con affetto il braccio sulle spalle.
Era difficile riuscire a credere che quella donna piccola e
all'apparenza così giovane fosse la leggendaria Spezzacolli.
“Signori, davvero, scusatemi” mormorò infine.
“Corin sarebbe felice di saperlo così amato. Ora capisco perché non ci
ha mai detto molto... tra di voi c'è un legame forte” la consolò Mas.
“Il fatto è che Corin è la mia famiglia. - Rebecca si schernì con la mano
– me ne sono innamorata a dodici anni... sapete, no, il primo amore?
Sono stata così testarda da aspettarlo per quattro anni. - Scosse la testa
330
con un sorriso per sé – Va beh, basta parlare di me. Sentite, io ho bisogno
di voi”.
“Sarei rimasto ad ascoltare volentieri. - ridacchiò Mas – ma dite”.
“Prima di tutto, basta con questi formalismi. Vi chiedo solo di
chiamarmi con il mio soprannome... indubbiamente ricorda a certa gente
come mi sono conquistata il rispetto. In secondo luogo, vorrei che la mia
identità e quella di Giada rimanessero un segreto per il momento”.
“Perché?” insistette George.
“Non ho notizie certe del ritorno del sovrano e siamo distanti da Hakne:
rischiamo di venire assediati da Weer. Ecco perché non voglio che si
sappia. - alzò la mano per placare le polemiche del giovane ed
innamorato capitano – Un secondo, George. Forse tu non te ne sarai
ancora reso conto, ma qui ci sono quasi solo civili e per mangiare
abbiamo bisogno di razziare le stazioni di approvvigionamento nemiche,
altrimenti si muore di fame. Non me lo posso permettere, con donne
incinte, vecchi e neonati”.
“Anche così, però, potreste venir assediati” notò Mas.
“Certo, ma Weer avrebbe meno la mano pesante. Voglio dire, se sapesse
di Giada, la sequestrerebbe per ricattare John Henry. E quanto a me...
diciamo che tra mio marito e Weer non corre buon sangue. Ho giurato di
difendere questa gente e rinunciare al mio nome non è un grosso
problema. Almeno, non ora”.
“Per me non ci sono problemi” affermò Mas.
“Giada che cosa ne pensa?” ribatté invece George.
“Chiediglielo. Sei preoccupato che io voglia usurpare il potere della
principessa?” il tono fu duro.
“No, signora. Niente di tutto ciò... ma stavo pensando che, forse, se
accompagnassi Giada sotto scorta fino ad Hakne, lei potrebbe
riaffermare la sovranità di suo padre. Potremmo tornare con uomini di
scorta e voi potreste scongiurare il pericolo di assedio”.
Rebecca annuì: “Il ragionamento è logico e mi piace. Ti dirò, mi
preoccupa solo il fatto che il Consiglio non riconosca la principessa
senza suo padre. D'altra parte, però potresti condurla nella Capitale e
rimanere in incognito finché non siete sicuri di che aria tira. In ogni caso,
penso che sarebbe più al sicuro là che qua”.
“Mi permetterai di farglielo notare?”
“George, - Rebecca giocherellò con il coltello del pane – quando ero a
Weast ho scelto di combattere soprattutto per Giada, capisci? Tutte le
scelte che ho preso in questi mesi avevano la sua approvazione” - se e
quando la dava: la nostra signora ha paura della sua stessa ombra.
331
“Va bene”.
“Un'altra cosa. - soggiunse Rebecca con stanchezza – Vi accennavo ai
problemi che abbiamo con certi uomini. Gente avida, prepotente... non
so se mi spiego. Vorrei che faceste un po' la voce grossa e parlaste
dell'esercito di Corin, insomma, fate valere la vostra carica. Anche dentro
la caserma Freccia Letale ha il suo bel daffare con i ragazzi grandi, tutti
convinti di essere Mastro Mayster - sorrise beffarda – e poi appena
capaci di incoccare una freccia. Qui tutte le braccia sono utili, ma ci deve
essere anche un po' di buon senso dietro, non so se mi spiego”.
“Alla perfezione” Mas si servì ancora di un poco di vino e volse il capo
verso la finestra. Aveva cominciato a nevicare.
Rebecca seguì il suo sguardo. “Spero che Corin sia riuscito a tornare
ad Hakne” mormorò.
“E' quello che speriamo tutti, mia signora” ribatté il capitano e rimasero
in silenziosa contemplazione di quei grossi fiocchi di neve, che con
delicatezza andavano posandosi per terra.
Nei ricordi di Rebecca c'era una vallata imbiancata, un falco che
strideva nel cielo e la sensazione di pericolo imminente. Avrebbe voluto
dire a Mas che si sentiva sola e spaventata, tornare ad essere per un
istante una donna qualunque. Cercare parole consolatorie. Alla fine si
alzò e si congedò dai due uomini per tornare alle sue occupazioni.
2.
Mentre il sarto saccente ci metteva altri due giorni in più del previsto a
finire il lavoro, il Marchese di Ground ne approfittò per esplorare la
Capitale.
Ascoltò le voci del popolo, s'informò in tutti e sei i quartieri su come
fosse la situazione reale e la realtà era la vessazione cui era sottoposto il
popolo da ognuno dei consiglieri. Costoro si proclamavano reggenti per
John Henry e Justine, così potevano fare il bello ed il cattivo tempo;
spostarsi da un quartiere all'altro era inutile. La povertà era dilagante,
non solo per il popolo, ma anche per la classe nobiliare.
In definitiva, erano parecchi i piccoli signori che stavano pensando di
lasciare la Capitale per il più barbaro ma ricco Nord.
“Il fatto è – gli disse un oste presso cui si era fermato per mangiare –
che tanto vale che Weer prenda il potere. Ormai nessuno crede più in
John Henry o Mastro Mayster, cioè, se Mayster avesse chiesto la
reggenza dieci anni fa nessuno avrebbe fatto una piega ma così...
332
insomma, adesso Weer è sposato e con un erede maschio. Questo fa di
lui un ottimo pretendente al trono. Certo che se...”
“E se la Cugina Justine trovasse marito?” Ground interruppe il
monologo.
L'oste lo fissò con aperto divertimento, come se fosse un tonto.
“Quella? Trovare marito? Ci sono più possibilità che io trovi marito” e
scoppiò a ridere.
“E' una donna difficile?”
“Dite pure impossibile. Se solo riuscisse a capire che deve sposarsi per
il bene del popolo e non suo! Quella è convinta di essere l'unica a soffrire
per la morte di qualcuno amato... la verità è che le donne nobili non
hanno il minimo senso pratico della vita, sempre circondate di servitori e
capricci. Ah, se Mayster avesse...”
“E il popolo, che marito vorrebbe per lei?”
Adesso l'oste si risentì non poco di essere stato interrotto: “Un uomo
capace di tirare fuori i coglioni. Uno che ci liberi di 'sti maledetti
avvoltoi”.
Ground si accese la pipa e ordinò un bicchiere di grappa.
Hakne era in pessime condizioni, anche se si ostentava ricchezza e
lusso sfrenato. Nelle periferie il tifo era già arrivato e tra poco ci sarebbe
stata anche la peste. No, non che lui fosse un filantropo come John
Henry, ma era intelligente e sapeva che era la popolazione che faceva la
differenza tra celebrità ed anonimato. Non voleva e non poteva aspettare
Corin con Mayster e John Henry. Se fosse riuscito a sposare Justine di
Malle, avrebbe ottenuto il controllo della Capitale e quando - e se – il
sovrano avesse fatto ritorno sarebbe stato quello stesso popolo liberato
ad eleggerlo sovrano a suffragio universale.
Perché il punto era proprio quello: essere presente per il popolo di
Hakne.
Finì la sua pipa e pensieroso si congedò dall'oste.
3.
A Madrigal avevano ricevuto il messaggio del prossimo arrivo del
sovrano e di Mastro Mayster. Quasi tutti i soldati residenti nella fortezza
avevano combattuto al fianco di Corin sul Fiume Dorato e si
domandavano che fine avesse fatto il loro comandante: si era riunito a
sua moglie, ora che Madrigal era stata liberata? Sarebbe tornato da loro?
La curiosità d'incontrare il re ed il grande Generale scuoteva gli animi
333
di tutti. Prepararono una gran cerimonia di benvenuto, pulirono e
sistemarono ogni angolo di Madrigal; furono preparate le divise, lucidati
gli stivali, affilate le armi perché risplendessero nella luce opaca
dell'inverno, quando avessero reso omaggio al Primo Generale del re.
Zar era entusiasta ed allo stesso tempo preoccupato per l'arrivo del re:
se Weer lo avesse saputo, sarebbero stati assediati. Certo, dopo l'inculata
del Fiume Dorato ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare in
pieno inverno, ma con Jacob di Weer nulla era sicuro.
Avvistarono la carovana del sovrano e si accalcarono sulle mura per
guardarli arrivare. La delusione serpeggiava: ci si aspettava qualcosa di
più grandioso.
Zar mandò due dei suoi ad accogliere la compagnia, mentre dava
ordini di prepararsi per il benvenuto al sovrano.
“Papà, guarda! - Mark allungò la mano guantata – Quello non è
Robert?”
Corin scrutò il cavaliere che veniva loro incontro. “Sì, Mark. E'
Robert”.
Robert si era distinto nella battaglia ed era con loro fin dall'inizio: un
uomo giovane, educato e amichevole con tutti.
I due cavalieri si avvicinarono e furono immediatamente circondati
dalle guardie di John Henry per la reciproca conoscenza. Ognuno di loro
non vedeva l'ora di mettere fine a quel viaggio gelido.
“Robert” Corin si fece largo tra i suoi uomini.
Robert rimase ammutolito davanti al suo comandante. Quello dinanzi
a sé era indubbiamente Mastro Mayster, ma era anche senza alcuna
ombra di dubbio Corin di Makma.
Corin gli sorrise con comprensione e l'uomo scosse le spalle, avendo
ormai capito.
“Generale, bentornato” gli porse i suoi omaggi.
“Grazie, ragazzo. Che cosa mi racconti?”
“Che qui fa troppo freddo per intavolare una chiacchierata, signore”
sorrise divertito l'altro.
Corin scoppiò a ridere e fece segno ai suoi di procedere. Robert si
scostò per vedere il re. Cioè, tutti volevano vedere il re fantasma. Vedere
quanto era cambiato, se qualcosa era cambiato.
Scorse solamente il carro coperto su cui viaggiava. In compenso
sorrise per il cambiamento di Jesse: l'aveva lasciato bambino e si trovava
davanti un ragazzino con i tratti più spigolosi e decisamente virili.
“Jesse, ragazzo!” lo salutò con un cenno entusiasta della mano.
“Bobby! - Jesse sopraggiunse in groppa al suo pony con Tommy seduto
334
davanti a lui. - Come ve la state cavando?”
“Con il culo al freddo” ribatté l'altro.
Nel tratto di strada che li separava da Madrigal, Robert raccontò loro
dello spostamento delle truppe da Ground a Madrigal, lui era stato uno
dei primi a giungere, insieme a Mas e George.
Corin lo interruppe: “Mas e George non sono a Madrigal?”
“No, comandante... scusate, Generale. Mas e George sono partiti nel
mese della mietitura alla volta di Alto Castello. Quando siamo arrivati
qui, era chiaro che Elaka non aveva raccontato balle, così George è
voluto partire per scoprire che ne è stato di Spezzacolli e delle donne da
lei salvate”.
“E da allora di lui non avete notizie?”
“L'ultima missiva ci è giunta la settimana passata, prima della neve:
sono ad Alto Castello ospiti di Spezzacolli e della sua gente”.
Rebecca.
“Stanno tutti bene?”
“Sì, sì, mio signore. Tutti bene. Solo che sono bloccati dall'inverno e
non riprenderanno il viaggio fino a primavera”.
“In effetti, quando ad Alto Castello comincia a nevicare, muoversi è
impossibile” considerò Corin.
“I dettagli della loro vita ad Alto Castello li conosce Zar”.
“Zar sovrintende Madrigal?”
“Sì, signore. E' un buon comandante, se questo vi può interessare”.
Corin gli batté una mano vigorosa sulla spalla: “A parte qualche
soggetto, siete tutti ottimi soldati. E il Fiume Dorato parla da sé”.
“Sapete bene che non è così: sul Fiume Dorato abbiamo vinto grazie
alla vostra tattica. Ora molte cose si spiegano”.
Corin non rispose. Mancavano poche centinaia di metri all'ingresso
della fortezza.
La sentinella sulla prima cinta di mura diede l'ordine di attenti: ogni
uomo presente a Madrigal scattò, la spada sguainata in segno di
omaggio.
Mastro Mayster fece un ingresso trionfale.
Jesse, poco distante da lui, rimase attonito davanti a tutta quella gente
che ammirava suo padre fino a sacrificare la vita per un suo ordine e
Corin, solenne, eretto sulla sua cavalcatura, salutava ognuno di quegli
uomini.
Per la prima volta da quando Corin era divenuto Mastro Mayster,
entrò nella fortezza in testa alla compagnia. John Henry cavalcava poco
dietro, protetto da quattro guardie del corpo e ricevette sì il saluto dei
335
soldati, ma non le stesse occhiate ammirate.
Corin smontò da cavallo, quando vide Zar rendergli omaggio nella
piazza principale della fortezza.
“Amico mio” lo salutò porgendogli la mano.
Zar strinse la mano con vigore, sorridendo mesto: “Ecco che cosa non
ci tornava. Bentornato, Generale”.
Fu reso omaggio al sovrano e festeggiarono il loro arrivo. Jesse ebbe
il permesso di stare alzato un poco di più: adesso al castello c'erano delle
donne, novelle spose convolate a nozze durante la permanenza di alcuni
soldati a Ground e si sentivano i pianti di alcuni neonati.
Tutti bevevano e alzavano i calici in onore del Primo Generale, anche
se nei loro occhi si leggeva la delusione per John Henry: il sovrano
aveva stancamente sorriso, ringraziato e si era ritirato nei suoi
appartamenti.
Ad Hakne era tornato un re sconfitto. Aveva ancora un senso
combattere per lui?
4.
Alla fine dell'estate Jacob scrisse a sua moglie:
“Moglie mia,
mi trovo a Tulle, presso il Marchese e sua moglie Corinna. Sono
arrivato da due giorni, ma trovo solo ora il tempo per scriverti.
E' necessario che tu sappia che alcune cose sono cambiate: Paul
Mann e Borok si sono rivelati i serpenti traditori che da sempre sapevo.
E i serpenti velenosi vanno eliminati, così come è successo. I dettagli
quando tornerò.
Come sta il nostro bambino? Cresce? Ha già cominciato a stare
seduto? Pensi che un pony dalla Regione di Monn sia un regalo
eccessivo?
E tu? Tu come stai, Rihanna? Che novità da Umm? La Corte ti dà
pensieri? Pensi a noi?
Vorrei saper dire di più, moglie, ma mi è già difficile scrivere queste
quattro righe.
Io ti amo.
Jacob”
336
Un mese dopo ricevette la risposta di sua moglie:
“Carissimo marito,
ci hai mai pensato che avendo vissuto io in mezzo alla strada per
tutta la vita, forse potrei non essere in grado di leggere né di scrivere?
Grazie alla Dea, un bottegaio che si è preso una parte della mia
adolescenza mi pagava in lezioni di scrittura e lettura, così nessuno
della Corte mi ha dovuto leggere le tue quattro righe.
Su Paul Mann e su Borok non avevo alcun dubbio, era solo una
questione di tempo. Fortunatamente di Joseph te ne sei liberato
mandandolo in missione dall'altra parte dell'Oceano di Mezzo... mi
spiace solo per Grace, che era una ragazza in gamba.
Qui ad Umm ogni cosa procede come al solito, anche a Corte.
E dipende circa il pony per Xanatos: quando farai ritorno?
L'autunno ormai è pieno e, se tutto va bene, saresti qui per il Solstizio
d'Inverno... questo vorrebbe dire che il piccolo dovrebbe già saper stare
seduto da solo.
In ogni caso deve imparare: in primavera arriverà il fratellino o la
sorellina ed io non avrò più tutto il tempo da dedicare a lui.
Penso a noi, anche se non so cosa sia noi. Ti aspetto per chiarire
questa questione di Stato.
Grazie per le quattro righe, marito.
Ti amo anch'io.
Rihanna”
Jacob rilesse la lettera di sua moglie una, due, tre volte.
Stava ridendo. O stava piangendo di felicità? Non fu in grado si
stabilirlo. Rihanna era di nuovo incinta.
Di quanti mesi era? Due? Tre? Quanto durava la gravidanza? Quando
era rimasta incinta?
..l'espressione sconvolta ed incredula sul suo volto mentre lui le
baciava il seno...
Jacob sorrise di se stesso, immaginandosi come doveva essere in quel
momento:un completo imbecille. Sì, Rihanna era rimasta incinta la notte
prima della partenza.
Volle fare le valigie. Voleva tornare da lei e dal bambino. Che
marcissero tutti all'inferno! Aveva delle questioni più importanti ora,
come la sua famiglia!
Afferrò il proprio baule, senza neanche chiamare il servitore; poi la
337
mente si mise a ragionare su quanto stava facendo e comprese che non
poteva. Non in quel momento.
Per arrivare a Tulle aveva dovuto allungare di qualche centinaio di
chilometri per non passare nel confine con le Paludi di Gras; nel
Marchesato di Tulle aveva ricevuto un benvenuto decisamente più
caloroso che non a Weast, pur essendo Weast sotto il suo potere. Il
popolo di Tulle seguiva ed approvava la scelta fatta dal proprio signore
nell'appoggiare l'unico dei due pretendenti al trono che ancora
combatteva per esso; se non altro perché si erano convinti di essere
immuni dai saccheggi.
Non sapevano ancora che a sud di Tulle, sul confine di Alto Castello,
le razzie erano già cominciate. E che il loro magnanimo signore era
convinto più che mai di essere in diritto di poterli schiavizzare.
Jacob si era circondato di tanto calore, aveva brindato con loro e riso
di loro e dell'ingenuità di uomini e donne che erano come bestie: bastava
illuderli di essere un padrone più buono, anche se alla fine mangiavano
merda lo stesso.
A differenza di Brealle e Weast, il marchesato fu più generoso e pochi
giorni dopo essere entrato nel territorio una delegazione di Corinna e di
suo marito Diegho di Tulle aveva raggiunto il Barone per scortarlo fino
ad est, nella città.
Corinna era una delle sue Bambine.
A differenza di Elma, era una donna dai modi raffinati, l'aspetto di un
angelo ed il tono di voce non era mai più alto del sussurro. Nonostante le
apparenze, aveva un carattere di ferro ed era, semmai possibile, più
crudele di tanti uomini da Jacob conosciuti. Possedeva una bellezza
particolare: alta e sinuosa come un fuscello, il viso era oblungo e gli
occhi blu sottili, a mandorla, i capelli di un castano scuro, un po'
stopposi. La pelle era sempre ruvida e lei, per cercare di ammorbidirla un
poco, si cospargeva di olii piuttosto grassi, così luccicava come una trota
fuori dall'acqua. Perciò, Corinna non toccava nessuno.
Al suo signore, quando Jacob fece il suo ingresso trionfale nella città
di Tulle, rivolse un profondo inchino e sorrise raggiante per il suo arrivo,
ma non lo sfiorò.
Jacob scorse Diegho alle sue spalle. Un uomo basso e magro come
uno stecco, con una calvizie incipiente e gli occhi grigi socchiusi nel
tentativo di mettere a fuoco ciò che c'era attorno a lui. Era cieco come
una talpa.
“Mio signore, quale onore!” sorrise Corinna.
“Corinna, Bambina” la salutò Jacob accennando un sorriso.
338
Corinna lo accolse nel castello come si doveva ad un sovrano: non
lesinò su pasti e portate, si accollò le spese di un nuovo guardaroba per
l'autunno, regalò un'infinità di giocattoli e vestiti per il piccolo Xanatos,
ignorando volutamente Rihanna.
Rihanna non era ben vista da molte delle Bambine di Jacob. Da
Corinna in maniera particolare, dacché Jacob si era preso la sua verginità
e lei, sebbene non fosse stata in grado di contenere l'enorme membro del
suo signore, sperava con il tempo di poter concepire un figlio di lui.
Jacob si era liberato di Corinna immediatamente.
La ragazza era pericolosa e gelosa, una pessima accoppiata di fattori.
Jacob l'aveva raccolta dalla strada che era quasi adolescente ed era stata
una delle ultime ad essere addestrata, ma fin dall'inizio aveva dimostrato
di apprezzare il mondo della menzogna e della crudeltà della Casa.
A Tulle Jacob andò a controllare le sue truppe di Soldati Rossi – la
seconda piantagione – e impiegò due settimane e mezzo per andare a
controllare Cave di Marmo Nero.
Era lì che convergevano gli uomini deportati.
Se donne, vecchi e bambini venivano dirottati su Madrigal, gli
uomini venivano utilizzati come schiavi nelle Cave di Marmo Nero. Il
loro compito – obbligo – era di estrarre il prezioso Marmo Nero e di
lavorarlo allo stato grezzo lì sul posto. Poi con delle carovane il Marmo
Nero veniva portato a Tulle e Lemann, dove veniva lavorato per creare
armi, armature e scudi. In realtà era tutta una strategia: ai prigionieri
veniva data possibilità di scelta dopo dieci giorni di duro lavoro:
potevano continuare ad essere fedeli alla Corona e scavare in condizioni
disumane in attesa che Mayster o John Henry dall'aldilà li andassero a
salvare, oppure salvarsi il culo da soli e saltare il fosso, giurando fedeltà
al Barone Jacob di Weer. Chi accettava veniva trasferito a Lemann o
Umm, addestrato e riceveva una paga e trovava un letto caldo su cui
dormire. Oppure, con la paga, si faceva scaldare il letto da qualche
puttana.
Poco meno della metà dei prigionieri avevano accettato la proposta di
Jacob di Weer. Mentre le loro mogli erano ridotte in schiavitù a Madrigal
a sfornare bastardi, i mariti le scordavano e si rifacevano una vita,
dimenticando di aver avuto un onore, una vita precedente e amore.
Che cosa non fa fare la paura.
Le Cave si trovavano a meno di una settimana dai confini con Alto
Castello, in un territorio abbastanza pianeggiante, protette da dieci torri
immense.
Jacob si era curato di passare un tempo sufficiente alle Cave per far
339
capire ai prigionieri che non v'era altra salvezza se non tra le fila del suo
esercito.
E di ritorno a Tulle aveva trovato la lettera di sua moglie ad
attenderlo.
5.
“Fare, che cosa?” Giada fissò il compagno con aperto divertimento.
“Riprenderti il tuo posto” ripeté lui.
“Non ne ho alcuna intenzione!” rise lei, scuotendo la testa.
Erano soli, nel loro appartamento e George aveva riferito della
discussione avuta con Rebecca. Secondo lui, Rebecca tendeva ad
esagerare con il proprio predominio su Alto Castello, anche se gli aveva
assicurato che ogni scelta era approvata da Giada.
“Scusami, sei la principessa! - insistette lui – Riconoscendo il tuo
status, molte persone comincerebbero a cambiare atteggiamento”.
“Anche questo te l'ha detto Rebecca?”
“Che intendi?”
“Rebecca vorrebbe che fossi io a guidare questa gente”.
Un punto a favore di Rebecca, ammise il giovane capitano.
“Perché non vuoi?”
“Perché non sono pronta”.
George le baciò la spalla nuda.
“Hai paura?”
Giada annuì lentamente, volgendo lo sguardo altrove. “Io credo che
tu ti sia fatto un'idea sbagliata di Rebecca. Subito dopo esser fuggite da
Weast, mi disse che, se volevo, potevo prendere il comando. Mi avrebbe
protetta, ma non desiderava condurre quelle donne. E che cosa avrei
dovuto fare io? Io che mi sono fatta prendere mentre raschiavo una
padellina con i resti di una mela caramellata? Rebecca ci ha salvate tutte;
lei è sempre attenta su tutto, è forte, sa tenere testa a gente come Klaus...
Rebecca è la moglie di Mayster e, se lo è, c'è un motivo. Mayster non si
sarebbe sposato con la prima che capitava”.
“Vuoi rimanere così anonima?” pareva deluso.
“Non sono anonima, qui. Sono Giada l'Ingegnosa. - sorrise allegra – E'
inutile che fai quella faccia, non ci tengo affatto a dire chi sono. Sto bene
così”.
“Senza privilegi?”
“Senza responsabilità tanto grandi. Non sono in grado di provvedere a
340
questa gente”.
“Non è vero. Tu e le tue invenzioni siete il cuore di Alto Castello”.
“Il cuore di Alto Castello è Rebecca. Osservala meglio, George, e ti
accorgerai che ho ragione”.
6.
George osservò Rebecca.
Ebbe un sacco di tempo per seguirla, per parlare con lei. Per capirla.
Era ovvio, era innamorato di Giada e voleva che lei fosse al sicuro,
che fosse riconosciuta per quella che era. La realtà – per quanto
inverosimile – era che non gli importava granché di essere elevato al suo
rango, né di avere gli stessi privilegi. Preferiva anche lui l'anonimato, ma
la gente doveva saperlo chi era Giada! Insomma, lei era meravigliosa!
Invece, Giada, non voleva sentir ragioni. All'inizio aveva pensato alla
modestia, con il passare dei giorni si era accorto che la giovane aveva un
vero e proprio rifiuto per il suo rango. Ne aveva paura, la disgustava e
tremava come un coniglietto braccato quando la si metteva davanti a
delle responsabilità.
Quel che Rebecca aveva detto loro era vero: chiedeva sempre il
consenso della principessa. Ma Giada rimaneva inerme, terrorizzata alla
sola idea di dover guidare della gente. La sua gente.
Inizialmente, i due capitani seguirono Spezzacolli, che li presentò a
tutta la comunità. Per un certo numero di giorni li seguì, poi diede loro
libertà di azione con il solo obbligo di riferirle almeno ogni tre o quattro
giorni gli eventuali cambiamenti. Ad Alto Castello era necessario far
coincidere ogni cosa perché la macchina girasse e Rebecca era quel
meccanismo che faceva sì che ogni pezzo andasse al suo posto.
Aveva ragione Giada.
Rebecca era il cuore pulsante di Alto Castello.
Spesso la si vedeva fino a tardi studiare soluzioni per questo o quel
problema; conosceva la gente, si interessava a loro, ascoltava tutti. Non
era un capo inaccessibile, ma soprattutto possedeva un'empatia tale da
riuscire ad ascoltare e capire i bisogni della sua gente. Era un capo
giusto, ma intransigente.
Dopo il primo incontro da soli con Klaus i due capitani compresero
perché dovesse esserlo. Nella sua parte di terre Klaus spadroneggiava,
non versava il suo contributo per la comunità e, comunque, affamava la
sua famiglia. I figli erano obbligati a coltivare le terre, nonostante
341
l'ordine della formazione militare e non. Freccia Letale andava a cercare
questi ragazzi, ma si trovava davanti al muro della discriminazione: “I
miei figli non impareranno a fare i soldati da una puttana!”
“I tuoi figli andranno in caserma da Freccia Letale” rispose Mas
imperturbabile.
“Se tu avessi dei figli, li manderesti ad imparare da una puttana?” tuonò
Klaus.
“Certamente. Imparerebbero ogni aspetto della vita” sogghignò Mas.
Riuscì a strappare un sorriso a Klaus. Quel bue ignorante era facile da
raggirare; il problema era che era grosso e, quando si muoveva, faceva
danno.
“In ogni caso la risposta è no” s'intromise la moglie di Klaus, una
donna robusta e dall'aspetto simile ad un orso. Non aveva un bel sorriso,
forse perché non sorrideva affatto: le labbra erano piegate in un ringhio
di protesta ed a peggiorare le cose era il grosso porro peloso alla narice
destra.
“Neppure se vi dicessi che siamo d'accordo con Freccia Letale per
portare un nuovo tipo di addestramento?”
I due coniugi si scambiarono un'occhiata.
“Sareste voi ad addestrare i nostri ragazzi?” berciò la donna.
“I ragazzi verranno addestrati in altra maniera”.
“Ma sotto la vostra supervisione?”
Mas annuì piano.
“Bene, finalmente una buona notizia” Klaus fece un cenno alla moglie
di offrire della grappa.
Mas bevve la grappa con un rimescolio nello stomaco. Aveva come
l'impressione che quel caprone avesse capito una cosa per un'altra e che
presto ci sarebbero stati dei problemi.
Prima di far visita a Klaus, avevano avuto un incontro con Freccia
Letale: era un ottimo comandante. La caserma era condotta in maniera
impeccabile, ragazzi e ragazze erano ben organizzati, i turni di
addestramento non andavano a sovrapporsi gli uni sugli altri, la mensa
era ben servita, i dormitori puliti e le latrine avevano l'aspetto di latrine
umane e non animali. Anche gli animali delle stalle venivano accuditi
con cura. La pecca più grossa di Freccia Letale, che aveva improvvisato
una parte dell'addestramento, era non essere in grado di insegnare alle
truppe a combattere in campo aperto e tutto quel che ne derivava.
Tray non ebbe alcun problema a collaborare con i due capitani, per
quanto non apparisse neppure contenta. Insomma, Tray sembrava fatta di
ghiaccio. Un ghiaccio bruciante, che era meglio non toccare per non
342
ustionarsi. George avrebbe voluto chiederle perché gli uomini le davano
continuamente della puttana – poteva esserlo stata? Non sembrava, da
come li trattava.
Mentre discendevano a palazzo, Anna e Francine gli si fecero
incontro, rosse per la corsa.
“Capitano! - lo chiamarono – Capitano! Madama Spezzacolli ti sta
aspettando”
I due si scambiarono un'occhiata perplessa.
La stessa che Rebecca riservò loro non appena li ebbe dinanzi. Era
sera e lei stravolta da una giornata piena di mille problemi.
Ciononostante nella sala erano riunite le sue compagne e Tray fumava
con ferocia la sua sigaretta. Lo fulminò con lo sguardo, non appena
entrò.
Marçela sospirò in modo abbastanza drammatico e Rebecca gli fece
solo segno di sedersi.
“Beh?” fece il capitano più vecchio.
George si sedette al fianco di Giada, che però lo scostò.
“Che cosa hai detto a Klaus oggi?” domandò Rebecca con tono neutro.
“Ho detto che i suoi ragazzi verranno addestrati secondo un nuovo
metodo. L'avevamo concordato con Frec...”
“Sei sicuro di aver detto proprio così?” insistette la donna.
“Certo, non sono del tutto rincoglionito” si scaldò lui.
“Becca, non farti incartare da questo stronzo: è uguale a tutti gli altri
uomini” ringhiò Tray.
“Senti un po'...!” era George.
“No, senti tu, biondino!” urlò la guerriera.
“SILENZIO!” tuonò Rebecca con un tono che non lasciò possibilità di
replica. Le sue compagne avevano imparato a riconoscere quel tono,
Mas e George lo riconobbero perché assomigliava a quello di Corin
quando riportava l'ordine tra i suoi figli.
Il silenzio durò per alcuni istanti.
Tray respirava appena, livida di rabbia.
Giada riservò all'amato un'occhiata piena di delusione.
Marçela sospirò in maniera teatrale.
“Allora, Mas, - dichiarò Rebecca – io non so che cosa tu abbia
promesso a Klaus, ma quell'idiota è andato a dire a tutti che la caserma
d'ora in poi verrà condotta da voi due e non più da Freccia Letale. Puoi
immaginare che cosa ne sia scaturito: le donne, tutte, sono inferocite.
Non capiscono: arrivano due capitani di Corin, si sbattono due delle mie
compagne più fidate e prendono la guida di Alto Castello. Il tutto in
343
meno di quattro giorni dal loro arrivo. Ora, forse voi due non avete
considerato il fatto che queste donne, quasi tutte le donne, lavorano così
tanto proprio perché a guidarle ci siamo noi, delle donne che hanno
combattuto. Gli uomini... a noi spiace dirlo con tanta crudezza... questi
uomini non sono stati in grado di salvarle. Moltissimi sono gente
semplice ed onesta, ma non combattenti. Mi seguite, uomini?”
“Perfettamente” Mas aveva la gola secca.
“Bene. Ora queste donne, a cui tutti noi dobbiamo la sopravvivenza di
Alto Castello perché sono importanti per l'organizzazione della
comunità, si vedono arrivare due imbecilli un poco più istruiti degli altri,
un poco più avvenenti, che vanno a dire che guideranno la nostra
caserma. In quella caserma ci sono i figli di queste donne, capite? - i due
annuirono – e avete un'idea della reazione delle ragazze della caserma?
Già per loro è stato difficile superare lo stupro e, in tanti casi, la
gravidanza, adesso si ritrovano dei commilitoni che si sentono Mastro
Mayster e vogliono 'riportarle al loro posto'” questa volta parlando di suo
marito non sorrise.
Rebecca non aveva affatto alzato la voce, ma dalle sue parole ciniche
e dure era come se gridasse.
George si sentì come se davanti avesse avuto suo padre o Corin: si
sentì un completo imbecille. Come quando era un bambino e ne
combinava una delle sue.
Mas non sembrò da meno, per quanto parve capire il punto della
situazione. Se George era sul punto di doversi difendere, Mas cercò di
chiarire l'equivoco e chiedere scusa a Freccia Letale.
“Ora, io che cosa dovrei fare?” domandò stancamente Rebecca.
“Fuori a calci in culo” sibilò Tray.
“Taci, ragazza. So che sei incazzata nera, ma così non risolviamo i
nostri problemi” redarguì il capo.
“Se lo meriterebbero” borbottò quella.
“Tray...”
Freccia Letale rientrò nei ranghi.
“Che cosa è successo, Mas?” insistette Rebecca.
“Quel bue ha capito quello che voleva capire. - il capitano si cercò nelle
tasche di che fumare, ma aveva lasciato la pipa negli appartamenti di
Marçela – io non ho mai detto una cosa del genere. Ho detto che
avremmo apportato il nostro modo di combattere, non che avremmo
preso la caserma sotto la nostra guida. C'è una cosa, però, che ho notato:
ragazzi e ragazze sono addestrati in modo differente su alcuni punti e...”
“Pensavo di essere stata chiara. - proruppe Freccia Letale – i ragazzi
344
non vogliono addestrarsi con le ragazze perché pensano di essere
superiori. E così non sono mai operativi”.
“Infatti. Il fatto è che, fintanto che resteranno tra le mura, faranno i
galletti”.
“Abbiamo portato i ragazzi fuori – spiegò Rebecca – ma non ascoltano
gli ordini. Ne sono morti due e quattro sono tornati a casa feriti. I padri
hanno incolpato noi”.
“Lasciateli a noi, signore. Insegneremo loro a mangiar merda, ve
l'assicuro. E addestreremo le reclute insieme a Freccia Letale”.
“In che modo?”
“Uniremo le due tecniche di combattimento. Se vedranno come
collaboriamo, forse un certo modo di fare smetterà. E, se mi consentite,
suggerisco di mettere a spalare merda anche Klaus ed i suoi. Non è
possibile che in tempo di guerra un uomo non combatta”.
“Vi ho già spiegato che gli uomini adulti sono più ingestibili dei
ragazzi”.
“Non con noi. Accordateci fiducia”.
Seguì un silenzio teso, Mas voleva disperatamente fumare e Rebecca
si mise a passeggiare per la stanza meditabonda.
Fu George a parlare con Tray: “Freccia Letale, non avevamo alcuna
intenzione di creare tutto questo disturbo. Anzi, è proprio grazie al vostro
modo di addestrare i ragazzi che Alto Castello funziona”.
Freccia Letale lo occhieggiò ancora un secondo, si scambiò uno
sguardo con Giada e sospirò: “Va bene”.
Rebecca era arrivata al terzo giro della sala.
“D'accordo. - assentì infine – proviamoci. Due settimane vi possono
bastare per i primi risultati?”
“Sì, penso di sì”.
“Klaus farà casino. Dovrò far disporre una camera isolata nella caserma
per la punizione”.
“Ma magari...” azzardò George.
“Non credo che Corin fosse tanto più disponibile” replicò lei dura.
“Corin li metteva a spalare merda” fu la risposta di Mas.
“Vorrà dire che chi non obbedisce spalerà merda e starà in isolamento. I
turni di addestramento saranno di dieci giorni, a rotazione per non
lasciare le fattorie vuote”.
“Perfetto”.
Rebecca fece un cenno di andare. Era tardi e la giornata era stata
intensa.
Prima che lasciassero la stanza Rebecca fermò i due capitani. Gli si
345
fece sotto: era bassa, indifesa.
“Corin si fida di voi. Le mie donne si fidano di voi. Anch'io voglio
fidarmi. Siete i capitani di Corin, non dimenticatelo”.
“Stai tranquilla. - Mas ebbe una carezza affettuosa sulla spalla – Non
siamo venuti qui per deluderti”.
Lei scosse la testa: “Non si tratta di me. Si tratta di tutta la gente che
crede ancora nella libertà di Hakne”.
7.
Jacob scese per dire a Corinna di far preparare la sua roba. Voleva
tornare ad Umm.
Negli occhi aveva solo l'immagine di Rihanna nuda e con
quell'espressione incredula sul volto nel momento dell'orgasmo.
Quell'immagine aveva negli occhi e quello agognava vedere di nuovo.
Soprattutto stava friggendo d'impazienza per rivedere il suo piccolo testa
rossa.
“Sua Maestà va subito informato” la voce di Corinna cancellò il sorriso
dalla faccia del Barone.
C'era ansia e c'era trepidazione. Era successo qualcosa.
Anticipandola, Jacob entrò nella sala. “Che cosa c'è?”
I presenti sobbalzarono poiché non si attendevano di saperlo lì. A
Diegho quasi venne un colpo. Corinna, come sempre, non si scompose.
“Mas di Lemann e George di Brealle sono stati avvistati a Tulle. spiegò la donna – Sono i capitani di Corin il Fuorilegge”.
“Lo so, chi sono Mas e George. - reagì stizzito il Barone – Allora, dove
si trovano?”
“A meno di cinque giorni da qui, mio signore. Volevo dare ordine di
catturarli, se per voi va bene”.
Jacob annuì. “Mettete anche una taglia sulla testa di quei due
bastardi”.
Lei sorrise con una smorfia cattiva: “Sarà un piacere”.
Poco dopo Jacob volle uscire in città. La vena pulsava furiosamente.
Mas di Lemann e George di Brealle. Se li ricordava, i capitani di Corin:
due bastardi coraggiosi e senza il minimo senso della paura per lui. I
cagnolini perfetti per Corin. Avevano contribuito a decimare il suo
esercito sul Fiume Dorato ed avevano riso di lui, i bastardi. Tutti
avevano riso di lui sul Fiume Dorato.
Jacob uscì dalle mura della città e rimase fuori per la notte, con due
346
uomini di scorta. Il giorno seguente perlustrò l'intera zona per il raggio di
dieci chilometri attorno alla città. Nessuno, da quelle parti, aveva notizie
degli uomini di Corin il Fuorilegge.
Il quinto giorno da quando era uscito dalle mura, Jacob dovette far
ritorno in città perché erano cominciate le piogge autunnali. Seguirono
giornate tediose, che Jacob impegnò per la prima volta in vita sua a
pensare alla donna amata, mentre la padrona di casa si prodigava perché
lui la trovasse solo un po' attraente. Jacob ignorò Corinna e tutti i segnali
che lei mandava, finché la donna non si arrese e rimase, come lui, a
guardare le gocce di pioggia sui vetri, insoddisfatta.
Rihanna aveva accennato a qualcosa circa il suo rientro per il
Solstizio d'Inverno.
Quanto tempo ci avrebbero messo le guardie di Corinna a prendere i
due capitani di Corin? E, soprattutto, dov'era finito Corin?
“Adesso basta” si disse con un sospiro esasperato.
L'istinto lo portava a tornare ad Umm. E, per una volta, avrebbe
seguito l'istinto. Fece preparare le sue cose ed era pronto per partire,
quando Corinna gli porse con un gesto di stizza un dispaccio: “Mas e
George hanno attraversato il confine con Alto Castello. Uno dei nostri ha
lasciato il gruppo e li ha seguiti fino ad Alto Castello... sono arrivati da
Spezzacolli”.
“Spezzacolli? La Donna-ombra?”
Corinna lo fulminò truce. “Meno ombra di quanto sembri, a quanto
pare. Si sono barricati dentro Alto Castello”.
“Chi, si è barricato?”
“Con le sue guerriere”.
“Ci sono solo guerriere?”
“Il nostro uomo ha visto solo Donne-ombra combattenti. Poi sono
cominciate le nevi ed è tornato indietro”.
“Perché non è riuscito ad entrare, se era da solo?”
“Alto Castello è sorvegliato. Ben sorvegliato”.
Jacob non rispose.
Rifletté. Alto Castello era dunque abitato da Spezzacolli. Perciò
Spezzacolli non era una leggenda. Spezzacolli aveva quindi liberato
Madrigal? Tuttavia, non c'erano notizie da Madrigal e Tulle stesso viveva
nella convinzione che a Weast tutto andasse bene. Perché a Tulle andava
tutto bene.
Era necessario controllare Madrigal.
...era necessario toccare Rihanna, assaporare la sua pelle,
riabbracciare suo figlio...
347
Madrigal era uno dei punti nevralgici della sua guerra.
...Rihanna e gli occhi intelligenti, capaci di vedere suo marito...
Cuore e Ragione.
“Ci devo pensare” mormorò alla fine a Corinna.
Il Barone si dileguò nelle sue stanze e si scolò un pintone di vino
rosso da solo. Fumò e bevve fino ad annullarsi, pianse disperato sulle
ragioni di stato che impedivano – da sempre – la sua felicità e pianse di
se stesso perché non era più un uomo con le palle. Odiò profondamente
sua moglie e bestemmiò contro suo figlio; desiderò che Neropece se lo
venisse a prendere, così avrebbe smesso di pensare, di gemere e soffrire
per la lontananza da loro. Voleva tornare ad essere da solo e voleva
tornare ad essere un bastardo convinto – e solo.
Si perse nei fumi dell'alcol, perché era l'unico modo che aveva per
capire. Si annullò e la mattina seguente si vomitò l'anima.
Si guardò nello specchio. Un uomo sulla cinquantina, i capelli fulvi
appena striati di bianco, le rughe attorno agli occhi, il volto di un
mastino.
“E va bene. - si disse con un ringhio stanco, rassegnato – Hai vinto tu”.
Il Cuore aveva vinto.
Impose alla sua carovana di tornare verso Weast e da lì puntò dritto
verso Umm.
Tornava a casa da Rihanna e dalla sua famiglia.
348
CAPITOLO 19.
1.
La compagnia che accompagnò Ground da Justine, nel fatidico giorno,
era di pessimo umore: attraversarono tre dei sei quartieri e scorsero la
povertà di Hakne. Una povertà che si nascondeva dietro le porte di case
borghesi, di commercianti all'apparenza benestanti e nella realtà così
poveri da non trovare denaro per sfamare i propri figli. L'odore della
miseria si sentiva più che mai, gli uomini venuti dal Nord furono travolti
da essa.
E, quando fecero ingresso nella cittadella del Palazzo Reale, dove
tutto era curato e splendente, la rabbia crebbe a dismisura.
“Siamo qui per guarire tutto questo” aveva detto loro il Marchese,
perché appoggiassero il suo progetto fino in fondo.
In realtà, Anton di Ground trovò il suo posto nei corridoi lastricati del
palazzo, nel palazzo perfettamente pulito e con i servitori in livrea. Il
posto di un sovrano. Adesso lui ed il suo abito nuovo erano al posto
giusto.
I giardinieri sorrisero di lui e della sua compagnia: un nobilotto bene
vestito con la sua compagnia di disperati. Faceva ridere.
Ground mandò giù il boccone rancido della rabbia per quelle
denigrazioni e sorrise loro amichevole: “Buongiorno. Permettete una
domanda? - schifosi bifolchi? - Sono appena arrivato dalla Contea di
Giallo, dal Nord” i due lo fissarono istupiditi. Non avevano la più pallida
idea di dove fosse la Contea di Giallo.
“Eh?” il più vecchio dei due storse la bocca in un sogghigno.
Ground perse la pazienza. Si erse in tutta la sua statura: “Ascoltate,
non ho tempo da perdere. Devo vedere Madama Justine: porto notizie di
suo cugino, il nostro regale sovrano”.
Fu allora che i due giardinieri si scambiarono un'occhiata, in
considerazione di quello straniero con l'abito nuovo ed il taglio di capelli
fuori moda. Sì, doveva essere uno straniero e doveva esserlo perché
aveva un altro accento, non aspirava le vocali e perché li stava
incenerendo con lo sguardo. Cioè, lui almeno li guardava.
“S...scusateci, signore. - rispose quindi il giardiniere – Pensavamo che
foste venuto per corteggiare la Cugina”.
349
“Temo richiederebbe troppo tempo ora. Ho bisogno di parlarle”.
“Sì, sì” i due mollarono attrezzi e carretto per condurlo fino all'ingresso
principale del palazzo di Justine, cercando intanto di scoprire qualcosa di
più: Mayster era tornato? John Henry era al Nord? E Weer? Che notizie,
che notizie, che notizie? - si allenterà mai la morsa dei nobili sulla
povera gente come noi?
Ground non rispose. Questa volta silenziosi, i due giardinieri se ne
andarono dopo aver affidato gli stranieri alle cure della governante del
castello – una donna dai fianchi più larghi che Ground avesse mai visto e
porri sparsi su tutta la faccia. Costei gli fece un cenno di sedere sul
comodo divano di velluto della sala d'attesa e impose agli uomini del suo
seguito di andare con lei negli alloggi della servitù o fuori dalla sala
d'attesa. Quindi entrò nelle stanze della cara Cugina.
Ground provò a sbirciare oltre le grosse porte di quercia lavorate.
Oltre il culone della governante vide solo un lungo corridoio ed almeno
altre venti porte. Dagli appartamenti di Justine venivano musica e risa.
Con un tonfo secco la governante richiuse le porte alle sue spalle e lo
lasciò nel silenzio ovattato della lussuosa sala d'attesa. Ground non riuscì
ad udire alcunché, una volta che le porte furono serrate.
Gli uomini del suo seguito si scambiarono un'occhiata incerta.
“Aspettiamo, ragazzi” disse semplicemente il marchese, prendendo
posto sul divano.
I suoi uomini aspettarono con lui. Mezz'ora, un'ora, due ore. Ground
li mandò fuori a fumare, a farsi un giro, a trovare un tozzo di pane da
mangiare. Rimase solo.
Si accese la pipa e si domandò che fine avesse fatto la governante dal
culo enorme. Era ovvio che ci fosse anche un altro accesso e che si era
evitata di doverlo di nuovo incontrare.
Anton di Ground ebbe una pazienza davvero encomiabile. Attese
tutto il pomeriggio e la sera. Tornarono i suoi e lui si fece portare del
cibo perché della governante culona neanche l'ombra; mangiò come
l'ultimo dei reietti su quel divano tanto bello e diede la libertà alla sua
guardia, purché rimanessero nel palazzo e gli portassero da bere. Poco
prima della mezzanotte, un gruppo di giovani nobilotti, agghindati con
piume e fiocchi e dalle scarpe lucide come quelle di una donna, uscirono
dagli appartamenti di Justine e fecero finta di non vederlo, commentando
di non volerlo vedere.
Ground lasciò perdere e si accese la pipa. Decisamente a notte
inoltrata fermò una giovane cameriera addetta a ripulire i camini quando
i nobili signori non potevano vederla e fece valere il proprio status di
350
nobile signore, asserendo che avrebbe taciuto la sua incompetenza se lei
avesse lavorato alacremente per compiacerlo. Così alla fine dormì tre ore
soddisfatto di essere uomo ed ingannando l'attesa snervante.
A metà della mattina successiva, con la barba lunga di un giorno e il
vestito nuovo stropicciato, accolse i suoi uomini. Stava ancora
attendendo. Ancora una volta furono loro a trovare qualcosa da mangiare
e bere: così passò l'ora di colazione, pranzo e il pasto del pomeriggio.
Finalmente passò la governante.
Lo fissò per niente contenta che lui fosse ancora lì.
“Ho necessità assoluta di parlare con la Cugina Justine” insistette il
Marchese.
“Tutti gli uomini di Hakne hanno necessità assoluta di parlare con la
Cugina” borbottò lei.
“E' una questione di Stato!” insistette il marchese.
“Anche il letto della signora è una questione di Stato” replicò lei.
Ground e la sua pazienza encomiabile trattennero l'ira omicida.
“Ditemi, signora, – le disse glaciale – e se io fossi un messo di Jacob di
Weer? Se fossi venuto ad annunciare che per il Nord non c'è più nulla da
fare e il Barone stesse marciando sulla Capitale?”
La governante tacque. Poi storse la bocca: “Allora avremmo tutti il
culo rotto” rispose senza perdere un colpo. “Ma, per come stiamo messi
ora, non sarebbe tanto diverso”.
Rientrò negli appartamenti della Cugina Justine e richiuse le porte di
quercia, ma questa volta senza il rumore violento della serratura che
scatta. Aveva lasciato le porte appoggiate, perché fosse possibile udire e
vedere quel che accadeva oltre la loro soglia.
Dieci minuti dopo arrivò una voce di donna. Bassa, controllata, quasi
da uomo. Decisa.
“...avevo detto che non posso gestire un altro pretendente e tu dici che
questo ti sembra onesto? Che cosa avrà di onesto?”
Ground si alzò dal divano e si lisciò la casacca, pronto per parlare con
Justine. Non l'aveva mai vista, ma dalle sue parole comprese che doveva
essere lei. Un occhio lo spiò dalle due porte accostate; lui vide solo la
pelle bianca di una donna, uno svolazzo di riccioli castani, un occhio che
lo scrutò per pochi istanti. Justine se ne andò.
“Dopo. Adesso non ho tempo” la udì dire alla governante.
Justine chiuse i battenti della stanza in fondo al corridoio, da cui
provenivano musica e risate. La governante aprì le porte di quercia e
scosse il capo, rassegnata: “Mi spiace, Marchese, ma pare che qui non
vogliano altro che essere pronti a prenderlo”.
351
In quel preciso istante Anton di Ground perse l'encomiabile pazienza
e decise che la governante culona tutto sommato era una brava persona.
“Grazie dell'aiuto” le disse ridendo della sua sincerità ed entrò negli
appartamenti di Justine.
Percorse lo sfavillante corridoio e si fermò dinanzi alla sala in cui
poco prima aveva visto entrare la principessa; due guardie annoiate lo
fermarono.
“Dov'è il vostro invito?” gli domandarono.
“Non ce l'ho” rispose lui tranquillo.
“Allora dovrete attendere che...”
Ground si tolse un'enorme soddisfazione: piegò il braccio e sferrò due
manrovesci alle due guardie.
“Sono due giorni che attendo!”
I due uomini si ritirarono ai lati delle porte appendendosi alle proprie
picche, senza sapere che forse dovevano usarle. Lo straniero del Nord
combatteva per davvero!
Il Marchese spalancò le porte del salone con uno schianto.
Il silenzio scese assoluto nella sala.
Circa quaranta persone lo fissavano attonite ed erano per lo più
uomini: tutti agghindati, tutti alla moda, tutti più donne che uomini.
Alcuni avevano belletto sulle guance e occhi colorati con kajal per
sottolineare lo sguardo.
“Fuori” impose il Marchese.
Silenzio.
“Ho detto fuori!” tuonò Ground, questa volta senza più l'encomiabile
pazienza.
I cicisbei scambiarono occhiate attonite con Justine, seduta sulla sua
regale poltrona di velluto e seta.
Vedendo che nessuno si muoveva, il Marchese perse la pazienza e
afferrò il primo che era a tiro: lo scagliò di peso fuori dalla porta, con un
tonfo secco quando nella caduta andò a rompere un grosso vaso.
“Come vi permettete!” tuonò Justine.
“Guardie! Guardie!” di misero a gridare i nobili signori.
Ground aveva esaurito la pazienza del tutto: sfoderò la spada e li
tagliuzzò nelle vesti quel tanto che bastò per far comprendere chi
comandava. Le guardie...beh, sì, loro fecero il loro timido ingresso, ma
per ritirarsi con la coda tra le gambe non appena videro lo straniero con
la spada in mano.
I nobili pretendenti di Justine scapparono senza porgere i loro omaggi
all'amata e anzi, ignorandola completamente. Se Ground fosse stato
352
veramente un messo di Weer, avrebbe potuto fare ciò che voleva
dell'unica erede al trono di Hakne.
Cinque minuti dopo dal suo burrascoso ingresso, Ground rimase solo
con Justine. Lei, sulla sua poltrona, lo fissò senza esternare alcuna
emozione. Il Marchese ripose l'arma e chiuse le porte, questa volta con
estrema delicatezza.
Justine gli batté le mani, come se fosse stato il regista di un grazioso
spettacolo in suo onore.
“Erano mesi che provavo a mandarli via”.
“Per servirvi, Madama”.
“La mia governante accennava al Barone di Weer”.
“Anche”.
“Almeno ora, vi spiacerebbe osservare il protocollo e presentarvi?”
Ground sorrise e s'inchinò alla cugina del sovrano. “Sono il Marchese
Anton di Ground, governo nella Contea di Giallo. E porto notizie di
vostro cugino, John Henry”.
2.
Corin non aveva tenuto conto di quanto tempo avevano passato in
viaggio, ma il Solstizio d'Inverno era passato da quasi venti giorni e
questo voleva dire che, se il tempo fosse stato clemente, avevano davanti
solo più due mesi d'inverno pieno.
Il pensiero parve sollevarlo non appena finì di fare i calcoli, ma le
giornate lunghe e tediose con le nuvole basse e la neve a bloccarli dentro
le loro stanze lo portarono all'esasperazione. I suoi uomini erano divisi
tra la noia e la voglia di godersi quella pace; Jesse scalpitava. Andrea lo
teneva attivo con le sue lezioni di spada e Maestro Jamie si occupava
della sua educazione. Alternava Jesse con Mark perché il secondo era
indisciplinato e tendeva a distrarsi facilmente, per quanto fosse di
un'intelligenza spiccata.
Solo Tommy, per quanto annoiato, trovava sempre che cosa fare e
come farlo. E poi, il bambino aveva Andrea, che con lui passava gran
parte del suo tempo.
Corin avrebbe voluto intensificare gli addestramenti, ma le ore di
luce erano quelle che erano: in alcune giornate la luce rimaneva così
lieve da aver bisogno delle candele per tutta la mattina. Il comandante si
vide costretto nel castello senza niente da fare e la mente trascinata nel
vortice dei ricordi con sua moglie. Ogni minuto, ogni secondo con lei era
353
davanti ai suoi occhi; la rivedeva nella loro cucina, la rivedeva mentre
spezzava la legna per accendere il fuoco, quando impastava il pane,
quando mescolava latte, uova e zucchero per la torta di albicocca, gli
pareva di udirla parlare, raccontare la sua giornata, i problemi quotidiani,
il pollaio da riparare, quella grondaia che perdeva, la voglia che aveva di
riavere un minuto per sé, i progetti per il futuro, le migliaia di volte che
litigava con i figli, le migliaia di volte che litigavano loro due, le
considerazioni sui vicini, sul paese, sulla voglia che aveva di vedere il
mare.
La rivedeva nelle fiamme mentre si voltava, si muoveva, gli pareva di
averla accanto a sé durante la notte.
Rebecca, uccidimi – si scoperse a pensare troppe volte – oppure
torna da me.
Madrigal e le sue ombre. L'unico a dormire era John Henry, perché
aveva abitato in un mondo di ombre e finalmente era tornato alla realtà.
Nessuno degli uomini di Corin dormiva a Madrigal. Era vero, Zar aveva
fatto ripulire la fortezza, ma aveva lasciato visibili le catene e le piccole
tombe erano state recintate in ricordo delle vittime.
Madrigal ricordava agli uomini perché combattevano – e questo era
un bene; Madrigal apriva gli occhi agli uomini sull'orrore – e questo era
male.
L'ombra di Rebecca comparve una notte all'improvviso.
Corin si svegliò di soprassalto.
Le braci erano al minimo, l'illuminazione fievolissima, ma lui la vide.
Prese forma lentamente, come un danza sinuosa. Partì dalle gambe,
descrisse i fianchi che bene conosceva, le curve dei seni, le spalle, il
collo lungo ed il profilo regolare di lei.
Rebecca.
Non fu come per George. La riconobbe immediatamente. La sua
Rebecca.
Non ebbe bisogno di seguirla per la fortezza addormentata, gli bastò
alzarsi dal letto e, dopo essersi avvolto nel mantello, si sedette dinanzi al
camino, aggiungendo un ciocco di legno ed alzando le fiamme.
Lei prese più consistenza, le forme si ammorbidirono, gli parve quasi
di vedere i tratti del viso. L'ombra non si mosse, se non con le movenze
che Corin conosceva così bene di lei, ma per l'uomo bastò. Le raccontò
in un sussurro gli eventi della giornata, tutto ciò che lo infastidiva, ciò
per cui soffriva, la delusione per quel re così inerme, l'orgoglio per i loro
figli, la voglia che aveva di condividere con lei la loro crescita, i loro
progressi. Le disse quanto gli mancava, che lo stomaco gli si
354
ingarbugliava per la voglia che aveva di lei, le descrisse i particolari di
ogni volta che avevano fatto l'amore.
La notte non dormiva granché, ma nell'ultimo periodo dell'inverno,
prima che le giornate riprendessero ad allungarsi, tutta Madrigal fu
avvolta in un torpore che faceva dormire fino alle tarde ore del mattino.
Nelle poche ore di luce si concentravano le attività, per poi discendere
dolcemente nella sera e quindi nel sonno e nel sogno.
Furono quelle notti ad aiutarlo a sopportare la distanza, la solitudine.
Andrea gli chiese nuovamente di dormire sulla sua spalla, ma Corin
glielo negò risoluto. L'ermafrodita lesse nello sguardo risentimento e
profondo disagio anche solo alla richiesta; a nulla valse la preghiera di
quella notte nel carro, quando asseriva che per lei era tutto, dormirgli al
fianco.
“No” fu la risposta secca di lui.
Andrea trattenne il pianto.
Che cosa gli costava? Avrebbe solamente respirato il suo profumo per
serbarlo nella memoria, quando lui avesse rincontrato sua moglie!
Gli occhi umidi non lo intenerirono; lo fecero infuriare. Lei lo faceva
infuriare. In quei due mesi comprese che aveva fatto male ad avvicinare
così tanto Andrea alla sua sfera personale: lei non accettava il tipo di
affetto fraterno che Corin poteva concederle e con il passare dei giorni si
comportava con i bambini come se presto avrebbe preso il posto della
madre.
E questo era un altro motivo di litigio tra loro: avendo pochissimo da
fare, Corin si occupava di loro come all'inizio della fuga, esautorando
Andrea dal suo ruolo di governante. Anziché approfittare di questa
libertà per legare con la gente di Madrigal, l'ermafrodita mise il broncio e
talune sere rimaneva chiusa nella sua stanza fintanto che Mark e Tommy
non andavano a chiamarla per la cena. Lei raggiungeva la famiglia nella
sala da pranzo in silenzio assoluto e tutte le volte dichiarava che, a stare
inerme, non le veniva neppure fame.
John Henry fu l'unico a non patire l'ambiente assonnato di una
Madrigal invernale: sotto moltissimi aspetti riprendeva la vita che aveva
condotto ad Hoss. Anzi, appariva anche più sereno, dal momento che
non passava più lunghe ore al capezzale della moglie a crogiolarsi nel
dolore.
Jesse dormì moltissimo nelle ultime cinque settimane. Si alzava tardi,
faceva colazione, adempiva ai suoi compiti quotidiani ma alla sera era di
nuovo a letto a dormire un sonno profondo. E, mentre lui dormiva, il suo
corpo cresceva. Corin se ne accorse all'improvviso, quando gli chiese di
355
accompagnarlo a caccia sulle colline innevate – un diversivo per uscire
dalla staticità di Madrigal. Era come se il corpo di Jesse avesse avuto
necessità di dormire perché consumava troppe energie nella crescita. I
calzoni gli andavano corti, gli stivali piccoli. Era alto come Rebecca, più
o meno. Anche se il suo aspetto conservava ancora qualcosa del
bambino.
Tra i litigi con Andrea, i pochi addestramenti e le beghe quotidiane
trascorsero le ultime due settimane invernali; una mattina furono
svegliati dai primi cinguettii e si accorsero che una fitta pioggia stava
cominciando a sciogliere la neve.
Nel giro di un paio di giorni il terreno si fece fangoso, faceva ancora
freddo, ma smise di ghiacciare.
Corin scoprì le prime gemme sui rami degli alberi ed alzò il calice
alla primavera.
A noi, amore mio. Due anni fa faceva più caldo, quando ti vidi
portare via, quando della nostra casa, della nostra vita non rimasero
che braci.
Negli occhi di Corin tornarono vivide le immagini di lei tra le mani
del mostro, l'odore della guerra, la paura, la fuga. Nella sua mente visse
ben due anni di ricordi senza Rebecca. Quante cose fatte ed il tempo,
inesorabile, che trascorre. Corin cercò di ricordare che cos'aveva fatto
almeno il giorno prima della fuga; rammentava la notte prima. Gli occhi
della memoria rividero sua moglie che coccolava il piccolo Tommy nel
lettone, mentre si alzava e si avvolgeva nella pelle di orso e lo prendeva
per mano. Se la ricordò alla luce della luna, con l'ippocastano alle spalle
e lui seduto sulla panca contro il muro di casa, le mani sotto la sua
camicia da notte, il calore della pelle nella notte fredda ed il fiato nel
fiato per non fare rumori che avrebbero potuto svegliare i bambini
dentro.
La memoria riportò le immagini di una mattina in famiglia, i bambini
che andavano al campo con lui, Tommy addormentato sul mantello per il
pisolino pomeridiano e Mark che non avrebbe voluto dormire ma che
aveva addirittura russato. Il pomeriggio con Jesse che lo aiutava e lo
credeva ancora quel padre contadino dal passato ignoto e semplice.
L'odore nauseabondo della morte, la sensazione di vuoto come
quando aveva tredici anni ed aveva capito che al suo villaggio accadeva
l'orrore... cercò di scacciarli dalla sua mente.
Non ci riuscì.
Non riuscì ad evitare che la memoria riportasse a galla il profumo
della foresta addormentata durante la loro fuga, la puzza di muffa nella
356
Caverna di Fondo che era stato il loro primo rifugio, il dolore della
perdita di lei.
Le lacrime disperate.
Sono meno disperate ora? - si chiese con il groppo in gola.
Si versò di nuovo da bere. Aveva voglia di essere così ubriaco da
dimenticarsi solo per un secondo quel dolore continuo, incessante che
aveva nel petto. Qualcuno lo chiamava cuore, per lui era Rebecca.
Si versò generosamente da bere per due volte, quando suo figlio
Mark, accompagnato dal maggiore strillò felice: “Papà! Papino, ci sono
due guerriere di Spezzacolli!”
Forse fu l'alcol, ma a Corin gli occhi si riempirono di lacrime.
Rebecca.
3.
Justine di Malle, cugina di primo grado di John Henry e reggente il trono
in assenza del legittimo sovrano, era una donna media: di media
bellezza, di media forza, di medio carisma. Se fosse stata una donna
plebea, non sarebbe mai risaltata e non era una di quelle donne che
aspiravano ad essere al centro dell'attenzione. Justine era una donna che
amava vedere le cose al loro posto, ma non aveva tanta ambiziosa.
Ground lo capì nel momento in cui vide le vesti semplici e l'acconciatura
curata ma non elaborata.
Justine dava la netta impressione di essere una persona in ordine,
pulita, ma non ambiziosa, né portata al comando. Le rughe attorno agli
occhi confermarono al Marchese che le ore passate con la Corte non
erano affatto le sue ore preferite. Doveva avere una quarantina d'anni, ma
il volto tirato conferiva qualche anno in più.
Non era da buttare via. Ground la studiò con l'occhio di un uomo che
deve sedurre e che deve trovare pur un minimo d'ispirazione: Justine
aveva fianchi piuttosto morbidi ed un seno opulento; la pelle era lucida e
morbida già solo a guardarla. Nel complesso, possederla doveva essere
paragonabile ad affondare le mani in un soffice cuscino di piume. Il
Marchese pensò che avrebbe potuto andargli peggio.
“E dunque?” insistette la donna.
“Prima di conferire, posso avere di che mangiare e bere? Mi avete
dimenticato in quella sala d'attesa per due giorni”.
Per la prima volta lei sorrise appena. Tra i denti incisivi c'era spazio,
il che le toglieva qualche anno perché appariva come una bambina cui
357
devono finire di spuntare i denti. Anche la luce negli occhi aveva un che
d'infantile.
“Scusatemi, Marchese”.
Da una porticina laterale comparve la grossa governante. Lanciò al
Marchese un'occhiata di burbera intesa e fece entrare due cameriere con
due enormi vassoi pieni di cibo. Quindi scomparve nel silenzio più
assoluto.
Con un cenno della mano, Justine mostrò al suo ospite la tavola ed
attese che lui le spostasse la sedia per desinare insieme.
“Spero sia di vostro gradimento. - disse la cugina del re – non mi sono
informata dei vostri gusti”.
“Non vi siete interessata della mia presenza”.
“Oh, smettetela di essere così sciocco! Devo far pur qualcosa per
frenare l'ondata di leccapiedi che bussa ogni giorno alla mia porta. Ogni
uomo che si presenta qui crede di potermi circuire come meglio pensa”.
“Ed è vero? Gradite del vino?”
“Sì, versate. Certo che no. Per vostra informazione sono vedova e
rimpiazzare mio marito è assai difficile”.
“Dev'essere stato un uomo valoroso”.
“E' stato l'unico”.
Ground tacque e scostò appena la sedia dal tavolo. Il discorso fatto da
Justine era un segnale chiaro di come lei non avesse alcuna intenzione di
dargli alcuno spazio e che aveva paura. Paura degli uomini e della loro
avidità. Sarebbe stato più difficile del previsto.
“Non travisate le mie intenzioni, Madama, sono qui in veste di
ambasciatore per le terre del Nord” le disse con gentilezza.
“Venite dunque come amico?”
“Non vi conosco, mia signora. Perdonerete la schiettezza, ma non so se
posso essere vostro amico. Sto solo facendo il mio dovere nei confronti
di Grande Regno e di Sua Maestà”.
Lei alzò gli occhi per la prima volta e finalmente sorrise con allegria:
“E' bello poter discorrere con chi si dichiara estraneo alla mia persona”.
“Mi compiaccio di avervi portato una nota allegra”.
“Allora, ditemi”.
“Prima ditemi voi, mia signora: che cosa sapete di quanto sta
accadendo a Nord?”
“Poco o nulla. Tutte notizie esterne che i Consiglieri non riescono a
tacere come vorrebbero: Weer è tornato all'attacco e sono riprese le
battaglie. So che si parla di alleanze spezzate e di leggendarie Donneombra. Voi che mi dite?”
358
Ground le raccontò della battaglia sul Fiume Dorato e di come Corin
il Fuorilegge avesse bastonato il Barone di Weer; raccontò quanto
riportato da Elaka la Cantastorie circa le Donne-ombra e di Madrigal.
Descrisse la resistenza ed il fatto che Weer aveva avuto un figlio suo
legittimo.
“E di mio cugino?” insistette la donna.
“Corin è partito per richiamarlo in patria, mia signora. E con lui
Mayster”.
“Dunque non sapete per quando saranno di ritorno” pareva preoccupata
“No. Che cosa vi preoccupa?”
“Il figlio di Weer. Così come Tulle ha cambiato bandiera, potrebbero
farlo anche i nostri consiglieri... potrebbero addirittura appoggiare
l'investitura di Weer!”
“Non siete precipitosa?”
Lei si massaggiò le tempie con aria esausta. “Sono solo stanca,
Marchese. Vi prego, datemi questa notte per riposare e domani
affronteremo i problemi, uno alla volta. Vi faccio preparare gli alloggi
per voi. Buonanotte”.
Ground non fece neppure in tempo ad andarle ad aprire la porta, che
lei era già sparita nei lunghi corridoi. Poco dopo il Marchese era
sistemato a due porte di distanza dalle stanze di Justine senza sapere che
nessuno, da quando Justine era reggente, aveva dormito così vicino a lei.
4.
Nessuno di loro avrebbe mai immaginato quanto sarebbe stato duro
l'inverno ad Alto Castello. Cadde così tanta neve che alcuni abitanti della
città per due o tre giorni rimasero bloccati nelle loro case e Rebecca
dovette coordinare più di dieci squadre di uomini per soccorrerli.
Ci furono ben cinque tormente violente, che costrinsero la donna a far
evacuare le case ed ospitare tutta la popolazione al castello. Per giorni
vissero tutti fianco a fianco e fu snervante, perché c'era sempre qualcosa
che non andava. Il cibo, quello dovettero razionarlo drasticamente per
quella parte di popolazione che era in grado di sopportare la mancanza di
cibo; fu data la priorità ai bambini ed alle donne incinte, quindi agli
anziani ed infine alle persone più vigorose, gli ultimi furono gli uomini.
Se non ci fossero stati Mas e George a far rispettare il razionamento,
Rebecca si sarebbe vista a dover eliminare fisicamente Klaus e i suoi
amici. Con poco cibo e con poco vino, gli uomini divennero nervosi,
359
irascibili e maneschi. I bambini avevano ordine di stare loro lontani, ma
era dura visto lo spazio ridotto. Per quanto il palazzo fosse ampio, ad
abitarlo ora c'erano quasi cinquemila anime.
Rebecca fu la prima a razionare il cibo per sé, il volto le si scavò, le
occhiaie divennero cerchi neri attorno agli occhi. Le amiche, per quanto
affamate quanto lei, potevano contare sui rispettivi nuovi amori.
In effetti, in quei mesi gelidi Marçela e Giada ebbero modo di
scaldarsi, mentre Rebecca e Tray chiudevano un occhio su alcune
assenze e tentavano di prendersi una parte delle loro responsabilità.
Marçela faceva del suo meglio per gestire il suo impegno all'interno di
Alto Castello e quello con la sua famiglia: Joe continuava la sua lotta
silenziosa verso Mas e certe sere nel loro appartamento l'atmosfera era
lugubre. I litigi tra i due erano all'ordine del giorno e la madre cercava di
rimproverare il figlio, di mediare, ma era tutta fatica sprecata.
“Non li sopporto più!” disse una sera esasperata a Rebecca davanti ad
una tazza di acqua calda e due foglie di tè. Fortunatamente non avevano
problemi di riscaldamento grazie al sistema di caldaie che Giada aveva
rimesso in funzione e perfezionato.
“Joe sente di star perdendo suo padre” spiegò Rebecca.
“Che stronzata! Come fa a perdere suo padre? Lui è una copia di mio
marito”.
“Sì, ma Joe non lo sa. Anche tu, però, smettila di dare tutto per
scontato”.
“In che senso?”
“Nel senso che vuoi che tuo figlio accetti il tuo nuovo compagno così,
come se fosse naturale. Lo sai anche tu che non è possibile...”
“Mi aspetto che sia felice per me” borbottò Marçela.
“Ha dodici anni, Marçela! Non ha idea di quello che gli sta succedendo,
figurati se capisce che cosa sia la felicità di sua madre!”
“Scusa,eh, ma tu da che parte stai?”
“Da quella della logica” s'intromise Tray, raggiungendole. Pose una
mano amichevole sulla spalla di Rebecca e si andò a versare un po' di
quell'acqua calda che doveva essere tè.
“Tray, ma tu che ne sai? Non ne hai figli” ribatté piccata.
“Non ho figli, ma tanto buon senso. - ribadì l'altra senza scomporsi –
Sei superficiale, Marcela”.
“Questa poi!” si adirò l'amica.
“Tray, la tua diplomazia è paragonabile solo ad una tromba d'aria in un
villaggio con capanne di paglia. - la riprese Rebecca – Però, Marçela,
anche se questa testaccia dura lo dice male, ha ragione: stai pensando
360
solo alle tue ragioni. Non a quelle di Joe”.
“Sentite, tutte e due: voi non sapete quello che ho passato e quello che
sto passando ora con i bambini dopo Madrigal, perciò un po' di felicità
nella mia vita me la merito”.
Rebecca scosse il capo con amarezza. “Ragazza, prima e dopo avermi
inculato, hanno sputato anche su di me. E su Tray... perciò non venirci a
dire che non sappiamo. - Marçela si rese conto della gaffe – E poi: è vero
che Tray non può darti consigli sui figli, ma io sì. Joe è una ragazzino,
non ha gli strumenti per affrontare questa vita, così com'è; tu sei sua
madre... tu sei l'adulto e tu sei responsabile per il suo equilibrio interiore.
Non sta a Joe trovare un punto di equilibrio, ma a te. Ecco cosa voleva
dire Tray. Essere innamorati è meraviglioso, fa sentire come a quindici
anni, solo che quindici anni non li abbiamo più. Persino Giada, con tutto
che è senza figli, deve affrontare la storia in maniera differente”.
Marçela rimase per alcuni minuti a guardare la tazza fumante.
“Non è giusto, però” disse con tono infantile, piegando le labbra in un
broncio.
“Non è neanche giusto che tu abbia detto quelle cose a Rebecca” ribatté
Tray – come se lei se le meritasse!
“E' vero. Scusami, Becca... davvero”.
Spezzacolli fece un gesto con la mano, come a dire che era passata.
Poteva capirla, la sua amica Marçela, che stava vivendo la magia di un
nuovo amore e la difficoltà di una donna che deve gestire un figlio
adolescente reduce da una prigionia maledetta come Madrigal.
“E scusami anche tu, Tray. Secondo voi, che cosa dovrei fare?”
“Lascia che Mas se la veda con il ragazzo. - propose Tray – hai provato
la strada della mediazione ed è andata male. Prova questa: Mas mi
sembra uno sveglio e se i più piccoli lo adorano un motivo ci
deve'essere”.
“Trovo la soluzione di Tray migliore della tua” sogghignò Rebecca.
“Quando anche Tray avrà un marmocchio adolescente ne riparleremo”
rise di risposta Marçela.
Tray tirò le labbra in un sorriso mesto ed incattivito allo stesso tempo
– figli? Quali figli? I figli si fanno con gli uomini e lei di uomini non ne
voleva sapere!... o loro non ne volevano sapere di una nata da una
puttana e puttana a sua volta?
“Piantala” le sussurrò Rebecca come se le avesse letto nella mente.
“Di fare cosa?” sorrise Tray.
“Di pensare a te in questi termini”.
“Becca ha ragione, Tray” ribadì Marçela.
361
“Va beh, prima o poi farò lo sforzo di pensare un po' meglio di me,
contente?”
“... scema” Rebecca si era alzata e si stava servendo di altro tè. Nel
farlo aveva circondato Tray con un braccio e le aveva stampato un bacio
sulla tempia.
Tray non disse niente di quel gesto, né della stretta di mano in cui
l'avvolse Marçela. Alle volte ci si dimenticava degli altri, quelli più
vicini.
Fu così che Marçela lasciò perdere la mediazione tra Mas e Joe ed il
capitano affrontò la questione a modo suo; Joe finalmente smise di
sentirsi le spalle coperte e cominciò a prendersi le proprie responsabilità
nei confronti del capitano e di se stesso: per quel poco che la sua
autonomia glielo permise, fece una profonda autoanalisi di sé; il resto ce
lo mise sua madre e notti intere passate a parlare di Madrigal. Mas
ammirava molto il primogenito di Marçela, così onesto e così coraggioso
da affrontare le proprie paure piuttosto che chiudersi in un silenzio
vittimista.
Le corte giornate invernali costrinsero tutti all'inattività: nacquero
nuovi amori, vi furono nuove tresche, litigi, qualche volta si sfiorò la
tragedia e si concepirono diverse creature.
Rebecca passò buona parte del suo tempo con i sei piccoli orfani
rimasti ad Alto Castello. Bambini che le madri avevano abbandonato
dopo il parto, andandosene anche dalla compagnia di Spezzacolli.
Rebecca avrebbe voluto essere la loro madre adottiva a tutti gli effetti,
ma lei aveva solo un modo di essere madre ed era costretta a passare più
tempo a risolvere i problemi della comunità che con i piccini.
Indubbiamente erano più brave le due donne sulla quarantina,
palesemente omosessuali, che se ne prendevano cura. Rebecca era più
considerata una zia o la loro benefattrice. Le due donne amavano quei
piccoli come se fossero stati loro, perciò Rebecca decise di non affidare
più nessun bambino ad altre famiglie.
Ad Alto Castello i giorni si susseguirono lenti, faticosi. Nei giorni più
freddi c'era una quiete simile al lento fluttuare dei fiocchi di neve nel
cielo; era facile che la gente si addormentasse o rimanesse accoccolata
sotto le coperte pesanti.
Il risveglio fu come quello di ogni anno: Rebecca si alzò un mattino
senza la sensazione di torpore, energica, speranzosa. Quasi ottimista.
Aprì le tende e vide il sole caldo che cominciò a sciogliere la neve. Un
vento caldo si alzò nelle ore successive e dopo meno un giorno portò
nuvole cariche di pioggia.
362
Insieme alle sue guerriere discesero nei boschi per controllare la
situazione e scoprirono le gemme sugli alberi; alcune piante stavano
fiorendo.
Due anni – si disse solamente la donna.
Due anni da quando la sua vita era stata stravolta, da quando Rebecca
di Makma aveva cessato di esistere per lasciare il posto a Spezzacolli.
Nonostante il tempo passato, nonostante gli accadimenti, Rebecca non
aveva ancora avuto il coraggio di pensare a se stessa dopo la violenza. Si
sentiva come sdoppiata: il fronte aveva il volto di Rebecca, il retro di
un'ombra. Sapeva di dover scoprire quest'ombra ma ne aveva paura. Non
la conosceva, non sapeva come affrontarla.
La primavera esplose in tutta la sua bellezza. Finalmente tornarono a
cacciare, la terra a germogliare e profumi dei fiori riportarono i sorrisi.
“Quest'anno andrà meglio” disse Giada con un respiro profondo,
mentre erano loro due sole sulle mura esterne ad ammirare il paesaggio.
“Sei felice, vero?” le domandò con dolcezza l'amica.
“Sono innamorata”.
Sono innamorata anch'io, - pensò Rebecca – ma il mio amore è
lontano. Forse non è destino che lo riveda?
Due anni e Corin le mancava peggio di prima. Non aveva smesso di
piangere, non aveva smesso di sognarlo, non aveva smesso di vederlo
nella nebbia del mattino. Non aveva smesso di chiamarlo dall'alto della
torre. Non aveva smesso di amarlo un solo attimo.
“Rebecca?” la richiamò Giada dai suoi pensieri.
“Mh”.
“Ma quella non è Bella?”
Bella e Josephine erano due delle guerriere che aveva mandato mesi
prima in cerca di notizie. Le due erano state circondate dagli amici, che
volevano avere notizie del mondo esterno, invece si precipitarono a
cercare il loro capo per proclamare esultanti: “Il re è tornato! E con lui
Mastro Mayster! Mayster è Corin di Makma!”
A Rebecca il sangue si bloccò in gola per la gioia e la sorpresa
assoluta.
Corin era tornato!
363
5.
Neropece non fu in grado di toccare la sua donna per i primi cinque
minuti successivi in cui fu solo con lei nella sua stanza.
Era inginocchiato accanto al letto e lei respirava in un modo così
lieve da apparire morta. Non gemeva neppure. Il suo corpo era immobile
di quell'immobilità eterna che Neropece temeva.
Devo spogliarla e devo ripulire le ferite. Devo...
Davanti allo scempio compiuto sul corpo di Beatrice – e dinanzi al
suo coraggio, la sua forza – il cuore non resse alle emozioni: paura,
sgomento, orrore, amore, apprensione, ammirazione e panico lo
travolsero, facendolo scoppiare in un pianto primordiale come quello di
un neonato appena venuto al mondo.
Dal luogo remoto in cui si trovava, Beatrice dovette sentirlo perché
gemette. Neropece si asciugò il volto bagnato di lacrime e sangue e si
alzò per spogliarla e medicarla. Era sfinito, ma fu in grado comunque di
materializzare ciò di cui aveva bisogno. E, mentre lo faceva, comprese la
pochezza di essere uno Stregone: non possedeva abbastanza potere.
Nessuno di loro era più puro e con poteri in grado di contrastare la
rivolta.
Una volta che Beatrice fu nuda e lavata, il compagno studiò le
ecchimosi, i tagli, i graffi della violenza. Lei aveva lottato come una
leonessa, ma Joseph era riuscito ad infierire brutalmente sul suo corpo e
sul pube e sulle cosce c'erano i segni neri delle botte.
Maledetti...! Maledetti, gli Uomini-sordi! - pensò con odio accecante.
Li avrebbe sterminati tutti, avrebbero pagato tutti per quell'affronto. Lui
avrebbe riacquistato il potere e la società degli Stregoni avrebbe pulito il
suo sangue da quello degli Uomini-sordi; tutti se ne sarebbero accorti.
Aspettava che Weer gli fornisse Giada; ora Giada se la sarebbe andato a
prendere da solo.
Tamponò due ferite che continuavano a sanguinare – povero, povero
amore mio. La mia piccola donna, così innocente...
Il seno di Beatrice perdeva il latte che avrebbe dovuto dare a Kathy e
Neropece non poté far altro che metterci un panno assorbente sopra. Il
latte era caldo sul corpo tiepido.
Lo Stregone baciò con labbra tremanti le labbra tumefatte di lei, pose
un bacio sul cuore, sul ventre e sull'ombelico rotondo – povero, povero
amore mio. La mia piccola donna tanto bella, tanto coraggiosa.
Cosparse le ferite con una pasta di salvia grigia e menta rossa e poi le
364
bendò. Sulle ecchimosi mise una crema gelatinosa all'arnica e
camomilla. Avrebbe voluto toglierle il sangue dai capelli.
Se solo avessi il potere di guarire! - ansimò riprendendo a piangere lo
Stregone.
Si guardò le mani: erano grandi, le mani di un uomo forte, potente,
intelligente. Ma che ne era stato della protezione che avrebbe dovuto
dare alla sua piccola donna dagli occhi di smeraldo? Si sentì stupido,
stupido all'inverosimile. Inutile nella sua stessa essenza di uomo. Lui e
quelle mani tanto grandi, che non avevano saputo proteggere l'unico,
vero gioiello della sua vita.
Lo prese un'ira accecante nei propri confronti, avrebbe voluto urlare
al cielo la sua impotenza, ma nella gola la voce era finita, tanto aveva
gridato. Perché, alla fine, il suo corpo era un corpo mortale: in ogni caso
era destinato ad invecchiare e morire.
Con un gemito, si rese conto solo allora che Beatrice, la sua piccola
donna, non era che una donna-sorda e che presto, troppo presto rispetto a
lui, sarebbe morta. E così i loro figli, perché il loro sangue non era puro.
Se solo... se solo mi fossi impegnato di più per trovare Giada. Avrei
acquisito il potere di saper guarire e proteggere il corpo mortale... e voi,
voi tutti sareste immortali.
“Perdonami, amore. Perdonami, amore mio” ebbe solo più la forza di
dire. In qualche modo riuscì a ripulirsi e quindi, esausto, cedette ai
bisogni del corpo mortale e cadde addormentato abbracciato alla sua
piccola, coraggiosa donna.
6.
La fattoria che diede ospitalità a Paul Mann era piuttosto isolata dalle
altre. La ragione era presto detta: il fattore aveva quattro figlie femmine
ed un solo figlio maschio che lo aiutasse a sorvegliare quelle scalmate,
arroganti e prorompenti ragazze. In questo modo la carovana di Weer
non passò accanto alla loro proprietà e non vide lo straniero ferito,
riverso davanti al loro uscio.
Fu la figlia quindicenne del fattore e trovarlo e fu lei che insistette per
curarlo. Lo spogliò, lo lavò e lo medicò. Dovettero far venire una
guaritrice, perché portarlo da Moag il Medico sarebbe stato difficile a
causa della ferite.
Paul Mann stava decisamente peggio di quel che pensava: aveva sì
delle costole rotte, ma la milza spappolata e la gamba era spezzata in più
365
punti. Non solo, la spalla era uscita dalla sede ma lui, concentrato
com'era sulla gamba, non aveva percepito anche quel dolore. La
guaritrice passò presso la famiglia due giorni per medicare e operare il
ferito; poi diede istruzioni alla fanciulla che tanto impegno ci metteva
per salvare la vita di quello sconosciuto.
Tanta era la foga e l'impegno che suo padre pensò che fosse il suo
innamorato segreto. Non era affatto così. La giovane si era invaghita
dello straniero nel momento in cui aveva toccato la sua pelle ruvida di
uomo, nel momento in cui aveva lavato il corpo. Un uomo. Dalla
robustezza, dalla forza delle braccia, dal corpo asciutto aveva capito che
doveva essere un guerriero.
Un guerriero. Un cavaliere.
Le parve di avere nel suo letto il mitico Mastro Mayster. Passò notti
intere a illudersi che lui potesse essere Mastro Mayster. Finché non ci
credette. E, quando lui fosse rinvenuto, avrebbe trovato in lei il grande
amore. Avrebbe pianto di gratitudine per quella giovane fanciulla che
tanto aveva sacrificato per lui. Oh, sì, l'avrebbe amata alla follia! Lei era
bellissima! Quello era un segno della Dea Hilu! Mayster l'avrebbe presa
con sé, strappata alla vita banale e faticosa della contadina, l'avrebbe
condotta con sé nel suo splendido castello e l'avrebbe introdotta alla
Corte di Sua Maestà e... non bastarono i quindici giorni di assoluta
incoscienza di Paul Mann per tutte le fantasie della giovane contadina.
Fu grazie a lei che l'ex capitano di Jacob di Weer guarì: l'innamorata e
illusa fanciulla lo accudì come un neonato giorno e notte e, quando il
fattore protestò per il peso che dava loro avere un ferito terminale, la
ragazza si scagliò con tutta la sua rabbia fatta d'amore sul padre. L'uomo
era brusco, ma amava la sua bambina e si arrese alla sua ostinazione,
consentendole di curare lo straniero.
La ragazza lo imboccava, lo puliva, adempiva a tutti i doveri di una
brava infermiera, compreso quello di pulirlo delle sue evacuazioni. In
meno di due settimane i genitori videro diventare quella scapestrata e
pigra di una figlia nella donna lavoratrice che mai avrebbero immaginato
avrebbe potuto essere. Perciò presero per buona la venuta dello straniero.
Paul Mann riprese conoscenza mentre lei gli stava pulendo le braccia.
Lo trattava come un bambolotto. L'uomo si guardò bene dal spalancare
gli occhi e chiedere dove fosse: rimase apparentemente nella sua veglia e
studiò la famiglia che lo aveva salvato. Si rese conto dell'infatuazione
della ragazza quando lei gli accarezzava i capelli cortissimi e radi che
aveva sulle tempie e baciava le sue mani quando era sola.
Per la verità, la sua salvatrice non era granché: bassina, fianchi larghi,
366
seni piccoli, il volto allungato con il mento a punta e occhi scuri
annacquati dall'illusione di essere la più bella del reame. Non era
neppure lontanamente carina e non era particolare; era anonima. Una
ragazzina come tante altre, una ragazzina che non valeva nulla.
Rimase ancora un giorno senza sensi per cercare di capire che cosa
aveva di rotto: temeva le gambe o la schiena. Era stato operato e di
questo ne era certo perché sentiva i punti sotto la fasciatura al torace.
Quando non fu visto, aprì e chiuse i pugni. Braccia e mani funzionavano
bene. Vide la caviglia ingessata e temette di essere rimasto
definitivamente azzoppato. Non avrebbe saputo dirlo. E la schiena? Con
sollievo appurò di essere in perfetta salute quando lei lo lavò ed ebbe
un'erezione. La ragazza ridacchiò ed arrossì, ma continuò a lavarlo
divertita di quel nuovo gioco.
Fu allora che Paul Mann dovette dare un segno di star riprendendosi,
ma passarono altre dodici ore prima che aprisse gli occhi.
Attorno a lui si accalcarono i visi di tutta la famiglia.
“Si...signore, state bene?” la giovane innamorata fu la prima a parlare.
Paul Mann aveva le labbra secche e la lingua incollata al palato. Si
dovette limitare ad annuire.
“Su, fatelo respirare!” incitò la ragazza al resto della famiglia.
“Sentitela!” berciò una delle sorelle.
“Togliti dai piedi, Mandy, prima che ti busso” avvertì la ragazza.
“Gretha, aspetta. - sua madre la placò e riempì un bicchiere per il ferito
– Dagli da bere. Signore, avete sete?”
Paul Mann annuì. Tracannò tutta l'acqua e la giovane innamorata
gliene porse un altro bicchiere: “Piano, piano” gli sussurrò con un tono
famigliare, come se fosse veramente sua moglie.
Il soldato non si fece scappare l'occasione e incrociò lo sguardo con
lei. A momenti alla sua salvatrice il bicchiere cadde per l'emozione.
Nei giorni a seguire Gretha lo servì e riverì in tutto. Paul Mann non
alzava mai il tono della voce, bastava che se la schiarisse e lei accorreva.
Gretha aveva avuto un'accesa discussione con suo padre perché era
tempo di raccolto e lei rimaneva sempre a casa con lo straniero. Paul
Mann dichiarò di chiamarsi Gus e null'altro.
Era un guerriero? Sì, lo era.
Che cosa gli era successo? Era stato ferito.
Dove? In un duello? Sì, se volete.
Contro quanti uomini vi stavate battendo? C'erano dei nemici, sì.
Siete un soldato di John Henry? Sono un soldato.
Evasivo e perentorio: Gretha doveva stare a casa con lui. Il padre di
367
Gretha non seppe dirgli di no, anche perché la moglie lo convinse a
lasciarlo tranquillo e lasciare che la natura facesse il suo corso. Aveva
visto l'occhiata tra i due e sapeva che oramai quella loro figlia era
destinata al guerriero.
Paul Mann si riprese con calma, molta calma. E divenne il padrone
della vita di Gretha: le impose di cucinargli i suoi piatti preferiti, di
accorrere ad ogni suo cenno, di fare tutto ciò che lui desiderava.
Compreso slacciargli i calzoni sul portico di casa quando furono soli e
finire ciò che aveva cominciato quando era senza sensi. Gretha esaudiva
ogni richiesta e gli diede la fragile verginità, che le sarebbe servita per
trovare un marito onesto – il miraggio di ogni genitore per una figlia.
Paul Mann rimase alla fattoria per tutta l'estate e per la vendemmia.
Si riprese alla grande, nonostante la caviglia che non si rinsaldò come
avrebbe dovuto. Divenne zoppo.
“Sai, amore, dovremmo dirlo a mamma e papà” disse una sera
d'autunno Gretha al presunto Gus, mentre una pioggerellina leggera
ricopriva i campi già scuri.
“Cosa?” lui la scostò brusco e si accese la pipa.
“Di noi. Lo sanno, certo, ma sai, con il bambino in arrivo...”
Silenzio.
Gretha lo fissò con occhi lucenti ed un sorriso radioso.
“Con, cosa?” sibilò lui.
“Il bambino in arrivo. - replicò lei e smise di guardarlo. Non si accorse
dell'ira che aveva acceso il volto di Paul Mann – Oh, insomma, ci sono
così tante cose da organizzare per il matrimonio! Finché il piccolo non
sarà nato, potremmo stare ancora qui, ma la primavera prossima dovrai
per forza trovarci una casa e...”
Paul Mann strinse i pugni.
Cosa? Un marmocchio? Sposare quella piccola sguattera buona solo
per succhiargli il cazzo? No, no, no, era fuori discussione! Bastarda
maledetta, che era rimasta incinta per rovinargli i piani!
Il soldato non fece neppure buon viso a cattivo gioco: la mandò via
con una manata. “Non ho voglia di sentire 'ste stronzate” dichiarò.
Gretha ammutolì. “Ma io...”
“Fila, ragazza. Devo pensare” sibilò lui.
L'amore è cieco e sordo: ciò che evidentemente era rabbia assassina,
per Gretha fu il segno che il suo bel soldato aveva reagito alla notizia del
bambino e del matrimonio. Così quella sciocca ragazza entrò in casa e lo
sventolò ai quattro venti.
Paul Mann fumò la sua pipa per calmarsi. Adesso era costretto a
368
mettersi in cammino prima dell'inverno. Il cammino verso Hakne era
lungo; l'inverno l'avrebbe costretto a ripiegare su Tulle e avrebbe potuto
essere assai difficile nascondersi dalle spie di Weer. Lui aveva sperato di
poter attraversare Tulle velocemente per poter essere ad Hakne alla fine
della primavera.
Voleva andare da Justine di Malle e prendersi quel suo maledetto
trono. L'avrebbe sedotta, l'avrebbe ammazzata... ancora non lo sapeva:
quello che voleva lui era il potere su Hakne.
Rientrò in casa, tutti festeggiarono il fidanzamento tranne il
fidanzato, che, non appena la fattoria fu addormentata, lasciò Gretha, il
loro bambino e la famiglia. Si prese la loro bestia migliore, si prese gli
indumenti migliori del fattore e rubò tutto ciò che poteva rubare.
Il mattino dopo Gretha si ritrovò il volto in fiamme a causa degli
schiaffi che le diede il padre ed un figlio bastardo nella pancia. Ormai era
rovinata.
7.
Come stai, amore mio?
Come stai, sole mio, mia vita?
Riferiscono di te, riferiscono dei nostri bambini. Jesse che ormai è
alto come me, Mark che parla e parla e ride ed è bello e monello, di
Tommy, la mia notte stellata dopo tante di tempesta.
E di te... di te, mio possente guerriero, mio invincibile guerriero:
dicono di te che sei splendente come il sole della primavera, che sei
fulgido come la stella cometa che attraversa il cielo sopra di noi nella
prima notte di nozze.
Sono felice d non poter trattenere il pianto. Sono felice da urlare e
saltare di gioia! Sono così felice, amore!
Allungo le mani e sento che potrei toccarti, sento l'odore di te nel
vento di questa primavera, annuso l'aria fresca della foresta e ti rivedo
accanto a me quando novelli sposi ci perdevamo nel bosco per fare
l'amore. E poi corro, corro oltre tutto lo spazio che ci separa per venirti
incontro, perché tu mi possa sollevare in alto, come quel giorno
sull'altare delle nostre nozze, trionfante della nostra vita. Sono il tuo
premio, amore, e tu sei la mia luce.
Eccomi!
369
CAPITOLO 20.
1.
Il mattino successivo al suo insediamento al Palazzo Reale, Ground fu
svegliato dalla governante culona con un vigoroso scossone.
“Svegliatevi” tuonò.
Il Marchese si mise a sedere lanciando occhiate di fuoco alla donna:
“Lo sapete chi sono io?”
“Dovrei?” sogghignò la donna, che intanto aveva spalancato le finestre
e fatto cenno a una dozzina di cameriere di entrare. Tra loro c'erano
anche un uomo sulla quarantina ed un valletto.
“Che ora è?” Ground la lasciò perdere.
“L'alba è passata da un'ora, mio signore”.
Ground si passò le mani sul viso assonnato. Ecco, ora cominciava a
voler male a quella culona impertinente. “Santa Hilu, ma sono andato a
dormire a notte inoltrata!”
“Io non sono proprio andata a dormire, visto che poi ho dovuto
riordinare là dove avete cenato con la signora” fu brusca lei.
“Sparisci, donna, prima che...” inveì lui.
“Tacete, sciocco. - lo rimbeccò lei, ignorando apertamente il suo grado
e il suo titolo nobiliare – Adesso farete un bagno, una bella colazione e
lascerete che i sarti vi prendano tutte le misure per i vostri abiti. Fra
meno di un'ora e mezza sarà qui anche il calzolaio, quindi farete bene a
darvi una mossa, pelandrone”.
Ground la seguì schizzare per tutta la stanza, mentre sistemava la
colazione, il bagno ed il piano di lavoro per i sarti.
“Io ho già degli abiti nuovi” sottolineò il Marchese, ripensando tra sé e
sé il costo di quegli abiti.
“Avete due abiti nuovi, mio signore, vale a dire il pigiama e quello di
ieri. Qui ci vuole un abito per ogni giorno del mese e dovrete almeno
cambiarvi due volte al giorno... sempre che ci teniate alla vostra amicizia
con la Cugina Justine. - finalmente si fermò. E si fermò davanti a lui, le
mani a pugno piazzate sui fianchi in una posa autoritaria – Marchese, io
posso essere la vostra migliore amica e, per quanto non mi fidi degli
uomini, so che voi volete il potere per liberarci di questi quattro
imbecilli. Sarete un avido come gli altri, ma avete un buon motivo per
370
essere avido. Ricordate la nostra conversazione sul culo rotto? Ecco, non
è che sia proprio piacevole per tutti noi andare avanti così... dopo un po'
brucia”.
Ground scoppiò in una risata di pancia. Adesso adorava quella donna!
“Va bene, va bene, farò come dite”.
La donna gli fece strada nella stanza attigua, con la vasca da bagno
fumante e due cameriere pronte per servirlo. Ground occhieggiò quella
che gli aveva reso un buon servizio nella notte d'attesa sul divano e le
mandò un bacetto. Lei arrossì visibilmente.
“Marchese, voi siete un uomo di certo intelligente, ma dovete imparare
a muovervi in questo mondo di serpi dove l'apparenza è tutto. E con la
Cugina... io tasterei il terreno, prima di buttarmici”.
Ground si spogliò dei calzoni e della casacca della notte e fissò nudo
la governante. Lei non parve affatto impressionata. Lui sogghignò:
“Comincio a cambiare opinione su di voi, sapete? Prima pensavo che
foste solo una gran rompipalle”.
“E' quello che dice sempre il mio terzo marito. I miei figli ormai si sono
rassegnati”.
“Ma siete una brava persona. - ammise il Marchese, incrociando le
braccia – Sarete veramente mia amica o andrete subito a spifferare tutto
alla cara Cugina?”
“Io voglio che sia la cara Cugina a spifferare tutto a voi, perché sarete
molto in confidenza. E spero anche che sappiate renderla meno
frustrata... avete tutti gli strumenti adatti” gli lanciò un'occhiata
licenziosa al pube e poi si volse per andarsene, scuotendo la testa.
“Vi tengo la colazione in caldo” fu l'ultima cosa che disse, prima di
chiudere i battenti e lasciargli un po' di privacy con le due cameriere.
2.
Gli occhi di Rebecca erano ancora lucidi di emozione e pianto, quando
chiese a Giada, George e Mas di seguirla nella grande sala di
ricevimento. Era tardi, Mas aveva gli occhi che bruciavano di sonno, ma
sapeva che Spezzacolli aveva trovato il tempo solo adesso di conferire
con loro. Bella e Josephine, le due guerriere mandate alla ricerca di
notizie e che con le notizie avevano fatto ritorno, l'avevano tenuta in
riunione per tutta la giornata.
Tutta Alto Castello voleva sapere. L'intera comunità si era riunita
dentro il castello per avere un posto in prima fila ed ascoltare le novità;
371
sul pavimento della sala erano rimaste le tracce di centinaia di piedi.
Le rughe sottili di Rebecca erano scomparse: sembrava ringiovanita
di dieci anni di colpo e le sue guance erano rosse come il giorno in cui
un possente soldato straniero era arrivato nel suo villaggio per sposarla.
Era accecante nella sua felicità.
I bambini stavano bene. Corin stava bene ed era fulgido come una
stella e John Henry era vivo ed in buona salute. Della regina? Lei era ad
Hoss, debole ancora per l'incantesimo. Ma si era ripresa? Appena un
poco.
Giada non volle neanche pensare che cosa volesse dire “appena un
poco”. Nel suo animo non c'era la felicità di Rebecca, ma l'immenso
sollievo di sapere che Mastro Mayster era di nuovo con loro.
Rebecca fece loro posto e versò quel poco che era rimasto del vino e
del sidro.
“Un brindisi!” alzò il calice.
“Un brindisi a Corin!” le fece eco Mas con lo stesso sorriso vittorioso.
Bevvero e Rebecca si appoggiò allo schienale dello scranno con
l'espressione esausta e gioiosa. Chiuse un secondo gli occhi e quando li
riaprì era tornata ad essere il capo: “Bene, passiamo alle cose
importanti”.
“Cioè?” sorrise George, che non poteva immaginare niente di più
importante che la notizia del ritorno di Corin.
“Voi due dovete far ritorno a Madrigal”.
La notizia fu accolta nel silenzio più totale.
George non aveva nessuna intenzione di lasciare Giada e Mas aveva
altre idee, prima di partire.
“Quando?” era Giada, serena.
“Il prima possibile. E tu dovresti andare con loro”.
Adesso la principessa smise di sorridere e George era più sollevato.
“Perchè?” rantolò la principessa – Oh, no! No, che non ci sarebbe
andata a Madrigal, di nuovo e senza Rebecca! Poteva anche esserci la
Dea Hilu in persona, ma non gliene fregava niente: senza Rebecca non
sarebbe andata da nessuna parte. Soprattutto perché a Madrigal c'era
suo padre -.
“Saresti al sicuro. Ci sarebbe Corin e ci sarebbe tuo padre con migliaia
di guardie. - la moglie di Mayster smise di sorridere - Il fatto è che con
la bella stagione potremmo venire attaccati da un momento all'altro e...”
“No” interruppe la ragazza.
“Giada...”
“Rebecca, la mia risposta è no. Leggi le mie labbra se non capisci, va
372
bene?”
L'altra tirò un sospiro. “Maestà, ve ne prego. E' per la vostra
incolumità”.
“Sono più al sicuro qui e lo sai bene. Fintanto che nessuno saprà che...”
la ragazza si tirò in piedi, pronta a dare battaglia.
“Principessa, avete ragione. Ma se qualcuno sospettasse anche
lontanamente la vostra identità, io non sarei in grado di...”
“Amore, Becca ha ragione. A Madrigal saresti al sicuro e ci sarebbero
sia tuo padre che Cor...” intervenne George, accarezzandole la mano.
Lei si scostò brusca: “Andate tutti e due dove dico io! - esplose con
occhi fiammeggianti – Io non mi muovo di qui, chiaro? E poi, che cosa
farei una volta lì? Eh? Farei la bella principessina annoiata, da sola e
senza amiche”.
“Ma saresti al sicuro” sostenne George.
“Oh, ma lo eravamo anche qui ad Alto Castello, non ricordate?”
Scese un silenzio carico di tensione. Mas non si era intromesso, ma
lanciando un'occhiata a Rebecca si rese conto che la donna aveva intuito
qualcos'altro.
“Va bene. - dichiarò il capo – Vostra Maestà può chiarirmi il motivo per
cui non vuole tornare da suo padre, dove sarebbe protetta da circa
seimila uomini?”
“A Madrigal non sarei di alcun aiuto, mentre qui ad Alto Castello avete
bisogno di me, lo sai” replicò la principessa meno sulle difensive.
“Ma Rebecca potrebbe sostituirti per...” provò a dire George.
“Aspetta, lasciala finire” era Rebecca.
“Grazie. Inoltre, abbiamo abbiamo ancora una missione”.
“Eh”.
“Le Cave di Marmo Nero, a dieci giorni di cammino da qui: è lì che
Weer ha deportato i mariti delle donne di Madrigal. Dobbiamo liberarli”.
“Dobbiamo?” sogghignò Rebecca piena d'orgoglio per la sua piccola e
paurosa principessa di un tempo.
“Sì, dobbiamo. - ribatté l'altra con lo stesso ghigno – E tu devi trattarmi
sempre come Giada l'Ingegnosa, se non vuoi che io ti faccia punire per
avermi dato del Voi”.
Rebecca scosse il capo, scoppiando a ridere. Stampò un bacio sulla
guancia della sua signora e alzò le spalle arrendevole a George: “Mi
dispiace. Io ci ho provato... ma lei è Sua Maestà la Principessa di
Hakne”.
Scuro in volto, il giovane capitano le guardò torvo: “Vi state
divertendo?”
373
Giada lo circondò con le braccia: “Avanti, Capitano, anche quando
sarai lontano, sarò la tua ombra”.
George sorrise appena: “Ah-ah, molto spiritosa, piccola peste.”
Mas si spense la pipa. “Allora, che cosa dico alla mia oca
starnazzante? Quando partiamo?”
“A questo punto voglio dare un'occhiata alle Cave di Marmo Nero. ribatté Spezzacolli – Lo devo alle donne di Alto Castello. Poi partirete”.
3.
Presentarsi pulito, sbarbato e con l'abito nuovo confezionato in tempi che
a Ground parvero miracolosi, fece tutto un altro effetto sulla Cugina
Justine, anche lei riposata e con la pelle luminosa. Lo accolse con un
sorriso assai migliore di quello che gli aveva riservato prima di ritirarsi.
Fu una giornata serena e senza scossoni: Justine lo presentò alla
Corte, il che valse a Ground l'odio dell'intera popolazione nobile che
aspirava al trono di Hakne; gli mostrò l'enorme Palazzo Reale e tutto il
suo splendore.
Il palazzo possedeva la forma di una falce di luna, a cinque piani e di
un bianco accecante, dato dall'uso dei cristalli nelle pietre che lo
componevano. Sei torri alte più di cento metri e dalla base imponente di
settanta metri di diametro circondavano il palazzo. Visto dall'alto, il
Palazzo Reale aveva la forma della luna e delle stelle in una notte
limpida d'estate.
Vivere a palazzo era segno di grande importanza: le famiglie di basso
lignaggio, ma con una qualche parentela o raccomandazione della
famiglia reale vivevano nella parte più sottile della falce di luna; la
famiglia reale occupava la parte più spessa della figura. Nel Palazzo
Reale abitavano circa ottantamila persone, tra nobili e servitù.
Attorno al palazzo il giardino, curatissimo, con labirintici sentieri e
ombrosi angoli dove gli amanti potevano nascondersi da occhi indiscreti.
C'erano alberi da frutto, viti, fiori dai colori più diversi e animali che
convivevano con gli esseri umani in pace assoluta. A prendersi cura del
giardino c'erano più di cinquecento persone, a cui andavano aggiunti gli
ingegneri per le aiuole, quelli che si occupavano delle fontane - non
meno di un migliaio sparse – e coloro che si occupavano di badare alle
bestie del giardino. Nessun animale era pericoloso, ma era necessario
tenere sotto controllo le nascite per non distruggere il delicato
ecosistema. In taluni punti il giardino aveva rada erbetta verde, in altri
374
era una vera e propria selva.
Il giardino, come il palazzo, era frutto dei desideri dei diversi sovrani
di Hakne ed era così vasto e differente che solo quello sarebbe bastato
per secoli a tramandare la memoria di quel re o di quell'altro.
John Henry, per il giorno delle nozze, aveva fatto costruire un piccolo
terrazzamento con sculture in legno decorato in oro e argento a ritratto
di sua moglie nel giorno del matrimonio. Alla nascita dei suoi figli, ecco
sorgere il piccolo viso di un neonato e poi di un giovanissimo principe.
Quello era il ricordo che voleva lasciare il sovrano di sé: “Noi e la
nostra famiglia” aveva sussurrato alla sua sposa, mostrandoglielo.
Esterella aveva sorriso commossa: “Basterà ai posteri?”. “Solo a
ricordare loro che, più di qualunque cosa, ciò che conta è l'amore”.
Pochissimi capirono quel gesto, ma fu apprezzato perché non costò
un occhio della testa come al solito. Ogni sovrano di Hakne aveva speso
quasi metà del denaro delle casse reali in rinnovamenti e monumenti
vistosi alla loro memoria.
Justine fu una delle poche a capire suo cugino.
“Amava moltissimo sua moglie e i loro figli. - spiegò al Marchese con
una nota dolente, di chi conosce bene il dolore della perdita – Diceva
sempre di aver avuto tutto dalla vita e che l'unica cosa che voleva
sempre, e sempre di più, era la serenità con la sua famiglia”.
“In questo mondo la serenità viene a mancare, prima o poi” le rispose il
Marchese, accendendosi la pipa.
“Siete così cinico” sospirò lei.
“Sono pragmatico, è diverso. Se tutto fosse così perfetto, allora
saremmo nei Campi Fioriti di Thron”.
“La felicità esiste, Marchese, e mio cugino l'aveva trovata. Perderla è
stato terribile”.
“Pensate a chi non l'ha mai conosciuta”.
Justine gli lanciò un'occhiata obliqua: “Parlate di voi?”
“Io sono un uomo abbastanza soddisfatto”.
“La soddisfazione è una cosa. Parlavo di felicità”.
“Che cosa intendete?”
“Avete una moglie? Figli?”
Ground sogghignò: “Siete sicura che la mia risposta possa essere per
le vostre orecchie delicate?”
“Oh, Ground, siete così...rozzo!”
Lui scosse la testa con un sorriso mesto. “Vi prego, perdonate questo
barbaro del Nord”.
“Va bene. In futuro vi prego di fare più attenzione a ciò che direte: siete
375
alla mia Corte e ci sono delle regole dettate dal buon gusto. Io non metto
in dubbio che le donne, su, siano abituate a questo modo di fare, ma qui
siete tra gente civile”.
“Talmente civile che i padri arrivano a vendere le figlie dodicenni alle
tenutarie dei bordelli, per poter mantenere il decoro che vi piace tanto”
ribatté piccato lui.
Justine ammutolì e lo fissò con occhi che andavano uscendo dalle
orbite. “Come vi permettete di rispondermi!”
“Come vi permettete voi di darmi dell'incivile quando mi tocca sentire
tutte 'ste stronzate sulla pace e sulla serenità” ribadì lui, senza scomporsi.
“Che razza di linguaggio usate, Marchese!” strillò la principessa.
“Quello che usano gli uomini, Madama. Quelli veri”.
“Se mio marito fosse qui, lui vi...”
“Ma vostro marito è morto. - Ground non si fece alcuno scrupolo a
risponderle a tono – E bisogna smetterla con tutte queste cerimonie.
Spiegatemi una buona volta perché non avete preso a calci fin da subito i
vostri pretendenti, se proprio non vi piacevano”.
“Non si può, ecco. Qui esiste una cosa che si chiama etichetta”.
“No, quella cosa si chiama essere codardi e non saper chiamare le cose
con il loro nome”.
Justine ebbe un gesto di stizza. Si alzò di scatto e menò l'aria con le
mani come se volesse colpirlo. Lui non si mosse di un centimetro.
“Basta! - inveì – Dovete smetterla, Marchese!”
“Di fare che cosa?” tirò le labbra in un sorrisetto.
“Grande Dea, smettetela di rispondere! Io sono la Reggente al trono!”
“Oh, finalmente l'avete detto!” sorrise angelico lui.
Justine rimase interdetta: “C...cosa?”
“Finalmente avete detto una verità su cui non si può discutere. Lo
sapete che è la prima volta dacché sono qui che lo ammettete?”
“E... e con ciò?”
Ground si alzò e le si fece sotto, senza più sorridere. Era tetro. “A
questo punto dovete anche ammettere che voi e la vostra etichetta state
trascurando il vostro dovere di Reggente al trono”.
“Questa è una menzogna” sibilò lei.
“Ah, sì? Che mi dite dei vostri tesori, mia signora? E della vostra
rendita? E della città oppressa dalle tasse dei vostri Consiglieri?”
Lei distolse lo sguardo da quello di lui. Justine non era una donna che
avesse mai preso delle decisioni e, sì, forse aveva avuto solo suo marito,
ma perché era una pavida che non conosceva altra via se non quella
scelta dagli altri. Si era imposta di amare quell'uomo? Era possibile.
376
Justine di Malle non era in grado di affrontare un uomo come Ground.
“Se... se hanno messe quelle tasse, ci sarà stato un buon motivo”
balbettò infine.
“Andatelo a dire a chi è costretto a vendere le figlie come schiave. O a
chi mendica”.
“Non è vero” gli voltò le spalle.
“Oh, sì, che è vero. - Ground rise sprezzante, di lei – Ma voi girate le
spalle, Maestà”.
“Vi state prendendo gioco di me?” lo guardò con occhi fiammeggianti.
“No, cerco di capire perché Hakne abbia una Reggente che non fa nulla
per impedire lo sfacelo. Lo sapete, vero, che se Weer entrasse ora in città
metà della popolazione lo acclamerebbe come liberatore? Liberatore,
capite? Jacob il Sanguinario”.
“Non dite il vero” la donna strinse le labbra, gli occhi lucidi per
l'umiliazione.
“Perché mentire? - sogghignò lui – La verità è sempre più divertente
della menzogna”.
Justine prese a piangere, Ground detestava le donne che piangevano.
Si volse dall'altra parte.
“Dovreste mostrare più attenzione alla mia sensibilità, se ci tenete a
sedurmi” disse quindi lei piccata, soffiandosi il naso nel fazzolettino.
“Forse non avete capito che non me ne frega un benemerito cazzo di
sedurvi, Madama Justine. Io sono qui come portavoce della gente del
Nord, che si chiede a chi stiano versando le tasse e per chi combattono”.
Non si girò neppure per guardarla.
Justine di Malle non era mai stata ignorata, né trattata alla stregua di
una stupida ingenua. Era quello che Anton di Ground stava facendo e lei
non lo sopportava. Come osava quell'uomo venuto dalle caverne
giudicarla e giudicare la fatica ed il dolore che si portava appresso con il
ruolo che John Henry le aveva affibbiato andandosene? Perché erano
tutti così egoisti?
“Mi state offendendo” gli disse infine con voce rotta.
“Pazienza. - l'uomo si volse e la fissò con sufficienza – Siete troppo
grande per fare la parte dell'adolescente egocentrica e viziata. E' ora che
guardiate in faccia la realtà, Justine: Hakne sta cadendo a pezzi”.
“Mentite”.
“Davvero? Se siete davvero la donna che dite di essere, domani mattina
verrete con me in città in incognito e vedrete con i vostri occhi”.
“Altrimenti?”
“Tanto varrà chiamare Jacob di Weer e lasciargli il trono”. Ciò detto la
377
superò e la lasciò sola.
Justine non era mai stata lasciata sola.
4.
Le Cave di Marmo Nero.
Rebecca trattenne l'esclamazione strozzata nella gola. Lei non
avrebbe potuto liberare i prigionieri delle Cave!
“Rebecca...” mormorò Tray con voce roca.
“Lo so, lo so” la donna strinse i pugni finché le nocche non divennero
bianche. Era infuriata.
Mas fece segno alle due di ritirarsi indietro. George e Giada
strisciarono per ultimi dietro Spezzacolli, Tray e Mas, lo sguardo rivolto
ancora rivolto alle torri delle Cave.
Dopo aver saputo delle Cave di Marmo Nero, Rebecca aveva
organizzato un sopralluogo per studiare il nemico, convinta di poter agire
come aveva fatto per Madrigal. D'altronde adesso disponevano di un
numero maggiore di guerriere e potevano contare su Alto Castello come
base, nonché su di un numero maggiore di armamenti; inoltre le Cave
erano a pochi giorni da Alto Castello, a sud-est. La donna non aveva mai
sospettato l'esistenza di quel luogo perché a sud-est il nemico era troppo
pericoloso, ragione per la quale non si spingevano in quella direzione per
le razzie. In genere attaccavano ad ovest, dove gli approvvigionamenti
erano maggiori e le guardie in minor numero.
Quando infine giunsero nel luogo che Giada aveva visto con lo
spirito, a Rebecca il sangue era salito in testa, martellando le tempie e
poi era ridisceso nella gola, bruciandola per la delusione e la paura.
Ciononostante aveva insistito per avvicinarsi al territorio, cupa.
Le Cave di Marmo Nero sorgevano in un territorio pianeggiante, in
campo aperto ed i giacimenti erano circondati da nove torri, alte quindici
metri. Un muretto di appena un metro e mezzo le delimitava, ma esso era
sorvegliato da una guardia ogni tre metri. C'era un gran viavai di gente
armata e di schiavi; l'attività di estrazione del Marmo Nero era nel pieno.
A conti fatti, nella Cave di Marmo Nero potevano esserci più di
duemila nemici. Ma nelle gallerie, quanti altri uomini potevano trovarsi?
Rebecca lo aveva compreso prima ancora di vedere la cavalleria.
Non avrebbe potuto liberare gli uomini delle Cave.
Non da sola, quello era certo. In campo aperto lei e le sue guerriere
non avrebbero avuto una sola possibilità ed era quello che un secondo
378
prima Freccia Letale aveva provato a dirle. A sud delle Cave si trovava
un bosco piuttosto fitto, forse l'unica zona impossibile da disboscare; fu
lì che si accamparono Spezzacolli ed i suoi.
“Non ce la faremo mai così” dichiarò Freccia Letale accendendosi da
fumare.
“Non come combattiamo noi” convenne il suo capo.
Mas si sistemò la pipa e diede fuoco. Dopo aver preso una boccata
profonda ed aver espirato con anelli di fumo, disse: “Potremmo
addestrare gli uomini”.
“Ci vorrebbe troppo tempo” rispose Rebecca.
“Che cosa proponi?” era Giada.
George fece un cenno a Tray di passargli del tabacco azzurro-nero e
si fece una sigaretta: “Potremmo attaccare di notte”.
“Anche fosse, quella povera gente non sarebbe in grado di correre e
scappare abbastanza in fretta per scampare ai nemici e noi siamo sempre
troppo pochi per contrastarli, anche al buio” rispose desolata Rebecca,
scambiandosi un'occhiata con Tray.
Cadde il silenzio.
L'unico rumore, a parte quelli del bosco, era prodotto dal legnetto che
Rebecca usava per scavare la terra in una minuscola buca, per scaricare
la tensione. Lei voleva liberare quella gente. Lei voleva mettere fine a
quella schiavitù disumana. Lei si sentiva annientata dall'impotenza.
Si accorse di avere gli occhi pieni di lacrime; Tray le passò una mano
calda sulla schiena.
“Ehi, Spezzacolli” le sussurrò a mo' d'incoraggiamento.
“Ehi, Freccia Letale” rispose l'amica di rimando.
I due uomini tacquero davanti all'emotività di Spezzacolli. Giada
scostò una ciocca di capelli scuri dal viso di Rebecca:
“Avanti” la consolò.
“Scusate. - Rebecca si asciugò il volto con la manica della casacca
verde scuro – E' da idioti mettersi a frignare, lo so. Ma il fatto è che non
ne posso più di tanta violenza... cioè, avete visto quegli uomini? Gente
libera che fino a poco tempo fa aveva una famiglia e ora è... - alzò gli
occhi su di loro e sorrise appena – Davvero, ragazzi, scusatemi. Forse mi
sento così perché non ho più voglia di combattere”.
“O forse perché pensi a tuo marito” disse Tray.
Mas, George, Giada e Rebecca si scambiarono un'occhiata silenziosa.
Tray non sapeva di Corin.
“Penso sempre a mio marito” mormorò Rebecca con voce roca.
“Pensi possa essere là?” insistette l'altra.
379
Mas si schiarì la voce: “No, ci sono ottime possibilità che lui sia con
gli uomini di Mayster”.
“Bene. - sussurrò Tray – Bene” - qualunque cosa volesse dire bene per
Tray, che era gelosa alla sola idea che un uomo toccasse la donna che le
aveva ridato la libertà.
Ricadde il silenzio nella radura. Rebecca aveva riacquistato freddezza
e lucidità. La videro tutti che stava pensando; se ne accorsero perché
aveva alzato gli occhi di smeraldo sullo scorcio verso le Cave ed aveva
smesso di scavare con il suo legnetto.
Alle sue spalle il sole aveva iniziato la discesa e lasciare il suo posto
alle tenebre. Rebecca alzò ancora gli occhi sulle Cave e poi prese la sua
decisione:
“Torniamo ad Alto Castello. Mas, George, dovete riunirvi a Mayster ed
al suo esercito e preparare un piano con lui per la liberazione della Cave.
Posso mettere a vostra disposizione tutte le mie guerriere per rendere il
sentiero sicuro e procurarvi tutto ciò che potrò. Tray passami la carta e la
matita: voglio fare una pianta delle Cave. - alzò gli occhi su Mas –
Portate la mappa a Mayster, sono sicura che lui saprà cosa farne”.
Mas tirò appena le labbra in un sorrisetto.
Nel petto, il cuore di Rebecca batteva impazzito. Voglio Corin.
5.
La governate culona – che di nome faceva Rosie ma che per Ground
rimaneva la Culona – si fece una gran risata quando seppe della
conversazione di quella mattina tra il Marchese e la Cara Cugina. Tanto
più che la principessa aveva pianto lacrime di coccodrillo mentre Rosie
le sistemava il vestito prima che si cambiasse per il pomeriggio.
“Così si è lamentata?” rise Ground, versando del vino alla governante,
che si era fermata da lui a parlare.
“Oh, sì! Ha pianto così tanto che le è venuto il singhiozzo” assicurò
Rosie, tracannando il vino. Erano soli nella stanza e l'uomo l'aveva
convocata per decidere gli ultimi dettagli della sua partenza in incognito
per la città.
“E quindi? Verrà?”
“Naturale che verrà. Le ho detto che si è lamentata fino a poco fa di
avere solo leccaculo ed ora che c'è un uomo vero e sincero a mostrarle la
realtà, lei si tira indietro. Sarebbe da ipocriti, girare le spalle, non sarebbe
meglio di quei quattro imbecilli”.
380
“Hai dei metodi discutibili per convincere la gente ad ascoltarti”.
“Fintanto che sono efficaci vuol dire che sono buoni”.
Ground studiò quella donna e si disse che era un peccato che fosse
tanto brutta, perché aveva una testa niente male. E, tutto sommato, il
culone poteva essere visto anche da altre prospettive...
“Non ci pensate, porcello” berciò lei sogghignando.
“Che cosa?”
“Mi stavate valutando” rise di lui.
“Può essere”.
“Ce l'ho già un uomo che mi valuta, Marchese. E non ne voglio altri”.
“Ne sei così innamorata?”
“Lui lo è. Se mi becca con un altro mi fa la pelle. E con lui non
scherzerei, se fossi in voi... è il nostro guardiacaccia”.
Ground non fu così bravo a nascondere la sorpresa: il guardiacaccia
era un ragazzo sulla trentina, alto, molto ben piantato, biondo e dai
lineamenti perfetti, le spalle quadrate e la pelle dorata dal sole dell'estate.
Tutte le servette gli morivano dietro (e non solo loro). Le dame del
castello lo rincorrevano per avere una sua qualunque attenzione.
“Lui?” forse più che sorpreso Ground era incredulo.
Rosie scoppiò a ridere. “Già, lui!”
Ma che diamine ci trovava quel manzo in una culona come lei?
“Quello che ci trovate voi” rispose lei, come se gli avesse letto nella
mente.
“Va bene, mi arrendo, donna. Allora, la tua signora si unirà a me?”
“Ha già fatto preparare i bagagli. Ci sono tre carrozze al vostro seguito”
e scoppiò a ridere all'idea dell'anonimato con tre carrozze dallo stemma
reale.
Ground storse la bocca sfinito dalla stupidità di Justine e finì di bere
con Rosie. Alla fine andò a dormire alticcio perché quella culona
sputasentenze era anche capace di reggere l'alcol ed era sobria quando lo
salutò.
Poche ore dopo, nel buio che precede l'alba, quando l'aria è più fresca
e non sa ancora del nuovo giorno, Ground andò a bussare alla porta delle
stanze di Justine.
“Ma cosa...?” rispose la cameriera che dormiva nell'anticamera per le
emergenze della principessa.
“Sua Maestà deve alzarsi” ingiunse Ground superandola.
“Ma... mio signore, non è ancora l'alba!” provò a fermarlo quella.
“Apposta sono venuto ora. Nessuno ci deve vedere andare via”.
“Eh?”
381
Ground spostò con fermezza la cameriera e le fece un segno secco di
tacere. La donna rimase immobile al suo posto, mentre lui faceva
irruzione nella camera di Justine.
La Cara Cugina dormiva poco elegantemente con la bocca spalancata
e russava, producendo poi dei gorgheggi con la gola; con un gesto rude
Anton la scosse per la spalla: “Avanti, Justine, è ora”.
La donna morsicò l'aria, aprendo a fatica un occhio. Quando infine le
riuscì di mettere a fuoco il suo interlocutore, lanciò un grido inorridito:
“Marchese, ma che diavolo ci fate qui?”
“Allora, venite con me?”
“Certo che vengo con voi, ma quando sarò pronta e...”
“Non c'è tempo” fece secco lui, spostandole le coperte. Justine aveva
una camicia da notte così pesante che sembrava avere indosso altri due
lenzuoli. Non vide nulla di compromettente.
“Come vi permettete!” gridò lei.
“Alzatevi” lui non si scompose e la tirò in piedi per un braccio.
“Io vi... voi siete un... un....”
“A dopo i complimenti, Madama. Abbiamo poco tempo” Ground la
spogliò della camicia da notte e finalmente sentì la pelle calda e liscia
della donna. No, tutto sommato non era male. Scopabile. Le mise tra le
mani il vestito: “Vi vestite da sola o devo fare io?”
“Oh...! Oh! Dov'è la mia cameriera? E i capelli... il trucco...”
“Muovetevi!” tuonò lui.
Justine credette sul serio che lui l'avrebbe percossa se non gli avesse
obbedito. Così si vestì in tutta fretta e lasciò perdere il corpetto,
l'acconciatura, il trucco ed ebbe a malapena il tempo di allacciarsi gli
stivaletti, prima di essere trascinata via.
Nella parte posteriore del cortile, quella riservata alla servitù, li
attendeva una carrozza.
“Salite” ingiunse il Marchese senza tante cerimonie.
Justine obbedì e protestò debolmente: “Ma il mio bagaglio... la mia
roba...”
“Non vi serve. Dobbiamo viaggiare in incognito, se sarà necessario
compreremo qualcosa”.
Lei abbassò il capo e salì sulla carrozza con un singulto. Ma chi
aveva fatto entrare nel suo castello? Ma come poteva quel...
“Via” impose Ground al cocchiere. L'uomo si sedette al fianco della
principessa e pose la grande mano sulla sua. Era calda e le parlò ora
rassicurante:
“Justine, fidatevi di me. Non vi sto abbandonando, ma voglio solo
382
mostravi la realtà che altri vi hanno nascosto con le menzogne. Voi non
siete sciocca né ingenua... se pensassi questo di voi, allora avrei fatto
come gli altri pretendenti. Io ho bisogno veramente di voi”.
Era la prima volta che Ground le parlava con quella dolcezza.
Justine cercò il suo sguardo, attenta. Nessuno le aveva mai detto che
aveva bisogno di lei, neppure l'amato marito. Quest'uomo venuto dal
Nord, con i suoi modi bruschi, invece era diretto e spontaneo. Anton non
nascose il suo sguardo a quello di lei, perché gli credesse.
Dal suo punto di vista, sì, aveva bisogno di lei, ma per ottenere il
potere. Una volta che l'avrebbe ottenuto, Justine poteva tornare ai suoi
ricami.
Nell'aria frizzante e violetta della prima alba lasciarono il Palazzo
Reale.
Non appena furono in città, Justine venne assalita dal vociare della gente
e dagli odori pungenti della città: pesce, carne cotta, pane appena
sfornato, dolci, verdure marcite, piscio e merda, vino e zaffate del sudore
della gente che lavorava da diverse ore con il caldo estivo. La Cara
Cugina fu sopraffatta ed ebbe un mancamento. Senza tanti complimenti e
con divertimento, Ground le aprì le tendine della carrozza, cosicché lei
fosse alla mercé della città.
“Che diamine fate? - ruggì lei rabbiosa – Chiudete! Chiudete!”
“Siamo venuti per vedere, non per spiare” replicò lui.
“Ma io voglio che chiudiate le tende!”
Per tutta risposta lui strappò le tende e le buttò per strada. La fissò
senza dire una parola e lei si strozzò per l'indignazione.
Allora tenne la schiena eretta e fissò fuori dalla finestra della carrozza
con sufficienza la gente che lavorava, che parlava, che rideva,
bestemmiava e litigava. Lentamente la vita della città ebbe la meglio
sull'orgoglio di quella piccola donna egoista: vide i bambini magri che
chiedevano l'elemosina in braccio a madri ancora più magre; vide gli
uomini che si spaccavano la schiena per un salario miserissimo, ma pur
sempre un salario; molte botteghe erano chiuse e c'era chi vendeva gli
oggetti della propria casa. Vide piccoli ladri e vide gli scommettitori,
vide chi chiedeva uno sconto sul pane e vide i ricchi commercianti che
buttavano pagnotte appena sbocconcellate; udì bestemmiare contro di lei
e suo cugino, udì comizi di chi arruolava gente per unirsi a Jacob di
Weer.
Nel cuore della città sterminata, Ground fece un cenno al cocchiere di
fermarsi.
“Va bene qui” gli disse.
383
“Per quanto vi devo attendere?” domandò l'uomo.
“Vai via, torna a palazzo. La Cugina ed io torneremo per conto nostro
tra qualche giorno” gli allungò una borsa con del denaro.
Justine, ormai senza più forza, scese dalla carrozza e la guardò
svanire inghiottita dalla folla. L'unica via di salvezza da quell'inferno.
Con gli occhi pieni di lacrime di umiliazione, si volse verso il suo
compagno.
“Andiamo?” le disse lui, porgendole il braccio.
“Dove? Dove?” gli rispose con rabbia.
Ground le fece passare il braccio perché si appoggiasse al suo e
scosse la testa divertito. Passeggiarono per le strade e Ground si fermò a
parlare con tante persone: fu così che Justine scoprì che quella era una
delle arterie principali della città e che da due anni ormai si erano rotte le
fognature, ma che nessuno aveva fatto nulla per ripararle. I soldi? I soldi
li aveva il Consigliere, ma lui li stava spendendo per la ronda di guardia
contro quelli del Quartiere a Nord e poi, ovviamente, a puttane. Le
chiamava amanti ma erano sempre puttane. Così, con le fognature a
pezzi erano venuti fuori i topi e con loro il colera. Colera e tifo, la
dissenteria si era portata via quasi tutti i neonati nati nell'ultimo anno.
E i medici?
Quali medici? - risero in faccia a Justine. John Henry aveva istituito
un ordine di guaritori pagati dalla casa reale per le fasce più deboli, ma
erano stati i primi ad essere senza lavoro e, chi non poteva pagarsi il
medico, moriva.
Camminarono lungo una via laterale e vennero fermati da più di una
dozzina di ragazzine tra i dieci e sedici anni. Erano prostitute. Alcune
non avevano ancora neppure un accenno di seno, ma sapevano tutto sul
sesso. Chiesero se Ground volesse questo o quello che loro non avevano
problemi, ma il pagamento era anticipato.
Justine rimase sconvolta.
“Lei sta a guardare? - chiese una tredicenne accarezzando i capelli di
Justine – A te piace guardare?” le chiese amorevole.
“Oh, Grande Hilu...!” la donna ebbe un gemito strozzato e se la diede a
gambe verso la strada principale. Alle sue spalle Ground rideva.
La raggiunse e le fece fare il giro della via. Dall'altra parte c'erano le
facciate di eleganti botteghe con commessi altrettanto eleganti. Ground
entrò in un di queste botteghe e chiese se avevano qualcosa di speciale.
Di fresco. E strizzò l'occhio al padrone del negozio.
L'altro, senza sorridere, gli fece un cenno di seguirlo e li condusse nel
retrobottega. Una delle bambine che avevano visto poco prima era lì che
384
attendeva i clienti.
Justine guardò il bottegaio, poi la bimba: era sua figlia!
Ground vide l'espressione sconvolta della principessa e comprese che
bastava: pagò il bottegaio e portò via la compagna.
Justine crollò appena fuori dal negozio. “Grande Dea...! Una
bambina...!” singhiozzò.
Ground si strinse nelle spalle, come a dire che lui aveva detto la
verità.
Dopo fu tutto diverso. Dopo fu Justine a parlare con la gente.
Conobbe chi lavorava quindici, diciotto ore al giorno e faceva tre o
quattro lavori diversi per sfamare la famiglia; conobbe madri di sei o
sette creature che prestavano servizio come serve e i figli più grandi che
si accollavano i piccoli; della scuola obbligatoria di John Henry non era
rimasto più nulla. Si vendevano pani fatti con farina e segatura perché
quelli veri costavano troppo, si vendeva di contrabbando e si rubava pur
di mangiare. Oh, sì, c'era della polizia, ma non poteva fare granché: era
una polveriera.
Sulla pelle di Justine passarono mille storie e mille voci, così a sera,
quando dovettero trovare un posto per dormire, la donna si accontentò di
una locanda umida e mal illuminata. Avevano una sola stanza e tanto le
bastò: si buttò sul letto con gli abiti addosso e pianse tutte le lacrime che
aveva per essere stata tanto cieca, sorda e stupida.
Anton rimase ad ascoltarla piangere e si fumò la sua pipa davanti al
fuoco del camino. Non le disse nulla e le si coricò al fianco sullo stretto
lettino, fianco contro schiena. L'odore della pelle delicata di Justine gli
pervase il corpo, nel buio il Marchese ricordò il tocco di quella mattina e
represse qualsiasi impulso. Ci sarebbe stato il tempo per farlo – si ripeté.
Sfinita dalle lacrime Justine si addormentò e lui passò una notte in
bianco.
Il mattino seguente la donna pareva passata sotto un trattore, con il
volto pesto e gli occhi cerchiati. Pagarono il locandiere e se ne andarono
senza meta per la città.
In questo secondo giorno la principessa imparò che Hakne non era
solo devastazione, ma anche speranza e forza. Nonostante le brutture,
nonostante la miseria, la gente si amava, ci si sposava, nascevano
bambini e, meraviglia delle meraviglie, le ragazze si sceglievano l'uomo
da sposare e non erano i genitori a dettare le condizioni della loro
unione. Forse i piccoli non andavano a scuola ed erano senza scarpe, ma
giocavano e disegnavano sui muri con gessetti colorati; le loro risate
riecheggiavano fra le case strette.
385
C'era miseria, sì, ma si viveva. E quello era un miracolo.
Alla sera, quando si fermarono per la notte in un'altra piccola
locanda, Justine era più tranquilla. Taciturna ma tranquilla. Dormirono di
nuovo fianco a fianco e senza cambiarsi d'abito e lei rivolse al compagno
un'occhiata di valutazione, ma poi chiuse gli occhi e si assopì.
Sarà una buona moglie, - pensò Ground osservandola russare.
Sì, sarebbe stata una buona moglie, che lo avrebbe aiutato in silenzi e
avrebbe capito.
Il terzo giorno Justine era pronta per affrontare un bordello. E si
sedette con le tenutarie a parlare, a capire in che stato era il Regno di cui
era reggente.
La terza sera Justine sorrise divertita al compagno nell'ennesima
piccola locanda: “Devo lavarmi, volete assistere anche a questo?”
Lui ebbe la prontezza di riflessi e la lucidità mentale per scendere
sotto a farsi una birra. Ma quella sera fu costretto ad assentarsi per altri
bisogni; difatti si ritrovò nuovamente a dormire al fianco di Justine, ora
pulita e profumata.
Il quarto giorno Justine andò a parlare con i capi-quartiere.
La quarta notte Ground evitò di sdraiarsi al fianco della compagna,
che lo guardava divertita. Lui lo era un po' meno.
Il quinto giorno lei lo ringraziò di cuore e capo chino: “Anton, – era
la prima volta che lo chiamava per nome – vi devo le mie scuse”.
La quinta sera lui si scusò e disse che doveva assolutamente uscire.
“Non uscite. - gli rispose Justine – Non avete bisogno di andare fuori
per quello”.
“Ne ho bisogno finché mi date del voi”.
“Ti stavo portando rispetto” sogghignò lei.
Lui richiuse la porta della stanza. “Ah, adesso giochiamo, eh?”
sussurrò, afferrandola per i fianchi.
Justine non era un'amante esperta e non era un'amante eccezionale.
Tutto sommato nella norma, ma era una donna onesta e come tale faceva
l'amore: dava ciò che poteva e prendeva ciò che poteva. Ma aveva questa
pelle così morbida e soffice... affondando le labbra tra i suoi seni aspirò
un profumo di pulito che nessuna delle donne avute in precedenza
possedeva.
Il sesto giorno Justine dichiarò che era ora di tornare a palazzo.
Percorsero gran parte della città a piedi, prima di trovare un cocchiere
libero e pronto a condurli al Palazzo Reale. Erano vestiti con gli abiti di
quando erano partiti e, nonostante le buone intenzioni, non erano affatto
eleganti ed in ordine: il percorso da Hakne al palazzo era lungo e molti
386
dubitarono che avessero il denaro per pagare quella corsa.
Justine non perse le staffe e lasciò che Ground si facesse valere con il
suo solito cipiglio. Al tramonto erano alle porte del Palazzo Reale e
lasciarono una cospicua mancia al cocchiere, ancora incredulo di aver
condotto la Reggente al trono a casa.
Quando Justine di Malle varcò il portone del palazzo non era più la
stessa di quando era partita e Rosie se ne accorse nel momento in cui la
scorse: nei suoi occhi albergava la consapevolezza, la calma di chi ha
trovato la sua strada e finalmente un uomo – in tutti i sensi.
“Preparami un bagno, Rosie. - disse alla governante – e da mangiare.
Anton, tu cosa vuoi?”
Il Marchese ordinò pollo arrosto, verdure grigliate, formaggi freschi e
del vino freddo.
“Bene, tutto nei miei appartamenti” terminò Justine e si ritirò in camera
con il Marchese per mano.
Lui, beffardo, si volse verso Rosie e strizzò l'occhio d'intesa.
In camicia da notte, profumata e con la pancia piena, Justine era
seduta al suo piccolo tavolo per scrivere la lettera con cui invocava la
Riunione del Consiglio.
Sbattuto sulla poltrona, Ground la contemplava: i capelli che le
ricadevano sulle spalle morbidi, l'espressione assorta. La luce della
candela cancellò le rughe ed i segni del tempo dal suo viso e lei apparve
bella, come doveva esserlo stata da ragazza.
“Ho finito” disse infine posando la penna.
“Bene” Ground si alzò dalla poltrona.
“Sono... - lei si morse il labbro inferiore – non ti nascondo che ho
paura”.
“Di che cosa?” le sfiorò i capelli.
“Quelli sono sciacalli. Mi faranno a pezzi”.
“E' per questo che ci sono io. Sarò il tuo portavoce per conto del nuovo
esercito reale. Tu dovrai solo annunciarmi, al resto ci penso io”.
Justine alzò il volto verso di lui. Adesso i suoi occhi erano illuminati
di assoluta fiducia nei suoi confronti. “Come sempre” mormorò.
Anton le baciò la fronte e si prese la lettera: “Adesso faccio io, sì”.
Fuori dalla porta dell'appartamento di Justine c'era un valletto che
aspettava di portare la missiva allo scrivano perché la copiasse e la
portasse in firma alla principessa.
Ancora per poco. - si disse il Marchese – Ancora per poco, perché
387
presto avrebbe preso lui tutte le decisioni.
6.
Neropece represse la rivolta con il pugno duro. Fece giungere le unità
militari stanziate a nord e chiese aiuto alla vicina città-stato di Chronock,
che gli doveva più di un favore, quando erano stati attaccati dalla
popolazione degli Alti Neri.
Intanto, però, Na'h era devastata e nulla era più come prima. Molte
delle famiglie degli Stregoni erano state decimate ed erano state
compiute nefandezze che solo il tempo avrebbe potuto far scordare. Ma
non ora, ora era troppo presto.
L'orrore non finì. Tutti pensarono che fosse passato, come un
temporale estivo, ma non fu così: il vortice creato da Neropece demolì
una parte della Torre, la città era invisibile e pochi lavoravano per
rimetterla in sesto. Beatrice rinvenne due giorni dopo il massacro e
scoprì di aver perduto il latte.
Scoppiò in un pianto acuto e disperato che la lasciò senza forze e
senza voglia di vivere. Il suo compagno non seppe cosa fare e non c'era
guaritrice che potesse aiutarla.
Se solo avessi il potere di guarire – inveì contro di sé lo Stregone –
potrei ridarle il latte per la nostra bambina.
La vita di tutti riprese con lentezza inesorabile. Dovettero cercare una
balia per Kathy e Beatrice cominciò a sprofondare in un abisso che non
aveva fondo: al senso di colpa per non essere più capace di alimentare la
sua piccina si aggiunse quello di non essere stata in grado di mettere in
salvo i suoi figli. Per come la vedeva lei, anzi, li aveva solo messi
maggiormente in pericolo e, se non fosse stato per Jason ed i suoi poteri,
sarebbero morti di sicuro. Ma che madre era quella che non era capace di
difendere i suoi stessi piccoli?
Si sentì inutile, di quell'inutilità che annulla ogni particella del corpo.
Sentì di scomparire, giorno dopo giorno, nella consapevolezza di non
essere capace di difendere i suoi figli. Che cosa ne sarebbe stato di loro,
con lei al seguito? Che cosa poteva dargli per il futuro?
Smise di mangiare – tanto non doveva più allattare – e smise di
dormire – tanto le notti le passava in bianco a consolare i figli per gli
incubi.
Era sola. In tanti anni di convivenza con Neropece non aveva mai
388
chiesto il suo aiuto, ma adesso non sapeva più come fare. Scoppiava a
piangere per nulla, si sentiva stanca e affaticata, demoralizzata e nessuno
a Na'h aveva tempo di ascoltarla. In fondo, a parte i suoi figli a cui aveva
dedicato la vita e Neropece, non aveva amici o parenti da cui rifugiarsi.
Neropece si accorse del cambiamento della compagna e non seppe far
altro che prendersela con se stesso. Inizialmente ci fu un timido
approccio e fu vinto dal bisogno viscerale di averla tra le braccia, nuda e
sua come sempre; Beatrice non si tirò indietro, ma il suo corpo sussultò
anche alla più lieve carezza. Lui fece più piano che poté, ma fu inutile:
Beatrice aveva gli occhi spalancati nel buio e le labbra serrate per
trattenere il dolore.
Neropece si sentì alla stregua di un mostro. Le domandò scusa in
mille e mille modi differenti e non la toccò più. Si gettò sul lavoro di
ricostruire Na'h e mettere insieme l'esercito adatto per affrontare Hakne
ed andarsi a prendere Giada; cominciò a passare gran parte del suo
tempo nel laboratorio e spesso era così stremato da non riuscire neppure
a parlare.
Beatrice vide il cambiamento di Neropece e non poté far altro che
addossarsene la colpa: non la voleva più. D'altro canto, quale uomo
avrebbe voluto una incapace di proteggere la loro prole? Poteva capirlo,
Neropece. Sebbene l'aggressione non fosse stata certo una sua idea, si
sentiva colpevole di non essere stata in grado di difendersi. Doveva farlo,
no? Era un suo compito.
Smisero di parlarsi. Lui non sapeva che dirle, allarmato per la
magrezza ed il pessimo stato di salute e lei non aveva il coraggio di
chiedere aiuto, dacché lui non aveva alcun dovere nei suoi confronti.
Fondamentalmente rimaneva una verità: lei era una Donna-sorda.
Smisero di cercarsi. Lui con la paura di ferirla ulteriormente nel voler
far l'amore e lei con la convinzione di suscitargli ribrezzo.
Na'h si riprese, loro toccarono il fondo.
Beatrice entrò negli appartamenti di Neropece con il vassoio della
cena e lui le lanciò un'occhiata di traverso, poi rivolse la sua attenzione
alle carte sulla scrivania: stava mettendo a punto gli ultimi dettagli per
recarsi ad Hanke a prendere la principessa Giada.
La donna aprì la bocca per parlare, lui la anticipò: “Vado a cercare
Giada. Partirò tra qualche mese, perciò c'è tempo per organizzare anche
qui un'ala della Torre per il suo arrivo. Che ne dici?”
Beatrice sentì gli occhi riempirsi di lacrime e un urlo pungente, di
fuoco nella gola. Represse ogni rabbia e dolore e smise di guardare
l'uomo che amava e che avrebbe sempre amato e che le aveva frantumato
389
il cuore in milioni di piccolissimi pezzetti.
Pose il vassoio sulla scrivania, senza una parola.
Ero venuta per chiederti di aiutarmi. Ero venuta a implorarti di starmi
accanto perché qui è tutto nero e non vedo via d'uscita. Tu eri la mia via
d'uscita ed ora sei la mia prigione.
A Neropece aveva dato la sua adolescenza, aveva dato la sua
verginità, il suo cuore incondizionatamente, cinque figli e, nonostante
tutto, lui pensava di dover rafforzare la razza. Il suo amore non valeva
nulla, lei non valeva nulla.
Con i passi veloci di un topo che fugga nella sua tana, Beatrice lasciò
gli appartamenti dello Stregone e chiuse le porte alle sue spalle.
Dunque, era finita.
Scoppiò a piangere.
Neropece l'udì e si costrinse a non accorrere, perché non doveva
assolutamente perdere tempo adesso: prima avesse fatto quella cosa con
Giada, prima Beatrice e i suoi figli sarebbero stati al sicuro. Avrebbe
acquisito nuovi poteri e li avrebbe resi immortali.
Non capì e rimase ad ascoltarla, impotente.
390
CAPITOLO 21.
1.
Rebecca fece un cenno con la testa a Giada, quando la vide comparire
sulla torre, la torre isolata su cui si rifugiava Rebecca per stare
completamente sola con se stessa e con i suoi ricordi. Adesso faceva un
po' meno freddo e l'aria della montagna recava con sé i mille profumi
della primavera. Rebecca si sentiva malinconica e gioiosa; triste ed
euforica. Quando inspirava l'aria frizzante e lasciava che lo sguardo
cadesse oltre le montagne si ritrovava più spesso a sorridere che a
piangere.
Corin era così vicino adesso!
Quando avevano fatto ritorno dal sopralluogo delle Cave di Marmo
Nero, la comunità delle donne sole di Alto Castello non aveva preso bene
l'impotenza di Spezzacolli riguardo alla liberazione degli uomini. Era
stato difficile spiegare loro che in campo aperto e con la loro tecnica di
combattimento sarebbe stata una carneficina. Molte di loro, anche se
madri, erano pronte a lasciare tutto pur di riabbracciare i loro mariti.
“Non vi posso dar torto” aveva risposto loro Spezzacolli.
“Se aspettiamo Mayster, potremmo non arrivare in tempo!” aveva
reagito una di loro, con il figlio neonato attaccato al seno. Era uno dei
figli dello stupro, ma la donna non aveva trovato il coraggio per
liberarsene e i fratelli maggiori lo avevano accolto con gioia.
“C'è il rischio. - convenne Rebecca, accarezzando la testa nel piccolo –
Ma se facessimo da noi, il rischio peggiore sarebbe di fallire e di morire
noi e loro. Ascoltate, Bella e Jasmine hanno riportato notizie vere:
Mayster è veramente a Madrigal”.
“E se John Henry decidesse di lasciare stare e non dare il suo consenso
per la liberazione?” contestò un'altra.
“Dubito che Mayster glielo permetterà” sussurrò Spezzacolli.
Cadde un silenzio teso tra le donne.
“Tu sei sicura che Mayster ci aiuterà?” mormorò la prima con le
lacrime agli occhi e le mani che accarezzavano dolcemente il neonato.
Rebecca si domandò quanto amore e quanta rabbia ci fosse in quella
carezza: lei stessa avrebbe amato suo figlio più della sua stessa vita e lei
stessa avrebbe odiato se stessa perché lui non era figlio dell'uomo che
391
amava.
Le due donne si scambiarono un'occhiata d'intesa. Non capitava
spesso a Rebecca d'incontrare una donna che, come lei, aveva avuto la
fortuna di amare un uomo fino alla simbiosi; perciò la comprensione era
totale. Rebecca sapeva quanto la donna stesse soffrendo per la
lontananza e l'incertezza della vita.
“Mayster ci aiuterà” affermò il capo risoluta, con quella risolutezza che
avevano imparato a conoscere a fondo.
Alla fine avevano ceduto.
Ora Giada osservava i monti insieme a Rebecca, incerta su quanto
l'amica avesse da chiederle.
“Perché mi hai portata qui?” le domandò infatti.
“Perché il panorama è meraviglioso, non trovi?” c'era un che di
sarcastico nelle parole della donna.
“Non avresti violato l'unico luogo tuo, se non ci fosse qualcosa dietro”
replicò la principessa con un sospiro teatrale.
Rebecca le sorrise appena: “Due anni in mia compagnia e già non ho
più segreti per te, eh? - fece una pausa – Tu invece continui ad averne”.
Giada evitò di incontrare il suo sguardo. “A che ti riferisci?”
“Tuo padre, Giada”.
“Mio padre sta bene dove sta” rispose lei, con una nota roca di rabbia.
“Questo è il punto. - Rebecca si lasciò cadere contro il muro della torre
e si sedette con le ginocchia al petto. Sembrava avere di nuovo dodici
anni – Io apprezzo il fatto che tu voglia renderti utile, ma sai anche che il
Regno ha bisogno della casata reale: ricongiungerti a tuo padre
significherebbe molto per tutti noi. Sarebbe come gridare ai nemici che
ci siete... una prova di forza”.
“Uhm” Giada si sedette al suo fianco e incrociò le gambe.
“Voglio sapere se il fatto di non voler vedere tuo padre è legato alla
volontà di rifuggire dal tuo ruolo o...”
“O semplicemente da lui” ammise la ragazza con le lacrime agli occhi.
Seguì un lungo silenzio. Rebecca aspettava quieta la confessione
dell'amica.
Giada alzò su di lei occhi celesti annacquati dalla rabbia cieca e dal
dolore. “Secondo te, con quale faccia potrei dirgli: 'Caro padre, vi
ricordate di me? Sapete che ho mangiato merda mentre voi giocavate a
nascondino?' - la principessa si lasciò sfuggire un singulto – Non dovrei,
Rebecca, ma io odio mio padre. Se posso, cerco di rimandare il nostro
incontro il più possibile”.
Rebecca non commentò.
392
Volse lo sguardo altrove, senza sapere come doveva sentirsi: lei non
aveva mai avuto un padre, ma le era bastato il ricordo di lui per crescere
in modo equilibrato. Pensò solamente che l'amica aveva ragione:
qualunque dolore è comprensibile come la perdita della persona amata,
ma abbandonare la propria figlia per più di dieci anni? Rebecca sapeva
che Corin, se fosse stato nei panni di John Henry, avrebbe portato la luna
sulla terra, piuttosto che perdere o lasciare i loro figli.
Aveva lasciato lei per salvare i loro figli.
Il pensiero la colse all'improvviso, come uno schiaffo. Che cosa
orribile aveva appena pensato! Che cosa ingiusta! Era stata lei ad
insistere perché mettesse i bambini al sicuro, prima di qualunque altra
cosa!
Scusami, Corin. Scusami, amore mio. Scusami se sono così umana e
così egoista.
“Va bene. - le disse alla fine – E' una cosa che posso capire. Ma prima o
poi dovrai affrontarlo”.
Giada si alzò in piedi. “Poi, Becca. Per il momento posso rimandare
ed è quello che farò”.
“D'accordo. - sussurrò l'altra con un sorriso mesto – D'accordo”.
Giada la lasciò sola e Rebecca appoggiò la testa contro il muro,
chiudendo gli occhi. Rivide Corin sparire dentro la loro casa e la terra
che la inghiottiva nera. Sussultò. Riaprì gli occhi e sentì la paura.
Quanti altri vicoli oscuri del suo animo non aveva ancora avuto il
coraggio di esplorare? E aveva avuto il coraggio di chiedere a Giada
perché non voleva incontrare suo padre?
2.
Marçela prese apparentemente bene il fatto che Mas dovesse partire per
Madrigal. George prese malissimo il fatto di dover partire senza l'amata.
“Quando tornerai? Lo sai già?” chiese Marçela rivestendosi. Mancava
un giorno alla partenza.
Mas osservò il lembo di pelle nuda e setosa prima che la stoffa lo
ricoprisse. Lei gli dava le spalle e sembrava noncurante. Si stava
infilando le pantofole per andare a preparare la colazione.
“Che ne so, quando torno? Il prima possibile, comunque” rispose aspro
come sempre.
“Ah” lei si mise in piedi ed evitò di incrociare il suo sguardo. Aveva gli
occhi lucidi di lacrime.
393
Mas non ci capiva molto di donne e sentimenti, non fosse altro che
quella era la prima volta in trentacinque anni di vita sessuale attiva che si
innamorava; ciononostante comprese che quelle lacrime non erano un
buon segno.
Saltò giù dal letto, nudo com'era, prima che lei aprisse la porta della
loro stanza e le cinque pesti impedissero loro di avere un discorso da
adulti.
“Aspetta” la fermò, ponendo una mano massiccia sul battente.
Marçela evitò ancora di guardarlo. “Aspetto, cosa? Devo fare la
colazione per i bambini”.
“Possono aspettare un minuto ancora. Si sono svegliati adesso e
Matthie è ancora nel lettino. - le prese il mento tra le mani – che cosa
c'è?”
Marçela ricacciò le lacrime indietro e lo fissò indomita, come sempre.
“Cosa c'è, cosa c'è... c'è che devo andare a fare la colazione. Levati,
capitano”.
“Prima dimmi perché mi stai trattando così”.
“Così, come? Vuoi mangiare? Allora, levati da davanti alla porta”.
“Prima dimmi perché stai facendo così”.
Si scrutarono negli occhi, Mas vide la fatica che costava quella rabbia
alla sua donna. Ci vide dolore.
“Fammi uscire” impose lei, ergendosi per tutta la sua persona.
Mas non sapeva se essere incazzato o eccitato. Qualcosa non andava,
ma lei non si sarebbe piegata. Marçela non si sarebbe piegata a niente.
“Prima rispondimi”.
“Qui non sei in una caserma, capitano. Sei nella mia casa e nella mia
casa sono io che decido come e quando rispondere. Altrimenti quella è la
porta. - storse la bocca – Ah, già, dimenticavo te ne stai già andando.
Spero che la permanenza presso la mia famiglia sia stata di tuo
gradimento, arrivederci e grazie”. Questa volta Marçela provò a
strattonare la maniglia della porta per aprirla, ma la mano di Mas non si
spostò di un millimetro.
“Come sarebbe a dire, arrivederci e grazie?” sibilò.
“E' così che fanno i soldati, no? Arrivederci e grazie, ragazza, è stato
bello finché è durato. Ora, ti vuoi togliere dalle palle?”
“No”.
“Sei snervante”.
“Ah, io sarei snervante?”
“Mas devo andare dai miei figli”.
“Possono aspettare”.
394
Si fronteggiarono. Gli occhi di Marçela mandavano lampi e Mas era
su tutte le furie: adesso perché lo stava trattando così?
“Tu puoi aspettare. Loro no. Togliti!” strattonò ancora la maniglia della
porta con violenza.
Mas non tentennò. “Che cazzo ti prende, ragazza? Perché mi stai
trattando così?”
“Perché sì”.
“Perché sì non è una risposta”.
“Ah, lo è stato il tuo che ne so di quando torno? Tanto non tornerai. Tu
sei come tutti gli altri uomini: entri, ti pigli quello che ti piace e poi
sparisci. Sei un capitano di Corin il Fuorilegge”.
“E con ciò?”
Marçela lo fissò stralunata. “Per la Dea! O ci sei o ci fai, Mas!”
“Che cosa?”
“Sei un idiota. Levati da davanti alla porta”.
“Io non sono un idiota. Sei tu che non ti spieghi”.
“Se non lo capisci da solo, sei proprio un cretino”.
“La smetti?” sospirò lui.
“Di fare cosa?”
“Non rovinarmi gli ultimi due giorni qui con voi. Poi non ci vedremo
per settimane e...”
“Immagino che vorrai anticipare la partenza, per godere subito della tua
libertà”.
“Liber...? - Mas comprese all'improvviso e scoppiò a ridere – Tu sei
proprio una cavalla pazza!” rise.
“Lieta di essere tanto ridicola. Ti sei divertito abbastanza? Io ho...” al
colmo della delusione e del dolore che provava per quell'ennesimo addio
(che agli occhi di Marçela era l'ennesimo fallimento sentimentale dopo
suo marito e i vari amanti) lei provò di nuovo ad aprire la porta, ma Mas
non l'accontentò.
Mas avvicinò il volto al suo ed andò a respirare il suo fiato che
sapeva di pane appena sfornato. “Smettila, ragazza”.
“Mi chiamo Marçela” aveva le guance rigate di lacrime.
“Marçela, piantala. Io tornerò da te”.
“Ti sarai già dimenticato di me al primo villaggio abbastanza grande da
avere un bordello”.
“Non ho bisogno di un bordello io per trovare una donna”.
“Ecco, appunto” Marçela si morse le labbra per non strepitare ancora di
più.
“Invece, tornerò da te”.
395
“Uff, promesse di un uomo che, peggio ancora, di mestiere fa il
soldato” lo sfidò, gli occhi rossi. Era sconvolta ed era bella da togliere il
fiato al suddetto uomo e soldato. Provò a baciarla, ma lei si scostò.
“Marçela, di che cosa hai paura?”
“Se non lo capisci, sei proprio un cretino” sussurrò infine, sconfitta.
“Hai paura che ti lasci da sola?”
“Sono già sola”.
“No, non lo sei. Ehi, ragazza, guardami”.
Riluttante, lei alzò lo sguardo e riprese a piangere piano.
“Io tornerò da te, Marçela. Perché ti amo, hai capito? E amo i nostri
figli, va bene?”
“I mariti tornano, - rispose lei con un soffio sofferente di un cuore in
pezzi – ci sono passata troppe volte per non saperlo. Gli uomini
promettono di tornare e non lo fanno. Anche se amano i nostri figli”.
Mas studiò il suo volto ancora per un istante. Si chiese quale fosse il
vero desiderio della sua donna, come vederla felice e come essere certo
di non farle del male partendo. Questa volta lei gli permise di affondare
il viso nei suoi capelli e di respirare tutto il suo profumo sul collo.
Mia. - pensò il capitano di Corin perso nell'estasi di quel calore – Lei
è mia.
Marçela aveva appena dimostrato di amarlo come amava i suoi figli:
non aveva combattuto per andare da loro, ma per stare con lui, anche
fosse per litigare.
“Ti prego, basta” lo implorò.
“Di fare cosa?”
“Capitano, parti e basta. Smettila di farmi del male... ne ho sopportato
troppo da quando mi hanno rapita” la donna appoggiò la fronte alla porta
chiusa, piangendo.
“Ti amo, Marçela. Non ho nessuna intenzione di farti male. - ma lei non
lo guardò. Mas giocò la sua ultima carta, anche se non era preparato:
mancava il bracciale e soprattutto lui non aveva uno straccio addosso.
Perciò lasciò la compagna a bocca aperta, quando le si inginocchiò
davanti: - Marçela di Weast, vuoi sposarmi?”
Marçela batté le palpebre assolutamente sorpresa.
“E...eh?” rantolò.
“Vuoi sposarmi?” le chiese una seconda volta lui.
Marçela lo fissò, come istupidita. Aveva partorito cinque figli di tre
uomini diversi, aveva già avuto un marito e adesso un capitano di Mastro
Mayster le stava chiedendo la mano... adesso che era veramente
innamorata, e lui nudo in ginocchio ai suoi piedi.
396
“...sì” rispose con un soffio.
Poi vide il suo fidanzato, il capitano fuggiasco e lo vide nudo in
ginocchio a chiedere la mano di una donna che praticamente doveva
essere finita. Scoppiò a ridere: “Sì!” ripeté con tutta la voce che aveva in
corpo.
Gli si gettò addosso e finirono per terra. Lei lo riempì di baci, quel
suo capitano fuggiasco, ora meno fuggiasco.
“Mar... Marçela, aspetta, la porta...”
Lei lo copriva di baci da togliergli il fiato e fortunatamente copriva
anche le sue nudità, perché i figli fecero irruzione nella stanza e
trovarono la madre vestita sul capitano nudo, per terra a baciarsi come
ragazzini.
Joe esclamò un: “Siete indecenti!”
“No, - gli gridò dietro la madre – siamo fidanzati!”
Perciò la sera prima della partenza fu celebrato il matrimonio tra Mas
e Marçela.
Rebecca aveva un sorrisetto divertito sulle labbra e Giada piangeva di
gioia, tenendo per mano il suo fidanzato ombroso, che intanto si
interrogava per la prima volta quando lui e Giada avrebbero potuto
convolare a nozze. Giada pareva non preoccuparsene – così come soleva
non preoccuparsi mai di questioni sociali -, ma lui sì: George era
consapevole di non possedere alcun titolo nobiliare e, a meno che le
regole non fossero state sovvertite, lui non possedeva nulla per sposare la
principessa Giada.
Così, nella sera delle nozze di Mas e Marçela, Giada piangeva di
felicità per l'amica e George piangeva dentro il cuore perché la donna
che amava non sarebbe mai stata sua.
Tray era stata quella che aveva preso il matrimonio di Marçela con
maggior equilibrio: “Così hai trovato un modo per sfogare la rabbia”.
“Perché percepisco una nota d'invidia?” la sbeffeggiò Marçela.
“Non sono invidiosa. Rammaricata, semmai: perdiamo una delle nostre
migliori guerriere” Tray tirò le labbra in un sorrisetto maligno.
“Adesso ti batto come faccio con le mie figlie” la sfidò l'amica.
“Prima devi arrivarmi almeno al mento” ribatté Freccia Letale.
Insieme a Rebecca avevano riso e negli occhi del capo avevano letto
malinconia mista a felicità. Marçela non sapeva che, per organizzare il
suo matrimonio, Rebecca rimandava di alcuni giorni la partenza degli
uomini che avrebbero portato finalmente sue notizie a Corin.
397
Mentre le sistemava il velo di un caldo color smeraldo sui capelli,
Rebecca aveva detto alla sua amica: “E' per sempre, Marçela? O è la
paura della solitudine?”
“E' amore, Becca. - aveva risposto l'altra con il cuore in gola nel vedersi
con l'abito da sposa per la seconda volta e ora per amore vero. - Ora
capisco, Becca. - la prese per le spalle, la fermò dinanzi al suo viso – Ora
so perché non hai mai avuto nessun altro”.
Rebecca aveva sorriso con dolcezza e l'aveva stretta in un abbraccio
forte. “Sii felice, ragazza, che te lo meriti. Sempre così, capito? Non ti
dimenticare quanto sei speciale”.
Ad accompagnare la sposa c'erano i suoi figli. Joe, il primogenito,
aveva avuto una proficua discussione con il futuro patrigno ed ora
accompagnava la madre all'altare rigido e solenne, meno bambino e più
uomo, con la consapevolezza di quel gesto e di che cosa avrebbe
significato d'ora in poi essere una famiglia. Le bambine erano adorabili
con ghirlande di fiori freschi tra i capelli e lo sposo questa volta era
vestito. Indossava l'alta uniforme del Grande Regno: i pantaloni di cuoio
nero, lucidi; la giacca di seta mista al cashemere di un blu cobalto lucido,
la camicia bianca e i capelli legati sotto la nuca. La barba fatta di fresco e
stivali al ginocchio lucidi da specchiarcisi. Per mettere insieme gli abiti
degli sposi tutto Alto Castello aveva dato qualcosa di suo e per due
giorni ogni attività aveva ceduto il posto alla preparazione di questo
matrimonio.
La sera del matrimonio faceva fresco, ma la notte era limpida e
benedetta da milioni di stelle. Erano così luminose, in quella notte di
primavera, che sarebbe bastato allungare una mano per prenderle e l'aria
pura della montagna alleggeriva gli animi per quel giorno di festa.
Fu Ada – sempre Ada – a sposare la coppia.
Rebecca, vestita con un semplice abito di velluto verde e con il
corpetto di lana ricamato, dovette ricacciare indietro lacrime di nostalgia.
Mentre gli sposi si baciavano, lei aveva chiuso gli occhi e invocato suo
marito. Il vento primaverile carpì il nome – Corin -, lo portò con sé oltre
le mura del maniero e lo fece volteggiare oltre la catena montuosa, le
pianure e le paludi; si posò sulle labbra di Corin, addormentato davanti al
camino, e rasserenò il suo viso.
Fu una bella cerimonia.
Un po' meno lieto il congedo dei novelli sposi. Scappò qualche
lacrima, qualche singhiozzo ed infine le mani si separarono.
“Spezzacolli” Mas le porse una mano, per salutarla.
Lei gli porse la borsa di cuoio con le carte per Mayster. “Per lui.
398
Abbine cura”.
Il capitano annuì e baciò la sua sposa ancora una volta. Marçela e
Mas si separavano, Rebecca e Corin si riunivano. Tutti attendevano il
tempo della pace.
Un pezzo di Rebecca varcò quelle mura ed intraprese il viaggio verso
Madrigal e verso la sua famiglia.
Adesso doveva solo aspettare. E non ne poteva più di aspettare.
3.
Questa volta, grazie alle guerriere di Spezzacolli che si assicurarono di
rendere la strada sicura, i due capitani ci misero circa ventidue giorni
per giungere a Madrigal. L'estate era agli inizi, ma nella pianura di Weast
aveva cominciato a fare un caldo secco; a rendere sopportabile la calura
si era alzato un venticello da est e le piogge non erano state così violente.
Tutto sommato andò loro molto bene.
Durante il loro tragitto, i due parlarono. Ora avevano argomenti in
comune: donne. George spiegò a Mas di come aveva conosciuto Giada la
prima volta, cioè sui muri di Madrigal. E Mas si spiegò finalmente
perché l'irrequieto ragazzo non avesse trovato pace fin quando non erano
giunti a destinazione.
Discussero della difficile situazione di George e Giada, che non
sembravano aver futuro e di questa principessa che non voleva essere
quella che era. Discussero del destino e di Marçela; Mas raccontò a
George di sua madre e di come la forza indomita di sua moglie gli
ricordasse la cocciutaggine di sua madre di voler crescere un figlio senza
padre perché suo padre non ne voleva sapere di lui.
Alcuni pezzi di strada li fecero con le guerriere di Spezzacolli e
impararono che la gerarchia femminile ha delle regole più rigide ed allo
stesso tempo più sottili di quella degli uomini. Se gli uomini
collaboravano per sopravvivere, le donne lo facevano per essere
vincenti; scoprirono che per una donna eccellere era una questione vitale.
Ognuna di loro non era mai soddisfatta di ciò che era e tentavano
continuamente di migliorarsi, fino alla frustrazione.
Alcuni pezzi di strada chiesero alle guerriere di Spezzacolli di
precederli, perché quattro donne tutte insieme erano impossibili da
gestire.
Perciò furono le donne a raggiungere per prime Madrigal ed
annunciare l'arrivo dei capitani.
399
“Ci sono solo loro?” domandò Jesse con il cuore in gola.
“In che senso?” chiese una delle donne.
“Non c'è anche una donna?”
La guerriera si scambiò un'occhiata confusa con Mastro Mayster.
Corin scosse la testa in direzione di Jesse e chiese alla donna: “Mio figlio
voleva sapere se con voi c'è anche Spezzacolli”.
“No, mio signore. - intervenne un'altra guerriera – Lei è rimasta ad Alto
Castello per i preparativi della battaglia delle Cave di Marmo Nero”.
Corin alzò un sopracciglio interrogativo.
“Il Capitano Mas possiede i documenti che vi manda Spezzacolli con i
dettagli. Quello che posso dirvi... ed è l'unica cosa che sanno tutti coloro
che abitano ad Alto Castello... è che Spezzacolli manda una richiesta
d'aiuto per liberare gli uomini deportati in questi mesi dall'esercito di
Weer alle Cave di Marmo Nero”.
Rebecca vuole aiuto?
Padre e figlio si scambiarono un'occhiata.
Le tre ore successive le passarono sulle mura di Madrigal in attesa di
veder comparire Mas e George, mentre Mark e Tommy giocavano con le
guerriere di Spezzacolli, che si meravigliavano di come quei due piccoli
soldatini assomigliassero così tanto al loro capo.
“Papà, - sussurrò Jesse a suo padre – perché la mamma non è venuta da
noi?”
“Se la conosco bene, perché ad Alto Castello ci sono le mogli di quegli
uomini e lei se ne sente responsabile” sospirò Corin.
“Ma perché non viene da noi?” la voce di Jesse si arrochì nel tentativo
di dominare le lacrime.
Voglio vedere la mia mamma!
Corin s'inginocchiò per essere alla sua altezza: “Soldatino, tua madre
sa quello che sta facendo. Credo che tra quei documenti ci sia anche la
risposta del perché lei non è venuta da noi, capito? Cerca di stare
tranquillo”.
“Dopo due anni è un po' difficile” borbottò il bambino.
“Ragazzino, tu vieni a dire a me quanto sono lunghi due anni?” ribatté
suo padre.
“Egocentrico” sbuffò Jesse.
“Da qualcuno devi aver pur preso” Corin sogghignò.
Finalmente le figure di Mas e George si delinearono all'orizzonte.
Corin non aspettò che Jesse se ne accorgesse: era già sulla porta esterna
ad attenderli. Il bambino divenne paonazzo di rabbia quando vide come
suo padre lo aveva lasciato indietro; gli mancavano troppi anni d'amore
400
pieno come quello che Corin e Rebecca avevano avuto per capire l'animo
devastato di suo padre.
Mas fece un cenno a George quando scorse la figura possente di
Corin sulla porta, ad aspettarli, con le braccia conserte e gli occhi corvini
socchiusi per la luce del sole.
Corin era Mastro Mayster.
Adesso George se ne rese conto, vedendolo con la divisa da riposo di
Mayster e Co'ah appesa al fianco. Sembrava addirittura più alto e grosso
dell'ultima volta che lo avevano visto.
Mas fermò il cavallo e ne discese. Con solennità s'inchinò dinanzi al
suo Primo Generale: “Mio signore, è un onore”.
Corin sogghignò: “Imparato le buone maniere, finalmente, vecchia
ciabatta?”
“Cercavo di insegnare qualcosa alla bietola qui alle mie spalle” ribatté
l'amico.
“Questa non me la voglio perdere” Mayster ghignò verso George, che
divenne vermiglio al solo ricordare il loro primo scontro. Era sempre
stato con Mayster ed aveva deriso Corin chiamandolo Mayster.
Il giovane capitano scosse la testa mesto: “Va bene, va bene, mio
signore. - lo raggiunse e s'inginocchiò al suo cospetto – Bentornato,
Generale”.
“Uhm, qualche volta sono gratificato dalla mia posizione” valutò
divertito Corin.
George si rimise in piedi, ma rimase sull'attenti.
Corin addolcì il tono della voce: “Riposo. Allora, come stai?”
“Io benissimo” e tacque. Corin comprese che c'era dell'altro, glielo
lesse negli occhi chiari. E comprese anche che alle sue spalle stavano
giungendo altri e che non poteva aggiungere alcunché.
“E tu, vecchia ciabatta?” Corin si rivolse a Mas.
“La vecchia ciabatta ha colpito, ragazzo” rispose a tono l'altro uomo.
“Oh-oh, ti prego fammi ridere”.
“Sono sposato”.
Corin sbarrò gli occhi per la sorpresa e scoppiò a ridere: “Tu, cosa?”
“Con Marçela. Una delle amiche intime di Spezzacolli. - i tre si
scambiarono un'occhiata d'intesa. Sì, adesso sapevano di Rebecca – E ho
dei figli... cioè, sono diventato il padre di cinque, splendide, piccole
pesti”.
“Oh, finalmente la smetterai di ridermi alle spalle” rise Corin.
“Ti faresti delle gran risate a vedere come ci vogliamo bene io e il mio
neo-figlio adolescente”.
401
Il Generale lo derise: “Adesso proverai anche tu l'inebriante
sensazione di un figlio adolescente che ti dice sempre di no”.
“Non ti dico sempre di no. - rispose Jesse, sopraggiunto in quel
momento – Te lo dico quando vai fuori di testa. Cioè, un giorno sì e
l'altro pure”.
“Ragazzo, lo sai vero che sono ancora in grado di bussarti?”
Jesse scoprì i denti nello stesso sorriso beffardo del padre e porse la
mano a Mas e George. “Bentornati”.
“Jesse?” Mas spalancò gli occhi per la sorpresa.
“Grande Dea, Jesse sei cresciuto tantissimo!” sorrise George,
abbracciandolo.
In effetti, Jesse assomigliava in maniera incredibile a suo padre ed era
alto come Rebecca. Gli occhi verde smeraldo della madre risaltavano più
che mai sotto le sopracciglia nere ereditate dal padre.
“Mas! George!” Mark e Tommy si precipitarono verso di loro con
gridolini di gioia e salti acrobatici.
“Mark!” Mas lo acchiappò al volo e lo sollevò per aria.
Mark non era cambiato così tanto e Tommy aveva ancora quell'aria
angelica di sempre. I bambini li sommersero di domande su Spezzacolli
e su Alto Castello. Maestro Jamie li stava raggiungendo; Mas approfittò
di quel momento di distrazione di tutti per allungare il pacchetto con i
documenti e la lettera che Rebecca aveva mandato a suo marito.
“Lei sta bene?” sussurrò Corin al suo capitano, nascondendo il pacco
sotto la casacca, fulmineo.
“E' sola e smania di vederti” rispose Mas.
“Ma è...”
“Tua moglie è eccezionale, Corin”.
Maestro Jamie era a pochi passi da loro, Jesse si volse verso suo
padre e Mas. I due smisero di parlare e i capitani resero omaggio al
fratello del re.
La cartella di cuoio con la lettera di Rebecca bruciava sulla pelle di
Corin.
Adesso doveva pensare a John Henry. Poi Rebecca. Finalmente
Rebecca.
402
4.
Corin aveva pensato di dirlo, a Jesse, della lettera di sua madre.
Poi aveva sentito la presenza di Rebecca alle sue spalle, quel
fantasma Cortese che per due anni ormai gli sussurrava all'orecchio se
stava facendo la cosa giusta con i loro figli. E, no, non stava facendo la
cosa giusta, dicendolo a Jesse. In primo luogo perché non avrebbe saputo
dire come avrebbe reagito il figlio, se fosse stato in grado di mantenere il
segreto.
In secondo luogo perché lui stesso non aveva alcuna idea di come
avrebbe reagito.
E farsi vedere una seconda volta in lacrime da suo figlio non gli
andava proprio. Jesse era tanto coraggioso per quanto sensibile: veder
suo padre piangere aveva segnato la fine di una certa innocenza e la
consapevolezza del dolore della nostalgia.
Aspettò che anche Jesse andasse a dormire e che il castello fosse
immerso nella quiete del riposo per aprire la lettera.
Riconobbe la calligrafia di Rebecca. Era una delle poche ragazze di
Makma che sapesse scrivere e far di conto perché Ada, come molti altri,
aveva pensato all'inizio che la piccola orfana avrebbe votato la sua vita
alla comunità ed era indispensabile che sapesse prendersi cura di sé.
Ebbe di lei una visione fugace: china sul tavolo della loro vecchia casa,
la testa reclinata, i capelli scuri che le coprivano metà del viso e
l'espressione assorta.
Corin era stato capace di ammirarla sulla porta per quasi mezz'ora,
senza farsi vedere, prima che lei si accorgesse della sua presenza.
Il cuore ebbe scricchiolò, addolorato. Rebecca...
Girò i fogli, finalmente aprì la lettera.
La divorò. Una, due, tre volte, senza veramente capire quel che c'era
scritto. Solo alla quarta volta si ricordò di leggerla tutta, una lettera alla
volta, una parola alla volta. Riflettere sulle frasi, una alla volta.
Amore mio,
finalmente posso scriverti!
Mi sento come se potessi urlare il tuo nome, come il giorno in cui sei
tornato a Makma per me. Grande Dea, Corin, sono passati due anni!
Penso che sia inutile dirti che Spezzacolli sono io. Ma penso sia
importante informarti che Giada è qui con me. Viveva come una serva
nel castello di Weast, nascosta da suo padre. Tutto andava bene finché la
403
nuora di vecchio conte non ha preso il potere: pur non conoscendo
l'identità di Giada, ha capito che quella ragazzina doveva essere un
pericolo e l'ha relegata nelle cucine. Il fatto è che neppure il vecchio
Conte ha saputo dare una collocazione a Giada: pareva senza famiglia e
così Madama Elma ha pensato bene di sbarazzarsene.
Questo è quello che mi ha raccontato Giada quando ci siamo
conosciute.
Io...
Tracce di inchiostro sbavato, come se Rebecca avesse avuto
un'esitazione. Le lettere erano quasi incise nella carta, come se scriverle
le avesse richiesto tanta forza. Corin accarezzò le parole, le mani
tremanti.
Scorse il dolore di sua moglie. Era tangibile nei calchi di quelle
parole. Dolore e vergogna.
Io devo raccontarti quello che è successo dopo che mi hanno presa.
Non è memoria diretta, Corin, me lo hanno raccontato.
Dopo averti visto sparire in casa, il Soldato Rosso mi ha gettata per
terra. Sono svenuta e forse è stato un bene, marito, perché non serbo
memoria di ciò che mi hanno fatto. Marçela, povera donna, Giada e
tutte le altre erano coscienti: siamo state stuprate dai Soldati Rossi e
dagli uomini. Hanno sputato addosso a tutte noi, siamo state usate come
stracci e come stracci siamo state buttate nelle celle. Non ti so dire il
ribrezzo che provo, perché tua moglie è vile e non ha ancora avuto il
coraggio di guardare.
Mi è bastato il dolore che provavo quando mi sono ripresa nella
cella di Weast. Da allora cerco di non pensarci, anche se non riesco a
guardarmi quando sono nuda, né mi riesce di accettare il mio corpo.
Alcune volte vorrei sparire.
La domanda che temo di più è questa: ora che lo sai, mi ripudierai?
Riuscirai a toccarmi come un tempo? Anche solo pensare di toccarmi
come un tempo?
Corin soffocò un gemito. Serrò i pugni, finché il sangue non smise di
circolare per tanto che li aveva stretti. Ripudiare l'unica ragione della sua
vita?
Il Generale sentì tutta la sofferenza costata a sua moglie solo a
scrivere quelle poche righe sulla violenza. Maledizione, perché la vita se
la prendeva sempre con Rebecca? Prima il corpo che non sa tenere sua
404
figlia, ora lo stupro. L'apprensione per le condizioni di Rebecca gli serrò
la gola con un cappio stretto e si scoperse a non riuscire a respirare
normalmente.
Andò avanti a leggere.
Mi sono risvegliata a West con un taglio in testa. E' rimasta la
cicatrice, ma per il resto sto bene. E' lì che ho conosciuto Giada. In
realtà non è stata lei a dirmi chi era: l'ho riconosciuta dal tatuaggio
sulla nuca e dai racconti che mi hai fatto della Regina. Giada le
somiglia moltissimo.
E' di una bellezza accecante. Tanto che l'ho costretta a nascondere i
capelli sotto un velo perché la gente non la veda... potrebbe essere
pericoloso, capisci?
Quando lei mi ha confermato di essere la principessa, ho capito che
non potevamo rimanere a Weast. All'inizio ho cercato di capire se
c'erano altre prigioniere a parte noi; le altre celle erano vuote. Non so
dirti perché, però. Ho studiato il nostro carceriere: era un essere
orribile, neppure degno di essere chiamato uomo. Oltre a lui, a
sorvegliarci c'erano dei Soldati Rossi: è stata la loro presenza a farmi
insospettire. Dovevamo essere in forze per qualcos'altro e così il
bestione non ha potuto farci altro male.
Per scappare ho dovuto ucciderlo.
Rebecca che uccideva qualcuno.
La sua Bambolina dei Miracoli, capace di donare la vita. Eppure la
parola ucciderlo era scritta chiaramente sulla carta.
Corin aggrottò le sopracciglia.
Non so dirti se ammazzare quel porco sia stato più difficile che
convincere le altre a seguirmi. Se fossero stati uomini, non avrebbero
battuto ciglio, ma le donne... tutte convinte che solo gli uomini potessero
fuggire. Alcune cose delle donne proprio non le capisco: in tante
preferiscono aspettare di essere liberate piuttosto che correre il rischio
di liberarsi da sé. E questo non vale solo per la fuga da Weast.
Per uccidere il nostro carceriere sono ricorsa all'unica tecnica di
combattimento che conoscevo: spezzare il collo. Ci siamo cosparse tutto
il corpo con il fango e la merda della cella ed abbiamo aspettato che
venisse a darci la cena. Gli siamo saltate addosso e l'ho messo con la
faccia a terra. Ho preso il collo e fatto leva... è stato facile, dopotutto.
E' adesso che è difficile. Anche se un bastardo, rimaneva un essere
405
vivente. IO HO UCCISO UN UOMO.
Ora capisco tante cose, Capitano d'Aquila. E capisco quella parte di
dolore che ti lega alla tua spada. L'espressione che ti ho visto sul viso la
sera che ci siamo conosciuti... allo specchio, la sera, la rivedo su di me.
Hai conosciuto Elaka, quindi sai il resto della storia. Penso tu sappia
della bambina della fattoria e di Annabel. Piango ancora per Annabel,
Corin. Ora capisco le lacrime che devi aver versato per i tuoi uomini.
Uscite da Weast, speravo che Giada prendesse il comando. Essendo
la mia signora, penso fosse normale, no? Giada è uno dei miei crucci
più grandi, Corin: è come un topolino spaurito, incapace di affrontare la
vita. Rimanda ogni responsabilità, delega ogni decisione a me e non so
come fare, perché lei è la FUTURA SOVRANA.
Su di lei, però, ho buone notizie anche: Giada possiede un potere
immenso, in grado di comunicare con l'anima degli esseri viventi. E'
stato grazie a questo che abbiamo sconfitto i Soldati Rossi: lei muove
eserciti di insetti che divorano i Soldati ed è ingegnosa. Qualunque
oggetto nelle sue mani diventa utile e prezioso. Questa sua capacità ci
ha permesso di far rivivere Alto Castello.
A proposito: ti starai chiedendo come ho fatto a spostare la gente da
Madrigal ad Alto Castello. Siamo passati per le Paludi di Gras. Giada
ha intessuto una rete di protezione su di noi durante il giorno tenendo
lontane le zanzare e la notte ci chiudevamo nei carri con spesse
zanzariere.
Mas e George ci hanno raggiunti poco prima del Solstizio d'Inverno.
George e Giada si sono fidanzati, anche se mi chiedo che cosa ne
penserà il nostro re. Marçela e Mas si sposeranno domani sera.
Volevo raggiungerti a Madrigal. Ora che so dove sei, amore mio, ti
raggiungerei ovunque. E lo avrei fatto anche prima, ma questa gente
dipende da me. Adesso anche le vite degli uomini prigionieri delle Cave
di Marmo Nero dipende da me, in qualche modo. Sarei venuta da voi,
marito mio, non hai idea di quanto piango pensando a quanto mi
mancano i bambini!
Come sta Jesse? Mas dice che è un vero soldatino e George mi ha
detto quanto è stato coraggioso durante la vostra fuga. Sono così
orgogliosa di lui, Corin. Ti prego, bacialo e abbraccialo forte da parte
mia e spiegagli che io non posso venire a Madrigal. Dovete essere voi a
venire da me. Spiega al mio bambino che la sua mamma lo pensa in ogni
momento della giornata e che è orgogliosa come non mai di lui; anzi è
un onore essere sua madre per me. Fammi questo favore, Corin, parla a
nostro figlio, non prendetevi a cornate come al solito: Jesse ha bisogno
406
di sapere. Così come ha voluto sapere di sua sorella, digli di me.
Immagino che a vivere con dei soldati abbia influenzato anche il suo
modo di parlare: non limitarti a rimproverarlo se dice parolacce. A volte
il mio soldatino, come suo padre, ha bisogno di essere convinto con le
maniere forti.
Corin scoppiò a ridere con due grossi lacrimoni che rotolavano giù
dalle guance. Grande Dea, gli sembrava di avere Rebecca lì in quel
momento! Sentiva la sua voce che lo rimproverava di insegnare ai
bambini le parolacce, la sera, prima di andare a dormire.
Mi hanno anche raccontato di Mark. Dicono che è discolo e bello
come il sole... te lo ricordi il concepimento di Mark, J.J.? Abbiamo fatto
l'amore sotto la finestra di camera nostra, con il sole che inondava il
letto e tu che ti eri ingelosito del sole! Dicevi che mi toccava più di
quanto riuscissi a fare tu! Forse è stato per quello che Mark è venuto
fuori così speciale...
Come per Jesse, mi hanno riferito di una certa propensione di nostro
figlio alle espressioni da caserma: cerchiamo di limitarle? Grazie,
soldato.
Mark capirà meglio di me perché non sono lì con voi. Lascia il tuo
cuore aperto e Mark leggerà dentro. Stringilo forte la notte, però, perché
lo conosco e so che la fuga da casa deve aver lasciato una brutta scia di
ricordi.
Corin guardò in direzione della stanza dove dormivano i bambini.
Senza che nessuno gliel'avesse detto, Rebecca sapeva degli incubi di
Mark. Il guerriero vide il fantasma di sua moglie nelle fiamme del
camino e scosse la testa mesto. Sì, amore, farò come hai detto.
Tommy è il figlio che tutte le madri vorrebbero. Io che sono sua
madre me lo sogno tutte le notti. Lo rivedo nelle manine di tutti i
bambini di Alto Castello e nelle loro risate. Tommy ha bisogno della sua
famiglia e di ricordarsi che cosa sia una famiglia. Non fategli
dimenticare di noi.
E tu, J.J., come stai? La ripresa della guerra deve essere stato come
un pugnale affilato nell'animo, vero? Nei nostri dieci anni di pace avevi
appena ricominciato ad essere sereno... pensi ancora al tuo Mark? A tua
madre e tuo padre? Sono in pena per te, soldato. Fuori sei di
indistruttibile Marmo Nero e dentro fragile come il cristallo. Ricordati
407
della nostra casa, prima o poi la ricostruiremo. Anche qui, ad Alto
Castello. Non perderti, amore mio, capito? Io sono con te.
E, giusto per essere chiari, spiegami un po' di Andrea.
Corin scoppiò a ridere fragorosamente.
Anche a centinaia di chilometri distanza sua moglie riusciva a fargli
una scenata di gelosia!
Rimase a ridere per quasi dieci minuti, prima di riprendersi. Gli parve
di vedere la sua minuscola moglie con quel suo broncio d'infantile rabbia
gelosa e le spalle rigide. Quante volte in dieci anni l'aveva vista così
gelosa? Non sarebbero bastate le dita di tutti loro cinque messi insieme
per enumerarle!
Quando si riebbe, continuò la lettura:
Veniamo alle questioni pratiche.
Come ti dicevo, non è nelle mie capacità liberare gli uomini delle
Cave di Marmo Nero, ma è una cosa che devo alle donne di Madrigal e
a tutte coloro che sono arrivate da me in cerca di aiuto ad Alto Castello.
Ti ho mandato un altro documento con tutti i dettagli delle Cave. Spero
possano esserti utili. Il fatto è che dobbiamo agire il prima possibile: se
Weer sapesse di Alto Castello – posto che non ne sia già al corrente -,
potremmo venire assediati da un momento all'altro. Io sto cercando di
mettere da parte delle sCorte, ma ho paura. Come si combatte un
assedio?
Insieme a Mas e George e Freccia Letale abbiamo addestrato buona
parte della gente di Alto Castello, ragazzini compresi (sorvegliano le
mura), ma non bastano. Sono comunque civili e so che si difenderebbero
con onore, ma sarebbe una strage. Aiutami.
Il mio esercito aspetta i tuoi ordini, Generale. Dispongo di circa
quattrocentocinquanta Donne-ombra ben addestrate e di trecento
ragazzi in grado di combattere a terra. Giada potrebbe pensare ai
Soldati Rossi, ma le Cave sono sorvegliate anche da arcieri e cavalieri a
cavallo. E' campo aperto. Capirai meglio guardando la mappa che ti ho
mandato.
Il tempo a mia disposizione sta terminando, amore mio, devo andare.
Mi chiamano. George e Mas conoscono la mia identità; ovviamente
anche Giada e nessun altro. Come te, ho pensato che mantenere
l'anonimato fosse meglio: Weer avrebbe potuto cercarmi e prendermi
come merce di scambio.
Devo proprio andare, amore mio.
408
In dieci anni quante volte ti ho detto che ti amo? Sempre troppo
poche. Così come poche sono le righe che mi pare di averti scritto. In
due anni troppe cose sono accadute, troppi fatti mi sono scivolati sulla
pelle. Io stessa so che non sono più innocente come prima, che sono
diventata diversa. Nonostante le amiche, qui non c'è nessuno con cui
sono riuscita a parlare come parlo con te. Mi manchi come manca l'aria
nei polmoni quando hai la testa sott'acqua.
Ti amo, J.J.
Ti amo, soldato. Ti prego, torna da me.
Bussano alla mia porta (sono nella tua vecchia stanza), devo andare.
Ti amo e ti amo!
Rebecca
P.S.:Stasera, come tutte le sere da quando ci siamo separati, salirò
sulle mura e ti manderò il mio amore. Sono arrivata a parlare con le
nuvole, pur di sentire la tua voce e quella dei bambini. Lo sentite il mio
cuore? Sentite quanto vi chiamo? Ma questa notte, per la prima volta,
forse dormirò qualche ora. Perché ho la certezza che state bene. Ed è
questo, quello che conta.
Corin trattenne il fiato.
La lettera finiva. Quattro fogli scritti fittamente e non gli bastava.
Voleva di più. Voleva sapere che vita stava conducendo ad Alto Castello.
Aveva parlato delle amiche, ma che era sola. La sua solitudine era
tangibile, si poteva percepire dalle parole calcate sulla carta; era oberata
dagli impegni e...
Nella sua vecchia stanza.
Abitava la stanza che occupò lui nel periodo dopo averla conosciuta.
Legati ancora da un filo sottile ed invisibile.
Si toccò il medaglione sul petto.
Lasciò i due fogli sulle gambe, appoggiò la testa allo schienale della
poltrona e chiuse gli occhi. Pianse in silenzio, devastato dalle emozioni.
La sentiva, la sua Bambolina dei Miracoli, che aspettava sulle mura di
Alto Castello, intenta a fissare il cielo e la terra per una sua risposta.
Pensò al fantasma di sua moglie nella nebbia, al contorno della sua
figura nelle fiamme del fuoco e la pelle che scottava quando si svegliava
con la sensazione di averla avuta tra le braccia.
Trasse un respiro, le labbra socchiuse.
“Rebecca...” chiamò con un sussurro.
409
Il suo nome volteggiò nella stanza, trovò la finestra spalancata, la
splendida luna evanescente, miliardi di stelle nel cielo della notte e volò
via. Oltre le mura, le foreste, la palude, le colline e le montagne.
Si posò sulle labbra di Rebecca, che finalmente aveva preso sonno.
Anche Corin si addormentò sulla poltrona, i tratti del viso distesi. Ed
aveva di nuovo vent'anni.
5.
Jesse scoprì la lettera ancora sulle gambe di suo padre il mattino
successivo.
La prese e lesse la calligrafia ordinata di sua madre.
“Che cos'é?” trillò Mark al suo fianco.
“Notizie della mamma” Jesse lo spinse lontano da sé, concentrato
com'era a leggere.
“La mamma? La nostra mamma?” strillò allegro il fratellino.
“Cazzo, Mark, sta' zitto, che non riesco a leggere!” sbottò Jesse.
Corin si svegliò in quel momento. “Se stai leggendo, leggi anche
quello che ha scritto vostra madre a proposito delle parolacce”.
“Umpf!” grugnì suo figlio.
“Buongiorno anche a te, figliolo” lo schernì Corin.
“Quando me lo avresti detto, eh?” s'infervorò il figlio.
“Avrei anche potuto non dirtelo. - lo fulminò suo padre – Ragazzo,
quella lettera è indirizzata prima di tutto a me”.
“Ma c'è scritto di dirmelo”.
Corin lo acchiappò per il braccio e lo mise a meno di dieci centimetri
dal suo volto. Lo fulminò con occhi di brace: “Jesse, ti stai di nuovo
intromettendo nella vita privata mia e di tua madre. Sì, te lo avrei detto,
ma con i miei tempi”.
“Sei odioso. - gli rispose Jesse – Sono due anni che non vedo la
mamma. Era anche un mio diritto. Non sei l'unico che soffre, sai?”
Corin lo lasciò andare e tra i due ci fu uno sguardo di fuoco –
maledetta adolescenza...! - imprecò tra sé il padre. In ogni caso, Jesse
non aveva tutti i torti.
Jesse si prese la lettera, con un chiaro gesto di sfida, e sbatté la porta
della stanza andandosene.
“La preadolescenza è solo l'inizio. Lo sai vero?” Andrea entrò con
Tommy in braccio.
“Ha solo dieci anni” sospirò Corin, alzandosi per sgranchirsi le gambe.
410
“E i peli sul pisello. Sta per entrare nell'adolescenza. Auguri”.
“Sai essere incoraggiante quando vuoi. - Tommy passò dalle braccia
della governante a quelle di suo padre – E' furibondo perché non gli ho
detto subito della lettera di sua madre”.
“Sta bene?”
“Sì. E' lei Spezzacolli”.
“Che altro dice?”
“Alto Castello è in una situazione delicata. Rebecca ha bisogno che il re
riprenda il suo posto, altrimenti c'è la possibilità che qualche nobile
minore ne approfitti. E lei, istituzionalmente, non possiede alcun diritto.
Rebecca chiede di liberare i prigionieri delle Cave di Marmo Nero delle
Torri: sarebbe un segno di forza contro Weer per dichiarare apertamente
che il re è tornato”.
“Dove si trovano queste Cave?”
“A sud-est della Regione di Tulle, poco sotto il confine con Alto
Castello. Mas, George e Rebecca hanno già effettuato dei sopralluoghi:
bisogna intervenire subito”.
“E perché hanno aspettato te?”
Corin la guardò storto. Il tono di voce dell'ermafrodita era suonato
saccente ed ironico. Sì, poteva essere gelosa di Rebecca, ma non doveva
dimenticare che Corin era l'uomo di Rebecca e certe asserzioni potevano
decisamente farlo infuriare.
“Prova a pensarci: - le rispose con lo stesso tono – Rebecca combatte
con delle donne, i contadini che abitano Alto Castello sono gente
semplice. Non sarebbero in grado di battersi in campo aperto e io
possiedo l'esercito e la capacità tattica per liberare i prigionieri. Altre
domande?”
Andrea si ammusonì. “No, no” borbottò, sul punto di tornare nella
sua stanza.
Corin la richiamò: “Andrea, passi per Jesse che ha dieci anni. Ma tu
non sei più un'adolescente”.
Lei incassò diventando paonazza e si ritirò.
Corin mise Tommy sul lettone e si apprestò a darsi una lavata e
cambiarsi d'abito, quando bussarono alla porta e, senza troppi
complimenti, George entrò nella stanza, sorprendendolo nudo dalla
cintola in su.
Corin gli gettò un'occhiata truce e finì di lavarsi. Mastro Mayster
aveva trentacinque anni compiuti, era un uomo nel pieno del vigore, la
schiena ampia, i muscoli tesi. George si domandò come sarebbe stato lui,
a trentacinque anni.
411
“Dimmi” esordì il Generale, apprestandosi a farsi la barba.
“Ho visto Rebecca”.
“Lo so, Mas mi ha dato la sua lettera. Io voglio sapere come sta nella
realtà”.
“E' stanca, Corin. Giada mi ha detto che la sente piangere nella stanza
che fu tua. Mi ha detto che sorride sempre di meno e che è preoccupata.
Sta facendo del suo meglio per immagazzinare sCorte per l'inverno: teme
un assedio da parte di Weer”.
“Ha ragione: se io fossi in lui, lo farei”.
“Giada è con lei: bisogna intervenire al più presto. Il fatto è che saperla
lì senza protezione mi... sai di Giada, vero?”
Mastro Mayster annuì e ribatté:
“Giada non è senza protezione. Rebecca ha rinunciato a venire da noi,
per salvarle il culo”.
“Stai parlando della principessa” ringhiò George.
“E tu di mia moglie, Capitano. Qualche problema?”
Lui tacque.
“Muoveremo gli uomini tra una settimana. Tra poco vengo a discutere i
particolari con il re e con Mas. Sei congedato, soldato. Ah, Capitano, - lo
richiamò – vedete di non cominciare a comportarvi come il solito uomo
imbecille: Giada è la principessa, ma anche una delle più grandi
combattenti di Spezzacolli. Portale il rispetto che merita, e non solo per
il fatto di avere due belle tette”.
“Io l'amo. Sono solo preoccupato”.
“Come tutti noi, ragazzo. Ma cerca di non perdere la testa. Lei è anche
la nostra futura sovrana e suo padre non sa niente di voi. Frena le
emozioni, se non vuoi metterti dalla parte del torto”.
Mogio, George richiuse la porta della stanza e Corin finì di farsi la
barba.
“Papà, ma davvero la mamma è ad Alto Castello?” chiese flebile Mark.
“Sì, amore”.
“E' lontano Alto Castello?”
“Un po', ma non tanto”.
“E perché non andiamo subito da lei?”
“Perché la mamma ora ha bisogno che papà faccia una cosa per lei”.
“...” il bambino non era convinto, si mise il dito in bocca e distolse lo
sguardo da suo padre.
Appena ebbe finito di sistemarsi, Corin andò alla ricerca di Jesse.
Lo trovò nella stalla che piangeva con la lettera di sua madre sulle
ginocchia. Gli si inginocchiò accanto, senza toccarlo.
412
“E' la stessa cosa che ho fatto io, Jesse. - mormorò con dolcezza a suo
figlio – Ero così sollevato da piangere. E non volevo che mi vedessi”.
“Neppure io voglio che tu mi veda”.
“Sono tuo padre, Jesse. Ti guarderò per sempre piangere, perché ti ho
messo al mondo, sei sangue del mio sangue. E anche lacrime delle mie
lacrime. Capisci che intendo? Lo so, che cosa stai pensando”.
“Voglio la mamma”.
“Lo so. Papà ti ci porta”.
Jesse nascose la faccia contro il collo di Corin e suo padre rimase ad
aspettare che gli passasse. Forse Jesse era un preadolescente con i primi
peli, ma era anche un bambino senza la sua mamma. Un piccolo soldato
che aveva bisogno della pace.
6.
John Henry non fece alcuna obiezione alle decisioni che prese Corin in
merito alla campagna verso le Cave di Marmo Nero. Si limitò ad
ascoltare il suo Primo Generale che radunava i suoi capitani e discuteva
di come e quando sarebbero andati a sud per liberare la loro gente.
Corin non prese neppure in considerazione il fatto che il suo signore
volesse fare ritorno alla Capitale, prima di scendere in guerra. D'altro
canto John Henry rimase immobile sulla sua poltrona e sembrò
addirittura estraniarsi. Un atteggiamento che infastidì non poco il
giovane – e forse un giorno futuro – genero.
Dopo essersi studiato attentamente la mappa mandatagli da Rebecca
(ed essersi quasi messo a piangere d'orgoglio per sua moglie che non
aveva dimenticato nulla di quanto le aveva insegnato nei dieci anni di
matrimonio), aveva disteso quel documento con la mappa ufficiale delle
Cave di Marmo Nero.
“E' molto semplice: - spiegò ai presenti Mastro Mayster – le Cave sono
circondate da mura alte non più di un metro e mezzo ed un fossato largo
tre e profondo due. Le ricordo abbastanza bene. Il loro punto di forza
sono le Torri: sono alte circa quindici metri e possono ospitare un
plotone intero. Le torri sono nove e, se sono al pieno dell'organico, ci
sono circa quattrocentocinquanta uomini. Senza contare la cavalleria”.
“Attacchiamo da ovest?” chiese George.
“No, nord-est. Ad ovest il campo è aperto e potrebbero attaccare con la
cavalleria. Dobbiamo dare a Weer una prova di forza”.
“Allora?” era Mas, che si accese da fumare.
413
“Attacchiamo da nord-est. - ripeté il Generale, mostrando sulla carta le
tre torri di nord-est – Facciamo partire una carica di fanti con gli arcieri
che coprono le spalle e spingiamo i due plotoni verso questa torre a nord.
Voglio chiudere la metà di loro nella torre sotto ad est e in quella a nord:
ci apriremo un varco sufficientemente grande da rendere impossibile
recuperare le torri. A questo punto saranno spinti verso le tre torri
centrali”.
“Lì si trova la cavalleria. Vuoi fronteggiarla con i fanti?” si stupì Mas.
“No, ma voglio costringerla a venire fuori”.
“Uhm, va bene” Mas aspirò dalla sua pipa con piccole boccate.
“A questo punto attacchiamo da ovest con altri opliti e arcieri. Una
carica veloce. Non mi frega nulla di conquistare le torri ad ovest, voglio
che il nemico si renda conto che siamo schierati anche su quel fianco.
George, questi li guiderai tu. Non appena ti sarai accorto di aver attirato
la loro attenzione, ti ritiri: come ti dicevo prima, ad ovest hanno campo
aperto e la cavalleria coprirà quel lato. Non stare ad aspettare che vi
facciano a pezzi come agnellini, rientrate”.
“Vuoi che ci seguano” notò il giovane capitano.
“Sei perspicace”.
George storse la bocca in una smorfia e Corin sorrise divertito. Anche
se fossero passati mille anni, per Corin quello rimaneva il ragazzo
temerario che l'aveva sfidato nella Radura di Crill.
“Dicevo – riprese Mastro Mayster – che la cavalleria vi deve seguire e
deve uscire fuori dalle mura. A quel punto scenderà in campo la nostra
cavalleria: li spingiamo dentro le mura di sud-ovest”.
“Non capisco. - era Mas – liberi la torre e poi li spingi di nuovo
dentro?”
“Tieni conto che a questo punto i nostri sono scesi da nord-est e la
difesa nemica sarà spezzata. Li separeremo: Mas si occuperà di
schiacciare gli uomini stretti tra le torri di nord-est e le Cave, io spingerò
la cavalleria ad uscire verso sud-est. George mi coprirai le spalle. A sudest c'è la foresta: Spezzacolli e le sue guerriere li aspetteranno lì.
Colpiranno nel terreno a loro più congeniale.
Non appena si saranno resi conto del pericolo nella foresta, cercheranno
di tornare indietro nella pianura e noi li chiudiamo. Dovremmo arrivare a
frammentare il loro fronte in tre parti: nelle cave, nella pianura e nella
foresta”.
“Con quanti uomini vuoi partire?”
“Tutti quelli che possono combattere. Lasciamo a Madrigal solo i
ragazzi e quelli più anziani”.
414
Il silenzio aleggiò nella stanza.
Corin si versò da bere, la mente rivolta a sua moglie. Avrebbe voluto
evitare di farla combattere, ma il suo aiuto era necessario: se nessuno
avesse coperto la foresta, sarebbe stato difficile fermare la fuga del
nemico, che allora si sarebbe potuto riorganizzare ed attaccare.
Ciononostante, lo stomaco era stretto nella morsa dell'apprensione: e se
qualcosa fosse andato storto?
Si stava comportando come il solito maschio imbecille. Ma l'amava.
Era preoccupato.
Si accese la pipa.
“Sua Maestà scendera in campo con noi?” fu Mas a dar voce al grande
quesito.
L'assente John Henry fissò Corin perché rispondesse.
“Preferirei di no. - rispose Corin evitando di incrociare lo sguardo del
suo signore – Una battaglia è comunque una battaglia e l'esito si decide
sul campo in quel momento. Non voglio correre rischi: preferisco sapere
Sua Maestà al sicuro all'accampamento. Sempre che il nostro signore sia
d'accordo”.
Solo allora John Henry diede segno di essere lì con loro.
Stancamente, come un vecchio che stia ascoltando quali siano le
disposizioni di suo figlio, alzò la mano e sorrise appena: “Un ottimo
piano, Mayster. Come sempre. Vi aspetterò al campo”.
“Grazie, mio signore. Ora, a noi: Mas comincia a radunare gli uomini e
facciamo il punto delle nostre risorse. George monta sul primo cavallo e
vai ad Alto Castello: voglio che Spezzacolli e le sue siano pronte sul
posto con almeno due giorni di anticipo rispetto a noi”.
“Spezzacolli si è offerta di farci sapere dove il percorso sarà più
sicuro”.
“Bene. Allora approfittane. Quando saremo entrati nel territorio di
Tulle, ti farò avere notizie e ci raggiungerai”.
George lo scrutò per un momento, in un silenzio significativo: Non
avrebbe raggiunto sua moglie ad Alto Castello? Perché?
Corin fumò la sua pipa, finché il sapore acre nella gola non gli
pizzicò gli occhi. Evitò lo sguardo indagatore del suo capitano.
“E' inutile dirvi che dalla riuscita di questa missione dipende la salvezza
della gente di Alto Castello: l'inverno si avvicina e Weer è abbastanza in
forze per assediarli. Dobbiamo privarlo della forza di schiavi e uomini”.
“Sì” assentì Mas.
“Spezzacolli scenderà in campo?” era George.
“E' indispensabile che Spezzacolli scenda in campo. E con lei tutte le
415
sue guerriere migliori. La vittoria nella foresta dipende soprattutto da
loro”.
George si trattenne dal replicare. Giada sarebbe dunque scesa in
campo. Giada sarebbe stata alla mercé del nemico. Il pensiero era
insopportabile. Studiò a fondo le reazioni di Mastro Mayster: neppure lui
appariva così tranquillo. Tuttavia stabilire che cazzo gli stava passando
per il cervello in quel momento era impossibile. Mastro Mayster era chi
era proprio perché imprevedibile.
“Santa Hilu, e adesso chi glielo fa entrare in testa a quella zuccona di
mia moglie che abbiamo cinque creature e che sarebbe meglio rimanere
ad Alto Castello?” borbottò Mas, gli occhi lucidi all'idea che la neo sposa
sarebbe scesa in battaglia.
Corin sogghignò: “Non hai argomenti convincenti per trattenerla?”
“Ti assicuro che lei ne ha di più”.
Il Generale scoppiò a ridere. In cuor suo piangeva e piangeva come
un vitello: sua moglie non doveva combattere. Sua moglie era il motivo
per cui combatteva.
Ciononostante non ci sarebbe stato verso di fermarla. Rebecca voleva
lui e voleva i suoi bambini.
416
CAPITOLO 22.
1.
“George! Spezzacolli, è tornato George!” una delle aiutanti di Giada era
salita fin su alla fattoria di Manuel e di sua moglie. Rebecca stava
assaporando una tazza di the freddo con menta e guardava il loro piccolo
di appena cinque mesi e mezzo. Karina, la madre, stava bene.
Spezzacolli era andata a congratularsi con Manuel per l'ottimo lavoro
con l'appezzamento di terra che gli aveva assegnato.
L'aiutante di Giada ansimò, prima di ripetere: “Mastro George è
tornato, mia signora. Reca con sé notizie del sovrano e di Mayster”.
Manuel scambiò un'occhiata curiosa con sua moglie e tutti fissarono
Rebecca. Senza lasciar trapelare la propria emozione, la donna si alzò e
fece un buffetto sulle guance piene del lattante. “Ciao, campione. Grazie,
ragazzi, della merenda. Appena avrò notizie certe vi farò chiamare tutti.
Ora scusatemi” e prese congedo.
George era seduto nella sala del consiglio con Giada sulle ginocchia a
mangiarselo di baci. Era stato via cinque settimane; in cinque settimane
Tray aveva tentato di soffocare la principessa in circa una dozzina di
modi.
“Secondo me, è incinta” aveva detto Marçela a Rebecca, quando Giada
si era fatta prendere una crisi isterica per la nostalgia dell'amato.
“No, sono solo mestruazioni e ormoni impazziti” aveva replicato
Rebecca.
“No, le manca un pezzo” aveva sogghignato Tray.
“Quando fai 'ste battute, è a te che manca un pezzo” aveva ribattuto
Marçela.
Rebecca entrò nella sala e sorrise: “Giada, ricorda che c'è qualcuno
che non ha la tua stessa fortuna”.
“Di amarmi?” disse beffardo il giovane capitano.
“No, di avere un uomo tra le mani. Bentornato, ragazzo. Notizie per
me?”
“Sì. - George fece sedere la fidanzata e le prese la mano con dolce
fermezza. Negli occhi di Rebecca si leggevano ansia e apprensione –
Tuo marito sta bene. Gli abbiamo dato la tua lettera; ecco, questa è la
risposta. Ho incontrato Sua Maestà per la prima volta. - volutamente
417
George evitò di scambiare lo sguardo con la fidanzata – E'... è un uomo
stanco, Spezzacolli. Grazie alla Dea, Corin è venuto per aiutarci,
altrimenti non so come avremmo fatto. Quando Corin ha esposto il piano
di attacco, il re non ha fatto un cenno... sono preoccupato”.
Rebecca invece scambiò uno sguardo afflitto con la principessa, che
sembrava diventata di sale. “Io preferirei aspettare ed essere ottimista. disse cauta – Cioè, il nostro sovrano è appena tornato e credo che abbia
le idee un po' confuse circa la nuova situazione politica. Dimmi di Corin.
Sta bene?”
“In ottima forma. Tuo figlio Jesse è cresciuto tantissimo in questi mesi
ed è alto come te. Assomiglia a suo padre in tutto, a parte i tuoi occhi. George abbassò lo sguardo, come se stesse parlando di una cosa troppo
intima, che non gli apparteneva – Gli manchi da morire, Rebecca. Mark
sembra confuso e non capisce perché non è potuto venire subito da te”.
“E Tommy?”
“Lui è piccolo... non lo so, sembra felice con Andrea”.
Rebecca trasalì, diventando pallida. George trasalì, diventando
paonazzo per il calcio di punta che la fidanzata gli diede poco sotto il
ginocchio.
“Attaccheremo le Cave allora?” con voce arrochita Spezzacolli cambiò
argomento.
“Sì. - confermò il giovane – Nella lettera Corin ha allegato anche la
mappa che gli hai fatto tu con le sue considerazioni e ciò che dovrai fare.
Di certo devi far preparare le tue guerriere per rendere sicuro il sentiero
di Tulle”.
“Va bene, sono già state allertate. Altro?”
“E' tutto lì” George si massaggiò il ginocchio dolorante con Giada
accanto che mandava saette dagli occhi.
Rebecca prese la lettera di suo marito e si apprestò verso la porta.
“George, forse Corin te l'avrà detto: qualche volta conviene collegare il
cervello alla lingua, prima di parlare” e si richiuse i battenti alle spalle.
Era infuriata.
Tommy preferiva Andrea a lei! Lei che era sua madre! Lei, lei,
Rebecca, aveva messo al mondo Tommy ed ora arrivava questo scherzo
della natura che le portava via il suo piccolo miracolo? Se solo l'avesse
avuta tra le mani...
Si chiuse in camera, sbattendo la porta e lasciando Alto Castello fuori
per una volta. Piangeva lacrime di rabbia per quella faccenda di Tommy:
non sarebbe successo, se l'avesse avuta sempre accanto. Non era stata lei
a scegliere di venir rapita e...
418
Si accasciò contro la porta, la testa incassata tra le ginocchia.
Non aveva ancora aperto la lettera di Corin e già piangeva. Già, ma
perché piangeva? Perché aveva paura di leggere che Andrea l'aveva
sostituita? Che Corin la ripudiava, ora che era ufficialmente Mastro
Mayster?
Sconfitta già in partenza, aprì la lettera che le mandava suo marito.
Mia piccola Bambolina dei Miracoli,
non so dirti se piango o rido. Entrambe le cose, penso, ma non ne
sono del tutto sicuro.
Sono felice come non mai di saperti viva e provo un dolore che non ti
so spiegare e sembra non avere fine per quello che hai dovuto subire. E
provo vergogna, amore mio, per averti abbandonata là. Ogni giorno di
questa vita che sto vivendo mi domando che cosa sarebbe successo se
fossi tornato indietro. Se avessi affrontato il nemico e fossi riuscito a
metterti in salvo.
Io ripudiare te? Forse sei tu che provi odio nei miei confronti per non
essere tornato indietro, una volta messi in salvo i bambini. In qualunque
caso, Rebecca, mia piccola Rebecca, ti prego di perdonarmi.
Rebecca sorrise tra le lacrime.
Suo marito era così fragile, così dolce! Non aveva dimenticato, subito
dopo la fuga da Weast, la rabbia provata per il destino che aveva dovuto
subire ed il fatto che lui non fosse ritornato per lei, ma sapeva che Corin
aveva solo esaudito la sua preghiera di pensare ai loro figli. Sei
perdonato, marito mio, mio Generale.
Da dove cominciare a raccontare?
Dopo aver recuperato la roba che avevamo sistemato nel tronco
cavo, mi sono caricato Mark sulle spalle e Tommy nell'imbragatura
davanti, mentre Jesse ha camminato (il nostro soldatino si è fatto
davvero un grande onore quel giorno). Verso l'alba ci siamo fermati alla
Caverna di Fondo (te ne avevo parlato, mi pare) e i bambini hanno
dormito tutto il giorno. Jesse era sfinito e soprattutto aveva capito subito
che ti era successo qualcosa. Ho provato a mentirgli, amore, ma sai
com'è fatto Jesse: mi legge dentro come sai fare tu.
Ho commesso un errore enorme con lui, perché non sono riuscito a
trattenere le lacrime e la disperazione. Jesse ha visto tutto. Ho
combinato un bel casino, perché ha perso tutte le certezze riposte in me,
mettendo in dubbio ogni mia parola. Se a questo ci aggiungi che non gli
419
abbiamo mai raccontato del mio passato...
Non gli ho detto di essere Mayster, temevo per la sua incolumità, per
lo stesso motivo per cui tu hai nascosto la tua identità.
Solo quando mi sono calmato un poco ho imposto a Jesse di non
intromettersi nella nostra vita e di non provare a pensare con il mio
cuore. Ma tu sai com'è nostro figlio: deve sempre avere l'ultima parola.
La donna si grattò l'orecchio, mentre leggeva.
Non le fu difficile immaginare suo figlio Jesse che scrutava suo padre
assorto, cercando di cogliere il minimo segno di turbamento e di
analizzarlo con gli strumenti di un bambino di otto anni. Sì, decisamente
Corin aveva fatto un bel casino a lasciare trasparire le emozioni davanti
al fragile Jesse (Santa Dea, quanto si somigliavano quei due!), ma
doveva aver porto rimedio. Anche scornandosi con il figlio.
Jesse ha dieci anni, amore mio, è alto e forte. Dimostra almeno
dodici anni nel fisico e nell'animo è un bambino che ha un bisogno
disperato della sua mamma. Ma è stato bravissimo: forse George e Mas
ti avranno raccontato di come si prende cura dei suoi fratelli, di come
racconta di te a Tommy. Di Tommy parlo dopo.
Prima un altro fatto a proposito di Jesse: nostro figlio ha ucciso un
uomo. E' stata legittima difesa. Lui non lo sa, forse lo sospetta, ma non
ne è certo. Sa di aver ferito un uomo per difesa, ma non di averlo ucciso.
Rebecca emanò un urlo strozzato dalla gola. Il suo bambino!
Proseguì la lettura con il cuore in gola:
Subito dopo aver lasciato la Caverna di Fondo, mi sono diretto dal
mio vecchio amico Moag, ad Einaki, nella Contea di Brealle. Lì, la
prima, orribile sorpresa: Moag era sposato e sua moglie era una spia di
Weer. Lo ha ipnotizzato o non so bene che diavoleria, ma non era più lui.
E' stato il potere di Mark a rivelarcelo.
Poi parliamo anche di Mark.
Siamo scappati di notte e questa volta ho portato i bambini nella
Radura di Crill: lì ero sicuro che non ci sarebbero stati pericoli. Almeno,
così, credevo... George e i suoi compaesani ci hanno attaccato pensando
che fossimo nemici. Anche in quell'occasione Jesse è stato formidabile e
si è preso cura dei suoi fratelli... non sai che orgoglio per me!
E' stato nella Radura di Crill che ho forgiato il pugnale per Jesse.
Ho istituito una gerarchia tra i nostri figli: Mark si occupava di Tommy
420
e Jesse degli altri due. L'ho dovuto fare perché spesso sono stato via per
combattere e i bambini rimanevano da soli al campo.
Ti prego, non storcere la bocca: non avevo scelta.
E' stato durante una delle mie assenze che degli sciacalli hanno
attaccato il campo. I bambini sono subito corsi al loro rifugio, ma non
sono stati abbastanza svelti e Jesse, per difenderli, ha colpito il brigante.
Quando sono arrivato, loro erano al sicuro e dormivano per lo
spavento. Ho visto il corpo di quel bastardo: Jesse l'ha preso sul ventre.
L'ha squarciato da destra a sinistra. Ho fatto sparire il corpo, ma Jesse
qualche volta si sveglia ancora con gli incubi.
i avranno parlato della Battaglia sul Fiume Dorato. Dopo, ho
condotto i ragazzi e Andrea verso ovest e poi a nord, ad Hoss, nella
residenza di John Henry. Siamo passati per Monn, Rebecca.
Ho raccontato a Jesse dei miei e di mia sorella. Anche della mia fuga
quando i Soldati Rossi hanno attaccato la fattoria. Jesse ha capito
subito.
Sono io che non ho capito, amore. Come faccio a vivere quando mi
sento morire al ricordo della strage del mio villaggio? Forse non ho
pianto davanti ai ragazzi, ma ero a pezzi. Ti avevo promesso che un
giorno ti avrei portata lì e non c'eri... Rebecca, sono stato malissimo.
Siamo stati al mare. Ovvio, abbiamo preso la nave per Hoss. Avevo
promesso di portartici e non ho fatto neppure quello. Amore, potrai
perdonarmi?
Il viaggio sul ghiaccio mi è sembrato più eterno di quello in nave.
Quando finalmente siamo arrivati dal sovrano, ho dovuto dire a Jesse
chi ero. Mark era eccitatissimo (puoi capire: suo padre è Mastro
Mayster!), ma Jesse l'ha presa male. Ovviamente mi ha chiesto perché
non sono tornato indietro a salvarti... come potevo spiegare a mio figlio
che Mastro Mayster è un uomo come tutti gli altri?
Un uomo che combatte con la forza della disperazione – pensò con
rabbia e dolore sua moglie. Se solo avesse avuto Corin lì con lei! Se solo
avesse potuto accogliere tutta la sofferenza che recava con sé il
leggendario Primo Generale del re, che aveva sempre e solo combattuto
per sopravvivere!
John Henry è come sua figlia, Rebecca. Sconfitto, senza alcuna
voglia o intenzione di combattere per la libertà del suo popolo. Provo
una rabbia omicida, tesoro, una rabbia a cui non posso dar sfogo verso
questa rassegnazione.
421
La Regina è ancora vittima dell'incantesimo ed è peggiorata. A sentir
Mark, si trova in un limbo da dove non ha nessuna intenzione di uscire.
La realtà sarebbe troppo dura per lei. Abbiamo dovuto inventare quella
balla della guarigione perché il nostro sovrano non perdesse la faccia
davanti al popolo.
E io non la capisco proprio questa arrendevolezza, Rebecca:
abbiamo perduto i nostri genitori, abbiamo visto la guerra e la carestia,
abbiamo sepolto una figlia e siamo stati separati, ma non riesco ad
arrendermi. Fa male, ti giuro che vivere fa un male d'inferno, ma non
posso farne a meno. Vivo per amarti, mia piccola Bambolina dei
Miracoli.
Parliamo di Mark, amore.
Mark ha grandi poteri, che stanno accrescendo man mano che passa
il tempo. Fortunatamente Maestro Jamie mi sta aiutando per farglieli
controllare. E' stato grazie ai poteri di nostro figlio se ci siamo salvati
dalla moglie di Moag.
Mark è sempre più bello ed è il più monello dei tre. Qualche volta gli
schiaffoni se li va proprio cercando! Più di una volta, in questi mesi, mi
sono chiesto COME DIAMINE HAI FATTO CON LORO TRE?
Rebecca scoppiò a ridere fragorosamente.
Le sue tre piccole pesti...
Tommy mi preoccupa.
In salute sta bene, ma la sua memoria è poca e parla di te come di
una fata. Mi spaventa. Jesse ed io facciamo del nostro meglio perché
parli e ricordi di te, ma è un bambino. Alcune volte sono frustrato da
questa situazione... se solo potessi spiegargli che cosa ha voluto dire la
sua nascita per tutti noi!
Adesso parliamo di Andrea. Come puoi essere gelosa di
un'ermafrodita?
Rebecca storse la bocca. Oh, sì, certo che poteva essere gelosa!
Ho salvato Andrea quando quattro uomini cercavano di farle la pelle
(e qualcos'altro). Lei mi ha giurato fedeltà assoluta per averle salvato la
vita ed io ho colto la palla al balzo: essendo nata apparentemente come
maschio ha ricevuto un'educazione completa come spadaccino ed è una
perfetta guardia del corpo per i bambini. Il suo aspetto femminile, poi,
serve per il suo ruolo di governante.
422
Andrea è innamorata di me, non è un mistero. Io non amo lei e non
ho ricambiato, ma è impossibile non notare i suoi sentimenti. Perciò
litighiamo spesso: lei si mette troppo spesso in competizione con te. A
conti fatti, tante volte mi pento di averla coinvolta così tanto nella mia
famiglia, ma in quel momento avevo bisogno di sapere i bambini al
sicuro mentre andavo sul Fiume Dorato a combattere.
Abbiamo saputo di te da Elaka. Cioè, ho sospettato che tu fossi
Spezzacolli per come ha raccontato dei tuoi occhi, ma la conferma
l'abbiamo avuta solo mentre eravamo di passaggio a Monn ed una delle
tue compagne si era riunita alla famiglia, anziché seguirvi a Madrigal.
Ora siamo a Madrigal.
Grazie alla Dea, ti sei risparmiata Madrigal. E grazie alla tua
lungimiranza (anche se ti è costata tanto dolore) i nostri bambini si sono
risparmiati Madrigal. Vorrei poi avere i dettagli di come avete attaccato
e liberato Madrigal, sono curioso.
E ammetto che sono curioso di vederti combattere. Non avrei mai
pensato che avresti ucciso, Rebecca. Tu sei nata per dare la vita e
conservarla, sei il motivo per cui combatto, non riesco a immaginarti
così come Elaka ti ha descritto.
Questo tempo maledetto sta correndo e non me ne è rimasto più tanto
per scriverti.
Veniamo al sodo. Come vedrai, ti ho mandato indietro la mappa che
avevi disegnato con i dettagli per la battaglia. Quello di cui ho bisogno
io è che le tue guerriere rendano sicuro il sentiero di Tulle e che tu sia
sul campo con almeno due giorni di anticipo, nel caso in cui ci siano
cambiamenti dell'ultimo momento.
Se te lo stai chiedendo, sappi che John Henry non scenderà in
campo. Lascerò i bambini al campo con Andrea e Maestro Jamie.
Ti pensiamo sempre, amore mio, ti pensiamo ogni giorno ed notte.
Probabilmente penserai che sono impazzito, ma ti vedo la mattina nella
nebbia e la notte nelle fiamme del camino... è un incantesimo?
Suggestione? O mera disperazione? Alcune volte mi sveglio con il tuo
profumo addosso a me. Ti giuro che ci sono momenti in cui desidero non
avere memoria per non soffrire così tanto.
Sono un uomo debole, moglie mia. Debole e disperato senza di te.
Ammetto che è forte il desiderio di fermarmi ad Alto Castello, ma
così facendo farei solo danno: le tue donne aspettano di riabbracciare i
mariti e Grande Regno aspetta il suo sovrano da troppo tempo. Faremo
il nostro dovere ancora una volta, Rebecca, poi vedremo che ne sarà di
John Henry e della sua idea di Regno. Allora, però, saremo insieme.
423
Perché noi siamo sempre stati insieme.
A presto, Bambolina. Ti amo.
J.J.
Rebecca non rilesse subito la lettera.
Chiuse gli occhi e si nutrì del calore di quella missiva, delle immagini
che era riuscita ad evocare nella sua mente: vide Corin con Mark sulle
spalle e Tommy sul petto durante la fuga; vide Jesse che guardava
sconvolto il suo possente padre in lacrime per lei – figlio, vieni, tua
madre ti deve una spiegazione: tuo padre è solo un uomo. -; vide i suoi
figli che si stringevano per farsi coraggio e vide suo marito nella nebbia
di Weast durante la fuga, nella nebbia delle Paludi di Gras. Percepì il
calore dei seni, delle cosce che si preparavano ad accoglierlo e, sì, odiò il
ricordo di loro che non la faceva sorridere mai, che l'aveva prosciugata
delle energie. Li amava con tutta se stessa.
Aprì la mappa che suo marito le aveva mandato indietro e la studiò
con attenzione.
Andava a riprendersi la sua famiglia.
2.
“C'è poco da dire. - esordì Spezzacolli quand'ebbe riunite le sue guerriere
– Mastro Mayster chiede il nostro aiuto per passare in totale sicurezza
attraverso Tulle. Non vi nascondo che sarà difficile, visto il numero di
guardie, ma mi ha fatto sapere che si muoverà con carri leggeri e in
scaglioni per evitare che ci siano imboscate. Sarà compito vostro
assicurarvi che non ci siano nemici. Bella, a te il comando della
spedizione. Portati dietro cinquanta guerriere e sistemale in gruppi di tre
lungo la strada: dovete far in modo di essere sempre in contatto”.
“Ho addestrato questi piccoli falchi. - s'intromise la principessa – ed ho
messo a punto un sistema di comunicazione con gli specchi. - mostrò
loro un aggeggio a dodici facce che rifletteva colori che andavano dal
bianco al nero – Quest'oggetto servirà per trovarvi. Ho inserito al suo
interno dei sassi di luna, che risplendono ed allo stesso tempo catturano
la luce intorno a voi. Anche al buio vedrete una luce. Se è giorno e siete
nella foresta la luce filtrata sarà quella della foresta e potrebbe andare dal
verde al rosso, se è buio potrebbe essere bianca o violetta. Ha un raggio
di portata di due chilometri, perciò ho fatto conto che dovreste coprire
circa centoventi chilometri con questo”.
424
Bella prese l'oggetto in mano e lo rigirò, ammirata. “E'... incredibile!
- esclamò – Giada, ma come hai fatto?”
“Ho trovato dei libri in biblioteca” la principessa alzò le spalle con
noncuranza, ma sorridendo radiosa per i complimenti.
“Un giorno ci alzeremo dal letto e voleremo” sorrise Rebecca battendo
la mano su quella di Giada.
“E io che pensavo che le caldaie fossero già un miracolo!” borbottò
un'altra delle donne, studiando ammirata l'oggetto.
“Ehi, non distraiamoci” borbottò Tray, fumando come al solito.
“Giusto. - Rebecca le lanciò un'occhiata mesta e srotolò le carte
mandate da Mayster – Secondo il Primo Generale, dobbiamo essere tutte
schierate qui – indicò le foreste a sud-est delle Cave – almeno due giorni
prima dell'attacco. In effetti per noi è più facile spiare i nostri nemici da
quella postazione che non da ovest, dove lui sarà costretto a mettere il
campo. Se vi fossero dei problemi, non rischieremmo di andare incontro
ad una mattanza”.
“Mayster combatterà?” chiese con occhi spalancati una giovanissima
guerriera.
“Naturale” sbottò Tray.
“Spezzacolli, voi avete mai visto Mastro Mayster?”
Giada e Rebecca si scambiarono un'occhiata e trattennero un sorriso.
“Quando passò per il mio villaggio durante la Guerra Rossa ebbi modo
di servirlo” rispose il capo.
“Sono emozionata, sapete? Cioè, questa battaglia passerà alla storia!”
disse un'altra.
“Io voglio solo vedere Mayster” esplose un'altra ancora.
“Chissà che aspetto ha?” aggiunse una bionda tarchiata.
“Chissà che corpo che ha” ridacchiò una spilungona mora.
Rebecca si schiarì la voce, paonazza. Nessuna l'ascoltò.
“Gelosa?” le sussurrò Giada divertita in un orecchio.
“Sto per fare una strage, ti basta?” borbottò quella.
“Abbiamo un castello pieno di aitanti giovanotti, - s'impose Tray – se
avete delle fregole, basterà che andiate a chiedere aiuto a loro. Altrimenti
state zitte”.
Scese un silenzio assoluto.
“I tuoi modi sono sempre efficaci” ghignò Rebecca verso Freccia
Letale.
“Vero? Da raffinata madama”.
“Dicevo: durante la battaglia Mayster e i suoi spingeranno il nemico
verso la nostra parte. Un nemico che dovrebbe aver già subito notevoli
425
perdite, ma se così non fosse, verrebbe stretto tra la foresta e la cavalleria
di Mayster. - le fissò tutte, seria – Ragazze, non c'è bisogno che vi dica
quanto sia importante riuscire a vincere questa battaglia. Per molte delle
donne di Alto Castello sarebbe tornare ad avere una famiglia e per
Grande Regno è la prova di forza che John Henry è tornato. E che non è
solo. Capite che intendo? Alto Castello avrebbe di nuovo un signore e si
dimezzerebbero i rischi di venir assediati da Weer”.
“Ma dopo questa battaglia – chiese la giovanissima guerriera –
torneremo ad essere liberi?”
La domanda aleggiò nella stanza, mentre il suo capo cercava le parole
per dire alla ragazza che libertà è un concetto assai complesso: come ci
si può liberare degli spettri della guerra?
“Dipende. - rispose infine Freccia Letale – Dipende dalla prigione che
ci siamo creati”.
3.
Giada realizzò che George, dopo essersi ricongiunto con Mastro
Mayster, avrebbe combattuto nella battaglia. E realizzò che nelle
battaglie, alla fine, il risultato rimane incerto fino al termine della stessa.
Avrebbe potuto non riabbracciarlo più.
George la tenne stretta a sé sotto la luce evanescente della luna e con
poche braci ad illuminare la loro stanza. Giada piangeva senza fermarsi.
Baciava le sue mani e pensava: se non dovessi più sentire il loro calore?
Il loro profumo?
“Amore, ti prego” sussurrò il giovane capitano.
“Non capisci? E se fosse l'ultima volta?” singhiozzò lei.
Lui le baciò le punte delle dita con un sorriso incantato. Appoggiò la
fronte a quella della principessa e si fissarono, lei con occhi zaffiro
spalancati di terrore e lui di straziante tenerezza:
“Pensi davvero che Hilu, dopo averti donato tanto e averti preso tanto,
possa essere così crudele?” chiese infine.
“Perché no?”
“E ti avrebbe mandato Rebecca a proteggerti? E ci avrebbe fatto trovare
tra le mille ombre della notte? Non credo proprio”.
“Come fai a essere così sicuro?”
“Perché ti amo e perché non esiste nulla più importante di noi”.
“Solo perché sono la principessa?”
Lui baciò i polpastrelli della mano sinistra. “No, perché sei tu. Io so
426
che ci sarai tu a proteggermi”.
“Che intendi?”
“Che ho piena fiducia in te e che so che mi difenderai”.
Giada sorrise amara: “Sarò dall'altra parte del campo di battaglia”.
“No, sarai qui. - si mise la mano dell'amata sul cuore – E' la mia arma
per cercare la libertà”.
“E basterà a proteggerti?”
“Mi ami?”
“Alla follia”.
“Allora vivrai per me?”
Giada annuì frenetica. “Hai dei dubbi su di me?”
“Affatto. Sei tu che non devi avere dubbi su te stessa. Vedrai, andrà
tutto bene”.
“Me lo giuri?”
“Te lo giuro”.
Lei accostò la bocca a quella di George e respirò il suo fiato caldo
che sapeva di sidro e timo azzurro; usò il proprio potere per scorrere
nelle vene del suo uomo come faceva il suo sangue. Colse la forza ed il
calore di quel corpo vivo e reale. Divenne serena perché lui era fiducioso
e vide se stessa con i suoi occhi: luce calda e meravigliosa.
George lasciò che lei gli penetrasse nell'animo. Prendi tutto ciò che
ho, mio amore, ché la mia vita ti appartiene.
George baciò le dita della sua principessa.
Rebecca, Tray e Marçela li osservavano mentre si salutavano. George
era pronto a partire con le guerriere di Spezzacolli e riunirsi con Mastro
Mayster.
I due amanti non si dissero niente. Giada appoggiò la fronte a quella
di lui e vagò nell'animo del capitano, per assaporare la sua essenza. Un
bacio sulle labbra calde ed umide e lui partì senza voltarsi.
Un'ombra leggera cavalcava dietro di lui. L'ombra di Giada non si
sarebbe mai staccata dal suo fianco. Perciò George non si volse, non era
solo.
427
4.
Jesse cercava lo stivale di Mark sotto il letto.
“Prima o poi mi spieghi perché devo essere io a farti le valigie” berciò
verso suo padre, intento a sistemare lo zaino – il loro zaino.
“Perché sei il più grande ed è tuo dovere” rispose Corin.
“Mark ha sette anni, lo sai, sì?” sbuffò il primogenito. Aveva recuperato
lo stivale.
“E tu dieci”.
“Avevo un anno di più quando mi sono dovuto fare tutta quella strada
di notte” ribatté Jesse.
Corin fissò suo figlio e suo figlio contraccambiò lo sguardo.
Due anni.
“Sei cresciuto, Jesse” borbottò Corin con il cuore gonfio di malinconia
e apprensione. Due anni? Come avevano fatto a passare quei due anni?
“E siamo sempre alle solite. - sbottò il primogenito, sedendosi sul letto
e sfidandolo con gli occhi smeraldo di sua madre – Allora, quando pensi
di dirmi della mamma?”
Corin sospirò. Questa volta niente battaglie, niente discussioni. “Va
bene. - si arrese – Chiama i tuoi fratelli a rapporto”.
Poco dopo i suoi tre piccoli mascalzoni erano seduti sul letto ad
ascoltarlo. Tommy gli sedeva in grembo, Mark sdraiato su Jesse e Jesse
con il viso appoggiato ai pugni di un bambino troppo grande per aver
solo dieci anni.
“Allora, ragazzi, questa volta ci siamo. - esordì il padre con un gran
sorriso – Stiamo andando dalla mamma”.
Silenzio. Tommy tirò fuori il suo ciondolo dalla camiciola. Un
profumo d'estate aveva invaso la stanza. C'era molta pace lì, in quel
momento.
“Ci vorranno parecchi giorni di viaggio e...”
“Ma di nuovo sul mare?” interruppe Mark.
“No, no, con i carri. Ci saranno parecchi giorni di viaggio e
raggiungeremo un posto chiamato Cave di Marmo Nero. Lì sono tenuti
degli uomini che la vostra mamma ha scoperto essere prigionieri ed ha
bisogno del papà per liberarli”.
“E' per questo che la mamma non può venire da noi?” era ancora Mark.
“Già. La mamma sta aiutando delle persone che hanno bisogno di lei”.
“Anche io voglio la mamma” trillò Tommy.
“Lei lo sa, per questo ha chiesto aiuto al papà. E noi andiamo da lei,
428
giusto?” gli strizzò l'occhio.
“Giusto” non sapendo fare l'occhiolino, Tommy si coprì con una mano
l'occhio e l'altro lo lasciò aperto e sorrise complice con lui.
Jesse e Corin risero di gusto.
“Papà sarà un po' occupato. - ammise con i suoi ragazzi – perciò starete
con Andrea e con Maestro Jamie. Il giorno della battaglia mi vedrete
partire con la mia armatura e sarà quel giorno che rivedrete la mamma”.
“La rivedremo, papà?” domandò Jesse con voce roca.
Corin lo scrutò con gli occhi corvini illuminati di fredda
determinazione.
“Abbi fiducia, ragazzo: ti abbiamo messo al mondo”.
“Papà, - Jesse gli sorrise strafottente come il giorno della loro fuga da
Makma, prima di calarsi nel cunicolo sotto casa – non si chiama fiducia.
Si chiama speranza”. Era proprio andato, suo padre era l'ultimo degli
stupidi.
Il ragazzino si alzò dal letto scuotendo la testa e chiuse le cinghie
dello zaino. Era pronto a partire.
6.
Bella sorprese Rebecca mentre sistemava i finimenti per i cavalli da tiro
insieme a Giada e al maniscalco. La moglie di Mayster era sudata e
ansava per lo sforzo di domare la bestia che non aveva alcuna intenzione
di abbassarsi a lavorare nei campi. Vedendola così, nella penombra delle
stalle alla guerriera mancò il fiato.
Perché Rebecca assomigliava tanto a Jesse, il figlio primogenito di
Mastro Mayster?
Una domanda che volteggiava come le foglie d'autunno, soprattutto
per le donne che avevano accompagnato Rebecca fin dalla sua fuga da
Weast: di lei avevano sempre saputo che aveva tre figli e che il marito
era nell'esercito di Corin il Fuorilegge. Si sarebbero scostate tanto dalla
realtà a pensare che fosse la moglie del Primo Generale?
Ciò avrebbe spiegato tante qualità del loro capo.
“Bella!” ansimò Rebecca scorgendola nel cono di luce della porta della
stalla.
“Ehi” con un cenno della mano la guerriera si avvicinò loro.
“Siete tornate ora?”
“Sì. E' andato tutto bene, capo: non ci sono state né imboscate né
scontri armati durante il passaggio di Sua Maestà”.
429
Rebecca fece saettare gli occhi da Bella a Giada, assolutamente
indifferente, e di nuovo Bella. “Grandioso. Immagino che imboscate e
scontri armati ci siano stati con voi”.
La guerriera sogghignò: “Ci provano sempre”.
“Perdite tra le nostre?”
“Due ferite. Nulla di grave però”.
“Mayster che cosa vi ha detto?”
“Ringrazia e fa i complimenti per la tua collaborazione. Sembra...
impaziente di incontrarti” l'osservazione aleggiò nell'aria.
Rebecca divenne paonazza e Giada la fissò con lo sguardo di chi
sapeva e attendeva la reazione prevista.
“Beh, - gracchiò Spezzacolli – tra pochi giorni avrà quest'onore”.
Giada non poté trattenere una risatina e Bella scosse la testa. Aiutò le
compagne a sistemare il cavallo e si ritirarono nella sala del consiglio,
insieme alle altre guerriere.
“A che punto siamo con i preparativi?” Spezzacolli interrogò Tray.
“A posto. Devi solo dare l'ordine”.
“Perfetto”.
Rebecca fece correre lo sguardo verso la finestra. Era una giornata
calda d'estate, ancora un mese e le prime foglie avrebbero cominciato a
cadere. Da quando Rebecca aveva ricevuto la lettera di suo marito erano
passate varie settimane, ogni giorno lei smaniava e lavorava con
maggiore intensità di prima. Quando Corin fosse tornato, avrebbe trovato
rifugio ad Alto Castello e il re con lui. Era tesa e in apprensione per il
giudizio del suo signore, non poteva negarlo.
Forse la tensione era dovuta da altro, si era detta più d'una volta. Ma
la considerazione non aveva avuto seguito. Dare un seguito voleva
esplorare antri dell'animo che Rebecca preferiva lasciare oscuri.
Come ad esempio il fatto che lei poteva non tornare affatto dal campo
di battaglia.
Come ad esempio il fatto che lui poteva ripudiarla.
Come ad esempio il fatto che nulla sarebbe mai stato come prima. Di
sicuro, lei non era la donna di due anni prima e non osava immaginare
che cosa avrebbe detto suo marito, dopo quanto aveva fatto. Per
sopravvivere, certo, ma non era più innocente come un tempo. Forse – si
disse – non ci sarà più un prima e non ci sarà più la mia famiglia.
Le si serrò la gola e le parve di soffocare nell'angoscia.
“Tutto bene?” le chiese Giada, al suo fianco.
Rebecca incrociò il suo sguardo. Giada non le aveva letto nella
mente, ma le emozioni dell'amica erano così violente che di sicuro
430
dovevano aver colpito la principessa. Neppure Giada aveva una bella
cera e, sebbene Rebecca non fosse dotata di potere, comprese che doveva
avere a che fare con il ritorno di suo padre.
“Non proprio” ammise la donna.
“Lo so”.
Tray le stava osservando. Volse lo sguardo alla finestra, visibilmente
a disagio per la complicità delle due amiche. Era esclusa, - sembrava
dicesse con le labbra piegate in un'espressione rabbiosa – in ogni caso
sempre esclusa da un rapporto di confidenza ed intimità.
“Va bene. - Rebecca si schiarì la voce e parlò all'assemblea riunita –
Domani mattina partiremo un'ora prima dell'alba. Avete la sera libera”.
Le guerriere sorrisero sollevate e si dispersero. Tray finì la propria
sigaretta e si accodò alle compagne in uscita. Rebecca la tirò per il
braccio.
“Stasera resta con me e Giada. - le disse con un sorriso – Come ai
vecchi tempi”.
L'amica sorrise mesta, consapevole che, qualunque cosa avesse detto,
non avrebbe smosso Rebecca dalle sue intenzioni. Rebecca avrebbe
potuto insultarla ed escluderla, ma ad un solo suo cenno Tray sarebbe
accorsa come un cagnolino fedele. Cosa non si fa per un po' di affetto e
calore umano!
Un'ora prima dell'alba.
Un'ora prima dell'alba che per qualcuno voleva dire la morte.
Un'ora prima dell'alba che per Rebecca voleva dire addio.
Addio, Alto Castello. Addio, mio piccolo popolo di rifugiati. Addio,
Ada, madre mia. Addio, vento del nord. Addio, Manuel, Karina e tutti gli
onesti che si sono presi le mie energie e le mie emozioni. Addio, a tutto e
tutti: non so che cosa sarà di me, quando e se tornerò.
“Bambina mia, fa' attenzione!” aveva singhiozzato Ada vedendola
pronta alla partenza.
Rebecca l'aveva stretta in un abbraccio caldo. “Farò del mio meglio”
aveva assicurato.
Ada aveva cercato negli occhi smeraldo di lei la certezza che sarebbe
sopravvissuta. Non la trovò. “Qualunque strada tu prenda, bambina, sarà
quella giusta. Tua madre sarebbe stata immensamente orgogliosa di te”.
“Mia madre sarebbe orgogliosa di come mi hai insegnato ad essere”.
Ada le si era avvinghiata in un ultimo abbraccio. Rebecca non l'aveva
mai vista così sconvolta. “Allora, ti prego, torna da me. Sono troppo
431
vecchia per soffrire così tanto”.
Adesso che il sole sorgeva da est e colorava di rosso e porpora Alto
Castello Rebecca dovette ricacciare le lacrime indietro. Per tornare,
avrebbe dovuto usare tutta l'astuzia ed il coraggio che possedeva. Come
nella cella di Weast, comprese che adesso era venuto il momento di
combattere.
6.
Il viaggio verso le Cave di Marmo procedette senza intoppi. I bambini
furono davvero pazienti e davvero obbedienti, soprattutto i due più
piccoli, tiranneggiati dal maggiore: volevano vedere la mamma? Allora
papà non doveva stare sempre dietro loro a riprenderli.
“Jesse, ci sono io per questo” lo redarguì Andrea con un sorriso
paziente, prendendo Tommy tra le braccia.
“Tu...” stava per ribattere il ragazzino, ma poi scosse la testa e tacque.
Presto sarebbe tornata la mamma e Andrea avrebbe trovato un altro
posto. La mamma sarebbe tornata e tutto sarebbe tornato come prima.
Andrea non ebbe l'arguzia di domandarsi perché Jesse avesse
rinunciato all'eterna polemica ed allungò la mano per scompigliargli i
capelli corvini. Pochi giorni prima Jesse se li era fatti tagliare cortissimi
dal barbiere della compagnia, perché la zazzera leonina gli dava fastidio
con il caldo e con gli allenamenti con la spada. Di una cosa ringraziava
Andrea: di avergli insegnato a tirare di scherma. Non si spiegava come,
ma la loro governante era letale con la spada in mano.
Jesse si era poi affiancato a suo padre. Diversi capitani lo
circondavano, ma fecero passare il figlio primogenito di Mastro Mayster
e gli sorrisero con rispetto. Jesse si sentì a disagio.
“Quanto manca?” domandò a suo padre.
“Credo che in dieci giorni dovremmo farcela”.
“E poi?”
“Poi andrò sul campo di battaglia, liberiamo le Cave e ritroviamo la
mamma” messa così, pareva davvero una passeggiata. Jesse aggrottò la
fronte, perché sapeva che era tutto tranne che una passeggiata.
“Il piano?”
“Per liberare le Cave? Te ne parlerò quando avremo messo su
l'accampamento”.
Dieci giorni dopo giunsero alle colline antistanti la pianura delle
Cave di Marmo Nero. La vegetazione fitta delle colline permise loro di
432
trovare un buon rifugio e la cima dell'altura di controllare la situazione
su tutti e quattro i versanti. Le tende del sovrano furono sistemate nel
punto più riparato e agevole del campo; Jesse si premurò di cercare un
rifugio sicuro per sé ed i fratelli, se fossero stati attaccati. Un'abitudine
che il padre gli aveva dato quando viaggiavano nella Contea di Brealle e
che ai bambini aveva permesso di sopravvivere quando Corin non c'era e
il campo veniva assalito dai briganti.
Ora, mentre sistemava la coperta di cuoio e quella di lana con la
piccola sacca degli approvvigionamenti, fu colpito da un ricordo.
...la sua mano immersa nel sangue di un uomo sporco e con occhi
spiritati, incredulo dinanzi alla ferita profonda creata dal pugnale del
bambino...
Era morto quell'uomo?
Fu la prima volta che Jesse realizzò di aver – forse – ucciso un altro
individuo. Aveva provato a chiederlo a suo padre diverse volte e Corin
l'aveva sempre guardato in faccia ed aveva risposto che no, quell'uomo
era morto, ma per mano di altri. Jesse non aveva mai pensato che suo
padre potesse mentirgli. L'aveva guardato negli occhi.
Se solo avesse conosciuto la fatica fatta da Corin per nascondere
l'orrore della realtà! Corin aveva voluto evitare a Jesse il peso di quel
gesto di difesa: sarebbe stato troppo per un bambino, costretto già ad
essere adulto e prendersi cura dei fratelli.
Durante il viaggio Jesse aveva intravisto le guerriere di Spezzacolli:
sempre mimetizzate con la foresta, sempre sfuggevoli. Avevano coperto
loro le spalle e solo al bivio tra le Cave e Alto Castello aveva scorto
Bella scambiare due parole con suo padre e poi sparire.
Jesse aveva osservato l'espressione di suo padre, arrivati a quel bivio.
Addolorata e frustrata, seria ed impaziente.
Là c'è Rebecca. Adesso me ne frego e li faccio deviare tutti. Vado da
mia moglie. Adesso basta pensare a Grande Regno, adesso vado ad Alto
Castello dalla mia Bambolina. Adesso io...
Sua Maestà gli si accostò: “Tutto bene, ragazzo?”
Corin annuì come un cane bastonato. No, non poteva fare di testa sua,
non poteva fregarsene. La vita di migliaia di persone libere dipendeva da
quella battaglia, il futuro di Hakne dipendeva dall'azione di forza che
avrebbe riaffermato il ritorno del re.
Quella sera, superato il bivio, Corin chiese di essere lasciato solo.
Bevve e fumò, si ubriacò per non pensare che sua moglie, la sua donna,
la madre dei suoi figli, l'unica ragione della della sua vita era a meno di
otto ore di marcia. Sperò di essere così ubriaco da non sentire la pelle
433
che gli andava a fuoco, del bisogno di lei e di quel male alle palle che lo
rese ancora più incazzato. Odiò essere Mastro Mayster. Odiò essere
responsabile verso quella gente. Odiò John Henry e odiò se stesso perché
la gola bruciava - e non solo quello.
Andò a finire che pianse come un vitello, abbattuto dal fumo, dalla
birra e dall'immagine di sua moglie nuda e bollente sotto di lui.
Fu una fortuna che Jesse non avesse compreso quanto vicino si
trovasse sua madre, perché sarebbe stato assai meno diplomatico di suo
padre.
Non appena fu costruito il campo, un falcone fu mandato dall'altra
parte della vallata dove Rebecca e le sue guerriere attendevano da due
giorni loro notizie. Fu Giada ad intercettare la bestia.
“Un messaggio, Becca” le disse, con il grosso rapace appoggiato alla
spalla. Era un animale così grande che il braccio della principessa non
sarebbe bastato per reggerlo.
Rebecca ammirò il grande falcone nero e non fece commenti.
Avrebbe voluto chiedere se a mandare quella bestia era Maestro Jamie,
ma Tray era là presente. Marçela era poco distante con delle giovani
guerriere decisamente in ansia per la loro prima battaglia.
Rebecca lesse il biglietto:
Arrivati questa mattina e sistemato il campo.
Se non ci sono problemi, seguire il piano come d'accordi.
Siate prudenti, guerriere, per il bene di tutti noi uomini.
A presto,
Mayster
“Che cosa dice Mayster?” s'intromise subito Marçela, prima che
Rebecca avesse modo di restare delusa dalle poche righe del suo uomo.
Il capo lesse il biglietto.
“Nessun messaggio per sua moglie?” si stupì Marçela.
“A quanto pare no” Rebecca scosse le spalle con noncuranza.
Giada fissò l'amica negli occhi verdi, accesi d'amore e sofferenza per
saperlo tanto vicino eppure così distante.
“Puoi rimandare indietro l'animale con la risposta?” rantolò Rebecca
alla principessa.
“Certo”.
Rebecca scrisse:
Non ci sono stati movimenti sospetti da parte del nemico. Giorno
434
perfetto per attaccare.
Per il bene di tutti voi uomini, saremo le vostre ombre. E come ombre
ci appoggiamo a voi per salvarci.
Buona notte, soldato,
Spezzacolli.
Corin sorrise come un ebete non appena ebbe letto il breve
messaggio. Jesse gli strappò di mano il foglietto di carta e rimase
palesemente deluso. La mamma non aveva scritto niente a loro.
Il padre era troppo euforico per lasciarsi scoraggiare da
quell'espressione: “La mamma è oltre quelle colline, ragazzo! - gli disse
– domani sera la riabbraccerai!”.
Jesse sorrise di lui e sospirò con un rantolo di dolore dato
dall'apprensione. Sì, era vero, la mamma era al di là delle colline e si
sarebbero riabbracciati. Ma prima c'era la battaglia... e nelle battaglie
non conta solo la strategia, conta anche la fortuna. Di vivere.
7.
Rihanna si accarezzò il ventre gonfio. Poco più di una settimana e la sua
bambina sarebbe venuta al mondo. Non l'aveva ancora detto a Jacob, ma
era una femmina. Ne aveva l'assoluta certezza, se lo sentiva.
Suo marito cercò la sua mano e la poggiò sul ventre. La piccola
scalciò e lui si trattene dal sorridere felice. Non era l'espressione che il
suo capitano di stanza a Tulle si sarebbe aspettato.
“Quindi è certo che John Henry sia tornato adesso?” insistette con il
soldato.
“Sì, mio signore. L'ho visto io in marcia verso Tulle. Alla testa della
compagnia c'era anche Mayster. E' stato impossibile non riconoscerlo”.
“E come sta Mayster?” il sangue di Jacob cominciò a ribollire.
“Splendidamente, purtroppo. Sembra che il tempo per lui non sia
passato. Abbiamo anche riconosciuto il capitano Mas e nella compagnia
c'erano tre marmocchi”.
“Mas non era un capitano di Corin il Fuorilegge? - intervenne Rihanna
– Non era lui che si accompagnava ai tre figli?”
Il capitano annuì, perplesso.
Rihanna si mordicchiò il labbro e sorrise appena: “Ho capito...”
435
mormorò.
“Capito, cosa?” chiese suo marito.
“Corin il Fuorilegge è Mastro Mayster. L'assenza di Corin per tutti i
mesi precedenti era la ricerca di John Henry. E la tua sconfitta sul Fiume
Dorato era certa, a questo punto: Mayster conosceva la strategia”.
Jacob sentì la vena gonfiarsi e pompare sangue furiosamente. Certo
che sua moglie aveva ragione. Certo che Corin era Mayster. Certo era
che non aveva voluto vederla, la verità – coglione che sono.
“Che cosa facciamo, signore? Mayster punta palesemente alle Cave di
Marmo Nero delle Torri”.
Rihanna fissò suo marito. A questo punto Grande Regno si aspettava
una risposta di Jacob a John Henry.
“Quanti sono?” chiese il Barone al capitano.
“Non meno di diecimila unità”.
“Mayster mette in campo tutta la sua forza. Tenendo conto che le
regioni libere sono ormai la metà di quelle che combatterono con lui
dodici anni fa, quello è il massimo delle truppe che ha radunato. Vuole
liberare le Cave per avere nuovi soldati. - Jacob fece un cenno alla serva
perché gli versasse del vino e ne offrì al suo capitano, ancora in piedi
dinanzi ai due troni – io stesso agirei alla stessa maniera”.
“Chiamerete Leman?”
“Farò arrivare dieci plotoni da Leman e mi attiverò perché Tulle ne
mandi altrettanti. Voi sarete responsabile della difesa delle Cave”.
“Prego...? Mio signore, voi non ci sarete...?” il capitano strabuzzò gli
occhi per la meraviglia.
“No, non ci sarò. Se quella è tutta la forza di Mayster, io voglio
radunare la mia. Le Cave sono ben difese con le nove torri e non
dobbiamo dimenticare che disponete anche della cavalleria”.
“Ma, Maestà, stiamo parlando di appena tremila unità!”
“A cui dobbiamo aggiungere i venti plotoni. Mi auguro tu sappia
contare, se vuoi rimanere in carica” lo schernì.
“Mio signore, si tratta sempre della metà di loro!”
“Questo è quello che posso fare. Trasforma la vittoria dubbia in una
vittoria certa”.
Il capitano lo scrutò solo per un istante e comprese dagli occhi
azzurro-verdi del suo signore che pronunciare ancora una parola poteva
essergli fatale. Dunque tacque e si congedò con un inchino rigido.
Rihanna attese che il capitano fosse uscito dalla sala prima di
interrogare suo marito. La piccola scalciava da farle male. Fece un cenno
alla serva di andarsene. Si alzò con qualche difficoltà dal trono e pensò
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alle sue gambe gonfie: quando aspettava Xanatos non aveva avuto di
questi problemi. Forse perché, quando aveva avuto Xanatos, non aveva
un piccolo Xanatos a cui stare dietro.
Versò dell'altro vino a suo marito e si tagliò due fette di formaggio
dal tavolo con le vivande.
“Non ti capisco” esordì porgendogli il bicchiere.
“Perché?”
“Le Cave di Marmo Nero sono una ricchezza. E quelle delle Torri sono
tra le più grandi di Hakne”.
Jacob fece un cenno con la testa di ringraziamento per la coppa di
vino e sorrise a sua moglie: “Sei attenta ai particolari”.
“Non così tanto se non ho capito che cosa ti frulla per la testa”.
“Forse sei solo all'oscuro di qualche informazione”.
Rihanna sollevò un sopracciglio: “Mi stai prendendo in giro?”
“In questo momento non ci riuscirei neppure con tutt'e due le braccia”.
“Idiota...!”
Jacob scoppiò a ridere e si alzò dal trono per circondarle il ventre. In
effetti Rihanna era enorme ad una settimana dal parto e braccia grandi di
Jacob riuscivano a malapena a chiuderla in un abbraccio.
“Moglie mia, quanto sei permalosa”.
“Tollero poco essere all'oscuro di certe informazioni”.
“Tu tolleri poco essere all'oscuro di qualsiasi informazione”.
“Umpf!”
Jacob sorrise e le schioccò un bacio sul collo.
“Le Cave di Marmo Nero a Tulle sono state sfruttate fin quasi
all'esaurimento. - le spiegò a voce bassa – Me ne sono impossessato
quasi sei anni fa e negli ultimi due anni le ho sfruttate il più possibile.
Mayster può conquistare quello che vuole e John Henry può rivendicare
tutto ciò che desidera: io sto puntando a qualcos'altro”.
“Qualcosa, tipo?”
“Alto Castello e Hakne”.
“Hai già contato le perdite di Tulle allora?”
Jacob si chinò sul suo ventre e depose un bacio. “Bambina, posso
anche sembrare un vecchio padre rincoglionito, ma non lo sono”.
Rihanna gli carezzò i capelli color carota, striati di bianco. Suo
marito era troppo sicuro di sé per ribattere. E, in cuor suo, era felice
d'averlo accanto per la nascita della piccina. La guerra le sembrava una
realtà inverosimile: ora c'era il silenzio della sala del trono, sua figlia che
scalciava nel ventre e suo marito che improvvisamente appariva come un
ragazzino eccitato.
437
8.
Grace si domandò per giorni quando Neropece sarebbe venuta a finirla e
a quali torture l'avrebbe sottoposta. Nella cella in cui era stata gettata
c'erano solo i topi e la muffa. Una guardia di tanto in tanto veniva a
portarle del cibo e dell'acqua; forse si sarebbe fatta anche una scopata, se
Grace non fosse stata simile ad uno straccio lurido. Era ferita, tumefatta
e con le ossa rotte. I primi giorni di prigionia aveva invocato la morte e
invidiato quella di Joseph, che era sopraggiunta immediatamente dopo le
percosse di Neropece.
Ancora una volta a lei rimaneva quella vita senza senso e senza pace.
Adesso, Dea Hilu, a quale tortura mi lascerai? Non alla morte della sua
famiglia, no, quello era già successo. Al sangue anche. Allo stupro pure.
Alle percosse era abituata. Cosa, allora? Cosa avrebbe provato adesso
nella sua inutile vita?
La mente le si svuotò di ogni ricordo ed ogni rabbia. Morì senza
morire. Ad un certo punto si rese conto d'aver saltato il pasto e che i topi
ne avevano banchettato. Volse la testa dall'altra parte e rimase ad
ascoltare il battito del suo cuore. Non c'era giorno né notte, là. Era tutto
uguale.
Smise di aprire gli occhi, tanto era sempre buio, là sotto.
Perciò pianse per il dolore quando la donna entrò nella sua cella con
la torcia.
Beatrice.
Grace si mascherò la faccia e si preparò alle percosse,
rannicchiandosi contro la parete.
“Come ti chiami?” chiese Beatrice in un sussurro.
Grace si appiattì contro la parete umida. Alle spalle di Beatrice la
porta era spalancata e non c'era guardia, ma a Grace non importava di
scappare.
L'altra le si inginocchiò al fianco. Recava con sé un otre di acqua
calda e un cesto con del cibo. Legato alla schiena un grosso zaino. Da
esso tirò fuori una pezza e la bagnò con l'acqua. Passò il panno sul volto
sozzo di Grace e mormorò ancora: “Come ti chiami?”
“G... Grace” gracchiò l'altra.
Beatrice le diede da bere e le passò sulle labbra una pappa fatta di
avocado e melone, fresca e dolce. Grace succhiò la poltiglia e Beatrice vi
aggiunse un biscotto secco.
“Fai piano, Grace” Beatrice si volse a guardare la porta della cella.
438
Grace la studiò un secondo. Beatrice era davvero magra e sul volto le
ecchimosi non erano affatto scomparse.
“Dimmi solo una cosa. - le ingiunse la compagna di Neropece – Dimmi
perché mi hai protetta”.
Il dolore invase Grace all'improvviso e lei scoppiò a piangere con
singulti irrefrenabili. Raccontò a Beatrice di sua madre e suo padre, di
Weer, della Casa e di Joseph. Di essersi illusa che lui potesse capire, che
potesse amarla. Non aveva compreso che si trattava solo della sua
illusione. E, nell'istante in cui aveva capito, aveva provato a rimediare.
“Io ero pronta a morire, Madama Beatrice...! Ve lo giuro! Merito di
morire per ciò che ho fatto!” pianse.
Beatrice riconobbe la voglia della straniera di pagare per i suoi
peccati. Sì, avrebbe voluto vederla soffrire e soffrire, ma sapeva che
Grace era stata solamente una pedina ed una persona sola. Come lei.
Grace aveva cercato di cambiare il suo uomo, di illudersi che tutto
sarebbe migliorato. Che avrebbe pagato con la sua vita, sì, Beatrice ne
aveva la certezza.
Nonostante Joseph, però Grace aveva tentato con tutte le sue forze di
fermarlo. Se la ricordava, mentre aveva combattuto al suo fianco per
placare il mostro.
“Ascolta. - le impose Beatrice – Adesso ti rimetto in sesto come riesco
e ti faccio andare via da qua. Ti lascerò acqua e cibo per qualche giorno;
vai ad ovest. Cammina di notte e di giorno trova riparo contro il caldo:
risparmierai acqua ed energie. Quando troverai piante piccole e con le
spine, sappi che là c'è una piccola sorgente d'acqua: cogli le piante dalle
radici e mangia il lunghi fili che legano la pianta alla terra. Sono pieni di
nutrimento. Nella sacca ci sono gli unguenti per le tue ferite. Io adesso
non posso fare granché, abbiamo poco tempo. Oltre il deserto sorgono le
Grandi Montagne Rosse, troverai un rifugio sicuro”.
Grace obbedì agli ordini di Beatrice. Provò a mettersi in piedi, ma il
ginocchio non resse. L'altra donna dovette improvvisare un bastone. La
medicò come poté e le cambiò l'abito, assicurandosi che non avesse
ferite mortali. A peso la condusse via dalla cella.
L'aria fredda della notte desertica investì Grace come un'onda. La
donna barcollò e si costrinse a respirare. Meglio. Sì, ora andava meglio.
Alle loro spalle, si udirono i passi pesanti di alcune guardie che
andavano alle cucine.
Beatrice pose le mani sulle spalle di Grace: “Questo è quello che io
posso fare per te, straniera. Ora siamo pari”.
Si volse e tornò dentro la Torre, chiudendo la porta pesante.
439
Grace si era aspettata un segno di perdono o benevolenza. Beatrice
aveva lasciato trasparire tutta la sua voglia di scaricarle addosso la colpa
di aver portato Francis e Joseph da loro e quindi non poteva perdonarla.
Si era imposta di essere giusta. La odiava, ma era stata giusta.
Grace si appoggiò al bastone e si trascinò giù dalla collina, verso la
città. Ecco la tua tortura, Dea: lasciarmi in vita in questo stato.
Si volse verso la Torre un'ultima volta. Beatrice pensava di averle
reso un servigio, invece l'aveva condannata alla prigione peggiore che
era la vita. In quella sua ultima occhiata alla Torre, Grace ci mise tutta la
sua rabbia ed il suo odio.
Ancora una volta Grace scomparve invisibile.
440
CAPITOLO 23.
1.
Notte insonne, notte di sogni. Per sognare bisognerebbe dormire, ma
non sono mai stata più desta di così. Eppure, tutto questo è un sogno: tu
vivo, al di là delle colline, che mi mandi messaggi tramite un falcone.
Chiudo gli occhi e ti vedo. Li apro e ti vedo lo stesso, nelle fiamme
del fuoco. Vicino e lontano. In una danza estenuante, violenta e beffarda.
Sono stanca di questa danza e vorrei che adesso fosse più tardi; oggi,
domani.
Apro le mani e richiudo il pugno, serrato. Queste mani saranno
abbastanza forti? Sapranno prenderti? Sapranno riprendere la nostra
vita andata alla deriva? Sapranno ricostruire la nostra casa? E la
nostra famiglia?
Intanto, aspetto.
2.
Corin si vestì.
I suoi figli lo osservavano in religioso silenzio: i parastinchi di
metallo nero lavorato, la corazza sul petto, il mantello drappeggiato,
l'elmo nero, lucido, terrificante. La vestizione di Mastro Mayster era
accompagnata dai fruscii della stoffa che veniva mossa e da nient'altro.
Jesse non gli aveva chiesto più nulla, dopo aver letto il messaggio di
sua madre. Era andato a dormire stranamente tranquillo e non trovava
ora, dentro di sé, la forza per disperarsi di quella partenza. Forse, si
disse, non ne ho più l'energia. Aveva aspettato così tanto che adesso non
era più in grado di provare ansia o apprensione. Il dolore per la
mancanza della sua mamma era radicato in lui, in un modo che non
avrebbe mai saputo spiegare.
Forse sbagliava, forse quella quiete era il risultato della fiducia cieca
che finalmente aveva in suo padre. O forse no, si sbagliava, era nella
mamma che aveva la massima fiducia e, dal momento che lei
combatteva, tutto sarebbe andato per il meglio.
Non aveva ancora i peli sul pisello, almeno non tutti, ma di sicuro era
441
in competizione per il posto di galletto del pollaio.
Corin finì di vestirsi e si sedette sul letto.
“Avanti, ragazzi, qui tutti. - esordì, prendendoseli accanto – Sto per
andare e farò ritorno questa sera...”
“Con la mamma?” trillò Mark.
“Con la mamma” confermò Corin.
“Voglio che mi promettiate che sarete obbedienti e che starete qui al
sicuro. Per fare bene questa cosa, la mamma ed io abbiamo bisogno di
tutte le nostre energie e concentrazione, ma se dobbiamo anche
preoccuparci di voi...” lasciò cadere la frase e diresse l'attenzione verso il
più monello dei tre, Mark.
“Io sono grande, papà!” protestò il figlioletto.
“Davvero?” sogghignò Corin.
“Posso usare anche il pugnale di Jesse, se voglio”.
“Avvicinati al mio pugnale e ti apro in due” lo minacciò il maggiore.
“Scemo!”
Forte della sua stazza fisica, Jesse gli diede uno scappellotto, ma
Corin li separò. Fulminò il maggiore: “Piantatela. Mark, voglio solo che
mi prometti da bambino grande che starai bravo. Jesse, se ti sento
minacciare ancora tuo fratello in quel modo, mi riprendo il pugnale. Ti
sto addestrando e ti ho fatto quel regalo perché proteggessi i tuoi
fratellini, non per fare il bullo: vedi di ricordarti di chi sei figlio”.
Jesse sbuffò.
“Scusa, Mark”.
“Bacio, papà” cinguettò Tommy.
Corin baciò le labbra umide del piccolo e poi i riccioli scuri,
facendogli il solletico sui fianchi. Tommy si dimenò ridendo, poi anche
Mark si gettò sul padre per la sua dose di solletico e baci. Corin rise e si
lasciò tormentare dai bambini, poi si ricompose.
“Va bene, ragazzi, devo andare. Datemi un bacio e state di vedetta,
d'accordo? La mamma sarà sul cavallo con me e...”
“La riconosciamo, la mamma!” berciò Jesse. Poi sorrise e si lanciò su
suo padre in un abbraccio. Corin si riempì le narici del suo profumo e del
calore di ciascuno di loro. Sentiva il suo sangue pulsare come il loro.
Comprese il significato di sangue del mio sangue.
Seguito dai figli, uscì dalla tenda e lo scudiero gli avvicinò il
destriero. Mastro Mayster aveva indosso l'elmo ed appariva magnifico e
terrificante allo stesso tempo. Jesse si coprì gli occhi nel riverbero di
quella giornata afosa, con il sole che non riusciva a fare breccia nella
grossa nuvola di calore. Il clima era umido, soffocante ed in cielo le
442
nuvole bianche riflettevano la luce del sole.
Jesse pensò che suo padre fosse un dio.
Corin fece verso di lui un solenne cenno col capo d'intesa e sorrise ai
due figlioletti più piccoli, quindi schioccò la lingua e il cavallo si mosse.
“Questo è un grande giorno. - esordì con voce tonante il Primo
Generale del re agli uomini pronti per la battaglia – Questo è il giorno in
cui Jacob il Sanguinario conoscerà la paura: il popolo libero di Hakne
non ci sta a farsi schiacciare come formiche!”
“Sì!” acclamarono i soldati.
“Quel bastardo ci ha provato,ad annientarci, ma non ci è riuscito. Oggi
noi gli faremo vedere che le nostre teste non si piegano!”
“Sì!”
“Oggi renderemo libera Hakne!”
Il Generale partì al galoppo tra le due fila di soldati scalpitanti. Dopo
di lui gli uomini furono richiamati dai loro superiori e si chiusero nelle
fila per la marcia verso il campo di battaglia.
Jesse si risvegliò solo quando l'intero esercito fu lontano nella pianura
sottostante la loro piccola collina: papà era partito per la battaglia. Ma
che esito avrebbe avuto questa battaglia...?
3.
“Pronta?” Tray finì di colorare la faccia di Rebecca di verde, marrone e
grigio scuro. I colori della foresta. I capelli nascosti sotto il copricapo di
cuoio scuro e la divisa da combattimento verde scuro: Rebecca sembrava
una creatura nata dal ventre della terra.
“Non lo so” ammise il capo.
“Paura?”
“Sempre, prima di combattere”.
“Io no”.
Rebecca vide come Tray nascondeva gli occhi grigio-blu al suo
esame. No, non era vero che non aveva paura. Evitò di dirle che stava
mentendo perché quelle erano le illusioni che ognuno si crea prima di
combattere: ne ha bisogno per convincersi di essere invincibile. No, non
me ne importa nulla se muoio. No, non ho paura di morire.
Sopraggiunse Giada.
“Ho visto l'esercito di Mayster prepararsi. Ci siamo, Becca”.
“Bene, ognuna ai propri posti”.
Le guerriere si prepararono: le arciere di Tray sugli alberi, le
443
guerriere di terra nel sottobosco e Giada sistemata in un luogo sicuro.
Una parte di lei era già in trance.
Rebecca e Tray furono le ultime a prendere posto.
Tray afferrò Rebecca per il gomito: “Fa' attenzione, là fuori” le
sussurrò con gli occhi spalancati di una bambina spaventata.
“Farò del mio meglio, Freccia Letale” le sorrise per rassicurarla.
L'altra annuì ed andò a prendere posizione.
Rebecca si arrampicò nella postazione di Giada, da cui si dominava
l'intera vallata.
George stava discendendo da est con le sue truppe e si stavano
alzando i primi fumi della battaglia.
Era iniziata.
4.
Corin mandò giù in gola il sapore acre dell'eccitazione e della paura.
Le mani fremevano per combattere, il sangue pulsava eccitato, la
mente era lucida e folle.
Là, là c'era Rebecca! Oltre quelle Torri, oltre la pianura, in quella
foresta c'era Rebecca!
“Il segnale” lo scudiero indicò il lampo di luce degli specchi che,
riflettendo la luce, indicavano l'arrivo di Mas sul fronte orientale.
George, a nord, aveva ricevuto e indicava a sua volta di essere pronto.
“Restituisci” ordinò il Generale.
Da lì a meno di dieci minuti una colonna di fumo si alzò e si vide un
gran movimento di uomini tra le mura delle Torri. Gli uomini di Corin
erano acquattati, silenziosi, dietro l'altura, nascosti al nemico. Solo il
Generale controllava la situazione, usando l'Oltrevista.
Come previsto, Mas e i suoi dovettero affrontare gli opliti e gli arcieri
delle Torri ad est; Corin si trovò a trattenere il fiato: per la vittoria sul
nemico era indispensabile che Mas riuscisse a fare breccia, altrimenti gli
uomini di Weer avrebbero avuto un varco da cui scappare quando
avessero caricato con la cavalleria.
La battaglia di Mas proseguì per quasi un'ora e, dalle urla che si
andavano levando, doveva essere uno scontro duro.
Gli uomini nelle retrovie tacevano.
Non c'era un alito di vento ed il caldo umido appiccicava i capelli
sulla fronte di Mayster, che sudava copiosamente nell'armatura nera. Ma
lui non tentennò.
444
Aspettò.
Per vincere aveva bisogno di fidarsi dei suoi uomini e dei suoi amici:
Mas non l'avrebbe deluso. I minuti passavano e le urla tra le Torri si
facevano alte.
“Signore...” mormorò lo scudiero, pallido.
Le grida della gente che combatte e che muore è agghiacciante. Ti
perfora i timpani e ti martella nelle tempie, nel petto; fa vibrare la terra
sotto i tuoi piedi e la rende instabile. La coscienza viene annientata dalla
domanda: e se fossi io a urlare così?
Mastro Mayster non tentennò dinanzi a quelle urla terrificanti di
morte. Sembrava che la sua corazza nera lo proteggesse da tanto orrore;
chi poteva immaginare che l'animo di Mayster fosse stata così annientata
da quelle stragi da non avere più nulla da perdere?
“Silenzio” sibilò allo scudiero.
Il ragazzo tacque e si morse il labbro inferiore. Stava per pisciarsi
addosso.
Dopo un'ora circa, arrivò il segnale.
“Mio signore!” esclamò sollevato lo scudiero.
Mas aveva aperto il varco tra le Torri di Sud-Est.
George mandò il suo segnale che partiva con la fanteria da nordovest.
Con l'urlo liberatorio dell'adrenalina troppo a lungo trattenuta,
George ed i suoi si gettarono sulle mura di nord-ovest, dove una parte
degli uomini era accorsa in soccorso delle altre truppe. Superarono
quindi con estrema facilità il muro e scoppiò lo scontro. Dal ventre della
terra, là dove c'erano gli schiavi, uscirono altre due centinaia di uomini
armati.
Corin storse la bocca, la gola stretta dall'ansia: non aveva immaginato
che anche i carcerieri avrebbero combattuto. George ce l'avrebbe fatta?
Adesso lo scudiero appariva fiducioso e non disse nulla.
Corin rimase in attesa per vedere cos'avrebbe fatto il suo capitano.
George diede ordine ai suoi di dividersi in tre gruppi: uno a
combattere le guardie degli schiavi, uno centrale ed uno delle retrovie.
La sua squadra fu brava, perché eseguì immediatamente l'ordine senza
perdersi e con coordinazione.
Avrebbe dovuto fare i suoi complimenti a quello scavezzacollo,
sogghignò tra sé il Generale, soddisfatto.
“Preparatevi” ordinò ai suoi a cavallo.
La fila di cavalieri, fanti e arcieri avanzarono composti, senza
emettere un fiato.
445
Come previsto, dopoché George ebbe dimezzato il numero di nemici,
venne fuori la cavalleria.
“Via via via!” si udì il capitano urlare ai suoi, che corsero a perdifiato a
riparo della collina. Gli uomini a piedi vennero incalzati dalla cavalleria
nemica.
“Adesso!” tuonò Mastro Mayster, alzando Co'ah e spronando il suo
destriero giù per la collina. I suoi gli furono dietro, gli arcieri presero
posto sulla cima della collina e fecero piovere una pioggia di dardi sulla
cavalleria nemica, sorpresa della comparsa di quel nuovo fronte di ovest.
Un urlo disumano e tonante percorse tutta la collina e fece tremare le
Torri: Mastro Mayster era tornato!
Il Primo Generale del Re piombò sul nemico con tutta la sua potenza
e forza, il primo soldato che ebbe la sventura di incrociare la spada con
lui si trovò aperto dagli intestini alla gola. La cavalleria reale era serrata,
organizzata e spietata. Li seguivano i fanti, protetti alle spalle dagli
arcieri.
In meno di venti minuti di combattimento il nemico fu respinto
all'interno delle Torri e gli arcieri di Corin avanzarono per neutralizzare
quelli nemici.
Corin era esaltato. Faceva un caldo del cazzo dentro quell'armatura,
ma lui non lo percepiva. Sentiva unicamente il ritmare del suo cuore, il
pulsare del sangue caldo – suo e di chi lo affrontava – e il sapore acre e
saporito della battaglia, della violenza cieca. Non arrivò a chiedersi se
fosse un uomo ancora, perché un uomo con del senno non avrebbe avuto
la sua fame di sangue.
...per mia madre, per mio padre, per mia nonna e mio nonno, per
Rebecca, per sua madre e suo padre, per Jesse e Mark e Tommy, per
Giada e per sua madre, per William, per Orson, per il mio amico Mark e
tutti i miei amici, per il mio villaggio, per Makma, per Hakne, per...
La lista non finiva mai. Così tanti volti, così tante storie, così tante
persone che meritavano vendetta!
George ed i suoi si accodarono al gruppo di Corin, coprendo loro le
spalle. Dovevano ritrovarsi con Mas all'ingresso delle Cave per liberare i
prigionieri.
La furia cieca di Mayster mise in fuga i nemici di sud-est, che senza
incrociare il metallo con l'esercito reale si precipitarono oltre le mura,
verso le foreste di sud.
Nonostante il piano, Corin tentò di riprenderli: non voleva che
Rebecca combattesse.
Troppo tardi. Il primo centinaio di uomini penetrò nelle foreste.
446
Ora toccava a Spezzacolli.
5.
Il momento era giunto.
Veloce, inesorabile, non si poteva tornare indietro. L'esercito reale
stava combattendo con ferocia, si potevano udire i rumori violenti della
battaglia fin da loro, al sicuro nella foresta.
Perché fanno questo? - si chiese Rebecca tra l'inorridito e
l'addolorato per quelle urla grottesche di sofferenza – perché gli uomini
risolvono tutto, sempre, con la forza e la violenza?
Sì, d'accordo, rifletté la donna per l'ennesima volta, se qualcuno ti
ruba ciò che tuo di diritto e prova a mettere fine alla tua esistenza, è
giusto combattere. Ma la violenza era qualcosa che lei non condivideva.
Pur essendo a capo di uno spietato gruppo di donne guerriere, che
raramente faceva prigionieri. Combatteva con la violenza perché non
c'era altro modo... o esisteva un altro modo?
Se lo chiedeva da quando suo padre era partito per la Guerra Rossa.
Mandò giù quel groppo che aveva in gola, amaro, pesante e tentò di
ignorare il battito del suo cuore: e se fosse andata male proprio oggi? Se
non ce l'avesse fatta proprio oggi?
Poteva essere Hilu tanto crudele? Gli Dei potevano giocare loro un
tiro tanto mancino? Essere tanto bastardi?
Potevano, se l'avevano lasciata orfana di madre e di padre così
piccina, se si erano portati via la sua bambina, se avevano permesso che
Weer facesse tutto ciò che aveva commesso.
La mano calda di Giada avvolse la sua, qualcosa toccò la mente di
Rebecca con gentilezza. La principessa le sorrise dolcemente. “Sono
qui” le disse semplicemente.
Rebecca la fissò con gli occhi verdi colmi di smarrimento e paura
viscerale. Era pronta per quello? Era pronta ad affrontare quella battaglia
come se non ci fosse stato nulla da perdere, come se potesse ignorare la
possibilità di non riabbracciare l'uomo che amava ed i loro bambini?
“Sono qui” le ripeté Giada, stringendole la mano con più forza.
Sono qui.
Nonostante tutte le debolezze di Giada, Giada c'era. Anche lei aveva
di che perdere, là, su quel campo di battaglia, il suo uomo era là. E Tray,
poco distante da loro, anche lei aveva molto da perdere, se qualcosa
fosse andato storto.
447
Non era sola, Rebecca, non lo era mai stata. Non del tutto, ecco. Lo
aveva sempre saputo, ma aveva bisogno di averne la certezza ora, per
trovare la sua forza.
L'esercito di Donne-ombra assistette silenzioso agli scontri nelle
Cave. La cavalleria aveva caricato quella nemica e, dalla loro postazione,
poterono vedere con chiarezza che il numero dei soldati reali era
numericamente superiore di quasi quattro volte quello di Weer. Il nemico
si batté con forza, ma presto fu vinto dal terrore della morte; i ranghi
vennero rotti e ognuno pensava per sé.
Sotto il cielo color del piombo, nel caldo afoso di quella giornata
estiva, qualche centinaio di nemici – chi a cavallo, chi a piedi – corsero a
rotta di collo verso la foresta.
“Pronte?” sibilò Rebecca alle sue.
“Al tuo segnale” rispose in soffio Freccia Letale.
Spezzacolli discese dall'albero su cui sedeva Giada e si appostò
accanto a Bella. Sfoderò la piccola spada forgiata apposta per lei e
controllò un'ultima volta che le sue compagne fossero pronte.
Percepirono il nemico arrivare come una tempesta: dapprima il
rumore sordo e lontano del passo pesante, lo scalpiticcio degli zoccoli
dei cavalli che venivano incalzati, le urla dei cavalieri ai fanti; poi il
rumore si fece potente, faceva vibrare la terra.
Rebecca fece segno alle guerriere di attendere che i primi cinquanta
uomini penetrassero nella foresta. Costoro corsero nel bosco e
rallentarono una volta dentro, perché si accorsero che non c'era la
cavalleria nemica a seguirli. Alcuni si fermarono per riprendere fiato e
scambiarsi qualche parola.
La foresta fu avvolta da un silenzio ovattato, dove i rumori erano
attutiti. Giada, dalla sua postazione, comandava migliaia di piccoli insetti
che con il loro impercettibile movimento copriva ogni altro rumore
esterno al bosco. E la foresta divenne stregata.
Uno degli uomini incontrò gli occhi smeraldo di Rebecca, ma l'effetto
del potere con cui Giada aveva avvolto la foresta non gli permise di
vedere la sua figura.
“Ora!” tuonò Spezzacolli alle sue compagne.
Una pioggia di dardi dall'alto degli alberi atterrò più della metà di
quegli uomini. I sopravvissuti si diedero alla fuga nel folto del bosco e le
guerriere a terra li circondarono. Colpivano in gruppi di tre: una alle
spalle, una di fianco e una di fronte. Erano fulminee. In meno di un
minuto l'avversario veniva circondato, colpito e ucciso. Dopo un minuto
esatto si ritiravano silenziose e spettrali così com'erano saltate fuori. Se
448
l'avversario era sopravvissuto, veniva attaccato un'altra volta. Tra un
attacco e l'altro c'erano meno di due minuti: abbastanza perché lui
pensasse di essere al sicuro, non abbastanza perché avesse ripreso
padronanza di sé.
Fu una carneficina, inutile dirlo. Le guerriere di Spezzacolli avevano
troppi conti in sospeso per riuscire a sentire anche solo un po' di pena per
il nemico. Furono efficienti come animali predatori e mai sazie.
Alla fine, chi riuscì, fuggì dalla foresta maledetta e fu braccato dalla
cavalleria reale. Le possibilità erano due: arrendersi e farsi arrestare o
morire nel tentativo di guadagnarsi la libertà. Molti di quegli uomini
preferirono la morte al carcere a vita.
La battaglia proseguì sul campo aperto e Rebecca ne approfittò per
fare il conto delle sue guerriere:
“State bene?” s'informò.
“Abbiamo qualche ferita” la informò Bella, tentando di fermare
l'emorragia al naso di una compagna.
Rebecca diede un'occhiata alla ragazza. “Setto nasale fratturato. Un
bel trofeo, ragazza” le sorrise.
Solo una di loro era ferita gravemente ad un fianco e tamponarono la
lacerazione come meglio poterono; Rebecca sapeva che non c'erano
molte speranze di salvarla e le restò accanto.
Durò tutto pochi istanti, ma la compagna appariva serena.
“Per i miei bambini, Spezzacolli. Erano gemelli... avevano un mese
quando mi hanno rapita”.
Rebecca le baciò la fronte tiepida. I neonati, durante le razzie,
venivano ammazzati perché non sarebbero sopravvissuti senza la madre.
“Saranno orgogliosi di te, sei una madre meravigliosa” le sussurrò.
Lei annuì, chiuse gli occhi e in meno di qualche secondo era spirata.
Suo malgrado, Rebecca si trovò ad asciugarsi gli occhi.
“Ehi, quello è Mayster?” chiese una delle arciere sull'albero, indicando
il campo di battaglia.
Rebecca si arrampicò veloce come uno scoiattolo accanto a Giada.
Là, in mezzo al campo di battaglia, a meno di trecento metri da lei, si
trovava Mastro Mayster.
Dopo due anni, ecco suo marito.
449
6.
Rebecca incrociò lo sguardo di Giada.
Non le riusciva di respirare! Devo toccarlo...! Devo toccare mio
marito!, parve urlare con tutto il suo animo.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la mente era annebbiata dal
bisogno che aveva di lui. Doveva toccarlo, averlo accanto, smettere di
essere Spezzacolli, tornare ad essere Rebecca di Makma!
“Va' da lui!” le sussurrò la principessa commossa.
“Ma...” Rebecca era combattuta tra la responsabilità che sentiva verso
le sue compagne e le grida laceranti del suo cuore.
“Vai, vai subito! Ora ci penso io” la voce di Giada non ammetteva
repliche. Rebecca non voleva repliche.
Scese giù dall'albero velocissima, senza guardarsi indietro, senza
badare a Tray che la richiamava. Scese da quell'albero e corse tra i
cespugli della foresta e le radici che spuntavano; uscì dal folto del bosco,
incurante dei nemici stupefatti di vederla, là, alla luce del sole, la piccola
Donna-ombra dagli occhi della foresta.
Giada pose un velo di energia a proteggerla. Tray era interdetta: “Ma
dove sta andando Rebecca?”
“Guarda” mormorò la principessa esausta per lo sforzo che aveva
richiesto quella barriera sulla sua amica.
Tray ammutolì e seguì la piccola figura scattante di Rebecca tra i
nemici: scavalcava, saltava, guizzava via e, quando non poteva, colpiva
con la piccola spada per liberarsi da loro. Andava... no, era impossibile.
No, non è impossibile, sapeva Rebecca adesso, mentre correva verso
suo marito, verso il cavaliere nero con l'armatura che rifletteva la luce
del sole pallido.
Corin! Voglio te, marito!
Corin...!
E lui si stava battendo con diversi nemici, non dava tregua e non
aveva tregua.
Corin, così vivo così reale... due anni, maledizione! Due anni
maledetti senza di te!
Rebecca aveva gli occhi offuscati dalle lacrime. Perse la spada da
qualche parte, perse la forza da qualche parte, perse Spezzacolli da
qualche parte e rimase solo lei, Rebecca di Makma, la Piccola
Bambolina dei Miracoli di Corin.
Corse per non vedere, per lasciare alle spalle...
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... le mattine di nebbia in cui ti vedevo fluttuare al mio fianco...
... le notti in cui hai danzato nel mio fuoco...
... ogni istante in cui il vento mi ha portato il tuo profumo...
Corin l'aveva sentita.
Si voltò di scatto e la vide correre, piccola, minuscola e forte in
mezzo al campo di battaglia, testarda e sofferente, con gli occhi verdi che
urlavano il suo nome.
Rebecca!
Corin!
Mastro Mayster atterrò l'avversario e gli volse le spalle. Si mise a
correre verso sua moglie, incurante di tutto e tutti – 'Fanculo tutti!
'Fanculo il Grande Regno e tutti quanti! - e si tolse l'elmo, perché la
voleva vedere a tutti i costi la sua piccola donna guerriera.
Due anni...
Gli istanti si allungarono, i giorni svanirono.
Per due anni erano stati separati, loro, che non respiravano l'uno
lontana dall'altra.
Allungarono le braccia per prendersi, per sentire che finalmente era
realtà, che finalmente era possibile toccarsi di nuovo.
...Le terre e le valli che scorrono sotto i miei piedi, il tempo sottratto
da questa guerra maledetta che non ci appartiene...
Lei gli andò praticamente a sbattere addosso.
“Corin...” rantolò perché aveva tenuto per troppo tempo il suo nome
serbato in gola, bloccato in gola per non farsi rubare anche quello.
Corin si riempì gli occhi di lei, accecante per quanto era bella. Il
cuore che scoppiava di gioia, mente confusa dall'euforia.
Si chinò sulla sua piccola Bambolina dei Miracoli, le mani a coppa
sulle sue guance bollenti e bagnate di lacrime, baciò leggero le sue
labbra calde e si sentì trascinare. Rebecca lo aveva afferrato con forza
per il collo, lo cingeva con la forza della gioia e della disperazione.
“Rebecca!” gridò Corin in un'esclamazione liberatoria e la sollevò per
aria, come nel giorno del loro matrimonio, in cui avevano riso di tutto e
di tutti. E Rebecca aprì le braccia, esplose al cielo ed agli Dei la sua
rabbia e la sua esultanza per essere lì, per essere sopravvissuta, per avere
ancora una volta la possibilità di toccare il suo soldato.
Poi, come una candela la cui fiamma lentamente si stia spegnendo,
Corin avvicinò il volto a quello di lei, la baciò e la baciò con calma e
dolcezza; si sciolsero e fusero l'uno nell'altra, ignorando il mondo, il
campo di battaglia, il nemico sconfitto e gli schiavi liberati.
Le labbra assaggiarono le labbra, gli occhi si riempirono degli occhi e
451
i profumi si mescolarono; le mani s'intrecciarono. Non vi fu né spazio né
tempo: tornare ad avere quasi sedici anni e l'abito da sposa sotto la
benedizione delle stelle.
452
CAPITOLO 24.
1.
Tray si umettò le labbra fissando la sua amica Rebecca, improvvisamente
impazzita. La vide correre e sgusciare via dalle mani dei nemici, senza
che si curasse del pericolo. Giada aveva quasi finito di porre la barriera
protettiva su di lei e già una lieve luce azzurra e violetta s'irradiava dalla
figura della donna in corsa.
“Oh, cazzo...!” borbottò Freccia Letale nello scorgere un nemico pronto
a colpire la schiena di Rebecca. Incoccò una freccia e, nonostante l'altra
fosse assai lontana, mirò. Il nemico si accasciò con la punta del lungo
dardo nel collo.
Rebecca non si accorse di nulla.
Tray fremeva, ma dovette attendere che Giada avesse terminato la sua
operazione prima di potersi scagliare su di lei con rabbia per quel gesto
sconsiderato.
Sul campo di battaglia comparve un'altra fonte di luce azzurra e
violetta.
Mastro Masyter.
E Rebecca correva da lui a rotta di collo.
Freccia Letale intuì qualcosa che non sapeva ma che avrebbe dovuto
sapere. Perché Rebecca andava proprio da lui?
Giada si riebbe dallo stato di trance: era evidentemente affaticata e
goccioline di sudore le colavano dalla fronte. Di certo, quel caldo umido
non aiutava.
“Puoi spiegarmi che sta facendo?” berciò verso la principessa.
“Guarda” sorrise stanca ed enigmatica l'altra, ma raggiante.
Tray guardò.
Guardò Rebecca lasciarsi il nemico alle spalle, la vide perdere la
spada, oggetto della sua sopravvivenza, la vide asciugarsi il volto
bagnato di lacrime.
Guardò Mayster fare quello che un cavaliere in battaglia non
dovrebbe fare mai:tolse l'elmo di protezione, rinfoderò la spada e si mise
a correre verso...
...verso Rebecca!
Li vide gettarsi uno nelle braccia dell'altra; vide lui sollevare lei sopra
453
la sua testa – era impazzito? Così lei poteva essere colpita! - e li vide
sciogliersi in un bacio lungo e lunghissimo, poi stretti e sdraiati sul
campo di battaglia come due adolescenti.
“Grande Hilu! Ma quei due sono...? - sbottò, poi tacque, comprendendo
– perché Rebecca sta baciando Mastro Mayster?”
Giada al suo fianco sorrise. “Non lo immagini?”
“Oh, sì che lo immagino. Ma voglio sentirmelo dire, quanto sono stata
stupida” la sua voce fremeva di rabbia.
Come poteva Rebecca averle nascosto quello? Averle nascosto
d'essere la moglie del Capitano d'Aquila? Perché proprio a lei, se diceva
di considerarla una delle sue migliori amiche?
Giada non smise di sorridere: “Rebecca è sposata con Mastro
Mayster” ribadì.
Le lacrime di rabbia e delusione punsero gli occhi di Freccia Letale.
Tacque nel tentativo di dominare tutte le emozioni che la stavano
sopraffacendo. Ma se era la moglie di Mayster, perché non aveva
chiamato suo marito fin da subito? Perché andare a Madrigal, perché
anche solo affrontare quella battaglia?
Tray non immaginava che, dalla parte opposta del continente, un
anno prima, un bambino di soli nove anni picchiava suo padre per lo
stesso motivo: perché, se loro erano quello che erano, non avevano
subito posto fine alle sofferenze riunendosi?
Per Giada i sentimenti di Tray furono così violenti quasi da farla
sobbalzare.
“Non avercela con lei. - disse seria – Rebecca ha rinunciato a cercare
lui per me”.
“Per te?” sibilò.
“Sì, per me. Per mettermi in salvo, in vista dell'arrivo di mio padre”.
Tray non era stupida. Affrontò la principessa in silenzio. La fissò con
occhi di brace: fissò gli occhi color zaffiro, i capelli biondi che
spuntavano dal copricapo, la bellezza assoluta della sua persona; ricordò
come fin dall'inizio Rebecca l'avesse protetta e cercato il suo consiglio.
Oh, sì, adesso comprese!
“Rebecca ti proteggeva. Giada. La principessa Giada”.
L'altra annuì e volse lo sguardo verso Mayster e Rebecca, ancora
avvinghiati nel loro abbraccio e la battaglia che scemava. Finalmente era
finita. In tutti i sensi.
454
2.
“Amore, amore, amore...” sussurrò Corin con gli occhi che annegavano
in quelli di smeraldo della sua donna.
“Amore, amore, amore” ripeté lei, incredula dinanzi al solo fatto di
essere lì, in quel preciso istante e di avere ancora una volta la possibilità
di toccarlo. Così vivo, così reale.
“Come stai, amore?”
“Io tocco il cielo con un dito, ora. Dimmi dei nostri bambini”.
“Jesse ti cerca ovunque. Sembra quasi me. Mark ti chiama sempre.
Tommy ti sogna”.
“Portami dai miei bambini”.
Corin si rimise in piedi e la tirò su quasi di peso. In quei due anni era
dimagrita, gli parve un uccellino. Come poteva combattere, se gli
sembrava così fragile?
Ricordò le parole di suo padre: “Le femmine, J.J. Così fragili e così
forti”.
Recuperò l'elmo, ma non se lo mise. Questa volta voleva che tutti
vedessero il suo volto e vedessero con chiarezza sua moglie. Voleva che
tutti sapessero.
Tra lo stupore Generale, Mayster condusse Spezzacolli fin dal suo
scudiero e montarono a cavallo. Diede ordine a George e Mas di
radunare i soldati e di dare ordine alle guerriere di raggiungerli al campo
base.
“Non volete attendere, mio signore?” si stupì il ragazzo.
“No, ho atteso fin troppo. Adesso andiamo dai nostri figli”. Corin fece
schioccare la lingua e volse il cavallo in direzione del campo.
Rebecca si fece contro il suo petto, si strinse e respirò l'odore misto di
sudore, tabacco e cuoio che conosceva bene di suo marito. Le parve così
meraviglioso conoscerlo! Chiuse gli occhi e non li riaprì finché non
furono lontani dal campo di battaglia, con la certezza di essere al sicuro.
3.
Jesse aveva gli occhi bruciati dal sole di quella giornata afosa e chiusa,
ma non smise mai di guardare in direzione del campo di battaglia. Aveva
udito dei suoni, le grida della battaglia erano giunte in parte fin lì; Mark
aveva passato una giornata in un silenzio quieto ed innaturale con
455
Maestro Jamie che tentava di alzare delle barriere attorno alla mente del
piccolo perché tanta sofferenza lo stava sconvolgendo. Tommy
trotterellava attorno al maggiore e chiedeva mille volte che cosa Jesse
stesse aspettando.
“Che papà e mamma tornino”.
“Da dove?”
“Dal campo di battaglia”.
“Perché sono andati là?”
Jesse perse la pazienza. Spinse via il fratellino che si immusonì ed
Andrea accorse a consolare il piccolo.
“Non c'era bisogno di trattarlo così” lo rimproverò la governante.
Jesse stava per risponderle che poteva anche smetterla di augurarsi
che la mamma morisse e che papà tornasse solo dal campo di battaglia,
ma Maestro Jamie intervenne.
“Jesse, calma”.
La voce calda e rassicurante del fratello di sua Maestà placò l'ira del
ragazzino.
Jesse volse le spalle a tutti e si chiuse nel suo mutismo. John Henry
gli si sedette accanto chiuso nello stesso mutismo e rimasero insieme a
guardare l'orizzonte. Mark e Tommy saltarono in grembo al sovrano,
quasi fosse il nonno e gli strapparono un sorriso intenerito.
Passò un'altra ora.
Il sole scese verso la linea dell'orizzonte. Adesso era una palla rossa
nel cielo offuscato dalla calura e finalmente un venticello fresco si era
alzato per dare tregua all'afa. Gli occhi di Jesse si bagnarono di lacrime
rabbiose: non tornano, ecco! Non tornano e papà è morto in battaglia!
E' troppo tardi... non tornan...
“...Oh! - esclamò il ragazzino quando vide il cavallo di suo padre
avanzare oltre la pianura e, alle sue spalle, la prima linea degli uomini
che tornavano dal campo di battaglia – Sta tornando papà!”
L'urlo richiamò l'attenzione dei fratellini.
“Dove? Dov'è?” chiese Mark.
“Anch'io, anch'io! Lo voglio vedere anch'io!” saltellò Tommy.
“Là! Laggiù!” indicò Jesse. Ma era troppo lontano per i fratellini che
non avevano allenato l'Oltrevista e non scorgevano più di un puntino, che
poteva essere qualunque cosa.
“Ma non è vero!” sbottò polemico Mark.
“Io non lo vedo” ribatté meno affranto Tommy, ora in piedi sulle
ginocchia di John Henry.
“Perché siete due... - Jesse aguzzò l'Oltrevista. Il fiato gli si bloccò in
456
gola e il cuore prese a galoppare veloce e veloce e... - la mamma! - gridò
con tutta la forza che poté – LA MAMMA!”
A rotta di collo il bambino si buttò giù dalla collina. L'aveva vista!
Aveva visto la mamma! Seduta sul cavallo davanti a papà... aveva visto i
suoi occhi e...
“Jesse, aspetta!” urlò alle sue spalle Mark, correndogli appresso.
No, Jesse non lo avrebbe aspettato questa volta. Quando la discesa
ebbe fine, si mise a correre più veloce che poté verso il cavallo di suo
padre; correva così veloce da non avere più aria nei polmoni e le gambe
gli fecero malissimo, ma non importava. Mamma!
In un istante comprese perché non riuscisse a respirare: stava
singhiozzando. Piangeva come un neonato e non era in grado di fermarsi.
Non riuscì a capire che erano lacrime di felicità e sollievo. Inciampò,
cadde e si dovette pulire la faccia sulla casacca per riuscire a tirarsi di
nuovo in piedi.
“Mammaaa!” la chiamò.
Mark e Tommy gli fecero eco:
“Mamma!”
“Mammina!”
Rebecca vide il suo piccolo soldatino correre in mezzo alla pianura,
tra l'erba alta e lo udì chiamarla con quel grido straziante che hanno i
bambini quando invocano la mamma.
Strappò le redini a Corin e spinse il cavallo al galoppo.
Alle spalle di Jesse, Mark e Tommy correvano cercando di stare al
passo e la chiamavano allegri. Jesse invece urlava il suo nome, come un
ululato che strappi il cuore e Rebecca avvertì in quel richiamo l'istinto
primordiale che li aveva uniti il giorno in cui Jesse era nato.
“Jesse! Jessie!” rispose al suo richiamo con quanta voce aveva in
corpo.
Vide suo figlio inciampare, sparire nell'erba alta ed alzarsi e pulirsi la
faccia. Si era fatto male? Grande Hilu, stava bene?
“Jesse! Jesse!” Corin lanciò il suo richiamo verso il figlio.
A meno di venti metri da Jesse, Rebecca fermò il cavallo di scatto e
saltò giù, rovinando a terra con davvero poca eleganza. Aveva paura che
il destriero pestasse suo figlio con gli enormi zoccoli.
“Jesse!” Rebecca si buttò verso di lui con il cuore gonfio di un amore
tale da soffocarla.
Jesse era cambiato, era grande ora. Un grande piccolo soldatino. Ma
457
correva verso di lei come quando aveva tre o quattro anni e qualcosa gli
aveva fatto paura. Era un bambino sconvolto, quello che aveva dinanzi,
quello che la chiamava nel più ancestrale dei richiami:
“Mammaaa!”
Nel tramonto rosso e oro, con l'erba alta alla coscia, Rebecca
raggiungeva il suo primogenito, lo afferrava per le spalle con la forza
disumana di una madre e gli baciò le labbra, gli occhi, le gote, la fronte;
sprofondò negli occhi smeraldo come i suoi e lo rivide neonato, appena
pulito e pronto per essere allattato al seno.
“Ah, Jessie, il mio soldatino...” gli sussurrò senza riuscire a trattenere il
pianto commosso.
“Mamma...”
“Mamma!” Mark le piombò addosso con uno strillo così acuto da
stordirla.
Rebecca scoppiò a ridere mentre ancora piangeva.
“Mark! Amore!” lo attirò a sé coprendolo di baci.
“Mammina! Mamma...!” Mark rideva con urletti acuti di gioia.
“Mamminaaa!” Tommy piombò tra di loro, afferrando il collo di
Rebecca, che finì per terra tra le risa e le lacrime.
“Tommy! Il mio piccolo...!” baciò le guance rosse e sudate del piccino e
lo strinse in un abbraccio soffocante.
“Mamma, mamma!” ripeté Jesse avvinghiato al suo corpo.
“Bambini, bambini” mormorò lei allora.
Lenta, cadde la quiete del ritorno. Un respiro lungo e profondo e tutti
e tre annusarono il profumo della loro mamma, ricordarono le sue
carezze, il sapore dei baci, la sua voce. Avevano capelli morbidi e pelli
lisce.
Jesse aveva il viso rivolto verso di lei e teneva gli occhi chiusi, come
quando era piccolo ed aspettava i suoi baci. Rebecca baciò il suo piccolo
non così piccolo e baciò gli altri due.
“Allora, - chiese con un sussurro – stanno bene i miei ometti?”
“Sì, ora sì” rispose Jesse, fissandola negli occhi con un'espressione di
tristezza profonda. Rebecca ci vide subito la sofferenza per aver perso la
sua casa e la sua vita di prima.
“La mamma è tornata, ragazzi. Ora sistemiamo le cose”.
Jesse fece un sospiro profondo e soffocò il pianto liberatorio che
tratteneva nella gola da quasi due anni; nascose la testa nell'incavo del
collo di sua madre e tacque.
Corin li raggiunse. Alle sue spalle arrivava il primo drappello di
uomini guidati da Mas.
458
Mastro Mayster scese da cavallo e s'inginocchio accanto alla sua
famiglia. Baciò i capelli di sua moglie ed accarezzò le teste dei loro figli.
“Vedi? - le disse – l'hai fatto di nuovo”.
“Che cosa?”
“Il miracolo”.
Di essere viva, di essere con loro, di essere quello che era. Così
fragile e così forte.
Mastro Mayster circondò tutti loro in un abbraccio ed in quel
momento tornò ad esserci la casa, il focolare e la famiglia. Perché erano
loro casa, famiglia e focolare.
4.
Giada lanciò uno strillo acuto di gioia quando George, sporco di sangue,
ma illeso, comparve dinanzi a lei. Il copricapo le volò via mentre correva
da lui a braccia aperte.
“Ciao, bambina” le sussurrò il capitano stringendosela forte al petto.
“Ciao, Capitano” gli rispose di rimando.
Radunare il resto dell'esercito richiese più impegno che metterlo
insieme per la battaglia: c'erano i prigionieri, c'erano i feriti, coloro che
avevano liberato e c'erano i disperati che non sapevano più a chi credere.
Furono Tray e Marçela che si occuparono di organizzare il rientro al
campo; Mas aveva preso con sé un drappello di uomini pronti a
predisporre tutto per l'arrivo dei feriti.
Le pianure delle Cave erano uno spettacolo angosciante: sul campo di
battaglia c'erano migliaia di morti e feriti; urla e lamenti si alzavano
insieme al fumo e c'era chi infieriva sul moribondi. Le donne di Rebecca
furono oggetto di occhiate curiose e maliziose, loro con gli indumenti di
cuoio ed il trucco per il mimetismo, soprattutto da parte dei nemici.
Spiccava fra tutte Tray, con la sua chioma leonina e la statura imponente
di un uomo. Chi invece conosceva la sua fama, sussurrava il suo nome
piano perché le sue gesta erano grandi.
Giada tolse il copricapo e rivelò la sua bellezza abbagliante; gli
uomini più anziani che ricordavano Madama Esterella seppero subito la
verità
La principessa Giada.
Tra la gente cominciò subito a circolare la voce che Spezzacolli fosse
in realtà la moglie di Mastro Mayster ed immediatamente mille dicerie
presero piede. Quando poi fu evidente che il giovane capitano di Mayster
459
era l'amante della principessa...
Ai piedi delle colline dove sorgeva il campo base ormai tutti
pensavano di sapere tutto e nessuno sapeva nulla. Ma Giada cavalcava
appiccicata a George, felice come non mai di saperlo sano e salvo e Mas
rimbrottava sua moglie per aver lasciato ben cinque creature a casa
mentre lei andava a fare la dea vendicatrice.
“Se sapevo che eri così noioso, ti avrei tenuto nell'armadio” sbuffò
Marçela alla fine con una smorfia.
“Ah, io sono noioso? Non sei tu che hai il cervello piccolo come quello
di una gallina?”
“Si può sapere che c'hai? Sono qui, no?”
“E se ti succedeva qualcosa, con chi lo facevo un figlio io?” borbottò
quello.
“Un figlio? Adesso vuoi anche un figlio?” rise lei.
“Donna, sei snervante”.
“E tu un vecchio gallinaccio”.
Si sorrisero e capirono che presto la famiglia si sarebbe allargata.
Nel campo le risate cristalline di un bambino accolsero la lunga
comitiva che rientrava dal campo di battaglia. Giada ebbe un brivido di
eccitazione lungo la schiena.
“Mark!” la voce di Rebecca, una voce irriconoscibile, squillante e
felice, la sorprese.
Si udì quella roca e profonda di Mastro Mayster che mai Giada
avrebbe dimenticato e si udì quella più pacata di un uomo.
“Mamma, sono tornati tutti” un ragazzino intervenne.
Dal cerchio di tende che componeva lo spazio per il sovrano
comparve Rebecca.
Giada batté gli occhi incredula. Era la stessa donna che aveva lasciato
su quell'albero poche ore prima?
Rebecca aveva il volto pulito dal trucco, gli occhi smeraldo brillanti
di gioia e le guance arrossate per l'eccitazione. Pareva volare, tanto era
felice. Per mano teneva un bambino di che le arrivava al ventre, il viso
arrotondato come lei e capelli ricci scuri lucidi, occhi scuri disarmanti ed
un sorriso angelico che fece sciogliere la principessa. Nell'altra mano
teneva un bambino della stessa altezza, ma evidentemente più vecchio di
qualche anno, i capelli biondicci e occhi nocciola con un'espressione
furbetta che gli illuminava il volto. Il bambino aveva lineamenti così
delicati che pareva una femmina, ma dava perfettamente l'idea di essere
scattante come un furetto.
Mark e Tommy.
460
Davanti a Rebecca si parò un ragazzino che sorprese la principessa:
Mastro Mayster in miniatura. Stessi capelli, stessi lineamenti del viso,
stesso portamento fiero e strafottente e occhi verde smeraldo.
Jesse.
“Giada” la salutò Rebecca con un sorriso beato.
Alle spalle della donna comparve Mastro Mayster, ora senza la
pesante armatura e vestito con una maglia nera senza maniche e il
mantello drappeggiato sulle spalle.
La principessa sentì le lacrime pungerle gli occhi. Lui era così fulgido
che ebbe timore di guardarlo ancora. Mayster era ancora più possente di
quanto ricordasse, il tempo era passato ma aveva segnato il suo viso con
regalità. Un uomo di una bellezza rude e forte. Il fratello che
rappresentava gli adorati William e Orson che non c'erano più. Un'onda
anomala di ricordi la travolse: immediatamente profumi e sapori, parole
e risa di quando era bambina la fecero sentire come se il tempo non fosse
mai passato.
Corin sorrise radioso alla sua principessa, che adesso non era più la
bambina che faceva sedere sulle sue ginocchia dinanzi al fuoco e per la
quale intagliava animaletti: “Giada!”
L'accolse con una risata ed allargò le braccia per abbracciarla.
“Oh, Mayster!” sbottò scoppiando a piangere la ragazza buttandoglisi
addosso.
“Quanto tempo, piccola! - le disse lui ridendo - E guarda che donna
che sei diventata! Sei bella come tua madre!”
Giada pianse ancora più forte, pensando a sua madre, alla sua voce, al
suo profumo, alle favole della notte ed alle canzoni cantate mentre le
intrecciava i capelli biondi.
“Lei è la principessa?” sussurrò Mark a sua madre.
“Sì, lei è Giada” rispose Rebecca.
Giada guardò il piccolo e si asciugò il volto. “Come principessa sono
buffa” gli disse.
“Sì, ti moccola il naso” ribatté il bambino solenne.
“Te sei scemo!” Jesse non mancò di dare uno scappellotto al minore.
“E tu un cretino!” rispose l'altro.
“E voi due quasi in castigo se non la piantate” li riprese Rebecca
scoccando un'occhiata severa ad entrambi.
“Scusa” borbottarono all'unisono.
“Ma com'è che con me non siete mai stati così obbedienti?” fece il
padre.
“Perché io sono il capo” ribatté Rebecca innocente.
461
La famiglia stava per aprire una riunione sull'importanza
dell'obbedienza, quando Giada rise. Rebecca le scoccò un'occhiata
radiosa: “Hai visto? E sono tornata da meno di due ore” ma era felice
come non mai. Mayster le pose un bacio tra i capelli scuri.
Rebecca vide George e gli fece un cenno con la mano: “Salve,
Capitano”.
“Salve, Spezzacolli. Vi siete davvero fatte onore sul campo oggi” le
rispose.
“Come tutti, ragazzo”.
Alle spalle di Mayster comparve Maestro Jamie, rimasto in disparte a
fissare la nipote. Era bella come Esterella, forse di più.
Giada fu assalita nuovamente dalla nostalgia e questa volta anche dal
dolore che aveva provato nell'affrontare il potere senza la guida di suo
zio.
“Bambina...” mormorò commosso il sacerdote.
“Zio Jamie...!”
Una folla di gente si era radunata attorno alla principessa, a Mayster e
la sua famiglia. La principessa Giada si stava ricongiungendo con suo
padre, il re.
Solo allora il sovrano, John Henry I di Hakne, si fece avanti.
Padre e figlia si guardarono per un lungo istante.
Lui era sconfitto dalla rassomiglianza di Giada con l'amata Esterella.
Rimase immobile, ammutolito e con il cuore in pezzi. La figlia viva e
splendente, l'amata moglie sotto la terra gelida del nord né morta né viva.
Come lui. Né morto né vivo.
Giada era annichilita dalla rabbia di essere stata abbandonata per
vigliaccheria per dieci anni e di essere stata ridotta in schiavitù. Non per
il fatto di essere una principessa, ma perché suo padre, l'uomo di cui
possedeva metà del sangue, aveva permesso che fosse derisa e piegata.
Avrebbe potuto salvarla e l'aveva lasciata là. Se non fosse stato per
Rebecca...
Scese un silenzio carico di attesa e, ben presto si comprese, di rancore
mal celato. Nessuno dei due voleva vedere l'altro. Il padre che nega la
figlia e la figlia che ignora il padre.
Non vi furono abbracci e Giada non versò neppure una lacrima di
gioia o sollievo nel vedere suo padre.
Persino Rebecca smise di avere quell'espressione radiosa sul volto.
Anzi, parve davvero spaventata da tanto astio.
Si volse verso suo marito e lui fece cenno che la faccenda non
riguardava loro. Era vero.
462
Giada avanzò verso il re e con grazia leggera s'inchinò.
“Padre, - disse con voce ferma e atona – è bello rivedervi sano e salvo”.
John Henry pose la mano leggera sulla sua spalla e subito la ritirò,
come se si fosse trattato di una nobile sconosciuta che fosse venuta a
rendergli omaggio e non di sua figlia.
“Giada... grazie, figliola”.
Non più una parola, non un gesto.
Corin aveva visto abbastanza e aveva dato a John Henry abbastanza
di sé, per stare lì ed assistere alla vigliaccheria di un uomo che non sa
chiedere perdono alla figlia per averla abbandonata per dieci anni.
Mastro Mayster si chinò su Tommy, lo prese in braccio; prese Mark
per mano e si scambiò uno sguardo con Jesse, che già aveva voltato le
spalle a quella scena pietosa. Rebecca circondò il suo primogenito con
un braccio sulle spalle e si affiancò al marito.
Adesso andava bene. Adesso avevano fatto quel che dovevano fare.
Adesso c'erano loro e niente era più importante della loro famiglia.
Adesso erano insieme.
Corin chiuse i lembi pesanti di stoffa e chiuse la loro tenda. Rebecca
seguì ogni gesto di suo marito, contemplandolo per il solo fatto che fosse
lì. Lo adorava. Lui si chinò a baciarle le labbra morbide.
Si volsero verso Jesse che li fissava raggiante di gioia e lo strinsero in
un abbraccio. Ed eccoli lì.
463
Indice
PROLOGO......................................................................................7
CAPITOLO 1...................................................................................9
CAPITOLO 2.................................................................................36
CAPITOLO 3.................................................................................58
CAPITOLO 4.................................................................................78
CAPITOLO 5.................................................................................99
CAPITOLO 6...............................................................................110
CAPITOLO 7...............................................................................120
CAPITOLO 8...............................................................................129
CAPITOLO 9...............................................................................152
CAPITOLO 10.............................................................................171
CAPITOLO 11.............................................................................190
CAPITOLO 12.............................................................................207
CAPITOLO 13.............................................................................228
CAPITOLO 14.............................................................................249
CAPITOLO 15.............................................................................267
CAPITOLO 16.............................................................................289
CAPITOLO 17.............................................................................310
CAPITOLO 18.............................................................................329
CAPITOLO 19.............................................................................349
CAPITOLO 20.............................................................................370
CAPITOLO 21.............................................................................391
CAPITOLO 23.............................................................................441
CAPITOLO 24.............................................................................453
464