Sconfiggere la guerra costruire la pace

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Sconfiggere la guerra costruire la pace
Articolo per Aprile
SCONFIGGERE LA GUERRA. COSTRUIRE LA PACE
Il ruolo della società civile organizzata
per la prevenzione delle guerre, l’intervento nel corso dei conflitti
e la costruzione della pace
Giulio Marcon
La guerra in Kosovo interroga - come già avevano fatto nel corso degli anni ‘90 le guerre in ex Jugoslavia e le
decine di conflitti etnici in altri continenti- le capacità, le potenzialità, i limiti delle organizzazioni della società
civile nel prevenire i conflitti, nell’intervenire nel corso delle guerre, e nel contribuire a costruire la pace dopo la
fine dei combattimenti.
Bisogna premettere due considerazioni.
1. La natura dei conflitti di questi anni, che si sono sempre di più trasformati da conflitti tra Stati (si pensi agli
anni ‘80 e alle guerre Iran-Iraq e Perù-Equador) a conflitti nazionali, etnici, religiosi interni ad una comunità. Il
bipolarismo del secondo dopoguerra aveva avuto l’effetto di produrre un tacito patto tra le due superpotenze
per il controllo dei focolai più pericolosi di guerra o di tensione con un implicito impegno a non farli degenerare
(con poche eccezioni in 45 anni: tra tutte, Corea, Medio Oriente, Cuba), confinando le guerre alle periferie non
solo geografiche, ma anche degli interessi dei due blocchi. La NATO e il Patto di Varsavia -eccetto un’opera
di indiretta assistenza- non avevano mai partecipato direttamente ad alcuna guerra. Dagli anni ‘90, venuto
meno l’assetto delle relazioni internazionali del dopoguerra, i conflitti (soprattutto nazionali ed etnici) si sono
propagati in modo diffuso e il controllo su tutte le aree di conflitto è venuto meno. La globalizzazione ha fatto
emergere ancora di più le micce dei nuovi conflitti: il nazionalismo come risposta identitaria ai processi di
globalizzazione transnazionale, l’aumento della povertà che ha accentuato egoismi e privilegi economici di
alcuni gruppi rompendo il solidarismo di comunità miste e portando a conflitti estesi, la rottura dell’equilibrio
geopolitico precedente, causata dall’insorgere di politiche -non solo dei paesi più forti: si veda il peso di
ambizioni imperiali in alcune aree del Medio Oriente, Iraq, o in Asia- fondate sull’espansione e la penetrazione
economica, militare, commerciale.
2. A questi processi non si è accompagnata una crescita del ruolo e delle funzioni politiche degli organismi
regionali ed internazionali che avrebbero dovuto prevenire i conflitti e contribuire a costruire un ordine
internazionale, fondato sulla sicurezza e la pace. L’ ONU -sul quale si erano concentrate molte aspettative
dopo la fine della guerra fredda- ha mostrato tutti i suoi limiti di iniziativa autonoma dal potere degli Stati,
palesando mancanza di mezzi e di risorse e non riuscendo a dotarsi delle funzioni di polizia internazionale,
delegate sempre di più a Stati e ad alleanze militari come la NATO. E’ invece cresciuto positivamente in questi
anni nel sistema delle Nazioni Unite il ruolo umanitario di alcune agenzie e strutture (UNDP, UNHCR, ecc.)
che hanno collaborato strettamente con le organizzazioni della società civile e si sono mosse diffusamente nel
lavoro di assistenza, sviluppo e intervento di solidarietà nei conflitti. Le organizzazioni regionali (come
l’Organizzazione degli Stati Africani o l’Unione Europea ) hanno in materia di politica di sicurezza poteri
minimi, condizionati dai veti degli Stati o sono prevalentemente sedi di armonizzazione di politiche economiche,
monetarie e commerciali. E’ questo il caso dell’Unione Europea, che nonostante i passi in avanti, è
prevalentemente schiacciata sulla dimensione economico-monetaria ed è lontana dalla costruzione di una vera
unione tra i suoi paesi e da una vera politica estera comune -vedremo cosa succederà adesso con Xavier
Solana, ministro degli esteri dell’Unione, in base al trattato di Amsterdam- rivolta alla costruzione della pace.
Debole e priva di strumenti è l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) che proprio per essersi dotata di istituti di prevenzione e di monitoraggio delle aree di tensione e coinvolgendo tutti i
i paesi europei - potrebbe essere uno strumento adatto nella promozione di una sicurezza paneuropea.
Purtroppo forza politica e organizzativa dell’OSCE non ne permettono uno sviluppo in questo senso, come
dimostra la debolezza del Centro per la prevenzione dei conflitti dell’OSCE con sede a Vienna, che ha ben
pochi uomini da impiegare e soldi da spendere. L’unica organizzazione che -per ciò che concerne la
realizzazione di compiti di dissuasione e di intervento nei conflitti- ha accresciuto, anche grazie alla vicenda del
Kosovo, il proprio ruolo è la NATO. Ha in questi anni cambiato la sua costituzione “reale” allargando il
proprio ruolo strategico -da esclusivamente militare ad accentuatamente politico- e geografico, espandendosi
ad est. La NATO si è volta ad integrare nel suo seno gli stessi paesi (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) cui
si stava rivolgendo l’Unione Europea, riuscendo nell’intento e di fatto rallentando l’integrazione europea di
questi ultimi. Infatti l’adesione alla NATO ha comportato dei costi -in termini di adeguamento di strutture, di
forme di integrazione militare, ecc.- che ha reso più difficile la strada per il raggiungimento dei parametri
economici e finanziari richiesti per l’entrata nell’Unione Europea. La NATO ha garantito le truppe di pace in
Bosnia ed è poi intervenuta in Kosovo. Truppe della NATO e degli americani sono presenti, oltre che in
Bosnia, anche in Kosovo, Macedonia e Albania.
In questo contesto -fatto di complesse guerre etno-nazionali e di limiti dell’azione politica degli organismi
regionali ed internazionali democratici- il ruolo delle organizzazioni della società civile ha trovato un terreno
difficile e complesso di azione nella prevenzione dei conflitti e nella ricostruzione di condizioni di pace e di
sviluppo umano nelle diverse aree in cui si è trovata ad intervenire. Il ruolo della società civile è comunque
cresciuto. Il numero delle organizzazioni non governative si è moltiplicato in trentanni da poche centinaia a
decine di migliaia e ormai c’è un riconoscimento generale (si vedano a proposito le considerazioni di Boutros
Ghali ne l’Agenda per la pace, 1992) del ruolo che la componente civile può avere in missioni di prevenzione,
di mantenimento e di costruzione della pace soprattutto in conflitti etno-nazionali, dove è importante il ruolo di
gruppi civili e non governativi che possano ristabilire condizioni di fiducia e riconciliazione tra le componenti
delle comunità che si percepiscono come nemiche. Rispetto ad un pacifismo che si identifica solamente nella
denuncia e nella protesta, attraverso mobilitazioni e manifestazioni -che pure rappresentano una forma di
pressione importante nell’influenzare e modificare le politiche dei governi- si richiede oggi alle diverse
organizzazioni della società civile impegnate nell’affermazione della pace compiti nuovi e più complessi.
A partire dalla prevenzione, che presuppone capacità di conoscenza e di osservazione -e di monitoraggiodelle aree di crisi e della conseguente azione di informazione e di pressione sulle organizzazioni internazionali e
sui governi, nonchè di azione sul campo (con iniziative di dialogo, di comunicazione, di mediazione, di
compromesso) per evitare che il conflitto degeneri in guerra. Il compito di early warning diventa fondamentale
per evitare le degenerazioni dei conflitti in guerra: le antenne della società civile -se ascoltate- possono essere
strumenti preziosi di prevenzione. Questo non è stato fatto in Kosovo, dove dal 1992 le organizzazioni pacifiste
europee presenti nell’area avevano ripetutamente avvertito dei rischi dell’esplosione di un conflitto, senza
trovare ascolto nei governi e nelle organizzazioni internazionali. Sia rispetto allo scatenamento della guerra nella
Federazione Jugoslavia (si vedano le previsioni dell’assemblea della Helsinki Citizens Assembly -rete di
organizzazioni civiche dell’est e dell’ovest- che si tenne nel marzo del 1991 a Bratislava), sia rispetto al suo
possibile allargamento in Bosnia Erzegovina (si pensi alle informazioni e testimonianze raccolte sul campo dalla
Carovana della pace che - con 400 pacifisti italiani ed europei - si concluse a Sarajevo nel settembre del
1991) che rispetto ad un suo prolungamento in Kosovo (a partire dal 1993 la Campagna per il Kosovo composta da Mir, Pax Christi ed altre organizzazioni- era presente sul campo con una continua azione di
monitoraggio), pacifisti e società civile avevano messo in guardia l’opinione pubblica e il mondo politico dallo
scoppio di guerre e conflitti nell’area. Purtroppo la comunità internazionale non solo ha sottovalutato quelle (e
altre) avvisaglie e i documenti delle organizzazioni non governative, ma ha anche accelerato alcune spinte
(come dimostra la vicenda dell’avallo europeo al referendum che avrebbe sancito la separazione della Bosnia
Erzegovina dalla Federazione Jugoslavia) che avrebbero inevitabilmente provocato ed esteso la guerra. Come
accennato, solo l’OSCE - non l’ONU, nonostante l’importanza data nell’Agenda per la pace di Boutros Ghali
al ruolo della diplomazia preventiva - si è dotato di strumenti effettivi di monitoraggio permanente delle aree
di tensione e di conflitti; ma con così pochi soldi e funzionari da rendere l’azione poco più che simbolica, anche
se in alcuni casi con interventi positivi (si veda il caso del conflitto Azerbajgian-Armenia sul NagornoKarabach). La prevenzione, se attuata con convinzione, è efficace, come dimostra il caso della Macedonia,
dove dal 1992 è stata presente la missione dell’ONU, denominata UNPREDEP (United Nation Deployment
Prevention) e che con la presenza di caschi blu ha avuto un effetto dissuasivo ( la presenza di osservatori
aumenta il costo politico dell’impiego della violenza da parte degli attori locali) e di monitoraggio delle possibili
tensioni sul territorio. Un intervento civile di prevenzione sul campo presuppone iniziative concrete e diffuse (e
continuative) di educazione, cooperazione e radicate nelle comunità, che presuppongono tempi lunghi e
capillarità sul territorio, coinvolgimento dei soggetti locali.
Fermare la guerra è certamente un compito più arduo per le organizzazioni della società civile, tenuto conto
che governi e istituzioni, dotati di mezzi ben più consistenti -incluso quello militare- non riescono ad ottenere
questo obiettivo se non in casi particolari, dove sono in gioco talvolta i diritti umani, più spesso gli interessi
geopolitici, economici, strategici. Solo quando entrano in gioco questi ultimi, anche i diritti umani acquistano per
i governi un qualche interesse. Ecco perchè parlare di fallimento dei pacifisti (come nel caso della guerra del
Golfo o di quella in ex Jugoslavia ) nel non “riuscire a fermare la guerra” è almeno un’affermazione
esagerata, che va relativizzata al contesto dei mezzi e delle condizioni date. E naturalmente, l’azione pacifista ha
tempi lunghi che riguardano il cambiamento delle condizioni alla base dei conflitti e della preponderanza del
potere militare. I livelli di impegno della società civile che riguardano più che il fermare la guerra, l’intervento
nel corso di una guerra ( per fermarla, ma anche per arginarne gli effetti, limitarne le conseguenze, evitarne un
allargamento ) possono essere diversi.
Accanto alla pressione politica sul governo del proprio paese (se coinvolto in qualche misura nella guerra o se
può esercitare una qualche influenza sulle sorti del conflitto) che può esprimersi nelle forme più diverse:
manifestazioni, azioni di lobby, mobilitazioni locali (di particolare rilievo quelle che si sono tenute per
condannare l’intervento della NATO nella Repubblica Federale di Jugoslavia e la pulizia etnica in Kosovo),
oggi si segnala la crescita della presenza sul campo, dove si combatte la guerra. Nel caso italiano, questa
diffusa presenza è agevolata dalla vicinanza geografica di alcune guerre (Albania, Kosovo, Bosnia Erzegovina,
Repubblica Federale Jugoslava, ecc). Tale presenza sul campo può anche essere definita una forma di
interposizione, intesa non come separazione tra i combattenti, ma come presenza diffusa tra le popolazioni.
Questa attività sul campo che può avere diverse forme e modalità: attività concrete e umanitarie di pace (come
le iniziative dei gruppi e delle organizzazioni aderenti all’ICS in ex Jugoslavia 1993-99), iniziative di
interposizione volta a fermare anche simbolicamente la guerra ( la “marcia dei 500” e Mir Sada promosse dai
Beati i costruttori di pace nel dicembre del 1992 e in agosto 1993), attività di “accompagnamento”, per
garantire maggiori condizioni di sicurezza, a leader ed esponenti democratici e pacifisti (azioni promosse dalle
Peace Brigade International in Salvador, Haiti, Guatemala), sostegno alle forze non nazionaliste e pacifiste (
ICS, Associazione per la pace in ex Jugoslavia e in Medio Oriente), attività di dialogo interetnico, diplomazia
popolare e di riconciliazione ( Forum di Verona per la ex Jugoslavia promossa da Alex Langer o gli incontri
della Helsinki Citizens Assembly, o le iniziative del programma Mutual Understanding and Contacts in
Nord Iralanda ), volte a ricostruire dei ponti di comunicazione e di dialogo. Di particolare interesse in questo
contesto, è l’iniziativa lanciata da gruppi di obiettori di coscienza e dall’Associazione Papa Giovanni XXIII dei
Caschi Bianchi negli ultimi anni. L’idea è quella di una sorta di peacekeeping civile impegnato in attività di
interposizione e di aiuto umanitario. Esperienze sono state realizzate, tra l’altro, nelle Krajine della Croazia, in
Kosovo, in Chiapas. In questo paese è di particolare rilievo è l’azione di Ya Basta che grazie alla presenza di
qualificati oservatori in diverse iniziative è riuscita a portare all’attenzione dell’opinione pubblica il problema del
Chiapas e a ottenere una pressione significativa sulle istituzioni italiane ed europee. A queste esperienze dal
basso sono da collegare alcuni indirizzi politici delle istituzioni, come la risoluzione del Parlamento Europero del
maggio del 1995 che prospetta “la creazione di un organo civile europeo di pace (European Civil Peace
Corps) al quale partecipino obiettori di coscienza, un organo che possa formare al suo interno
osservatori, mediatori e persone specializzate nel componimento dei conflitti “.
Alcuni collegano queste iniziative al vario arcipelago di forme di diplomazia alternativa (nel contesto di una
multy-track diplomacy, che ha due tracce: quella ufficiale e quella della società civile) che può produrre
microprocessi di concreta riconciliazione e di pace su base locale, ma anche eventi significativi di importanza
generale. I più conosciuti sono quelli portati avanti dalla Comunità di S.Egidio, che grazie alla sua mediazione
(soprattutto a livello di vertice), ha contribuito al raggiungimento dell’accordo di pace per il Mozambico e
sulla libertà di insegnamento in Kosovo durante la guerra, e ha portato avanti un significativo tentativo di
pacificazione in Algeria. Vanno ricordate, altresì, iniziative a livello di società civile, come le manifestazioni di
Time for peace nel 1989-90 in Israele/Palestina, che permise a oltre 1000 pacifisti italiani ed europei di
partecipare a iniziative comuni con le organizzazioni pacifiste israeliane e palestinesi -che coinvolsero oltre
30.000 persone del luogo- o all’iniziativa per il dialogo tra serbo-bosniaci e musulmano-bosniaci con gli
incontri organizzati a Perugia nel 1995 dall’Associazione per la pace e dall’Arci tra i leader dell’opposizione
bosniaca a Izetbegovic e di quella serbo-bosniaca a Karadzic. Erano i primi incontri pubblici tra esponenti di
primo piano di campi “nemici”. Molte di queste iniziative si sono incanalate, quindi in quelle tattiche di
intervento civile per la riduzione della violenza in un conflitto che prevedono presenza dissuasiva sul campo,
allargamento del coinvolgimento progressivo di attori e soggetti interessati, azioni a volte a “congelare”,
bloccandone l’allargamento, delle dinamiche di guerra.
Nell’azione della costruzione della pace, si caratterizza un intervento maggiormente positivo e concreto della
società civile. Quando le guerre finiscono, raramente si dà una pace già effettiva. Cessano le violenze e i
combattimenti, ma spesso bisogna ancora sradicare le ragioni della guerra avvenuta e si tratta di avviare la
riconciliazione per ricostruire le condizioni di una pace vera. Sul terreno della riconciliazione sono da registrare
in questi anni iniziative importanti in alcune aree di conflitto. La “Commissione per la Verità e la
Riconciliazione” in Sud Africa, la “Commissione nazionale per la Verità e la Giustizia” ad Haiti (1995) e la
commissione “ Verità per il Salvador” (1991) si sono mosse -nel riconoscimento della verità e delle
responsabilità o colpe di ciascuno- nella direzione della riconciliazione e del perdono. In ex Jugoslavia, non è
stato possibile fino ad oggi fare nulla di analogo, non ci sono le condizioni: il Tribunale internazionale per i
crimini commessi in ex Jugoslavia (istituito nel 1993) ha avuto e ha ovviamente un altra finalità; persegue una
specifica azione penale per colpire i criminali e i colpevoli. Ma, nel medio periodo anche per la ex Jugoslavia
sarebbe opportuno, pur rispettando le diverse condizioni e punendo i crimini, seguire le strade del Sud Africa,
del Salvador, di Haiti.
Lasciando rovine e distruzioni sul campo, spesso l’iniziativa della comunità politica autoctona e internazionale si
concentra solamente sulla ricostruzione economica: la rimessa in sesto delle infrastrutture e il riavvio delle
attività produttive. Si tratta ovviamente di iniziative necessarie e indispensabili. Ma non sono sufficienti. Si tratta
di ricostruire condizioni sociali, civili, culturali, che permettano di stabilire la pace su basi solide. Come si è
dimostrato in Bosnia Erzegovina dopo gli accordi Dayton firmati a Parigi (1995) la ricostruzione economica,
oltre che migliorare le condizioni materiali e quotidiane della popolazione, ha beneficiato le leadership
nazionaliste (le stesse responsabili della lunga guerra) e i clan affaristico-mafiosi e di partito. Tanto che nel
1997 Carlos Westendorp, Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per la realizzazione dell’accordo ha
minacciato di bloccare gli aiuti. Nonostante siano passati quasi quattro anni l’obiettivo principale degli accordi
di Dayton (il ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica) è di fatto fallito: solo circa un quarto dei rifugiati è
tornato alle proprie case.
Il lavoro delle organizzazioni non governative e della società civile nella costruzione della pace può essere
determinante, attraverso attività concrete di cooperazione, di aiuto, di volontariato a fianco delle società civili
colpite dalla guerra. Si tratta di ricostruire il tessuto sociale, la società civile, le comunità locali. Oltre che le
risorse finanziarie sono necessarie risorse umane. Vi sono quattro piste di lavoro che (in ex Jugoslavia come in
Centro America ) si sono dimostrate tali da contribuire a costruire una pace effettiva e che danno alle
organizzazioni non governative impegnate nella ricostruzione sociale un ruolo attivo in questo processo. La
prima è il piano dell’ integrazione: gli interventi (anche quelli economici e per le infrastrutture) devono essere
rivolti a mettere in contatto le comunità che si sono percepite come nemiche e che si sono combattute. Vi sono
tante esperienze in questo campo: esemplari sono quelle dei progetti “delle lavatrici” e dei “centri giovanili”, che
hanno “costretto” donne e giovani di Mostar est (musulmani) e Mostar ovest (croati) a incontrarsi, a dialogare
e a stare insieme. La seconda è quella dell’investimento sulle risorse umane: formazione, scuola e università
devono essere i terreni di un intervento significativo che sradichi nelle coscienze e nelle cultura il nazionalismo,
l’ideologia del “nemico” e della guerra. La terza è l’intervento sulle comunità locali e la democrazia: favorire i
gemellaggi tra comunità, la cooperazione tra città e città (si vedano i progetti di UNOPS - l’agenzia delle
Nazioni Unite per i Programmi umanitari- a Cuba e in Bosnia Erzegovina o le “ambasciate della democrazia
locale” del Consiglio d’Europa) e il rafforzamento della democrazia dal basso (indipendenza dei media,
sostegno alle organizzazioni non governative, ecc.) costituiscono la ricostruzione di quel tessuto civile e
comunitario necessario a prevenire ogni ritorno della guerra. Quarta pista é lo sviluppo di un’economia sociale
che metta in relazione le persone e le comunità attraverso il sostegno alle politiche di servizi alla persona e alla
comunità, alla creazione di imprese sociali e cooperative, al sostegno di forme di micro-credito per l’autosviluppo, di aiuto al settore non-profit. Si tratta attraverso il combinato di queste strade di -per utilizzare
un’espressione cara al Terzo settore- fare società, di ricostruire un tessuto sociale che alla appartenenza
etnica e nazionale sostituisca l’identità della cittadinanza, alla soluzione violenta di un conflitto faccia posto alla
pratica nonviolenta della democrazia e della mediazione, agli apparati ideologici costruiti su una visione
escludente (sia etnica che nazionale) contrapponga una cultura democratica e civile fondata sui diritti umani e la
solidarietà. Questi sono i terreni di lavoro per le organizzazioni della società civile, del volontariato e del
pacifismo, che, superando ogni residuo di astrattismo o ideologismo, si pongono l’obiettivo di costruire la pace
in una progressiva crescita sociale e civile delle comunità.
Bibliografia
* AAVV - Fare la pace, Ed. Kaos, Milano 1992
* AAVV - Our global neighbourhood, Oxford University Press, 1995
* Alex Langer - La scelta della convicenza, Ed. E/O, Roma 1995
* Boutros Boutros Ghali - Un’Agenda per la pace, Roma-New York 1992
* Aldo Capitini - Le tecniche della nonviolenza, Ed. Giunti/Linea d’ombra, Milano 1989
* Antonino Drago - Peacekeeping e Peacebuilding. La difesa sociale con mezzi civili, Ed. Qualevita,
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* J. Galtung - Peace by peaceful means, Sage, Londra 1996
* ICS - Libro bianco su Dayton, Roma 1996
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* LiMes - Dopo la guerra, Gruppo Ed. L’Espresso, Roma 1999
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* Marta Martinelli, Track II Diplomacy as a Complement to Official Diplomacy, Training in EU Affairs for
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* Jean-Marie Muller - Vincere la guerra, Ed. Gruppo Abele, Torino 1999
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