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Pubblicato il 28 Agosto 2012
Un allestimento coraggioso e preziosissimo per la rara versione 1867 dell'opera verdiana
Don Carlos inedito e controverso
servizio di Francesco Lora
VIENNA - Questione di versioni: chi conosce la versione originale francese in cinque atti del Don
Carlos di Verdi? Si badi: non quella incisa da Claudio Abbado per Deutsche Grammophon (1983-84),
la quale riflette la versione di Modena 1886 col ripristino della lingua originale, bensì quella di Parigi
1867, assai diversa nell’impianto musicale e teatrale, nelle risorse drammaturgiche e nella
strumentazione, e rimasta a tutt’oggi di rarissimo ascolto.
Il poco spazio accordato a questa versione è peccato grave di fronte allo studio dei musicologi e alla
voracia dei melomani: come è noto, Verdi rielaborò a più riprese il suo capolavoro grandoperistico non
già perché insoddisfatto, ma al fine di adeguarlo alle esigenze di teatri meno prodighi di mezzi e meno
rigidi di convenzioni rispetto all’Opéra di Parigi; le rielaborazioni partirono anzi prima del debutto
parigino stesso: una lunga serie di tagli colpì pagine di sommo valore musicale ed espressivo, ma non vincolanti dal punto
di vista teatrale, onde ridurre la durata dello spettacolo (quattro ore di musica) e permettere agli abitanti dei sobborghi di
rientrare a casa con l’ultimo treno disponibile.
Oggidì, i teatri lirici allestiscono di norma
la versione in quattro atti di Milano 1884
(riconcepita e sintetizzata con superbo
lab or limae ma a costo di sopprimere
musiche e situazioni notevoli) o la già
citata versione di Modena 1886 (che è poi
la versione milanese con ripristino
autorizzato del primo atto parigino).
Il periodico ritorno alla versione di Parigi
1867 sarebbe tuttavia opportuno poiché,
forse meno geniale delle successive,
essa è tuttavia la più coerente, chiara e
completa: l’agire dei personaggi, là di
sovente affrettato e poco comprensibile, è
qui assai meglio circostanziato; si pensi
all’assenso di Elisabeth alle nozze con
Philippe II, pronunciato per sottrarre il
proprio popolo – impegnato in un
accoratissimo coro – alla guerra e alla
fame; si pensi all’equivoco di Carlos che, nel giardino, ha ragione di prendere la Principessa Eboli per Elisabeth in quanto
dama e regina si sono scambiate gli abiti (ed ecco un rinvio al racconto della “canzone del velo”, brano altrimenti irrelato e
fine a sé stesso); e si pensi ancora alla seguente sommossa capeggiata da un’Eboli ben visibile, e che anzi avvicina
Elisabeth per dirle di aver portato a compimento l’intenzione di salvare Carlos prima di ritirarsi in monastero: gli esempi
portati sono tutti connessi alla versione parigina e, in quelle successive, incontrano semplificazioni quando non
banalizzazioni. Dove ascoltare, allora, la versione di Parigi 1867?
Nell’esecuzione radiofonica della BBC (1976), pubblicata dalle etichette Ponto e Opera Rara, senza nomi di punta ma
apprezzabile su ogni fronte, o in quella parimenti dal vivo, edita sia in CD (per Orfeo) sia in DVD (per Arthaus), registrata nel
2004 all’Opera di Stato di Vienna: di quest’ultimo eccellente allestimento, giunto nei mesi scorsi all’ennesima ripresa (recite
il 24 e 28 aprile e il 1 o e 5 maggio) e a un sostanziale rinnovo della compagnia di canto, si dà qui la recensione.
Regìa eclettica e rigore musicale - Nel momento in cui si allestisca Don Carlos nella sua versione parigina, ignota ai più, ha
senso presentare l’opera in una veste non tradizionale ma “ribaltata”, secondo le disinibite abitudini del teatro di regìa
tedesco? Sì, se lo spettacolo diventa tanto limpido, analitico, persin commovente, da illustrare ogni dettaglio di libretto e
partitura, e da evidenziare dunque a maggior ragione i punti di contatto o di divergenza tra la versione di Parigi 1867 e quelle
successive. È questo il caso dell’allestimento viennese, con regìa di Peter Konwitschny (che cede a Vera Nemirova la scena
dell’autodafé ) e scene e costumi di Johannes Leiacker.
Si tratta di uno tra gli spettacoli più controversi degli ultimi anni, salutato a ogni recita da un impasto di fischi, sorrisetti e
ovazioni; uno spettacolo da venerare o da esecrare, e che anno dopo anno ha indotto chi scrive a tre trasferte viennesi.
Il suo eclettismo ne rende impossibile la
descrizione accurata e vanifica persino
l’indicazione delle linee guida: il lettore
potrà coglierne esalazioni inebrianti o
sulfuree, secondo il proprio giudizio,
riferendosi al citato DVD Arthaus o
recandosi di persona a Vienna (un nuovo
ciclo di recite è programmato nel periodo
9-21 aprile 2013). Si può tuttavia dar nota
di tre episodi tra i tanti: nell’atto III, il
balletto diventa un sogno mimato di Eboli,
la quale immagina, in veste di casalinga,
la propria vita coniugale con un Carlos
impiegato e un disastroso invito a cena
dei suoceri Philippe ed Elisabeth; nell’atto
IV, il duetto tra Philippe II e il Grande
Inquisitore moltiplica la sua forza tragica
poiché nella stanza, muta e impotente
spettatrice, vi è anche Eboli nei panni di
amante del re: al ricatto del cieco prelato
al re si aggiunge così quello implicito del re alla donna; nell’atto V, Elisabeth va a cantare il suo sublime monologo non sul
cenotafio di Carlo V, ma in grembo all’imperatore stesso nelle dissimulate spoglie del Frate. Dall’ironia alla commiserazione,
forse nessun’altra lettura dell’opera verdiana è scesa più a fondo nell’indagine psicologica, e ha più commosso.
Nel contempo, sarebbe difficile individuare una concertazione musicale più minuziosa di quella imposta da Bertrand de Billy:
quand’anche la sua bacchetta possa difettare di genio indiscusso, gli si dovrà riconoscere il merito, raro, di trattare Verdi alla
stregua dei massimi sinfonisti ottocenteschi. Così l’Orchestra e il Coro dell’Opera di Stato, vale a dire due tra le compagini
musicali più edonistiche al mondo, divengono sotto la sua guida strumenti non solo sfarzosi, ma anche flessibili, descrittivi,
amorevoli: di rado nel golfo mistico di un teatro, dal podio all’ultimo leggio, si sente provenire un più appassionato interesse
per una partitura.
I cantanti, già coinvolti con tutte le loro forze nella recitazione, godono di
un accompagnamento sensibilissimo. Le migliori in campo sono le
signore. Di Adrianne Pieczonka si ricordava una fredda Elisabetta
cantata a Firenze, nel 2004, secondo la versione di Milano 1884; nel
Don Carlos viennese si trasecola: la pronuncia, il fraseggio e l’accento
hanno conquistato una finezza, un’incisività e una fermezza
straordinarie, tali da candidarla ai più alti vertici dello studio del
personaggio. A Beatrice Uria-Monzon, come Eboli, sfugge invece – a lei
che tante volte ha cantato Don Carlo prima di cimentarsi in Don Carlos
– qualche frase in italiano: un’innocente distrazione in
un’interpretazione incandescente e tuttavia esente da eccessi veristi.
Un poco pallida è invece la figura dei signori, soprattutto rispetto ai
colleghi che li hanno preceduti nelle recite viennesi degli anni scorsi. Il
Phlippe II di Kwangchul Youn e il Grande Inquisitore di Alexandru
Moisiuc sono, per esempio, violenti e rudi, in senso monocromo,
persin più di quanto preveda la regìa, e paiono dimenticare quanta
maggior insidia possa essere espressa con l’insinuazione piuttosto
che col gesto brusco. Scarsa personalità si abbina invece alle pur
sane voci di Yonghoon Lee, nella parte protagonista, e di Ludovic
Tézier, nella parte di Rodrigue (questo secondo caso sorprende più del
primo, trattandosi di uno tra i più insigni cantanti di mandrelingua
francese oggi alle scene). Come che sia e al di sopra delle sue
singole parti, spettacolo preziosissimo.
Postilla intorno a una Traviata - A distanza di pochi giorni dalle recite
del Don Carlos piace, sempre all’Opera di Stato di Vienna, ritrovare lo
stesso rigore di lettura musicale in un’altra opera verdiana, La traviata,
diretta anch’essa da Bertrand de Billy (recite il 10, 13, 16 e 20 maggio).
In questo caso non è in discussione la scelta di versione del titolo (è
seguìta la versione definitiva del 1854), ma si gode del sogno di
ascoltare una Traviata rifinita nel minimo dettaglio anziché abbandonata alla lettura sommaria di tante volte: certi staccati ,
certi pianissimi , certi rub ati qui ascoltati andrebbero tenuti a mente e conservati a modello di esecuzione e giudizio;
l’astensione da ogni taglio a strofe, cabalette e concertati restituisce a sua volta il capolavoro nella sua – guardacaso assai
più interessante e vivida – integralità. Il trinomio di resa musicale, vocale e teatrale riesce però in questo caso deficitario. A
dominare la compagnia di canto è infatti un’Ermonela Jaho che, come Violetta Valéry, mette a punto il personaggio con
intenso lirismo e con mezzevoci d’alta scuola; la voce, dotata di un sensuale calore timbrico, manca però di corpo, e fatica a
riempire la sala teatrale costringendo a tendere l’orecchio. Accanto a lei, l’Alfredo di Francesco Demuro e il Giorgio Germont
di Zeljko Lučič non potrebbero dar adito a maggior contrasto familiare, tanto evanescente ed efebico è il primo quanto
fibroso, vociante e rabbioso è il secondo. Notevole è, per contro, la folta schiera dei comprimari.
E inafferrabile è lo spettacolo importato dal Festival di Aix-en-Provence, con regìa di Jean-François Sivadier, scene di
Alexandre de Dardel e costumi di Virginie Gervaise: invano si è cercato di spiegare a chi scrive che l’intenzione del regista è
rappresentare l’intera opera come teatro nel teatro; chi scrive non è riuscito a intenderne le ragioni, né a vederne un’effettiva e
comprensibile realizzazione. Peccato: il preludio all’atto primo, suonato mentre Violetta si prepara alla festa davanti al sipario
chiuso, era scena felice che avrebbe potuto preludere a ben altro svolgimento.
Crediti fotografici: Michael Pöhn per Wiener Staatsoper
Nella miniatura in alto: Yonghoon Lee che ha interpretato Don Carlos
Al centro a destra: Kwangchul Youn, Yonghoon Lee, Adrienne Pieczonka e Uria Monzon
Al centro a sinistra: Adrianne Pieczonka (Elisabeth attorniata dal popolo francese nel I Atto)
In basso a destra: Uria Monzon (Eboli) e Kwangchul Youn (Philippe II)
A fondo pagina: scena da La Traviata con regìa di Jean-François Sivadier