La specificità dell`uomo (Pico della Mirandola)

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La specificità dell`uomo (Pico della Mirandola)
LA SPECIFICITÀ DELL’UOMO
Il discorso di Pico della Mirandola Sulla dignità dell’uomo è considerato il manifesto dell’Umanesimo rinascimentale.
L’universo descritto da Pico è caratterizzato dalla stessa gerarchia degli esseri che veniva indicata già nel Medioevo, ma che acquista ora un nuovo significato. Se il Medioevo, infatti,
poneva l’accento sul vertice della gerarchia, ossia su Dio, ora l’accento viene posto sull’elemento centrale, ossia sull’uomo, il cui valore non consiste solamente nel suo essere «copula
mundi», cioè anello di congiunzione tra mondo inferiore e mondo superiore, ma anche e
soprattutto nella libertà di determinarsi nell’una o nell’altra direzione. Come dirà successivamente Pascal, l’uomo non è né angelo né bestia, dipende da lui essere l’uno o l’altro. Una tale
concezione può definirsi umanesimo, in quanto rappresenta una valorizzazione dell’uomo,
ma è ancora lontana dall’umanesimo cosiddetto moderno, di tipo illuministico, il quale giungerà invece a una vera e propria deificazione dell’uomo (si pensi al culto rivoluzionario della
“dea ragione”); l’umanesimo rinascimentale (in primis questo di Pico della Mirandola) mira
invece alla “degnificazione”, cioè a evidenziare il significato della persona umana colta nella
sua autonomia, non nella sua indipendenza. Siamo in altre parole di fronte a un’impostazione che potremmo definire di desacralizzazione, che è atteggiamento ben diverso dalla successiva dissacrazione (illuministica). Il discorso di Pico sulla dignità dell’uomo valorizza l’immanente senza negare la trascendenza, afferma il valore dell’uomo senza assolutizzarlo. Si
tratta, insomma, di un umanesimo che si può definire “cristiano”, anche se in modo nuovo
rispetto a forme precedenti. Diversamente dall’umanesimo medievale, che era stato di tipo
sacrale, questo rinascimentale teorizzato da Pico si configura in termini più laici, ma non per
questo è meno religioso: la libertà dell’uomo è rispecchiamento della libertà di Dio e mette
l’uomo in condizione di essere “artefice del proprio destino”.
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TESTO
Non mi soddisfacevano gli argomenti che in gran numero molti recano sulla grandezza della
natura umana: esser l’uomo vincolo delle creature, familiare a quelle superiori, sovrano di quelle
inferiori, interprete della natura per l’acume dei sensi, per l’indagine della ragione, per la luce
dell’intelletto, intermedio fra il tempo e l’eternità e, come dicono i Persiani, copula anzi imeneo
del mondo, di poco inferiore agli angeli secondo la testimonianza di David. Grandi cose, queste,
certo, ma non le più importanti, non tali, cioè, per cui possa giustamente arrogarsi il privilegio di
una ammirazione senza limiti. Perché, infatti, non ammirare di più gli angeli e i beatissimi cori
del cielo?
Ma alla fine mi parve di avere compreso perché l’uomo sia il più felice degli esseri animati e degno perciò di ogni ammirazione e quale sia infine quella sorte che, toccatagli nell’ordine universale, è invidiabile non solo ai bruti, ma agli astri e agli spiriti oltremondani. Cosa incredibile e
meravigliosa! E come altrimenti, se è per essa che giustamente l’uomo vien proclamato e ritenuto un grande miracolo e meraviglia fra i viventi!
Ma quale essa sia, ascoltate, o Padri, e benigno orecchio porgete, nella vostra cortesia, a questo
mio parlare. Già il sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato, secondo le leggi di un’arcana sapienza, questa dimora del mondo, quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva
abbellito con le intelligenze l’iperuranio, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva
popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché,
recata l’opera a compito, l’artefice desiderava che vi fosse qualcuno capace di afferrare la ragione
di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne l’immensità. Perciò, compiuto ormai
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il tutto, come attestano Mosè e Timeo, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi
non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da elargire in
retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno ne rimaneva su cui sedesse codesto
contemplatore dell’universo. Tutti ormai erano pieni; tutti erano stati distribuiti, nei sommi, nei
medi, negli infimi gradi.
Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno quasi impotente nell’ultima opera;
non della sua sapienza rimanere incerta nella necessità per mancanza di consiglio; non del suo
benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto
a biasimarla in se stesso.
Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune
tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, Adamo, né un posto
determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te
la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo.
Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e
sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine».
O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di
ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere recano seco dal seno materno,
come dice Lucilio, tutto quello che avranno. Gli spiriti superni o dall’inizio o poco dopo furono
ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro
frutti. E se saranno vegetali, sarà pianta; se sensibili, sarà bestia; se razionali, diventerà animale
celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto un solo spirito con Dio, nella solitaria caligine
del padre, colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose.
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(Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo,
trad. it. di E. Garin, a cura di G. Tognon,
La Scuola, Brescia 1987, pp. 3-7)
Analisi del testo
1-50 Il passo riportato si colloca all’inizio del Discorso
e si può suddividere in due parti: nella prima Pico indica un motivo tradizionale addotto per affermare il valore dell’uomo; nella seconda chiarisce il nuovo significato della dignità dell’uomo.
1-8 Pur riconoscendo che è motivo di grandezza
dell’uomo affermare, come è stato fatto, che l’uomo ha
un posto centrale nella gerarchia degli esseri, in quanto
l’uomo è «vincolo delle creature» (r. 2), è «familiare a
quelle superiori, sovrano di quelle inferiori» (rr. 2-3), è
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«interprete della natura» (r. 3), è «intermedio fra il tempo e l’eternità» (r. 4), è «copula anzi imeneo del mondo»
(rr. 4-5), è «di poco inferiore agli angeli» (r. 5), tuttavia
secondo Pico non può essere tutto ciò a determinare la
grandezza della natura umana, perché allora si dovrebbero stimare maggiormente gli angeli «che sono agli
uomini superiori».
9-25 La seconda parte del brano si può distinguere in
due momenti. Nel primo si mostra in che cosa consiste la
dignità dell’uomo: per Pico è ciò per cui l’uomo è «il più
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la centralità dell’uomo, ma non ne risolve la grandezza
in questa collocazione, bensì in ciò che da questa collocazione l’uomo decide di essere: la sua dignità sta, pertanto, nel fatto di essere «quasi libero e sovrano artefice» (rr. 38-39) (“quasi” in quanto è pur sempre creato),
un artefice quindi impegnato a determinarsi liberamente. L’uomo, pertanto, può degenerare a livello animale o
innalzarsi a livello superiore, in quanto è dotato di libero
arbitrio. In breve, all’uomo «è concesso di ottenere ciò
che desidera, di essere ciò che vuole» (rr. 42-43), diversamente dagli animali, che rimangono sempre animali,
e diversamente dagli angeli, che rimangono angeli; l’uomo, che non è né angelo né bestia, è uomo proprio perché deve decidere se diventare angelo o bestia, e sarà
l’uno o l’altro a seconda di come si comporta: se a livello
vegetativo, pianta; se a livello sensibile, animale; se a livello razionale, animale celeste; se a livello intellettivo,
angelo; o addirittura se, «non contento della sorte di
nessuna creatura» (rr. 48-49), si raccoglierà in sé, «starà
sopra tutte le cose» (r. 50) avendo «fatto un solo spirito
con Dio» (r. 49). Ecco il vero significato, secondo Pico,
della dignità dell’uomo: la sua libertà di essere creatore
del proprio destino è ciò che lo rende più simile a Dio,
creatore dell’intero universo.
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felice degli esseri animati e degno perciò di ogni ammirazione» (rr. 9-10), ciò per cui la sua sorte «è invidiabile
non solo ai bruti ma agli astri e agli spiriti oltremondani»
(r. 11), ciò per cui è «cosa incredibile e meravigliosa»
(rr. 11-12), ciò per cui «vien proclamato e ritenuto un
grande miracolo e meraviglia fra i viventi» (r. 13).
Ebbene, la dignità dell’uomo viene individuata da Pico
nel fatto che Dio, dopo aver creato l’intero universo (sia
il mondo superiore sia quello inferiore), volle creare
«qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì
grande, di amarne la bellezza, di ammirarne l’immensità» (rr. 19-20).
26-50 A questo punto (ecco il secondo momento) Pico
chiarisce che Dio, non potendo dare a un tale essere,
che è l’uomo, qualcosa di proprio, perché tutto era già
stato distribuito, stabilì che «fosse comune tutto ciò che
singolarmente aveva assegnato agli altri» (rr. 30-31), ossia, mentre ogni altra creatura aveva ricevuto una natura definita (cioè determinata, propria, secondo leggi
prestabilite), l’uomo fu concepito come «opera di natura indefinita» (rr. 31-32): chiamato lui stesso a determinare da sé liberamente la propria specificità, e perché
potesse essere in condizione di scegliere meglio, l’uomo
fu posto al centro dell’universo. Pico ribadisce dunque
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