Leggi un racconto in traduzione italiana

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Leggi un racconto in traduzione italiana
Risguardi Scouting Editoriale
Angela Readman, Regno Unito
Don’t Try This at Home
And Other Stories, 2015
Traduzione dall’inglese di Marina Rullo
Don’t Try This at Home
Ho tagliato il mio ragazzo in due; era quello che volevamo entrambi. Io ho detto che potevamo
raddoppiare il nostro tempo insieme. Lui ha detto che poteva essere due volte più produttivo.
Non credo che avrebbe funzionato con chiunque in qualsiasi momento. Doveva essere allora.
Daniel ha preso in prestito da sua madre una vanga che era stata del padre, e del padre di suo
padre, uomini che non erano mai stati veramente in sé. Si è sdraiato sulla panchina del cortile
sul retro, con le ginocchia piegate per non sporgere. Il cortile era tappezzato di bava argentea
di lumache. Forse potevamo farlo sul pavimento della cucina, ma non volevo scheggiare le
mattonelle.
— Sei sicuro? — ho detto.
— Certo.
Mi sono messa davanti a Daniel con la vanga in mano. Lui non ha guardato verso di me. Ha
guardato in alto, aspettando che il cielo si dividesse in due. Ho pensato di dire qualcosa come
“Ti amo”, nel caso fosse andato tutto storto, ma non volevo ammettere che mi era passato per
la mente.
— Uno, due… —. Al tre ho calato giù la vanga con gli occhi chiusi. C’è stato un attimo in cui
avrei voluto fermarmi, ma a mezz’aria la vanga si è precipitata verso la mia intenzione
originale, con o senza tutta me stessa. Il metallo ha tagliato in due l’osso, risuonando sul
cemento come una campana. Ho aperto gli occhi. Il mio ragazzo guardava me che tenevo la
vanga in mano. E il mio ragazzo stava sdraiato a guardare il cielo. Si è girato a guardarsi
seduto all’altro capo della panchina.
— Come ti senti? — ho chiesto.
— Bene.
— Strano. Bene.
Si è alzato e mi ha abbracciato. Ed è rimasto seduto a guardarsi. I due Daniel erano identici,
anche se quello che mi abbracciava aveva le spalle leggermente più arrotondate, un accenno
di gobba. Mi stringeva tra le braccia come per ricordarsi il modo di farlo, massaggiandomi la
schiena con le dita per ricordare che effetto faceva.
Né il ragazzo tenero né quello sulla panchina mi hanno chiesto cosa ne pensavo di quella
storia. Ma va bene così; immagino che certe cose sembrino semplicemente più grandi per una
persona rispetto a un’altra. Però, sotto sotto, avrei voluto che mi chiedesse com’era stato
tagliarlo in due. Non avrei saputo spiegarlo. Mi aveva fatto tornare in mente quella volta che
avevo cinque anni e guardavo un verme che si divideva in due contorcendosi dopo che l’avevo
affettato. Ricordo che alla vista della chiazza umida sulla vanga avevo provato una fitta di
rimorso, però mi ero sentita un po’ come Dio.
Ho tagliato il mio ragazzo in quarti; sembrava la cosa giusta da fare. Non l’abbiamo fatto
subito. È stato dopo la prima volta che siamo usciti a festeggiare. Il barista ha guardato di
sottecchi il mio ragazzo che mi abbracciava. E ha guardato l’altro che adocchiava la slot
machine. Chissà se ha pensato che uscivo con due gemelli. Il cellulare di Daniel ha suonato, lui
ha mandato un sms ed è rimasto seduto a stringermi la mano, guardandomi come se ci
fossimo appena incontrati e io fossi di nuovo incredibilmente interessante, imprevedibile.
Comprare da bere era diventato più costoso, ma in quel momento non aveva importanza.
— Buona giornata — ho detto.
— Sì — ha detto.
Daniel stava a letto con me e si guardava andare al lavoro. Non c’erano conflitti. Pensavo che
avrebbe litigato con se stesso per decidere quale parte di lui doveva restare a casa con me,
invece, non è andata così. Nei giorni feriali la separazione tornava comoda. Non lavoravo.
Passavo il giorno a pulire casa, spedire CV, dipingere stanze e catalogare libri in ordine
alfabetico per dimostrargli che mi guadagnavo da vivere. A volte facevo l’amore con il Daniel
che era rimasto a casa. Era un pezzo che non lo facevamo così bene. Dopo, lui mi aiutava a
tinteggiare la cucina. Quando rincasava dall’ufficio, sbadigliava e mangiava polpette con le dita
sporche d’inchiostro della stampante. E si sgranchiva perché gli faceva male la schiena a forza
di allungarsi verso il soffitto, con i capelli imbiancati di vernice. Le striature bianche in un
certo senso gli donavano, riuscivo quasi a immaginarmelo da vecchio.
Una volta, ho chiesto a Daniel come aveva fatto la sua proposta di matrimonio. Era agitato?
Spaventato?
Una parte di lui sì, mi ha risposto. L’altra lo era venuta a sapere solo quando le parole gli erano
scappate di bocca. Si era messo insieme a dei colleghi che giocavano un sistema al Lotto e
passava il tempo a lasciare impronte sui banconi di vetro delle gioiellerie. Restava lì a
guardare file di anelli di fidanzamento, cercando di interpretare cosa diceva ognuno.
— Sono stanco — ha detto.
— Ho prenotato un tavolo da Vincenzo — ha detto, infilandosi una camicia pulita.
— Ti scoccia se resto a casa e mi butto sul letto?
Daniel ha ordinato il bianco della casa, mettendosi una mano in tasca ogni due minuti per
controllare che tutto fosse al suo posto. E si è gingillato sulla sedia della scrivania davanti al
computer, sbadigliando e cliccando link a caso, giusto per vedere cos’erano. Non so bene cosa
stesse guardando quando mi ha guardata negli occhi e si è inginocchiato.
È stato il matrimonio che ci ha spinti a rifarlo, penso. Cose per cui risparmiare, sogni da
comprare. Durante la settimana siamo andati a comprare la vernice per l’ingresso e abbiamo
portato le scale a casa con l’autobus.
— Ci servirebbe un’altra macchina — ho detto.
Ha sospirato. Ha sospirato da tutti e due i lati della stanza come uno spiffero che penetra da
una porta semiaperta.
— Potrei trovarmi un lavoro — ha detto. Quando stava dritto, l’accenno di gobba si notava
appena. Sembrava che cercasse di abituarsi all’idea.
— Non sentirti obbligato — ho detto.
Ho nascosto sotto le braccia le riviste da sposa. Non volevo una cerimonia in grande, no di
certo. Il buonsenso mi diceva che era una pazzia, ma una parte di me non voleva perdere
l’occasione di ricevere le congratulazioni della gente per la prima volta nella vita. E se fosse
stata l’ultima?
Hanno assunto il “fratello” di Daniel nello studio d’ingegneria dove lavorava già. La notte
prima di cominciare ha preparato i vestiti sulla sedia come un bambino il primo giorno di
scuola. Dopo un po’ che lavorava allo studio, gli ho chiesto: — Pranzi con te? Al lavoro, intendo.
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— No — ha detto.
— Perché no?
— Sono il mio capo, non sta bene.
Quando è rincasato (più tardi perché veniva a piedi, il suo capo prendeva la macchina) gli ho
chiesto: — Come mai non pranzi con te al lavoro?
— Non abbiamo niente da dirci — ha risposto.
— Che intendi? — ho chiesto.
— Non lo so. Fai finta che non ho detto niente.
Era troppo stanco per parlare. Era più facile non farlo. Negli ultimi tempi, quando rientrava a
casa, parlava di lavoro, e anche l’altro parlava di lavoro. Non faceva caso alla mia nuova ricetta
per gli spaghetti ed era troppo teso per andare a letto presto. Mi mancava. Il nostro conto in
banca era più nutrito, ma le nostre serate così magre che si vedevano le ossa. La soluzione era
chiara.
Ero in cortile con la vanga in mano, per terra una tela cerata. Daniel si è sdraiato, pronto per
quanto possibile.
— Ti taglio in due e basta? — ho chiesto. Ha girato la testa e si è guardato negli occhi.
— In un certo senso, non sarebbe giusto — ha detto.
— Non sarebbe corretto nei confronti di una parte di me — ha detto.
— Come facciamo a sapere quale parte dividere?
Non ne avevo idea. Ho calato giù la vanga per amore di simmetria. Tutte e due le volte ho
mirato alla vita, ma alla seconda la vanga ha colpito di sbieco l’ombelico. Daniel ha notato un
pacchetto di patatine che era finito in cortile e si è alzato per prenderlo. Ha guardato il
telefonino. Ha detto che aveva voglia di una birra. E di nuovo mi ha abbracciato forte come
qualcuno che cerca di fare uscire quell’ultima goccia rimasta nel tubetto del dentifricio, di
spremere fuori quel pizzico di amore in più. Ho notato che uno dei nuovi Daniel era un
pochino più basso di prima. Pendeva da una parte, una gamba più lunga dell’altra. Ho inclinato
la testa di lato per guardare al di sopra della sua spalla il resto di lui, senza quasi fare caso a
quello che avevo tra le braccia.
Alla fine ho fatto a tocchetti mio marito. Non avrei mai pensato di arrivare a tanto, ma lui era
sempre troppo. Daniel era davanti all’altare, e lui… non so bene cos’altro abbia fatto, non
gliel’ho chiesto. Se non era completamente lì, c’era un motivo. Il nostro grande giorno era più
grande di noi. E se davanti a mia madre fosse uscita fuori quella parte infantile di lui che
ancora ridacchiava a parole come “pisello” e “patata”? Non c’era posto per quella parte di lui, e
di me, che avrebbe preferito una cerimonia lampo con un cappello da cowboy in testa durante
un happy hour a Las Vegas.
— Se qualcuno è a conoscenza di un motivo o di un qualsiasi impedimento per cui questa
coppia non debba essere unita nel sacro vincolo del matrimonio, parli ora o taccia per sempre.
Ho sentito Daniel strusciare i piedi in fondo alla chiesa e ho chiuso gli occhi in attesa del bacio.
Siamo usciti a fare le foto sul prato, spostandoci qua e là per non riprendere le pietre tombali.
L’ho visto con la coda dell’occhio appoggiato al muro della chiesa, in jeans. In alcune foto era
sullo sfondo, con una T-shirt e la barbetta ispida, che guardava se stesso accanto a mio padre
in un completo elegante come fosse in TV. Ho sforbiciato le foto dall’album; non ho chiesto
dov’erano andate le altre parti di lui.
È passato qualche anno prima che tirassimo fuori di nuovo la vanga. È stata un’idea di Daniel.
Poteva lavorare di più, estinguere il mio mutuo, dal momento che, evidentemente, nessuno
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aveva intenzione di assumere filosofi. Si è messo in fila contro il muro del garage. Gli ho
passato la vanga attraverso il corpo come una carta di credito.
Mio marito lavorava nel ramo ingegneria, e lavorava come disegnatore tecnico nella sua
azienda. Portava il taxi e portava camion di carta igienica in Galles. Lavorava in un posto che
vendeva attrezzature da sub e ogni tanto faceva una nottata sulla porta di qualche bar alla
moda in città. Passava la vita in palestra, e alzava solo il telecomando. Certi colleghi lo
chiamavano Daniel, altri Dan, Danny, Danny Boy, uno dei ragazzi della palestra lo chiamava DMan per motivi a me sconosciuti. Per via dei suoi orari, non sapevo mai quanta parte di lui
sarebbe tornata a casa la sera. Era difficile stargli dietro. L’importante era che tiravamo avanti
e che lui stava con me, per lo più.
— Mi ami ancora? — gli ho chiesto.
Daniel si è guardato intorno come aspettando qualcuno che entrasse dalla porta e rispondesse
al posto suo. — Certo — ha detto.
Il giorno del nostro anniversario di matrimonio ho convocato una riunione, una specie di
raduno, suppongo. Ho spadellato le cozze, infornato il pane e comprato il vino. È venuta la
maggior parte di mio marito. Era via per una consegna, e stava al bar, ma il resto di lui era a
casa. Ci siamo seduti al tavolo di cucina. L’ho guardato e l’ho visto — alto, atletico, abbronzato
— e ho visto la sua pancia, l’accenno di gobba, la sua totale concentrazione e la sua distrazione.
Non riusciva a prendere niente sul serio e qualsiasi notizia del telegiornale gli dava sui nervi.
Si è guardato annacquare il vino e ha aperto una birra.
— Questo lavoro non fa per me — ha detto, massaggiandosi la pancia.
Penso che volesse dire guidare il taxi, ma non ne ero sicura. Alcune parti di lui erano identiche,
ma certe erano completamente diverse, come due gemelli cresciuti uno in un fast-food e
l’altro in una fattoria. Daniel ha aperto un pacchetto di patatine e si è guardato non prestare
attenzione. Non ha detto un’altra parola. Più tardi, a letto, mi sono accoccolata vicino a lui,
cercando di fare di meglio, ma non ero del tutto certa di avere la parte giusta di lui tra le
braccia.
Ho scoperto che mio marito mi tradiva qualche settimana prima di Natale. Stavamo facendo la
spesa al mercato, Daniel portava i sacchetti. L’ho visto afferrare per la mano una bionda riccia
con un cagnolino nella borsa, non lontano dal bar dove lavorava. Daniel ha guardato se stesso
infilarsi in un portone e palpeggiarla tutta, smodato, insistente, baciandola come un
quattordicenne sul punto di scoppiare. Mi sono fatta strada tra la folla. Li ho persi di vista tra
passeggini e clienti indecisi che assaggiavano conserve di frutta al banco degli agricoltori. Mi
sono guardata intorno, gente dappertutto, una porta dietro l’altra. Daniel fissava l’androne
vuoto dove una parte di lui aveva trascinato la bionda per quei baci che non potevano
aspettare. È rimasto immobile in mezzo alla strada. È stato difficile portarlo via.
— Come hai potuto farlo? — ho detto. — Perché?
— Me lo chiedo anch’io — ha detto.
A mio marito non bastavo. Me ne sono resa conto poco dopo il nostro sesto Natale da sposati.
Avevo preparato il tacchino. Daniel ha mangiato il coscio, e ha voluto solo la carne magra. Ha
aperto una lattina di birra a pranzo, ha guardato la TV e si è fatto un sorso di vino intanto che
mi aiutava a pulire i cavoletti di Bruxelles. Ci siamo messi a tavola. Mancava qualcosa. Una
parte di lui guidava il taxi in giro per la città.
— Pensa ai soldi. Ci sarà la maggior parte di me — ha detto, passandosi una mano sui capelli
rasati.
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Volevo protestare, ma non l’ho fatto. Non volevo pensare a quello che mancava. Lui era lì,
crollato dal sonno davanti al messaggio natalizio della Regina e in cucina a darmi una mano a
lavare i piatti. Mi ha regalato una collana d’oro e mi ha baciato accanto all’albero, poi è andato
in bagno a mandare sms alla donna con il cane nella borsa. Mi ha regalato biancheria intima
che non era della mia taglia e mi ha trovato uno scrittoio d’antiquariato. Invece di fare regali,
ha comprato una televisione e ha impacchettato una teglia da forno nuova, una tavoletta di
cioccolato e dei calzini. È stato un Natale tradizionale, ma ho continuato a pensare a lui nel suo
taxi. Dopo che è rincasato alle due ed è crollato dal sonno, sono sgusciata dall’affollato letto
extra-large e ho frugato nelle tasche dei suoi jeans per terra in bagno. Non c’erano soldi,
mance in buste trasparenti in attesa della banca, solo il telefonino. L’ho aperto come un libro
che non mi andava veramente di leggere. Sono rimasta lì a fissare le foto di una donna
grassoccia con la coda di cavallo. Portava pantaloni da ginnastica rosa e un cappello di paglia e
teneva in braccio un bambino vestito da renna. C’erano foto del bambino renna e di un altro,
un maschietto sui tre o quattro anni, che sorridevano all’obiettivo mostrando un grosso taxi
giallo in una scatola. Ho osservato a lungo quella stanza disordinata con un tappeto da quattro
soldi, sulla mensola del caminetto lo stesso orologio che avevamo regalato a un negozio di
beneficenza l’anno prima. Ho messo giù il telefono. Una parte di Daniel aveva un’altra famiglia,
una parte di lui non voleva figli. Avrebbe detto che il caminetto dietro il bambino renna era
kitsch. In quella stanza era tutto così ordinario; lui aspirava ad altro. Gli piaceva che fosse
tutto pulito. Voleva fare qualcosa di straordinario nella vita, avere una meta, ma a volte il
kitsch e l’ordinario potevano bastare.
Sono uscita in cortile e ho preso la vanga, volevo tagliarmi in due, ma ho pensato che non
avrebbe funzionato. Io ero sempre stata lì, con tutta me stessa. Non riuscivo a immaginarmi da
nessun’altra parte. Ho portato la vanga su per le scale e sono rimasta accanto al letto a
guardare Daniel che dormiva, con i capelli che si era fatti ricrescere in una coda di cavallo
sparsi sul cuscino, con il gel del suo taglio alla uomo d’affari sulla federa, con la testa rasata
nascosta tra le lenzuola. Ho toccato con la punta della vanga la parte di lui che guidava il taxi.
È affondata come un coltello nel burro della sua pancia, anche se l’avevo appena sfiorato. Si è
svegliato di soprassalto, con quattr’occhi sbarrati. Il resto ha continuato a dormire.
— Ho trovato le foto — ho detto. — Non sei felice con me?
Si è guardato russare. Poi si è girato di nuovo.
— La maggior parte di me, sì. Ma c’è questa piccola parte che pensa: come sarebbe la vita con
un’altra persona? Chi sarei?
Si è alzato dal letto. Si è alzato dal letto. Le due metà hanno fatto insieme la valigia e se ne sono
andate senza guardarsi indietro.
Sono ancora sposata. Ho un marito con la pancetta, le spalle curve e l’ombelico buffo. Non si
separa mai da me. A volte, alcune parti di Daniel tornano a casa: un ragazzo leggermente più
alto con dei fiori, che ai miei occhi non sembra diverso dal primo giorno che l’ho incontrato,
anche se è più vecchio, più appiccicoso e più coriaceo. Il resto di lui è altrove: abita in un
appartamento al porto con una donna con un cane con un taglio eccentrico, o lavora giorno e
notte per arrivare a fine mese e mettere la minestra in tavola per tre bambini. È ricco ed è
povero. È stanco e gli piace sciare in Italia. È ambizioso e si è dato per vinto. Siamo felici e
siamo annoiati. A volte mi manca. Lo vedo guardare fuori dalla finestra, chiedendosi dov’è
andata una parte di sé. Sto accanto a lui, gli passo una tazza di tè. E mi chiedo se qualcun’altra
da qualche parte sta facendo lo stesso, guardando fuori dalla finestra, struggendosi per la
parte di lui che è con me.
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