cinque fattori di analisi della geopolitica

Transcript

cinque fattori di analisi della geopolitica
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI
PADOVA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE,
GIURIDICHE E STUDI INTERNAZIONALI
Corso di Laurea Magistrale in Politica Internazionale e
Diplomazia
CINQUE FATTORI DI ANALISI
DELLA GEOPOLITICA
Relatore: Prof. GIORGIO CARNEVALI
Laureando: DANILO GIORDANO
matricola N. 605079/PID
A.A. 2012/2013
1
SOMMARIO
Introduzione
Pag.3
CAPITOLO I: Il Fattore Statale
Pag.7
CAPITOLO II: Il Fattore Energetico
Pag.15
CAPITOLO III: Il Fattore Militare
Pag.29
CAPITOLO IV: Il Fattore Economico
Pag.43
CAPITOLO V: Il Fattore Culturale
Pag.59
Conclusioni
Pag.81
Bibliografia
Pag.105
2
INTRODUZIONE
Fornire una definizione univoca di che cosa sia la geopolitica oggi è
un’impresa alquanto difficile. Una concezione, a mio avviso, riduttiva della
geopolitica la definisce come una disciplina che studia i condizionamenti che
fattori geografici quali forma, estensione e posizione del territorio hanno sulla
politica degli stati, i quali vengono così assimilati ad organismi attivi in un
ambiente internazionale più o meno instabile, in cui ogni attore è costretto a
lottare per assicurarsi spazio e risorse, per espandersi ed evitare di declinare o
morire. Questa definizione rispecchia una visione vecchia della geopolitica che in
passato si è occupata soprattutto di stabilire il ruolo delle grandi potenze in
maniera deterministica, valutandolo essenzialmente in chiave di conquiste
territoriali.
Halford Mackinder, uno dei padri della geopolitica, sosteneva che la
nazione che fosse riuscita a conquistare lo HEARTLAND, un’area indefinita
dell’Asia centrale, avrebbe avuto il predominio mondiale1. Nicholas J. Spykman
adottò la visione di Mackinder, ribaltandone l’assunto principale: chi controlla il
RIMLAND, un’area compresa tra l’Heartland e gli oceani, domina l’Eurasia e
quindi il mondo2. Il contrammiraglio della Marina USA Alfred T. Mahan,
diversamente dai due precedenti, sosteneva che il predominio del mondo dovesse
basarsi sul controllo dei mari3.
La geopolitica degli ultimi decenni ha smesso di occuparsi solo di conquiste
territoriali; i suoi campi di interesse si sono ampliati a tal punto da sconfinare
spesso nell’ambito di altre discipline. La geopolitica, oggi, si interessa certamente
1
HALFORD MACKINDER, The geographical pivot of history, The Geographic Journal, vol. XXIII,
1904.
2
NICHOLAS J. SPYKMAN, America’s strategy in world politics: the United States and the balance
of power, New York, Harcourt, Brace and Company, 1942.
3
ALFRED THAYER MAHAN, The influence of sea power upon history, 1660-1783, Boston, Little
Brown & C., 1890.
3
di fattori geografici come la posizione, il territorio e la sue risorse, ma anche di
fattori altri, che vanno dalla finanza al settore degli armamenti, dalle religioni agli
accordi commerciali, dalle nuove tecnologie alla demografia: il prefisso geo non
viene più inteso come riferito alla geografia, bensì alla portata dell’analisi che
adesso è globale. Questa nuova visione più ampia riflette la complessità
dell’attuale scenario politico mondiale, caratterizzato dalla variazione continua
degli agenti disturbatori di ogni nuovo sistema costituito e dall’emergere di nuovi
attori che operano sfruttando al meglio sia il potere conferitogli dalle risorse di cui
sono dotati, sia gli spazi lasciati scoperti da una generale “distrazione” delle
potenze leader. Di conseguenza la divisione del mondo in paesi ricchi, in via di
sviluppo o poveri, peraltro funzionale alla visione delle cosiddette grandi potenze,
non funziona più, così come non può funzionare una gestione degli affari del
mondo sulla base di una semplice gerarchia statistica. La semplificazione dello
scenario geopolitico globale, che si sarebbe dovuta palesare all’indomani della
fine della Guerra Fredda, non si è mai realizzata. Gli attacchi al World Trade
Center dell’11 settembre 2001 hanno rivelato la presenza dirompente di minacce
asimmetriche prima sconosciute e la vulnerabilità di un sistema non governato,
fuori controllo, ancora troppo fragile per essere duraturo. Sono cambiati anche gli
strumenti di affermazione e di espansione: non più le rotte commerciali marittime
o la conquista con le baionette, ma fattori altri quale la costruzione di grandi reti
di trasporto dei nuovi tesori (petrolio, gas, acqua), l’acquisizione di grandi
giacimenti, nuove forme di espressione identitaria, strumenti economici sempre
più pervasivi4. La scoperta di nuovi giacimenti di petrolio o gas e lo sviluppo di
capacità estrattive di buon livello hanno cambiato radicalmente l’importanza
geopolitica di paesi come Azerbaigian e Kazakhstan; il posizionamento strategico
in un’area considerata vitale per gli interessi dei “grandi” ha cambiato la rilevanza
geopolitica di altri paesi come Afghanistan e Turkmenistan; una crescita
4
GIANLUCA ANSALONE, I nuovi imperi. La mappa geopolitica del XXI secolo, Venezia, Marsilio
editore, 2008, pag. 33.
4
economica rilevante che fa da contraltare alle stagnanti economie delle potenze
occidentali ha aumentato il peso politico di paesi come Turchia e Messico; il
semplice possesso di armi nucleari ha reso attori primari dello scacchiere
mondiale stati relativamente importanti come Corea del Nord e Israele; le
cancellerie italiane, francesi e spagnole sono state surclassate, in importanza, da
quelle indiane, brasiliane e cinesi; il futuro tecnologico del mondo è possibile
vederlo in maniera più evidente a Dubai, Shanghai e Singapore, piuttosto che a
Londra o Berlino. Le agitazioni sociali in Cina, il sistema scolastico dell’Arabia
Saudita, il vuoto di potere in Afghanistan, le tensioni etniche nelle regioni ricche
di petrolio del delta del Niger, la volatilità dell’economia argentina hanno un
impatto immediato sulla geopolitica e l’economia mondiale che non ha
equivalenti nel passato5. Stato, Energia, Armamenti, Economia e Civiltà saranno,
a mio avviso, i campi nei quali si combatterà la sfida di potenza degli imperi del
XXI secolo.
5
IAN BREMMER, La curva J. La bussola per capire la politica internazionale, Milano, Università
Bocconi editore, 2008, pag. 327-8.
5
6
CAPITOLO I
IL FATTORE STATALE
Sebbene lo abbia minacciato in più modi, la globalizzazione non ha portato
alla fine dello Stato Territoriale nato con la pace di Westfalia e trasformatosi in
Stato nazionale con la rivoluzione francese, né ha portato alla nascita di un nuovo
soggetto. Caduto il muro di Berlino, molti hanno pensato che gli interessi
nazionali fossero un relitto del passato, giurato sul tramonto delle frontiere,
postulato la nascita di un’Europa potenza civile, anticipatrice dei destini
universali. Vent’anni dopo, invece, i massimi protagonisti della scena mondiale
sono ancora stati nazionali, fieri di esserlo, mentre le frontiere proliferano,
disegnando dozzine di nuovi stati o staterelli, più patrimoniali che nazionali6. Una
multinazionale potrà anche accumulare più ricchezza di uno Stato, ma la
mancanza degli attributi statali non le consentirà mai di avere lo stesso potere. Gli
stati territoriali restano e resteranno gli attori fondamentali della politica, sia per le
questioni interne che per quelle internazionali. Non sono scomparsi né il concetto
di interesse nazionale, né quello di stato. La crisi economica mondiale tuttora in
corso ha dimostrato, anche ai più scettici, quanto lo stato sia l’unico soggetto in
grado di fornire l’equilibrio giusto tra libertà economica e solidarietà sociale e
nazionale.
La competizione basata sul territorio continua a dominare gli affari
internazionali, sia pure in forme che attualmente tendono a essere più civili. La
collocazione geografica continua a essere il punto di partenza per definire le
priorità esterne di uno stato-nazione, mentre l’estensione del territorio nazionale
costituisce uno dei parametri principali di definizione sia del prestigio che della
potenza7. Inoltre, il compito principale di ogni stato continua ad essere quello di
elaborare la propria visione del futuro in base alla propria identità e ai propri
6
LIMES, C’era una volta Obama, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, vol.1/2010, pag.21.
7
ZBIGNIEW BRZEZINSKI, La grande scacchiera, Milano, Longanesi & C., 1998, pag.54.
7
interessi, di accrescere la competitività del proprio territorio e attirare la massima
quantità possibile dei flussi di ricchezza mondiali8. Sul piano geostrategico, i
giocatori attivi sono quegli stati che hanno la capacità e la volontà nazionale di
esercitare potere o influenza al di là dei propri confini allo scopo di modificare gli
assetti geopolitici esistenti.
Il “primato statale” tocca indiscutibilmente agli Stati Uniti d’America.
L’esercizio del predominio americano deriva dalla superiore organizzazione, dalla
capacità di mobilitare prontamente grandi risorse economiche e tecnologiche,
spesso per scopi militari, dal richiamo dello stile di vita americano, dal semplice
dinamismo e dall’intrinseca competitività delle elite sociali e politiche9. L’impero
degli Stati Uniti conta nel mondo circa 800 basi militari, alleanze multilaterali
(NATO) e bilaterali, una posizione dominante all’interno delle istituzioni
finanziarie internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale),
nelle banche, nelle multinazionali, nelle società finanziarie e nelle industrie
presenti in Asia, America Latina, Europa e altrove, un predominio culturale che
ha il suo punto forte nell’industria cinematografica di Hollywood e un mondo
accademico che detta i tempi culturali al resto del mondo. È vero che l’America
ereditata da Obama nel 2009, dopo la disastrosa esperienza di George W. Bush,
non è più l’America che Bill Clinton aveva consegnato nel 2001 proprio a Bush
jr.; ma è anche vero che proprio l’elezione del primo presidente di colore della
storia americana è stato uno degli avvenimenti televisivi più visti della storia, a
ulteriore riprova del forte potere attrattivo che la politica americana ancora
esercita. Il potere statale americano dimostra la sua maggiore forza
nell’espressione della sua politica estera: di fatto tutto il mondo attende la
decisione o il parere americano su qualsiasi tipo di avvenimento. Da Parigi a
Berlino, da Mosca a Tel Aviv, da Pechino a Brasilia tutti si chiedono cosa faranno
8
CARLO JEAN, Geopolitica del caos. Attualità e prospettive, Milano, Franco Angeli editore, 2007,
pag.32.
9
ZBIGNIEW BRZEZINSKI, op. cit. , pag.20.
8
gli Stati Uniti con quel particolare dittatore, come risolveranno quella particolare
situazione di conflitto, come gestiranno quella particolare crisi. Da sceriffi
riluttanti, quali erano in passato, gli Stati Uniti si sono trasformati nel tempo non
solo in gendarmi del mondo, ma anche in crociati della democrazia, scontrandosi
in primo luogo con l’islam, per renderlo omogeneo ai valori americani,
modernizzarlo e farlo partecipare alla globalizzazione10. Ma un impero, indebitato
fino al collo con i suoi competitori strategici, incapace di risolvere i conflitti in
Iraq e Afghanistan e di sbrogliare la complicata situazione nel Grande Medio
Oriente, cessa di fatto di essere tale. Gli Stati Uniti hanno paura di una cosa sola:
non essere più in grado di fare paura. Ed è la perdita di tale potere la minaccia più
concreta alla egemonia americana.
L’avversario politico globale degli Stati Uniti, il competitor strategico, dopo
la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il susseguente crollo del sistema russo è la
Repubblica Popolare Cinese. La Cina non ha sfidato, né adottato il modello
statunitense di costruzione di un impero attraverso l’imposizione di un potere
militare, né tantomeno si è ispirata agli approcci utilizzati da Giappone e
Germania per competere con le potenze imperialiste affermate. La sua crescita
dinamica è stimolata dalla competitività economica, sostenuta da uno Stato
fortemente centralizzato, con la volontà di trarre spunti, imparare, innovare ed
espandersi, internamente e oltreoceano, e da una politica estera alla ricerca di
sostegno in giro per il mondo. La sua politica estera ha raggiunto una dimensione
globale sviluppandosi, negli anni, su quattro assi principali: miglioramento delle
relazioni con i paesi limitrofi al fine di creare un ambiente regionale favorevole;
accesso alle risorse naturali nei paesi in via di sviluppo; sostegno alla creazione di
un ordine internazionale multipolare; repressione di ogni forma di separatismo
(ricongiungimento di Taiwan compreso). Il successo di questa politica è
dimostrato dal fatto che a quello che una volta era chiamato Washington
Consensus, e cioè la capacità da parte degli USA di influenzare le decisioni altrui
10
CARLO JEAN, Geopolitica del XXI secolo, Bari, Laterza editore, 2004, pag.53.
9
ottenendo sostegno incondizionato in cambio di aiuti economici, si contrappone
con sempre maggior forza il Beijing Consensus. Esso è molto più attraente per le
classi dirigenti delle autocrazie dei paesi emergenti, specie di quelli produttori di
petrolio, poiché non si prefigge di imporre il rispetto dei diritti umani né la
democratizzazione, cambiando anche i regimi politici, ma di accettarli per quello
che sono e concludere affari con essi. La definitiva affermazione dello stato cinese
risulterà impossibile se non avverrà anche un rafforzamento delle dinamiche
interne. Il forte dinamismo economico del settore privato a lungo andare sarà
incompatibile con la rigida dittatura burocratica comunista che ormai nasconde
soltanto interessi costituiti che non hanno più niente a che vedere con l’ideologia.
La classe dirigente cinese, chiusa e intollerante, è organizzata secondo criteri
gerarchici, e anche se continua a proclamare in modo ritualistico la fedeltà ai
dogmi per giustificare il proprio potere, ha cessato di applicarli nella pratica
sociale11. I leader cinesi dovranno riuscire nell’impresa di promuovere una
transizione lenta e graduale a una forma di autoritarismo temperato, in cui siano
tollerate alcune scelte politiche dal basso, e avviare, in seguito, un processo
istituzionale che introduca un’autentica forma di pluralismo politico12.
Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il “decennio perduto” della
presidenza di Boris Eltsin molti avevano considerato la Federazione Russa
definitivamente fuori dai giochi per la conquista della supremazia globale. Con
l’arrivo di Putin la Russia sta pian piano riconquistando la sua posizione di potere,
abbandonando il suo fardello eurasiatico che la costringeva ad essere un impero
autoritario. Il processo di trasformazione in Stato-nazione dei frammenti
dell’impero è stato comunque difficile ed è tuttora in corso. Vi è, ancora, in
Russia, una debole società civile, manca una classe media e la burocrazia è tuttora
ancorata al passato; la sua classe dirigente è però completamente europeizzata.
L’enorme complessità della situazione interna la obbliga ad essere comunque più
11
ZBIGNIEW BRZEZINSKI, op. cit., pag.215.
12
ZBIGNIEW BRZEZINSKI, ibid., pag.217.
10
autocratica di quanto lo fosse stato negli anni novanta e a tentare di centralizzare
l’enorme federazione13. Putin tiene saldamente il potere e gode di un’enorme
popolarità tra i russi, anche perché ne ha saputo far rivivere l’orgoglio nazionale,
interpretandone i desideri e le speranze. L’attuale Presidente russo sapeva bene
che non avrebbe potuto adottare alcuna riforma se non si fosse prima garantito un
saldo potere ed è da qui che è derivata la presa di controllo dei mezzi di
informazione e il recupero del patrimonio nazionale saccheggiato dagli oligarchi
legati alla famiglia Eltsin. L’imposizione della stabilità da parte di Putin,
fortemente sostenuta dai maggiori governi europei, suscita spesso reazioni
negative e proteste per i metodi violenti e per la pratica, abbastanza comune, di
sostituire i vecchi oligarchi con ex-appartenenti al KGB, ma il mondo degli affari
ha visto con favore la ritrovata solidità economica. La dissoluzione dell’Unione
Sovietica ha portato alla perdita di importanti territori con conseguenti perdite
strategiche: la perdita dei paesi baltici ha limitato l’accesso russo al Mar Baltico
attraverso i porti di Riga e Tallin, la perdita dell’Ucraina ha privato la Russia della
sua posizione dominante sul Mar Nero attraverso il porto di Odessa, la nascita dei
nuovi stati caucasici (Georgia, Armenia ed Azerbaigian) ha accresciuto la
possibilità della Turchia di ristabilire la sua antica influenza, mentre la creazione
di nuovi stati centroasiatici ha privato la Russia di immense risorse minerali
strategicamente importanti. La riaffermazione di una nuova politica estera russa si
basa soprattutto sullo sfruttamento della sua posizione strategica, sulla volontà di
NATO e UE di volersi allargare ad Est e sulla sempre maggiore richiesta di gas e
petrolio da parte dei paesi in via di sviluppo, senza disprezzare l’opzione
dell’intervento armato quando le circostanze lo richiedono, come nel caso della
Cecenia, dell’Ossezia e dell’Inguscezia.
Accanto a questi tre grandi ci sono una serie di paesi che, sfruttando la loro
posizione strategica o una congiuntura economica favorevole, stanno cambiando
lo schema geopolitico mondiale. Il Brasile è ormai pronto a fare la propria
13
CARLO JEAN, op. cit., pag.164.
11
comparsa nel mondo che conta attraverso l’energia, il commercio ed un’economia
in forte crescita; l’India è diventata l’ufficio del mondo e ha nella demografia
l’arma assoluta per l’oggi e il domani; le vastissime riserve di gas e di petrolio, le
formidabili forze armate e i progressi del programma nucleare fanno dell’Iran una
potenza strategica del Golfo Persico; Egitto, Turchia e Arabia Saudita
rappresentano i tre vertici di un triangolo strategico impegnato nella
stabilizzazione e conquista della fondamentale regione del Medio Oriente e del
Nord Africa; Corea del Nord, Pakistan e Afghanistan sono invece ritenuti
fondamentali in quanto un loro fallimento è ritenuto pericoloso per zone di grande
rilevanza strategica.
Da questo elenco appare evidente l’assenza di uno stato europeo
geopoliticamente forte. Le difficoltà economiche, i problemi sociali e
demografici, la forte dipendenza energetica dall’estero hanno tagliato fuori
Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia dalla contesa geopolitica globale. Solo
una unione formale di stati, come la UE, può riposizionare l’Europa al centro
dello scacchiere geopolitico globale; ma i singoli stati dovrebbero delegare alla
UE non soltanto le politiche economiche, ma anche quelle militari ed energetiche.
Attualmente l’Unione Europea ha enormi difficoltà: non è né uno stato unitario né
una federazione né una confederazione ma solo uno spazio economicamente
integrato, con un apparato d’istituzioni politiche comuni solo superficiale, che non
inficia la sussistenza dei vecchi Stati nazionali; si è diffuso tra la popolazione e tra
molti governi nazionali un certo “euro-scetticismo” e l’allargamento dell’UE
verso est negli anni recenti si sta rivelando compromettente per la stabilità e
funzionalità della compagine europea. Inoltre, nonostante l’istituzione della PESC
e della PESD, l’UE non ha ancora una sua politica estera comune, ma ogni Stato
nazionale ne persegue una propria, né un suo strumento o una sua politica
militare, ancora ritenuto uno dei fattori essenziali della politica internazionale. La
situazione di stallo per l’adesione della Turchia alla UE, adesione che potrebbe
creare problemi ma che sicuramente rinvigorirebbe il dibattito culturale europeo,
anch’esso in forte declino, ha fatto perdere credibilità alla Unione Europea,
12
nonché la possibilità di ottenere benefici da un’economia, come quella turca, che è
in forte crescita.
Gli ultimi anni e gli ultimi avvenimenti politico-militari hanno mostrato
chiaramente quanto sia diventata debole l’ONU. Quello che doveva diventare il
governo mondiale ha perso sempre più credibilità, sotto i colpi degli interventi
americani nei Balcani e in Iraq, ma soprattutto a causa della sua sempre maggiore
incapacità decisionale dovuta ai troppi schieramenti contrapposti e ad una
struttura da rinnovare che o tenga in maggior considerazione le potenze emergenti
o sia davvero mondiale e non più sottoposta alla dittatura dei cinque Grandi. Gli
ultimi colloqui per una riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite non
hanno dato esiti positivi, stante la contrapposizione tra diversi gruppi: G-4
(Germania, Giappone, Brasile e India) contro Uniting for consensus (Italia,
Spagna e Paesi Bassi) contro Coffee Club (Pakistan, Argentina, Messico, Turchia,
Canada e Corea del Sud).
Laddove l’UE e l’ONU stanno perdendo terreno, la NATO lo sta
guadagnando. Dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e la dissoluzione
dell’Unione Sovietica gli americani piuttosto che smantellare la NATO, essendo
venuta meno la sua ragion d’essere ufficiale, hanno pensato di preservarla,
trasformandola in uno strumento politico addetto alla sicurezza e alla stabilità
europea e in uno strumento militare offensivo e non più difensivo. Per non perdere
il vizio, la NATO ha esteso i propri confini orientali in Europa a partire dal 1999,
con l’ingresso di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, e via via inglobando, in
un modo o nell’altro, tutti gli ex-membri del Patto di Varsavia, circondando di
fatto la nuova Russia. A partire dal vertice di Strasburgo/Kehl del 2009 un gruppo
di esperti è stato incaricato di delineare le linee del nuovo concetto strategico
NATO, adattandole alle nuove minacce, ma di fatto ricercando nuovi obiettivi
strategici per affermare il predominio dell’Occidente (vedi USA) in aree
strategicamente rilevanti e fino a quel momento sotto influenza sovietica.
L’energia, la sicurezza e l’antiamericanismo sono gli elementi vincolanti
della Shanghai Cooperation Organization (SCO), una organizzazione sconosciuta
13
ai più, ma che sta realizzando enormi progressi nella cooperazione internazionale.
Nata nel 1996 dalla volontà di cinque paesi, i Cinque di Shanghai (Cina, Russia,
Tagikistan, Kazakistan, Kirghizistan) con il proposito di difendere e rafforzare i
confini e le frontiere dei paesi membri, nel 2001 l’organizzazione ha inglobato
l’Uzbekistan implementando i suoi obiettivi contro il terrorismo e le minacce
asimmetriche, ma di fatto svelando che l’obiettivo reale dell’organizzazione è il
controllo, sia militare che energetico, di un’area fondamentale per gli sviluppi
futuri, l’Asia Centrale. Ogni sua riunione mette in evidenza lo scontro tra due
visioni geopolitiche differenti, quella russa e quella cinese: la prima è ansiosa di
ripristinare il suo antico splendore, anche militare, la seconda cerca di accaparrarsi
quanta più energia possibile per sostenere la sua crescita impetuosa.
Anche se fortemente integrate, queste organizzazioni non sono però veri e
propri stati, capaci di agire autonomamente sulla scena internazionale, di
governare gli stati di eccezione e di imporre interessi e politiche. Derivano sempre
da accordi intergovernativi, anche quando sono previsti in esse dei direttori
formali. La logica dello stato prevale sempre sulla logica multilateralista e
collaborativa, soprattutto nei periodi di crisi quando la difesa del proprio
“orticello” resta l’unica arma che i governi sono in grado di proporre ai propri
governati per ottenerne la riconoscenza.
14
CAPITOLO II
IL FATTORE ENERGETICO
In questo difficile scenario geopolitico mondiale, la disponibilità di
imponenti arsenali militari passa sempre più spesso in secondo piano rispetto alla
possibilità di accedere a riserve di petrolio, gas naturale e altre fonti di energia.
Nel vecchio ordine la posizione occupata da un paese nella gerarchia globale era
valutata in base al numero di testate nucleari, di navi da guerra e di soldati
posseduti. Nel nuovo ordine, la posizione nella classifica è sempre più
determinata dalla vastità delle riserve di petrolio e gas naturale o dalla capacità di
mobilitare grandi disponibilità economiche per acquisire le risorse energetiche dei
paesi che ne hanno in surplus.
L’energia costituisce un fattore di condizionamento politico rilevante.
Innanzitutto le riserve energetiche dettano i tempi della politica interna dei paesi
produttori, che sanno bene come il limite del loro potere è il punto in cui le loro
riserve divengono troppo scarse per essere estratte creando un surplus economico,
e come la necessità di generare sovra redditi sia un processo che ha il tempo,
ristretto, della obsolescenza delle tecnologie di estrazione14. In molti paesi i
governi utilizzano le compagnie di stato come strumento di politica estera: si parla
di statalismo delle risorse quando uno stato acquisisce una maggiore autorità nei
settori dell’energia nazionale, come proprietario di risorse strategiche o come
principale attore nell’approvvigionamento, trasporto e distribuzione dei flussi
energetici15. Per i paesi privi di risorse energetiche, la ricerca di queste ultime
genera una lotta feroce per il controllo o l’acquisizione dei giacimenti strategici di
materie prime essenziali, in cui entrano in gioco praticamente ogni mese nuovi
partecipanti: Indonesia, Malesia, Corea del sud, Turchia, Sud Africa e altre
14
GIANCARLO ELIA VALORI, Il futuro è già qui, Milano, RCS libri, 2009, pag.14.
15
MICHAEL T. KLARE, Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna gli equilibri politici mondiali,
Milano, Edizioni Ambiente, 2010, Pag.39.
15
nazioni in rapido sviluppo. Recentemente inoltre si è inserito un altro aspetto della
lotta energetica, quello degli stati che ospitano o ospiteranno le pipelines dirette
verso i paesi che hanno maggior bisogno di energia. Sono paesi che hanno
acquisito importanza in virtù della loro posizione strategica, e che sfruttano questa
situazione per imporsi nello scenario globale.
Il grande gioco dell’energia che ne consegue, con il suo enorme potenziale
di rivalità, alleanze, conflitti, tradimenti e tensioni sarà senza dubbio un elemento
essenziale, se non dominante, della politica mondiale di questo secolo. Gli scontri
diretti tra superpotenze sono stati finora evitati. Ciononostante, con l’aumentare
della necessità di risorse sempre più scarse, la possibilità di innescare un conflitto
tra le grandi potenze si profila come uno dei pericoli più gravi che il pianeta
potrebbe affrontare. Con il tempo, anche un piccolo incidente potrebbe innescare
una reazione a catena di attacchi e contrattacchi che potrebbero sfociare in una
guerra globale. I rischi a lungo temine crescono anche perché i principali
produttori di energia si servono regolarmente della più pericolosa delle emozioni,
il nazionalismo, per legittimare la loro volontà di controllo dei flussi energetici. A
questo bisogna aggiungere che i leader della maggior parte dei paesi coinvolti
nella gara all’energia considerano la lotta per le riserve di idrocarburi come un
conflitto a somma zero, nel quale un guadagno di un paese rappresenta
invariabilmente una perdita per gli altri. Questa mentalità implica una totale
mancanza di flessibilità nelle situazioni di crisi, mentre la prospettiva nazionalista
trasforma la vendita/ricerca delle risorse energetiche in un obbligo sacro a carico
dei responsabili di governo.
I combustibili fossili rappresentano la fonte principale di energia e
normalmente quando si parla di geopolitica dell’energia si fa riferimento al
petrolio e al gas naturale, perché sono le fonti che destano maggiori problemi di
ordine geopolitico. Come mai il petrolio gioca un ruolo così importante negli
affari internazionali? Secondo Michael T. Klare la sua costante disponibilità e
abbondanza non sono mai state così essenziali per il buon funzionamento
dell’economia globale. L’oro nero, come spesso viene definito, risulta
16
fondamentale per ogni tipo di attività produttiva, per alimentare le città così come
i campi da raccolto; inoltre i derivati del petrolio sostengono la struttura portante
della globalizzazione: aerei, navi, treni e camion che trasportano le merci da una
parte all’altra del pianeta. Aggiunge Klare che la concorrenza per l’energia non è
mai stata così intensa: negli ultimi anni, sono entrate nel gioco politico mondiale
le economie emergenti di Cina, India e Brasile, la cui crescita necessita di sempre
maggiori quantità di energia. Non è affatto certo che l’industria energetica riesca a
soddisfare le impetuose esigenze di questi nuovi consumatori, unite a quelle
sempre molto elevate delle potenze industriali ormai consolidate. Perfetto
corollario di questo teorema è che i timori di un prossimo esaurimento delle
riserve petrolifere sono più che elevati e più che giustificati16. Un numero
crescente di prove suggerisce che l’era del petrolio facile stia volgendo al termine:
ogni nuovo barile di petrolio sarà più difficile da estrarre e più costoso del
precedente17.
Nel caso dei procedimenti di estrazione del petrolio vale la legge dei
guadagni decrescenti: vengono scoperte e sfruttate per prime le risorse petrolifere
di più facile accesso e di minor costo unitario di estrazione, in seguito i
ritrovamenti di giacimenti saranno via via più rari e costosi fino ad arrivare al
punto di non ritorno in cui il costo di produzione supererà il prezzo medio del
bene. Quindi le soluzioni per il futuro sono due: o si continua con il livello
standard di consumi, cercando di ottimizzare sia le tecniche di estrazione che
quelle di utilizzo, oppure si abbandona il petrolio. A tutt’oggi l’asimmetria
strutturale delle aree di reperimento del petrolio, che non è distribuito in modo
prevedibile, e il trivellamento dei giacimenti che segue un metodo casuale di
prova ed errore, non aiutano a raggiungere una diminuzione del prezzo di
estrazione18. Esistono altri due fattori che giustificano una visione negativa
16
GIACOMO MANGANO, Lo spettro della fine del petrolio, Affari Internazionali,
www.affariinternazionali.it, 18 Ottobre 2010.
17
MICHAEL T. KLARE, op. cit., pagg.25-30.
18
G. ELIA VALORI, op. cit., pagg.29-31.
17
riguardo all’approvvigionamento futuro di petrolio: una riduzione più rapida del
previsto della produzione dei giacimenti esistenti e i risultati deludenti nella
scoperta di nuovi giacimenti. Una
quota altissima dell’attuale produzione
mondiale di petrolio proviene da 116 giacimenti giganti. Di questi, tutti tranne
quattro sono stati scoperti oltre venticinque anni fa, e molti di loro danno ormai
segnali di riduzione della capacità produttiva. I giacimenti di Ghawar in Arabia
Saudita, Cantarelli in Messico e Burgan nel Kuwait da soli hanno una produzione
complessiva di 8 milioni di barili al giorno, cioè un decimo della produzione
mondiale19.
Non c’è solo il declino dei giacimenti esistenti, ma anche il fatto che le
nuove scoperte avvengono soprattutto in luoghi dove le risorse sono difficili da
estrarre oltre che fisicamente anche “politicamente”. La distribuzione dei
giacimenti di petrolio nel mondo è l’elemento principale della geopolitica di tale
risorsa energetica. Il 57% delle riserve mondiali si trova in Medio Oriente e
precisamente in Arabia Saudita (21%), Iran (11%), Iraq (9%), Kuwait (8%), EAU
(8%). Al di fuori del Medio Oriente solo Venezuela e Russia possiedono riserve di
grandezza comparabile. Il problema politico mediorientale deriva dalla perdurante
instabilità della regione; il Golfo Persico, in particolare, è agitato da conflitti
etnico-religiosi (presenza di musulmani sciiti e sunniti, di popolazioni arabe e non
arabe) ed è stato teatro di guerre rilevanti, in cui si intrecciavano malcelati
interessi petroliferi: la guerra Iraq-Iran (1980-88), la prima guerra del golfo (199091) e la seconda guerra del golfo (dal 2003 ad “oggi”). Il Medio Oriente e le sue
risorse sono da molto tempo al primo posto negli interessi degli strateghi
americani che già nel 1945, con gli accordi firmati a bordo del Quincy tra
Roosevelt e il Re d’Arabia Saud, riconoscevano alla zona una importanza capitale
per il loro approvvigionamento energetico: importanza che hanno dimostrato
intervenendo nell’area ogni volta che la situazione lo richiedeva.
19
MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.51.
18
Ma la notevole turbolenza del golfo persico ha convinto gli stati che più
necessitano di risorse, Stati Uniti e Cina in testa, a diversificare geograficamente
l’approvvigionamento di idrocarburi. Secondo una valutazione del Department of
Energy del gennaio 2007, la regione del Mar Caspio, compreso il mare e gli stati
che lo circondano, sarà strategica per i mercati mondiali nel prossimo decennio e
avrà tutte le potenzialità per diventare uno dei luoghi principali di esportazione di
petrolio e gas. Si prevede che l’area farà registrare un aumento della produzione di
petrolio pari a circa il 171% tra il 2005 e il 2030; è una delle poche regioni al
mondo che può potenzialmente beneficiare di un incremento di queste dimensioni.
Occorre, inoltre, sottolineare che le nazioni della regione sono pronte a esportare
il proprio surplus di energia verso i mercati internazionali, e nella maggior parte
dei casi manifestano l’intenzione di cooperare con aziende internazionali affinché
questo sia possibile, nella speranza di liberarsi dalla morsa sovietica. Tra i paesi
dell’area il Kazakhstan è diventato una centrale energetica che tutte le
superpotenze cercano di conquistare o controllare, e dove è stato scoperto l’ultimo
grande giacimento petrolifero, quello di Kashagan, così come in Uzbekistan i
leader cinesi hanno corteggiato a lungo il governo autoritario del paese,
assicurandosi lo sfruttamento congiunto dei giacimenti petroliferi intorno a
Bukhara.
Grazie alla impressionante quantità di materie prime ereditate dall’Unione
Sovietica, l’attuale Russia dispone di alcune tra le più grandi riserve mondiali di
petrolio, gas, carbone, uranio e altre materie essenziali. Per tutto ciò la Russia
potrà continuare a sostenere la propria crescita economica per i prossimi decenni,
grazie alla produzione di energia e alle esportazioni. La strategia energetica russa
prevede lo sfruttamento delle immense riserve energetiche della Siberia, lo
sviluppo di forti alleanze commerciali, l’investimento di capitali e la ripartizione
dei rischi tra paesi produttori e consumatori, il controllo del sistema degli
oleodotti di tutti i paesi della vecchia URSS.
19
Ma sarà il petrolio africano a costituire una delle chiavi di volta della
questione energetica dei prossimi decenni20. Ciò che rende oggi l’Africa così
interessante è esattamente quello che l’ha resa così attraente nei secoli precedenti:
una grande abbondanza di materie prime essenziali, ospitate in un continente
profondamente diviso, debole dal punto di vista politico e quindi eccezionalmente
esposto allo sfruttamento internazionale. Poiché oggi ogni singolo barile di
petrolio è rilevante, e le principali potenze consumatrici di energia vogliono
ridurre la loro dipendenza dal Medio Oriente, l’Africa è ridiventata una fonte
importante di materie prime. I motivi del nuovo “scramble for africa” sono
innumerevoli. Innanzitutto l’Africa è la regione del pianeta dove la produzione
petrolifera è aumentata ai ritmi più sostenuti. In secondo luogo, la produzione
petrolifera africana è geograficamente concentrata sulla costa mediterranea e nel
golfo di Guinea21, dove al largo delle coste tra Mauritania e Angola sono
disponibili grandi riserve di petrolio poco sfruttate22. Le aree marine sono
considerate dagli investitori più sicure perché non si trovano nei pressi di
comunità locali e di conseguenza ritengono in questo modo di poter evitare i
problemi riscontrati sul continente. Inoltre le rotte battute dalle petroliere che
vanno dall’Africa occidentale alle coste orientali dell’America non incontrano
punti di congestione come il Bosforo in Turchia o lo stretto di Hormuz nel Golfo
Persico, e passano attraverso le acque atlantiche controllate dalla Marina
statunitense. All’Africa manca, naturalmente, quella strategia di difesa dallo
sfruttamento straniero che altre regioni, precedentemente colonizzate, hanno
stabilito nel corso del tempo. Hanno pochi professionisti con una preparazione
adeguata, e allora questi paesi non hanno altra scelta che affidarsi al supporto
tecnico delle corporation straniere. Nella corsa alle risorse africane si è inserita
20
ARRIGO PALLOTTI, La corsa al petrolio in Africa, Cartografare il presente,
www.cartografareilpresente.org, 10 ottobre 2007.
21
DANIEL MORRIS, The other Oil-rich Gulf. The National Interest, www.nationalinterest.org, April
25, 2007.
22
GIANLUCA ANSALONE, op. cit., pag.79.
20
prepotentemente anche la Cina23: le sue compagnie si sono rivelate più
competitive delle sorelle anglosassoni. Queste ultime sono tutte compagnie
private e quindi non prescindono dalla ricerca del profitto, mentre quelle cinesi
(SINOPEC, CNOOC e CNPC) sono compagnie statali che fanno i propri conti
valutando l’interesse strategico del loro paese e ciò consente di offrire migliori
condizioni. Inoltre la Cina non pone le stesse precondizioni degli americani come
democrazia, diritti umani e libero mercato: Pechino è pronta a fare affari con tutti,
fiduciosa che un rapporto commerciale possa evolversi in amicizia politica e, se
ciò non dovesse accadere, che per lo meno ci sarà stato il profitto economico.
Sono due visioni strategiche opposte che rispecchiano la profonda differenza tra
Cina e USA, poichè nella prima i capitalisti sono soggetti allo stato, nei secondi
avviene il contrario24. Diversamente dagli USA, inoltre, il petrolio africano pone
la grande sfida strategica di rendere più sicure le rotte marittime che dall’Africa
convogliano il petrolio verso la Cina. I cinesi hanno messo in piedi la strategia del
filo di perle; una sequenza lineare di infrastrutture navali e militari che dal Mar
Cinese Meridionale arriva in Africa a Port Sudan o a Lamu, in Kenya, passando
per Cambogia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh e Pakistan25.
Le paure di un “prossimo” esaurimento del petrolio hanno spronato i paesi
ad affidarsi ad altre fonti di energia e il gas naturale rappresenta l’alternativa più
interessante al petrolio per diversi motivi. Innanzitutto il suo impiego è
ecologicamente più sostenibile, perché rilascia nell’atmosfera quantità di anidride
carbonica minori rispetto al petrolio e al carbone, e dopo Kyoto l’attenzione per le
questioni relative alla sostenibilità ambientale è molto alta. Come il petrolio anche
il gas può essere trasformato in un’ampia gamma di prodotti, tra cui combustibili
fossili e fertilizzanti artificiali, così come per produrre elettricità, riscaldamento
per case e ambienti lavorativi. Ma forse la ragione principale del suo successo è
23
China’s leader begins Africa tour, BBC News, www.news.bbc.co.uk, January 31, 2007.
24
DANIELE SCALEA, La sfida totale (ebook), Roma, Fuoco Edizioni, 2010, pagg.341-44.
25
DANIELE SCALEA, ibid., pagg.352-3.
21
che si è cominciato a estrarlo dopo il greggio, e pertanto la sua produzione
dovrebbe continuare ad aumentare quando avrà inizio la contrazione di quella del
petrolio. Anche per il gas naturale ci sarà il “peak point”, cioè il punto in cui verrà
raggiunta la massima produzione possibile e da cui ci sarà solo una parabola
discendente; ma il peak gas avverrà sicuramente dopo il peak oil.
Malgrado ciò il gas naturale presenta diverse problematiche. Innanzitutto,
nonostante British Petroleum abbia stimato che il mondo dispone di 181.000
miliardi di metri cubi di gas, la quantità di gas esistente è difficile da determinare
per tutta una serie di ragioni, incluso il fatto che i depositi di gas sono spesso
mescolati alle riserve di petrolio26. Il petrolio presenta una relativa facilità di
trasporto attraverso oleodotti, navi, treni e autocarri; il gas naturale, che è appunto
un gas e pertanto molto più voluminoso del petrolio, è difficile da trasportare
mediante uno qualunque di questi mezzi, a eccezione dei gasdotti. I giacimenti di
gas, inoltre, si concentrano in un gruppo di paesi più ristretto di quelli del petrolio:
Russia, Iran e Qatar, da soli, possiedono il 56% delle riserve esistenti al mondo,
mentre altri otto paesi, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Nigeria,
Algeria, Venezuela, Iraq e Kazakhstan dispongono di un ulteriore 21%. Il
problema è molto rilevante per paesi come Giappone, Cina, Corea del Sud e
Taiwan che necessitano di grandi quantità di gas per sostenere la loro crescita, per
i quali l’unica possibilità è ricorrere a metodi complicati e costosi di trasporto e
trasformazione.
Attualmente gli Stati Uniti sono il principale consumatore di gas naturale
del mondo, nel 2005 ne hanno consumato il 22% della produzione mondiale. Il
maggior incremento nell’uso di gas naturale è, tuttavia, previsto in Europa e in
Asia Orientale, dove vi è la necessità di sostituire sia il carbone nella produzione
di elettricità, sia il petrolio, di cui le due aree sono poco dotate, in previsione della
sua potenziale scarsità. Ma se in economia il mercato è regolato dall’incontro tra
26
MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.59.
22
domanda e offerta, nel caso del gas, e in parte anche per il petrolio, il mercato è
regolato dai paesi che producono questa fondamentale risorsa di energia.
A farla da padrone nel mercato del gas è la Russia da cui dipendono
energeticamente non solo i paesi sviluppati d’Europa, ma anche le economie in
forte ascesa di Cina e India. La Russia è oggi, con il 26 % il primo produttore
mondiale di gas, e prevede di quintuplicare nell’arco di vent’anni la produzione.
Lo strumento della politica energetica russa è Gazprom, la società a
partecipazione statale, proprietaria del 16% delle riserve accertate di gas del
mondo, che Vladimir Putin, appena diventato presidente, ha provveduto a
rifondare e rinforzare affidandola a uomini fidati, come Alexei Miller e Dmitry
Medvedev, l’attuale Primo ministro russo. Putin si è servito di Gazprom come
strumento economico, ma anche e soprattutto come strumento geopolitico da
usare nei confronti delle repubbliche ribelli ex-URSS. Se inizialmente i prezzi del
gas destinato alle repubbliche ex-Urss erano stati praticati a livelli politici, in
nome della fratellanza sovietica, la Russia persegue oggi la politica di riportare il
livello dei prezzi a quello di mercato, garantendosi, così, il raggiungimento di una
florida posizione economica. Durante l’era sovietica, queste nazioni erano
integrate nei sistemi di fornitura e trasporto del petrolio e del gas, strutturalmente
centralizzati e controllati dalle autorità moscovite. Quando l’URSS si disgregò, le
ex repubbliche sperarono di poter fare affidamento sulle stesse fonti di
approvvigionamento. Assumendo il mandato, Putin mise subito in chiaro che
avrebbero dovuto invece pagare la loro energia in un contesto ormai regolato dalle
leggi di mercato. Il 1° gennaio del 2006 Gazprom interruppe all’improvviso il
flusso di gas verso l’Ucraina, nel mezzo di un inverno particolarmente rigido, in
risposta ad un rifiuto ucraino di riconsiderare un aumento delle tariffe. L’anno
dopo, Gazprom decise di chiudere i rubinetti del gas verso Georgia e
Bielorussia27, anche loro in forte contrasto con la decisione russa di innalzare le
27
CORRIERE DELLA SERA (online), Guerra del gas, la Russia taglia le forniture alla Bielorussia
del 60%, www.corriere.it, 23 giugno 2010.
23
tariffe. Inutile dire che sono state le tre repubbliche ex-URSS a cedere alle
richieste di Gazprom.
Se pare comunque legittimo l’abbandono di un sistema di prezzi agevolati
nei confronti delle repubbliche ex URSS, non c’è un’esatta contropartita quando è
la Russia a essere l’acquirente delle riserve energetiche di Turkmenistan o
Kazakhstan. A questo punto entra in gioco il secondo strumento di influenza
geopolitica russo: il controllo delle infrastrutture di gasdotti e di oleodotti che
collegano tutte le repubbliche ex URSS alla Russia sovietica e quest’ultima al
resto del mondo, ora sotto il dominio di Trasneft e Gazprom28. Tre sono le future
pipelines del progetto russo di controllo dell’energia: Nord Stream, che corre da
Vyborg in Russia a Greifswald in Germania, Blue Stream, che unisce Russia e
Turchia e South Stream, che partirà dalla Russia per giungere in Italia e in
Austria. È il reticolo la figura geometrica che meglio rappresenta le ambizioni
imperiali russe e che condiziona la politica nel cortile di casa del territorio dell’ex
Unione Sovietica e oltre. Questo reticolo presenta tre livelli di dipendenza
geopolitica. Un primo livello è relativo ai paesi produttori di energia che hanno
bisogno delle infrastrutture russe, un secondo livello è rappresentato dai paesi di
transito di oleodotti e gasdotti gestiti dalla Russia, il terzo livello è costituito dalle
aree di destinazione finale verso le quali Mosca adotta un atteggiamento più o
meno benevolo sulle tariffe di vendita29.
Lo strapotere russo nel settore del gas ha portato i grandi consumatori di
gas, Stati Uniti, UE e Cina, a reagire alle pretese egemoniche sovietiche. Se
Pechino, forte anche del suo strapotere economico, ha preferito attuare una
strategia multilateralista e cooperativa nell’ambito della S.C.O., avallando alcune
richieste sovietiche in cambio di favori “energetici”, UE e Stati Uniti hanno
cercato, piuttosto, lo “scontro” con il rivale sovietico, provando a sottrarre l’Asia
Centrale dall’influenza di Mosca. Contrari a qualunque intervento che potesse
28
GIANLUCA ANSALONE, op. cit., pagg. 155-6.
29
GIANLUCA ANSALONE, ibid., pagg. 161-2.
24
accrescere anche la ricchezza e il potere regionale dell’Iran, gli “occidentali”
hanno assunto la guida, la pianificazione e la supervisione della costruzione di
alcuni gasdotti quali il Baku-Tbilisi-Erzurum e il Nabucco, progetti lunghi,
complessi e costosi che però hanno il vantaggio di non passare né attraverso la
Russia né attraverso l’Iran. Il primo collegherebbe i giacimenti dell’Azerbaigian
alle coste della Turchia, passando per la Georgia, il tutto scavalcando la Russia ed
evitando l’Armenia, paese poco affidabile politicamente; il secondo, una condotta
di 3330 km, dovrebbe collegare la Turchia all’Austria, passando per Bulgaria,
Ungheria e Romania, distribuendo non solo il gas azero, ma anche quello
turkmeno.
A Natale del 2009 è nata l’importante OPEC del gas, con sede in Qatar, una
versione più aggressiva del predecessore Gas Exporting Countries Forum: si tratta
di una nuova struttura di coordinamento e sviluppo del mercato globale del gas. Il
GOPEC avrà in Mosca la punta di diamante della cosiddetta trojka del gas
formata da Russia, Iran e Qatar, e tra i suoi soci ci sono i maggiori paesi
esportatori (Algeria, Bolivia, Brunei, Egitto, Indonesia, Libia, Malesia, Nigeria,
Trinidad e Tobago, E.A.U. e Venezuela) meno Iraq e Turkmenistan, anch’essi
titolari di importanti riserve di gas. I primi tre paesi quanto a risorse mondiali di
gas naturale mirano soprattutto a tutelarsi da azioni speculative esterne, come
quelle che hanno colpito più volte il mercato petrolifero, e sganciare il gas dal
sistema dei prezzi del petrolio, mantenendone elevate le quotazioni.
Accanto a gas e petrolio, la contesa globale si disputerà attorno ad altri
minerali strategici quali rame, nichel, uranio, coltan e altri, ma un ruolo forse
inaspettatamente
importante
svolgerà
l’acqua.
Secondo
Yves
Lacoste
l’espressione geopolitica dell’acqua definisce le rivalità politiche nella ripartizione
della portata di fiumi e corsi d’acqua o nello sfruttamento delle risorse idriche; tali
rivalità possono svilupparsi fra stati attraversati da uno stesso fiume, ma anche
all’interno di un singolo stato, fra regioni o città di grandi dimensioni30. Nel primo
30
YVES LACOSTE, Geopolitica dell’acqua, Milano, Movimenti Cambiamenti, 2002, pag.7.
25
tipo può essere annoverata la contesa fra Israele e il Libano per la gestione delle
acque del Litani, e quella fra Israele e l’Autorità Palestinese per lo sfruttamento
delle falde acquifere sotterranee, che rappresentano due fattori indissolubilmente
legati a tutti gli altri che denotano la “questione mediorientale”. Un esempio di
conflitto intestino è in India, dove il fiume Kaveri è al centro di una contesa tra gli
stati del Karnataka e del Tamil Nadu, che si contendono l’utilizzo dell’acqua a
scopi irrigui: il Tamil Nadu, situato a valle, accusa il Karnataka, a monte, di un
prelievo eccessivo. Nel 1924 i due stati si accordarono per la costruzione di una
diga che avrebbe dovuto ridistribuire l’acqua, tuttavia il conflitto si riaccese nel
1974 alla conclusione naturale dell’accordo, scatenando disordini ed evacuazioni
forzate per 100.000 persone31. Come nel caso delle altre risorse energetiche è la
scarsità a rendere l’acqua un bene fortemente conteso: nove paesi, tra cui Brasile,
Russia, Cina, India e USA, si dividono il 60% delle risorse idriche naturali del
mondo. Lo stress idrico ed ecologico, inoltre, diminuendo la disponibilità della
risorsa e producendo squilibrio ecologico, può causare e/o acuire tensioni sociali,
conflitti e guerre per il suo controllo. Per questo motivo zone con gravi carenze
come il Vicino e il Medio Oriente sono all’origine di situazioni più conflittuali
rispetto ai paesi dell’Africa Equatoriale, dove l’acqua è più abbondante32. Il
conflitto idrico può rivelarsi anche come un’appendice di una più ampia
competizione per il dominio politico, territoriale o culturale. Nel conflitto
“culturale” che oppone turchi e curdi, con questi ultimi desiderosi di creare lo
stato autonomo del Kurdistan, uno dei punti di forza della Turchia deriva dalla sua
posizione geograficamente strategica rispetto ai fiumi Tigri ed Eufrate che
nascono a sud-est nell’altopiano del Kurdistan. La volontà turca di impadronirsi
dell’acqua dei due fiumi implica la rimozione dell’ostacolo curdo, anche
attraverso evacuazioni forzate che finora hanno portato all’esodo di tre milioni di
31
MARGHERITA CIERVO, Geopolitica dell’acqua, Roma, Carocci Editore, 2009, pag.60.
32
JACQUES SIRONNEAU, L’Acqua. Nuovo obiettivo strategico mondiale. Trieste, Asterios Editore,
1997, pag.33.
26
persone33. Secondo alcuni, in Medio Oriente potrebbe scoppiare una vera e
propria guerra dell’acqua tra la Turchia e la Siria o l’Iraq a causa di questi due
fiumi, così come le dispute idriche potrebbero esacerbare il già aspro conflitto tra
India e Pakistan34. Nei paesi del Golfo l’acqua è considerata una risorsa tanto
preziosa quanto il petrolio. Nel complesso dei paesi del Golfo, le risorse idriche
convenzionali saranno esaurite entro trent’anni, mentre quelle provenienti da
costosi impianti di dissalazione sono ormai l’approvvigionamento dominante. La
Saline Water Convertion Cooperation è il più grande produttore di acqua dissalata
al mondo e gestisce 30 impianti sulle coste del Mar Rosso e del Golfo Persico,
con una capacità produttiva di 3,6 milioni di metri cubi giornalieri, mentre si
stanno implementando nuovi progetti di impianti di dissalazione e distribuzione
dell’acqua. Presentare l’acqua come un fattore che spiegherebbe molti conflitti,
però, è errato, perché un’analisi seria non deve dissociare la geopolitica dell’acqua
dall’insieme delle tensioni geopolitiche che esistono tra i territori. È indubitabile
però che i problemi legati alla scarsità di questa risorsa esistano, e che solo una
seria cooperazione a livello regionale e internazionale potrà evitare che essi si
aggiungano ad altri motivi di tensione già esistenti.
33
MARGHERITA CIERVO, op. cit., pag.59.
34
LYDIA POLGREEN e SABRINA TAVERNISE, Water dispute increases India-Pakistan tension,
The New York Times, www.nytimes.com, July 20, 2010.
27
28
CAPITOLO III
IL FATTORE MILITARE
In un periodo in cui sempre più studiosi intraprendono vie di studio
alternative, a mio avviso, non è ancora possibile derogare da un’analisi del fattore
militare, e dello strumento guerra in particolare, per valutare la rilevanza
geopolitica di un attore internazionale. La guerra rappresenta ancora un elemento
rilevante nel quadro della contesa geopolitica globale e tutte le guerre che l’uomo
ha combattuto e che combatte da secoli hanno sempre portato cambiamenti
politici e territoriali, spesso frutto di elaborazioni teoriche che molto devono alla
geopolitica. Oggi, alla concezione classica della guerra, intesa come mezzo di
conquista del potere, di rivendicazioni e dispute territoriali, di liberazione
dall’oppressione straniera, è possibile affiancarne una nuova che intende la guerra
come una sorta di tasto di reset che ricalibra le gerarchie del potere, secondo
schemi prestabiliti e funzionali alla costituzione di un certo ordine. Le recenti
guerre americane in Iraq e Afghanistan sono state considerate da molti come lo
strumento per la realizzazione di un nuovo e diverso medio oriente che i circoli
neoconservatori americani avevano già immaginato e teorizzato da tempo. In virtù
di questo, qualsiasi nemico, vicino o lontano, reale o immaginario che sia, serve a
giustificare hangar traboccanti di testate atomiche, cacciabombardieri, carri
armati, missili balistici e terra-aria.
È indubitabile che nel settore militare gli statunitensi abbiano un predominio
straripante,
nonostante
molti
analisti,
soprattutto
europei,
tendano
a
ridimensionare questa supremazia dopo le difficoltà in Iraq e Afghanistan. Ma
queste difficoltà non hanno rappresentato, a mio avviso, il fallimento in toto dello
strumento militare americano ma soltanto la sconfessione di una singola strategia,
messa in campo, peraltro, da una amministrazione politica gretta, ignorante e
produttrice di semplificazioni che non aiutano a dar vita ad una conduzione di
guerra adeguata.
29
Il predominio militare americano è disarmante e talmente evidente da non
poter essere negato neanche dal più acerrimo dei detrattori. Questo predominio si
esprime anzitutto attraverso il controllo territoriale, frutto della dislocazione
strategica delle basi americane all’estero che mostra la struttura reale dell’impero
americano e rappresenta lo scheletro sul quale possono essere modellate le
capacità operative dello strumento militare. Attualmente ci sono 737 basi ufficiali
americane al mondo che gestiscono circa 2 milioni di soldati35. Le basi americane
estere forniscono una serie di benefit al governo americano: garantiscono
l’accesso ai mercati energetici, offrono all’esercito la possibilità di schierarsi in
profondità e in breve tempo nelle aree strategiche e rappresentano un potente
simbolo del potere statunitense. Con l’avvio della cosiddetta guerra globale al
terrorismo, dall’autunno del 2001, la penisola del Qatar si è trasformata in un
enorme centro armato per le forze USA e GB dirette a colpire sia l’Iraq che
l’Afghanistan. La base di Al Udayd è la più grande base aerea della regione e può
ospitare fino ad un centinaio di velivoli. Ma il Qatar non è l’unico paese della
regione ad ospitare basi americane: Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain e Kuwait
ospitano importanti basi aeree americane per il controllo della regione e delle sue
risorse energetiche. Questa logica delle basi americane si ripete in tutto il mondo
dove gli americani hanno costituito i loro comandi, per supportare le loro esigenze
strategiche. L’ultimo comando creato, a distanza di un quarto di secolo dal
precedente, è AFRICOM che il 1 Ottobre 2008 è stato attivato, dopo essere stato
costituito come una dipendenza dell’EUCOM. La sua area di responsabilità
riguarda 54 nazioni, molto più di ogni altro comando americano. Si aggiunge agli
altri comandi: NORTHCOM, EUCOM, PACOM, CENTCOM e SOUTHCOM.
Molti sostengono che gli USA siano attratti dal petrolio africano, visto che gli
attuali dati sulla produzione e le riserve provate, mostrano che oltre alla regione
del Mar Caspio, anche il Golfo di Guinea sembra poter garantire prospettive di
35
JOHNSON CHALMERS, 737 U.S. military bases = global empire, Global Research,
www.globalresearch.ca, March 21, 2009
30
crescita elevate. Altri critici sostengono che l’AFRICOM e le altre iniziative
NATO rappresentino un’avanzata esponenziale della campagna dell’occidente per
riaffermare ed espandere la supremazia globale, puntando ad un continente al
crocevia tra nord e sud, est e ovest, tra il mondo sviluppato e non36.
Mentre le basi americane in Giappone e Corea del Sud servono di fatto a
contrastare l’avanzata cinese e quelle in Europa sono in funzione anti-sovietica,
quelle dell’Asia Centrale e dell’Africa sono più funzionali al controllo delle nuove
autostrade energetiche. Proprio in Asia Centrale le forze armate statunitensi hanno
due importanti basi aeree: Karsi-Chanabad in Uzbekistan e Manas in Kirghizistan,
due ex basi sovietiche date in affitto agli USA per appoggiare le operazioni in
Afghanistan. Karsi-Chanabad è stata abbandonata nel novembre 2005 su esplicita
richiesta del governo uzbeko, dopo il deteriorarsi dei rapporti con Washington,
mentre Manas è ancora occupata dagli statunitensi, malgrado non siano mancate
le incomprensioni, non ultimo il triplicarsi dell’affitto annuale37. In Asia Centrale
è in atto una lotta per la supremazia geopolitica nel Caspio, ed è presente una
dimensione militare che non può essere ignorata. Mosca e Washington hanno
infatti stipulato accordi militari con gli stati del Caspio, ed entrambi hanno
stabilito delle basi militari nella regione: gli Stati Uniti in Afghanistan,
Kirghizistan e Uzbekistan; la Russia in Armenia, Azerbaigian, Georgia,
Kirghizistan e Tagikistan. I leader delle due superpotenze affermano che queste
installazioni rappresentano una reazione a minacce specifiche alla sicurezza,
provenienti soprattutto da Al Qaeda, dai talebani e da altri movimenti estremisti. È
chiaro però che le basi servono alle due potenze per “sottolineare” la loro
presenza nella regione, e lo stesso discorso vale per gli invii di armamenti, le
esercitazioni militari e i sistemi di alleanze connessi38.
36
ROZOFF RICK, AFRICOM and America’s global military agenda, Global Research,
www.globalresearch.ca, October 27, 2009.
37
DANIELE SCALEA, op. cit., pag.166.
38
MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.145.
31
Il commercio delle armi, legale o illegale che sia, è un altro dei vettori
tradizionali e irrinunciabili della proiezione di potenza di un paese. La vendita di
armi a un qualsiasi paese rende i sistemi d’arma e le logiche strategiche
interoperabili tra venditore e acquirente, quindi diminuisce il potenziale di attacco
e interdizione del paese compratore e permette al paese venditore un leverage
strategico, militare, economico e geopolitico che sarebbe difficile ottenere con
ragioni di scambio diverse da quelle dei sistemi d’arma39. La spesa militare
globale si sta rivelando sempre più determinante nelle economie dei paesi più
poveri e sempre meno in quelle dei paesi più avanzati. Dal 1998 al 2007
l’aumento della spesa militare è stato del 51% in Africa, e solo del 16% in
Europa. Per i paesi poveri, l’espansione della spesa militare permette il controllo
della popolazione, il mantenimento delle materie prime presenti nel proprio
territorio, l’acquisizione di quelle materie che si trovano nei Paesi vicini e,
soprattutto, la gestione di una economia dell’impoverimento progressivo di massa
che stronchi sul nascere possibili ribellioni e determini un comportamento
parassitario delle elite. Se andiamo a vedere gli interscambi di armi, la logica
geopolitica e le previsioni sulle mosse future degli attori globali si fanno più
evidenti. Gli USA vendono grosse quantità di armi a Corea del Sud, Israele,
Emirati Arabi Uniti e Grecia. In tutti e quattro i casi le vendite sono motivate da
considerazioni strategiche: la Corea del Sud rappresenta lo storico asset strategico
americano in Asia, con Israele esistono forti legami culturali, gli EAU sono il
paese che deve trascinare i moderati nel mondo arabo e la Grecia rappresenta il
contraltare all’espansione russa nel Mediterraneo. La Russia vende armi
soprattutto a Cina, India, Venezuela e Algeria. Anche in questo caso le logiche
strategiche sono stringenti: la Cina per controllarla, almeno finché essa stessa non
diventerà un paese produttore, l’India per controbilanciare la potenza cinese,
l’Algeria perché paese produttore di petrolio e il Venezuela in chiave anti-
39
G. E. VALORI, op. cit., pag.138.
32
americana40. Dal 2004 ad oggi le vendite di armi russe nell’America Latina sono
aumentate del 900%: la Russia, secondo esportatore mondiale di armi al mondo
dietro gli USA, è riuscita così a superarli proprio nel loro cortile di casa.
Anche nel caso delle vendite di armi vi è una forte connessione con la
ricerca di energia; gli Stati Uniti applicano questa politica sin dal 1945, quando
Franklin D. Roosevelt promise agli emiri sauditi di aiutarli in cambio dell’accesso
privilegiato al petrolio. A ruota gli Stati Uniti sono stati seguiti da Gran Bretagna
e Francia e, più recentemente, dalla Cina. I paesi africani sembrano
particolarmente sensibili a questa diplomazia delle armi, perché in genere non
possiedono né le necessarie capacità per produrle in autonomia, né i mezzi
finanziari per acquistarle. I segnali di questa “guerra fredda” strisciante sono
evidenti soprattutto in Nigeria, il maggior produttore di petrolio del continente,
dove Washington e Pechino hanno ingaggiato una competizione feroce anche per
la fornitura di armi e di servizi tecnico-militari. Se l’Africa è ancora in una fase
iniziale della militarizzazione della competizione per l’energia, la regione del
Caspio, in cui le grandi potenze hanno intensificato il loro coinvolgimento
militare, offre un’anticipazione di quelli che potranno essere pericolosi sviluppi
futuri: la militarizzazione del bacino del Caspio attraverso armi, consulenti
militari, istruttori e tecnici sta fomentando i sospetti e le rivalità che da secoli
tormentano la regione. Anche nell’area del Golfo Persico si osserva una rinnovata
competizione per le armi, che ha implicazioni ancora più pericolose. La regione
rappresentava un punto di confronto strategico tra USA e URSS, ma il collasso
dell’Unione Sovietica ha permesso agli Stati Uniti di prendere il sopravvento nella
vendita di armi, soprattutto verso Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti.
Lo scenario sta nuovamente cambiando, nei primi anni del millennio, dopo che
una Russia rinnovata ha cercato di ristabilire la sua presenza nel Golfo, allargando
il suo sostegno all’Iran41.
40
G. E. VALORI, op. cit., pag.148-9.
41
MICHAEL T. KLARE, op. cit., pag.218-225.
33
Il progresso tecnologico gioca un ruolo di primo piano nel predominante
concetto moderno di guerra. L’accento viene posto oltre che sulla cultura
materiale della guerra, anche sulle potenzialità di particolari armi o sistemi di
armamenti, nella convinzione che il progresso della società dipenda dal loro
miglioramento continuo42. La guerra del golfo ha segnato una vera e propria
rivoluzione negli affari militari (RMA), e portato ad una affermazione forte di una
dottrina intelligente, attraverso una nuova generazione di sistemi d’arma e i
progressi nel campo informatico. L’importanza attribuita all’informazione come
strumento essenziale in un conflitto si collega al suo utilizzo per impiegare la
forza in maniera selettiva. La rilevazione precisa del bersaglio è diventata
essenziale all’efficacia dell’arma43.
La volontà statunitense di assicurarsi la supremazia militare ha portato,
durante gli anni ‘80, il governo USA ad implementare un progetto di difesa
missilistica, il cosiddetto Scudo Stellare, accantonato dopo il ravvicinamento con
l’Unione Sovietica di Gorbaciov. Bush junior ha ripreso questo futuristico
progetto che aveva il compito di difendere il terreno statunitense da ogni tipo
possibile di attacco missilistico, attraverso un sistema di satelliti che rileva il
lancio di missili in qualunque parte del globo e che attiva una serie di postazioni
missilistiche installate nei territori amici. I primi missili intercettori sono stati
installati in Alaska, California e Inghilterra; le successive installazioni erano
previste oltre che in Groenlandia, anche in territori ex-Patto di Varsavia come
Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Bulgaria. Barack Obama ha riconsiderato il
progetto iniziale del suo predecessore, dando vita nel 2009 all’European Phased
Adaptive Approach (EPAA), un sistema che sarebbe rivolto non contro la Russia,
bensì contro Iran e Corea del Nord44. L’idea del presidente è una difesa
42
JEREMY BLACK, Le guerre nel mondo contemporaneo, Bologna, società editrice Il Mulino,
2006, pag.19.
43
JEREMY BLACK, ibid., pagg.195-6.
44
DANIELE SCALEA, op. cit., pag.179.
34
missilistica subito operativa (2011 e non 2018), agile e modellabile (in quanto
installata su navi dispiegate nel Mediterraneo e non su postazioni fisse) e meno
compromettente sotto l’aspetto delle relazioni con la Russia. Tuttavia le
spiegazioni americane non sembrano molto convincenti: Mosca ritiene che il
progetto voglia neutralizzare i suoi missili intercontinentali e va considerato che
oggi sono 39 i paesi che dispongono di missili balistici con un raggio d’azione
superiore ai mille chilometri, di cui 25 sono stati falliti o dittature sanguinarie.
Oggi la crescita delle economie di Russia, Cina e India, unita al controllo
statale esercitato sul relativo sistema bancario-monetario, ha permesso a questi
stati di effettuare grossi investimenti nei settori strategici. Questi investimenti,
data l’atmosfera vigente negli affari internazionali, sono destinati ad una
massiccia corsa al riarmo e a dotarsi di un deterrente strategico sufficientemente
persuasivo. Si assiste così ad un notevole aumento delle spese per la difesa da
parte di Pechino e Nuova Delhi. Pechino, ad esempio, sta realizzando una nuova
classe di sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare SSBN per il
lancio di missili a testata nucleare multipla SLBM. Inoltre ha testato nel 2006 un
ASBM, Anti-Ship Ballistic Missile, il primo, e per ora unico al mondo, sistema
d’arma a lungo raggio in grado di colpire un gruppo di portaerei d’attacco.
Prosegue, inoltre, la costruzione della nuova base per missioni spaziali nell’isola
di Hainan, ciò mentre la cosmonautica sta colmando, in breve tempo, decenni di
ritardo in tale campo45. Nel 1987 la Repubblica Popolare cinese ha ceduto
trentasei missili a medio raggio CSS-2 all’Arabia Saudita, che voleva bilanciare
l’arsenale missilistico israeliano. Durante gli anni della guerra tra Iraq e Iran, la
Cina ha fornito a quest’ultimo paese centinaia di missili anti-nave HY-2
“Silkworm”, cosa che ha fatto anche dopo il conflitto fornendo all’Iran missili
antiaerei e altre attrezzature militari.
Di fronte alle ristrettezze di bilancio, il Cremlino ha compiuto la scelta di
privilegiare l’arsenale nucleare, decisivo per mantenere la parità strategica con gli
45
ALESSANDO LATTANZIO, L’Eurasia contesa (ebook), Roma, Fuoco Edizioni, 2010, Pag.16-7.
35
USA. Finora le forze convenzionali si sono comunque dimostrate all’altezza
durante gli interventi in Cecenia e in Ossezia del Sud. Di fronte al rinnovato
impegno statunitense per uno scudo strategico antimissile Mosca non si è limitata
a fare pressione su Washington e sui paesi interessati per evitarne la costruzione,
ma si è anche prodigata per sviluppare armi che ne neutralizzino gli effetti. Il 14
giugno 2002 il Cremlino ha annunciato la fine dello START II: ciò significa che
le testate multiple MIRV ricominceranno ad essere utilizzate dagli ICBM russi,
ponendo così grossi problemi allo scudo ABM degli USA. L’arsenale strategico si
sta ammodernando con l’entrata in servizio di un numero sempre maggiore
TOPOL-M, missili intercontinentali progettati proprio per bucare lo scudo
americano: sono di difficile individuazione, resistono alle radiazioni, alle
esplosioni nucleari oltre 500 metri, ai raggi laser e agli impulsi elettromagnetici46.
La partita geopolitica più grossa si gioca sul nucleare, sia nella sfera
diplomatica che in quella strategica. L’articolo IX del Trattato di non
Proliferazione degli armamenti nucleari, entrato in vigore il 5 marzo del 1970,
aveva sancito il diritto a possedere armi nucleari solo per quei paesi che avevano
costruito ed esploso ordigni nucleari o simili prima del 1 gennaio 1967. Così solo
cinque stati vengono legittimati ad avere tali armamenti: USA, Russia, Cina,
Inghilterra e Francia, ossia gli stessi stati che sono membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza ONU. Questa asimmetria geopolitica, prodotto della guerra
fredda, ha spinto altri stati a dotarsi dell’arma nucleare. Così abbiamo altri tre
paesi effettivamente atomici, India, Pakistan e Israele, e altri due paesi, Iran e
Corea del Nord che hanno dato vita a programmi più o meno volti a realizzare una
capacità nucleare, ma di cui si sa poco. Le ragioni che possono spingere uno stato
a dotarsi dell’arma nucleare possono essere diverse: di deterrenza nucleare
(Israele e Pakistan), di emulazione dei cinque del Tnp (India), di prestigio interno
(Iran), di contrattazione per ottenere aiuti economici (Corea del Nord)47. Il costo
46
DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.280-4.
47
LIMES, La strana guerra, Roma, Gruppo Editoriale L’espresso, Vol. 1/2003, Pag.177.
36
dell’acquisizione dell’arma nucleare è soprattutto politico, dato che essa consente,
se la si possiede, una serie di ritorsioni economiche rilevanti per chi entri in
questo oligopolio perfetto della bomba nucleare, e determina una scelta strategica
molto difficile. A gennaio 2008 gli USA possedevano 3575 testate nucleari, la
Russia 3113, la Francia 348, la Gran Bretagna 185, la Cina 161, mentre India,
Pakistan, Israele e Corea del Nord non presentano dati ufficiali sull’argomento, e
l’Iran a quanto pare si sta attrezzando.
La corsa agli armamenti nucleari nel subcontinente indiano è nata con
l’indipendenza di India e Pakistan, al punto che la storia stessa dei due stati
potrebbe essere tracciata sulla base dei progressi militari da essi di volta in volta
compiuti. La corsa all’acquisizione nucleare ha fatto un salto di qualità enorme
nel luglio del 1974, quando l’India ha condotto nel deserto del Rajastan il suo
primo esperimento nucleare. Il governo pakistano interpretò il test indiano come
una dimostrazione di forza, e da allora considerò fondamentale dare il via a un
programma nucleare nazionale per far fronte alla minaccia che sentiva gravare
sugli importanti centri di Lahore, Karachi e Islamabad. La costruzione di un
arsenale nucleare a costo di innumerevoli sacrifici ha dimostrato che è possibile
uno sviluppo nucleare interamente musulmano, ed ha rappresentato una rivincita
della nazione pakistana nei confronti del più potente e laico vicino indiano. Dietro
gli sforzi fatti dai due paesi per assicurarsi arsenali nucleari si nascondono anche
fondamentali interessi strategici. Se fino agli anni novanta l’arma nucleare era
considerata dal Pakistan esclusivamente come l’ultima risorsa di difesa contro
eventuali attacchi dell’India, dopo quella data è diventata l’ombrello sotto il quale
proteggere la politica di supporto al movimento indipendentista del Kashmir. In
questo modo Islamabad ha costretto Nuova Delhi ad accettare una guerra di bassa
densità nel contestato territorio, certa che uno scontro a viso aperto l’avrebbe vista
soccombere. L’India, dal canto suo, ha sempre visto il nucleare come uno
strumento da opporre in primo luogo alla Cina e solo dopo nei confronti del
Pakistan che, invece, era stato il principale motivo dello sviluppo dell’esercito
convenzionale. In un certo senso, tra India e Pakistan, si è affermata una variante
37
della Mutual Assured Destruction che durante gli anni della Guerra Fredda aveva
evitato che USA e URSS ricorressero alla bomba atomica; in questo caso, però, il
rischio sembra molto più reale, sia perché i loro territori sono a stretto contatto e
non distanti migliaia di chilometri, sia perché entrambi gli stati hanno la
possibilità, colpendo per primi, di distruggere completamente l’arsenale nucleare
dell’altro48. La comunità internazionale è meno preoccupata del nucleare indiano
di quanto lo sia per quello pakistano: la ragione sta nel fatto che il governo
indiano è pienamente democratico e riesce ad esercitare il suo potere su tutto il
territorio, mentre lo stato pakistano è da molti considerato un failed state, dove il
governo centrale non ha il controllo dei suoi territori periferici e dove il rischio
che il nucleare finisca in mani sbagliate è molto alto.
Ammesso che l’Iran persegua davvero un programma militare nucleare
segreto, in parallelo a quello civile, la sua è certamente la bomba atomica più lenta
ed evanescente della storia: all’inizio del 2010 se ne parlava ancora come di una
prospettiva futura e non era chiaro cosa Teheran avesse deciso di fare49.
L’Agenzia Internazionale dell’energia atomica, l’organismo delle Nazioni Unite
che controlla il rispetto del Trattato di non Proliferazione da parte dei paesi
firmatari, ha sempre affermato, anche nel suo rapporto del 2011, di temere il
programma nucleare militare iraniano ma di non aver prove certe dell’esistenza.
Se e quando avrà la bomba, l’Iran sarà sempre, nei confronti di Israele, una
piccola potenza nucleare, almeno finché non disporrà di un certo numero di testate
e di vettori affidabili oltre che di un adeguato sistema di comando. Tuttavia, è pur
vero che l’arma atomica è un incredibile pareggiatore di potenza, e così l’Iran, per
avere una sorta di parità strategica con Israele, non ha bisogno di un arsenale
paragonabile a quello israeliano. Gli basterà avere una forza piccola ma credibile,
comprendente anche una capacità di secondo colpo, cioè la possibilità di colpire
48
FAUSTO ALUNNI, Il triangolo nucleare. India, Pakistan, Afghanistan. Geopolitica di una regione,
Roma, Derive Approdi, 2002, pagg.102-5.
49
GIORGIO S. FRANKEL, L’Iran e la bomba, Roma, Derive Approdi, 2010, pag.17.
38
l’avversario dopo aver subito un attacco. Ma realizzare questa capacità non è
facile, anche a causa della posizione geografica dell’Iran. È attorniato da potenze
nucleari quali Russia, Cina, India, Pakistan e Israele oltre alle armi atomiche
americane dislocate nella regione50. Gli Stati Uniti hanno di fatto accerchiato
strategicamente l’Iran con le loro forze nel Golfo, in Iraq, in Afghanistan, e con la
loro presenza in Asia Centrale. Inoltre, i paesi arabi del Golfo sono largamente
superiori all’Iran per quantità, qualità e livello tecnologico dei loro armamenti,
potendo acquisire il meglio della produzione occidentale quasi senza limiti,
mentre l’Iran incontra grandi difficoltà e limiti ad acquisire armamenti all’estero e
i mezzi di cui dispone sono generalmente obsoleti e inadatti a strategie offensive a
sostegno del suo presunto espansionismo51. È ormai luogo comune affermare che
l’atomica iraniana scatenerà una vera corsa alla bomba nel mondo arabo. In
effetti, i paesi del Golfo, la Giordania e l’Egitto sono interessati a varare
importanti programmi nel campo dell’energia nucleare a usi civili, ma si muovono
molto lentamente per non turbare gli equilibri. La questione iraniana è stata
brevemente eclissata, nell’agosto del 2008, dall’improvvisa e breve guerra tra
Russia e Georgia, che ha cambiato, in parte, la situazione strategica dell’area del
Caspio. Era sì un’altra regione, ma tra il Caspio e il Medio Oriente c’era un
collegamento: Israele sosteneva militarmente la Georgia, e secondo notizie non
confermate, in cambio, avrebbe avuto la disponibilità di alcune installazioni
militari per un eventuale attacco all’Iran52. La posizione ufficiale iraniana in
proposito è che tutte le potenze nucleari cercano di intimidire i paesi che non
hanno armi nucleari, e che gli Stati Uniti siano il principale colpevole della
proliferazione nucleare perché per primi e soli hanno usato la bomba atomica53.
50
GIORGIO S. FRANKEL, op. cit., pag.39.
51
GIORGIO S. FRANKEL, ibid., pag.41.
52
GIORGIO S. FRANKEL, ibid., pagg.68-9.
53
MACFARQUAHR NEIL, Iran angrily defends nuclear program, The New York Times,
www.nytimes.com, May 3, 2010.
39
In attesa dell’ipotetica bomba atomica iraniana, Israele è, e resterà, l’unica
potenza nucleare del Medio Oriente. Per circa mezzo secolo Israele ha seguito una
politica di ambiguità: non dichiarare né smentire di avere l’arma atomica, ma fare
tutto il possibile affinché il mondo sia convinto che quest’arma esista54. Grazie al
proprio monopolio nucleare nel Medio Oriente, e la capacità di proiettare le
proprie forze nucleari ben oltre il Medio Oriente, Israele può agire con un elevato
grado di discrezionalità e mantenere il controllo dei territori arabi occupati nel
giugno 1967 senza temere le reazioni dei paesi arabi e di altre potenze non
mediorientali. Secondo alcune stime, Israele ha intorno alle 200 testate atomiche,
altri dicono tra le 200 e le 300, altri ancora parlano di 400. Ma anche se fossero
solo un centinaio di testate, la forza nucleare israeliana sarebbe più che
formidabile e davvero temibile. Per la proiezione strategica di queste armi Israele
possiede una moderna triade strategica formata da missili balistici Jericho, aerei
F-151 e F-161, e infine cinque sottomarini classe Dolphin. Israele ha ideato un
proprio vettore spaziale leggero, lo Shavit, dal quale è possibile derivare un
missile balistico intercontinentale da 5000-7000 km55.
Per quanto riguarda la Corea del Nord le notizie che si hanno sono davvero
poche e frammentate. Il regime coreano si è trincerato in un mutismo diplomatico
che lascia tutti a corto di informazioni e che fa presagire scenari futuri poco
favorevoli. Ciò che sappiamo è che il 25 maggio 2009 la Corea del Nord ha
compiuto il secondo test nucleare della sua storia e effettuato il lancio di tre
missili con una gittata di 130 chilometri, un test atomico più potente di quello
dell’ottobre 2006. Il test avrebbe provocato un terremoto artificiale: la magnitudo
rilevata è stata di 4,5 gradi e avrebbe avuto una potenza fra i 10 e i 20 kiloton. La
morte di Kim il Sung rimescola nuovamente le carte in tavola ponendo nuovi e
pressanti interrogativi sul futuro di tutto il Sud-Est asiatico.
54
GIORGIO S. FRANKEL, op. cit., pag.38.
55
GIORGIO S. FRANKEL, ibid., pagg.125-6.
40
Ma ciò che molti governi stanno implementando recentemente è la loro
capacità di sferrare attacchi cibernetici e di difendersi da quelli altrui. Con il
termine cyber war si intende la capacità di una entità statale, di una
organizzazione, ma anche di singoli individui di sferrare attacchi informatici nei
confronti di altre entità statali, organizzazioni o individui. La guerra cibernetica
rappresenta la nuova frontiera del conflitto data la forte dipendenza dai sistemi
informatici da parte di forze armate, pubblica amministrazione, imprese e singoli
individui. Presenta numerose variabili che ne amplificano, fino ad un livello non
esattamente quantificabile, il potere distruttivo: innanzitutto chiunque può causare
danni ingenti, partendo dal pc di casa; è difficile risalire alla provenienza della
minaccia; può risultare anche in un semplice furto di informazioni che poi
possono risolversi in un vantaggio strategico concreto. Gli attacchi possono avere
come scopo l’azione dimostrativa, lo spionaggio, la compromissione di strumenti
militari, l’attacco ad infrastrutture critiche di un paese. La paura rappresentata da
molti analisti strategici è dovuta al fatto che i grandi Stati sembrano non possedere
sufficienti difese informatiche.
Alcuni anni fa, durante la presidenza di George Bush, molte banche e
aziende di Wall Street furono oscurate, e proprio l’industria finanziaria, che
pensava di possedere le migliori difese informatiche, era stata infettata da un
virus. Bush chiese allora al Segretario al Tesoro Hank Paulson di esaminare cosa
si sarebbe potuto fare per proteggere le infrastrutture americane. Nel 2003
l’amministrazione Bush ha dato vita ad una ufficiale Strategia Nazionale di
sicurezza del cyberspazio, ma i risultati non sono andati molto aldilà della
retorica. Il 4 luglio 2009 c’è stato un assalto a siti governativi americani, tra cui la
Casa Bianca, il New York Stock Exchange e il Nasdaq. Per non parlare del
recente scandalo di WIkileaks che ha dimostrato quanto il sistema americano sia
vulnerabile. Recentemente è diventato famoso un virus, STUXNET, che si è
infiltrato nei computer iraniani che gestivano le centrifughe nucleari, ritardando o
addirittura impedendo il lancio del primo reattore islamico di Bushehr, nonostante
41
le smentite del governo iraniano56. Secondo alcuni ci sarebbe il MOSSAD, i
servizi segreti israeliani, dietro la realizzazione di questo worm, che
rappresenterebbe uno dei primi casi di attacco virtuale organizzato con lo scopo
preordinato di fare danni reali. Il cyber terrorismo pone una minaccia tanto grave
quanto quella delle armi di distruzione di massa: un attacco su larga scala
potrebbe creare un inimmaginabile grado di caos in America e in Europa57.
56
ILAN BERMAN, Adrift in Cyberspace, Forbes.com, October 11, 2010.
57
MORTIMER ZUCKERMAN, How to fight and win the cyberwar, The Wall Street Journal online,
www.online.wsj.com, December 6, 2010.
42
CAPITOLO IV
IL FATTORE ECONOMICO
Per gran parte del periodo post secondo conflitto mondiale, gli schemi di
potenza mondiale venivano definiti valutando il numerico dei missili e dei soldati
in possesso degli stati; oggi, invece, è molto più usuale mettere a confronto i tassi
di crescita delle economie. Le capacità militari degli stati non costituiscono più il
principale fattore della loro potenza che attualmente si esercita in una maniera
diversa, più evoluta, senza ricorso alla coercizione: l’antagonismo tra le nazioni si
esprime principalmente in chiave economica, e la conquista dei mercati e delle
nuove tecnologie ha preso il sopravvento sulla conquista dei territori.
Per la geoeconomia, termine coniato da Edward Luttwak alla fine degli anni
Ottanta per definire la scienza che studia i rapporti tra scelte politiche, sistemi
economici e strategie adottate dai vari governi, lo Stato va concepito come
"sistema Paese" in competizione con altri sistemi, in un teatro globale
caratterizzato anche dall'esistenza di regole non solo oggettive, cioè derivate dai
meccanismi propri dell'economia, ma anche soggettive o pattizie, derivanti da
accordi multilaterali sulla libertà dei traffici e dei commerci, che non si possono
violare impunemente, senza cioè provocare la ritorsione o rappresaglia degli altri
Stati che operano nel sistema. Per ottenere la vittoria geoeconomica, secondo lo
studioso americano, c’è bisogno di massimizzare l’impiego altamente qualificato
nell’industria di punta e nei servizi, sviluppare sempre nuove generazioni di aerei
di linea, computer, nanobiotecnologie, strumenti finanziari e tutti i prodotti ad alto
valore aggiunto58.
Il primato delle strategie geoeconomiche, tra tutti gli strumenti a
disposizione degli stati, segna una rottura fondamentale con il passato, che non
rappresenta la fine della potenza nazionale, ma semplicemente una nuova
58
EDWARD LUTTWAK, From Geopolitics to Geo-Economics : logic of conflict, grammar of
commerce, The National Interest, 1990.
43
valutazione dei fattori che costituiscono la forza di un paese. La contesa
geoeconomica è soprattutto una battaglia di cifre, numeri, percentuali e resoconti
annuali. È quindi necessario addentrarsi in ambiti che poco c’entrano con la
politica in senso stretto, ma che inevitabilmente la condizionano e ne indirizzano
le scelte. Sapere che il Brasile nel 2011 è diventata la sesta economia del mondo
potrebbe interessare poco, ma una buona posizione nel ranking economico
mondiale attira investimenti e predispone favorevolmente l’opinione pubblica nei
confronti delle politiche che quel paese vorrà adottare.
Il quadro geoeconomico attuale risulta in continuo cambiamento perché
oltre al fatto che sempre nuovi attori statali si aggiungono, vi sono alcuni fattori
quali gli investimenti esteri diretti, le rimesse economiche o le guerre valutarie
che hanno grossa influenza ma che non sono facilmente percepibili e misurabili.
Molti dei politici occidentali, degli analisti e commentatori, inclusi i media, non
hanno ben compreso la particolarità del problema e tendono ancora a tenere
economia e politica separate. Inoltre, le nuove condizioni del contesto e
soprattutto la porosità delle frontiere economiche non consentono facili strategie
difensive, né tantomeno permettono difese statiche, ma obbligano piuttosto
all’offensiva.
Se l’attuale situazione geoeconomica può essere dipinta come un triangolo
costituito da Stati Uniti, UE e Cina, che hanno deciso congiuntamente di
condividere le risorse per risolvere qualsiasi malfunzionamento del sistema, il
futuro vedrà sicuramente l’ascesa di nuovi centri economici di potere. Un primo
gruppo di paesi è stato riunito sotto l’acronimo BRIC, coniato nel 2001 dal capo
economista della Goldman Sachs Jim O’neill, e indica un gruppo di paesi le cui
economie stanno crescendo in gran fretta, aumentandone in parallelo l’influenza
politica. Le nazioni BRIC, e cioè Brasile, Russia, India e Cina attualmente
rappresentano il 15% dell’economia mondiale e possiedono il 42% del totale delle
riserve valutarie. Sempre secondo Goldman Sachs entro l’anno 2035 l’insieme
delle economie dei BRIC sorpasserà quelle del G8, mentre il totale della loro
popolazione supererà la quota del 50% della popolazione mondiale, con un
44
mercato potenziale di consumatori enorme e in continua espansione. Il PIL
unificato dei BRIC è pari, attualmente, a circa 15,5 trilioni di dollari, il 12 % di
quello mondiale. Durante l’ultimo quinquennio il mercato interno di questi paesi è
aumentato del 70% sviluppandosi ad un tasso del 42%. Le economie dei quattro
paesi sono, inoltre, efficacemente connesse: infatti, la Russia ha le più grandi
riserve di gas naturale e le seconde riserve più grandi di petrolio, mentre Cina e
India sono affamate di energia. L’alta capacità high tech e la forza lavoro indiana,
oltre alla voluminosa produzione di merci cinese, possono essere complementari
all’economia russa e brasiliana59. Come ha semplificato Parag Khanna, si può dire
che se la Cina è la fabbrica del mondo, l’India è il suo ufficio, la Russia la
stazione di rifornimento, il Brasile la fattoria60.
La città russa di Ekaterinburg, il 16 maggio 2009, ha ospitato il primo
vertice ufficiale dei BRIC. Il secondo summit tenuto a Brasilia, il 15 aprile 2010,
ha evidenziato la volontà da parte dei BRIC di voler costruire un sistema basato
sul lavoro e sulla prudenza, che mettesse da parte alcuni dogmi del passato, quali
la deregolamentazione del mercato, l’idea di uno stato minimo e la certezza che la
tutela dei diritti dei lavoratori sia il metodo migliore per combattere la
disoccupazione. I Paesi del BRIC hanno manifestato la volontà di coalizzarsi e
sviluppare politiche comuni: si propongono, come fine ultimo, di influenzare le
politiche economiche e finanziarie internazionali. Per promuovere lo sviluppo e la
crescita economica e combattere la povertà interna hanno prodotto una
dichiarazione congiunta nella quale affermano il desiderio di “sviluppare una
cooperazione tecnica e finanziaria con il fine di realizzare uno sviluppo sociale ed
economico sostenibile61. Al loro terzo summit, tenutosi nell’aprile 2011 nella
località di Sanya nel sud della Cina, BRIC è diventato BRICS, con la prima
59
ALESSANDRO LATTANZIO, op. cit., pagg.50-2.
60
PARAG KHANNA, Come si governa il mondo, Roma, Fazi Editore, 2011, pag.198.
61
EMANUELE FRANCIA, Bric solo un acronimo?, Eurasia rivista, www.eurasia-rivista.org, 16 luglio
2010.
45
partecipazione del Sud Africa. Secondo molti analisti i BRICS non
rappresenterebbero un vero blocco perché sono troppi gli interessi divergenti, e la
volontà da parte di Russia e Cina di volersi porre alla testa di questo gruppo
bloccherebbe qualsiasi proposito di politiche comuni.
Oltre i BRICs, secondo un’altra analisi pubblicata da Goldman Sachs nel
2005, ci sarebbero gli N-11: i Next-Eleven, i prossimi 11 paesi che avranno tassi
di crescita economica elevati e che guadagneranno posizioni nei ranking
economici. L’analisi ha promosso Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Corea del
Sud, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia e Vietnam quali futuri attori
protagonisti dello spazio economico globale. Gli N-11 potrebbero raggiungere i
due terzi del PIL del G8 nel 2050. Hanno la possibilità di crescere ad un ritmo del
4% annuo per i prossimi 20 anni, ma, nonostante questi tassi di crescita, solo
Indonesia, Messico e Corea del Sud sembrano poter raggiungere lo status di
grandi potenze. Gli N-11 sono alcuni dei paesi in via di sviluppo, con maggior
popolazione, al di fuori dei BRIC; il loro contributo sulla percentuale mondiale
del PIL è salita al 7%, mentre dal 2000 al 2006 hanno contribuito per il 10% alla
crescita mondiale.
La multipolarità economica del globo aumenterà notevolmente nel prossimo
decennio. Nel momento in cui le economie dell’occidente segnano il passo, Cina,
India e Brasile viaggiano a ritmo accelerato. Adesso sono i paesi emergenti a
dettare il ritmo dell’economia mondiale e a determinare i prezzi internazionali,
con il risultato di una spinta generalizzata ai rincari, del tutto fuori fase, rispetto al
cattivo stato di salute delle economie dei paesi ricchi, che rischiano, così, di dover
sopportare il doppio peso di uno sviluppo asfittico e di un’inflazione che si
accumula. Quasi tutte le materie prime sono in ascesa, a cominciare dal cibo. Una
nuova crisi alimentare, come quella del 2007-2008, non è nelle previsioni, perché
i magazzini sono relativamente pieni, ma gli effetti sui prezzi sono già evidenti.
Mentre i buchi di bilancio delle potenze sviluppate stanno tutti portando il
rapporto tra debito pubblico e PIL oltre il 100%, nei paesi emergenti questo
rapporto è costantemente attorno al 40-50% del PIL. Questa situazione ottimale
46
dovrebbe permettere ai mercati emergenti di guadagnare ulteriore terreno sulle
potenze. Nel 2009 si è assistito ad una decisione epocale, quella di sostituire il G8
con il G20 come principale luogo di incontro dove discutere di cooperazione
economica internazionale. Una trasformazione che riflette da una parte il peso
crescente che le economie emergenti stanno avendo ma che rappresenta anche
l’assunzione di responsabilità delle nuove economie accanto a quelle avanzate per
affrontare le sfide globali, riguardo a cambiamenti climatici, crisi finanziarie,
riduzione degli squilibri economici, tutela della pace e della sicurezza.
Secondo molti analisti economici il Ventunesimo Secolo sarà il Secolo
Asiatico, il secolo nel quale Cina e India potranno ottenere grandi risultati. Cina e
India sono stati paesi socialisti fino agli anni ’80, quando hanno cominciato una
progressiva apertura all’economia di mercato definitivamente realizzatasi nei
primi anni ’90, ottenendo però risultati diversi. L’India ha cercato di copiare il
modello di sviluppo sovietico, attraverso i piani quinquennali, col risultato
particolare di diventare un paese in cui il terziario è il settore più produttivo
dell’economia senza passare per una precedente prevalenza del secondario,
ovvero l’industria, che solo recentemente ha sopravanzato il settore agricolo in
termini di produttività. La Cina ha invece avuto una storia diversa e più tragica,
sperimentando clamorosi e drammatici fallimenti, anche attraverso la tragica
esperienza del Grande Balzo in Avanti.
Negli anni ’90 la crescita del PIL cinese è stata in media del 9,7% annuo,
contro il 5,9% dell’India, tra il 2000 e il 2004 la crescita della Cina è stata del
9,4%, mentre quella dell’India del 6,2%, e oggi il prodotto interno cinese cresce
d’oltre il 9% all’anno, mentre quello indiano cresce del 7%. Nel 2009 la Cina ha
compiuto anche uno storico sorpasso, in termini di PIL, ai danni del rivale
giapponese, divenendo la seconda maggiore potenza economica al mondo in
termini di prodotto interno lordo, dopo gli USA. L’economia indiana è invece la
quarta al mondo in termini di PIL a parità di potere d’acquisto. La Cina possiede
47
inoltre le più grandi riserve auree e di valuta estera: 1955 miliardi di dollari, ben
venticinque volte quelle statunitensi62.
I leader di entrambi i paesi, che guidano un totale di due miliardi e mezzo di
persone, devono mettere da parte le rivalità e usare il business per dare nuovo
lustro a due antiche civiltà. L’allargamento dei rapporti economici, come
dichiarato in più occasioni dal premier Wen Jiabao, passa soprattutto attraverso gli
accordi finanziari sulla rotta Shanghai- Mumbai: China Development Bank andrà
a finanziare le indiane ICICI Bank, Essar e IDBI Bank, mentre altri istituti di
credito come Bank of China e Industrial and Commercial Bank of China stanno
espandendo il loro business in India. Alcuni la chiamano Cindia, altri “Asse AiAi”, per sfruttare una battuta sulle due capitali finanziarie Shanghai e Mumbai, ma
al di là delle etichette i numeri non mentono. La delegazione cinese in India
guidata da Wen Jiabao ha siglato circa 50 accordi economici per 16 miliardi di
dollari, una somma nettamente superiore ai 10 miliardi di contratti strappati dalle
aziende americane precedentemente. Le circa 300 società al seguito del premier
cinese hanno fatto impallidire anche le recenti visite dei leader europei, quando
Nicolas Sarkozy e David Cameron hanno portato a Nuova Delhi rispettivamente
una sessantina e una quarantina di imprese. Oggi nelle principali piazze
finanziarie internazionali si trattano soprattutto titoli cinesi: il principale fondo
pensione del mondo, il principale gruppo bancario e assicurativo, il più ampio
spazio di manifattura tradizionale, la più grande compagnia petrolifera in termini
di capitalizzazione (escluse le americane) sono Made in China.
Pechino con la sua forza di penetrazione economica, sta diventando il nuovo
punto di riferimento per i paesi di tutto il mondo, industrializzati, emergenti e
sottosviluppati, in cerca di un mercato in cui esportare i propri beni, nei primi due
casi, e di un generoso investitore estero, nel terzo caso: la Cina è tutte queste cose
messe insieme. È emblematico che proprio nel cortile di casa statunitense, in
particolar modo in Argentina e Cile, Pechino abbia sopravanzato gli USA. La
62
DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.319-28.
48
Cina è diventata il maggior socio commerciale di Cuba, il secondo di Argentina,
Brasile, Cile, Costa Rica, Messico, Perù e il terzo di Uruguay. Nel Venezuela
ricco di petrolio e di gas naturale il commercio tra i due paesi è in rapida ascesa:
adesso la Cina è il quarto fornitore di beni importati ed il terzo principale mercato
d’esportazione.
Sebbene le scaramucce tra i due paesi siano continue, Stati uniti e Cina
possono essere definiti due alleati necessari: si potrebbe, addirittura, immaginare
una futura relationship, certo economica ma probabilmente anche strategica. La
loro doppia dipendenza, per la quale l’enorme debito pubblico americano è
sostenuto dal credito cinese, il quale a sua volta beneficia del mercato americano,
fa sì che si parli di matrimonio d’interesse. Nel 2008 il sovrappiù cinese negli
scambi con gli USA è ammontato a ben 268 miliardi di dollari. Pechino ha
investito parte di questo sovrappiù di dollari nei titoli di debito pubblico USA,
tanto che nel 2009 ne possedeva il 23,35% del debito estero. Pechino avrebbe
quindi la capacità di affondare le finanze statunitensi, ma ciò si ripercuoterebbe
gravemente sulla Cina stessa, in primis con la perdita di valore di quegli stessi
titoli. Larry Summers, consigliere economico di Obama, ha parlato di equilibrio
finanziario del terrore, regolato dallo stesso principio della MAD: sia Washington
che Pechino hanno la possibilità di sferrare un colpo mortale all’altro, ma ciò si
rivelerebbe letale per loro stessi63. Ma la convivenza nasconde profondi dissapori,
legati, ad esempio, alla mancata rivalutazione del renmimbi o al sostegno cinese al
controverso programma nucleare iraniano e a quello pachistano.
In aggiunta a BRICS, N-11, BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina)
anche gli Stati del Golfo sono al centro di un profondo interesse dovuto
soprattutto al processo di “ristrutturazione economica” che li ha portati a
rinnovare il loro modello economico fortemente dipendente dalle rendite
petrolifere ed, in generale, dal settore degli idrocarburi. Ruolo cruciale ha rivestito
il Governo, che ha approvato, seppur con sostanziali differenze da stato a stato,
63
DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.332-335.
49
piani di investimenti pluriennali mirati a riorientare la spesa pubblica nei
cosiddetti settori “non oil” e dare sostegno e stimoli allo sviluppo del settore
privato. Dietro le scelte economiche dei governi dei GCC c’è stata, quindi, la
volontà di rendere la struttura economica del paese più solida rispetto al passato.
Ed è stata proprio la diversificazione economica la chiave per il raggiungimento
del tanto desiderato obiettivo; la spiegazione sta nelle caratteristiche del modello
economico tradizionale comune ai GCC: un’economia concentrata sullo
sfruttamento di una risorsa estremamente volatile come il petrolio o il gas, quindi
un’economia fragile ed esposta a rischio di crisi, qualora l’andamento del settore
degli idrocarburi non dovesse essere favorevole, come è avvenuto con l’attuale
crisi globale.
A seguito dei continui flussi migratori e dell’innalzamento del prezzo del
greggio, che ha portato nelle tasche dei petrolieri arabi un cospicuo flusso di
capitali, l’islamic banking ha dimostrato in questi mesi un’ottima tenuta e si è
affermata come terza protagonista nella gestione del denaro. Una “terza via” che
ogni anno marcia a ritmi di crescita del 15% in termini di capitali investiti e che,
come ha affermato il 14 ottobre Laheem al Nasser, consulente di finanza islamica,
è stata toccata solo marginalmente dall’attuale crisi finanziaria. In realtà, il
sistema finanziario islamico replica quello occidentale in quasi tutti i suoi aspetti,
e questo rende i due approcci alternativi e perfettamente sostituibili.
Il rifiorire economico di questi paesi ex-sottosviluppati sta portando
problemi culturali. Una nuova classe media si sta affacciando sulla scena
mondiale, e determinerà molte delle dinamiche di quello che sarà il commercio
internazionale dei prossimi anni. È la classe media dei paesi emergenti, dei paesi
asiatici, dei BRIC e, in generale, dei paesi che stanno imboccando sempre più
rapidamente la via dello sviluppo. Sarà interessante osservare se, e in che misura, i
consumi si localizzeranno diversamente rispetto a quanto osservato in passato. Le
popolazioni dei paesi in via di sviluppo si sono contraddistinte per una forte
propensione al risparmio che ha permesso loro di investire e di raggiungere elevati
tassi di crescita. Ora comincia ad arrivare il momento di raccogliere i frutti di tale
50
crescita, cominciando finalmente a scoprire la "voglia di consumare" fino ad oggi
prerogativa di massa delle popolazioni occidentali. Tali paesi hanno subito meno
di altri gli effetti negativi della crisi e pertanto l'aumento del reddito procapite
determinerà un aumento delle capacità di spesa dei loro cittadini. L'esigenza di
compensare il calo della domanda dei paesi maggiormente sviluppati ha
determinato una crescente attenzione internazionale verso le politiche di stimolo
della domanda interna (soprattutto per quel che riguarda il caso cinese). I Paesi
asiatici stanno quindi portando avanti una lenta trasformazione da paesi produttori
(a basso costo) a paesi consumatori. Oggi sono le imprese che producono beni di
qualità inferiore, e quindi più economici, ad esportare verso i paesi in via di
sviluppo. Nel futuro i paesi emergenti saranno mercati di sbocco anche per le
imprese che producono beni ad elevato valore aggiunto e aumenteranno quindi sia
i margini intensivi (beni venduti a prezzo superiore alla media) che quelli
estensivi (un range di qualità di prodotti esportati sempre più ampio).
I capitali continueranno a passare dai vecchi centri dell’economia globale,
che hanno dato inizio alla globalizzazione dei mercati, ai mercati di frontiera e
alle economie emergenti. E questo perché, alla fine del ciclo finanziario, la
sostenibilità dei debiti e dei crediti è strutturalmente maggiore nelle economie in
cui è maggiore la crescita del valore aggiunto, elemento che è peraltro stato
all’origine dello straordinario successo della civiltà della meccanizzazione e della
industrializzazione64. È vero che, nello Stato postmoderno e globalizzato i governi
possono muovere realisticamente solo la leva fiscale, visto che gli altri elementi di
gestione del sistema sono o correlati con gli alleati-concorrenti o con i flussi
internazionali65; ma è anche vero che la moneta non ha perso quel forte potere
politico che gli stati, in passato, utilizzavano con molta maggiore frequenza.
Sin dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008 molte economie hanno dato
vita a politiche economiche che direttamente o indirettamente hanno abbassato i
64
G. E. VALORI, op. cit., pag.117.
65
G. E. VALORI, ibid., pag.115.
51
loro tassi di cambio, con lo scopo di incoraggiare le esportazioni, ridurre la
disoccupazione o stimolare la domanda interna. Le politiche monetarie messe in
campo dopo la crisi hanno creato di fatto, come conseguenza forse non sempre
voluta ma comunque ineludibile, un conflitto tra valute, quasi una successione di
"svalutazioni competitive" che prevede almeno un perdente, costretto ad
apprezzare la propria moneta almeno fino a quando non riesce a spostare il peso
su qualcun altro. Il risultato, come negli anni 30, è un continuo disordine. Le
tensioni tra gli USA e la Cina sullo yuan, ritenuto da Washington troppo debole
per esser vero, sono la punta dell’iceberg di un disagio più generale. Anche
l’Unione europea accusa la Cina, ma al tempo stesso teme un dollaro molto
debole e quindi molto favorevole alle esportazioni USA. La Germania, traino
della UE, non si è certo disperata per la recente parziale discesa dell’euro
sull’onda della crisi greca, discesa che ne ha favorito l’export. Ma nel mondo
ormai i protagonisti sono molti, ci sono anche i grandi Paesi emergenti. Ed ecco
l’arrabbiatura del Brasile, che dalla contemporanea debolezza di euro e dollaro ha
ricavato una forte rivalutazione di fatto della sua moneta, il real, tale da creare
preoccupazioni per le sue esportazioni. Parlare di guerra può sembrare
un'esagerazione, ma sicuramente non è una sciocchezza.
La quotazione del dollaro USA, che e’ ancora la moneta di riferimento del
commercio mondiale, rappresenta un elemento di incertezza strutturale; una
moneta USA debole potrebbe favorire i paesi in via di sviluppo fortemente
indebitati in dollari, ma ciò causerebbe forti perdite in quei paesi che hanno asset
attivi denominati nella stessa valuta. La decisione della FED di comprare titoli di
Stato, per sostenere il fragile recupero dell’economia Usa, ha ricevuto molte
critiche dai Paesi emergenti, specie dell’Asia, perché questo provoca un eccesso
di liquidità che favorisce bolle speculative e l’inflazione mondiale. Numerosi
paesi dell’America Latina e dell’Asia hanno sofferto queste politiche economiche
che hanno portato ad un forte apprezzamento delle loro monete.
Mentre gli Stati Uniti vengono criticati per l’eccessiva stampa di moneta, la
Cina è stata spesso accusata di manipolare deliberatamente il valore della sua
52
moneta per rendere più competitivi i suoi prodotti. Il 19 luglio 2010 la Cina ha
deciso, dopo una lunga battaglia verbale con gli USA, di apprezzare la sua
moneta, il renmimbi. La decisione sembra dovuta alle pressioni USA, ma i cinesi
si rifiutano di ammetterlo e sostengono che l’apprezzamento della loro moneta è
dovuto alla volontà di sostenere la crescita interna; nel contempo la Cina ha più
volte dichiarato che apprezzerà la sua moneta solo in maniera graduale e secondo
i propri tempi. Ben Bernanke, capo della FED, ha affermato che “tenere la valuta
cinese troppo bassa è negativo per l’economia Usa, perché danneggia il nostro
commercio; è male anche per le altre economie emergenti”. Molti analisti
sostengono che lo yuan è sottostimato per una cifra tra il 15 e il 40%. Il ruolo di
grande potenza economica assunto dalla Cina, richiede che la sua valuta si
sottoponga alle leggi di mercato, ma il governo la tiene sottostimata, in modo da
favorire le esportazioni, a danno dell’industria degli altri Paesi.
Il 28 settembre 2010 il ministro del tesoro brasiliano, Guido Mantega, ha
dichiarato che è in corso una guerra tra valute. Non è insolito che le nazioni
intervengano sul valore della propria moneta per aumentare la forza dei propri
prodotti all’estero, combattere l’inflazione o la disoccupazione, il problema è che
in un’economia globale interconnessa il valore delle valute non aumenta o
diminuisce nel vuoto. Quando la Cina abbassa artificialmente lo yuan contro il
dollaro statunitense, tiene basso il costo dei prodotti cinesi negli Stati Uniti,
sbilanciando il mercato. Questo porta gli Stati Uniti ad abbassare la propria valuta
a loro volta. E, ovviamente, dato che i due paesi hanno un solo tasso di cambio,
questa gara verso il basso non porta benefici a nessuna delle due parti. Dal punto
di vista internazionale, questo ha due principali conseguenze negative: è un
deterrente agli investimenti internazionali (rallentando quindi la ripresa
economica) e incrina i rapporti politici tra le nazioni, rendendo più arduo il
raggiungimento di accordi bilaterali. La guerra delle valute parte però proprio
dalle banche centrali, che dopo aver mantenuto in vita il sistema creditizio e
produttivo nazionale, influenzano vistosamente i tassi di cambio nei mercati
valutari con due strumenti: l’iniezione di liquidità sui mercati (anche attraverso
53
l’acquisto di titoli di stato), e il taglio dei tassi di interesse. Le tensioni sono forti e
moltissimi paesi ne stanno facendo le spese perche' non hanno la stessa forza di
impatto: l'India ha dichiarato che e' diventata molto dura mantenere la coesione
interna al G20, il Brasile (tra i piu' danneggiati) ha deciso perfino di non inviare al
summit coreano il suo ministro delle Finanze e il presidente della sua banca
centrale.
Questa guerra delle valute ha avuto come effetto concreto quello di scalfire
il predominio del dollaro a livello mondiale, e non solo a causa dell’Euro. In
questo senso la Chiang Mai Iniziative è lo strumento messo in campo da alcuni
paesi dell’Est-Asiatico (tra cui Cina, Giappone e Corea del Sud) per formare una
rete di cambi fissi tra le relative monete, al fine di evitare ogni possibile minaccia
alle loro valute. Col tempo l’iniziativa si è trasformata in un forum con scopi
molto più ambiziosi, come quello di rendere multilaterali gli attuali cambi
monetari e di costituire un enorme fondo da cui gli stati in crisi possono attingere.
Nell’ultima riunione del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), il 17
dicembre scorso, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar (che controllano circa il 45%
delle riserve mondiali di petrolio e il 25% di quelle di gas), a cui si è aggiunto il
Bahrein, hanno deciso di dare avvio alla prima fase per la costituzione di una
unione monetaria che dovrebbe portare in breve tempo all’emissione di una nuova
moneta, il Gulf, con l’obiettivo annunciato di sganciarsi definitivamente dall’uso
del dollaro per gli scambi petroliferi e costituire una nuova moneta di riserva sotto
il loro diretto controllo. Il Gulf si presenterebbe sul mercato con la caratteristica di
una moneta di riserva molto più credibile del dollaro (e del suo concorrente euro),
in quanto il suo valore sarebbe garantito, anche se indirettamente, dalle riserve
energetiche.
La proposta cinese di una valuta globale che sostituisca il dollaro come
strumento di riserva, lanciata a marzo 2009 prima del G-20 di Londra, conferma
la nuova strategia di Pechino. L’idea cinese è stata formulata dal governatore della
Banca centrale Zhou Xiaochuan, secondo il quale uno dei modi per evitare
turbolenze finanziarie è la creazione di una moneta di riserva slegata da singole
54
nazioni66. La Cina usa la recessione globale per rimettere in discussione vecchie
gerarchie e rapporti di forza. Barack Obama ha respinto seccamente l’idea di
Pechino e il suo segretario Timothy Geithner ha aggiunto che il dollaro rimarrà a
lungo la moneta di riserva dominante. Ma l’iniziativa cinese ha aperto un nuovo
fronte nei rapporti bilaterali. Poiché i mercati finanziari sanno perfettamente
quanto sia importante la Cina come acquirente di titoli pubblici americani, e
quindi quanto sia cruciale la fiducia dei leader asiatici nel dollaro, quell’uscita
contiene un’implicita minaccia.
Fortemente connessi al fenomeno della crescita dei paesi emergenti e alla
nascita di questa nuova classe media sono altri due fenomeni che interagiscono
fortemente nello spazio economico globale: i fondi sovrani e le rimesse
economiche. I fondi sovrani sono dei fondi di investimento posseduti da paesi con
forti attivi delle bilance dei pagamenti, derivanti soprattutto dalla vendita delle
materie prime, il cui obiettivo è quello di investire la liquidità generata dal surplus
in prodotti finanziari con una logica di lungo periodo. Il termine “fondo sovrano”
è stato utilizzato per la prima volta nel 2005 dall'economista Andrew Rozanov in
un articolo intitolato Who holds the wealth of nations ? ma la loro storia inizia
parecchi anni prima. Il primo fondo sovrano nasce, infatti, in Kuwait nel 1953, e
successivamente questo strumento si è diffuso nei Paesi esportatori di petrolio e
gas, in particolare dell'area medio orientale, nella quale si trova il 37% dei fondi
attualmente esistenti67. Negli anni '70 nascono il fondo sovrano libico e quello di
Abu Dhabi, due fra i più grandi al mondo. Nel corso degli ultimi dieci anni i fondi
sovrani hanno avuto un vero e proprio boom, crescendo sia in numero che rispetto
alla quantità di denaro investito. Particolarmente importanti sono diventati anche i
fondi appartenenti all’area asiatica, che sono entrati in competizione per entità
66
FEDERICO RAMPINI, Ma l’asse del secolo si chiama Chimerica, Limes vol.3/2009, EURUSSIA
IL NOSTRO FUTURO?. Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2009.
67
IRENE MANERA, Fondi sovrani: minaccia o fonte di stabilità per l’economia mondiale?,
Equilibri.net, www.equilibri.net, 25 ottobre 2010.
55
delle transazioni finanziarie con quelli del Medio Oriente. Attualmente esistono
circa 40 fondi sovrani, che gestiscono tra i 1900 e i 2900 miliardi di dollari; il
fondo sovrano più vasto è la Abu Dhabi Investment Authority che possiede azioni
per 627 miliardi di dollari. L’espansione dei fondi è stata favorita non solo
dall'aumento del prezzo del petrolio, che ha garantito ai Paesi produttori forti
surplus, ma anche dallo sviluppo mondiale dei commerci e dalle progressive
liberalizzazioni del mercato finanziario. Il fatto che i fondi siano controllati da
entità statali e che le loro attività non siano del tutto trasparenti, genera
preoccupazioni in merito alla possibilità che Stati stranieri assumano un ruolo
significativo nella gestione di imprese nazionali, fino a condizionare le politiche
degli stati interessati: i governi di Singapore, Kuwait e Coea del Sud hanno fornito
gran parte dei 21 milioni di dollari necessari a Citigroup e Merril Lynch per
risollevarsi dalla crisi del credito americana.
Il caso di Unicredit in Italia può essere un esempio dell’ambiguità delle
azioni portate avanti da fondi sovrani e governi stranieri. A settembre di
quest’anno la Libia si è trovata a possedere una quota in Unicredit quasi dell’8%
attraverso due entità distinte: la Banca centrale libica, che detiene il 4,98% dal
2008, e il fondo sovrano della Libia, la Lybian Investment Authority, che ha
acquistato il 3 agosto scorso il 2, 98% dell’istituto di credito italiano. Lo statuto
della banca vieta che ciascun socio possa avere più del 5% delle quote, ma in
questo caso entrambe le entità, essendo proprietà dello Stato libico, avrebbero
fatto riferimento alla persona di Gheddafi. La Libia, in conseguenza degli
accertamenti svolti dalla Consob si è difesa affermando che le due entità sono di
fatto distinte e con autonomia decisionale. La verifica è stata molto complicata dal
fatto che il fondo sovrano libico non rende pubblica nessun tipo di informazione
relativa alle proprie attività di investimento.
Parallelo al fenomeno dei fondi sovrani corre quello delle rimesse
economiche. Negli ultimi anni il fenomeno delle rimesse inviate dai migranti nei
propri paesi d’origine ha assunto proporzioni inimmaginabili fino al secolo
scorso. Come segnalato dalla Banca Mondiale ci sono stati incrementi annui
56
dell’ordine del 10%, tra il 2000 e il 2007. il volume complessivo registrato nel
2007 è stato di 371 miliardi di dollari, di cui oltre 281 indirizzati verso i cosiddetti
paesi in via di sviluppo. Tale massa valutaria ha raggiunto dimensioni pari a
quelle di altri tradizionali flussi finanziari come gli aiuti internazionali allo
sviluppo e gli investimenti esteri diretti, incidendo enormemente sul prodotto
interno lordo di molti dei paesi di origine dei migranti. Questi flussi hanno
permesso ad un numero crescente di famiglie, nei paesi di origine, di uscire dalla
soglia della povertà. Il fenomeno delle rimesse ha dato vita ad un processo di
qualificazione e diversificazione: qualificazione perche le rimesse appaiono
sempre più orientate a sostenere progetti di sviluppo locale, diversificazione
perché non si esplicano più nel semplice trasferimento di soldi ma anche di
servizi, beni, tecnologie e know-how.
57
CAPITOLO V
IL FATTORE CULTURALE
L’approccio culturale alla geopolitica, o geocultura come viene chiamata,
sottolinea che le differenze etniche, ideologiche, sociali e addirittura di genere
intervengono nell’agone politico tanto quanto il potere militare degli stati. La
considerazione dei fattori culturali quali elementi che incidono sulle dinamiche
internazionali era stata messa da parte subito dopo la fine della seconda guerra
mondiale; la forte identificazione della geopolitica con l’ideologia nazista e, di
conseguenza, il senso di colpevolezza che l’occidente ha provato dinanzi agli
eccidi perpetrati dai tedeschi ai danni degli ebrei, basati su considerazioni
esclusivamente razziali, ha rimosso la problematica delle differenze etniche dalle
coscienze dei principali studiosi dell’epoca.
La nuova irruzione del fattore culturale nel dibattito politico internazionale è
avvenuta a seguito della pubblicazione di un articolo e poi del libro susseguente
dello studioso americano Samuel Huntington, che analizzava lo scontro tra civiltà
differenti68. La cultura e le identità culturali, secondo Huntington, stanno alla base
dei processi di disintegrazione, coesione e conflittualità del mondo post-guerra
fredda: le fratture culturali esistenti si trasformeranno, prima o poi, in fratture di
tipo geopolitico. Tutto questo deriva, inevitabilmente, da processi storici di lungo
corso: era stato l’imperialismo europeo ad alimentare la convinzione che le
differenze religiose ed etniche, oltre ad essere naturali, antichissime ed
immodificabili, sono anche della massima importanza. La tesi di futuri conflitti
mondiali che si verificherebbero lungo le faglie di conflitto etnico-ideologiche ha
scosso l’ambiente accademico mondiale, abituato a ragionare essenzialmente in
chiave di contrapposizioni territoriali e militari. Ma il dibattito, per quanto
proficuo, era limitato inizialmente ai solo ambienti accademici, dove peraltro le
68
SAMUEL HUNTINGTON, The clash of civilization?, New York, Foreign affairs, summer 1993;
SAMUEL HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà, Milano, Garzanti editore, 2008.
59
tesi dello Scontro di civiltà ricevevano numerose critiche. Il genocidio del
Ruanda, uno degli episodi più cruenti della storia del XX secolo, che ha visto
l’etnia Hutu sterminare quella Tutsi, in soli 100 giorni tra l’aprile e il luglio del
1994, provocando tra gli 800.000-1.000.000 morti, aveva al fondo “motivazioni”
di tipo etnico. Il conflitto dei Balcani, che mostrava alla base profonde divergenze
etnico-culturali, sembrava aver fornito delle inaspettate conferme alle teorie dello
studioso americano, nonostante diversi studiosi presentassero sempre nuove
obiezioni
sulle
capacità
esplicative
e
generalizzanti
della
prospettiva
huntingtoniana. Solo dopo l’attacco alle Twin Towers ed al Pentagono, di cui è
oramai incontestabile la matrice confessionale che univa gli attentatori, il dibattito
sulla politicizzazione della religione ha ripreso un posto centrale sia nella ricerca
che nell’agenda politica internazionale: sempre più spesso è stato tracciato un
collegamento tra l’azione transnazionale di organizzazioni politiche non statali,
con le loro convinzioni religiose, e la contestazione dell’egemonia occidentale.
Questa visione troverebbe conferma in una semplice riflessione sulle
principali fonti di tensione internazionale attuali: prendendo in considerazione le
quattro aree calde da cui si teme possa scaturire un conflitto in futuro, in tre casi
risulta evidente una frattura di ordine religioso (Israele-Palestina, Pakistan-India
ed Iran), mentre solo uno risulta completamente estraneo a questo genere di
dinamiche, presentando una caratterizzazione di ordine ideologico (Corea del
Nord). La nascita di questo fenomeno può essere considerato, al tempo stesso, sia
come prodotto della trasformazione registrata dalla politica durante l’ultimo
decennio della Guerra fredda e nel periodo immediatamente successivo, che come
una variabile interveniente in grado di alimentare questo mutamento. Di fatto è
accaduto che in molti paesi, soprattutto del mondo in via di sviluppo, dalla fine
degli anni’70 i movimenti nazionalistici al potere, a causa della loro corruzione e
inefficienza e dell’abbandono delle politiche dirigiste, abbiano perso l’appoggio
popolare a favore di movimenti di massa a forte connotazione islamica. Tutto ciò
porta a superare gli schemi tradizionali della riflessione sulle relazioni
internazionali in quanto non esclude la possibilità che, riattivato il rapporto tra la
60
società politica e i sistemi di pensiero ed i valori di ordine spirituale, il fattore
religioso, così come quello etnico o ideologico, possano tornare ad influenzare in
misura effettiva le relazioni internazionali uscendo da quella marginalità cui sono
stati relegati dal pensiero politico moderno.
È evidente che le differenze religiose rappresentano attualmente la
principale fonte di conflitto, ma tra i fattori culturali che a mio avviso
influenzeranno gli scenari geopolitici futuri ho voluto includere anche altri
elementi che rientrano in una definizione allargata di cultura: l’etnia, la
demografia, il nazionalismo e i media.
Accade spesso che quando un conflitto esplode lo fa per cause non religiose,
che poi vengono sottolineate e fomentate dalla religione quando quest’ultima
viene buttata sul piatto della bilancia. La religione è un elemento fortemente
caratterizzante le civiltà: non a caso, quattro delle cinque religioni più importanti
del globo (induismo, cristianesimo, islamismo e confucianesimo) sono alla base di
gran parte delle civiltà esistenti nel mondo. Per i “non occidentali” la religione
non è più l’oppio dei popoli, ma la vitamina dei deboli: oltre al denaro, al potere e
alla parentela è la fede ad affermarsi come fattore di lealtà. L’islam, in particolare,
sta crescendo come al tempo della sua grande espansione durante il VII e VIII
secolo; il fascino che esercita deriva dal suo essere una causa politica e una molla
sociale in paesi come l’Egitto e il Libano, dove i Fratelli Musulmani e Hezbollah
sono sia partiti politici che fornitori di welfare. I gruppi islamisti, in Egitto come
in altri stati arabi, sono diventati importantissimi dispensatori di quell’assistenza
sanitaria e di quell’istruzione che l’incompetenza di tanti autocrati della regione
ha sempre trascurato, anche in presenza di una potente crescita demografica69.
L’islam potrebbe entrare in ogni conflitto se lo scontro dovesse accentuarsi fino al
punto in cui ogni gruppo etnico andasse a pescare in profondità nella sua cultura
69
PARAG KHANNA, I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Roma, Fazi Editore, 2009,
pag.271.
61
fino ad estrarne i simboli della propria legittimità e autenticità culturale per
convalidare le proprie rivendicazioni70.
L’occidente si è dimostrato particolarmente pronto a pensare all’Islam come
ad una fede particolarmente aggressiva e violenta e, per tutta risposta, gli
accadimenti della Guerra del Golfo sono stati interpretati nel Medio Oriente, sia a
livello popolare che presso l’élite, come un intervento sgradito dell’Occidente nel
mondo musulmano. Il jihad proclamato da Al - Qaeda e i suoi adepti è un progetto
geopolitico che riguarda, nell’ordine, l’unificazione politico-militare della umma
islamica, l’eliminazione fisica e completa di Israele, la distruzione progressiva del
potere economico occidentale71. Il jihad di Al - Qaeda è diventato un global player
della geopolitica e soprattutto della geoeconomia mondiale, ha la capacità di
costringere sia la piazza che i governi islamici, moderati o meno, a scelte
radicalmente antioccidentali e di confronto con USA, NATO e UE, può definire
azioni di destabilizzazione strutturale dei paesi europei e degli USA72. La realtà è
che c’è anche uno scontro all’interno del mondo islamico tra coloro che credono
che l’islam sia compatibile con la democrazia e le libertà civili e coloro che
vogliono invece ricreare uno stato islamico globale. La Turchia rappresenta la
battaglia chiave in questa guerra di ideologie: rappresenta il punto in cui cultura
occidentale e cultura islamica si stanno parlando per cercare di trovare un punto
d’incontro.
Ma il “problema” religioso non è una prerogativa soltanto dell’occidente. La
Cina deve fronteggiare il separatismo di Xinjiang e Tibet, due enormi province
autonome poste nella metà occidentale del paese. Lo Xinjiang, provincia
riconquistata dal governo centrale nel XIII secolo, è costantemente in fermento a
causa dell’indipendentismo degli uiguri, popolazione autoctona turcofona e
70
GRAHAM FULLER e IAN LESSER, Geopolitica dell’islam, Roma, Donzelli Editore, 1996,
pag.136.
71
G. E. VALORI, op. cit., pag.176.
72
G. E. VALORI, ibid., pag.190.
62
musulmana, e degli Hui, di fatto riconosciuti come un’etnia distinta, ma che sono
cinesi han di fede musulmana. Questi indipendentisti hanno compiuto numerosi
attentati, tra cui quello nel 2008 a pochi giorni dall’inizio delle Olimpiadi di
Pechino. Pechino risponde a questa minaccia con una strategia di lungo termine:
la colonizzazione della provincia con immigrati di etnia han. La colonizzazione ha
avuto così tanto successo che oggi gli han si apprestano a raggiungere la parità
con gli uiguri73.
In India i rapporti di potere tra le due comunità, indù e musulmani, sono il
cuore vero del conflitto. Lo stato indiano di Jammu-kashmir è l’unico in cui la
possibile prospettiva separatista è possibile74. In Pakistan attualmente meno di
quattro dozzine di individui di origine punjabi e legati alla città di Lahore
concentrano nelle loro mani la totalità del potere politico occupando i 41 posti
istituzionali più importanti del paese: nell’eterogeneo panorama etnico pakistano
ciò significa l’indiscusso predominio dell’elemento punjabi sugli altri gruppi
etnici75. In Europa, in Kosovo, circa 5 mila kosovari di etnia albanese e di
religione musulmana hanno più volte protestato contro la decisione delle autorità
di governo di vietare alle studentesse di indossare il velo islamico nelle scuole
pubbliche. Si considerino le elezioni in Algeria del 1991 e la risposta
dell’Occidente ai loro risultati: credendo che un partito islamista dotato di un’ala
militare violenta, il FIS, fosse in procinto di riportare una schiacciante vittoria
elettorale, l’esercito algerino, con l’appoggio di Francia e USA, annullò il voto. A
quel punto gli islamisti dichiararono guerra alle forze di sicurezza del governo
algerino, e 150000 persone morirono nel decennale conflitto che ne seguì.
Le forze di separazione sembrano venir particolarmente stimolate dalla
rinascita del concetto etnico di stato-nazione. L’idea che lo stato debba esercitare
la sua autorità su una comunità etnica omogenea tutta riunita all’interno di
73
DANIELE SCALEA. op. cit., pagg.304-6.
74
FULLER e LESSER, op. cit., pagg.139-140.
75
FAUSTO ALUNNI, op. cit., pag.64.
63
frontiere storiche divide i cittadini, sfalda le società, ripropone il problema delle
minoranze e dei loro diritti e, al tempo stesso, stimola le rivendicazioni
irredentiste come, ad esempio, quelle della Serbia, che, dopo la guerra contro la
Croazia, aveva cominciato ad assorbire le regioni popolate da serbi in BosniaErzegovina.
La convinzione che l’umanità sia composta da differenti culture, ossia
gruppi che condividono un linguaggio, dei simboli, e una narrativa comune
riguardo al loro passato, e che questi gruppi debbano avere il proprio stato è stata
una delle forze più potenti che abbiano mai agito nel mondo nei secoli passati.
Spesso capita che si associno due tipi di conflitti etnici, quello etnico territoriale e
quello etnico politico. Se l’oggetto del primo tipo è facilmente identificabile (il
territorio, la terra sacra, il focolare, la culla storica) è più difficile definire
l’oggetto del secondo tipo di conflitto: consiste nel cambiamento di statuto di
un’etnia, solitamente quella minoritaria o fuori dalle leve del potere, in rapporto
ad un’altra etnia, in genere quella maggioritaria o al governo. Sarebbe, di fatto, un
conflitto senza soluzione perché le due etnie rivendicano un medesimo territorio e
i medesimi legami indissolubili, sacri o ancestrali, rispetto al territorio
considerato. Allo scopo di raggiungere i propri obiettivi materiali l’elite etnica
deve mobilitare le masse; ma poiché queste sono poco interessate ad obiettivi dai
quali non possono trarre beneficio, l’elite fa ricorso al nazionalismo e il conflitto
di interessi si trasforma di conseguenza in conflitto di valori. Per ottenere ciò, i
leader dei movimenti etnico-politici creano l’immagine di un nemico, sul quale
fanno ricadere la collera, solitamente una nazione o un’etnia avversaria.
Allo stesso modo, gli stati moderni possiedono un forte incentivo a
fomentare il nazionalismo, perchè avere una popolazione leale e unita, pronta al
sacrificio, aumenta il potere dello stato e così la sua capacità di affrontare le
minacce esterne. Nel competitivo mondo della politica internazionale le nazioni
hanno incentivi ad ottenere il loro proprio stato e gli stati hanno incentivi a
fomentare una comune identità nazionale nelle loro popolazioni. Il malessere
generale trova nel nazionalismo e nell’esaltazione appassionata delle virtù relative
64
all’identità un facile mezzo di distrazione e di mobilitazione: l’altro, lo straniero,
il meticcio, l’immigrato, è un colpevole già designato. Dietro al discorso
nazionalista si avverte spesso il sogno di un paese etnicamente puro.
È stato il nazionalismo a cementare gran parte delle potenze europee
dell’era moderna, trasformandole da stati dinastici in stati-nazione, ed è stato lo
scoppio dell’ideologia nazionalista che ha aiutato a distruggere gli imperi
britannico, francese, ottomano, olandese, portoghese, austro-ungarico e russosovietico. È richiamandosi al nazionalismo che i sionisti reclamano uno stato per
il popolo ebreo e i palestinesi ne vogliono uno tutto per loro; è attraverso il
nazionalismo che i vietnamiti hanno sconfitto sia l’esercito americano che quello
francese durante la Guerra Fredda; è grazie al nazionalismo che curdi e ceceni
aspirano alla costruzione di uno stato tutto loto; è per il nazionalismo che gli
scozzesi richiedono una maggiore autonomia all’interno del Regno Unito. In
politica interna il risveglio dei nazionalismi è molto spesso la reazione di gente
disperata: operai, tecnici, insegnanti caduti in miseria e declassati, tutti cercano
delle spiegazioni semplici al fenomeno incomprensibile della loro disgrazia.
Spesso vengono “fomentati” a trovare dei colpevoli: le elite, gli stranieri, le
persone di lingua o di religione diversa diventano gli obiettivi verso i quali
sfogare le loro frustrazioni76.
Ciò che vediamo oggi è una graduale rinazionalizzaione della politica estera
europea, sostenuta in parte dalle incompatibili preferenze economiche e in parte
dalle risorgenti paure che le identità locali siano minacciate. Mentre i danesi sono
preoccupati dall’islam, i catalani chiedono più autonomia, fiamminghi e valloni si
scontrano in belgio, i tedeschi rifiutano di salvare i greci, e nessuno vuole i turchi
all’interno dell’UE. Le nazioni, poiché operano in un mondo in competizione e
pericoloso, cercano di preservare le loro identità e i loro valori culturali. In molti
casi, il miglior modo per fare questo è di avere il proprio stato, perchè i gruppi
76
IGNACIO RAMONET, Geopolitica del caos, Trieste, Asterios Editore, 1998, pag.31.
65
etnici o nazionali che perdono il loro stato sono, solitamente, più vulnerabili alla
conquista, all’inclusione e all’assimilazione.
Secondo Menachem Klein il conflitto che da decenni oppone arabi e
israeliani si sarebbe trasformato da conflitto territoriale, cioè per la conquista di
un ben specifico territorio, in conflitto etnico. I conflitti etnici hanno regole ben
diverse rispetto a quelli in cui si devono stabilire dei confini territoriali. In un
conflitto etnico “l’altro” non viene misurato secondo la sua appartenenza
nazionale ma secondo la sua appartenenza etnica. Le operazioni messe in campo
dagli israeliani mettono in rilievo il salto di qualità del conflitto israelopalestinese, che non è più un conflitto per i confini, bensì un conflitto fra due
gruppi etnici che vivono sotto un solo governo: il governo israeliano. Lo stato
unico creato da Israele fra il Mediterraneo e il Giordano è un regime basato
sull’etnia e la sicurezza, nel cui ambito Israele concede diritti civili e vantaggi alla
popolazione ebraica e limita, talvolta nega, i diritti civili ai palestinesi, posti sotto
controllo per ragioni di sicurezza nazionale. L’ambito principale in cui questo
conflitto si sta svolgendo è la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, dove è
concentrata la maggioranza della popolazione palestinese; ma ha anche un suo
riflesso all’interno dello stato ebraico. Israele misura il numero degli ebrei e
quello degli arabi palestinesi che vivono sotto il suo controllo ed è preoccupato
dall’equilibrio demografico che mette in questione il carattere ebraico dello stato.
Così è cresciuta sempre più la tensione, nel quadro generale di un conflitto etnico
in cui trovano maggiore spazio e fonte di rafforzamento le forza religiose radicali,
che vedono nel conflitto con l’altra parte uno scontro etno-religioso77.
I ceceni costituiscono l’etnia più attiva e nello stesso tempo più politicizzata
del Caucaso settentrionale. A loro avviso lo statuto di repubblica autonoma non
rappresentava il livello di sviluppo politico, sociale e culturale cui aspiravano. Le
relazioni russo-cecene sono ossessionate da immagini scioviniste e xenofobe, le
77
MENACHEM KLEIN, “Lo Stato unico esiste già e promette nuove guerre” in LIMES vol. 1/2009,
Il buio oltre Gaza, pag.41-47.
66
due società si respingono e con l’allontanamento forzato degli stranieri (russi,
armeni, ebrei) dalla loro terra, la società cecena si è radicalizzata ancora di più. I
partecipanti collaterali al conflitto ceceno sono numerosi: i musulmani della
Russia (tatari, baskiri, ecc.), che non intendono deteriorare le loro relazioni con le
autorità federali a causa di questo conflitto; le repubbliche ex-sovietiche, che
temono il ritorno della Russia (Ucraina e paesi baltici); i paesi dell’est europeo,
che si oppongono alla rinascita di una Russia imperialista (Polonia, Rep.Ceca,
Ungheria); i paesi dell’Ovest europeo, preoccupati per le violazioni sistematiche
dei diritti dell’uomo in Cecenia; gli Stati Uniti, interessati ad essere presenti sulla
via del petrolio del Caspio; la Turchia e l’Iran, impegnati a rientrare nelle zone
d’influenza e nei loro antichi possedimenti nel Caucaso; altri paesi del Medio
Oriente (Arabia Saudita, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti), che sperano di
veder trionfare in questa regione la loro forma di islam; l’insieme dell’islam, che
si sente solidale con il popolo fratello musulmano; le multinazionali petrolifere, i
cui interessi non corrispondono perfettamente a quelli dei paesi occidentali; le
potenze regionali, quali l’India e la Cina, preoccupate dai movimenti separatisti
musulmani al loro interno; l’Internazionale islamista di Al Qaeda; infine la
Georgia, che ha visto propagarsi sul suo territorio il conflitto ceceno.
Allo stesso modo, nel Caucaso, l’Armenia seguita a reclamare l’annessione
del Nagorno-Karabakh e, nel Mar Nero, la Russia rivendica la restituzione della
penisola di Crimea. Il Nagorno Karabakh è uno Stato non riconosciuto a livello
internazionale, collocato proprio sul confine tra Azerbaijan e Armenia. L’Armenia
sostiene che il Nagorno Karabakh è parte del cosiddetto “impero cristiano”, dal
momento che sul suo territorio sono presenti numerose chiese di legno; gli storici
azeri, invece, sostengono che quelle chiese sono state costruite dagli albanesi del
Caucaso, una popolazione che si suppone sia l’antenata degli azeri. Gli armenicristiani e gli azeri-turchi hanno convissuto a lungo in questo territorio; solo dopo
la fine della Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica ha costituito la regione
autonoma del Nagorno Karabakh, una regione popolata prevalentemente da
armeni. L’intolleranza reciproca di armeni e azeri è rimasta sotto traccia durante
67
tutto il periodo dell’unione Sovietica, ma è poi sfociata nelle violenze della fine
degli anni '80 del XX secolo, con l'esito che la comunità azera è fuggita dal
Karabakh e dall’Armenia, mentre la comunità armena ha abbandonato altre aree
dell’Azerbaijan. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, la popolazione
armena della regione ha dichiarato l’indipendenza dall’Azerbaijan e ha fondato la
repubblica del Nagorno Karabakh, che non è mai stata riconosciuta a livello
internazionale. Tra il 1988 e il 1994 nella regione sono scoppiati conflitti periodici
di diversa intensità, vinti prevalentemente dalla parte armena, e a seguito dei quali
è iniziata l’occupazione di parti del territorio dell’Azerbaijan, anche oltre i confini
del Karabakh, che hanno portato alla creazione di una zona tampone, che univa
l’enclave del Karabakh all’Armenia. Nel 1994 le due parti hanno firmato un
cessate il fuoco sotto l’egida della Russia, e il Nagorno Karabakh è di fatto
rimasto nelle mani degli armeni. Nessun accordo finale è mai stato siglato e
durante le periodiche violazioni del cessate il fuoco ci sono state vittime da
entrambe le parti. Si stima che nel corso dei 6 anni di conflitto siano stati uccise
tra le 20.000 e le 30.000 persone, mentre più di un milione di persone ha dovuto
abbandonare le proprie case. Gli azeri fuggiti nel corso del conflitto non sono
ancora tornati nei territori dell’Azerbaijan sotto il controllo armeno. Lo stesso vale
per gli armeni che hanno lasciato l’Azerbaijan. Gli azeri lamentano la perdita del
Nagorno Karabakh, che considerano parte del proprio territorio, ma gli armeni
non sono disposti ad alcun compromesso. Russia, Francia e Stati Uniti, riunite nel
“Gruppo di Minsk” costituito dall’Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa (OSCE), tentano da tempo di trovare una soluzione per
risolvere la questione. Nel 1997, il Gruppo ha presentato alcune proposte di
accordo che sono state prese in considerazione all’inizio dei negoziati tra
l’Azerbaijan e l’Armenia, ai quali tuttavia non partecipavano i rappresentanti
dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh. Nel dicembre 2006, per
mezzo di un referendum, il Nagorno Karabakh ha approvato la propria
costituzione e ha proclamato l’indipendenza, proclamazione che l’Azerbaijan ha
dichiarato illegittima. Tuttavia, da allora ci sono stati diversi tentativi di far
68
proseguire il processo di pace, compresi gli incontri periodici del presidente
dell’Azerbaijan Ilham Aliyev e del presidente armeno Serzh Sargsyan. Nel
novembre del 2008 Aliyev e Sarkisian si sono accordati sull’intensificare gli
sforzi per trovare una soluzione politica per il problema del Nagorno Karabakh, e
significativi passi avanti sono stati fatti durante gli incontri tra i due capi di stato
nel maggio e nel novembre del 2009.
In Messico gli amerindi puri rappresentano il 30% della popolazione, ma 9
messicani su 10 hanno almeno una parte di sangue indigeno, come risulta dalla
semplice osservazione dei tratti somatici: non a caso l’eredità azteca è tenuta in
grande considerazione dalla cultura nazionale. Anche i paesi centramericani sono
quasi tutti caratterizzati da un forte miscuglio etnico indio latino (in Honduras
l’80% è meticcio e il 10% amerindio) anche se spiccano il Costarica ed il
Guatemala per la scarsità di sangue indigeno e per l’abbondanza di comunità
autoctone. La seconda maggiore comunità amerindia si trova in Perù : il 45% è
amerindio ed il 37% meticcio. La predominanza amerindia ha poi trovato la sua
espressione anche in politica, dopo anni di dominio di presidenti bianchi legati
all’ideologia liberale: proprio il 28 luglio Ollanta Humala, un amerindio appunto,
è stato eletto presidente del Perù. In Venezuela due terzi della popolazione sono
meticci, spesso con sangue sia amerindio, sia europeo, sia africano: è il caso del
presidente Hugo Chavez. In Ecuador un quarto della popolazione è amerindia ed
il 65% è meticcia, proprio come il presidente Rafael Correa78.
Altro elemento culturale da tenere in conto è la demografia che è lo scenario
di tutti gli scenari futuri: sapere come e con quali dimensioni cambierà la
popolazione mondiale determinerà l’efficacia relativa di molti degli scenari che ne
derivano. Quello che succede tra due persone nell’intimità della camera da letto è
certamente un fatto privato, eppure ha un influsso determinante sul futuro
dell’umanità: troppe nascite o troppe poche nascite creano "diseconomie"
coinvolgendo il benessere delle generazioni future verso le quali dovrebbe esistere
78
DANIELE SCALEA, op. cit., pagg.419-22.
69
un principio di responsabilità. La collettività può intervenire per modificare, nel
rispetto dei diritti individuali e dell'equità, il contesto nel quale avvengono le
scelte delle coppie col fine di modificarne comportamenti e aspettative. Il suo
effetto non è immediato, ma profondo, e i governi se ne occupano attraverso
politiche a favore o contro la natalità, cercando di controllare l’immigrazione,
subendo o respingendo la pressione delle religioni. Nel 1972 il Club di Roma, nel
suo Rapporto sui limiti allo sviluppo, lanciava un segnale preoccupante: le risorse
del pianeta non sarebbero bastate di fronte a una crescita esuberante e
incontrollabile della popolazione. Dal 1965 ad oggi la popolazione umana è
raddoppiata, passando da 3,3 miliardi a 6,8. Non ci sono mai stati nella storia
simili ritmi di crescita. Naturalmente, il numero delle persone è solo una cornice
geometrica, sia pure indispensabile, nella quale si colloca una collettività per
valutarne il peso in ambiti più vasti: una somma astratta di cultura e idee, capitale
umano e capitale fisico, benessere di vita e reddito pro capite, non è fattibile,
eppure è quella che conta. Ma tra numero di persone e questa astratta somma o
ricchezza esistono, ovviamente, associazioni e interazioni che non possono essere
trascurate. Molti sostengono che una diminuzione del numero, in un'Europa
quadruplicata negli ultimi duecento anni, può portare dei vantaggi per
l'alleggerimento delle tensioni ambientali che ne conseguirebbe, recuperando
spazi e qualità della vita oggi perduti per l'eccessiva concentrazione umana.
Sarebbe una prospettiva accettabile se la diminuzione avvenisse con un taglio
proporzionale per giovani, adulti e vecchi, lasciando inalterata, o quasi, la
struttura per età. Ma purtroppo così non è dato che la diminuzione sarà forte per
giovani e adulti, mentre per i vecchi ci sarà un cospicuo aumento: se questo
avverrà, ne seguirà uno sconquasso nei rapporti numerici, e quindi sociali,
economici e culturali tra generazioni. Il rapporto tra anziani (60 e oltre) e giovaniadulti (20-60 anni) passerebbe (per l'intera Europa) dal 35 per cento attuale al 76
per cento del 2050, con conseguenze devastanti sul sistema. Con queste premesse,
sembra utile discutere di tre aspetti in particolare: il primo riguarda la crisi dello
70
stato sociale; il secondo, le possibili implicazioni politiche della bassa natalità
occidentale; il terzo, le implicazioni sociali della bassa natalità.
Le istituzioni nazionali e sovranazionali europee sono sempre più orientate
verso controverse riforme di welfare e di tutele corporative, che guardano
direttamente all'enorme numero di pensionati, ma che raramente cercano una
visione più profonda. Sul piano geoeconomico i trend derivanti dalle dinamiche
demografiche negative europee sono facilmente immaginabili: diminuzione degli
elementi attivi della popolazione, aumento dei costi dei sistemi pensionistici,
progressivo aumento delle tasse per sostenere i nuovi pensionati, impossibilità di
sostegno politico a scelte impopolari ma necessarie. Il problema principale è
quello
del
global
aging,
dell’invecchiamento
universale,
che
colpisce
maggiormente il Giappone e l’Europa Occidentale79. Gran parte del sistema
sociale e pensionistico si regge su una distribuzione delle classi di età che premia
la fase produttiva della vita e rende minoritari i giovani non ancora entrati nel
mondo del lavoro e gli anziani che ne sono usciti. L’aumento della vita media nei
principali paesi industrializzati genera, naturalmente, un aumento della quota di
popolazione anziana, in fase di pensionamento e quindi a carico del sistema
pubblico. La crisi dello stato sociale in Europa può definirsi come l'insostenibilità
delle regole che presiedono ai trasferimenti di reddito operati dalla mano pubblica,
che preleva risorse, per mezzo di imposte, tasse e contributi, dai produttori o
percettori di reddito (un aggregato che in larga parte coincide con la popolazione
attiva) e le ridistribuisce alla popolazione sotto forma di istruzione, sanità,
pensioni, sussidi assistenziali (un aggregato in buona parte costituito da anziani).
Sul piano internazionale, l'insostenibilità delle antiche regole del sistema di
welfare nei paesi Europei, di cui la depressione demografica è la prima
responsabile, è un potente fattore della minore competitività dell'Europa rispetto
sia agli Stati Uniti, l'unico grande paese occidentale con una demografia in
equilibrio e con un sistema di welfare molto più leggero del nostro e non insidiato
79
G. E. VALORI, op. cit., pagg.45-8.
71
a breve dal rapido invecchiamento, sia ai paesi in via di sviluppo che attualmente
hanno meno anziani da curare, per meno tempo, e una maggiore popolazione
attiva.
I demografi fanno riferimento al tasso di sostituzione, ovvero quel tasso di
natalità che permette il mantenimento della popolazione, che è tradizionalmente di
2.1, ovvero due nati per ogni coppia più la percentuale di 0.1 che rimpiazza i nati
morti, la mortalità infantile media, la quota di coppie non fertili ecc. La
depressione demografica, cioè l'incapacità delle generazioni di "sostituirsi"
aritmeticamente l'una all'altra e quindi di determinare una maggiore o minore
diminuzione di popolazione, è meno accentuata nell'Europa del Nord, ossia Gran
Bretagna, Paesi Scandinavi, Francia, e più acuta in quella centrale e mediterranea,
in particolare Germania, Penisola Iberica e Italia. La vecchia Europa sta
diventando un continente popolato da anziani, e poiché le logiche demografiche
provocano effetti di lunga durata, l’evoluzione dell’Europa avrà sicuramente delle
ripercussioni geopolitiche: quelle esterne, che riguardano l’insieme di condizioni
che influenzeranno i rapporti dell’Europa con il resto del mondo, e quelle interne,
relative cioè ai rapporti tra i vari Stati membri. Se proseguisse il trend di questo
periodo in Germania, ad esempio, alla fine del secolo si prevedono 25 milioni di
tedeschi anziché gli attuali 80, supportati da circa 250 mila immigrati l'anno che
potrebbero garantire una popolazione totale a malapena di 40-50 milioni. Al di
fuori del vecchio continente Russia e Giappone presentano fenomeni di declino
demografico molto simili all'Europa. La Russia, in particolar modo, sta
affrontando una crisi demografica senza precedenti che potrebbe rendere difficile
per Mosca implementare le sue agende economiche e diplomatiche in futuro: i
dati parlano di una diminuzione di un milione di abitanti per anno, che porterà
verso una prossima crisi della "massa critica" demografica in grado di mantenere
l'enorme struttura della Federazione. La Russia si trova dinanzi ad un fenomeno
unico, un tasso di mortalità molto alto per un paese relativamente sviluppato che
si aggiunge ad un tasso di fertilità molto basso, calato drammaticamente dopo la
fine dell’era comunista ed ora sotto il livello di sostituzione. Si prevede, per la
72
metà del secolo, una diminuzione di abitanti di circa il 25-30 per cento rispetto
agli attuali, e in aggiunta anche una differente ripartizione tra slavi e islamici,
questi ultimi in costante aumento. Nel 2050 si prevede inoltre l’esplosione della
popolazione dell'India, che raggiungerà 1,5 miliardi di abitanti, sorpassando così
la Cina, che sconta le politiche di blocco demografico, ma che si troverà
comunque ad affrontare una popolazione di molto superiore al miliardo.
L’età media delle aree economicamente più sviluppate del globo è maggiore
di 13 anni rispetto a quella riscontrata nelle zone economicamente meno
sviluppate, e arriva ad essere addirittura di 20 anni superiore a quella riscontrabile
nei paesi agli ultimi posti della classifica mondiale dello sviluppo. Si prevede che
in Europa, l’età media passerà da 37.7 anni nel 2003, ai 52.3 anni nel 2050,
mentre negli USA aumenterà solo fino a 35.4 anni80. In pieno contrasto con questi
dati, in 15 paesi, quasi tutti posti nel territorio africano, nel 2050 la maggioranza
della popolazione avrà un’età media di meno di 25 anni. Da tempo è aperto il
dibattito sulla dinamica della popolazione nelle società industrializzate, ma solo
recentemente la geopolitica ha iniziato ad approfondire il tema in chiave
strategica, proiettando gli orizzonti oltre la metà di questo secolo. Le analisi
internazionali cercano di scomporre i dati globali, i quali indicano, come è noto, la
forte crescita demografica mondiale del Ventesimo secolo (da 1,6 a 6,1 miliardi di
persone) e il proseguimento di questo trend anche durante il Ventunesimo secolo,
che dovrebbe portare al raggiungimento di una popolazione di nove miliardi.
Purtroppo tutti questi dati su scala mondiale hanno una rilevanza statistica ma non
strategica, in quanto rappresentano unicamente le medie di variabili assolutamente
non omogenee nelle varie regioni del pianeta. Andando nello specifico la
popolazione nel bacino del Mediterraneo potrebbe raggiungere nel 2025 i 500-600
milioni di abitanti, quasi il doppio rispetto gli anni Ottanta; ma mentre fino agli
anni Cinquanta i due terzi della popolazione erano concentrati nel nord del bacino,
dalla Spagna alla Grecia, nel 2025 la situazione si capovolgerà e solo un terzo
80
G. E. VALORI, op. cit., pagg.50-1.
73
degli abitanti occuperà la parte settentrionale, a causa della concomitanza tra
crescita zero europea e alto incremento demografico dei Paesi arabi. Le tendenze
di fertilità sono alla radice degli scenari geopolitici prospettici dell'intera regione:
i livelli sono sotto la soglia di sostituzione della popolazione nel nord (2,1
bambini per donna in età fertile) mentre gli indicatori sono molto alti nell'area
mediterranea del sud-est (5 bambini per donna).
Sono scenari, quelli che emergono, che danno l'Europa proiettata verso la
non competitività geopolitica nell'arco di pochi decenni. Ci addentriamo così in
quella che, in termini scientifici possiamo definire legge del numero o in termini
meno prosaici, “vendetta della culla”: legge che in soldoni crea una connessione
diretta tra il tasso di natalità di uno Stato e la sua capacità di influenza, e quindi
una sorta di vendetta politica da parte dei paesi meno sviluppati che sfruttano in
chiave politica il loro peso demografico. Da questa equazione ne discende
necessariamente che il calo demografico che affligge il continente europeo
determina una riduzione delle capacità politiche dell’Europa stessa: è infatti
assodato che l’Europa del XXI secolo non potrà rivendicare la stessa importanza
nelle istanze internazionali che aveva nel XX secolo. Tra i dieci paesi più popolosi
del mondo, nel 1950, ce n’erano quattro europei: Russia (nello spazio dell’attuale
Federazione), Germania (unificata), Gran Bretagna e Italia; attualmente solo la
Federazione Russa sopravvive tra i primi dieci, ma anche lei uscirà dalla classifica
nel 2050. Nel G8 l’Europa da sola vanta ben quattro rappresentanti, ma a ben
vedere si tratta di Paesi che contano meno di 100 milioni di abitanti ciascuno;
paesi che oltretutto hanno
visto il proprio peso demografico diminuire
vertiginosamente: il tutto a fronte invece della implacabile ascesa demografica dei
paesi meno sviluppati del mondo. Per questa ragione oggi il G8 ha cessato di
essere rappresentativo: raccoglie infatti solo il 13.1% della popolazione mondiale;
e per questa stessa ragione è stato allargato a G20, aprendosi soprattutto nei
confronti di cinque paesi emergenti: Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa.
La somma della popolazione di questi cinque paesi emergenti è di 2.792 milioni di
abitanti, il 42.2% della popolazione mondiale. Con la sua economia sviluppata
74
l’Europa anche in seno al G20 può comunque contare su una forte presenza, con
ben quattro rappresentanti, ma è chiaro che l’allargamento del G8 significa il suo
calo relativo d’influenza, riflesso anche della diminuzione nell’evoluzione
demografica.
Da oggi al 2075, secondo il Demography Watch, la popolazione mondiale
dovrebbe aumentare di circa il 50%, e l’aumento sarà concentrato soprattutto in
Africa, in Asia e nell’America latina. Le tensioni che questi squilibri demografici
provocheranno, le massicce emigrazioni, i nuovi assetti culturali, gli sradicamenti
saranno giganteschi. I “latinos” a metà del XXI secolo saranno negli Stati Uniti
140 milioni, cioè il 34% della popolazione. Dato che le riserve del pianeta sono un
bene limitato, si dovrà diminuire lo standard di vita dei ricchi e il loro piacere di
consumare per elevare il livello sociale dei poveri, si dovrà affrontare
un’immigrazione crescente, si dovranno cambiare i sistemi pensionistici e sanitari.
Non esiste una necessaria relazione inversa tra nascite e migrazione, nel senso che
se sono basse le prime debbono essere alte le seconde, e viceversa. Che il più
delle volte questa relazione esista è irrilevante: nello stesso mondo occidentale
esistono casi opposti e sorprendenti, come quello degli Stati Uniti, con buona
riproduzione biologica e alta riproduzione sociale, e quello del Giappone dove
ambedue sono compresse. D'altra parte, ogni società è libera di stabilire il suo
"mix" riproduttivo: esistono società completamente sigillate all'immigrazione e
altre notevolmente aperte, con costi e benefici per i cittadini e per la collettività di
svariata natura e livello. Recenti studi finanziari e demografici hanno rivelato che
nel 2030 la maggior parte della classe media mondiale proverrà da Cina e India
che rappresenteranno circa il 45% della classe media mondiale.
Strettamente connessi con i fattori demografici sono sempre stati altri
fenomeni di rilevante importanza geopolitica, in primo luogo l’aumento della
tendenza alla conflittualità sia interna che internazionale. Essa è sempre stata più
elevata nelle società in cui i giovani sono più numerosi degli anziani. In secondo
luogo, l’urbanizzazione, che oggi ha assunto dimensioni incontrollabili, accresce
la conflittualità interna, indebolendo le strutture e gli equilibri sociali tradizionali.
75
È sintomatico il fatto che il reclutamento del terrorismo islamico avvenga nei
sobborghi delle metropoli e tra gli studenti all’estero. Le conseguenze
geopolitiche della demografia e delle religioni sono sempre più attentamente
considerate, nei paesi ortodossi e in quelli islamici la religione costituisce una
componente essenziale dell’identità o, se si vuole, della civiltà.
Tra i nuovi strumenti politici quello dei mezzi di comunicazione di massa
appare come uno dei più potenti e dei più temibili. La conquista dell’ascolto di
massa su scala mondiale scatena battaglie epiche, tant’è che alcuni gruppi
industriali si sono impegnati in una guerra all’ultimo sangue per il controllo dei
mezzi multimediali e delle autostrade dell’informazione. I media hanno ormai una
copertura globale e agiscono in tempo reale, influiscono sui modi e quindi sui
contenuti della politica; le democrazie rappresentative vengono sfidate
continuamente dai media, dai sondaggi, oltre che dal mercato globalizzato. Il
connubio dell’informatica, delle telecomunicazioni e della televisione ha
provocato una vera rivoluzione, che ha portato ad un aumento delle possibilità di
comunicazione e lo sviluppo di nuove abitudini81. Per la prima volta nella storia i
messaggi audiovisivi sono rivolti di continuo a tutto il mondo attraverso i canali
televisivi collegati via satellite. Alcuni gruppi economici, più potenti degli stati,
fanno razzia del bene più prezioso delle democrazie, l’informazione, per
trasformarla in pensiero unico che sostenga i loro obiettivi e le loro scelte.
Viviamo in un mondo dove agli attori tradizionali si sono affiancati una miriade di
attori non-tradizionali che diventano sempre più protagonisti delle relazioni
internazionali. Ne è un esempio Al-Jazeera, la rete televisiva controllata
dall’emiro del Qatar che ha funzionato da amplificatore delle aspirazioni libertarie
di tutto il mondo arabo. Le prime trasmissioni di Al-Jazeera risalgono al primo
novembre 1996, ma fu solo a partire dal primo gennaio 1999 che la televisione
iniziò a trasmettere 24 ore su 24. Primo canale all-news in arabo nel quale il
notiziario e l’approfondimento si alternano senza posa 24 ore su 24, Al-Jazeera ha
81
IGNACIO RAMONET, op. cit., pag.13.
76
raggiunto il suo picco di popolarità e gradimento portando nelle case del cittadino
argomenti considerati tabù dagli organi di stampa locali. L’emittente è stata molto
spesso sotto accusa non solo da parte di governi arabi, i quali ritengono che la rete
satellitare sia finanziata da Israele, ma anche da Washington e Tel Aviv che
accusano la rete di sobillare il terrorismo e la violenza in Palestina82. Al-Jazeera
ha dato ampio spazio ai partiti e ai movimenti di opposizione al regime di
Mubarak: dai membri del partito Wafd, ai nasseriani, a personalità dei Fratelli
musulmani. Inoltre, la rete qatariota ha trattato con coraggio scomode questioni
interne quali la condizione delle minoranze, in special modo dei copti, e il rispetto
dei diritti umani, gettando forte discredito sulle politiche dei governi arabi e sulla
promozione della democrazia in Egitto. Al-Jazeera, dimostrando una grande
capacità di interazione con gli strumenti più amati dalle giovani generazioni arabe
ha continuato a diffondere notizie, immagini e video anche attraverso Facebook,
Youtube, Twitter e il suo servizio di informazione tramite telefono Al-Jazeera
Mobile. Con il blocco di Internet imposto dalle autorità egiziane i canali arabi allnews come Al-Jazeera e Al-Arabiya hanno visto accrescere ulteriormente la loro
importanza come fonti di informazione alternative alla televisione di stato
egiziana. Anche i tentativi di censura nei confronti dell’emittente araba si sono
dimostrati inutili perché Al-Jazeera è riuscita ad accordarsi con altre emittenti
arabe per la ritrasmissione delle proprie immagini su NileSat, vanificando gli
sforzi delle autorità egiziane83. Sebbene Al-Jazeera non sia stata certamente la
causa delle rivoluzioni, essa ha comunque rappresentato un fattore determinante
per la loro diffusione, tenuta e riuscita. Attraverso le sue immagini, i giovani
egiziani hanno visto i loro coetanei tunisini riuscire in quella che era considerata,
sino a pochi mesi prima, un’impresa senza speranza. L’impatto emotivo di questo
fatto non può essere sottovalutato. Il fattore Al-Jazeera non è certo estraneo allo
scoppio praticamente in contemporanea delle proteste popolari in Giordania, delle
82
LIMES, vol. 1/2003, pag.90.
83
LIMES, vol. 1/2011, pag.199.
77
manifestazioni di giubilo in tutto il mondo arabo, dal Marocco a Gaza o, ancora
del diffondersi degli slogan della rivoluzione in Yemen e Bahrein. Il governo del
Qatar, finanziatore unico di Al-Jazeera, quindici anni fa espressione di un piccolo
stato strategicamente insignificante, è ora uno dei più importanti attori politici
regionali. È importante comprendere in che modo tanto l’aiuto che Al-Jazeera ha
dato alla piazza egiziana quanto il tornaconto in termini di popolarità globale
ottenuto per il network dalla copertura della rivoluzione egiziana, siano oggi
funzionali alla diplomazia di Doha.
Non possiamo dimenticare l’apporto fondamentale che hanno dato ai
giovani del Cairo alcuni strumenti mediatici come Google, Facebook, Youtube e
Twitter, che hanno l’invidiabile capacità di aumentare la velocità delle
comunicazioni. I social media sono siti dove gli individui si connettono tra di loro
per scambiare idee, pensieri, sensazioni. Facebook è in testa alla classifica dei
social network più seguiti e, generalmente, nella gran parte dei paesi, è seguito al
secondo posto da Twitter e Linkedin. Ma poi ci sono realtà locali come Qzone in
Cina, Orkut in Brasile e Odnoklassniki in Russia. Tradizionalmente, tv e stampa
erano in grado di dominare l’agenda politica e, in qualche modo, di decidere cosa
contava in una elezione. I social media hanno cambiato l’equilibrio, dando più
voce alla gente comune che non si fida più dei politici e dei giornalisti come un
tempo. Le persone si fidano l’una dell’altra: è questa la genialità del concetto di
dare l’amicizia su Facebook o twittare una notizia. I social network consentono un
poderoso spostamento di credibilità e titolarità dell’agire politico. In un suo
manifesto rivolto agli indignados americani, il neuro linguista George Lakoff
indica proprio nella rete la frontiera di questo sforzo di democrazia.
Dall’entusiasmo per la primavera araba, con la sua esplosione di tweet e speranze
in bilico, la comunicazione politica sa di dover imparare, e molto. Grazie alla
crescita, alla velocità e al carattere personale della piattaforma di microblogging,
chiunque con un minuto libero e un account di Twitter può accedere e trovarsi a
far parte di una battaglia nazionale a suon di messaggi. E i punti di forza di uno
strumento come Twitter, la sua volatilità, il vociare ciarliero, la leggerezza,
78
possono trasformarsi in altrettanti handicap per un leader. La rete permette a
chiunque lo desideri di accedere, a bassissimo costo e velocemente, a tutte le
notizie possibili e immaginabili. Vere o false che siano, si tratta comunque di
informazioni non sottoposte a censura, esplicita o tacita. Internet permette, inoltre,
di comprare a distanza qualsiasi libro, nuovo o usato, pubblicato in qualsiasi città
del mondo, e di riceverlo a casa in meno di una settimana. Il trinomio da
considerare è soprattutto facebook-youtube-twitter, ovvero i siti più importanti del
web 2.0. Dopo l’invenzione della tv satellitare, questi tre siti rappresentano un
mezzo ancora più efficace , rapido e massiccio di mobilitazione, più pervasivo
degli sms e soprattutto, non va dimenticato, gratuito. Youtube ha permesso a ogni
persona di improvvisarsi giornalista o regista:video di protesta e testimonianza,
video artistici o comici. Facebook è stato il megacontenitore multimediale ovvero
la piattaforma gratuita in cui le informazioni audiovisive di youtube e dei video
personali degli utenti, le informazioni visive delle foto digitali e l’interazione tra
utenti dei gruppi hanno potuto incontrarsi in un solo luogo. Dalla notte del 27/28
gennaio all’alba del 2 febbraio, facebook è stato oscurato in Egitto, insieme ad AlJazeera: successivamente sono stati bloccati anche i cellulari e poi l’intera rete di
Internet. L’uso rivoluzionario dei social media da parte degli egiziani non è una
novità: è ben noto il ruolo svolto dai social network sulle elezioni presidenziali
americane del 2008, che hanno reso Barack Obama il primo presidente 2.0.
Facebook, in particolare, ha funzionato in Egitto come infrastruttura
organizzativa, come strumento di reclutamento di possibili militanti e come
piattaforma nella quale i tunisini hanno passato i loro consigli e le loro tecniche
agli egiziani. Il social network è servito da fonte di informazione alternativa allo
strapotere di tv e carta stampata. Al posto di un’informazione tradizionale passiva,
subita e democratica i nuovi media creano un’informazione attiva, partecipata e
democratica dove si sceglie cosa vedere e cosa leggere, a cosa aderire e a cosa non
aderire, dove alla censura imposta dall’alto si sostituisce l’autocensura e quella del
gruppo. È chiaro, però, che non è Facebook ad aver fatto la rivoluzione. Sono
state, invece, i milioni di persone che si sono voluti aggregare a questo piccolo
79
gruppo di trascinatori consci e ben organizzati nel quale non mancavano persone
che avevano imparato da altre rivoluzioni.
Le società informatiche e i loro software occupano ormai un posto centrale
nella diplomazia dei diritti umani. Il partito cinese, per chiudere al popolo gli
sterminati spazi del cyberspazio, ha allestito la cosiddetta Great Firewall. Fin
dall’inizio, l’architettura Internet della Cina è stata concepita per permetterne un
controllo capillare: tutto il traffico cinese online passa attraverso soltanto tre hub.
Non importa quale ISP l’utente scelga, le e-mail e i file che scarica o invia devono
necessariamente passare per uno di quei tre hub. La volontà di controllo del
regime cinese ha preso di mira anche i motori di ricerca. Per accedere ad un
immenso mercato, diverse imprese statunitensi hanno accettato di sottostare alle
richieste cinesi84.Google, Yahoo! e Microsoft hanno ricevuto pesanti critiche in
Occidente per essersi piegate alle condizioni imposte dal regime cinese e sono
state colte alla sprovvista quando il governo cinese le ha costrette a fornire i dati
degli utenti per perseguire i blogger democratici del paese. Ma Google ha poi
reagito sfidando apertamente Pechino nel dichiarare la volontà di operare senza
restrizioni, pena il ritiro da quel mercato. Google ha annunciato che avrebbe
dirottato i suoi utenti cinesi su Hong-Kong dove le restrizioni delle autorità cinesi
non avrebbero avuto efficacia. Il conflitto giunge in un momento in cui anche le
relazioni tra i due stati non sono delle migliori, a causa dei contrasti sulle valute;
entrambi i governi, però, hanno teso a minimizzare l’accaduto. È una battaglia di
idee: da una parte Internet che è stato per il mondo occidentale la quintessenza del
libero scambio di idee e informazioni, dall’altra il governo cinese che ha
dimostrato chiaramente come si possa filtrare e controllare la rete.
84
IAN BREMMER, op. cit., pagg.309-10.
80
CAPITOLO VI
CONCLUSIONI
Il forte collegamento che la geopolitica ha con il presente, le offre la
possibilità di analizzare le criticità formatesi, fornire previsioni sul mondo che
verrà, prevedere situazioni future. Gli studiosi di geopolitica utilizzano la tecnica
degli scenari per comprendere, sulla base dei fattori rilevanti e delle loro tendenze,
in quali direzioni la situazione politica potrebbe evolversi e quali strategie e
strumenti politici potrebbero essere impiegati per costruire un futuro più aderente
alle proprie visioni. È proprio questo il motivo alla base del successo di questa
scienza che rende impossibile ignorarla quando si parla di questioni di politica
internazionale.
Politici, presidenti, primi ministri del passato hanno basato i loro concetti
strategici sulle “analisi” fornite dalla geopolitica. Le ambizioni revisioniste della
Germania nazista avevano una base pseudo-scientifica nella geopolitica di Ratzel
e di Haushofer, i primi ad introdurre il concetto di “spazio vitale”. La dottrina del
containement propugnava la costituzione di una rete di alleanze tutt’intorno
all’Unione Sovietica, allo scopo di contenerne l’espansionismo, che riprendeva il
concetto di Rimland introdotto da Spykman: questa dottrina ha trovato la sua
massima espressione nella costituzione della Nato. Allo stesso tempo, la teoria del
domino, che sosteneva come ogni cedimento nelle aree interposte tra i due blocchi
potesse provocare il cedimento del sistema di controllo americano del Rimland ha
supportato l’impegno americano nel Vietnam e in tutta la Guerra Fredda.
La geopolitica attuale è in rapida evoluzione e il mondo del XXI secolo è
caratterizzato dall’aumento delle interdipendenze, frutto della globalizzazione e
della rivoluzione delle tecnologie dell’informazione, nonché dall’accelerazione
dei mutamenti economici, sociali, demografici. Essi determinano l’adeguamento
della politica degli Stati alle mutate condizioni dei contesti interno ed
internazionale. Con la comparsa dei due colossi asiatici, Cina e India, con la
rinascita della Russia e del Giappone e con il diffondersi anche in Occidente del
81
terrorismo transnazionale di matrice islamica, l’equazione geopolitica mondiale è
profondamente mutata rispetto alla sua configurazione non solo dell’inizio degli
anni novanta, ma anche del periodo immediatamente successivo all’11 settembre
2001. Allora la superiorità militare, economica e culturale degli Stati Uniti
sembrava fuori discussione. Oggi, invece, viviamo in una situazione magmatica,
viviamo alla giornata con l’incubo di eventuali crisi che potrebbero sfuggire ad
ogni controllo, creando un caos generalizzato, anziché un nuovo ordine. Le attuali
condizioni del contesto internazionale registrano una diminuzione della
cooperazione, un aumento della competizione e una minore efficacia delle regole
e istituzioni internazionali.
Nel corso degli ultimi due decenni abbiamo assistito a cambiamenti
straordinari: la disgregazione dell’Unione Sovietica e la dislocazione del suo
“impero”; il rinnovamento e l’espansione della potenza americana; l’estensione
planetaria del capitalismo commerciale e la globalizzazione; la ricomparsa della
Cina, dell’India e di altri Stati post-coloniali come attori del sistema economico e
politico internazionale; la proliferazione di attori non statali che mettono in
discussione l’autorità degli Stati nazione; la comparsa di nuove questioni e nuove
sfide globali, come il cambiamento climatico; infine, la crisi sistemica
dell’economia capitalista mondiale che imperversa tuttora. Il continuo evolversi
della situazione politica mondiale ha portato politici e scienziati a teorizzare
sempre nuovi scenari, con il rischio di risultare poco coerenti con le proprie scelte.
Se il periodo successivo alla conclusione della seconda guerra mondiale era
caratterizzato da uno scenario abbastanza semplice, il cosiddetto bipolarismo,
basato sull’esistenza di due superpotenze che si contendevano il dominio in ogni
parte del mondo, il periodo post-guerra fredda ha presentato una complessità
continua di sistema che ha costretto gli studiosi di geopolitica a riformulare
continuamente le loro proposizioni. La sconfitta e la successiva disgregazione
dell’Unione Sovietica ha portato gli studiosi di geopolitica a sostenere la presenza
di un mondo unipolare, cioè con una sola potenza dominante, gli Stati Uniti.
82
Secondo diversi studiosi lo scacchiere politico internazionale è destinato a
rimanere, per molto tempo, incontestabilmente unipolare. Gli Stati Uniti sono
l’unica superpotenza sopravvissuta a un processo che ha visto ridurre il loro
numero da tre a una in meno di un secolo, con il declassamento di Gran Bretagna
e Unione Sovietica. La definizione di mondo unipolare si deve a Charles
Krauthammer che la esplicita in un suo articolo su Foreign Affairs del 1990.
Secondo Krauthammer, agli inizi degli anni ‘90, il mondo post Guerra Fredda è
ormai un mondo unipolare, cioè con una sola potenza, gli Stati Uniti, che domina
incontrastata il panorama politico mondiale. Non mancano potenze di rilievo
come Germania, Giappone, Francia, Inghilterra e la stessa Unione Sovietica per le
quali l’autore prevede un futuro alla pari con gli USA. Il predominio americano si
basa sul fatto di essere il solo paese con i fattori diplomatici, militari, politici ed
economici decisivi in ogni conflitto, in qualsiasi parte del globo. Il momento
unipolare sta a significare che con la fine delle tre grandi guerre del XX secolo (I
e II guerra mondiale, Guerra Fredda) un nord ideologicamente pacificato ricerca
sicurezza e ordine allineando le proprie politiche estere a quelle degli Stati Uniti.
C’è una sola potenza in grado di agire in solitaria, ma che in alcuni scenari
richiede il supporto delle altre potenze minori. L’America potrà continuare in
questa posizione finché sarà sostenuta dalla sua economia, finché i suoi problemi
interni non prevarranno, finché i suoi cittadini sosterranno una forte politica estera
interventista. L’alternativa a quest’ordine unipolare è il ritorno all’isolazionismo
americano che non condurrà ad un mondo multipolare e stabile, bensì al caos
generalizzato; l’unica salvezza per Krauthammer sta nella forza e nella volontà
americane di imporsi85.
In La grande scacchiera, libro pubblicato nel 1989, Zbigniew Brzezinski
descrive gli USA come l’unica superpotenza globale e l’Eurasia come il terreno
sul quale si giocherà il futuro del mondo, mentre in Europa paesi chiave
resteranno Francia e Germania, e in estremo Oriente sarà la Cina a conquistare
85
CHARLES KRAUTHAMMER, The unipolar moment, New York, Foreign Affairs vol.70, 1990.
83
una posizione predominante. Nessuna nazione, al momento, può stare alla pari
con gli USA, se si considerano nel complesso quattro dimensioni fondamentali
(militare, economica, tecnologica e culturale). Ma non vanno trascurati i rischi di
un possibile disordine globale, dovuto alla frantumazione dell’attuale stabilità
geopolitica, basata sullo Stato-nazione. Il compito degli USA sarà di tenere sotto
controllo l’ascesa di altre potenze regionali e questo comporta, come obiettivo a
medio termine, un’azione di effettive alleanze: con un’Europa più unita e meglio
definita politicamente, con una Cina predominante nella regione asiatica, con una
Russia post-imperialista rivolta verso Occidente e, agli estremi confini meridionali
dell’Eurasia, con un’India democratica. Ne consegue che un’Europa più vasta e
una NATO allargata gioveranno al perseguimento degli obiettivi a breve e a lungo
termine della politica estera americana. Un’intesa strategica fra Stati Uniti e Cina
volta a sottrarre zone di rispettivo interesse all’eventuale predominio di altre
potenze è pertanto un’esigenza ineludibile. Una fase prolungata di graduale
espansione della cooperazione con i più importanti partner euroasiatici può
contribuire inoltre a creare le precondizioni di un ammodernamento delle attuali
strutture dell’ONU. Nel corso dei prossimi decenni potrebbe prendere corpo una
struttura operativa di cooperazione mondiale, basata su molteplici realtà
geopolitiche, che gradualmente sostituirebbe l’attuale reggente dei destini del
mondo, cui fino ad allora spetterà il compito di assicurare la stabilità e la pace su
questa terra86.
Secondo Alexander Lomanov, analista della rivista Russia in Global Affairs,
gli USA cominciano a preoccuparsi del fatto che l’era del loro incontrastato
dominio sia giunta alla fine, a favore di una Cina che nei prossimi anni
raggiungerà la prima posizione economica nel mondo: dal 2020 raggiungerà la
parità di PIL con gli USA che doppierà invece nel 2050. La Cina potrà acquisire
lo status di leader economico globale nonostante possegga ancora un sistema
politico basato sul partito unico e l’aderenza ad un socialismo di marca cinese.
86
ZBIGNIEW BRZEZINSKI, La grande scacchiera, Milano, Longanesi & C., 1998.
84
L’entrata della Cina nel sistema economico globale con l’assunzione di regole
accettate universalmente potrebbe accelerare anche il processo di riforma interna,
con il Giappone che potrebbe fare da tramite. La possibilità di una Cina leader è
emersa in maniera così palese che, a differenza del passato, adesso tutti cercano di
diventare amici dei cinesi. Il fascino del sistema cinese sembra esercitarsi
soprattutto sui paesi dell’Europa dell’Est e sui nuovi membri UE, le cui aziende
combattono ormai lotte quotidiane per assicurarsi fette di mercato e sostegno
economico cinese. In questo ambito Washington potrebbe riciclarsi mostrandosi
come l’unico partner occidentale affidabile esasperando i conflitti e le differenze
di vedute con la Cina. Le dispute con la Cina non riguardano solo l’economia: gli
USA esasperano la Cina per le mire espansionistiche su Taiwan, la loro mancanza
di trasparenza nel processo di ricostruzione delle loro forze armate, così come del
supporto fornito a Myanmar e Sudan. Ma aldilà di tutto, secondo Lomanov, la
futura stabilità globale può essere assicurata solo da un condominio di potere
Sino-Americano87.
La lettura geopolitica proposta da Fareed Zakaria nel suo libro L’era postamericana è davvero dirompente sia per i temi proposti che per il linguaggio
utilizzato. L’opinione di Zakaria è che viviamo in un sistema internazionale
ibrido, più interconnesso, più democratico, più dinamico, molto difficile da
definire: l’era post-americana. L’autore di origini indiane afferma che viviamo nel
mondo meno rischioso di sempre, eppure siamo pervasi da una sindrome da
“paura liquida” che ha risvolti politici drammatici: gli stati, in particolar modo
quelli occidentali, compiono scelte politiche che sarebbero state giustificate nel
periodo in cui lo stato era una macchina da guerra prestata occasionalmente alla
pace, ma che sono totalmente inadeguate se riferite alle esigenze del mondo
moderno, dove la competizione economica tra i popoli e le nazioni marginalizza il
ruolo dei confronti di tipo strategico–militare. In un mondo economicamente
87
ALEXANDER LOMANOV, Multipolar Hegemony, Moscow, Russia In Global Affairs, vol. n°4,
October-December 2008.
85
democratico e con maggiore competitività, nessun attore geopolitico potrà più
permettersi investimenti errati, atteggiamenti di superiorità culturale, paternalismi
politici o parassitismi geoeconomici; il rischio è la perdita di competitività e di
spazi a livello economico e, quindi, il declino geopolitico. L’apertura verso gli
altri, all’interno e all’esterno delle società, è, secondo Zakaria, l’arma vincente
che può consentire all’Occidente di partecipare alla partita globale con rinnovate
possibilità di vittoria: se la posta in palio sono gli spazi economici, la
competitività di ogni soggetto geopolitico potrà essere assicurata solo dalle nuove
idee, dal coraggio di accettare i fallimenti come nuovi punti di partenza. Per
questo motivo, i giovani, le donne, gli immigrati, le forze sociali più qualificate,
coraggiose ed entusiaste sono, secondo Zakaria, le armi nucleari del Ventunesimo
Secolo: esse sapranno regalare potere a chi saprà includerle e valorizzarle
attraverso un idoneo progetto di sviluppo. La geopolitica moderna deve di
conseguenza saper stare al passo coi tempi aprendosi alle vere esigenze del mondo
moderno, che richiede non solo la comprensione dello scenario globale, ma anche
l’elaborazione di strategie d’azione maggiormente condivise e legittimate; la
geopolitica deve sapersi dunque “democratizzare” comunicando nel modo più
semplice possibile, coinvolgendo nel dibattito geopolitico nazionale, regionale e
globale gli uomini e le donne di ogni estrazione sociale. La geopolitica deve saper
andare oltre la guerra fredda e oltre le paure liquide, oltre ciò che è stata fino ad
ora una “cosa per pochi”88.
Richard Haas del Council on Foreign Relations, in un articolo pubblicato su
Foreign Affairs, sostiene la tesi che il futuro delle relazioni internazionali è
l’assenza di un polo egemone, cioè un mondo dominato non da uno stato o da
un’unione formale di stati, ma da una dozzina di attori che posseggono ed
esercitano vari livelli di potere. Un numero consistente di questi centri di potere
non sono stati-nazione, bensì organizzazioni regionali e globali, milizie locali, e
una serie di organizzazioni non governative e corporation. Lo scenario di Haas
88
FAREED ZAKARIA, L’era post-americana, Milano, Rizzoli, 2008.
86
prevede, in aggiunta alle grandi potenze riconosciute dalla storia e dalla situazione
attuale, la presenza di numerose potenze regionali (Brasile, Cile, Messico, Sud
Africa, Egitto, Iran, Israele, Indonesia, Malesia, Corea del Sud), una serie di
organizzazioni globali (FMI, ONU, Banca Mondiale) regionali (Unione Africana,
Lega Araba, ASEAN, UE) e funzionali (AIEA, OPEC, SCO, OMS), regioni
(California, Uttar Pradesh) e megacittà (New York, San Paolo, Shanghai),
multinazionali, media (CNN, Al-Jazeera, BBC), milizie (Hamas, Hezbollah,
Talebani), partiti politici, istituzioni religiose, organizzazioni terroristiche e
mafiose, ONG. Questo scenario sottolinea come l’unipolarismo americano stia
volgendo alla fine, e tre sono le ragioni che confermano questo trend. La prima
motivazione è essenzialmente storica: le nazioni si evolvono durante il corso degli
anni e riescono ad ottenere l’unione dei fattori umano, tecnologico e finanziario
che conducono alla prosperità. La seconda motivazione è tutta interna agli USA e
riguarda la loro politica: gli Stati Uniti hanno permesso l’emergere di nuovi centri
di potere, confidando nella possibilità di controllarli, ma indebolendo la propria
posizione egemonica. La terza ragione riguarda la globalizzazione che ha
incrementato il volume, la velocità e l’importanza di ogni tipo di risorsa,
indebolendo i controlli statali e rafforzando il potere degli attori non-statali.
Secondo Richard Haas in un mondo senza poli sarà molto difficile, quando la
situazione lo richiederà, costruire risposte collettive e far sì che queste funzionino,
così come saranno aumentati il numero e il tipo delle minacce e delle vulnerabilità
che ogni paese dovrà affrontare. Gli USA possono fare degli sforzi per evitare una
situazione di instabilità perpetua, attraverso azioni riguardanti l’energia (riduzione
dei livelli di consumo), la sicurezza (interna ed esterna , riducendo l’impatto che
eventuali attacchi possono avere), il commercio (implementarlo perché
diminuisce i potenziali di attrito), gli investimenti (attraverso la creazione di
un’Organizzazione Mondiale degli Investimenti), gli armamenti (incrementando
la capacità di prevenire gli stati falliti). L’assenza di poli aggreganti sarà molto
87
pericolosa, ma stabilendo un gruppo di governi e organizzazioni che provvedano a
creare un multilateralismo cooperativo sarà possibile diminuire la conflittualità89.
L’analisi della struttura polare non basta, però, a comprendere le dinamiche
della politica internazionale, secondo la tesi esposta con lucidità e forza da Barry
Buzan nel suo libro più famoso, Il Gioco delle potenze, la politica mondiale nel
XXI secolo. Oltre all’aspetto prettamente materialista dei rapporti di potere, che si
esplicitano nella polarità, si deve considerare, secondo Buzan, anche l’aspetto
dell’identità, ovvero l’ideologia degli attori della politica internazionale. A
seconda dell’affinità ideologica le potenze interagiscono tra di loro come amiche,
rivali o nemiche e solo l’implicita assunzione di inimicizia ha reso la struttura
bipolare fortemente esplicativa della dinamica innescatasi nel corso della Guerra
fredda. Il sistema attuale può essere descritto, in termini di polarità, come 1+4,
con quattro grandi potenze (Unione Europea, Cina, Giappone e Russia) che si
affiancano all’unica superpotenza esistente. Lo status di superpotenza degli USA
gli deriva dalla possibilità, economica e militare, di esercitare la propria influenza
in ogni angolo del mondo, dalla volontà politica di farlo e dalla legittimazione da
parte degli altri attori internazionali. La grande potenza si distingue dalla
superpotenza per il fatto di non avere lo stesso ampio spettro di possibilità (la
Russia, per esempio, è temibile militarmente ma non economicamente, mentre per
l’Unione Europea vale l’inverso) e per essere attiva non a livello globale ma
soltanto sovra regionale. I rapporti di amicizia, rivalità e inimicizia che si
instaureranno tra le grandi potenze, e tra queste e la superpotenza, saranno quelli
che determineranno la futura struttura polare. Le distanze economiche e
soprattutto militari sono, secondo Buzan, tali da rendere del tutto improbabile
ogni cambiamento nella gerarchia di potere per i prossimi vent’anni. Dopo di
allora, però, lo scenario alternativo considerato più probabile da Buzan non è un
ritorno a un mondo bi o tripolare (con Unione Europea e Cina unici candidati
realistici alla promozione al rango di superpotenza), bensì un annullamento del
89
RICHARD N. HAAS, The age of Nonpolarity, New York, Foreign Affairs, vol.May/June 2008.
88
numero delle superpotenze, con il declassamento degli stessi Stati Uniti:
potrebbero venire meno la volontà politica degli Stati Uniti di esercitare un ruolo
globale o mancare la legittimazione a farlo da parte delle grandi potenze. Sostiene
Buzan che dalla fine della Guerra fredda, e in modo più marcato con
l’amministrazione Bush, gli Stati Uniti sembrano avere abbandonato l’approccio
multilaterale che, attraverso la costituzione e l’appoggio a organismi
sovranazionali come l’Onu e la Nato, aveva contribuito a creare quell’affinità
ideologica dell’Occidente che sosteneva la leadership americana. Il crescente
unilateralismo, il manicheismo con cui viene giudicato il comportamento dei
partner internazionali e l’ossessione per la sicurezza che porta gli Stati Uniti a
sovra reagire a ogni minaccia potrebbero contribuire alla loro delegittimazione,
mentre il costo economico e umano di iniziative belliche unilaterali potrebbe
spingere l’America a una riconsiderazione del proprio ruolo nel mondo. Le grandi
potenze, e in particolare l’Unione Europea, possono influire in modo sostanziale
sul dibattito politico americano e sugli atteggiamenti imperialisti della
superpotenza: dosando sapientemente lealtà e pressioni, le grandi potenze possono
far capire al leader planetario che il mondo è più complesso, e più interessante, di
quanto suggerirebbe una semplicistica interpretazione dell’unipolarismo90.
Secondo Francis Fukuyama con il 1989 e il crollo del blocco sovietico, la
«Storia» è finita91. Ma quella di cui parlava non era, naturalmente, la storia intesa
come ininterrotta successione di eventi, scoperte scientifiche e guerre, ma la
«Storia» come processo unico e coerente, che tiene conto delle esperienze di tutti i
popoli di tutti i tempi. Quando evocava l’immagine della fine della Storia,
Fukuyama puntava dunque a mostrare come nel 1989 l’evoluzione ideologica
dell’umanità avesse raggiunto il culmine, perché proprio nei giorni della caduta
del muro berlinese era venuto meno definitivamente l’ultimo grande avversario
90
BARRY BUZAN, Il Gioco delle potenze, la politica mondiale nel XXI secolo, Milano, Università
Bocconi editore, 2006.
91
FRANCIS FUKUYAMA, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
89
ideologico del progetto liberaldemocratico: la democrazia liberale aveva
conseguito la vittoria definitiva. Fukuyama poteva affermare che la Storia era
davvero finita in quei giorni, così come Hegel, in precedenza, aveva sostenuto che
la Storia si era conclusa nel 1806, il giorno della battaglia di Jena, quando gli
ideali delle rivoluzioni americana e francese avevano definitivamente sconfitto il
mondo dell’Antico regime e i suoi principi ideologici. In riferimento a quanto sta
succedendo in questi giorni nel mondo arabo, lo studioso nippo-americano ha
dichiarato in un’intervista92 che tutti questi sommovimenti sono la miglior
conferma della sua tesi. All’epoca della pubblicazione del libro, quando sostenne
che la liberaldemocrazia era lo stadio più avanzato nell’evoluzione delle società
umane, molti gli fecero notare l’eccezione araba. Gli avvenimenti odierni
mostrano che i popoli arabi non sono diversi dagli occidentali, hanno le stesse
aspirazioni, la stessa dignità: come già accaduto nel passato, vaste masse si
mobilitano perché non tollerano più di vivere sotto il giogo delle dittature. E quel
che vogliono non è molto diverso dalla democrazia intesa nel senso occidentale.
La tesi dello «scontro delle civiltà», proposta da Samuel Huntington93, è
stata spesso intesa come un’alternativa radicale all’idea della «fine della Storia».
Secondo Huntington la fine della guerra fredda, non solo non avrebbe portato
all'affermazione di un modello unico, ma anzi avrebbe liberato le diverse civiltà
dal giogo del bipolarismo politico ed ideologico U.S.A. - U.R.S.S., lasciandole
ben più libere di svilupparsi autonomamente con modi e tempi differenti tra loro.
Tale situazione non sarebbe caratterizzata da una pacifica convivenza, bensì da un
crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà. La stessa modernizzazione, uno
dei cavalli di battaglia di Fukuyama nella dimostrazione della fine della storia nel
sistema liberaldemocratico occidentale, non può infatti essere letta in modo
univoco e, soprattutto, non può essere identificata con un'occidentalizzazione tout
court. L'osservazione principale di Huntington è che gli equilibri di potere tra le
92
FRANCIS FUKUYAMA, Avevo ragione io, la storia è finita, “La repubblica”, 30 marzo 2011.
93
SAMUEL HUNTINGTON, op. cit., 2008.
90
diverse civiltà stanno mutando mentre l'influenza relativa dell'occidente è in calo.
Le diverse civiltà (Huntington ne enumera nove, di diversa importanza e con
differenti rapporti reciproci, cioè Occidentale, Latinoamericana, Africana,
Islamica, Sinica, Indù, Ortodossa, Buddista e Giapponese) stanno orientandosi
nuovamente sia su basi ideologiche (ed è questo il caso del comunismo di mercato
che caratterizza quella Sinica) sia, soprattutto, su basi religiose (come succede per
quella Islamica). L'idea di una civiltà che si afferma sulle altre come universale è
quindi, secondo Huntington, del tutto sbagliata e frutto di una visione del mondo
schematica e ancora legata ai meccanismi della guerra fredda per cui, se prima vi
erano due modelli che si fronteggiavano, ora, finito il comunismo, l'intero campo
sarebbe rimasto libero per l’affermazione del modello liberaldemocratico
occidentale. Nell'analisi di Huntington assumono poi un ruolo fondamentale le
vicende degli stati moderni, sempre meno adatti a definire il nuovo assetto
mondiale caratterizzato dalla rinascita delle civiltà: se infatti risulta fondamentale
la presenza di uno stato guida all'interno di ogni singola civiltà (gli U.S.A. nel
caso della civiltà Occidentale o la Cina nel caso di quella Sinica), è anche
altrettanto evidente che la divisione in stati ha lasciato il posto ad una divisione
per aree culturali con alleanze impensabili fino a qualche decennio fa. A questo
proposito sarà fondamentale la matrice religiosa che potrà portare, per esempio,
ad un'alleanza cristiana tra l'area Ortodossa, quella Protestante e quella Cattolica.
Esemplificativo, secondo Huntington, è poi il caso della civiltà Islamica la quale,
benché manchi di uno stato guida, sta riacquistando coscienza di sé grazie alla
matrice religiosa che è, pur nelle differenze, comune. Tali complessi meccanismi
vanno a delineare, secondo Huntington, una radicale mutazione nei rapporti
mondiali a partire dalla questione della guerra; le guerre diverrebbero sempre più
guerre di faglia, ossia scontri tra diverse civiltà che tendono a perdurare nel tempo
e che non sono caratterizzati da una precisa locazione ma possono esplodere con
violenza ovunque si incontrino gruppi appartenenti a civiltà differenti. Secondo
Huntington, infatti, spetta ora all'Asia il ruolo che fino al termine della guerra
fredda era stato svolto dall'Europa, ma in questa regione più che il Giappone,
91
l'India e le loro rispettive civiltà, potrebbero prevalere la Cina e l'Islam, capaci di
riunire potenzialità d'area più prossime a tali civiltà che all'Occidente. La
conclusione del libro parte proprio dalle premesse sopra illustrate per dipingere a
tinte fosche un terzo millennio caratterizzato da una nuova guerra mondiale in cui
saranno le civiltà a scontrarsi e non più gli stati nazionali.
La tesi di partenza di Parag Khanna94, studioso indo-americano, è che oggi
vi siano tre imperi, ossia tre superpotenze, che detengono congiuntamente la
supremazia globale, in maniera competitiva ma non apertamente ostile tra loro.
Tali tre superpotenze sarebbero USA, Cina e Unione Europea. A contare sulla
scena internazionale non sarebbero più le identità etno-culturali e religiose
tratteggiate da Huntington ma i grandi centri di potenza economica, demografica,
mediatica e naturalmente militare. Quindi non più le nove civiltà di
huntingtoniana memoria, bensì gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Cina, da
considerare come entità distinte, i cui interessi e modi di intendere il mondo sono
spesso divergenti. I tre Grandi competono fra loro in quello che l’autore definisce
un mercato geopolitico globale e già questa enunciazione specifica la valenza e il
senso della competizione, che non ha i consueti connotati militari del passato ma è
di una tipologia diversa. I tre giganti vengono definiti da Khanna amici-nemici, e
non è un termine che si attribuisce a chi è mortalmente ostile, come tutto sommato
erano gli avversari delle contrapposizioni all’ultimo sangue del recente passato.
Anche se tutti e tre possiedono e padroneggiano i consueti attributi bellici del
comando (armi nucleari in testa), la forza militare non è più l’elemento chiave di
supremazia: lo è la forza economica, istituzionale e culturale in senso lato,
l’autorevolezza e la percezione di solidità, l’abilità nell’irradiare miti e riti,
nonché la capacità di attrazione verso il resto del pianeta, soprattutto verso la
porzione di quest’ultimo costituita dai cosiddetti paesi del Secondo Mondo, i veri
protagonisti del libro non a caso menzionati nel titolo originale inglese del saggio.
Si
94
tratta,
secondo
l’autore,
di
un
PARAG KHANNA, op. cit., 2009.
92
centinaio
di
stati
caratterizzati
contemporaneamente dallo sviluppo delle loro capitali e dei maggiori centri, così
come dal sottosviluppo delle loro periferie, secondo un mix variabile ma
qualitativamente reiterato. Si tratta di nazioni che in parte aspirano a entrare
nell’elite globale e in parte rischiano di essere continuamente risucchiate nel
girone dei dannati della terra. Khanna ne ha visitati cinquanta e concentra la sua
attenzione sui resti dell’impero sovietico e di quello iugoslavo, sull’America
Latina ormai affrancata dalla Dottrina Monroe, sulla galassia araba e sui decisivi
pesi massimi e medi dell’Asia Pacifico. Per il futuro, Khanna non prevede che la
competizione fra i tre imperi si trasformi in una conflittualità di tipo militare o
equiparata, che sarebbe impedita dalla globalizzazione e dalla fitta rete di
interdipendenze che essa ha creato. Il recente miglioramento delle relazioni fra
Cina e Stati Uniti, la più critica fra le combinazioni possibili, sembrerebbe dargli
ragione: si è passati dalla competizione strategica dell’ultimo Clinton e primo
Bush jr alla partnership strategica evocata da Obama, con allegati l’immenso
interscambio fra i due colossi e il loro rapporto simbiotico fra un debitore capace
di mandare all’aria la banca creditrice e la banca medesima, che è poi anche il
produttore dei beni a basso costo che consentono all’insolvente di non collassare
ulteriormente. Siccome fra Europa e Stati Uniti, nonché fra EU e Cina, una
conflittualità aperta e violenta è ancora meno verosimile, per le evidenze che tutti
sappiamo, si può sommessamente avanzare l’ipotesi che l’epoca storica degli
scontri bellici diretti per l’egemonia planetaria sia tramontata, per impraticabilità
del campo e indisponibilità dei gladiatori. Nel suo nuovo libro lo studioso indoamericano95 implementa la sua analisi, evidenziando l’esistenza di una megadiplomazia che unisce le risorse dei governi, delle corporation e degli attori civici
che affrontano le pressanti sfide globali: nell’analizzare le turbolenze economiche,
il terrorismo, gli stati falliti, i diritti umani, la sanità, e l’ambiente Khanna fornisce
esempi illuminanti di come questa nuova mega diplomazia agisca e elevi il mondo
verso un nuovo Rinascimento.
95
PARAG KHANNA, Come si governa il mondo, Roma, Fazi Editore, 2011.
93
Ian Bremmer sostiene che il prossimo sarà un mondo G-Zero, un mondo in
cui nessuno paese singolarmente o un blocco di paesi avrà la forza economica e
militare o la volontà politica di imporre la sua agenda internazionale, con il
risultato di una maggiore conflittualità nell’agone politico. Non esisterà né un
mondo gestito dal G-20, né uno dal futuribile G-2, cioè l’unione di America e
Cina, né tantomeno un mondo G-3, cioè Stati Uniti, Unione Europea e Giappone.
Oggi gli Stati Uniti mancano delle risorse necessarie per essere il principale
fornitore di beni, l’Europa è occupata a salvare l’Eurozona mentre il Giappone sta
cercando di uscire da una crisi economica e politica che dura da tempo. Non è
nemmeno possibile ottenere risposte credibili da un coinvolgimento diretto delle
potenze emergenti di Brasile, India e Cina. Il passaggio storico dal G-7 al G-20
aveva voluto segnare l’inclusione dei paesi emergenti nel consesso economicopolitico mondiale, ma di fatto ha soltanto trasformato il “vecchio” Gruppo dei
sette in una continua arena di conflitto. Ma il conflitto generalizzato non è
confinato soltanto al G-20: le grandi potenze non hanno ancora raggiunto un
accordo sulla non proliferazione nucleare, la crisi ha minato fortemente la
cooperazione economica globale, i conflitti commerciali hanno messo l’uno
contro l’altro USA, UE, Brasile, Cina e India, esacerbando anche i contrasti sulle
valute nazionali. Non c’è più il predominio del Washington Consensus, ma
nemmeno il sopravanzare del Beijing Consensus, il quale sembra adatto a
soddisfare solo le esigenze cinesi. Tutto questo dimostra, secondo Bremmer, che
in un economia globalizzata in cui ogni paese cerca di assicurarsi sicurezza
domestica e prosperità, adattandoli alle proprie convenienze politiche,
geografiche, economiche, culturali e storiche non esiste il concetto di sicurezza
collettiva. Questo spiega perché il protezionismo sia ancora vivo e vegeto,
malgrado i propositi di evitare gli errori del passato. Il risultato finale sarà una
situazione di conflitto permanente intorno alle principali problematiche e un
94
mondo G-Zero che produrrà più conflittualità piuttosto che qualcosa di simile al
sistema creato a Bretton Woods96.
Una lettura nuova e interessante è quella di Dominique Moisi secondo cui il
mondo a venire sarà sempre più il teatro di uno scontro di emozioni e non di
civiltà: l’umanità dovrà fare i conti non solo con le frontiere geografiche e le
identità culturali, ma anche e soprattutto con il peso di sentimenti quali la paura, la
speranza, l’umiliazione. Saranno le emozioni e non la fredda ragione geopolitica a
governare il nostro pianeta, in una specie di revival romantico della politica e
della cultura mondiale. Nel saggio Geopolitica delle emozioni, lo studioso
francese propone una nuova e inedita chiave di lettura dell’universo in cui
viviamo, partendo da una parola chiave, la fiducia: l’assenza di fiducia provoca
paura, e quando la fiducia è tradita da leader incapaci e corrotti, allora subentra un
senso di umiliazione. L’occidente in crisi è stretto dalla paura, il mondo arabo è
sprofondato nell’umiliazione da cui cerca di risollevarsi, l’Asia mostra una
incredibile fiducia nel suo futuro. Trattandosi di emozioni qualsiasi schema
geopolitico può cambiare alla stessa velocità con cui cambiamo i nostri sentimenti
quotidiani e familiari97.
Questa differenza di visioni testimonia come ormai siamo entrati in una fase
geopolitica in continuo movimento, in cui prevale l’incertezza sui futuri assetti
mondiali. Ciò che la realtà rende evidente è che non esiste più un solo impero,
quello americano, ma molti imperi che nel XXI si contenderanno le leadership
regionali e un posto in prima fila nei consessi che contano. La “grande svolta” si è
prodotta nel passaggio da un’architettura mondiale bipolare ad una multipolare,
passando per una breve fase unipolare. Si è passati da un modello di unipolarismo
targato USA a un modello di “multipolarismo fluido a fattori variabili”, ossia un
sistema in cui la prevalenza di un fattore piuttosto che di un altro, in un
96
IAN BREMMER, NOURIEL ROUBINI, A G-Zero World, New York, Foreign Affairs, March/April
2011, pag.2-7.
97
DOMINIQUE MOISI, Geopolitica delle emozioni, Milano, Garzanti edizioni, 2009.
95
determinato lasso di tempo, genera un cambiamento nei poli di riferimento.
Questa è l’evoluzione di un mondo che a molti appare fuori controllo, ma che
nella competizione tra imperi potrebbe riscoprire un equilibrio duraturo98.
L’ascesa di nuovi attori geopolitici, come Cina, India, Brasile, Iran, Sud Africa,
Messico e Indonesia dimostra l’esistenza di questo sistema a più poli che non
necessariamente devono essere in conflitto, se la comunità internazionale si
dimostra in grado di fissare regole di governance flessibili, efficaci e condivise.
Esiste anche la prospettiva della creazione di un nuovo direttorio di potenze,
improntato all’interesse collettivo, che tenga conto degli squilibri vigenti e si
occupi proattivamente e coscienziosamente di moderarne gli effetti negativi99. Se
oramai molti studiosi concordano nel sottolineare la decadenza del potere USA
anche le prospettive di un nuovo ordine su base UE si stanno lentamente
dissolvendo. La Russia, che non si è mai sentita particolarmente a suo agio nei
confronti della Nato o dell’allargamento dell’Ue, è abbastanza potente da
caldeggiare apertamente la nascita di una nuova organizzazione per la sicurezza a
Est. La Turchia, frustrata e delusa dall'ostruzionismo ai negoziati per la sua
adesione all'Ue, si sta orientando verso una politica estera indipendente e ambisce
a un ruolo di maggior spessore. A ciò si deve aggiungere il fatto che gli Usa,
troppo impegnati con Afghanistan, Iran e una Cina in piena ascesa, hanno smesso
di essere una potenza europea a tempo pieno. Ecco così delinearsi in lontananza
un’Europa multipolare dove Russia, Turchia e una Ue un po’ in affanno stanno
tutte quante mettendo a punto “politiche di vicinato” studiate per dominare le
rispettive sfere di influenza nei Balcani e in Europa orientale, col proposito velato
di estendersi nel Caucaso e nell’Asia centrale.
Così come il ventunesimo secolo ha battezzato la nascita dei paesi cosiddetti
“BRIC” (Brasile, Russia, India e Cina), il secondo decennio del nuovo millennio
potrebbe vedere l'ascesa di nuove potenze regionali. A tale riguardo, il recente
98
GIANLUCA ANSALONE, op. cit., pag.18.
99
GIANLUCA ANSALONE, Ibid., pagg.185-7.
96
tentativo di risolvere la disputa sul nucleare iraniano da parte di Turchia e Brasile,
fissa un precedente che aiuta a capire cosa ci riserverà il futuro, e potrebbe perfino
segnare un punto di svolta per gli equilibri internazionali. Infatti, nonostante si stia
tentando di farla passare come una mossa politica costruttiva, si tratta invece di un
atto di sfida alle potenze tradizionali. Sono in molti nei paesi in via di sviluppo a
pensare che l'iniziativa turco-brasiliana costituisca un esempio da seguire nella
loro marcia verso una maggiore influenza internazionale. Le nuove potenze
regionali non sono destinate a rimpiazzare quelle tradizionali nel giro di poco
tempo; come dimostrano i BRIC, solitamente si comincia ad esercitare una
crescente influenza sul proprio vicinato prima di acquisire un respiro globale.
Inoltre, molti di questi paesi potrebbero non avere mai un seggio al Consiglio di
Sicurezza dell'ONU, e un maggior coordinamento tra di essi potrà compensare
solo in parte questa carenza. La competizione tra queste potenze emergenti
potrebbe risultare in un vantaggio per le potenze tradizionali che tenteranno
sicuramente di approfittare delle divisioni e dei contrasti per raggiungere i propri
scopi. In ultima analisi, il decentramento del potere globale complicherà sempre
di più i calcoli: e sebbene un'interazione positiva con i vari “emergenti” non si
possa certo dare per scontata, sarà utile e necessario coltivare con cura questi
rapporti. In un mondo che si muove così in fretta e in maniera così imprevedibile,
un ruolo costruttivo dei paesi emergenti può diventare cruciale all’interno del
Consiglio di Sicurezza dell'ONU soprattutto nella gestione di qualche crisi
secondaria.
Gli USA sono da alcuni anni in fase calante e dopo gli attentati dell’11
settembre 2001, l’Impero si è impantanato in Iraq e in Afghanistan. Non soltanto
il dispiegamento di forze non gli ha permesso di uscire dall’impasse, ma ha anche
profondamente intaccato l’immagine dell’America nel mondo. Una delle
dimensioni della sostituzione di George W. Bush con Barack Obama è la volontà
del popolo americano di voltare questa triste pagina della propria storia e tentare
di risalire la china. Se l’esercito americano ha rovesciato senza fatica Saddam
Hussein, non è riuscito a “tenere” l’Iraq, e ora si è ritirato dal paese senza avere
97
alcuna certezza sul suo avvenire. L’intervento in Afghanistan ha conosciuto la
stessa evoluzione: i Talebani, inizialmente storditi, sono passati con successo
all’offensiva. Eliminando il regime baathista iracheno e indebolendo i Talebani
afgani, l’America ha significativamente rafforzato l’Iran dei mullah, che difende
con sempre maggior forza il proprio diritto all’energia nucleare. Ma ha anche
distrutto la coesione occidentale, perché la NATO si è divisa sull’avventura a
Bagdad e i suoi membri sono recalcitranti a rafforzare i corpi di spedizione a
Kabul. Quello che ne viene fuori è un mondo nel quale il presidente iraniano
Mahmud Ahmadinejad visita l’America Latina più spesso dei suoi omologhi
statunitensi, la Cina e l’India sono attori globali, Turchia e Brasile s’inseriscono
senza remore nel dibattito nucleare e in Medio Oriente nuovi attori emergono. È
un mondo più ricco in cui si palesano nuove geometrie del potere e del consenso
impensabili sino a pochi anni fa. Nel breve periodo è sicuramente prevedibile uno
scontro di potere tra USA e Cina: si oscilla dall’ipotesi di creazione di un G2, un
condominio esclusivo che negherebbe ogni forma di multilateralismo, allo
scenario opposto di una nuova guerra fredda, o di una guerra commerciale di cui
si vedono le prime avvisaglie. Queste ipotesi generano molteplici perplessità e chi
crede nel G2 sopravvaluta la capacità di Washington e Pechino di gestire dall’alto
i destini di un mondo ormai molto complesso; chi crede nello scenario
apertamente conflittuale applica lo schema classico dell’ascesa e declino delle
grandi potenze, dimenticando però che la realtà della globalizzazione ha oramai
modificato quella dinamica. L’idea di un asse G2 tra USA e Cina è l’ultima
equivoca incarnazione del bisogno di un framework globale elementare: un’idea
che però ancora ignora il fatto che queste due potenze non riescono ad accordarsi
sulla moneta, il clima, la proprietà intellettuale e una miriade di altri problemi,
mentre poche nazioni desiderano ancora davvero vedersi dettare l’agenda da
Pechino o Washington100.
100
PARAG KHANNA, op. cit., 2011, pag.10
98
Il multipolarismo fluido prevede che i punti di riferimento della situazione
geopolitica cambino con frequenza e per questo non è facile avere un quadro
chiaro e stabilire chi comanda cosa e dove o cosa aspettarsi da una situazione di
crisi o dall’evolversi di un conflitto. Il fallimento del progetto di unificazione del
mondo sotto la guida di Washington è coinciso con la ripresa di tutti i
particolarismi nazionali, religiosi ed etnici; tutte forze storiche a lungo
immobilizzate nell’equilibrio del terrore che ora sgorgano come fiumi in piena a
partire dalla fine del millennio101.
I recenti avvenimenti nel mondo arabo hanno dimostrato come il popolo non
sia affatto scomparso dalla scena politica internazionale. Le proteste in Tunisia,
Egitto, Siria, Yemen, Bahrein così come in precedenza le rivoluzioni colorate in
Serbia, Georgia e Ucraina hanno mostrato chiaramente che il popolo possiede
ancora la capacità di influire sulle decisioni politiche e di imporre i cambiamenti.
Se al rinato potere del popolo di dimostrare il proprio disaccordo verso le
decisioni politiche o i risultati elettorali aggiungiamo il nascente potere dei social
network, veri e propri megafoni delle rivolte, ci accorgiamo di come sia difficile
fornire una valutazione corretta di ciò che è avvenuto e come sia altrettanto
difficile fornire delle previsioni. Oltre a questi rinascenti aneliti di libertà il mondo
arabo presenta una innegabile difficoltà essendo scosso dalle lotte religiose
intestine tra sunniti e sciiti per la conquista del potere e dalla presenza, sempre più
ingombrante, dei Fratelli Musulmani che rappresentano una quantità sconosciuta
nell’equazione di potere del sistema regionale mediorientale. Se poi ritorniamo
nello specifico a quanto sta succedendo in Libia ci accorgiamo che il regime di
Gheddafi è crollato ormai da tempo, ma non ne è nato uno nuovo; anzi la violenza
si è riaccesa e non soltanto nel profondo sud: a Tripoli sono tornate ad esplodere
le autobombe, i salafiti hanno dato l’assalto ai siti storici delle confraternite sufi,
in Cirenaica i jihadisti si riorganizzano, mentre polizia ed esercito in ricostituzione
non sono in grado di affrontare tutte queste minacce.
101
RAMONET, op. cit., pag.18
99
Gli eventi della primavera araba oltre ad una nuova calibrazione delle
gerarchie del potere potrebbero portare anche alla costituzione di nuovi stati. La
guerra civile siriana potrebbe condurre al distacco delle zona siriane a
maggioranza drusa e alauita, quella del clan degli Assad, da tutto il resto del
territorio che potrebbe ulteriormente dividersi nei due stati di Aleppo e Damasco.
I curdi potrebbero beneficiare delle rivolte in Siria, dove rappresentano la seconda
comunità dopo gli arabi, e trovare finalmente sfogo alle loro rivendicazioni di uno
stato etnico, il Kurdistan, che comprenderebbe territori di Iran, Iraq, Siria e
Turchia. Allo stesso modo le rivendicazioni pashtun e baluchi potrebbero spaccare
in due Afghanistan e Pakistan dando vita a Pashtunistan e Baluchistan, gli stati
che aspettano da tempo. In Belgio, nel cuore dell’Europa, la mai sanata divisione
tra valloni e fiamminghi potrebbe portare a due nuovi stati contrassegnati da
lingue diverse, con la città di Bruxelles forse destinata ad un’autonomia che la
renderebbe ancor più la capitale d’Europa102.
Le mutate condizioni meteorologiche hanno portato alla riscoperta di
territori un tempo ritenuti insignificanti, a causa dello sciogliersi dei ghiacci e del
rivelarsi di enormi giacimenti di materie prime. Si tratta dell’Artico e della
Siberia, un tempo considerati territori maledetti a causa delle estreme condizioni
meteorologiche, adesso diventati fonti possibili di profitti. Il bacino artico sta
diventando sempre meno terribile da affrontare e ciò pone sul piatto nuove sfide
strategiche di alto livello: fa aumentare l' attenzione e l'interesse per nuove rotte
marittime, per un più facile accesso alle ingenti riserve petrolifere e di altri
minerali racchiusi nel sottosuolo, al patrimonio ittico, alla penetrazione turistica,
mentre potrebbe riaccendere contenziosi per la delimitazione dell'artico e per l'
utilizzo delle sue risorse. Per quanto riguarda la Siberia sono la demografia e il
commercio a giocare contro gli ex-sovietici. Oggi in Siberia ed estremo oriente
russo la popolazione è di circa 18 milioni, di cui due sono cinesi; tra cinque anni i
102
PARAG KHANNA e FRANK JACOBS, The new world, The New York Times online,
www.nytimes.org, 22 settembre 2012.
100
cinesi saranno oltre sette milioni, andando a costituire la più grande singola etnia
della regione. Contestualmente in Cina lavoratori, uomini d’affari e studiosi
calcolano con golosità quanto quante poche persone vivano in Siberia e quanto
quella immensa regione sia ricchissima di materie prime necessarie alla crescita
cinese.
Anche le mutate condizioni economiche contribuiscono a rendere fluida la
situazione e diversi stati europei si trovano in una condizione economica molto
difficile, ai limiti del collasso. La crisi finanziaria ed economica che ha investito
gli USA nel 2007-2008 si è propagata in Europa, in particolare nelle aree più
deboli del Vecchio Continente. Il successivo attacco all’euro, operato da Wall
Street e dalla City con la complicità delle agenzie internazionali di rating ha di
fatto destrutturato le economie nazionali e il tessuto sociale di Grecia, Spagna e
Italia: le tre nazioni mediterranee si trovano ora nella difficile situazione di dover
subire i diktat provenienti da istituzioni sopranazionali quali la Banca Centrale
Europea e il Fondo Monetario Internazionale.
Senza contare che il mondo attende con ansia una guerra già dichiarata
all’Iran dove in gioco ci sono i flussi energetici dal Golfo Persico per l’Occidente
e per l’Asia, la gestione delle armi atomiche, il dominio sulle rotte strategiche tra
Oceano Pacifico, Indiano e Mediterraneo, ma soprattutto gli equilibri di potenza
nel Grande Medio Oriente mondiale, ossia quel campo di instabilità centrato
sull’Iran che si estende tra Suez e Hindu Kush, tra Corno d’Africa e Mare
Arabico. Tra le armi a disposizione degli iraniani c’è lo stretto di Hormuz, lo
strategico collo di bottiglia che, nel suo punto più stretto, misura appena 4 km di
larghezza tra la costa iraniana e quella del’Oman, attraverso il quale passa il 40%
del petrolio scambiato nel mondo: provare a chiuderlo provocherebbe
un’impennata dei prezzi del petrolio in maniera repentina. Oggi Hormuz è uno dei
chokepoints più importanti al mondo, insieme allo stretto di Malacca, di Suez, di
Aden, del Bosforo, di Panama e degli stretti danesi: avere sul proprio territorio
uno di questi chokepoint rappresenta un’invidiabile ed efficace arma strategica.
101
La nuova era multipolare porta con sé problemi la cui risoluzione richiederà,
più di ogni altra cosa, lo sviluppo di paradigmi intellettuali radicalmente nuovi e
adattabili alle nuove situazioni che si vanno creando. Tanto per cominciare,
l’attuale terminologia post-bellica, che contempla termini quali nemico e alleato,
deve essere consegnata alla storia, dato che nel nuovo sistema le alleanze sono
destinate a essere molto più ambigue e flessibili rispetto al periodo della guerra
fredda. La Cina, ad esempio, sarà anche un avversario di lungo termine
dell’America, ma è difficile pensare a un altro paese che sia stato altrettanto utile
agli Stati Uniti durante l’attuale crisi economica. La Germania, viceversa, sarà
forse un alleato di lungo termine, con cui l’America condivide storia, metodi di
lavoro e, non ultimo, alcuni importanti valori; ma ciò non esclude che, a livello
politico, si producano tangibili divergenze tra Washington e Berlino e che tali
divari continuino a crescere, per effetto delle dinamiche politiche tedesche103.
La rapidità con cui alcuni eventi di vasta portata si succedono e la loro
intrinseca interdipendenza costituiscono, per varie ragioni, qualcosa di inedito nel
contesto delle relazioni internazionali. Secondo molti analisti politici si sta
entrando in una sorta di tempesta perfetta, ove il confluire di fattori geopolitici ed
economici
complessi,
potenzialmente
destabilizzanti
potrebbe
generare
gravissime conseguenze per gli equilibri internazionali. La crisi sta agendo da
acceleratore geopolitico: ha aperto gli occhi ad americani e cinesi sulla mutua
distruzione assicurata, ha dimostrato ai russi quanto fragili siano le basi
economiche e demografiche delle loro ambizioni geopolitiche e quanto le rigidità
del sistema politico pesino sull’efficienza se non sulla legittimazione del potere,
ha confermato agli europei che le rivalità fra gli stati nazionali prevalgono
regolarmente sui pallidi tentativi di gestione comunitaria.
In conclusione, data la difficoltà di stabilire le minacce alla stabilità che
questo multipolarismo fluido propone, e data anche la difficoltà nel prevedere la
103
JOHN C. HULSMAN, “La nuova Ostpolitik che allarga l’Atlantico” in LIMES, Eurussia il nostro
futuro?, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, vol.3/2009.
102
prevalenza di un fattore piuttosto che di un altro, resta una sola arma a
disposizione dei governanti per evitare il caos generalizzato: la diplomazia. La
diplomazia, oggi, è più importante di quanto non sia mai stata. In un’epoca in cui
le Grandi Potenze del passato non riescono più ad imporsi al mondo, ma al
contrario devono negoziare con tutti; in cui gli eserciti possono vincere le
battaglie ma non la guerra; in cui le dimensioni delle sfide globali vanno ben oltre
ciò che le nostre attuali istituzioni possono affrontare, la diplomazia deve essere al
centro dei nostri interessi, al di sopra di tutto il resto104 ed evitare che la natura
umana conduca ad uno scontro dalle proporzioni inimmaginabili e dai danni
irrevocabili.
104
PARAG KHANNA, op. cit., 2011, pag.15.
103
104
BIBLIOGRAFIA
ALUNNI, Fausto. Il triangolo nucleare. India, Pakistan, Afghanistan. Geopolitica
di una regione. Roma, Derive Approdi srl, 2002.
ANSALONE, Gianluca. I nuovi imperi. La mappa geopolitica del XXI secolo.
Venezia, Marsilio Editori, 2008.
ANSALONE, Gianluca. Vent’anni senza muro. Dagli imperi della guerra fredda
agli imperi del XXI secolo (ebook). Roma, www.fuoco-edizioni.it, 2010.
ARRIGHI, Giovanni e SILVER, Beverly. Caos e governo del mondo. Milano, Bruno
Mondadori edizioni, 2003.
BLACK, Jeremy. Le guerre nel mondo contemporaneo. Bologna, società editrice Il
Mulino, 2006.
BREMMER, Ian. La curva J. La bussola per capire la politica internazionale.
Milano, Università Bocconi Editore, 2008.
BRZEZINSKI, Zbigniew. La Grande Scacchiera. Milano, Longanesi & C., 1998.
BUZAN, Barry. Il gioco delle potenze: la politica mondiale nel XXI secolo. Milano,
Università Bocconi Editore, 2006.
CIERVO, Margherita. Geopolitica dell’acqua. Roma, Carocci editore, 2009.
FRANKEL, Giorgio. L’Iran e la bomba. Roma, Derive Approdi srl, 2010.
FUKUYAMA, Francis. La fine della storia e l’ultimo uomo. Milano, RCS Libri s.p.a.,
2007.
FULLER, Graham e LESSER, Ian. Geopolitica dell’Islam. Roma, Donzelli editore,
1996.
GARTON ASH, Timothy. Free world. Milano, Arnoldo Mondadori editore, 2005.
HUNTINGTON, Samuel. Lo scontro delle civiltà. Milano, Garzanti editore, 2008.
JEAN, Carlo. Geopolitica del caos. Attualità e prospettive. Milano, Franco Angeli
editore, 2007.
JEAN, Carlo. Geopolitica del XXI secolo, Bari, Laterza editore, 2004.
KEPEL, Gilles. Fitna, geurra nel cuore dell’islam. Bari, edizioni Laterza, 2006.
KHANNA, Parag. I tre Imperi. Nuovi equilibri globali del XXI secolo. Roma, Fazi
editore, 2009.
KHANNA, Parag. Come si governa il mondo. Roma, Fazi editore, 2011.
105
KLARE, Michael T. Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna gli equilibri
politici mondiali. Milano, Edizioni Ambiente, 2010.
LACOSTE, Yves. Geopolitica dell’acqua. Milano, Movimenti Cambiamenti, 2002.
LANDI, Claudio. Buongiorno Asia. I nuovi giganti e la crisi dell’unilateralismo
americano. Firenze, Vallecchi editore, 2004.
LATTANZIO Alessandro. L’Eurasia contesa (ebook). Roma, Fuoco Edizioni,
www.fuoco-edizioni.it, 2010.
LIMES, rivista bimestrale volume 1/2003. La strana guerra. Roma, Gruppo
Editoriale L’Espresso, 2003.
LIMES, rivista bimestrale volume 1/2009. Il buio oltre Gaza. Roma, Gruppo
Editoriale L’Espresso, 2009.
LIMES, rivista bimestrale volume 3/2009. Eurussia il nostro futuro? Gruppo
Editoriale L’Espresso, 2009.
LIMES, rivista bimestrale volume 1/2010. C’era una volta Obama. Roma, Gruppo
Editoriale L’Espresso, 2010.
LIMES, rivista bimestrale volume 2/2010. Afghanistan addio!. Roma, Gruppo
Editoriale L’Espresso, 2010.
LIMES, rivista bimestrale volume 1/2011. Il grande Tsunami. Roma, Gruppo
Editoriale L’Espresso, 2011.
LIZZA, Gianfranco. Geopolitica. Itinerari del potere. Torino, UTET libreria, 2001.
MACKINDER, Halford. The geographical pivot of history. The Geographical
Journal, Vol.XXIII, 1904.
MAHAN, Alfred T. The influence of sea power upon history, 1660-1783. Boston,
Little Brown and company, 1890.
MOÏSI, Dominique. Geopolitica delle emozioni. Milano, Garzanti editore, 2009.
PERRONE, Andrea. Arktika. La sfida dell’Artico. Il polo nord tra geopolitica e
risorse energetiche. Rende (CS), Fuoco edizioni, 2010.
POLANSKY, David. L’impero che non c’è. Milano, edizioni Angelo Guerini e
Associati, 2005.
RAMONET, Ignacio. Geopolitica del caos. Trieste, Asterios editore, 1998.
SCALEA, Daniele. La sfida totale (ebook). Roma, Fuoco edizioni, www.fuocoedizioni.it, 2010.
106
SIRONNEAU, Jacques. L’acqua. Nuovo obiettivo strategico mondiale. Trieste,
Asterios Editore, 1997.
SPYKMAN, Nicholas J. America’s strategy in world politics: the United States and
the balance of power. New York, Harcourt, Brace and Company, 1942.
TODD, Emmanuel. Dopo l’impero. La dissoluzione del sistema americano.
Milano, gruppo editoriale Il Saggiatore, 2005.
VALORI, Giancarlo Elia. Il futuro è già qui. Milano, RCS Libri, 2009.
ZAKARIA, Fareed. L’era post-americana. Milano, RCS Libri, 2008.
ARTICOLI DA RIVISTE
BIRDSALL, Nancy e FUKUYAMA, Francis. The Post-Washington consensus. New
York, Foreign Affairs, vol.90, n°2, March/April 2011.
BREMMER, Ian e ROUBINI, Nouriel. A G-Zero world. New York, Foreign Affairs,
vol.90, n°2, March/April 2011.
BROWN, Lester. The geopolitics of food. Washington, Foreign Policy,
vol.May/June 2011.
FUKUYAMA, Francis. Avevo ragione io, la storia è finita. La Repubblica, 30 marzo
2011.
GAT, Azar. The return of authoritarian great powers. New York, Foreign Affairs,
vol. July/August 2007.
HAAS, Richard N. The age of Nonpolarity. New York, Foreign Affairs,
vol.May/June 2008.
KAPLAN, Robert D. The revenge of Geography. Washington, Foreign Policy,
vol.May/June 2009.
KRAUTHAMMER, Charles. The unipolar moment. New York, Foreign Affairs,
vol.70, n°1, America and the world 1990/1991.
LOMANOV, Alexander. Multipolar Hegemony. Moscow, Russia In Global Affairs,
vol. n°4, October-December 2008.
LUTTWAK, Edward. From Geopolitics to Geo-Economics: logic of conflict,
grammar of commerce. The National Interest, 1980.
NYE, Joseph S. The decline of America’s soft power. New York, Foreign Affairs,
vol.May/June 2004.
107
SHIRKY, Clay. The political power of social media. New York, Foreign Affairs,
vol.90, n°1, January/February 2011.
ARTICOLI TRATTI DA INTERNET
BBC
News.
China’s
leader
begins
Africa
tour.
<www.news.bbc.co.uk/2/hi/africa/6312155.stm>, January 31, 2007.
BERMAN,
Ilan.
Adrift
in
cyberspace.
<www.forbes.com/sites/ilanberman/2010/10/11/adrift-in-cyberspace>,
Forbes.com, October 11, 2010.
CORRIERE DELLA SERA (online). Guerra del gas, la Russia taglia le forniture alla
Bielorussia del 60%, <www.corriere.it/esteri/10_giugno_23/gas-tagli-russiabielorussia_ 9570be4e-7e92-11df-b520- 00144f02aabe.shtml>, 23 giugno 2010.
FRANCIA, Emanuele. BRIC: solo un acronimo?<www.eurasia-rivista.org/bric-soloun-acronimo/5157>, Eurasia Rivista, 16 luglio 2010.
GUGGIOLA, Gabriele. La classe media emergente e i flussi commerciali del
<www.quadrantefuturo.it/appunti/terra/la-classe-media-emergente-
futuro.
.aspx>, Quadrante Futuro, 18 giugno 2010.
HIRST,
David.
La
television
arabe
qui
dérange.
<www.monde-
diplomatique.fr/2000/08/HIRST/14132>, Le Monde Diplomatique, août 2000.
JACOBS, Frank e KHANNA, Parag. The New World. The New York Times online,
www.nytimes.com, 22 settembre 2012.
JOHNSON,
Chalmers.
737
U.S.
military
bases
=
www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12824,
global
empire.
Global
Research,
Financial
Times,
March 21, 2009.
LUCE,
Edward.
Maybe
he
can’t.
www.ft.com/intl/cms/s/0/453b1ffe-0143-11df-8c54-00144feabdc0.html#axzz1cTT3TlxL,
January 14, 2010.
MacFARQUHAR,
Neil.
Iran
angrily
defends
nuclear
program.
www.nytimes.com/2010/05/04/world/04nuke.html, New York Times, May 3,
2010.
108
MAHBOOB UL-ALAM, Chaklader. The Chiang Mai currency initiative.
www.thedailystar.net/newDesign/news-details.php?nid=113654, The Daily Star,
November 12, 2009.
MANERA, Irene. Fondi sovrani: minaccia o fonte di stabilità per l’economia
www.equilibri.net/nuovo/articolo/fondi-sovrani-minaccia-o-fonte-
mondiale?.
di-stabilit%C3%A0-l%E2%80%99economia-mondiale, Equilibri.net, 25 ottobre
2010.
MANGANO,
Giacomo.
Lo
spettro
della
www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1575,
fine
Affari
del
petrolio.
Internazionali,
18/10/2010.
MENOTTI,
Roberto.
USA-Cina:né
G2
né
Guerra
fredda.
www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/usa-cina-n%C3%A9-g2-n%C3%A9guerra-fredda, Aspenia, 18/01/2011.
MORRIS,
Daniel.
The
other
Oil-rich
gulf.
www.nationalinterest.org/commentary/the-other-oil-rich-gulf-1551,
The
National Interest, April 25, 2007.
PALLOTTI,
Arrigo.
La
corsa
al
petrolio
in
Africa.
www.cartografareilpresente.org/article117.html, Cartografare Il Presente, 10
ottobre 2007.
POLGREEN, Lydia e TAVERNISE, Sabrina. Water dispute increases India-Pakistan
tension. www.nytimes.com/2010/07/21/world/asia/21kashmir.html, New York
Times, July 20, 2010.
RICE, Condoleeza. Campaign 2000: Promoting the National interest.
www.foreignaffairs.com/articles/55630/condoleezza-rice/campaign-2000promoting-the-national-interest, Foreign Affairs, vol. January/February 2000.
ROZHNV, Konstantin. BRIC countries try to shift global balance of power.
www.news.bbc.co.uk/2/hi/8620178.stm, BBC News, 15 April 2010.
ROZOFF,
Rick.
AFRICOM
and
America’s
global
www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=15788,
military
agenda.
Global
Research,
disarmo
nucleare.
October 27, 2009.
TREZZA,
Carlo.
Il
senato
USA
rilancia
www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1630,
dicembre 2010.
109
il
Affari
Internazionali,
27
UNITED PRESS INTERNATIONAL. Arabs face sever water crisis by 2015.
www.upi.com/Business_News/Energy-Resources/2010/11/12/Arabs-facesevere-water-crisis-by-2015/UPI-64941289579090, UPI.COM, November 12,
2010.
VICENZINO, Marco. The rise of regional power. www.dailystar.com.lb/News/MiddleEast/May/22/The-rise-of-regional-powers.ashx#axzz2C60sXvwe , The daily star, May
22, 2010.
ZUCKERMAN,
Mortimer.
How
to
fight
and
win
the
cyberwar.
www.online.wsj.com/article/SB100014240527487039890045756526711777081
24.html, The Wall Street Journal, December 6, 2010.
110