ARCHEOZOOLOGIA E MEDIOEVO: LO STATO DEGLI

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ARCHEOZOOLOGIA E MEDIOEVO: LO STATO DEGLI
ARCHEOZOOLOGIA E MEDIOEVO:
LO STATO DEGLI STUDI
FRANK
di
SALVADORI
La disciplina archeozoologica, pur contando su una tradizione di studi ormai consolidata da quasi due secoli, ha
iniziato ad essere applicata nei contesti di età storica solo in
tempi recenti; fino agli anni Settanta, infatti, l’analisi delle
ossa animali, rinvenute negli scavi archeologici, ha interessato prevalentemente l’epoca preistorica e protostorica.
Il primo studio sistematico di reperti osteologici animali
di età medievale risale al 1973 e si deve a Graeme Barker,
che fu tra i primi archeozoologi ad analizzare sistematicamente campioni faunistici di età medievale (BARKER 1973).
Nonostante questo relativo ritardo, dalla fine degli anni ’70
ad oggi i dati prodotti dalla ricerca archeozoologica applicata al medioevo sono stati discussi da diversi autori, nel
tentativo di tracciare alcuni caratteri dell’economia e dei
sistemi di sfruttamento della risorsa animale, sviluppati nell’eterogeneo panorama medievale italiano (BARKER 1978;
GINATEMPO 1984; CLARK 1987; BAKER, CLARK 1993).
L’approccio metodologico contraddistingue queste prime elaborazioni; dove sono discusse le tecniche di analisi
adottate nello studio di un campione osseo, i tipi di dati
prodotti e quali di questi possono rappresentare un’informazione storica, più precisamente di tipo economica ed alimentare, infine quali sono le griglie interpretative utilizzate per i confronti inter-sito, cioè tra campioni rinvenuti in
contesti diacronici ed insediativi diversi, e conseguentemente si elaborano modelli di lettura economici ed alimentari.
Graeme Barker e Maria Ginatempo (BARKER 1978; GINATEMPO 1984), ad esempio, si sono concentrati principalmente nella discussione dei fattori che concorrono alla formazione di un campione osseo; in altre parole ai processi
tafonomici, quindi sia quelli antropici, animali e naturali,
sia quegli elementi di influenza prodotti dalla ricerca stessa
durante lo scavo e nel corso delle analisi di laboratorio.
Tra i fattori d’influenza attribuibili alla ricerca archeologica, particolare importanza riveste il recupero delle ossa sui
cantieri. In questo senso, si è concordi nell’affermare che l’archeozoologo dovrebbe essere una figura presente sugli scavi,
in quanto aggiunge un elemento di conoscenza all’indagine in
corso, ed inoltre assicura un intervento competente nel recupero e nella conservazione di una classe di reperti: le ossa.
Un progetto di ricerca archeologico, dovrebbe prevedere sia in fase di pianificazione sia in quella di realizzazione la partecipazione di più interessi d’indagine, tra i quali,
appunto, l’archeozoologia (BARKER 1981).
Purtroppo, ancora al giorno d’oggi, in diversi progetti
l’interesse si concentra quasi unicamente nell’analisi stratigrafica e nel recupero dei manufatti (monete, ceramica,
metalli ecc.), tralasciando oppure citando solamente nei diari
di scavo gli ecofatti (ossa animali, carboni ecc.).
Una strategia d’indagine che prevede unicamente la raccolta dei manufatti, escludendo aprioristicamente tutti i reperti utili ad una ricostruzione esaustiva delle comunità
passate, è sicuramente dannosa non solo alla ricerca archeozoologica ma alla ricerca storica in genere.
Una soluzione, forse peggiore, è quella in cui si prelevano le sole ossa rinvenute in contesti giudicati “speciali” (focolari, buche per rifiuti), mentre il materiale restante viene
gettato, basandosi unicamente su supposizioni aprioristiche
prive, tra l’altro, di fondamento scientifico. In questo caso,
infatti, il campione è irrimediabilmente falsato da scelte soggettive, ed inoltre si perdono molteplici informazioni utili da
un lato alla ricerca zoologica, dall’altro all’affidabilità delle
elaborazioni che ne conseguono quindi all’indagine storica.
I cosidetti giorni delle “laundry-list” (DAVIS 1987), vale
a dire il solo elenco delle specie presenti in un campione
osteologico, sono terminati dal momento in cui l’archeozoologia ha adottato i metodi di analisi statistica. Quindi, come
ogni disciplina che si occupa di dati numerici e frequenze,
particolare attenzione deve essere rivolta ai processi che
determinano la formazione del campione oggetto d’indagine. Nel nostro caso questi includeranno non solo gli effetti
prodotti da agenti antropici, animali e naturali (prima e durante il deposito delle ossa) ma anche e soprattutto dai metodi di raccolta dei reperti.
Ritornando ai due autori, l’accento posto verso tematiche più propriamente specialistiche, inerenti i procedimenti di produzione ed elaborazione dei dati, scaturisce da
un’esigenza della ricerca archeozoologica stessa di affermare e far comprendere i propri strumenti di analisi.
Verso la metà degli anni Ottanta, inoltre, i campioni faunistici di età medievale studiati erano ancora pochi. Questa
situazione ha sicuramente comportato un limite per la ricerca, ma soprattutto ha favorito l’affermazione dell’assioma per cui i reperti osteologici, in quanto rifiuti di pasto,
forniscono utili indicazioni sul consumo, in particolare della carne, mentre poco o nulla si può intuire dei processi
produttivi (BARKER 1978; GINATEMPO 1984).
La sintesi dei dati provenienti dai singoli contesti è stata quindi influenzata decisamente anche da questa dicotomia; lo studio dei campioni faunistici presentava dei limiti
oggettivi per la comprensione «dell’ecosistema prevalente» (GINATEMPO 1984). Inoltre, l’ansia congenita alla ricerca, a volte esasperata nei momenti in cui si vuole giungere
con troppa precipitazione alla sintesi dei dati, aveva forse
fatto travisare la reale portata delle informazioni archeozoologiche. In diverse osservazioni questa conseguenza è
chiaramente percepibile, soprattutto quando si discutono
alcuni limiti oggettivi come l’impossibilità di giungere a
dati assoluti (ad esempio stimare quanta carne, in termini di
peso reale effettivo, poteva essere stata consumata pro capite in un gruppo sociale), oppure la difficoltà di giungere a
modelli di ampia scala (sincronica e diacronica) attraverso
i soli resti ossei.
L’approccio metodologico affrontato da Gillian Clark e
Polydora Baker, si sofferma invece maggiormente sugli
aspetti inerenti la lettura e l’elaborazione dei dati faunistici, e conseguentemente nell’individuazione delle informazioni utili alla ricostruzione degli assetti economici e dei
sistemi di allevamento (CLARK 1987; BAKER, CLARK 1993).
L’aumento consistente dei dati pubblicati ha sicuramente
stimolato la ricerca a superare la contrapposizione, che si
era formalizzata in precedenza, tra consumo e produzione.
Ci sono voluti, infatti, quasi venti anni perché tale divisione venisse in parte ridimensionata. Il consumo rappresenta
l’ultimo anello di un processo legato alla produzione di risorse alimentari: diversi fattori di ordine economico possono perciò essere osservati attraverso i reperti faunistici, anche se nella maggioranza dei casi questi sono e rappresentano i rifiuti alimentari (CLARK 1997).
I risultati raggiunti in queste prime sintesi, alcune forse
premature a causa dell’esiguità dei dati disponibili, pur non
essendo discordi tra loro presentano caratteri distinti.
I campioni osteologici di età medievale sono quasi tutti
contraddistinti da una prevalente presenza di animali domestici, in particolare bovini, caprini, ovini e suini. Gli sforzi
operati per formulare modelli di lettura dei dati archeozoologici editi sono stati perciò concentrati nell’analisi dei diversi rapporti percentuali di queste quattro specie, evidenziando le differenze presenti nei vari contesti cronologici
ed insediativi.
Maria Ginatempo ha, ad esempio, individuato nella variazione del rapporto percentuale tra le specie domestiche
suine e capriovine, un indicatore fondamentale dei mutamenti
diacronici occorsi all’economia ed alla zootecnia medievali.
L’affermarsi dell’allevamento suino, a danno delle altre specie, osservato attraverso l’aumento percentuale di
questo animale nei campioni ossei urbani e rurali dei secoli
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centrali, è stato ricollegato a processi degenerativi dell’economia e in generale del sistema ecoculturale.
Allo stesso modo la flessione del numero di ossa delle
specie capriovine associata ad un generico aumento dell’età
media di macellazione, nei campioni bassomedievali e tardomedievali maremmani, è stata letta in chiave decadentista, ovvero come risposta delle comunità ad un regresso
economico, determinato dal degrado territoriale e dalla crisi demografica. Questo processo non generò una diminuzione delle greggi ma piuttosto dei consumi e, inoltre, l’inizio del fenomeno transumante su lunghe percorrenze. La
transumanza extraterritoriale rappresenterebbe quindi una
vera e propria “scelta ecoculturale” in quanto soluzione economica che caratterizzò ampie aree del territorio italiano
anche nei secoli successivi.
Questa trasformazione economica, paesaggistica e alimentare, sembra aver contraddistinto unicamente l’area
mediterranea, mentre diverse furono le scelte operate, nello
stesso periodo, in area anglosassone. L’aumento demografico e l’espansione delle città, occorsi tra il medioevo e l’età
moderna in Inghilterra, determinò l’intensificarsi dell’allevamento capriovino e l’affermarsi di un settore dedito all’ingrasso degli animali; quest’ultimo rappresentò, quindi,
la risposta delle strutture produttive rurali alla crescente richiesta di carne da parte dei ceti urbani. Nell’area mediterranea, invece, il sistema agrario non fu in grado di trasformare il proprio carattere produttivo per secoli. Per questo
in diverse zone, come la Sicilia, l’espansione urbana comportò un aumento dei prezzi della carne ed un peggioramento quantitativo e qualitativo dell’alimentazione.
Diverse nell’impostazione, e in parte nelle conclusioni,
sono le tesi presentate da Gillian Clark, la quale individua
alcune tendenze riconducibili a trasformazioni diacroniche
delle strategie di allevamento (CLARK 1987).
Secondo i dati elaborati dall’archeozoologa inglese, l’allevamento dei capriovini si afferma con più incisività nel corso del bassomedioevo e del tardomedioevo. In questo periodo
si registra anche ad un aumento dei casi dove è attestata la
presenza di un settore dedito alla produzione di carne. In pratica si assiste ad una trasformazione del modello produttivo tipicamente altomedievale, connotato soprattutto da uno sfruttamento delle greggi come risorsa di prodotti secondari (latte,
lana, pelli), ad uno tipicamente bassomedievale, contraddistinto
invece dallo sviluppo di allevamenti specializzati nell’ingrasso degli animali per il consumo (prodotti primari).
L’allevamento bovino appare invece più diffuso nei secoli centrali del medioevo, anche se una frequenza più marcata è attestata per gli insediamenti alpini e della pianura
padana. Nei secoli tardi, inoltre, questo settore economico
registra uno sviluppo dell’allevamento per il consumo, o
meglio per la produzione di carne.
Un altro aspetto individuato da Gillian Clark riguarda
l’influenza dell’ambiente nei rapporti percentuali dei principali domestici, in particolare tra la specie bovina e quella
suina, utilizzando come dato di analisi la posizione geografica dei rispettivi campioni. In altre parole, negli insediamenti
alpini (sostanzialmente Stufels e S. Valier; RIEDEL 1979;
ID. 1987), la frequenza decisamente maggiore dei bovini,
rispetto ad altri contesti di età medievale, in associazione
alle frequenze molto basse dei maiali, sembra suggerire
quanto l’allevamento suino fosse scarsamente praticato in
queste zone, perché meno adatto, rispetto ai bovini, ad un
ambiente di tipo montano.
Per quanto concerne l’allevamento suino, infine, non
vengono osservate particolari differenze diacroniche o sincroniche; durante il medioevo sembra essere connotato da
caratteristiche non-intensive.
Poco si conosce invece delle attività di caccia e pesca,
che al momento rappresentano sicuramente un campo d’indagine scarsamente esplorato; problematiche quali la reale
incidenza di questi settori nell’economia e nell’alimentazione delle comunità medievali rimangono tuttora da approfondire.
L’unico dato certo, che scaturisce dai campioni esaminati fino agli inizi degli anni novanta, riguarda la differenza
emersa tra le ipotesi avanzate dagli storici, in particolare
dalla scuola bolognese (MONTANARI 1979; FUMAGALLI 1994),
ed i resti ossei rinvenuti nelle stratigrafie di età medievale
(BAKER, CLARK 1993).
Secondo quanto era stato elaborato per l’altomedioevo
del centro-nord Italia, sulla base delle fonti scritte, la caccia
doveva essere praticata da tutte le classi sociali, mentre nel
corso del bassomedioevo tale esercizio diverrà un privilegio esclusivo della nobiltà (MONTANARI 1979).
Queste ipotesi non trovano conferma nei campioni datati tra V secolo e XI secolo, dove si evidenzia invece l’assenza o la presenza irrisoria di ossa appartenenti a specie
selvatiche; oltre a ciò, in diversi casi, animali selvatici come
il cervo, il capriolo oppure il daino sono rappresentati da
pochi frammenti di corna, spesso recanti tracce di lavorazione, che potrebbero quindi essere associati ai resti di attività artigianali più che alla caccia. Bisogna inoltre aggiungere come questo elemento anatomico possa essere attribuito ad attività di raccolta oppure a rinvenimenti casuali in
luoghi limitrofi agli insediamenti, più che ad attività venatorie: tali specie, infatti, se ne privano, secondo un ciclo
biologico, una volta all’anno.
Il panorama archeologico medievale italiano attuale, e
conseguentemente archeozoologico, consente di avanzare
nuovi spunti di approccio e lettura dei campioni osteologici
animali. Perciò, in questa sede non si tratteranno nuovamente gli aspetti metodologici, in quanto già ampiamente
ed esaurientemente discussi dagli autori citati; si vuole invece sottolineare come l’aumento delle pubblicazioni di
carattere zoologico, ma soprattutto l’affinamento degli strumenti di indagine archeologici, quali la seriazione degli indicatori cronologici e la proposizione di tipologie insediative sempre più dettagliate e puntuali consentano una lettura
più affidabile dei campioni stessi.
L’intento non è, quindi, volto alla formulazione di elaborazioni tese a sintetizzare l’evoluzione economica della
penisola italiana durante tutto il medioevo; l’aumento dei
dati editi ha, infatti, evidenziato come la ricerca presenti
ancora al giorno d’oggi dei limiti oggettivi per operare sintesi di così ampio respiro.
Al contrario occorre forse rivisitare quanto è stato prodotto in questo trentennio, ponendo maggiore attenzione al
confronto sincronico, osservando cioè più attentamente i campioni osteologici in riferimento alle tipologie insediative e,
conseguentemente, cercando un confronto maggiore con precise tematiche storiche. D’altronde, la necessità di dover leggere i campioni faunistici nel loro contesto diacronico, geografico ed insediativo era già stata sottolineata a più riprese
(GINATEMPO 1984; CLARK 1987; BAKER, CLARK 1993).
I motivi per i quali è auspicabile un nuovo approccio,
contraddistinto da un livello di approfondimento più deciso
verso aspetti meno generalizzanti, sono sostanzialmente di
tre ordini:
1. distribuzioni differenti dei siti indagati sul territorio italiano;
2. presenza di numerose tipologie insediative, troppo spesso esemplificate in insediamenti urbani e rurali;
3. differenti gradi di affidabilità dei campioni, dovuti principalmente ad intervalli cronologici di deposito più o meno ampi.
La concentrazione degli insediamenti in cui è segnalata
la presenza di reperti osteologici animali presenta caratteri
eterogenei per le diverse regioni italiane. Il censimento preliminare di campioni faunistici medievali qui proposto conta,
ad esempio, oltre novanta attestazioni (Immagine 1), la
maggior parte delle quali si trova nei territori centro-settentrionali della penisola (Toscana, Liguria, Lazio, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna), mentre il numero decresce sensibilmente nelle isole (Sardegna, Sicilia), nei confini settentrionali (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli,
Veneto) e, infine, nell’area meridionale (Marche, Abruzzo,
Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Campania).
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Fig. 1 – Siti di età medievale con presenza di reperti osteologici.
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Fig. 2 – Ville e insediamenti rurali tardoantichi.
Fig. 3 – Insediamenti castrensi.
Considerando, invece, le tipologie insediative individuate dalla ricerca archeologica e storica, quali i castra tardoantichi, le ville tardoantiche, i villaggi rurali altomedievali, i castelli, i centri urbani minori e le città, la generalizzazione troppo spesso utilizzata nel considerare i campioni
ossei solamente come contrapposizione tra ambiente urbano e rurale può risultare assai riduttiva e limitare, inoltre, la
lettura dei dati stessi.
Un ultimo ordine di informazioni, in alcuni casi sottovalutato, riguarda l’intervallo cronologico di un campione
che determina il grado di affidabilità delle elaborazioni economico-alimentari da questo derivate. Cercare di tracciare
i caratteri economici ed i sistemi di sfruttamento degli animali adottati in un insediamento, considerando l’insieme
osteologico depositatosi in un periodo, in certi casi, di tre o
anche più secoli, non ha sicuramente lo stesso grado di affidabilità di un campione compreso in un periodo più limitato. Spesso, quindi, i dati editi non possono essere valutati
con criteri uniformi, in quanto processi di deposito troppo
lunghi non danno indicazioni affidabili ai fini della rico-
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struzione di modelli economici ed alimentari (per una lista
esaustiva di campioni ossei e relative datazioni si veda
BAKER, CLARK 1993).
Rispetto all’intero censimento di insediamenti con presenza di reperti osteologici animali saranno, perciò, presi
in esame alcuni casi per la particolarità dei contesti cronologici e delle associazioni faunistiche rinvenute.
1. LE VILLE TARDOANTICHE
I campioni di età tardoantica del centro-nord Italia spingono ad avanzare nuovi tipi di ipotesi, che si aggiungono al
determinismo ambientale elaborato da Gillian Clark
(CLARK 1987).
Si tratta delle ville tardoantiche di Villa Maria a Lomello (PV, K ING 1987), Calvatone (CR, S ENA C HIESA ,
WILKENS 1990) e Villa Clelia (Imola, BO, FARELLO 1990a,
1990b), poste nella pianura Padana; di Pantani le Gore (Torrita, SI, comunicazione personale di Paolo Boscato) e del
villaggio di Poggio Imperiale (Poggibonsi, SI, Valenti-Salvadori nel presente volume), situate in Toscana. In tutti questi
insediamenti sono stati recuperati campioni osteologici animali appartenenti ad un arco temporale relativamente breve, compreso tra il V secolo e gli inizi del VI secolo (Fig. 2).
Osservando le diverse frequenze dei domestici, spicca
immediatamente l’alta percentuale di bovini, tranne che per
il caso di Lomello, dove i capriovini ed i suini superano
entrambi, anche se non di molto, i bovini. Negli altri esempi il bue è, invece, la prima specie in ordine d’importanza:
a Calvatone rappresenta il 93% dell’intero campione (SENA
CHIESA, WILKENS 1990), a villa Clelia il 45%, un valore sicuramente alto considerando il 36% relativo all’ittiofauna,
la quale aumenta notevolmente il grado di affidabilità dell’intero campione dal punto di vista del recupero dei reperti
(FARELLO 1990a, 1990b), mentre capriovini e suini occupano assieme solamente l’11%; a Pantani le Gore i buoi interessano il 90% dei reperti, infine a Poggio Imperiale il 47%
contro il 42% dei suini e l’11% dei capriovini.
Questa relativa omogeneità, ovvero la maggiore frequenza di resti di bue, induce ad alcune ipotesi di carattere economico, che richiedono in ogni caso approfondimenti futuri.
L’alta incidenza di questa specie, in associazione alla
generica età adulta di abbattimento, la quale è solitamente
interpretata come attestazione di un consumo di animali
giunti al termine del loro apporto produttivo, sembra indicare oltre alla decisa importanza alimentare un allevamento intensivo indirizzato alla produzione agricola.
L’impiego di questi animali nelle attività agricole è forse uno dei principali fattori tafonomici che potrebbero aver
determinato le distribuzioni osservate. Altri tipi di indicatori, che concordano con tali ipotesi, sono stati individuati
a Calvatone e Pantani le Gore.
Nel primo caso, la netta maggioranza di individui maschili o castrati e alcune tracce di usura anomale riscontrate
alla radice dei denti canini (SENA CHIESA, WILKENS 1990), rafforzano l’ipotesi di un utilizzo per la trazione; mentre a Pantani le Gore lo stesso impiego è stato suggerito in base alla
taglia (comunicazione personale di Paolo Boscato), maggiore rispetto a varie razze bovine attuali, la quale è da riferire a
soggetti che si prestano ad un impiego come forza lavoro.
L’omogeneità dei dati fino ad ora disponibili potrebbe
quindi rispecchiare un assetto economico, per alcune zone
dell’Italia centro-settentrionale, contraddistinto da un’attività agricola intensiva.
Il modello decadente del sistema economico antico, proposto sulla scorta delle fonti scritte (ANDREOLLI, MONTANARI
1985; GRAND, DELATOUCHE 1981), secondo il quale nel corso
del V secolo le ville si trasformarono da aziende produttive
di generi cerealicoli a complessi autosufficienti, connotati da
una prevalente attività silvopastorale, non trova conferma
negli insediamenti dell’area padana orientale e della toscana
centro-meridionale. Solamente per la villa di Lomello, quin-
di, il passaggio ad un’economia “naturalizzata” sembra un
processo già avviato nel V secolo, mentre a Poggio Imperiale sembra concretizzarsi negli ultimi decenni del VI secolo
(VALENTI, SALVADORI nel presente volume).
2. I VILLAGGI ALTOMEDIEVALI TOSCANI
I dati archeozoologici attualmente disponibili per i villaggi rurali di età altomedievale sono ancora scarsi. Per
questo motivo saranno accennati unicamente due esempi
toscani: Poggio Imperiale (Poggibonsi, SI) e Rocca di Campiglia M.ma (Campiglia M.ma, LI), che per vicinanza geografica e cronologica consentono di operare un confronto
proficuo dei dati.
In entrambi gli insediamenti sono state rinvenute tracce
di strutture lignee, datate tra la seconda metà IX-inizi X
secolo per Poggibonsi (VALENTI 2000) e tra la fine IX-fine
X secolo per Campiglia M.ma.
Le peculiarità che contraddistinguono i due campioni,
ovvero la distribuzione delle faune, dei relativi segmenti
anatomici e delle età di morte, sono state ricondotte a fattori tafonomici di ordine economico e sociale.
L’analisi dei reperti osteologici rinvenuti a Campiglia
M.ma ha evidenziato un villaggio di X secolo in cui era
praticato l’allevamento intensivo dei maiali. Gli indicatori
utilizzati sono stati l’alta percentuale di questa specie (56%),
rispetto ai bovini (10%) ed ai capriovini (15%), in associazione alla distribuzione delle età di morte, contraddistinta
da un’alta concentrazione di soggetti macellati in età ancora molto giovane (meno di un anno). La disponibilità di
numerosi capi dovrebbe quindi essere la ragione di questa
distribuzione, visto che i maiali venivano in genere abbattuti tra il secondo ed il terzo anno, in quanto l’allevamento
allo stato brado non consentiva un ingrasso forzato degli
animali che perciò necessitavano di un tempo maggiore per
la crescita (BARUZZI, MONTANARI 1981).
Si tratterebbe, in definitiva, di un villaggio di porcari;
forse riconducibile ad insediamenti di frontiera solitamente
posti alle dipendenze di aziende curtensi definite dal Toubert
come “curtis pioneristiche”, le quali ebbero un notevole
sviluppo nell’Italia padana e centrale nel corso del IX e X
secolo, si trovavano in territori non antropizzati ed erano
connotati da un’economia silvo-pastorale (TOUBERT 1995).
Il caso di Campiglia, inoltre, attesterebbe la presenza di
allevamenti intensivi di maiali, già nel corso del Medioevo, e
che non sempre i campioni contraddistinti da una frequenza
maggiore di questa specie indicano un’involuzione economica. Al contrario, essendo l’attività trainante di un’economia di frontiera, rappresenta una vera e propria scelta “ecoculturale”, ovvero una soluzione che riflette l’adattamento di
una comunità ad un territorio non antropizzato e che in seguito, vista la continuità insediativa, si dimostrerà vincente.
Il villaggio di Poggio imperiale presenta caratteristiche
diverse: i rinvenimenti archeologici e archeozoologici suggeriscono il caso di un centro curtense (VALENTI 2000, inoltre VALENTI, SALVADORI nel presente volume) connotato da
un’economia agricola alla quale si affiancava l’allevamento capriovino e bovino.
I maiali non sembrano essere stati custoditi all’interno
del villaggio. La distribuzione anatomica di questa specie,
connotata da una presenza quasi assoluta di ossa appartenenti all’arto anteriore, è stata interpretata come approvvigionamento esterno, con ogni probabilità attribuibile alle
corresponsioni che i livellari, insediati nei mansi o in altri
villaggi legati alla curtis, dovevano al dominico. Questo dato
troverebbe una corrispondenza nei documenti di X secolo,
nei quali viene indicato, con il termine di amiscere, un canone corrispondente alla spalla del maiale, oppure ad alcuni denari (ANDREOLLI 1981; ANDREOLLI; MONTANARI 1985).
A Poggio Imperiale sono stati inoltre delineati i segni
di un’articolazione gerarchizzata, sia nella struttura topografica del villaggio sia nei resti di pasto rinvenuti all’inter-
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no delle abitazioni (VALENTI 2000). Il consumo di carne rappresentò, diversamente da quello dei cereali che non sembra aver ricoperto un’importanza particolare nell’altomedioevo (MONTANARI 1979), un elemento di distinzione sociale: in particolare i tagli di carne bovina considerati migliori erano appannaggio quasi esclusivo degli abitanti della Longhouse (VALENTI, SALVADORI nel presente volume).
3. I CASTELLI
Riguardo ai costumi alimentari dei ceti egemoni (laici
ed ecclesiastici) e subalterni, la costante presenza di specie
selvatiche nei campioni provenienti da insediamenti incastellati, del centro-nord Italia, apre ulteriori problematiche
legate alla storia dell’alimentazione, ma non solo.
In pratica si tratta di capire se i frammenti ossei degli
animali selvatici (soprattutto quelli di grossa taglia) possano rappresentare i resti materiali della presenza di un personaggio legato all’aristocrazia, soprattutto quella militare,
e del ruolo fondamentale da questa svolto nella formazione
degli insediamenti castrensi. I castelli nascono e si sviluppano, infatti, durante il periodo di ascesa al potere delle
signorie locali, e molti sono concordi nell’affermare che
questo ceto è stato forse il principale artefice della nascita
dei castelli medievali.
La caccia ai mammiferi, soprattutto quelli di grossa taglia, fu anch’essa un’espressione tipica della nobiltà; questa usava esercitarsi nelle attività venatorie durante i momenti di svago, quando non era impegnata nella guerra
(MONTANARI 1979; FUMAGALLI 1994).
Molti campioni faunistici rinvenuti nei castelli italiani registrano una costante presenza, a volte consistente, di specie
selvatiche nelle stratigrafie legate alla fondazione del castello,
oppure in quelle immediatamente successive. Tale valore è
ancor più significativo se paragonato ad altri tipi di insediamenti dove tali specie, invece, risultano spesso assenti.
In Toscana, questo dato è emerso nei campioni di Campiglia M.ma (LI), S. Silvestro (LI, BEDINI 1987), Scarlino
(GR, BEDINI 1987), Montarrenti (SI, CLARK 1989) e Rocca
Sillana (PI, CORRIDI 1996). In Piemonte, presso il castello
di Manzano (CN, BEDINI 1995), la torre di S. Stefano Belbo
(CN, SCIOLLA, AJMAR 1992) e S. Michele di Trino (VC, FERRO 1999). In Liguria presso Castel Delfino (SV, BIASOTTI,
ISETTI 1981); in Veneto, nella rocca di Asolo (TV, BEDINI 2000), infine in Friuli nel castello di Montereale Valcellina
(PN, PIUZZI 1987).
Non avrebbero quindi avuto torto Grand e Delatouche
ad affermare che la caccia agli animali di grossa taglia era
praticata principalmente dai ceti più abbienti «perché i contadini non possedevano né i mezzi né tantomeno il tempo
per dedicarvisi» (GRAND, DELATOUCHE 1981). Il divieto di
caccia alle popolazioni contadine era d’altronde in vigore
già dall’altomedioevo, quando i re cacciavano in riserve
esclusive dove tale divieto vigeva per tutti quelli che non
partecipavano alle battute reali (MONTANARI 1979).
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SEZIONE II
Storia e archeologia:
dinamiche di controllo e trasformazione del territorio
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