Alessandra Di Maio Il collettivo Subaltern Studies

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Alessandra Di Maio Il collettivo Subaltern Studies
Alessandra Di Maio
Il collettivo Subaltern Studies, formatosi all’inizio degli anni Ottanta
in India, attorno all’Università di Delhi, costituisce una delle scuole
fondamentali degli studi culturali sviluppatisi nel Sud-Est asiatico, insieme
a quelle del Centre for the Study of Developing Societies (CSDS) e del
Centre of Contemporary Studies (CCS ). Con questi centri di studio,
anch’essi facenti base a Delhi, il collettivo condivide alcuni interessi
specifici, quali la riflessione critica sulla modernità, l’idea che la
conoscenza è una forma di intervento politico, l’attenzione all’influenza
di Gandhi come figura cruciale nella cultura indiana moderna, e il dibattito
sull’uso della lingua inglese nell’India coloniale e postcoloniale, ma se ne
distingue in quanto a orientamento teorico e metodologico. Il collettivo,
infatti, riunito intorno allo storico ed economista Ranajit Guha, si pone il
fine di ricostruire la storia del subcontinente indiano, dando ascolto e
voce ai subalterni, che la storiografia dominante – quella di stampo
eurocentrico dei colonizzatori britannici da un lato, e quella dell’élite
nazionalista dall’altro – avevano messo a tacere. Secondo Guha e gli altri
membri del gruppo originale – tra cui Partha Chatterjee, Gyanendra
Pandey, Shahid Amin, David Arnold, David Hardiman e Dipesh
Chakrabarty, a cui presto se ne aggiungeranno altri, quali Gayatri C.
Spivak e Bernard Cohn – tutti i resoconti della storia indiana risultano
incompleti e parziali, perché non trattano del ruolo cruciale e cospicuo
svolto nella formazione della nazione dalle masse dei subalterni. Guha
illustra chiaramente la situazione nel saggio On Some Aspects of the
Historiography of Colonial India, sorta di manifesto programmatico che,
nel 1982, apre il primo volume della collana Subaltern Studies. Writings
on South Asian History and Society, pubblicazione ufficiale dell’omonimo
collettivo di Delhi, oggi arrivata all’undicesimo volume.
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Il termine subalterno, così come molti altri utilizzati dal gruppo di
Delhi, è preso in prestito dagli scritti dello storico e politico marxista
italiano Antonio Gramsci, che con esso si riferiva ai gruppi socialmente
subordinati al dominio delle classi egemoni, nella fattispecie i proletari, i
quali, per definizione, non erano né uniti né organizzati e, di
conseguenza, si trovavano svantaggiati nel tentativo di costruire una
coscienza di classe contrapponibile a quella di chi deteneva il potere. Un
cinquantennio più tardi, gli studiosi della subalternità hanno reinterpretato il termine gramsciano, inserendolo nel contesto sud-asiatico,
in particolare nell’ambito indiano, dove l’intreccio di dominio e resistenza,
violenza e insubordinazione appare assai complesso persino nel tentativo
di ricostruzione storica dell’indipendenza nazionale. Da un lato, infatti, i
neocolonialisti sostengono che l’indipendenza sia stata raggiunta grazie
agli stimoli sollecitati dall’imperialismo britannico, mentre d’altro lato la
storiografia nazionalista ritiene che l’impresa della decolonizzazione sia
stata condotta quasi esclusivamente da un gruppo ristretto di politici,
quali Gandhi, Nehru e Jinna: entrambe le ipotesi, fanno notare Guha e
compagni, mancano di considerare il pur importante ruolo svolto dai
soggetti subalterni nella formazione della nazione postcoloniale.
Riformulando il concetto di subalterno, gli studiosi del collettivo ne
hanno esteso il campo semantico, riferendolo alle masse dei proprî
connazionali che, nonostante la schiacciante maggioranza numerica e i
tentativi di ribellione, erano stati oppressi, e dunque la loro storia era
stata soppressa, dai gruppi dominanti, in virtù delle differenze di casta,
classe, genere, appartenenza etnica, età, e così via.
Per Guha, la cui formazione politica è stata condizionata sia dal
radicalismo rurale nell’India degli anni Sessanta sia dagli sviluppi
contemporanei della rivoluzione cinese, sono prima di tutto i contadini ad
assurgere a paradigma della condizione subalterna. Come spiega in The
Prose of Counter-Insurgency, articolo che apre il secondo volume della
collana Subaltern Studies (di cui fino al 1989, cioè fino alla pubblicazione
del sesto volume, egli rimane unico curatore), la subalternità dei
contadini nella società semi-feudale delle campagne indiane durante il
periodo coloniale si manifestava in un sistema di segni che riguardavano
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ogni aspetto della vita quotidiana, dal linguaggio all’abbigliamento.
Ribellarsi dunque a tale sistema significava sovvertire l’universo simbolico
nel quale, il contadino aveva imparato a operare, codificandone e
decodificandone i segni, ed entro cui trovava la propria collocazione. È
ovvio
dunque,
sostiene
Guha,
che
ribellarsi
a
tale
mondo,
differentemente da ciò che racconta la storiografia ufficiale, non poteva
essere un mero riflesso automatico alle misere condizioni di vita, bensì
doveva essere un’operazione motivata e politicamente consapevole, sia
pure discontinua, da parte delle popolazioni rurali. Nell’atto della rivolta il
contadino si libera coscientemente della propria subalternità, iscrivendosi
come soggetto all’interno del discorso storico nazionale.
Il collettivo riunito intorno a Guha si propone dunque di colmare le
lacune del discorso storico dominante, di riempirne le omissioni e le
ellissi. La difficoltà sta nel trovare la maniera di accedere il più
direttamente possibile alla voce dei subalterni. Si pone un doppio
problema: da un lato, bisogna prima rinvenire le fonti alternative, in
precedenza trascurate, quali quelle dei racconti orali, della memoria
popolare, dei documenti sepolti in archivi mai consultati, e poi trovare gli
strumenti atti a interpretarli, nonostante si presentino ora come
frammentarie e discontinue, ora come ripetitive e non-lineari; d’altro lato,
bisogna altresì intervenire all’interno del discorso storico dominante,
rileggendone le fonti ufficiali da un punto di vista che ne sveli il substrato
neocoloniale e nazionalista, tenendo cioè conto del fatto che esse sono
prodotte da chi ha contribuito a rendere i subalterni tali; è dunque
necessario che anche queste ultime siano passate al vaglio di una critica
testuale precisa e rigorosa – che Guha, nel suo già citato e fondamentale
saggio The Prose of Counter-Insurgency, rinviene negli sviluppi della
linguistica strutturalista, in particolare nei primi lavori di Roland Barthes,
sulla scia del quale riesce a individuare gli indizi della narrazione
subalterna, indispensabili termini di correlazione tra le funzioni che fanno
il discorso dominante.
Sorge tuttavia un ulteriore problema, che è tuttora oggetto di
dibattito tra gli studiosi della subalternità: ci si chiede, cioè, se una storia
con tali difficoltà di reperimento e interpretazione delle fonti possa
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costituire una registrazione autorevole del passato, ovvero se le classi
dominanti non abbiano infine avuto davvero la meglio nel cancellare le
tracce del passaggio delle masse e degli individui subalterni,
impedendone la scrittura nella, e della, storia. Se così fosse, la
costruzione di un’identità subalterna risulterebbe una velleità
oggettivizzante e fine a se stessa da parte dello storico, piuttosto che
una rivendicazione di soggettivizzazione del subalterno. In altre parole, ci
si chiede se il subalterno possa effettivamente parlare, raccontare la
propria storia, e costituirsi quindi come soggetto. Il problema è tuttora
aperto, come dimostrano già i titoli di alcuni dei saggi più noti su questo
aspetto della subalternità: primo fra tutti quello di Spivak, Can the
Subaltern Speak? (1988), in cui la studiosa esamina il caso estremo del
rituale del sati , secondo il quale la vedova è costretta dalla società
patriarcale a immolarsi sulla pira del marito defunto, diventando così il
soggetto subalterno zittito per antonomasia; a esso seguono, tra gli
altri, Postcoloniality and the Artifice of History: Who Speaks for “Indian”
Pasts? (1992), di Chakrabarty; e When Will the Subaltern Speak?
(1993), di Alam Shamsul.
A prescindere dalle difficoltà teoriche e metodologiche che
comporta, l’alternativa subalterna propone ciò che Said, nella sua nota
introduzione alla prima raccolta antologica di scritti subalterni curata da
Ranajit e Spivak (Selected Subaltern Studies, 1988), definisce una
conoscenza integrativa, in grado di colmare i vuoti della storia indiana
coloniale e postcoloniale. Gramsci e Said costituiscono in qualche modo i
punti di partenza del discorso subalterno formulato dal collettivo di Delhi
– il primo in quanto iniziatore di una direttrice del marxismo occidentale a
cui gli studiosi indiani fanno continuo riferimento, il secondo, che pure si
rifà al pensiero gramsciano, in quanto caposcuola del discorso
postcoloniale orientalista (cfr. E. Said, Orientalism , 1978), che Guha e
compagni riprendono ed esplorano ulteriormente, diventando così una
tra le voci più forti e polifoniche degli studi postcoloniali contemporanei.
Tuttavia, molteplici sono i punti di riferimento dei diversi membri del
collettivo, che si rifanno a storici quali Edward Palmer Thompson, Eric
Hobsbawm e Carlo Ginzburg; essi si confrontano con lo strutturalismo, il
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post-strutturalismo e il decostruzionismo di, rispettivamente, Roland
Barthes, Michel Foucault e Jacques Derrida; mentre via via, intrecciando
in maniera originale gli assunti dei pensatori che li precedono, si aprono a
nuove tendenze e orientamenti di pensiero – il femminismo, gli studi di
genere, quelli legali – contribuendo così a realizzare in maniera
intertestuale e interculturale il programma della conoscenza integrativa
di cui sopra, che è stato sin dall’inizio il principio motore del progetto
della subalternità.
Nonostante il programma del collettivo di Delhi sia sempre rimasto
coerente e rigoroso negli assunti di fondo, svariati sono stati gli sviluppi
tematici e metodologici. Se ne può tracciare la vicenda, ancora in fieri,
nonché la sua espansione in ambito interdisciplinare e in contesto
internazionale, seguendo le tappe delle sue pubblicazioni. Mentre infatti i
primi tre volumi di Subaltern Studies, pubblicati rispettivamente nel
1982, 1983 e 1984, si occupano di ricostruire la storia delle varie
comunità subalterne, siano esse quelle dei contadini in rivolta o quelle dei
lavoratori di iuta in città, ponendo l’enfasi sul loro intervento attivo nella
formazione della nazione, già con il quarto volume, pubblicato nel 1985,
il collettivo compie una prima svolta verso la direzione degli studi
culturali, grazie all’apporto dell’antropologo Bernard Cohn, presente per
la prima volta nella collana con l’articolo The Command of Language and
the Language of Command; e grazie, soprattutto, al contributo della
Spivak, la quale interviene per la prima volta nel forum col suo saggio
Subaltern Studies. Deconstructing Historiography,
che
risente
fortemente delle idee del filosofo francese Derrida, del quale la studiosa
aveva tradotto in inglese De la grammatologie.
Con la Spivak, e la sua critica all’essenzializzazione del soggetto
subalterno – con cui rifiuta la presunta stabilità di ogni categoria,
concetto basato, a suo parere, sull’artificiosità delle opposizioni binarie
del pensiero tradizionale occidentale, facendo perno invece sulla violenza
epistemica come forma di conoscenza, che risulterebbe dallo scontro fra
il colonialismo e i soggetti che questo produce – il collettivo inizia a porsi
nuovi problemi di rappresentabilità e rappresentazione, la cui summa è
data dal controverso, già citato saggio Can the Subaltern Speak?, nel
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quale la studiosa fornisce una risposta sostanzialmente negativa alla
domanda provocatoria del titolo. Vengono inoltre introdotte dalla Spivak
la questione del gender e, in particolare, quella femminile, che saranno
ulteriormente esaminate da altre studiose, quali Susie Tharu e Julie
Stephens, e che diventeranno centrali nel discorso della subalternità.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, la teoria della subalternità
raggiunge il centro dell’impero. Nel 1986, Rosalind O’Hanlon ne parla in
un seminario sulla cultura popolare tenutosi a Cambridge, mentre nel
1988 la stessa studiosa firma il primo articolo sugli studi subalterni
pubblicato in Modern Asian Studies, prestigiosa rivista della cosiddetta
Scuola di Cambridge. Alcuni degli argomenti dei saggi contenuti nel
quinto volume di Subaltern Studies , dato alle stampe nel 1987,
rispecchiano la nuova apertura intrapresa dal progetto della subalternità,
in quanto si occupano di vedere come il subalterno è rappresentato non
soltanto nelle narrazioni storiche, bensì anche in letteratura e nei testi
giuridici. Quando, nel 1988, viene pubblicata la prima selezione di saggi
del collettivo di Delhi, dal titolo Selected Subaltern Studies, il progetto
della subalternità assume visibilità a livello globale, aprendosi nel
frattempo a vari ambiti disciplinari e nazionali, come testimoniano i
volumi successivi: nel sesto e nel settimo, per esempio, pubblicati
rispettivamente nel 1989 e nel 1992, alcuni studiosi affrontano
l’intersezione della questione religiosa col mondo della subalternità,
mentre il nono volume, del 1996, si conclude con uno studio sull’effetto
subalterno in Irlanda (l’ottavo, invece, pubblicato nel 1994 raccoglie una
serie di articoli in onore di Guha). Ancora, nel decimo volume, pubblicato
nel 1999, accanto ai saggi storici, si discute di realismo magico e di
cultura visiva popolare, mentre nell’undicesimo, del 2000, viene
presentata la situazione delle donne palestinesi.
Nel corso degli anni Novanta, dunque, il progetto della subalternità
compie una seconda svolta, assumendo dimensioni internazionali: nel
1993, viene fondato un collettivo latino-americano di studi subalterni,
mentre nel 1994 la prestigiosa American History Review dedica un
numero monografico al progetto subalterno internazionale. Quando, nel
1997, Guha cura il volume A Subaltern Studies Reader. 1986-1995 – cui
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seguirà un’ulteriore antologia, Reading Subaltern Studies, a cura di David
Ludden, nel 2001 – molti dei saggi dei membri del collettivo sono già
ampiamente antologizzati, e il paradigma della subalternità è ormai
talmente affermato su scala mondiale che nell’undicesimo e a oggi ultimo
volume della serie, la Spivak sente di dovere definire il concetto di nuovo
subalterno , nel saggio omonimo che chiude il libro, rintracciandolo
emblematicamente nelle donne proletarizzate del Sud del mondo.
Il dibattito sugli studi subalterni ferve ormai da più di due decenni,
facendosi sempre più vivace e accogliendo tra le sue fila un numero
sempre maggiore di sostenitori, ma anche di detrattori, che ne
rimproverano l’astrusità e la provenienza occidentale del linguaggio e
dell’impostazione teorica, di frequente lamentando anche il fatto che gli
studiosi che fanno capo al collettivo spesso vivono in diaspora. A
prescindere dalla polemiche che accompagnano il dibattito e dalle diverse
posizioni che lo contraddistinguono, chiunque frequenti studi culturali e
postcoloniali, filosofia e critica politica di tradizione marxista, storia e
letteratura contemporanee, sociologia e studi d’area del sud-est asiatico
quanto di altre regioni del mondo, difficilmente potrà fare a meno di
commisurarsi con il lavoro degli studiosi della subalternità.
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