Genitorialità, lavoro e qualità della vita - Pari Opportunità
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Genitorialità, lavoro e qualità della vita - Pari Opportunità
1 Genitorialità, lavoro e qualità della vita: una conciliazione possibile Ricerca promossa dalla Commissione Pari Opportunità in collaborazione con le Consigliere di Parità della Provincia di Modena Modena, 1 Ottobre 2003 Per informazioni sul rapporto: Commissione Pari Opportunità Segreteria: Tel. 059 209373 e-mail: [email protected] 2 Gruppo di ricerca coordinato da Tindara Addabbo: Tindara ADDABBO, CAPP Centro Analisi delle Politiche Pubbliche Dipartimento di Economia Politica Università di Modena e Reggio Emilia e Child-Centre for Household, Income, Labour and Demographic Economics. Insegna i corsi di Introduzione alla Macroeconomia e Economia Del Lavoro presso la Facoltà di Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Effettua attività di ricerca ed è autrice di saggi su: l’offerta di lavoro, le trasformazioni del mercato del lavoro, l’impatto delle politiche pubbliche e sociali, la distribuzione del reddito, la povertà e l’economia dello spettacolo dal vivo. Fra le altre pubblicazioni è autrice di: “Unpaid work by gender in Italy”, Ch.2 in A.Picchio (ed.) (2003) Unpaid work and the economy London and New York: Routledge; ‘Ai confini della disoccupazione: posizioni lavorative instabili e sottoccupazione’ in C.Lucifora (a cura di) ‘Mercato, occupazione e salari: la ricerca sul lavoro in Italia’, Mondadori, ISFOL, 2003 ed è coautrice assieme a Vando Borghi del saggio Riconoscere il lavoro: Una ricerca sulle lavoratrici con contratti di collaborazione nella Provincia di Modena, Milano, Angeli, 2001. Elisabetta ADDIS insegna Economia dell’Unione Europea all’Università di Sassari. Ha pubblicato fra l’altro ‘Unpaid and paid caring work in the reform of welfare states’ Ch.8 in A.Picchio (ed.) (2003) Unpaid work and the economy London and New York: Routledge; ‘Economia e differenze di genere’ CLUEB 1997 e ‘Donne Soldato’ EDIESSE 1994. Massimo BALDINI, CAPP Centro Analisi delle Politiche Pubbliche Dipartimento di Economia Politica Università di Modena e Reggio Emilia; insegna i corsi di Scienza delle Finanze, Effetti Redistributivi delle Politiche Pubbliche e Introduzione all’Economia presso la Facoltà di Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Fra le sue pubblicazioni: “Targeting Welfare in Italy, Old Problems and Perspectives on Reform” (con P. Bosi e S. Toso), in Fiscal Studies, 2002, “The gender impact of workfare policies in Italy and the effect of unpaid work” (coautore Tindara Addabbo) Ch.9 in A.Picchio (ed.) Unpaid work and the economy London and New York: Routledge, 2003. Vando BORGHI, ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna, segretario del Centro Internazionale di Studi Sociologici sui Problemi del Lavoro (C.I.Do.S.Pe.L.), segretario redazionale della rivista Sociologia del Lavoro. E’ membro dell’Active Social Policy European Network (ASPEN). Insegna Sociologia dell’organizzazione e Organizzazione e impresa presso la Facoltà di Scienze Politiche di Bologna e, di recente, ha pubblicato Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro, e Mercato e società introduzione alla sociologia economica (con Mauro Magatti) e Riconoscere il lavoro (con Tindara Addabbo) Barbara MAIANI, Assistente alla Cattedra di Diritto del Lavoro, Diritto Sindacale e Diritto della Previdenza Sociale della Facoltà di Giurisprudenza di Modena e Reggio Emilia. Dottore di Ricerca in Diritto Sindacale e del Lavoro dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Socio dell'Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale AIDLaSS. E' autore di varie pubblicazioni in materia di diritto del lavoro, anche nell'ambito delle politiche di genere, tra le quali si segnalano “La flessibilità del lavoro come strumento di conciliazione tra lavoro e famiglia: le modalità di finanziamento dei progetti di azioni positive di cui all’art.9 della legge 8 marzo 2000, n.53”, in Diritto e Pratica del Lavoro, n.37/2002, “Un esempio di work life balance policies nel contesto italiano: gli asili nidi aziendali”, in corso di pubblicazione per Diritto e Pratica del Lavoro. Francesca OLIVIER, CAPP Centro Analisi delle Politiche Pubbliche Dipartimento di Economia Politica Università di Modena e Reggio Emilia, PROMETEIA, è autrice assieme a Tindara Addabbo di ‘Offerta di lavoro e servizi all’infanzia in Italia, l’effetto dell’introduzione dell’ISE’, Materiali di Discussione N.381 CAPP – Dipartimento di Economia Politica Università di Modena e Reggio Emilia, Ottobre 2001. 3 Sintesi della Ricerca1 La Provincia di Modena è caratterizzata da elevati tassi di occupazione femminili e da bassi tassi di fertilità. Pur essendo in aumento negli ultimi anni i tassi di fertilità della provincia di Modena si presentano fra i più bassi del mondo. La ricerca promossa dalla Commissione Pari Opportunità analizza i nessi fra scelte lavorative e condizioni occupazionali e fertilità attraverso un’analisi della letteratura esistente e un’indagine su campo. Fra i fattori che interagiscono con le scelte di fertilità e lavorative si è analizzato con particolare attenzione il ruolo dei servizi di cura e il ruolo degli strumenti contrattuali. Sono stati sintetizzati gli importanti cambiamenti a livello normativo in termini di politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e analizzati il contenuto su questi temi dei contratti collettivi in diversi settori rilevanti per il contesto analizzato. Questa analisi mostra come la contrattazione di primo livello non aggiunga altri elementi sulla maternità e paternità mentre contenga clausole contrattuali legate alla rimodulazione o flessibilizzazione dell’orario di lavoro. Tuttavia in alcuni casi, come nel limite del 2% del personale imposto dal contratto collettivo del terziario, distribuzione e turismo in un settore ad elevata presenza di donne per poter usufruire del part-time post maternità, i limiti contenuti per l’applicazione di tali forme ne limitano di fatto le possibilità di applicazione. Resta il problema di verificare quanto gli spunti in termini di flessibilizzazione e rimodulazione di orario di lavoro siano di fatto applicati nel contesto analizzato. L’analisi effettuata sui contratti collettivi di secondo livello non sembra molto incoraggiante a questo riguardo (se prevedere clausole specifiche segnala la diffusione dell’applicazione degli spunti contenuti nei contratti di primo livello o nella normativa). Nei contratti collettivi aziendali nei quali si sono rinvenute clausole di flessibilità, legate principalmente alla rimodulazione dell’orario di lavoro, queste sono pensate sempre con riferimento alle esigenze dell’impresa (e ciò avviene con maggiore frequenza nei contratti di secondo livello del settore metalmeccanico). Peraltro, la legge di riforma del mercato del lavoro, di cui si dirà tra breve, ha lasciato ampio spazio di intervento alla contrattazione collettiva, consolidando la prassi del nostro legislatore di delegare alle parti sociali taluni aspetti del rapporto di lavoro. La ricerca ha messo inoltre in luce una tensione crescente, tra il nuovo contesto normativo posto in essere a partire dalla legge n. 53 dell’8 marzo 2000, poi modificata dal D.lgs.151 del 26 marzo 2001, che ha raccolto in un testo unico la normativa riguardante la tutela della maternità e della paternità, e le innovazioni legislative e contrattuali riguardanti l’orario di lavoro e i contratti di lavoro basati su una diversa collocazione della prestazione lavorativa (lavoro a tempo parziale, job sharing, flexi – time, tipologie queste non ancora sufficientemente note ed applicate nelle realtà aziendali). Mentre infatti il testo unico si proponeva di favorire la scelta genitoriale anche da parte delle lavoratrici e lavoratori, anche non subordinati (si pensi alla possibilità di usufruire di un ssegno di maternità per le collaboratri coordinate e continuative), le innovazioni legislative e quelle contrattuali che ne sono seguite, in materia per esempio di clausole elastiche che consentono una rimodulazione dell’orario per iniziativa del datore di lavoro, hanno creato una situazione in cui la conciliazione tra tempi di lavoro retribuito e tempi della cura diventa più problematica. L’ultimo intervento in tal senso è rappresentato dalle disposizioni in tema di lavoro a tempo parziale contemplate nel decreto di attuazione della Legge Biagi, che consentono al datore di lavoro, in seguito a stipula di patto di clausole elastiche, di modificare non solo la collocazione temporale 1 L’indice del rapporto di ricerca è riportato al termine del presente documento. Quanto segue è una sintesi dei principali risultati della ricerca. Si ringrazia la Commissione Pari Opportunità della Provincia di Modena per aver promosso il progetto e per gli stimolanti incontri intercorsi con le sue componenti nel corso della ricerca. Si ringraziano i testimoni significativi e le donne e gli uomini che hanno preso parte all’indagine effettuata. Si ringrazia il Centro Analisi delle Politiche Pubbliche del Dipartimento di Economia Politica dell’Università di Modena e Reggio Emilia per la disponibilità dei dati dell’indagine IcesMo sulla condizione socioeconomica delle famiglie in provincia di Modena. La responsabilità di quanto segue resta di chi scrive. 4 della prestazione, ma anche la durata complessiva della prestazione. È vero che tra le finalità della Legge Biagi, all’articolo 1, si legge come rientrino la tutela di condizioni di parità tra uomini e donne e la realizzazione delle pari opportunià nel lavoro, ma è altrettanto vero che talune delle nuove tipologie contrattuali introdotte, quali il lavoro a chiamata o le nuove regole per le clausole elastiche, mal si conciliano con tale obiettivo, soprattuto se ci si riferisce alla tutela della genitorialità. Diversamente, altri punti della Legge sono potenzialmente in grado di accogliere tali esigenze: ci si riferisce in primis alla regolamentazione del contratto di job sharing, o lavoro ripartito, che nella letteratura straniera, ha dimostrato essere di grande aiuto per le lavoratrici con figli, così come al diritto assegnato alle titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa riconducili ad un progetto, di sospendere la propria prestazione per 180 giorni in caso di maternità, con diritto al recupero dei periodi di interruzione una volta rientrati al lavoro. Si deve inoltre segnalare una progressiva tendenza alla promozione delle politiche di conciliazione tra tempi di vita e lavoro attraverso il canale del finanziamento pubblico delle azioni, a partire dalla legge 10 aprile 1991 n.125 (che interviene finanziando la realizzazione di piani azioni positive), dall’articolo 9 della legge 8 marzo 2003 n.53 (finanziamento di azioni di conciliazione tra tempi di vita e lavoro, come rimodulazioni dell’orario di lavoro, percorsi formativi di lavoratori in rientro da un periodo di congedo parentale, copertura di posti lavorativi lasciati scoperti da lavoratori autonomi assenti per maternità) fino a giungere alle previsioni di cui alla legge finanziaria per il 2002 n.448/01 (art.70, poi ripreso dall’art.90 della successiva finanziaria per il 2003 n.289/02), che hanno stanziato fondi per la realizzazione di asili nido o micro nidi aziendali. 2 Pertanto, oltre ad un quadro normativo spesso discordante, nel quale sono previste accanto a norme di eccellente tenore per la promozione e tutela di politiche family friendly norme che contrariamente sono potenzialmente in grado di ostacolare la conciliazione tra lavoro e famiglia dei lavoratori, si accompagna anche un atteggiamento di indifferenza o poca attenzione a questa tematica da parte della contrattazione collettiva sia a livello nazionale, ma ancor più evidente a livello aziendale, che certo non favorisce la creazione di condizioni di sviluppo della fertilità dei lavoratori. Per cogliere come i lavoratori si pongono rispetto alla conciliazione fra tempi di vita e di lavoro e quali elementi incidano sul rapporto fra figli desiderati e figli effettivi si è svolta un’indagine su campo e si sono utilizzati i dati relativi all’indagine CAPP sulla condizione socioeconomica delle famiglie nella Provincia. L’indagine su campo ha utilizzato più strumenti: ü indagine a testimoni significativi ü indagine qualitativa a 30 donne e uomini con particolare rilievo a fasi in cui è elevato il carico di lavoro totale volta a ricostruire i nessi fra fertilità e occupazione e l’interagire dei comportamenti di entrambi i coniugi nelle scelte famigliari e di distribuzione dei tempi. Sono stati inoltre analizzati i risultati riguardanti le scelte di fertilità in relazione alla struttura familiare prodotti dalla più ampia indagine sulla condizione socioeconomica delle famiglie modenesi ICESmo3 attuata dal Centro Analisi delle Politiche Pubbliche (CAPP) che consente di analizzare il comportamento di 1235 famiglie residenti in Provincia di Modena. Questa indagine (assieme all’analisi qualitativa condotta su un campione più ristretto di donne e uomini residenti in Provincia di Modena) ci consente di mettere in luce la discrepanza tra desiderio e realtà in termini di fertilità e le sue determinanti. In particolare, analizziamo quali sono i fattori che influenzano il numero dei figli effettivi, quello desiderato, e il gap fra i due, studiando le correlazioni esistenti fra caratteristiche individuali, tipologie famigliari, classi di reddito e condizioni contrattuali. 2 Si rinvia al rapporto di ricerca per un’analisi critica della diffusione dei nidi aziendali. Per una presentazione dell’indagine, del suo disegno campionario e dei primi risultati relativi alla condizione socioeconomica in provincia di Modena si rinvia a Baldini e Silvestri (2003). 3 5 In questa analisi abbiamo mantenuto un’attenzione continua e ‘separata’ per uomini e donne per esempio, analizzando separatamente sia i gap fra fertilità desiderata per uomini e donne che le ragioni del gap tra figli desiderati e figli effettivi. Riteniamo infatti che un’analisi sulla causa del divario tra figli effettivi e figli desiderati che si basi solo su questionari rivolti alle madri, -che quindi non possono a cogliere né la diversità del desiderio tra le persone dei due sessi, né il fatto che il desiderio degli uni alla fine si realizza in misura maggiore di quello delle altre- rischiano di non riuscire a trovare la spiegazione effettiva né dell’effettivo numero dei figli né della discrepanza tra figli desiderati e figli effettivi e delle possibili tensioni esistenti all’interno del nucleo famigliare. Da questa indagine emerge che un significativo numero di donne e uomini (la domanda è stata posta solo al capofamiglia e al partner) risultano in disequilibrio rispetto alle scelte di fertilità. Precisamente circa il 45% degli individui che hanno risposto alla domanda sul numero di figli desiderato, desidererebbe più figli di quanti ne abbia avuti (complessivamente il 53% degli individui che hanno risposto a questa domanda sono in una situazione di equilibrio, il numero di figli desiderati coincide con quello effettivo e l’1,6% ne desidera meno di quanti ne abbia). La distribuzione è simile per sesso: infatti il 46% delle 1076 donne che hanno risposto desidererebbero più figli di quanti ne possiedono, contro il 44% degli uomini. L’ 1,7% delle donne desidera meno figli di quanti ne abbia avuti contro l’1,5% degli uomini. Tab.1 Equilibrio o disequilibrio nel numero di figli desiderati per sesso Figli desiderati>figli effettivi figli desiderati=figli effettivi figli desiderati<figli effettivi donne 46% 52% 1,7% 100% uomini 44% 54% 1,5% 100% totale 45% 53% 1,6% 100% Fonte: Nostre elaborazioni su dati ICESmo Il numero di figli desiderato in media dalle donne che hanno risposto a questa domanda è pari a 2,02 in media contro 1,95 per gli uomini, il numero di figli effettivo è pari a 1,4 per le donne e 1,31 per gli uomini. Una differenza (fra il numero di figli desiderati e il numero di figli effettivi) che permane anche per gli ultraquarantenni: le donne con oltre quaranta anni desidererebbero in media 2,04 figli (il numero effettivo di figli è per loro 1,53) e gli uomini desidererebbero 1,96 figli (mentre il numero di figli avuti è in media pari a 1,46). Le differenze osservate sono state incrociate con la condizione professionale, l’età, il titolo di studio, il reddito famigliare proponendo anche oltre a statistiche descrittive atte a visualizzare il gap osservato fra preferenze individuali e realizzazioni di fertilità per le varie tipologie individuali identificate un’analisi multivariata che ci ha consentito di verificare quanto ciascun fattore (a parità degli altri) incida sulla fertilità desiderata. Considerando chi desidera più figli rispetto a quanti ne abbia si nota come il gap si ampli in modo significativo sia per i disoccupati che per chi ha un contratto di collaborazione,4 ma anche fra chi proviene da regioni del Sud Italia o da altri paesi. 4 Questo risultato oltre ad essere coerente con l’indagine sui collaboratori coordinati e continuativi in Provincia di Modena promossa dalla Commissione Pari Opportunità della Provincia (Addabbo e Borghi, 2001) è coerente anche con il diverso sistema di tutele per questi lavoratori recentemente ricordato da Saraceno (2003 a): ‘Questi rapporti di lavoro o non includono alcuna misura di protezione alla maternità e di sostegno alla conciliazione (è il caso, ad esempio, di chi ha partita IVA) o li hanno in misura ridotta e in un contesto in cui è difficile utilizzarli. Una giovane lavoratrice coordinata e continuativa, ad esempio, difficilmente potrà permettersi di prendere anche solo il periodo di congedo obbligatorio (e infatti non è obbligata), perché l’assegno di maternità è troppo basso. Ancor meno questa giovane potrà permettersi di stare fuori dal mercato del lavoro per un periodo più lungo, non solo per motivi economici ma anche per salvaguardare la propria collocazione professionale’. (Saraceno, 2003 a). 6 Fig.1 Fertilità effettiva e fertilità desiderata per condizione professionale Individui con più di 40 anni n. figli desiderato 3 n. figli effettivo 2.5 2 1.5 1 0.5 io tro pe ns al to na ga lin sa ca f, ro .P lib di so cc im pr . la v. Au to n. co co co di rig en te op er ai o im pi eg at o 0 Fonte: nostre elaborazioni su dati ICESmo Prendendo in considerazione sia chi si trova in equilibrio (ovvero ha un numero di figli desiderati pari a quello effettivo) che chi non ha raggiunto il numero di figli desiderati emergono interessanti differenze fra uomini e donne. Il titolo di studio più elevato aumenta in modo significativo il divario fra desiderio e realtà per gli uomini (e non per le donne) e il reddito familiare riduce le distanze fra desideri e realtà solo per gli uomini mentre per le donne il gap viene significativamente ridotto dall’essere in posizioni di lavoro part-time (posizione invece non influente per gli uomini). Restringendo l’analisi alle sole donne sposate o conviventi si nota come la collaborazione nel lavoro domestico da parte del padre sarebbe un fattore in grado di facilitare la scelta di fare un figlio per le donne sposate o conviventi intervistate. Allo stesso tempo, nell’analisi qualitativa, si nota che le coppie ritengono che, dal punto di vista economico, non sarebbe conveniente che sia il padre ad astenersi dal lavoro per un periodo di congedo parentale, risultato coerente anche con la scarsa fruizione di congedi parentali da parte dei padri osservata. In altri termini, il differenziale salariale tra i due sessi nel mercato del lavoro si traduce nel fatto che il peso della conciliazione ricade esclusivamente sulle spalle della madre. Una maggiore parità retributiva sarebbe più favorevole a quella redistribuzione dei compiti domestici che sembra essere uno dei presupposti di una scelta di genitorialità convinta e condivisa. L’analisi qualitativa su un numero ristretto di coppie fornisce anche alcuni elementi di riflessione sulle variabili che possono interagire sull’assenza di equilibrio fra fertilità desiderata e fertilità effettiva che emerge da domande esplicite sui motivi della non corrispondenza rivolte agli intervistati. Da questa analisi emergono sia motivi legati direttamente o indirettamente (necessità che entrambi i genitori siano occupati) a vincoli di reddito, che motivi di salute, biologici e legati a precedenti esperienze traumatiche di parto per le donne intervistate, ma anche, per l’11% degli uomini intervistati il non sentirsi pronti all’evento. Coerentemente con gli ampi carichi di lavoro totale (pagato e non pagato) sopportati dalle donne occupate nel contesto analizzato si osserva anche come motivo del non raggiungimento del numero di figli ideale la stanchezza per le donne. Un altro importante elemento che emerge dall’analisi qualitativa sulla diffusione e la possibile fruizione dei congedi parentali mostra la rilevanza della cultura organizzativa. Le motivazioni sulla intenzione di non utilizzare i congedi parentali per gli uomini intervistati attengono maggiormente (rispetto alle donne) difficoltà legate alla carriera o alla forma contrattuale. Molte delle misure di conciliazione introdotte, rimangono lettera morta o hanno comunque esiti assai circoscritti, per ragioni riconducibili a ciò che, in termini assai generici, possiamo definire come le culture 7 organizzative del lavoro. Laddove sono state condotte indagini relativamente a questo specifico aspetto – ma molta ricerca in merito rimane ancora da fare e da promuovere in tale direzione – questo aspetto è emerso in tutta la sua evidenza: “l’esistenza formale di una misura politica (policy) non garantisce il suo effettivo utilizzo e l’esercizio di un dispositivo legislativo è modellato da più aspetti oltre al bisogno individuale. Per quanto i fattori a livello individuale siano importanti, anche il contesto sociale lavorativo influenza la decisione dei lavoratori di usufruire di misure di conciliazione ufficialmente disponibili” (Blair-Loy, Wharton, 2002: 839). Il problema va considerato in tutta la sua complessità: si tratta infatti di una questione di insufficiente istituzionalizzazione dell’emersione di nuova regolamentazione (in senso sociale del termine, ancor più che giuridico) dei rapporti tra lavoro remunerato e lavoro famigliare. Il processo di istituzionalizzazione, e quindi di stabilizzazione e piena metabolizzazione sociale di nuovi orientamenti normativi, non si esaurisce con la loro formalizzazione (e quindi con la realizzazione di dispositivi legislativi). Al contrario, perché quest’ultima ottenga conseguenze concrete e ristrutturi concretamente i comportamenti collettivi deve compiersi un effettivo processo di apprendimento sociale: per dirla con il linguaggio della teoria dell’azione, deve realizzarsi un mutamento non solo delle ‘teorie dichiarate’ (le ragioni con le quali gli individui motivano e giustificano, ex post, il loro comportamento), ma soprattutto delle ‘teorie-in-uso’ (le teorie, le mappe concettuali, le cornici cognitive che stanno effettivamente alla base del nostro comportamento). Queste ultime sono intrinseche alle componenti più routinarie, abitudinarie, preriflessive del nostro comportamento quotidiano, e come tali ci risultano perlopiù opache, poco visibili; agiscono da premessa alle nostre decisioni, senza che – nella maggior parte dei casi – vengano consapevolmente tematizzate ed esplicitate (Weick, 1997). Il forte radicamento e la vischiosità (e pertanto la resistenza al cambiamento) delle ‘teorie-in-uso’ deriva dalla loro natura: esse infatti ineriscono alla dimensione delle pratiche della nostra esperienza quotidiana. Ed è sul piano delle pratiche che si innesca o meno un processo di apprendimento sociale (Gherardi, 2000). E’ sul piano della distanza tra le ‘teorie dichiarate’ e le ‘teorie-in-uso’ che in effetti registriamo spesso tutta la difficoltà e la complessità del processo di istituzionalizzazione così come lo abbiamo sopra definito: si pensi, per fare un esempio concreto, allo scarto ancora profondo tra la legislazione sulla sicurezza del lavoro e i dati sugli incidenti e la mortalità in ambito lavorativo. Quando parliamo della centralità della dimensione pratica – nella vita sociale in generale, nonché nelle organizzazioni in particolare – non ci riferiamo ad una dimensione meramente materiale. L’attività pratica è impregnata di (pre)giudizi, di idee, di simboli, di significati, di ipotesi sul futuro, di emozioni, e così via. In una parola, le nostre pratiche sono espressione delle nostre culture, e per quanto ci riguarda nel nostro caso in particolare, di culture organizzative: ragion pratica e dimensione simbolica sono, in questo senso, costitutivamente intrecciate. Se vogliamo affrontare il problema della incompleta istituzionalizzazione delle politiche di conciliazione dobbiamo partire dall’assunto che i contesti di lavoro sono delle “comunità di pratica”: esse “sono i mattoni costitutivi di un sistema sociale di apprendimento poiché sono i ‘contenitori’ sociali delle competenze che costituiscono questi sistemi. Attraverso la partecipazione a queste comunità, noi definiamo insieme quali sono le competenze in un determinato contesto: essere un medico affidabile, un fotografo dotato, uno studente di successo o un astuto giocatore di poker” (Wenger, 2000: 15). In termini assai schematici, possiamo dire che le competenze indispensabili per risultare adeguati in una determinata “comunità di pratica” si articolano in tre aspetti: la comune definizione e comprensione dell’oggetto della propria comunità e quindi la costruzione del senso di ‘impresa comune’ (Olivetti Manoukian, 1998); lo stabilirsi di norme di mutualità che riflettono le interazioni dei membri della comunità; la produzione di un repertorio condiviso di risorse simboliche (linguaggi, storie, stili e modi di fare, immagini, artefatti simbolici, etc.) che alimentano il senso di comune appartenenza (Czarniawska-Jorges, 2000). Il problema che concerne la conciliazione tra lavoro remunerato e lavoro famigliare consiste nel fatto che le ‘comunità di pratica’ tendono prevalentemente a riprodurre al loro interno i principi organizzativi dell’ordine sociale fondato sul “dominio maschile” (Bourdieu, 1998), sulla naturalizzazione della divisione di genere del lavoro 8 sociale (Fletcher, 1999) e sulla concreta resistenza alla effettiva realizzazione della ‘cittadinanza di genere’ (Gherardi, 1998) nelle organizzazioni stesse. In altre parole, aldilà dell’introduzione formale di misure tese (per quanto limitatamente) alla implementazione della cittadinanza di genere nei contesti organizzativi, le interazioni sociali e le attività pratiche quotidiane al loro interno (i rapporti tra lavoratori, quelli tra livelli gerarchici diversi, i processi decisionali, l’affidamento di compiti, la suddivisione delle attività interne, la negoziazione sui tempi e sui ritmi, etc.) tendono a costruire le regole di competenza riaffermando la centralità “dell’ordine simbolico di genere secondo l’archetipo della separatezza tra ciò che è maschile e ciò che è femminile e la subordinazione ‘simbolica’ del secondo rispetto al primo” (Gherardi, 1998: 169). In questo senso, per fare un esempio concreto, se il congedo parentale è interpretato (nel contesto pratico e quotidiano, a prescindere dalla volontà del legislatore) come pertinente l’universo simbolico femminile e come tale da subordinarsi agli imperativi del lavoro remunerato (comunemente associato al maschile), ben difficilmente gli uomini lo utilizzeranno, ed anche per quanto riguarda le donne sarà inteso più come una concessione che non come un effettivo diritto. In questo senso, pertanto, il versante della trasformazione delle culture che alimentano le ‘comunità di pratica’, cioè i concreti contesti di lavoro di uomini e donne, riveste un ruolo altrettanto importante di quello dell’offerta di servizi. Si tratta, come è evidente, di un terreno assai complesso, in cui interventi diretti, ingenui e semplicistici, rischiano di essere inutili, se non controproducenti. E tuttavia occorre essere consapevoli che prescindere da questo fattore significa arrendersi all’incompiutezza del necessario processo di istituzionalizzazione della conciliazione tra lavoro e famiglia e della cittadinanza di genere più complessivamente5. Il fenomeno della denatalità è un processo complesso e che ha radici sociali profonde come la caduta della natalità. Per portare la realtà della procreazione in linea con il desiderio l’attenzione non va posta soltanto sulla famiglia e sulle donne, ma anche sugli effetti che le politiche del mercato del lavoro e le politiche sociali hanno sugli uomini, sulle donne, e sulle relazioni tra loro. Se si mantiene l’attenzione sull’intero sistema di genere, non soltanto sulle sue parti, ci sono scelte di intervento sagge da effettuare in ciascuna delle sue parti che portano ad un aumento del benessere delle persone e della collettività. Il fine, a nostro avviso, non dovrebbe coincidere – anche se attualmente il problema è spesso questo – con il rendere il lavoro familiare, e quindi la condizione delle donne, più funzionale al mercato del lavoro, bensì deve consistere in un effettivo allargamento delle libertà di scelta tanto delle donne quanto degli uomini in merito alle possibili combinazioni di lavoro remunerato e famigliare di volta in volta più rispondenti alle diverse fasi di vita individuale e famigliare. Nella Sezione 8 abbiamo preso in considerazione alcune delle politiche che possono essere utilizzate per raggiungere questo obiettivo analizzandone i pro e i contro. In conclusione del lavoro svolto, ci sembra di potere innanzitutto affermare che le politiche per la genitorialità più efficaci sarebbero da intraprendere a partire dal livello delle politiche sociali e del lavoro nazionali. Tra di esse ci sentiamo in particolare di raccomandarne alcune: - il congedo obbligatorio per i padri al momento della nascita, come misura che dia il segno culturale della piena responsabilizzazione dei padri alla pari con le madri nella gestione dei figli, e della importanza che l'intera società dà all'evento della nascita. - Promozione e educazione del concetto e della cultura della reciprocità all’interno delle coppie. I risultati della ricerca e la letteratura sul lavoro non pagato confermano infatti una 5 Un progetto che sembra andare in questa direzione è quello attivato dall’Assessorato alle Politiche Sociali di Forlì (V5). Esso consiste nell’istituzione di una figura di esperto di conciliazione, che possa fornire consulenza ai settori produttivi su come organizzare il lavoro e risolvere le questioni tenendo conto degli obbiettivi di conciliazione. L’iniziativa in atto, finanziata attraverso il Fondo Sociale Europeo e denominata Gioco di squadra, prevede l’esperienza con uomini che lavorano in una azienda di medie dimensioni sul tema della conciliazione e la divisione del lavoro di cura tra donne e uomini, e la condivisione dunque delle responsabilità familiari. Di qui l’ipotesi di istituire a livello locale un esperto di conciliazione che possa operare sia nelle aziende che negli enti pubblici, per promuovere una cultura di conciliazione in contesti lavorativi specifici, nel vivo di quelle che abbiamo sopra definito come ‘comunità di pratica’. 9 - - distribuzione del lavoro all’interno della coppia non equa e con carichi di lavoro totale per le donne più elevati in presenza di una doppia presenza. la promozione di politiche ‘work-life balance’. La flessibilità su richiesta dei lavoratori se può essere un costo per l'impresa è un beneficio per la società. Inoltre, come le indagini citate nella seconda sezione del rapporto e l’evidenza raccolta durante le interviste ai testimoni significativi mostrano, l’introduzione di politiche ‘work-life balance’6 possono avere anche esiti positivi in termini di miglioramento delle condizioni di lavoro e maggior committment degli occupati oltre a produrre un segnale positivo di responsabilità sociale delle imprese che le adottano (e quindi il costo organizzativo sostenuto dall’impresa può essere compensato da questi fattori portando anche a una migliore performance delle imprese che le adottano). La promozione di questo tipo di politiche deve a nostro avviso consentire la reversibilità per il lavoratore (al mutare delle fasi nel ciclo di vita familiare e individuale) della tipologia contrattuale. una garanzia di reddito minima alle famiglie con figli minori che garantisca i genitori al momento della scelta che non sarà consentita la situazione di povertà per i loro figli. un maggiore finanziamento da parte dello Stato verso i servizi di cura Detto questo, rimane uno spazio ampio anche per le leve di policy a livello locale, Innanzitutto, l'analisi della contrattazione qui condotta ha messo in luce come si potrebbe perseguire una coerente strategia di conciliazione tra tempo di lavoro retribuito e tempo per la cura a livello della contrattazione integrativa attivando su questi temi tavoli di concertazione fra le parti sociali e perseguendo politiche volte a migliorare il contesto esterno (politiche abitative, politiche degli orari, disponibilità di luoghi ricreativi in cui possano coesistere diverse generazioni,..). Poi, rimangono in mano all'ente locale le leve della fornitura di servizi all'infanzia e alla famiglia che certamente interagiscono con la maggiore diffusione, nel contesto analizzato, di una elevata occupazione femminile e che, come l’indagine qualitativa ha mostrato, sono ritenuti un elemento rilevante sia per i contenuti educativo-relazionali che come elemento di inclusione sociale e di creazione o consolidamento di reti e sviluppo di capacità di cura e di relazione da parte degli individui che ne fruiscono (sia i bambini che gli altri componenti delle famiglie coinvolte) riducendo anche il rischio della sperimentazione di condizioni di isolamento relazionale nell’esperienza di cura del figlio.7 6 Come Dex (2003) ci ricorda è bene fare riferimento alle esigenze di equilibrio fra vita individuale e vita lavorativa quindi estendere agli individui il concetto di politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. 7 Oltre a incidere direttamente sulle scelte procreative la presenza di questi servizi può dunque ridurre il rischio che la prima esperienza di genitorialità sia vissuta negativamente e quindi ridurre il fenomeno del postponimento della nascita del secondo figlio. 10 Riferimenti bibliografici Addabbo, T. 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