Buchi neri - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

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Buchi neri - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
Lino Fiorito Buchi Neri
con un testo di
Maurizio Zanardi
mostra a cura di
Francesco Iannello e Maria Savarese
15 - 22 febbraio 2016
Buchi neri
Nel giugno di quest’anno guerriglieri di un autoproclamato stato
islamico hanno bombardato il sito archeologico di Palmira, dopo avere
attaccato il museo di Mosul, infine ad agosto è stato ucciso l’archeologo
Khaled al-Asaad e poi distrutto il tempio di Baal Shamin.
Nel 2001 erano stati i talebani a distruggere le statue dei Buddha
a Bamiyan in Afghanistan.
Non sono stato in nessuno di questi luoghi e non conoscevo l’archeologo siriano ma questi avvenimenti mi hanno colpito profondamente come uomo, perché distruggere memorie del nostro stesso passaggio su questo pianeta? Perché cancellare le tappe faticosamente
raggiunte nel corso dei secoli della cultura umana? Perché rifiutare
la cultura, la memoria e le testimonianze storiche?
In una libreria di Colonia ho trovato una serie di manifesti stampati
con motivi islamici, li ho comprati senza sapere bene perché, una volta
in studio ho spruzzato con dello smalto spray nero il centro dei manifesti,
ora su ciascun foglio era una sorta di buco nero, che ben descriveva il
sentimento, la confusione e lo sbigottimento dentro di me.
Ma quelle macchie nere hanno aperto un varco.
La fisica è una materia piena di argomenti origine di paradossi e
di bellissime immagini mentali, sono perciò andato a leggermi notizie
a proposito dei buchi neri e ho trovato un concetto elaborato dal fisico
teorico Lee Smolin che mi ha interessato molto, egli si chiede cosa
possa accadere all’interno di un buco nero e la sua idea è che invece
di una contrazione dello spazio dentro al buco nero avvenga una sorta
di resurrezione dell’Universo, la nascita di un universo baby. In altri
termini gli universi sarebbero analoghi ad “organismi prolifici” e si
riprodurrebbero all’interno dei buchi neri.
Se questo è vero allora attraverso l’iterazione del processo di
riproduzione i buchi neri che si formano all’interno degli universi, a
loro volta formatisi all’interno di buchi neri, e così via, si instaurerà
un meccanismo evolutivo che favorisce gli universi più adatti, dove
per ‘adatto’ si intende capace di produrre un gran numero di buchi
neri. Smolin formula quindi l’ipotesi che il nostro universo sia il più
adatto di tutti.*
La lettura di questa idea mi ha ridato speranza, improvvisamente
ho visto i buchi neri da me realizzati non più come un segno negativo
ma come un simbolo positivo, di rinascita. Ciò mi ha spinto a realizzare
alcuni lavori in ceramica sui buchi neri proprio per fisicamente vedere
e immaginare questi pensieri.
Quello che sul piano bidimensionale era un buco nero, in tre
dimensioni è un buco vuoto!
I buchi neri come possibile metafora del nostro presente?
“In fondo un buco nero è questo: una scorciatoia per il lontano
futuro”.**
Lino Fiorito
* Leonard Susskind- Il paesaggio cosmico, Adelphi, pagg. 343-344
** Carlo Rovelli-La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina editore, pagg.
197-198
Universalità del vuoto
Alla visione della distruzione da parte dell’Isis
del sito archeologico di Palmira e del tempio di Baal
Shamin, di opere considerate sacre, intoccabili vestigia-documenti del “passaggio” degli umani sul pianeta,
Lino Fiorito racconta di aver voluto reagire. Forse,
sarebbe meglio dire che è stato colto da una volontà
di ritorsione (vendetta?) che Fiorito ha assecondato
con la ricerca dei mezzi con cui soddisfarla: si è procurato i materiali per l’allestimento dell’atto di ritorsione nei confronti dei disumani distruttori di umanità.
Eppure, ciò che Fiorito offre oggi ai nostri sensi non
è la messa in scena, ma il risultato della sua reazione.
Tenere fuori scena il processo della ritorsione,
raccontarlo brevemente in forma scritta come un antefatto, significa già dislocarne il tragitto, preparare,
più o meno coscientemente, un’altra scena e un altro
sguardo. All’opposto, la messa in scena e la sua riproduzione audiovisiva sono decisive nell’azione dell’Isis
e ciò che è mostrato è la distruzione all’opera, la forza
nell’atto di mandare in frantumi. Dalla parte dell’Isis,
dunque, appare lo spettacolo della forza nell’atto di
mera frantumazione- polverizzazione, il tentativo
(restano pur sempre frammenti, schegge, polvere,
resti) di una cancellazione integrale di ciò che sembra
non appartenere alla propria cultura; dalla parte di
Fiorito è invece mostrata l’opera, non l’azione, della
reazione, i disegni macchiati, ancora riconoscibili
anche se violentemente alterati, ma anche qualcosa
di ulteriore: le ceramiche, che già nel loro presentarsi
sembrano appartenere a un’altra forza o, forse, a un
misto di forze.
Fiorito ci convoca all’Istituto di Studi Filosofici;
mostra il risultato delle sue operazioni in un luogo
fortemente caratterizzato, che si è esplicitamente proposto come fonte d’irradiazione della luce della ragione in lotta con le tenebre e della voce che chiama alla
filosofia, che reclama dai governi il sostegno alla
filosofia e incita la filosofia a prestare soccorso a
governi altrimenti ciechi. Come non pensare che nella
scelta del luogo sia all’opera l’atto di un teatro – il
nostro artista è un uomo di teatro – che cerca di non
fissarsi nella ritorsione, in direzione di un altro gesto
e affetto? Per chi conosce la passione di Fiorito per
l’astratto, il vago, il leggero, il non storico o il sovrastorico – insomma il non collocabile, l’irriconoscibile
– che anima i suoi disegni, quadri, ceramiche, scenografie, la scelta di un luogo così ‘grave’ come l’Istituto di Studi Filosofici appare singolare. Che abbia
invitato a elaborare le note che leggete a chi, una ventina d’anni, capitò di scrivere, riflettendo sul legame
tra filosofia e luoghi, e dunque anche sull’esperienza
dell’Istituto, che era necessario abbandonare la pretesa
di identificare la filosofia con questo o quel luogo,
per esercitare invece la potenza dislocante, atopica,
della pratica filosofica, ebbene anche questa scelta
dà da pensare, innanzitutto a chi scrive. Che Fiorito,
senza per questo impegnarsi in un’arte concettuale,
voglia chiamare a un rinnovato impegno concettuale
coloro che di concetti dovrebbero occuparsi? Fiorito
sembra mettere in mostra un’arte che pensa se stessa
e che invita la filosofia a pensare con lei ciò a cui
anche la fisica sta pensando, i buchi neri, senza per
questo immaginare, credo, che si possa superare l’ete-
rogeneità dei modi di pensare che costituiscono arte,
filosofia e scienza.
Conviene fare un passo indietro, tornare all’iniziale volontà di reazione. L’artista si procura dei poster
che riproducono disegni geometrici, ripetitivi e decorativi, dai tenui colori, tipici della cultura islamica e
li macchia di uno spruzzo di smalto nero. Non li fa a
pezzi; li imbratta in un punto. Più precisamente, e in
modo significativo, li macchia al centro. Non si tratta
di una distruzione paragonabile a quella dell’Isis, ma
per Fiorito quelle macchie, quel nero parziale – non
si tratta di un’inquadratura interamente nera, oblio
senza resti, tabula rasa oscura, come in Malevič, o di
una nera superficie tormentata, scavata, da cavità e
crateri oscuri come nel sacco Tutto nero di Burri del
1956 – sono il segno di un desiderio di annerire, fino
all’oscuramento, una tradizione, una differenza culturale. Un desiderio che lo rende responsabile allo
stesso modo di chi si è impegnato a far scomparire il
sito di Palmira. Il nero gettato sui disegni produce un
contraccolpo: rimbalza sull’autore del getto e lo macchia a sua volta. Ora l’artista non è senza macchia.
Non può più rappresentarsi semplicemente come un
occidentale ragionevole, tollerante, misurato.
Fiorito assume quel nero, il suo imprevisto eccesso, non lo rinnega né lo giustifica, non lo cancella,
né lo illumina di ‘ragioni’ e giustificazioni (se non a
cose fatte), lo mette in mostra. E così finisce con l’assumere anche la scandalosa prossimità del suo gesto
con l’atto dell’Isis contro cui aveva reagito. Ma proprio l’assunzione dell’atto di distruzione in quanto
tale, gli consente un’ulteriore forzatura, la negazione
anche dell’effetto del gesto di distruzione. L’artista
non si arresta a contemplare la macchia, non è soddisfatto del risultato della sua macchinazione: il nero
viene forato, bucato. Lo chiama Buco Nero, facendo
segno a quella regione dello spazio da cui, a causa
dell’intensa forza gravitazionale generata dal collasso
di una stella, la luce non può fuggire, qualcosa che
inghiotte, annulla e sembra non avere fondo. Non
cedendo alla tentazione moralistica di restaurare il
disegno macchiato, e con esso la cultura di cui è
espressione, Fiorito insiste nella distruzione, spingendosi fino all’informe, e così, venendo a capo del
pericolo di restarne affascinato, inghiottito, apre un
varco per la creazione di una forma dell’avvenire.
Più precisamente, per creazione di una forma che
conservi in sé quel vuoto in cui è passata la foratura
del nero. La violenza ha trovato un limite esercitandosi sui suoi stessi effetti, le macchie, e plasmando
un artefatto che conservi quel vuoto che nessuna cultura può saturare e che, proprio per questo, è la condizione di ogni creazione.
Disegni macchiati e ceramiche sono i segni di
un dramma che non pare destinato a concludersi. Un
dramma che inizia con il racconto di un antefatto
fuori scena, continua con la visione dell’effetto di
una ritorsione, prosegue con l’esposizione di forme
bucate, che sembrano costruirsi intorno al vuoto e da
questo essere attratte e mosse, così che il vuoto, nello
stesso tempo, destituisce il costruito e continua infinitamente a vibrare. Il buco nel nero, più che il buco
nero, spinge, pulsa… senza fine?
Fiorito non ha rinnegato l’atto di distruzione. Per
farlo, avrebbe dovuto rinnegare l’arte contemporanea,
la volontà, che la costituisce, di distruggere il passato,
di frantumare il concetto di opera, bellezza e Museo;
la passione per le rovine, i resti , i rifiuti, l’immondo;
la noncuranza o il disprezzo per l’archeologica e la
filologia; la critica della cultura. Non è percorsa l’arte
contemporanea dal tentativo di un gesto esplicitamente barbarico, rivendicato come tale?
Quando il grande compositore d’avanguardia
Karl-Heinz Stockhausen associò il gesto terroristico
dell’11 settembre a un’opera d’arte “cosmica”, non
volle forse indicare che quel gesto portava alle estreme conseguenze la tensione distruttiva che percorre
l’arte contemporanea, chiamandola, si potrebbe
aggiungere, a fare i conti con il proprio desiderio, le
proprie fantasie? Con la sua reazione alla distruzione
di Palmira Lino Fiorito ha ricevuto come contraccolpo, nell’aspetto di macchie nere, non solo la verità
del suo gesto, ossia la pulsione distruttrice che lo
attraversa, ma anche la verità del gesto dei terroristi:
la loro non estraneità a quella cultura occidentale cui
si ritengono estranei. E si potrebbe aggiungere che
la stessa riproduzione video della distruzione testimonia l’analogia con i procedimenti delle performance artistica e la colonizzazione dell’Isis da parte
della logica spettacolare. Inoltre, pare che l’Isis per
finanziarsi venda, fuori scena, le opere che non
distrugge. Insomma, iconoclastia, terrorismo, arte e
mercato dell’arte sono meno separabili di quanto con
superficialità si crede. E se a questo intreccio viene
opposta la tesi che l’arte contemporanea si propone
una distruzione simbolica della tradizione, mentre il
terrorismo opera distruzioni fisiche, materiali, converrebbe ricordare che Allen Kaprow, uno degli
inventori dell’happening ebbe a dichiarare che “il
teatro di guerra sud-asiatico del Viet Nam (…) è
meglio di qualunque tragedia” e che “la non-arte è
più arte dell’ARTE-arte”. Per di più, una distruzione
soltanto simbolica non è forse più disorientante, più
estesamente violenta, di una distruzione fisica che,
se non distrugge la struttura simbolica, può essere,
per quanto dolorosa, più facilmente metabolizzata,
localizzata, manipolata? Non è forse proprio questo
che sta avvenendo con l’Isis?
Ha ragione Slavoj Žižek: i terroristi non sono
veri fondamentalisti. Autentici fondamentalisti manifesterebbero una “profonda indifferenza”, o un senso
di superiorità, di fronte ai modi di vita e alle opere
degli infedeli: “Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi
davvero credessero di aver trovato la loro via per la
Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai noncredenti?”. La volontà di sterminare gli infedeli e le
loro opere testimonia la mancanza di una vera convinzione, la fragilità della fede, l’invidia e la tentazione “A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi
pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati,
intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei noncredenti. È facile intuire che, combattendo l’altro
peccaminoso, combattono la loro stessa tentazione”.
Di fronte al vuoto aperto dall’impatto della modernità
nel fondamento simbolico della loro identità, la volontà di distruzione dei terroristi è un modo non già per
riconoscere il vuoto, ma per fare il vuoto intorno al
vuoto – lo sterminio spettacolare degli infedeli, delle
loro opere, della loro (presunta e invidiata) potenza
– e così tentare di ricostituire il perduto fondamento.
Ma proprio la violenza puramente annichilatrice dice
che il fondamento è perduto e che i fondamentalisti
hanno già segretamente introiettato i parametri di
valutazione contro cui si scagliano.
Se l’Isis tenta disperatamente di ricostituire il
perduto fondamento utilizzando le procedure degli
infedeli, Fiorito non tenta di restaurare i colori e i
disegni macchiati. Anzi, isola il nero, dandogli spessore e rilievo, e lo buca, lo attraversa, gli toglie compattezza. L’artista buca, forza, la sua stessa reazione:
spingendo l’atto di distruzione fino al vuoto produce
la condizione per l’atto di creazione.
Il vuoto nel nero rende possibile l’apparizione
della serie di ceramiche, che è nello stesso tempo una
serie di vuoti. Il vuoto non può darsi in quanto tale:
può apparire solo tra, dentro, su ciò che ha figura,
limite, per quanto irregolare: buco, interruzione, incrinatura, squilibrio, taglio, intervallo, cavità. Nelle ceramiche di Fiorito il vuoto non è trattenuto, custodito
in vasi o brocche, secondo la metafora dell’artista
come vasaio e dell’arte come vaso costruito intorno
al vuoto. Si tratta, invece, di ceramiche senza fondo,
di forme inette a raccogliere e contenere. Forme squilibrate, sghembe, rose, traforate, in cui il vuoto sembra
prevalere sul pieno, ma non come vuoto intorno a cui
si costruisce una forma, piuttosto come ciò che fa del
costruito un mezzo di passaggio, di transito, un orifizio. Si tratta di far passare delle correnti, delle onde?
C’è una ceramica che sembra essere ciò da cui
le altre ceramiche provengono, ciò in cui sembrano
volere ritornare, in un va e vieni inarrestabile, insensato, senza significato, oggetto senza meta. Si tratta
di un vortice nero dal centro bucato. Un nero che grazie al buco pare pulsare, secondo un movimento a
spirale, in increspature, in onde che dal buco si disten-
dono, si estendono, si allontanano, ma che al buco
sembrano ritornare, girandogli intorno. Le altre ceramiche paiono, da questo punto di vista, nascere da
quelle increspature e onde, senza essersi però liberate
dal vuoto, che continua a trafiggerle, a farle tremare,
a squilibrarle.
Ceramiche pulsanti. Grazie a questa pulsazione
il nero – la tenebra, la morte – confina con il bianco.
Il nero, non colore che inghiotte ogni colore e il bianco, non colore come virtualità di colori, atti, gesti
non ancora visti?
Un’arte in cui il vuoto predomina sul pieno.
Un’arte in se stessa squilibrata, non certa di sé, sempre
da ripetersi in un andirivieni dal vuoto alla costruzione
e da questa al vuoto. Un’arte che si ritrova solo perdendosi nel vuoto e dal vuoto proveniente come pulsione, tremito, onda. Un’arte, per di più, che ‘porta’
il vuoto e lo mostra come ciò che universalmente
abbiamo in comune.
Maurizio Zanardi
MAURIZIO ZANARDI è tra i fondatori della casa editrice
Cronopio per la quale ha curato i volumi Le lingue di Napoli
(1994), Aporie napoletane, sei posizioni filosofiche (2006),
Comunità e politica (2011). Ha pubblicato Forme radiose in
Virgilio Sieni, Kore (Maschietto 2011).
LINO FIORITO pur considerando se stesso un pittore, vive anche
il suo lavoro come scenografo al teatro e al cinema come
un’unica espressione di creatività e visione.
Tra i fondatori del gruppo teatrale Falso Movimento ha
collaborato con i registi Mauro Bolognini, Mario Martone,
Andrea Renzi, Francesco Saponaro, Toni Servillo.
Nel cinema ha firmato le scene in film di Tonino De Bernardi,
Antonio Capuano, Ivan Cotroneo, Stefano Incerti, Paolo
Sorrentino.
Numerose le sue mostre a Napoli, in Italia e all’estero.

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