SCOGNAMIGLIO A me invece… mi ha uccisa

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SCOGNAMIGLIO A me invece… mi ha uccisa
A me invece… Mi ha uccisa Da settembre alla fine di marzo, quando scatta l’ora legale, la sera di Milano è un immenso tunnel che inghiotte tutto ciò che incontra, un’onda scura che sale dalla terra e avvolge via via i marciapiedi, le case, l’ultima punta di cielo rimasta azzurra. Una moltitudine di gente, a sua volta un’onda, esce dal lavoro e si disperde nelle strade, prima divorate a metà dal buio e poi tutte intere. Anche tra piazza della Scala e la Galleria la sensazione di notte si fa subito forte, pare di esservi sospinti e doverci camminare dentro a ogni costo, cercando punti di riferimento. Lo sciame umano si trascina da una luce all’altra, negli angoli tortuosi del centro, a contrastare un’ansia inconscia e ancestrale: il giallo delle luci contro il deserto notturno, con la paura di perdersi nel mezzo, risucchiati. Per molto tempo ho fatto anch’io esattamente lo stesso, negli interminabili autunni‐inverni milanesi. Infilavo la bici, voltavo le spalle all’ufficio e come una formica qualsiasi mi immettevo nei percorsi di insegne e fari: via Manzoni, le traverse pedonali, due vetrine, sguardi gettati tra i passanti. Finiva però che i pedali prendevano sempre in automatico la stessa direzione e per cerchi più o meno larghi mi portavano in corso XXII Marzo, fino all’incrocio con via Bronzetti. Era già buio quando arrivavo. Smontavo dal sellino e camminavo qualche metro, salivo sul marciapiede e puntavo lo sguardo verso il portone dall’altra parte della strada, dopo il chiosco del fioraio. Gli occhi montavano al secondo piano a cercare un’altra luce, stavolta una finestra. La sua. Non riuscivo a staccarmi da quel rettangolo illuminato e dall’ombra nera che vi si muoveva attraverso, sagoma in un negativo. Si palleggiava anzi tra due finestre accese, la seguivo immaginando quell’uomo nel suo studio ‐ mio marito ‐ a due anni da una separazione più che definitiva, incurante del fatto che non ci sentivamo mai, viveva con un’altra donna in una casa che non era la mia e non osavo neanche più chiederne notizie agli amici... Riuscivo solo a ripercorrere abitudini del passato, quelle che avevamo condiviso, e la mente lì si ancorava. Sapevo che c’era, ne percepivo la presenza, seguivo l’ombra e piangevo. Dicono che il tempo diluisca il dolore: beh, a me non era successo e l’attrazione di quel secondo piano mi sembrava una pausa dal vuoto, i pezzi che avevo perso mi ondeggiavano davanti e credevo di poterli afferrare. Restavo così immobile, finché il dolore non ritornava. “Devo staccarmi, staccarmi!” e mi tiravo via a forza, portata dalla bici come da un cavallo al galoppo. Dall’altra parte dell’incrocio ci sono i prati di largo Marinai d’Italia ed era là che mi dissolvevo per non essere vista piangere. A quel punto anziché inseguirle le schivavo, le luci, aggiravo i lampioni altissimi con quei piatti in cima, a forma di disco volante. Mi sedevo un po’ e ricominciavo a sentirmi, se non bene, almeno al sicuro. Ossessiva, ancora mi chiedevo perché mi aveva lasciata e tutto mi appariva come una tale violenza…Per distrarmi guardavo l’erba serale brillare di brina e i gonfiabili spompati, in attesa di un nuovo giorno ad aria forzata. Avvertivo i rari aliti umani, nuvole bianche contro il freddo. Su una panchina dello spiazzo centrale c’era spesso seduta una donna, una ragazza, e una volta mi sono messa vicino a lei; forse mi era venuta voglia di parlare e quella figura la sentivo familiare, chissà perché. Da tempo degli altri percepivo solo il disprezzo, tanto che mi sembrò quasi incredibile quando fu lei a rivolgermi la parola, “ciao, sono Linda”. Strano, entrammo subito in confidenza, e siccome avevo gli occhi umidi non tardò a farmi domande: mio marito, le finestre di via Bronzetti, quel nascondermi nell’oscurità sperando chissà che cosa. Di vederlo scendere e venirmi incontro, forse? Linda stava a sentire, in un silenzio che a un certo punto si incrinò di parole inattese. “Ti ha lasciata, dunque, dopotutto non ti è andata male. Beata te”. Dal cielo cadeva qualche goccia gelata, non sapevo che il gelo stava per aumentare a dismisura.“Perché a me invece… Mi ha uccisa”.Ebbi un sussulto, ma cercai di articolare una risposta razionale, contro la follia. “Lo… Lo so. E’ come morire, vero?”, tentai ingenuamente. “No, non hai capito. Mi ha uccisa con le sue mani qui sul prato, una sera di novembre tipo questa, che già i fili d’erba sono spilli di ghiaccio. Strangolata.Sembra ora, che per forza devo parlargli: eppure ha provato a dirmelo, meglio di no. Litigheremo, ci faremo del male. Insisto, io (mai insistere con un uomo arrabbiato, ora però che lo dico a fare). Al parco, se proprio vuoi, pochi minuti, ma a cosa può servire? Ho deciso e non torno indietro. Alle otto è lì che mi viene incontro, scuro da lontano e più scuro mentre si avvicina. Non ci sediamo e già iniziamo coi soliti discorsi, rimorsi e rimproveri, finiamo negli insulti. Le parole per calmarlo non le trovo, nemmeno lui le trova per sé. Divento lamentosa, lui furioso, mi tira per un braccio, piango. Sto sempre nella disperata ricerca di una sillaba che gli tocchi le corde del cuore ma non esisterà mai più, per noi. Nemmeno un urlo, la voce non mi esce; comunque nessuno ci sente, e se per caso sente gira al largo, come da una rissa di ubriachi. Mi mette le mani addosso e non è la prima volta, ma ora è fuori di sé. Mi sfugge un avventato ‘vorrei solo capire’: con occhi d’orrore mi strilla che neppure devo permettermi di usarlo, il verbo volere. Da lì è un attimo, le mani intorno al collo, stringe e stringe…”.Solo allora le notai due enormi lividi rossi sulla pelle, contornati dalla penombra, ed ero ormai di ghiaccio anch’io come l’erba, dalla paura e dal freddo. “Ma non sei morta, quindi”, ritento.“Morta, certo che sono morta! Ha stretto talmente”.Respirò poi più leggera, Linda: “Da quel giorno sto qui. Questo quadrato è un orizzonte, dentro lo conosco a memoria, dalla fontana agli alberi, le altalene e il boschetto di querce, l’area cani piccola e sulla collinetta d’ippocastani la grande, che si ruba l’angolo più bello del parco. Lo guardo addormentarsi a dicembre, ci sono quando si dispiegano le prime foglie, il sole asciuga lento le panchine e i bambini tornano a giocare dopo le quattro. Fino alle torride estati, il prato che diventa paglia ed emana calore; e nei mesi a seguire, striati di giallo e rosso, conto gli zampilli in salita e in discesa dell’acqua, mentre risuona il richiamo della signora che non trova mai il cane, ‘Peeeepper!’ Faccio così parte del paesaggio che mi sento viva, a volte. Camminando tra la gente che ride e schiamazza, o si parla dolcemente (ripetitivo il popolo del parco, poco a poco te lo fai amico) ancora cerco le parole che avrei voluto dirgli, al mio fidanzato, la sera che mi ha uccisa”. Si bloccò al mio brivido: “No, non spaventarti, non guardarti attorno. L’hanno arrestato subito, subito dopo”. Non distinsi neanche bene l’ultima frase, tanto ero impegnata a sollevarmi a forza, quasi pesassi trecento chili, a issarmi sul manubrio, a far muovere le gambe… Pedalai via nella notte senza voltarmi, che il terrore di vederla seduta ancora là sotto il lampione era troppo grande.