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UNA GUERRA SILENZIOSA E SENZA FINE
Nel Santuario dedicato a San Chiaffredo, in alta Valle Po (Crissolo) sono conservati oltre mille
ex voto: quei quadretti ora bellissimi, ora strazianti, ora patetici, con cui si testimonia una
grazia ricevuta. Alcuni risalgono alla fine del settecento, ma la maggior parte si concentra in
questi ultimi cento anni. Fino al 1950 ritraggono quasi tutti episodi di guerra: incursioni e
rastrellamenti di austriaci o di tedeschi, con fughe miracolose, o altrettanto miracolosi interventi
dei "nostri". Dalla metà del secolo scorso, lo scenario dei pericoli dai quali scampare elevando
lode al cielo cambia bruscamente. Diventa la strada il campo di guerra: incidenti di macchina, di
moto, di bicicletta, di macchine con bici, di trattori con macchine, di moto con muri, di pedoni
con vetture. Una guerra moderna, pulita, senza un nemico visibile, ma che conduce ad una strage
senza fine e ancora più inquietante perché inavvertita come tale.
Ma è ciò che attende il visitatore prossimo ad uscire dal santuario che fa accapponare la pelle. Un
grande tabellone, coperto interamente da almeno duecento fotografie a colori di ragazzi e ragazzi,
nel fiore della loro bellezza e gioventù: chi ripreso con la fidanzata, chi in sella ad una moto, chi
in campeggio, chi con gli amici. Sono coloro per i quali il cielo non è intervenuto, e che non
hanno ricevuto alcuna grazia: i giovani della valle (soltanto quelli della valle!) morti sulle strade
negli ultimi dieci anni.
La strada ci uccide, spesso: più spesso che di quel che non si voglia ammettere. Ma a noi non
importa, non ci fa paura. Sfidiamo ogni giorno la morte sulle nostre macchine accettando un
rischio che non accetteremmo su nessun altro mezzo di trasporto. Per fare un esempio, nel
tristemente famoso rogo del Concorde dell'anno scorso morirono 111 persone: tante quante ne
muoiono ogni settimana sulle strade italiane. Se bruciasse un Concorde alla settimana, non
volerebbe più nessuno, in nessuna parte del mondo. Siccome sono invece vittime della strada, vi
è un gigantesco, collettivo processo di rimozione che semplicemente cancella queste persone:
come se non succedesse niente. Tutti sanno e deprecano la bomba atomica, in tutto il mondo la
parola Hiroshima evoca una strage agghiacciante, di cui tutti noi giuriamo di voler evitare il
ripetersi. Ogni dieci anni, nei paesi dell'Unione Europea, si registrano almeno tante vittime
quante furono quelle di Hiroshima. Tra il 1991 e il 1998, infatti, nei soli paesi della UE sono
morte 385.000 persone, mentre 13 milioni sono rimaste ferite. Nel 1999, sempre nei quindici
paesi dell'Unione, si sono verificati 1.283.409 incidenti stradali, che hanno avuto come
conseguenza 39.961 morti (126 al giorno) e 1.747.441 feriti. Nella sola Italia, nel decennio 19881997 sono morte 97.000 persone. Negli ultimi trent'anni, una famiglia italiana su due ha avuto un
parente ferito o morto sulla strada; ogni trent'anni, risulta cancellata una città come Catania.
Più che questi numeri terribili, colpisce l'inspiegabile rimozione che li cancella dalla nostra
coscienza non appena qualcuno ce li ricorda (perché li conosciamo a memoria questi numeri,
nessuno li ha mai nascosti…)
Soltanto in America vi fu chi predisse molto di quello che successe, ma alle Cassandre non è dato
di
essere
ascoltate.
L'ignoto
articolista
scriveva,
ottant'anni
fa:
"Tutto sarebbe andato bene, benissimo, se ad un funesto individuo non fosse un bel giorno
saltato in mente l'idea di inventare quello strumento di morte che gli uomini, con parola ibrida,
si sono compiaciuti di chiamare autromobile. ..Il crudele congegno corre, orribile mostro, per le
vie dell'America, seminando ovunque la desolazione e la morte…Un recente bollettino…ci
segnala che l'automobile è più mortale del bacillo del tifo, ed è infinitamente più pernicioso
dell'alcoolismo. Inoppugnabili statistiche (riferite al 1921) … ci dicono che mentre per influenza
morirono in quell'anno 10.193 persone, gli accidenti automobilistici ebbero il merito di
sbarazzare questo sovraccarico globo di 10.168 individui. Il tifo e l'angina pectoris sono
responsabili della morte di appena 8000 individui per ciascuno; mentre l'alcoolismo, il
deploratissimo e combattutissimo alcoolismo (siamo infatti nel Proibizionismo), quasi innocente
dello sterminio praticato dalle Parche ultraoceaniche su larga scala, vanta solo 1611 morti". E
dopo i fatti, ecco le previsioni: "Se continua l'attuale catastrofica tendenza, se qualche crisi
salutare non mette riparo alla spaventosa china, tra venti anni le automobili saranno aumentate
almeno 15 volte. Mentre oggi (1925) c'è un'automobile ogni sette persone, tra venti anni ci
dovrebbero essere due automobili per ogni persona. Di questo passo, quando gli Stati Uniti
possederanno, nel 1944, 225 milioni di automobili, i morti in seguito ad incidenti automobilistici
dovrebbero essere almeno 150 mila all'anno, e dovrebbero rappresentare, rispetto alle morti per
altre cause, una percentuale di circa 160 per 100.000".
No, non fu così: nel 1999, cinquantacinque anni dopo la previsione di chi scriveva, il parco
macchine statunitense era di 212 milioni di vetture, e i morti in incidenti stradali furono 41.611
(20 morti per 100.000 veicoli circolanti).
Certo, possiamo consolarci. In fondo, in Italia, nel 1970, con volumi di traffico molto inferiori
agli attuali, i morti in incidenti stradali furono 10.208: circa quattromila in più degli ultimi anni.
Siamo coinvolti in più incidenti, ma moriamo di meno: un grande risultato, effettivamente. Che
potrebbe risultare meno gratificante se dovesse essere unicamente attribuito al fatto che, essendo
di più sulle strade, possiamo andare meno veloci, e dunque ci facciamo meno male, anche se
cozziamo di più. La differenza, e talvolta la nostra salvezza è tutta qua. In Italia circolano oggi
quaranta milioni di auto, quindici anni fa (e quindici anni sono molto meno di una generazione)
ve ne erano circa la metà. In compenso, la rete stradale è più o meno la stessa: 6.151 chilometri di
autostrade nel 1985, 6.478 nel 2001. Dunque un saldo attivo di ben 327 chilometri, a fronte di
venti milioni di automobili in più. Il risultato è un ingorgo continuo, code chilometriche in
qualunque fine settimana estivo, ma un calo dei morti del 13%: in fondo da noi muoiono soltanto
17 persone ogni 100.000 autoveicoli, negli Stati Uniti, in Francia, in Grecia, in Turchia, in
Spagna è peggio.
Non si può infatti parlare di incidenti e di sicurezza stradale, senza parlare delle strade stesse. E in
Italia vi sono dei punti che in qualunque periodo dell'anno significano l'inferno per chi vi deve
passare. Per esempio il nodo di Mestre, la tangenziale veneziana che da otto corsie si restringe a
quattro, per dieci chilometri da incubo qualsiasi giorno dell'anno, per i 170.000 veicoli (tra
camion e auto) che vi transitano. O l'Autostrada del Sole, che compie cinquant'anni con un
volume di traffico aumentato di trentacinque volte rispetto al momento in cui fu progettata. Le
ricadute economiche di questa guerra silente sono enormi: 42 mila miliardi i costi sociali in Italia
nel 1999, 46 mila nel 2000. L'Ocse, l'Organizzazione di studi economici dei paesi industrializzati,
calcola che l'incidenza di questo tristissimo fenomeno sia pari al due per cento del prodotto
interno lordo: il dato rapportato all'Italia determinerebbe un costo di circa 35 mila miliardi (in
realtà, come si è visto, è superiore a questa cifra). Comunque, evitando la metà degli incidenti, si
risanerebbe il bilancio pubblico di un anno. Dei 161 mila miliardi spesi per affrontare i costi degli
incidenti stradali in Italia negli anni novanta, ne sarebbero bastati 900 per migliorare in modo
sensibile la rete stradale ed autostradale, secondo una valutazione del Censis. Prevenire, infatti,
costa sempre molto meno che curare.
Ma, occorre riconoscerlo, è difficile prevenire quando la velocità, le impennate e i cavallini sono
nel nostro DNA. Il 90% degli incidenti ha la propria causa nel fattore umano: ossia
nell'imprudenza, leggi nell'eccessiva velocità, nella non osservanza delle regole del codice della
strada, nell'indecisione o imperizia. Biaggi, Melandri, Rossi, Capirossi, Schumacher, Barrichello,
Ferrari: chi ci tiene più? Nessuno di questi trionfi, tanto meritati e gloriosi, riesce ad esorcizzare
l'amore per la velocità e per i motori degli italiani: anzi, spinge tutti a sentirsi dei Biaggi o degli
Schumacher. Come il calcio, altrettanto lo sport moto o automobilistico genera il meccanismo
dell'identificazione, e per questo, a differenza di altri sport altrettanto nobili come la vela, hanno
tanto successo. Tutti sanno tirare calci ad un pallone, tutti saprebbero allenare la nostra Nazionale
molto meglio di Trapattoni; tutti, sulle strade, si sentono autorizzati a ignorare il codice della
strada, quelle noiose cinture di sicurezza, quegli inutili limiti di velocità, che persino il Ministro
dei Trasporti ha trovato quest'estate ridicolmente bassi. Già nel 1906 vi era chi (G. Emanuel, sulla
Stampa Sportiva) coglieva la caratteristica più palese della nostra epoca nella rapidità turbinosa
della nostra esistenza, nella corsa più affrettata con cui il nostro tempo si consuma. Secondo gli
appassionati già di allora, pur lontani dallo spirito futurista, la morte provocata da una velocità
eccessiva era preferibile a quella su un tavolo di camera operatoria; nulla teme il godimento
provocato dall'eccessiva velocità. "Le tragiche morti ci fanno quasi odiare i nostri bei mostri
lucenti che sono mezzi di vita e pure strumenti di morte. Ma possiamo noi rinunziare ad essi per
sempre? L'automobile è tutta l'umanità, l'età nostra fatta di febbri, di ansie, di conquiste, di lotte.
Essa canta nelle vie il poema sonante dell'ingegno e del lavoro della cività e della vita…In fondo
al bicchiere di vino più scelto vi è il limo, sotto la carne della donna che amiamo sorride
macabramente lo scheletro, nell'auto vicino la poesia più eletta vi può essere la morte più
triste…L'automobile è il simbolo moderno del fuoco e il fuoco crea e distrugge". E' un articolo
scritto da Nino De Sanctis, su "L'Auto d'Italia" del 12 agosto 1906 (che vi fossero anche allora gli
esodi e i controesodi?), significativamente intitolato "La corsa alla morte".
Lanciato all'estrema velocità, un'automobile è un veicolo che rasenta l'orlo di un abisso, un
proiettile a traiettoria essenzialmente instancabile, una cosa in balia di mille pericoli che
crescono sempre… Ma questo non pensa lo chauffeur…La velocità inebria tutto il morale come
un vino, una forza strana e prodigiosa si impadronisce del pilota; un solo sentimento occupa
tutto l'essere e ci si crede nell'istante qualcosa di sovrumano, di divino, un dominatore e un
signore delle distanze e dello spazio. E' vero, si può morire, continua De Sanctis "ma questa
corsa alla morte non è forse continua per noi in tutto ciò che facciamo? Non possiamo
incontrarla nei treni che si scontrano, nelle navi che si sommergono, in tutte le forme di
intossicazione a cui ricorre la società moderna per gustare un minuto di piacere?", che è
esattamente quello che ci ripetiamo tutti i giorni, e che ci succede tutti i giorni.
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile
2001