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Jean-Claude Izzo Il sole dei morenti Traduzione dal francese di Franca Doriguzzi Dello stesso Autore presso le nostre edizioni: Casino totale Chourmo Solea Marinai perduti Vivere stanca Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo Opera pubblicata con il contributo del Ministère français chargé de la culture – Centre national du livre Titolo originale: Le soleil des mourants © Copyright 1999 by Flammarion © Copyright 2000 by Edizioni e/o Via Camozzi, 1 – 00195 Roma [email protected] www.edizionieo.it Prima edizione Tascabili e/o luglio 2004 Quinta ristampa Tascabili e/o giugno 2008 Grafica di Sergio Vezzali ISBN 978-88-7641-610-1 Nota dell’Autore Sarebbe falso affermare che questo romanzo è pura immaginazione. Non ho fatto altro che esasperare le logiche del reale e dare nomi e inventare storie per degli esseri che possiamo incrociare ogni giorno per strada. Esseri di cui perfino lo sguardo ci è insopportabile. Voglio dire che leggendo queste pagine chiunque può riconoscersi. I vivi e i morenti. 5 Agli uomini feriti, e alle donne che sopravvivono loro, bene o male è così. Per Catherine, per questo amore Bisogna tenere a mente il colore della propria ferita per farlo risplendere al sole Juliet Berto Prologo L’inverno Titì se lo portava dentro. In quell’istante, gli sembrò perfino che il freddo fosse più pungente nel suo corpo che fuori, per strada. Forse per questo non batteva più i denti, aveva pensato. Ormai non era che un unico blocco di ghiaccio, come l’acqua nei canaletti lungo i marciapiedi. Un’insegna luminosa sopra la porta di una farmacia indicava la temperatura: 8° sotto zero. E l’ora: 20,01. Riparandosi a malapena in un androne, dalle 19,30 in poi Titì era stato a guardare i minuti sfilare. Poi l’aria gelida gli aveva annebbiato la vista. Si era reso conto che il furgoncino bianco dei Restaurants du cœur1 non sarebbe più passato, e che era inutile continuare ad aspettarlo. Qualunque pezzente di Parigi conosceva il percorso a menadito: Nation – République – Invalides – Porte d’Orléans. Ma da Hôtel de Ville non ci passava mai quella macchina di merda, mai. E invece lui era proprio lì, in place de l’Hôtel de Ville. «E vaffanculo!» imprecò fra sé. «Titì, stai andando davvero fuori di testa!». Ritornò con lo sguardo all’insegna luminosa, ma non riusciva a metterla a fuoco. «Beh, ho capito. Non è il caso di sbraitare tanto, coglione che non sei altro!» si disse. Sì, stava uscendo di testa, ogni giorno un po’ di più. 1 Associazione caritativa che distribuisce pasti gratuiti, fondata da Coluche, noto comico francese di origine italiana. 11 Anche Rico gliel’aveva detto, sin dai primi freddi. E di andare a farsi curare all’ospedale. Ma all’ospedale Titì non ci voleva andare. «Va a finire che crepi» aveva detto Rico. «E allora? L’ospedale è come morire. Ci entri in piedi ed esci lungo disteso. Ci andresti tu? Eh, ci andresti?». «Vaffanculo, Titì». «Vacci tu, cazzo!». Da allora Titì non parlava più. Non solo a Rico. A nessuno. O quasi. Non gli succedeva quasi più di parlare. Non ne aveva più la forza. Davanti a lui il semaforo diventò rosso per la seconda volta. «Inverno di merda» borbottò, tanto per trovare il coraggio di attraversare. A sentire le ossa sgretolarsi come stalattiti si era fatto prendere dalla paura. Eppure per imboccare l’entrata del metrò doveva attraversare la strada. Quella sera la sua ultima possibilità era raggiungere Rico e gli altri alla stazione del metrò di Ménilmontant. Di sicuro si chiedevano dove fosse finito per tutto il giorno. Magari avevano qualcosa da mangiare. E un po’ di vino. È il vino che tiene caldo più a lungo. Meglio del caffè, del latte, della cioccolata e di tutte quelle porcate. Una bella sorsata di vino, una cicca, e al da farsi per la notte ci avrebbe pensato più tardi. Bastava arrivare prima che tutti fossero schizzati nei loro nascondigli o nei loro asili notturni. E soprattutto bastava che Rico fosse ancora lì. Rico era amico suo, da due anni. Titì fece un passo, poi due. Con prudenza. Camminava facendo scivolare i piedi sull’asfalto ghiacciato. Fermo al semaforo, un tipo in macchina – di certo divertito dalla sua andatura impacciata – l’abbagliò con i fari, dando un colpo di acceleratore. 12 «Brutto figlio di puttana!» balbettò Titì senza voltarsi verso l’auto per paura di scivolare, di cadere, di spezzarsi. S’infilò nel metrò tutto soddisfatto. Ma fu stupito di non ricevere come al solito il caldo umido in piena faccia. Riprese a tremare. Si strinse nel cappotto e si sedette. «Ce l’avete una cicca?» chiese a una giovane coppia. Ma forse aveva parlato a voce troppo bassa. O forse non aveva parlato affatto, solo dentro di sé. La coppia continuò a camminare lungo il binario senza nemmeno rivolgergli uno sguardo. Li guardò baciarsi, e ridere. Finalmente arrivò un treno. «Ma dove cazzo eri finito?» gli chiese Dédé. Dei sei compagni di Ménilmontant rimaneva solo Dédé. «Rico ti ha aspettato finora. È andato a cercarti al dormitorio. Anch’io stavo per tagliare la corda». Titì scrollò la testa. Non riusciva a dire nemmeno una parola. «Titì, tutto bene?». Con la mano, Titì fece segno di mangiare. «Fame» credette di essere riuscito a dire. «Non ho niente, Titì. Cazzo, non ho niente! Nemmeno un goccio da bere». Gli occhi di Titì si spensero. Le palpebre gli si chiusero. La testa gli crollò sul petto. Prendere la coincidenza a Belleville l’aveva spossato. Aveva rischiato di cadere più volte per le scale. «Oh, Titì! Porca puttana, sei sicuro che va tutto bene?». Titì fece un cenno affermativo. «Devo andarmene, Titì. Tieni...». 13 Dédé tirò fuori dalla tasca una sigaretta ammaccata, la lisciò fra le dita, l’accese e la fece scivolare fra le labbra di Titì. A occhi socchiusi, Titì aspirò lentamente il fumo, chinando la testa. Il suo modo per ringraziare. «Glielo vado a dire a quelli lassù che sei ancora qui, eh Titì? Non preoccuparti, vedrai che vengono». Dédé gli diede una pacca amichevole sulla spalla, poi scomparve sotto il cartello: “Coincidenza: Nation – Porte Dauphine”. La banchina era deserta. Titì continuò a fumare, sigaretta fra le labbra, occhi socchiusi. La testa gli ricadde un’altra volta sul petto. L’arrivo di un treno lo fece sobbalzare. Scese un po’ di gente, soprattutto dalle carrozze centrali, ma nessuno fece caso a lui. Titì aspirò l’ultima boccata, poi gettò il mozzicone. Tremava sempre di più. Si alzò a fatica, trascinandosi fino alla fine del binario. Sgusciò dietro la fila di sedili di plastica, si sdraiò su un fianco, il viso verso il muro, poi si tirò il bavero del cappotto sulla testa e chiuse gli occhi. L’inverno che aveva dentro se lo portò via. 14 Prima parte Capitolo primo «On the road again e per sempre» diceva Titì Rico rifiutò di rispondere alle domande dei giornalisti. Era stato il primo del loro gruppetto di barboni a ritornare alla stazione del metrò di Ménilmontant all’inizio del pomeriggio. Il binario in direzione Nation, dove di solito si ritrovavano, era chiuso. Andò su quello di fronte. I treni non circolavano. C’era un gran viavai di gente. I pompieri con tutto il loro armamentario per la rianimazione e i poliziotti e un mucchio di agenti della RATP, l’azienda dei trasporti parigini. Appena Rico vide come portavano via Titì, capì che era morto. Sbarcò una troupe televisiva. Notiziario regionale. La giornalista, una giovane donna dal volto austero, capelli cortissimi, quasi a zero, lo individuò subito e in pochi minuti la troupe gli fu addosso. Rico non aveva più la forza di muoversi. Troppo dolore. La morte di Titì. «La morte di Titì» ripeté la giornalista. «È così che lo chiamavate, no?». Continuò a fumare, a occhi bassi, senza rispondere. Non aveva niente da dire. Che cosa aveva da dire? Niente. Del resto, come avrebbe dichiarato in seguito alla giornalista il responsabile della sicurezza della RATP: «In questa stagione ne muoiono quasi tutti i giorni, 17 nei corridoi del metrò. Insomma, parecchi alla settimana, soprattutto d’arresto cardiaco...». Quella sera Rico guardò il telegiornale da Abdel, un bar di marocchini in rue de Charonne dove andava spesso. Poteva bersi una birra alla spina, fumarsi una cicca, guardare la tele in pace e nessuno gli diceva che dava fastidio ai clienti. A volte Abdel gli offriva un piatto di couscous. «Quel tipo di cui parlano tutti, tu lo conoscevi?» gli chiese Abdel. «Era il mio amico». «Oh cazzo! Che riposi in pace». La giornalista, e Rico ne fu sorpreso, cominciò il servizio dando particolari alquanto precisi: «JeanLouis Lebrun, morto a 45 anni sul marciapiede del metrò di Ménilmontant venerdì 17 gennaio fra le 10 e le 11 di sera, è stato ritrovato solo il pomeriggio del giorno dopo. Centinaia di parigini gli sono passati accanto senza notarlo. Lo stesso vale per gli impiegati dell’azienda dei trasporti». «Bello schifo» commentò Abdel. «Su milioni di utenti, non c’è da stupirsi...» aveva continuato il portavoce della RATP. «Un’altra birra?». «Volentieri». Poi sullo schermo apparve Dédé. Dédé era piombato sulla banchina sbraitando contro la RATP che aveva lasciato crepare Titì. «Sì, sì... prima d’andarmene l’ho avvisato, l’impiegato allo sportello. Gliel’ho detto che Titì non stava bene. Anzi, che stava malissimo. Pensavo che chiamassero i pompieri, che ne so, e...». La giornalista gli aveva fatto ripetere le stesse parole, con più calma, davanti alla telecamera. Ovvia18 mente il responsabile della stazione sosteneva che l’impiegato del turno di notte non era stato avvisato. «Per legge» concluse con un gran sorriso il responsabile della RATP, «di notte nessuno deve rimanere nelle stazioni. Ma a volte, per spirito di carità, le nostre squadre di sorveglianti chiudono un occhio. È senza dubbio quello che è successo ieri sera». Rico non ascoltava più. Sorseggiava la birra. Pensava a Titì. Il suo amico, da due anni. Il suo unico amico. L’ultimo. Si erano conosciuti, in coda con una ventina di altri come loro, davanti alla chiesa di Saint-Charles de Monceau. Per sfamarsi, era quanto di meglio offriva Parigi. E per di più Madame Mercier, la dama di carità, aveva la prerogativa di trasformare con le parole qualunque piatto immangiabile in un manicaretto. Un piatto di pasta scotta con un po’ di salsiccia sbriciolata diventava per esempio un “timballo di pasta al ragù”! Da quando aveva scovato quel posto, Rico ogni tanto ci tornava, come la gente normale va al ristorante. Non troppo spesso comunque, perché per mangiare bisognava beccarsi due minuti di raccoglimento e poi pregare. Il Padre nostro, sempre, seguito da intenzioni cazzute per San Vincenzo da Paola, “l’amico dei poveri”, per Notre-Dame-du-bon-Conseil e per tutta una serie di santi, ogni volta diversi, di cui a Rico non fregava assolutamente niente. Ma in fin dei conti sorbirsi tutte quelle scemate non era nemmeno la cosa peggiore. La vera carognata era dover ritirare il talloncino un’ora e mezza prima del pasto. Allora il parroco, don Xavier, proponeva «soltanto a chi fosse interessato, ovviamente» qualche le19 zione di catechismo. Chi accettava si sedeva a tavola per primo e per primo scopriva il menu del giorno di Madame Mercier. Una sera Rico si era rassegnato a seguire il parroco. Meglio una predica e un cantico che rimanere sul marciapiede. Il menu proponeva merluzzo alla provenzale e lui non ricordava più quando aveva mangiato merluzzo per l’ultima volta. Passò un’ora d’inferno che gli ricordò tristemente gli anni dell’infanzia e i corsi obbligatori di religione. Don Xavier terminò la lezione con queste parole: «Sì, fratelli, Cristo avrebbe voluto sfamarsi con le scorze che mangiavano i porci, ma nessuno gliene diede». Rico aveva creduto di impazzire. Da allora, pur avendo molto gradito il merluzzo di Madame Mercier, il catechismo lo evitava. Il giorno in cui Rico e Titì si conobbero era la vigilia delle feste pasquali. Dietro di loro la coda si era allungata di una trentina di donne e uomini. La porta della parrocchia, ancora chiusa, impediva di ritirare il buono per il pasto. Dopo più di un’ora, don Xavier era finalmente uscito a dare una spiegazione. La sala sarebbe rimasta chiusa il giovedì e il venerdì santo. «Per quelli che credono in Gesù Cristo» aveva iniziato, «e so bene che non è così per tutti i presenti, ma non importa, è necessario ricordare che nostro Signore è morto per noi in questo week-end di Pasqua». Avevano tutti chinato il capo dicendosi: e vada per la predica pasquale. Dopo essersi schiarito la voce, il parroco aveva ripreso: «Né oggi né domani serviremo da mangiare. Noi, 20