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capitolo 3
Lo chiamavano fiammifero; era il loro modo per canzonarlo
quando attraversava i corridoi della scuola o bighellonava nel
cortile durante la ricreazione, sbocconcellando la merenda o
parlando con qualche compagno di classe.
Erano la banda di Roberto Prodan, due classi avanti, quattordici anni di pura cattiveria. Lo chiamavano fiammifero
perché era magro e aveva una zazzera rossa che gli ricopriva
la testa. Spesso gli rubavano la merenda o gli nascondevano
la cartella, ma lui non reagiva mai, li lasciava fare; non perché
fosse un debole o non gli importasse di essere oggetto delle
loro prepotenze, ma perché si sentiva forte grazie a una cosa
che gli aveva detto il signor Anton.
«Davorin Paternoster», aveva esordito il suo padrino un
giorno di primavera, quando lui era tornato a casa con un
occhio pesto e una manica della camicia strappata, «quelli che
non hanno voglia di studiare e che oggi fanno i prepotenti,
sono gli stessi che domani verranno a pregarti di aiutarli. Ora
lascia correre le loro stupidaggini e in futuro sii superiore e
aiutali, perché a quel punto avranno capito l’errore commesso
da giovani e saranno pentiti.»
Così il ragazzo aveva tollerato le vessazioni e le prese in
giro dei più grandi, sicuro che alla fine avrebbe avuto la sua
rivincita. Nello stesso modo si era comportato anche con gli
adulti, ma tutto aveva un limite: era certo che non avrebbe
mai potuto ignorare o perdonare ciò che stava sopportando
in quel momento.
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Si trovava nell’angusta cabina di un veliero che navigava
in mare aperto. Aveva a disposizione un materasso sottile,
pieno di macchie di cui preferiva ignorare l’origine, una
branda rugginosa che cigolava ogni volta che si girava su
un fianco o sull’altro, una coperta ruvida e puzzolente, un
secchio di legno per fare la pipì e gli altri bisogni, un oblò e
una porta di legno.
Era prigioniero da due giorni, durante i quali aveva dormito una decina d’ore e osservato il mare per altrettanto
tempo; il resto lo aveva passato a immaginare un modo per
riuscire a fuggire.
Aveva esaminato palmo a palmo ogni parete della cabina,
il pavimento e il soffitto, alla ricerca di un’asse allentata. La
porta era sbarrata dall’esterno e non c’era nessun altro varco,
nemmeno una grata per l’aria. L’unica possibilità era svitare i
bulloni dell’oblò e tuffarsi in mare; non era sicuro di riuscire
a passare attraverso il buco, ma senza provarci non l’avrebbe
mai saputo, allora si era messo a rimuginare sulla questione
e aveva valutato la possibilità di smontare qualche pezzo
metallico della branda per usarlo come chiave inglese, ma
non aveva trovato nulla di utile.
Se solo non avesse perduto il suo temperino… Sconsolato,
si era rannicchiato sul materasso, con le braccia a cingere le
gambe raccolte contro il petto, e aveva pianto in silenzio per
chissà quanto tempo.
Finite le lacrime, ormai si era fatto giorno e lui maledisse
a voce alta la propria sfortuna. Aveva bisogno di parlare con
qualcuno, quindi immaginò che Ariel fosse accanto a lui,
come spesso era successo nei giorni precedenti al rapimento.
«Ariel, tu lo sapevi, vero? Sapevi che quella notte avevo fatto
una sciocchezza a seguire il signor Anton nel vicolo, dove
avevano appena ucciso un uomo? Eh, certo che lo sapevi! In
fondo, se io non avessi trovato quel fazzoletto, non ci avrei
mai guardato attraverso e non ti avrei mai conosciuta. Il
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signor Hagopian, l’amico del signor Anton, aveva detto che
tu eri un angelo custode e io ci avevo creduto, lo sai? Ora,
però, non ne sono più sicuro. Non ti offendere, Ariel, ma
ancora non capisco perché non hai salvato il ragazzino che è
morto proprio sotto ai nostri occhi, schiacciato dalle ruote
della carrozza. Te lo ricordi? E perché non hai salvato me da
quel mostro? Insomma, al catechismo, e anche durante le ore
di religione a scuola, avevo capito che un angelo custode deve
proteggere la persona che gli è stata affidata, invece tu mi hai
ordinato di non chiedere più il tuo aiuto. Che razza di angelo
custode può comportarsi così? Forse aveva ragione il prete,
quando ci diceva che il diavolo può imbrogliare chiunque,
travestirsi, mentire…»
S’interruppe all’istante, temendo di aver bestemmiato.
«Scusami, Ariel, ma ho paura», balbettò.
E siccome non poteva chiedere aiuto all’angelo, Davorin
Paternoster si affidò a Dio, che nella sua mente era pur sempre
il capo di Ariel: recitò qualche preghiera e chiese di uscire
vivo da quella situazione. In cambio, fece una promessa: non
avrebbe mai più disobbedito agli adulti e sarebbe stato più
diligente a scuola.
In cuor suo sapeva bene che un giuramento simile l’aveva
già fatto più volte, ma in quel momento la situazione era
davvero disperata e lui era sicuro che Dio non avrebbe lesinato un po’ di aiuto solo per un piccolo arretrato di promesse
non mantenute.
Il resto della giornata lo passò pensando all’uomo che
l’aveva rapito. Provava molta rabbia nei suoi confronti e di
certo non sarebbe riuscito a seguire i precetti di Gesù e del
signor Anton, che predicavano il perdono e biasimavano la
vendetta: quel Hieronymus Mors, Davorin avrebbe voluto
vederlo morto e sepolto.
A un uomo simile, pensava, Dio non avrebbe dovuto
permettere di camminare tra i vivi. Sempre che fosse vera22
mente un uomo. In quei giorni di prigionia, infatti, spesso
gli era balenata l’idea che Mors fosse un diavolo o qualcosa
del genere. Certo, in linea di massima pareva un uomo, ma
a guardarlo da vicino − oppure da molto vicino, com’era accaduto a lui − si perdeva ogni certezza circa la sua natura. La
pelle, tra i solchi che segnavano l’espressione severa, sembrava
liscia, ma a guardarla meglio ricordava il cuoio invecchiato.
I denti color giallo scuro, che a prima vista parevano quelli
di un fumatore incallito, da vicino si rivelavano più simili
alle zanne delle bestie feroci che lui aveva visto qualche
volta, impagliate. E il suo fiato nauseabondo era degno di
un mangiatore di cadaveri, come certi animali di cui aveva
letto nei racconti d’avventura. E poi c’era la sua cattiveria
dura e tagliente, che poteva appartenere solo a un diavolo.
Insomma, a furia di pensarci, Davorin s’era quasi convinto
che Mors fosse una creatura infernale.
Nel primo pomeriggio, un rumore metallico interruppe il
filo dei suoi ragionamenti. La porta della cabina si spalancò e
sulla soglia comparve un marinaio. Nonostante fosse aprile,
la faccia dell’uomo era già scurita dal sole ed era solcata da
rughe profonde e da un reticolo di sottili venuzze che sembravano gli arzigogoli di una carta geografica. Doveva avere
all’incirca cinquant’anni, anche se per Davorin era difficile
stabilirlo con esattezza. Era scalzo, vestito con una maglia
sdrucita color marrone e con un paio di pantaloni da lavoro
blu scuro; portava con sé un secchio vuoto e un vassoio con
un piatto e una bottiglia d’acqua. Posò tutto per terra, prese
l’altro secchio, pieno, e l’altra bottiglia, vuota, e si voltò per
uscire.
«Aspetti, la prego», disse Davorin sottovoce.
L’uomo si girò e lo guardò con un occhio aperto e uno
chiuso: «Che vuoi?» ringhiò.
«Dove mi state portando?»
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