Siria, cosa sta succedendo fra Usa, Russia e Iran (non - avia

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Siria, cosa sta succedendo fra Usa, Russia e Iran (non - avia
Siria, cosa sta succedendo fra Usa, Russia e Iran (non solo
ad Aleppo)
formiche.net
Emanuele Rossi
Un terzo del territorio che i ribelli controllavano nell’area orientale di Aleppo è stato
riconquistato negli ultimi giorni dalle forze governative. Un duro colpo per le opposizioni, che
hanno dovuto fare i conti ancora una volta con i pesantissimi bombardamenti russi e siriani che
hanno aperto la strada alle truppe di terra arrivate da nord (esercito regolare e milizie sciite).
Il costo, centinaia di civili colpiti, altrettanti messi in fuga. In questa fotografia la domanda che
da anni ci si pone a proposito della guerra civile siriana, “chi sta vincendo?”, può trovare una
risposta istantanea più concreta: Bashar el Assad, ossia il regime di Damasco, e dunque anche
i suoi più vicini alleati, la Russia e l’Iran.
L’ANALISI
“Per come la vedo io la Russia ha già vinto in Siria, ma sarà una vittoria di Pirro perché il Qatar
e forse anche l’Arabia Saudita per ora non hanno intenzione di indietreggiare”, spiega
a Formiche.net Cinzia Bianco, analista specializzata in Medio Oriente della Nato Defence
College Foundation e Phd Candidate all’Università di Exeter: “E se dovessero finire alle strette
e anche accettare Assad continueranno a fomentare comunque instabilità per mettere in
difficoltà il regime”. “Ritengo – continua Bianco – che Trump abbia in effetti intenzione di
lasciare più spazio alla Russia. Non solo perché cerca una distensione, ma anche perché
sembra sposare la prospettiva russa, ossia quella che poggia sul presupposto che contro Assad
ci siano solo gli estremisti islamici, e poi perché dà maggior rilievo alla lotta al terrorismo
islamico, come d’altronde lo indirizzano il Consigliere alla Sicurezza nazionale Michael Flynn e
la sua vice KT McFarland, che lui ha già nominato”. Durante un’intervista alla Reuters il
ministro degli Esteri del Qatar ha annunciato che il suo paese non mollerà i ribelli, e criticato
anche l’impegno egiziano al fianco del regime siriano. Quella sul nuovo ruolo del Cairo è una
notizia (alcuni piloti egiziani sarebbero arrivati in Siria per dare il cambio agli elicotteristi del
regime, quelli che sganciano le barrel bomb in modo indiscriminato anche sui civili) diffusa da
un giornale libanese e poi smentita dal governo egiziano, ma se anche il ministro qatariota ne
parla, vuol dire che qualcosa si muove. Dunque, che succede? “L’Egitto è ostaggio del
presidente Abdel Fattah al Sisi, che tra l’altro è convinto che stia iniziando l’epoca russa in
Medio Oriente e in più ha toccato con mano che i russi sono davvero alleati di ferro dei regimi,
vedi il caso siriano, e non sono come gli americani che hanno lasciato cadere il suo
predecessore, Hosni Mubarak, e farebbero cadere anche lui”. Russia e Egitto hanno stretto
importanti relazioni sia politiche che soprattutto commerciali, mentre l’Arabia Saudita, ex
alleato egiziano, dieci giorni fa ha fatto sapere di chiudere il sostegno petrolifero al Cairo,
segnando un altro pezzo di questo dis-allineamento in corso, dato che i sauditi sono tra i
maggiori sostenitori dei ribelli anti-Assad. “Una situazione che vista complessivamente al
momento può solo portare all’aumento delle conflittualità regionali”.
I DANNI UMANITARI
Scott Craig, il portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in Siria, ha
detto alla BBC che la situazione sul terreno ad Aleppo è “oltre l’immaginazione”: l’Onu aveva
già denunciato che centinaia di persone erano state uccise nell’ultima settimana, dopo che i
governativi avevano ripreso l’offensiva per riconquistare il più importante tra i vari fronti
aperti. Si parla di altre migliaia di rifugiati, mentre chi resta è senza cibo e cure mediche, tra le
bombe del regime. “Perdere Aleppo sarebbe un colpo devastante per i ribelli”, spiega sempre
la BBC con una perfetta sintassi sulla situazione. L’area che Assad sta riconquistando è in
mano ai ribelli da quattro anni: non c’è l’Isis, ma gruppi combattenti che vanno dai nazionalisti
pseudo-laici ai jihadisti dichiarati come gli ex uomini della Jabhat al Nusra (l’inviato
Onu Staffan de Mistura ha detto che questi estremisti rappresentano meno del dieci per cento
dei combattenti totali). Riprenderla è uno step chiave per vincere la guerra.
CONGIUNZIONI FAVOREVOLI
Pensare alla situazione attuale un anno fa era quasi impossibile: il regime stava perdendo
nettamente, il rais era dato con i giorni contati, mentre adesso le cose vanno completamente a
favore di Assad (anche se è bene sottolineare che niente come la guerra in Siria ha andamenti
fluidi, scomposti e ribaltamenti rapidi che azzerano le situazioni precedenti: per esempio,
Aleppo è mesi che sembra sul punto di cadere “a giorni”). Il frutto delle circostanze è
sicuramente l’intervento militare russo, che ha ridato spirito anche ai partner iraniani, ed è
quasi impossibile pensare che attorno alle azioni di Mosca negli ultimi dieci giorni si sia creata
una sorta di congiunzione favorevole. L’elezione di Donald Trump, per esempio: il repubblicano
ha sempre detto che per battere il terrorismo serve lavorare con Mosca, e perché no anche
con Damasco.
L’OCCIDENTE AMMORBIDITO
E questo è un pensiero che, quando le immagini atroci delle morti civili di Aleppo sono lontane
dagli occhi, conquista anche altre diplomazie occidentali – per esempio, il candidato
presidente del centrodestra francese, François Fillon, la pensa esattamente come Trump.
Coperta da disinformazione e lassismo, anche l’opinione pubblica occidentale comincia a
seguire la linea. Damasco lo sa, e ci gioca. Altro esempio: a inizio novembre Assad ha raccolto
nel proprio impenetrabile palazzo i giornalisti delle più importanti testate internazionali per una
surreale intervista in cui ha raccontato alla stampa indipendente mondiale quelle che sono le
sue verità sulla guerra. Già nota la linea: tutte le opposizioni sono terroristi, non sono state
commesse torture sugli oppositori, la mia Siria è un paese libero e dalla libera espressione,
finito per questo sotto l’attacco dei jihadisti. Queste narrazioni sono diventate via via più
potabili in Occidente, perché Assad è descritto come l’unica alternativa possibile all’orrore dello
Stato islamico – “Chi preferite, me o i terroristi” è il messaggio sottinteso che passa dal rais e
che viene colto da Trump quando in campagna elettorale dichiara di non amare Assad, ma di
vederlo come un partner perché combatte l’Isis (nota: in realtà il regime siriano è concentrato
su altri fronti e non combatte i baghdadisti se non a Deir Ezzor, una città petrolifera del centroest siriano). Nell’opinione pubblica, d’altronde, la semplificazione passa: chi preferireste tra un
gruppo di squilibrati che un anno fa ha massacrato 130 persone nel cuore di Parigi e un
dittatore sanguinario che però non ha nessuna ingerenza negli affari italiani, anzi, si dimostra
cordiale purché Roma ricambi passando un velo sopra alle sue malefatte casalinghe? Altro
aspetto: sui giornali si parla di modo generico di “ribelli”, ma il club delle opposizioni armati è
in effetti una matassa ingarbugliata, piena di faide e rivalità interne, senza logica futuribile
e con la guerra che ha ormai incarnito le prospettive più nobili, contaminata effettivamente
dalle derive radicali. Aspetti che rendono i ribelli inaccessibili all’opinione pubblica: ed è questo
l’hummus su cui attecchiscono le ricostruzioni deviate.
I RISCHI REGIONALI
Con la vittoria di Trump, dalla parte di Assad e del suo mantenimento futuro c’è la possibilità
che la Cia a fine annosospenda del tutto il flebile programma di aiuto ai ribelli; “flebile” perché
è pieno di, giuste, verifiche burocratiche, che lo rallentano e lo hanno reso poco impattante,
considerando che è in piedi da più di tre anni. Di contro invece per Assad c’è la possibilità che
qualcun altro si inserisca, o prenda una linea meno cautelativa e cominci a fornire armi con
maggiore vigore e indiscriminatamente. Per esempio, il Qatar ha già fatto sapere che anche se
Trump dovesse decidere di sospendere gli aiuti militari ai ribelli siriani – linea coerente con le
sue visioni a proposito di Damasco – Doha continuerà lo stesso a portare avanti il programma.
Questa è una posizione non inaspettata, ma che apre scenari complicati, perché il Qatar è uno
stato che certamente si farà meno scrupoli sul verificare a chi finiscono quelle armi. Doha ha
lavorato moltissimo per fornire un maquillage accettabile al gruppo jihadista, ex qaedista,
Jabhat al Nusra, e renderlo sostenibile – anche se ancora non lo è agli occhi americani ed
europei,
che
la
considerano
ancora
un’organizzazione
terroristica
nonostante
si
sia
pubblicamente affrancata da al Qaeda. Il Qatar potrebbe anche pensare di passare Manpads
antiaerei ai ribelli, inserendo un pezzo in più nel complessissimo teatro di guerra col fine
di limare il gap tra l’aviazione russo-siriana e le opposizioni che non hanno forze aeree. “Anche
se il regime la cattura, sono sicuro che avranno la capacità di riprenderla di nuovo al
regime” ha
detto alla Reuters il
ministro
degli
Esteri
qatariota Sheikh
Mohammed
bin
Abdulrahman al-Thani a proposito della situazione attuale ad Aleppo – nell’intervista ha
definito Assad “un terrorista alla stregua di Daesh”, usando l’acronimo dispregiativo arabo
dell’Isis. E con Doha potrebbero prendere una linea simile anche altre nazioni che partecipano
già al programma congiunto con la Cia, per esempio la Turchia o l’Arabia Saudita. Ma per il
momento i ribelli sembrano rimasti soli.