1 INsCONTRO Basato su fatti realmente accaduti da
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1 INsCONTRO Basato su fatti realmente accaduti da
INsCONTRO Basato su fatti realmente accaduti da qualche parte nel mondo. È proprio quella che non reputi degna neanche di chiamarsi vita, perché quella non è vita, la vita è altro, proprio quella più difficile che purtroppo ti capita, quella è la vita che merita di essere raccontata. Perché non si racconta di vite felici e contente, nessuno vuole ascoltarle quelle se non i bambini nelle favole. Invece quelle altre si raccontano, le vite invivibili. 1 2 CAPITOLO I I.I «Vi chiedo solo rispetto. Come ne do a voi esigo che mi sia ricambiato. Quindi se sospetto che mi state prendendo in giro, vi farò pentire di averci anche solo pensato.» Aveva imparato a non provocarlo, Adria aveva imparato a non impossessarsi di ciò che apparteneva al destino, ma a raccogliere solo ciò che quello avidamente le serbava. Con lei non era stato mai molto garbato, le aveva più tolto che dato, ma Adria aveva anche imparato a non lamentarsi. «Avete problemi? Potete parlarmene, resterà tra noi. Non avete potuto studiare? Ditemi la verità, non inventate scuse e non mentitemi, mai.» Le aveva tolto il marito quando era appena diventato tale lasciandola a trent'anni sola con un neonato da crescere. E lei con ammirevole riserbo aveva incassato il colpo ed un paio d'anni dopo aveva ripreso il suo lavoro di insegnante di filosofia in un liceo. «Siate sempre onesti perché la cosa che più mi fa arrabbiare è la slealtà, io odio la falsità.» Per la sua storia gli studenti la compativano e tutti la rispettavano. Si mostrava dura, forse lo era realmente, ma sotto quella scorza superficiale si riparava una sorta d'intelligenza emotiva. «Vi do piena fiducia, non traditela vi prego ed io prometto di non deludervi.» Il suo discorso di presentazione risultava chiaro ed efficace. Era una donna di bell'aspetto, carismatica, ai ragazzi piaceva e le ragazze la ammiravano. A trentacinque anni Adria doveva barcamenarsi tra il lavoro, un bambino a cui badare e la solitudine interiore. Il suo desiderio non era quello di trovare un uomo per sé, ma un padre per suo figlio. Però continuava a rimandare la ricerca ad un tempo che forse non sarebbe mai arrivato. Perché intanto il tempo andava, se ne andava per non tornare più ed Adria lo osservava allontanarsi e si riprometteva d'agire ogni volta quanto prima. Ma poi ogni volta il tempo andava via, immutato. Era insoddisfatta, non viveva, lei sopravviveva. 3 I.II Quel mondo, quello dei sopravvissuti, è diverso da quell'altro, dal mondo reale. Come diversa era sempre stata Delfina fin dalla nascita. Anzi da prima. Come se sapesse che razza di destino l'attendeva rimandò la sua venuta al mondo di circa un mese. Volle restar lì, in quel posto ovattato e comodo il più a lungo possibile, a godere di quella pace del grembo materno che il destino non le avrebbe concesso. E quello cominciò da subito a farle guerra, geloso ed offeso ché la bimba aveva preferito quel ventre a lui, le ammazzò la madre durante il parto. Così dovette esser accudita da suo padre e il più delle volte accudire lui perché il pover'uomo cadde in uno stato depressivo da cui non fu più in grado di risalire. Se ne prendeva cura come fosse lei l'acerba madre e lui, a ruoli inversi, il suo precoce figliolo, assicurandosi che mantenesse sempre un minimo di decenza e dignità proprie dell'essere umano; provvedeva a nutrirlo, a curarne l'igiene e ad abbigliarlo, a volte tentava pure di intrattenere intriganti conversazioni sperando di suscitarne l'interesse. Lui pareva starla ad ascoltare, le sorrideva, annuiva, dissentiva, la osservava, la amava. Ma intanto ricordava la donna che aveva perduto e che ritrovava nel viso, nei modi, nella voce di sua figlia, e per questa somiglianza, per lei, non volle mai lasciarsi morire completamente. Combatteva per continuare anche solo a respirare. Delfi aveva tatuata una S, la lettera più bella tra le lettere, sulla parte sinistra della schiena che partiva dall'ultima costola ed arrivava quasi al gluteo. La lettera di sua madre Sabina e non potendone avere il ricordo portava dietro quel marchio. A diciassette anni doveva barcamenarsi tra lo studio, un padre a cui badare e la solitudine interiore. Era una ragazza ben fatta e ciò che la rendeva ancora più piacevole e piacente era che non sapeva di esserlo. Non aveva ancora imparato a non pretendere dal destino ciò che non le spettava, se ne impossessava senza permesso e a volte quello indispettito le mandava punizioni sproporzionate al furto subito. Eppure l'esuberanza di Delfi non era cosa invadente o fastidiosa, la si vedeva giocare con Alessio, uscire, ballare, schivare i ragazzi e spesso pareva anche divertirsi sul serio. Ma era insoddisfatta, non viveva, anche lei sopravviveva. 4 I.III «Elio guardami! Fa' quello che ti dico, basta lagne altrimenti ti sculaccio e sai che non mi piace punirti... E non piace neanche a te.» «Ma mamma!» «Niente mamma! Devi andare a letto e prima a lavarti i denti.» «Ma io non ho sonno! Voglio guardare i cartoni!» Adria lo fissò severa ed il bambino senza più proteste obbedì. Aveva un appuntamento galante, di quelli al buio ed era terrorizzata all'idea di trovarvi qualche pervertito represso o un fallito frustrato. Ma la sua collega nonché amica di sempre Paola aveva organizzato l'incontro con quest'uomo perbene, diceva lei, speranzosa di vederla frequentare finalmente qualcuno. «Il tuo compito è semplicemente quello di guardare la tv seduta al divano, lui dorme e di solito non si sveglia fino al mattino... Ad ogni modo hai il mio nume-» «Lo so, ho recepito il messaggio, ora va' o farai tardi! Non preoccuparti e goditi la serata.» disse Paola. «Sarò di ritorno a mezzanotte, massimo mezzanotte e mezza... Se non mi vedi tornare allerta le forze dell'ordine.» Le due sorrisero ed Adria si avviò verso il suo appuntamento. L'uomo che vi trovò, al contrario di ciò che aveva immaginato, era timido, impacciato, esile, vecchio e, come se ciò non fosse già troppo per svignarsela all'istante, anche un po' bruttino. Certo non sarebbe stato l'uomo ideale, ma lei doveva decidere in base a ciò che fosse meglio per Elio. Così si costrinse ad ascoltarlo, lo scrutava e ne osservava gli spruzzi di saliva che emanava dalla bocca ogni volta che pronunciava la effe. Ci provò e ci riprovò, ma proprio non riuscì ad inquadrarlo in una figura paterna e le salì l'ansia al pensiero che sarebbe dovuta restare lì a riparare i suoi piatti da quegli schizzi parabolici per altri interminabili minuti. Andò in bagno fingendo un malessere e chiamò Paola chiedendole di richiamarla e simulare un'emergenza in casa. 5 L'amica conoscendone il carattere capriccioso e difficile dapprima rifiutò, credendo fosse una pretesa per sottrarsi all'incontro. Poi acconsentì, ma in realtà la richiamò solo dopo che fu passata più di un'ora. Adria entrò in auto e cominciò a guidare. Prese il cellulare e chiamò Paola. «Ora mi sente.» pensò a voce alta. I.IV «Pronto?» «Sei pronta?» «Esco.» disse Delfi attaccando, poi chinandosi sulla fronte del vecchio padre ci posò un bacio: «Non farò tardi.» promise. All'uomo non importò quella rassicurazione, lui nel mondo irreale che la malattia gli aveva costruito intorno si fidava della figlia che credeva essere una ragazza di indubbia moralità. Continuò a fissare il televisore e neanche si accorse che uscì. Alessio l'aspettava infreddolito sullo scalino d'ingresso. «Delfi ce l'hai? Mica le hai prese sul serio? Perché io ci ho meditato e sai, i miei non approverebbero...» «Ahaa cazzo Ale, quanto sei cagasotto?!» Aprì la sua borsa ed invitò l'amico a sbirciarci dentro. Alessio aggiustò gli occhiali tondi e neri appiccicandoli alla fronte e spiò. La bottiglia di crema di whisky risaltò tra i vari oggetti prettamente femminili. E poi un portassorbenti con dentro dell'erba. «No no no, io non so se posso...» «Fottiti Ale, manco fosse eroina... meglio, ce ne sarà di più per me.» In breve arrivarono smaniosi all'entrata della discoteca dove un buttafuori, imbalsamato nel suo bel completo nero translucido a braccia conserte, esaminava ad uno ad uno i ragazzi che varcavano la soglia del locale. «Tu no.» diceva di tanto in tanto vietando l'ingresso a qualche povero sventurato che sembrava troppo sciatto, troppo ubriaco, rissoso o anche solo troppo brutto. «Te l'avevo detto Delfi, non te l'avevo detto? Il tacco, dovevi mettere il tacco! E le mie scarpe? Sembra che sono andato a spasso in un pantano... non ci farà mai entrare vestiti così!» 6 «Tu non parlare, ci penso io a fargli gli occhi dolci.» replicò lei. Intanto la fila camminava e il loro turno si avvicinava. «Delfi ho un po' di fifa, tu no? Leggi là, è vietato introdurre bottiglie.» «Prova a ripeterlo più forte, qualcuno in fondo alla via potrebbe non aver sentito!» E mentre lo richiamava alla compostezza, un vocione marcato e profondo li fece trasalire: «Ragazzi!» I due gli volsero l'attenzione e l'omone li analizzò severo da capo a piedi. I piedi, già. Si soffermò su questi. «Le scarpe Delfi, lo sapevo!» sussurrò a denti stretti Alessio. «Shsh!» lo azzittì svelta l'amica e poi rivolgendosi all'uomo disse: «Sa com'è? Quando si balla i tacchi sono scomodi.» L'uomo staccò la vista da quelle scarpette vissute e sporche e non troppo persuaso con un cenno della testa li invitò ad entrare. I ragazzi esaltati oltrepassarono l'ingresso, ma ancora lo stesso fastidioso vocione tornò a tuonare: «Un attimo!» I due frenarono bruscamente e si voltarono con un punto di domanda impresso sul viso. Preso dall'abbigliamento la guardia aveva tralasciato il resto. «La borsa, ci sono mica bottiglie dentro?» «Cosa? Bottiglie? Noo... Perché mai dovrebbe portare bottiglie in borsa!» disse nervoso Alessio e con un gesto netto della mano concluse: «Che assurdità!» Delfi gli sferrò una gomitata nel fianco affinché contenesse quell'atteggiamento da colpevole colto sul fatto. «Quindi non vi spiace se ci do un'occhiata?» «Certo che no.» disse Delfi e, sperando che quell'opera volontaria togliesse ogni dubbio dalle giuste congetture della guardia, si appressò porgendogli la borsa col braccio dritto in avanti. Ma quando vide che l'uomo era fermo nell'intenzione di curiosare tra le sue cose si bloccò, ritirò il braccio a sé e con esso la borsa e disse: «No! Nella borsa di una signora non si spia!» Allora l'uomo si posizionò a gambe divaricate tra loro e l'entrata e rigido negò col capo lentamente prima verso destra e poi a sinistra. 7 «Andiamo signora Guardia, ci faccia passare!» supplicò Delfi, cercando di rendere gli occhi più dolci possibile. Ma quello con un atto deciso del braccio li scansò permettendo ai ragazzi seguenti di procedere col test d'ingresso. «Ahaa! Che si fotta!» disse Delfi e preso l'amico dalla manica della giacca lo trascinò via con sé. «Quindici euro di whisky! Secondo te Ale, potevo mai lasciarlo a lui?» Disse vinta cercando di giustificare quell'amara sconfitta. E fumava Delfi, mentre aveva già dimezzato la bottiglia. Qualche tiro e qualche sorso acconsentì a farli anche Alessio, solo per non dover poi essere costretto a subire gli insulti dell'amica. «Una signora come me? Concedere a quel buzzurro di infilare le sue sporche manacce nella mia borsetta?» Vagabondavano di strada in strada senza meta a passi lenti e sbilenchi. «Già, non si è mai visto! Avrebbe dovuto pagarti!» disse Alessio leggermente affaticato mentre sorreggeva l'amica addossandosi il suo braccio sulla spalla. «Giusto, pagarmi con dei soldi veri!» «Sì, proprio così... Ma ora troviamo un posticino tranquillo e ci riposiamo, ok?» «Un posticino? Ma qual è il tuo posto nel mondo, Ale? Ci hai mai riflettuto?» «A casa mia?» «A casa tua?! Merda! Un mondo pieno di posti e tu scegli questo cesso di posto! Devi sbrigarti, il mondo è pure pieno di persone che ne reclamano uno...» I due amici smisero di barcollare appoggiandosi al cofano di un'auto. Delfi spedì un'occhiata alle stelle e continuò: «Almeno uno, vogliono tutti almeno un posto.» Alessio rise ma l'amica nel suo sproloquio era seria e seriamente riprese: «Invece io non lo voglio un posto chissà dove, non uno fisso in culo al mondo, io voglio che il mondo sia un unico posto, il mio.» Si attaccò alla bottiglia e mandò giù diversi sorsi. «Ahaa!» esclamò di gusto. 8 Poi si voltò verso l'interno dell'auto e attraverso la nebbia ed il fumo prodotti dall'alcol e dall'erba nel suo cervello notò le sicure disattivate. «Entriamo.» disse eccitata. L'amico non ne colse immediatamente l'intento e solo dopo che la vide intrufolarsi in auto le strillò: «Ma che vuoi fare Delfi? No!» Lei ormai era già dentro ed invitava Alessio ad unirsi: «Andiamo, è in discesa, tolgo il freno a mano, metto a folle e guidiamo fin laggiù!» Ma l'altro proprio non ne voleva sapere. «Sei matta, non hai ancora la patente e poi può vederci qualcuno!» «Fanculizzati, sei sempre il solito pauroso!» batté lo sportello in faccia all'amico e procedette nel suo proposito. Giocava Delfi, non sarebbe successo niente di male se il proprietario il giorno successivo avesse trovato la macchina parcheggiata oltre quella ripida discesa, due o tre isolati più avanti. Solo uno scherzo innocente, voleva divertirsi Delfi, niente di più. Alle 23.56.54 del primo Maggio l'auto partì. E mentre prendeva velocità e l'adrenalina si metteva in circolo nelle sue vene, Delfi era stranamente felice. Passò il primo fortunato incrocio deserto, l'auto accelerò e lei strinse le mani sul volante. Il vento freddo proveniente dal finestrino semi aperto le sbatteva sul capo sconvolgendole i capelli. Passò il secondo incrocio ed un'auto le sfrecciò davanti evitando per poco la collisione. Il suono del clacson si perse nella notte e nelle orecchie di Delfi che voltandosi indietro seguì con la vista quel rumore. Alessio osservò come imbambolato i primi secondi della pazza gara dell'amica, poi iniziò una corsetta nevrotica verso l'auto in moto. Delfi rinsanì un po' e stabilì che fosse giunto il momento di pigiare il freno. Lo pressò leggermente, ma ebbe come l'impressione che il pedale fosse bloccato. Allora calò più a fondo il piede, mentre l'auto si avvicinava al terzo incrocio ad una velocità parecchio sostenuta. Ma poté istantaneamente constatare che non era solo e purtroppo una sua impressione, il pedale davvero non scendeva. Lo schiacciò con tutto il peso del suo corpo, ma quello immobile non si mosse. 9 Entrò in panico e vide proiettata una luce di fari dinanzi alla sua destra. Doveva ragionare ed agire e forse non ce l'avrebbe fatta a farli entrambi in un tempo così ridotto. L'altra auto sbucò dall'incrocio, certa di avere la precedenza, ad un'ora tarda, in una strada desolata, non vedendo altri fari se non i propri, certa di essere l'unica ad attraversare l'incrocio. Il freno a mano Delfi, il freno a mano. Duro da alzare, lei ci provò invano. Sterzò, ma era ormai troppo tardi. Alle 23.57.21 il frastuono dello schianto si infranse nel silenzio della notte. Alessio realizzò ciò che stava per accadere appena vide il muso dell'altra auto spuntare da quel dannato terzo incrocio. Ma non poté niente in quell'attimo se non arrestarsi ad osservare l'incidente. Portò le mani nei capelli e come inebetito da una sorta di paralisi sentì il suo cuore fermarsi improvviso. E poi riprendere più rapido, impazzito, in procinto di esplodergli dal petto e con lo stesso ritmo frenetico prese a muover le gambe, a correr giù per altri due isolati, respirando a fatica e senza fiato arrivò dall'amica. Aprì la portiera, la scosse, la chiamò, la richiamò e la chiamò ancora disperato. I.V «Che c'è?» «Sei una stronza! Che motivo c'era di farmi penare un'altra maledetta ora con quel rincitrullito bavoso!» «Ah ah ah! Bavoso? Quanti anni aveva?» «No, non è un modo per dire vecchio... oh mio dio, vecchio lo era pure, ma bavoso nel senso che sbavava!» «Ti sbavava dietro, era un pervertito?» «No scema, nel senso letterale! Tirava bave mentre parlava!» «Ma che schifo!» «Già, dillo a me che mi ha lavato la faccia per un'ora e mezza! Ma poi mi chiedo, dove li scovi 'sti tipi?» «Ah ah ah! La verità è che ho letto solo la descrizione che aveva fatto di sé e dalla foto non sembrava poi così male... dai, la prossima volta mi impegno meglio.» 10 «La prossima volta, non ci sarà una prossima volta.» Le due risero. «Tutto a posto con Elio?» «Sì, dorme come un angioletto... tu dove sei?» «Sono all'incrocio di via Roma, tra cinque minuti arr-.» «Adria? Pronto?» Paola non attaccò perché udiva degli strani rumori provenire dall'altro capo ed era curiosa ed allo stesso tempo preoccupata per ciò che percepiva stesse succedendo. «Mi senti, pronto? Ci sei, Adria??» I.VI «Ci sono, ci sono.» «Grazie a Dio Delfi, grazie a Dio!» Delle lacrime iniziarono a sgorgare copiose dagli occhi di Alessio, piangeva di terrore e di gioia per essersi ravveduto dopo aver creduto l'amica ormai morta. «Come stai? Come ti senti?» «Bene... sto bene.» «Riesci ad uscire? Ti aiuto.» Solo un po' tumefatta per l'azione dell'airbag, Delfi aiutata dall'amico uscì dall'auto e le ginocchia cedettero, l'organismo non resse lo scoppio d'adrenalina, di panico e di alcol. In quella posa, a gattoni, si voltò verso le auto e riuscì a riconoscerne solo la parte posteriore, mentre ambo i musi erano diventati delle lamiere accartocciate. Si alzò repentina e si diresse verso l'altra auto. «Che fai? Dobbiamo andare, c'è qualcuno a quella finestra, dobbiamo scappare prima che ci vedano, che ci riconoscano...» Ma Delfi senza far caso alle parole di Alessio aprì lo sportello del passeggero e vi trovò sul sedile accanto una donna sui trentacinque anni incosciente. Cercò di tirarla fuori ma era incastrata. Allora cercò di liberarle le gambe, la sinistra non si distingueva più, ormai divenuta tutt'uno con la portiera ammaccata in dentro, una poltiglia di sangue plastica e metallo. Poi cercò di slacciarle la cintura, notò con le lacrime agli occhi un cellulare finito nel portaoggetti e le sembrò che parlasse, che emanasse delle urla disperate come se chiamasse qualcuno, ripeteva un nome, Aida forse. 11 «Andiamo! Sento le sirene, se ci trovano qua ci arrestano, è stata colpa tua, l'hai uccisa cazzo! L'hai uccisa!» A quelle grida febbricitanti Adria si rianimò, solo per pochi secondi, quanti bastarono però per rendersi conto che sopportava il peso di qualcosa addosso, qualcosa marcato con uno strano simbolo, distinse un fianco, forse qualcuno non qualcosa, che allungandosi sopra di lei fece scivolare la propria maglia in su. Alessio acciuffò l'amica dai pantaloni e la tirò a sé rendendo ancora più visibile il tatuaggio. «Fanculo dobbiamo fuggire, non possiamo farci trovare qua, lo capisci?» Ma Delfi col cuore in pena credeva di dover e poter rimediare al tragico errore, credeva che sarebbe riuscita a salvarla. «Sai cosa? Fottiti! Sì fottiti, sei fumata e ubriaca e l'hai uccisa. Spiegalo tu alla polizia, che credi? Finirai in prigione cazzo, in prigione! Io me la filo!» A quelle crude parole Delfi afferrò finalmente la realtà dei fatti, si levò dal corpo della donna e mentre il suo viso sfiorava quello di lei, le volse un'occhiata e vide lo sguardo della donna fissarla per un breve istante. E poi spegnersi. Ristette un attimo ed indietreggiò lentamente mentre il suono delle sirene si faceva sempre più prossimo. E proprio quando si girò per correre via, proprio allora un boato assordante esplose dall'auto rubata mandandola in fiamme. Si trattenne e si voltò ancora verso la donna ed il riflesso del fuoco la fece risplendere. Pensò che questa le aveva visto il volto, anche se in stato di shock, ed avrebbe potuto identificarla. Allora forse se fosse morta... Allora forse non avrebbe potuto identificarla se fosse morta. E la lasciò lì, a bruciare. Adria al botto rinvenne di nuovo ed in quello stato di confusione credette di vedere una ragazza illuminata dalle fiamme che si dileguava. Poi fu solo calore. 12 CAPITOLO II II.I Delfi cambiò. Il trauma che la investì le rivoluzionò gradualmente ogni cellula dell'organismo. Anelava la fine di quegli ultimi insopportabili mesi di scuola prima delle vacanze estive e ne subiva il peso opprimente, come quello che gravava sulla sua coscienza. Si nascondeva tra i banchi, in bagno, in cortile, ovunque ci fosse un luogo ristretto dove rintanarsi. Paranoica sentiva addosso la vista incriminante di tutti, come se sapessero quale fosse il suo peccato, la sua vergogna. Tacitamente portava dentro quel segreto, timorosa che un'azione, una parola, anche solo un'occhiata sbagliata potesse rivelarlo. Calibrava ogni mossa, ogni respiro cercando di produrne lo stretto necessario, di non attirare l'attenzione e di essere soltanto un puntino minuto nel buio infinito. «È passato più di un mese ormai, tra neanche due settimane finisce la scuola... Delfi devi voltare pagina.» Lei lo guardò appena e proseguì nel suo tragitto verso l'aula. «Quello che è stato non possiamo cambiarlo, arriva l'estate, non scervellarti, pensiamo solo a spassarcela come sempre.» «È facile per te non scervellarti Ale, tu sei innocente.» «Andiamo, in fondo è andata bene anche a te, no? Ora avresti potuto essere al fresco.» «Fottiti!» Arrivata sull'uscio della sua aula la ragazza si volse all'amico e sospirò. «Che racconta tuo padre?» «Lunedì prossimo inizia la fisioterapia, fra due settimane esce dall'ospedale e fra tre entra al centro di riabilitazione.» Delfi appoggiò il capo al telaio della porta ed alzò lo sguardo in su. «Lo sai, mio padre è solo un infermiere, non sa poi molto, però l'amputazione che ha subito, bhè dice che avrà bisogno di una terapia psicologica più che altro.» Allora Delfi chiuse le palpebre ed una lacrima le attraversò lo zigomo. 13 «Ehi Delfi, ascolta! Non serve rimuginare e non serve neanche confessare. Ti metterebbero in galera e tu non hai un debito con la società, hai un debito con lei. È a lei che devi rispondere, non alla legge... così ho riflettuto, al centro cercano sempre volontari, perché non fai domanda e... sì insomma, estingui il tuo debito facendole del bene. Sai, per rimediare al male che le hai fatto, così magari poi... magari la tua coscienza si calma un po'.» «E se vedendomi mi riconosce?» «Se avesse saputo riconoscerti l'avrebbe fatto già da un mese. Ha dichiarato solo che ha visto fuggire una ragazza, ricorda il tatuaggio di un serpente... tu copri bene il fianco e vedrai che andrà tutto liscio.» «Non so Ale, ho paura.» «Ma se continui a lacerarti dentro la situazione non migliora...» Delfi affogò in una dicotomia di concetti, combattuta se liberarsi l'anima da quelle torture prestando servizio di volontariato o condannarla ad un'eternità di supplizi infernali. «L'importante è che non perdi di vista il tuo scopo, durerà solo pochi mesi, non oltre...» intanto Alessio procedeva col suo discorso di persuasione, «mi raccomando, dovrai mantenere un profilo professionale.» tenne a precisare. «Pensaci... provaci.» II.II «Ci ho pensato e... no, non voglio.» «Andiamo Adria, perché devi essere sempre così negativa?» «Tre mesi chiusa in un centro di riabilitazione non li sopporterei.» «Forse non hai ben inteso che non sta a te scegliere.» «Ed Elio? Non può stare cinque mesi senza sua madre.» «Ma se continuerai a vederlo tutti i giorni... E poi con me sta benissimo, siamo diventati amici ormai.» «Non so Paola, ho paura.» «Ah, non dire sciocchezze! Tu ci andrai, non si discute.» Parlava così mentre sollevava l'amica dal letto e l'aiutava a sistemarsi sulla sedia a rotelle. 14 «Ho paura di non farcela, di sentirne la mancanza.» e fissò quell'arto non aveva più. Paola ristette un istante, patì la sua sofferenza e si sentì impotente come negli ultimi mesi quando aveva dovuto affrontare il coma, l'operazione, la lenta convalescenza dell'amica senza poter concretamente dare il proprio supporto. «Ti hanno chiamato dalla caserma?» «L'ultima volta che mi hanno chiamato è stato tre settimane fa: "Stiamo facendo il possibile, le faremo sapere, sarà fatta giustizia." Col cazzo!» «Possibile che non riescono a procedere con le indagini?» «Mi hanno detto che non possono spogliare i fianchi di tutte le ragazze del paese per vedere se sono tatuate.» Adria non aveva ancora imparato ad orientarsi nel labirintico corridoio dell'ospedale, sempre identico ad ogni svolta si diramava buio e triste in ogni direzione e di rado spuntava qualche insegna a far luce sul tragitto da tenere. «L'unica testimone è una vecchia bacucca insonne che crede di aver visto gli alieni rapire qualcuno, al diavolo!... Quella piccola bastarda non può rimanere impunita.» Il rumore stonato prodotto dalla carrozzella ogni volta che il perno della ruota sinistra compiva un giro completo andava ad intromettersi nella profonda pausa riflessiva di Paola. Ad ogni modo riuscì a portare a termine il suo intimo ragionamento e sentì lo scrupolo di comunicarlo all'amica. «E se fosse una delle nostre alunne? La più testa di cazzo magari... c'è quella Rocchina che non mi ha mai convinto tanto, con quella frangetta sugli occhi, tutti quei piercing e quei tatoo macabri... posso chiederle di svestirsi.» «Con tutte le ragazze che ci sono in città, proprio Rocchina... e comunque non andrà bene in chimica ma con me fa degli intensi discorsi filosofici.» Le due donne frenarono. Adria gettò un'occhiata dinanzi a sé e sospirò. "Fisioterapia." Lesse. «Facciamolo.» 15 II.III «Sicura di volerlo fare?» Lei tacque per diversi secondi. In realtà no, non ne era certa. Anzi, forse era certa del contrario. Già, non voleva farlo, aveva paura. «Cosa ti spinge a farlo?» "Sono costretta." Avrebbe risposto prontamente. Il ragazzone che la interrogava era sudato, stanco, stressato. E quelle mancate risposte lo rendevano ancora più spazientito. «Ehilà? C'è nessuno?» Delfi gli volse un'occhiata stordita e disse: «Sì.» «Sì cosa? Ci sei? Ok, ci sei. Guarda tesoro, c'è afa, son dieci ore che lavoro ed ho davvero bisogno di una doccia, per non dire che l'ultima cosa che ricordo di aver mangiato sapeva di pappina per vecchi. Detto ciò, sai cosa? A me non importa davvero il motivo per cui vuoi fare volontariato, avrai sicuramente i tuoi buoni motivi e puoi anche tenerli per te... Ma come ti dicevo, qui abbiamo davvero bisogno di una mano, quindi qualsiasi cosa ti abbia spinto qui oggi, benvenuta!» Delfi ascoltò quelle parole e d'un tratto si ritrovò imprigionata in qualcosa di cui non aveva ancora assimilato a pieno il significato. «Metti una firma qua...» Delfi firmò. «Un'altra qui...» Poco male però, il ragazzone le aveva risparmiato una spiegazione che altrimenti non avrebbe saputo articolare. «I tuoi documenti restano a me...» Perché volontariato? Perché, bhè, nemmeno a lei era ben chiaro. Forse per la convinzione che attraverso quell'azione di beneficenza avrebbe finalmente potuto espiare le sue colpe, la sua coscienza smacchiata e ripulita le avrebbe così permesso di dormire serenamente e l'equilibrio del suo universo personale si sarebbe ristabilito. Certo il ragazzone non ne avrebbe afferrato la sottigliezza. «Ecco fatto! Qualche richiesta particolare?» e con questa domanda siglò, più che un invito, una pretesa ad abbandonare la stanza. La ragazza si levò dalla sedia, «No.» disse. 16 Allora lui si alzò e s'indirizzò alla porta, pose la mano sulla maniglia e la aprì. Lei lo seguì con lo sguardo e lo vide farsi aria sventolandosi in faccia i suoi documenti a mo' di ventaglio, impaziente di disfarsi di lei. E meditò ad alta voce: «Certo che ce l'ho una richiesta.» «Come?» «Sì, s'è possibile, sì insomma, se non richiede molto disturbo, potrei seguire un paziente in particolare?» «E per quale motivo?» «Bhè ecco... lei la conosco, è professoressa nella mia scuola, no, non è la mia professoressa, però forse anche lei mi conosce... se fosse possibile vorrei occuparmi di lei.» «È della professoressa Tosca che parli?» «Sì.» «Sai, forse non dovresti iniziare con un caso così complesso.» «La prego, mi faccia almeno provare.» Il ragazzone traspirava perplessità e seccatura da tutti i pori della sua grassa mole, cacciò dalla tasca un fazzoletto sudicio e si asciugò le gocce di sudore che lente colavano giù dalle nude tempie. E stanco disse: «D'accordo, lo propongo a lei e sento cosa ne pensa... non è una tipa facile quella lì.» II.IV «D'accordo.» «Scusi? A lei sta bene?» «Senta devo stare imprigionata qui per tre mesi, i ragazzi dopotutto sono il mio lavoro, la mia vita... mi ricorderà un po' cosa ho lasciato fuori queste mura. Poi se fa volontariato non può che essere una ragazza perbene, non credo mi farà arrabbiare... anzi magari mi distrae da tutto questo schifo.» «D'accordo, come vuole, vado a chiamarla allora.» disse lui ormai rassegnato alle stranezze di quel posto che a fatica dirigeva. 17 Adria roteò la carrozzella e si avvicinò alla finestra, guardò fuori, il giardino, le siepi e qualche panca sparsa qua e là su cui erano piazzati uomini e donne, diversi. Diversi non da lei. Dagli altri. A tutti mancava qualcosa, tutti con un trauma tragico alle spalle si trascinavano a stento in quello stato. Lì si rese conto di essere entrata a far parte di quel mondo anche lei, sempre stata disadattata, ora anche disabile. «Cazzo!» esclamò rabbiosa. «Sì, si sfoghi pure!» Adria ruotò. «Lei è la ragazza di cui le parlavo, Delfina Moggi.» Delfi fece un gran respiro e varcò quella soglia. In mente contò "uno, due, tre", poi cercò di alzare lo sguardo alla donna, ma non ci riuscì. Allora contò più veloce, "unduetrè", alzò lo sguardo senza pensare più. I loro occhi s'incrociarono come l'unica volta prima di quella, quando disperata Delfi l'abbandonò nell'auto in contro al proprio destino. Tremante nel corpo e paralizzata nella mente, il suo blocco fu finalmente sciolto da Adria. «Non ti conosco.» disse «Non ti ho mai visto a scuola.» La ragazza emanò un sospiro interiore, non la conosceva, non la riconosceva. Ma ancora troppo scossa non disse niente. «Sembra assente e di poche parole, e lo è veramente... le piacerà.» disse il ragazzone all'insegnante. «Fatte le presentazioni ho fatto tutto, posso tornare a casa... signore è stato un piacere! Per qualsiasi cosa rivolgetevi agli inservienti.» ed uscì di scena. Delfi se ne dispiacque. Ora sola con la sua vittima avrebbe dovuto trovare l'adeguata intraprendenza e cominciare a comunicare. «Quindi Delfina? Che nome.» «Delfi, può chiamarmi Delfi.» disse cercando di camuffare quel tremolio nel timbro di voce. «E tu dammi del tu e chiamami Adria, non sono la tua insegnante. Magari diventiamo amiche.» La ragazza scostò la vista dalla sua faccia che precipitò casualmente sulle sue gambe. Sulla sua gamba. Ed ingoiò un boccone amaro, peggio, aspro, peggio, acido. «Quanti anni hai Delfi?» 18 «Quasi diciotto.» «Hai finito il quarto anno allora? Sei nella classe della professoressa Venturi?» «Sì.» «Stronza la Venturi, vero?» «Un po'.» disse. «Un po'? Dai, devi essere onesta con me, non vado mica a dirglielo! È più che stronza, è una vipera!» Delfi si sforzò di sorridere. Doveva sembrare normale, una normale brava ragazza intenta nella sua opera di bene. «Qual è quindi il tuo compito qui?» «Devo spingere la sedia e aiutarla ad alzarsi... se le serve qualcosa me lo chieda pure. E devo farle compagnia, quattro ore al giorno, o mattina o pomeriggio, come preferisce.» «Del tu Delfi, dammi del tu... punto primo: non amo ripetere, non farmelo fare.» Delfi annuì. «Ripeto già troppe volte la stessa lezione a scuola da anni e con mio figlio. Altrove sarebbe bello se riuscissero a cogliere quello che dico la prima volta, dopotutto non mi esprimo in modo così complicato.» «Scusi... voglio dire scusa.» Adria rilevò il timore della ragazza, forse eccessivo. O forse no. In fondo aveva di fronte un'invalida, una della peggior specie, petulante e bisognosa d'aiuto anche solo per reggersi in piedi. «Bene, sei al mio servizio.» fece cenno a Delfi di accomodarsi e riprese: «Fa' come ti viene più comodo, mattina o pomeriggio per me è indifferente.» E si osservarono per qualche istante. Allora la ragazza imbarazzata ruotò la vista lentamente in ogni direzione fingendo di interessarsi all'arredo scarno della camera. Adria la scrutò ancora pochi secondi e Delfi pensò che forse stesse per identificarla. Allora riposò lo sguardo su di lei. La donna fece un piccolo scatto in avanti con la sedia ed emise un breve suono come se stesse per pronunciare qualcosa. Poi si bloccò. 19 La ragazza ebbe un fremito. L'aveva riconosciuta. «Ti riconosco.» disse. Inebetita Delfi non fiatò. Non perché volle mantenere il silenzio, ma perché un groppo in gola le ostacolava l'espirazione. «Mi sembravi un viso conosciuto.» La ragazza si alzò lentamente con l'intenzione di fuggire lontano in un altro mondo e non fare mai più ritorno. «Tuo padre è Armando, giusto?» Delfi sospirò per la seconda volta in pochi minuti, il suo cuore ormai stanco di ricevere colpi gratuiti reclamava un po' di tranquillità. Accennò un timido sì col capo. «Tua madre, la conoscevo sai, Sabina. Da piccole eravamo amiche, lei aveva qualche anno più di me, l'ammiravo... tu le somigli tanto, ecco perché mi ricordavi qualcuno.» disse. Improvvisamente la ragazza sentì il viso andarle a fuoco e a stento trattenne qualche lacrima. «Dimmi Delfi, tra i tuoi compiti c'è anche quello di portarmi a spasso in giardino?» II.V «No, non c'è tra i compiti.» «Nessuna versione di greco?» chiese Delfi. «Né di latino. Non ricordi, il professore disse che l'estate prima di quella della maturità voleva farcela passare in libertà.» «No, non ricordo Ale, lo sai che nelle ultime settimane di scuola uno zombie sarebbe stato più reattivo di me.» I due amici passeggiavano senza fretta fra i raggi cocenti che filtravano attraverso i rami di un rumoroso parco comunale. Si adagiarono su una panchina mentre dei bambini accaldati scorrazzavano intorno intralciando la loro vista. «Allora? Com'è andata?» Delfi ristette, con molta calma sospirò. E il rumore angosciato di quel sospiro si perse tra le urla allegre dei bambini. 20 «Ho paura Ale, non ho mai avuto tanta paura. Nemmeno quando gli assistenti sociali hanno minacciato di rinchiudere mio padre e spedirmi in una casa famiglia.» Alessio portò il capo tra le mani e poggiò i gomiti sulle gambe. «Posso sentirlo quello che provi Delfi. È solo... è solo che non so come aiutarti. Mi fa stare in pena vederti stare in pena.» «Cazzo, se solo t'avessi ascoltato! Ma no, io no, devo fare tutto ciò che mi passa per la testa sennò non sono soddisfatta!» si alzò e nervosamente cominciò a muoversi da parte a parte richiamando lo sguardo dell'amico. «Eri ubriaca e fumata... non ragionavi.» le disse. «E dovrebbe essere una giustificazione? No cazzo, è un aggravante! Sai cosa Ale? Vaffanculo! Sì, proprio così, ben ti sta e vaffanculo a te, Delfi, te lo meriti, ti meriti tutto il male che c'è e tutto quello che hai avuto fin'ora, tua madre, tuo padre, la tua infanzia ed ora questo!» Alessio si alzò e cercò di afferrare l'amica per placarne lo sfogo, ma lei sfuggente continuò ad inveire contro sé stessa. «Povera bastarda, mi hanno teso una trappola ed io ci sono cascata con tutti i piedi... Mi hanno punito in anticipo Ale, come se già sapessero cosa avrei combinato.» «Andiamo Delfi, calmati.» finalmente la afferrò. Lei non riuscì a trattenere quel paio di lacrime che le rimasero intrappolate tra le palpebre, si lasciò abbracciare da Alessio e nell'indifferenza generale vide qualcosa, qualcuno. Si asciugò le lacrime e si rivolse all'amico. «Sono loro.» «Chi?» chiese quello. «Loro, il figlio e l'amica di Adria, la professoressa Gervasi.» Alessio si girò e vide un bambino di circa sei anni giocare a calcio con una signora, la professoressa di chimica dell'altro corso. Stettero incantati ad osservarli, il bambino sembrava felice, spensierato. Tirava calci alla palla e talvolta esclamava: "Gol!" La donna la lasciava passare sostanzialmente per reale incapacità di pararla. Il bambino era abbastanza bravo tanto che d'un tratto sferrò un calcio così potente da mandare il pallone in prossimità dei due ragazzi. «Palla!» vociò il bambino. 21 «Palla!» ripeté la donna. Delfi la guardò rotolarle al fianco e poi impacciata, di scatto, si volse di schiena. Alessio rimase a guardare l'amica e per poi rimediare a quell'atteggiamento che doveva sembrare abbastanza bizzarro, intraprese una breve corsetta per recuperare la palla. Delfi strinse i pugni e sbarrò gli occhi. Aveva paura. Di nuovo, ancora. Paola con sguardo stranito e fisso sulla schiena di Delfi si avvicinò ad Alessio che gentilmente le porgeva la palla. «Grazie.» disse ed indirizzò la vista ad Alessio. E mentre fece per andarsene, si bloccò un attimo. «Ti conosco?» Delfi furtivamente prese a muovere passi piccoli e lenti per allontanarsi dalla scena. Che fortuita coincidenza sarebbe stata avere un incontro ravvicinato con le persone più care della donna che aveva abbattuto e che ora cercava di aiutare a rialzarsi. Alessio stette per negare ma la donna lo anticipò: «Prima A. Feci supplenza a Febbraio.» Delfi accelerò i passi. «Non dimentico mai un volto.» E mentre Delfi si allontanava sentì dire da Alessio: «Giusto professoressa Gervasi, me ne ero scordato!» Ed era vero. Paola tornò ad osservare quella strana ragazza che sembrava quasi stesse fuggendo da chissà cosa. Poi accennò qualcosa col capo e concluse: «Buona giornata.» Alessio le mostrò un falso sorrisetto di consenso e dopo che la professoressa gli diede le spalle, sospirò sollevato e si volse in cerca dell'amica per raggiungerla. «Ma che t'è preso? Sei impazzita?» Delfi proseguì impassibile e le parole di Alessio si persero nel trambusto della sua mente. «Delfi, se volevi attirare la sua attenzione ci sei riuscita benissimo!» «Ale no, non ce la faccio, mollo tutto, non riesco a recitare io non ne sono capace, non è nella mia natura!» «Ma che dici?» 22 «Portare la palla e fingere di sorridere al figlio della donna che ho mutilato è troppo per me.» Continuava a camminare Delfi, colpita da funesti concetti che come razzi le esplodevano nel cervello causando cenere e rovina. Ed Alessio stufo di correre dietro all'amica da ormai troppo tempo si fermò: «Sai cosa, Delfi?» strillò. «Hai ragione, vaffanculo! Vaffanculo a te Delfi, fai quello che ti pare e sì, te lo meriti, ti meriti tutto!» Delfi a quelle parole rallentò, si arrestò e si girò all'amico. «Hai l'occasione di rimediare, il destino te l'ha donata e tu che fai? Ci rinunci? Male, perché non fa mai bene sputare in faccia al destino, mai!» concluse Alessio. Il povero ragazzo raramente si agitava e quando succedeva il suo corpo per nulla abituato reagiva tremolando. Si volse verso l'uscita del parco e si avviò. Ma Delfi non poteva permettersi di perdere il suo migliore amico, l'unico. «Aspetta.» gli disse debolmente. II.VI «Cosa devo aspettare di preciso?» «Voglio presentarti la volontaria che mi hanno affiancato. Si occuperà di me, non immagineresti mai chi è!» «Oddio, non dirmi che è una delle nostre alunne.» «No, altro corso.» e mentre spiegava Adria cercava di imparare ad alzarsi dalla carrozzella con l'aiuto delle stampelle. «Non credo tu la conosca, però conoscevi... conoscevamo i genitori.» Paola la osservava con attenzione mentre tentava di erigersi sui due bastoni senza alcun risultato. «La ricordi Sabina?» «Chi?» e così chiedendo, corse in suo aiuto dopo che una stampella l'aveva tradita scivolando sul pavimento e facendola ricadere col sedere sulla sedia. Ma Adria la allontanò. E Paola se ne risentì. «Devo farcela da sola.» disse Adria cercando di rimediare. «Forse dovresti cominciare col carrello a quattro ruote.» 23 «Andiamo Paola, non sono una novantenne... le stampelle sono più che sufficienti.» Paola aveva tentato in tutti i modi di rendersi utile negli ultimi due mesi, conosceva l'amica da troppo tempo per bersi la storia che ce l'avrebbe fatta senza tanti drammi a superare anche quest'ultima beffa che il destino le aveva giocato. Sapeva che ce l'avrebbe fatta, fino ad allora Adria ce l'aveva sempre fatta, ma con quanto patimento. Soffriva nel vedere l'amica arrancare e cercare di nascondere quel dolore a suo figlio, a lei. Anche in un ambito così difficile Adria si preoccupava per i suoi cari e non permetteva che questi si preoccupassero per lei. Ma Paola sapeva leggere nel suo cuore. Aveva rinunciato alla palestra per badare ad Elio, sacrificava il poco tempo che aveva a disposizione col marito per far visita all'amica in ospedale, anche solo per sedersi sulla sedia a fianco al suo letto ed ascoltarla dormire. Le voleva bene e sapeva di essere ricambiata. «Dicevo... Armando e Sabina, li ricordi?» «Ah, Sabina sì, sì, la ricordo... morta di parto. E Armando pover'uomo, che famiglia sfortunata.» «Bhè, la bimba ora ha diciotto anni, è lei la mia volontaria.» «Ah sì?!» In quella domanda-esclamazione Adria percepì un misto di incredulità e stupore. «Che c'è? Cosa non ti convince ora?» «Niente... è solo che mi chiedo, cosa la spinge a farlo? Fa volontariato già col padre ventiquattro ore su ventiquattro, a diciotto anni non si stufa?» «Forse è semplicemente... buona?» Adria finalmente riuscì a levarsi e a mantenersi in equilibrio per alcuni secondi. «Troppo!... Buona.» precisò diffidente Paola. «Magari proprio perché lo vive col padre sa che c'è gente che ha bisogno.» Paola corrugò il volto in un'espressione non troppo convinta. Mentre Adria, intenta nella sua impresa, volle osare allungando la gruccia sinistra in avanti, poi quella destra. E restò così, a ponderare sul da farsi. «Ora Paola, ora come faccio? Devo saltare in avanti?» 24 «Che vuoi che ne sappia! Non te l'hanno spiegato i fisioterapisti?» «Ahaa!! Quei due rincitrulliti. Sanno solo gridare quando non riesco a mettermi in piedi. E mi fanno sfiancare con stupidi esercizi di resistenza che servono a rinforzare i muscoli... dicono loro.» ritirò indietro la gruccia sinistra, poi quella destra, «Voglio sapere se vedrò mai risultati!» e si lasciò cadere seduta sulla carrozzella. «Ho capito che se faccio da me faccio prima e meglio.» «Non fare il fenomeno come al solito.» Paola guardò l'orologio, recuperò la borsa. «È tardi, non posso più aspettare... non è una brava volontaria se fa tardi.» «Non ha un orario, non è un lavoro Paola.» «Lo so.» disse incamminandosi verso la porta. «Ah! Un'altra cosa.» si girò e le sorrise affettuosamente, «Permetti agli altri di aiutarti.» e con un cenno deciso del capo la salutò. E mentre percorreva il lungo corridoio, Paola pensava che fosse capitata a lei una disgrazia del genere, se avesse perso il marito, ma se anche avesse perso solo la gamba, forse non avrebbe avuto tutta quella forza di rialzarsi, nel senso letterale, ed imparare di nuovo a camminare. Sarebbe stata arrabbiata. Con chi l'aveva ridotta così. Non si sarebbe data pace finché non fosse riuscita a scovare il colpevole. E a punirlo. «Razza di piccola bastarda!» quella riflessione si mutò in voce e la donna diede un'occhiata intorno per controllare se qualcuno l'avesse udita. E si trovò faccia a faccia con Delfi. La ragazza la guardò solo pochi istanti, quanti bastarono per realizzare chi fosse. Poi levò subito gli occhi fingendo di interessarsi al cellulare e continuò ad andarle in contro mentre sperava che l'altra non la notasse. Ma Paola la vide e la osservò avanzare finché non si incrociarono e procedettero ognuno nella direzione opposta a quella dell'altra. Allora Paola girandosi la seguì con la vista e quella schiena, quella nuca, quella camminata, quella fuga le ricordarono qualcosa. I volti possono risultare anche semplici da memorizzare, ma non il retro della testa. Delfi proseguì con quella sensazione addosso, quella che non l'aveva più abbandonata da ormai due mesi, quella che tutti, persino gli sguardi dei quadri sulle pareti, la accusavano di essere un'infame. 25 Poi arrivò sull'uscio del suo caso umano e prima di valicarlo si volse indietro a scandagliare il corridoio e vide che Paola era scomparsa. Non si era soffermata a guardare in che stanza era diretta, forse non l'aveva notata. Poi entrò. «Ehi Delfi! L'hai mancata per poco.» «Cosa?» «Paola la mia amica, la professoressa Gervasi, hai presente?» «Sì, certo... ah! Non l'ho incrociata, o forse sì, ma non ci ho fatto caso, ero impegnata a whatsappare con un'amica...» Alzò il cellulare e le sorrise. «Sarà per la prossima volta.» disse Adria. «Devi conoscerla, è un portento! Anche se a scuola ne parlano male, è davvero in gamba.» E Delfi che aveva imparato nei giorni precedenti a costruire dialoghi anche su stupide frasi fatte per evitare di cadere in imbarazzanti silenzi, disse: «Non ne parlano male a scuola... non di lei.» «Ah no? E di chi allora?» «Di nessuno.» «Di me forse?» «Di te? Certo che no. Sei un'eroina per i ragazzi, lo sei sempre stata.» «Dici?» Adria le si avvicinò con la sedia e con aria seria le chiese: «E che dicono di me? Avanti sentiamo.» La ragazza esitò alcuni secondi e poi disse: «Solo cose belle.» «Andiamo non fare la fifona, nella vita bisogna sempre avere il fegato di dire la verità, di esporre le proprie idee... e tu ce l'hai questo coraggio?» Delfi la fissò un attimo. Per quasi diciotto anni aveva creduto di avercelo, ma no, non ce l'aveva. Perché se lo avesse avuto le avrebbe detto: "Sono stata io. Se sei monca è colpa mia." Invece le stava di fronte a recitare la parte della ragazza dabbene che fa volontariato solo per spirito di beneficenza. No, non aveva questo coraggio. Farfugliò qualcosa di incomprensibile che suonò all'incirca così: «Che sei una stronza...» Poi si ravvide e scandì distintamente: «ma di quelle buone.» «Una stronza buona?» chiese sorridendo Adria. 26 «Sì, tosta e giusta, i ragazzi ti rispettano, insomma... una che non si lascia fregare.» Eppure lei era lì a fregarla spudoratamente, nonostante quella appena enunciata fosse effettivamente una sua personale descrizione. «Non mi faccio fregare? Mi rispettano? Bello sentirselo dire.» Adria sognò un po' ad occhi aperti. Non aveva mai cercato di ottenere l'approvazione degli studenti, era sempre stata semplicemente sé stessa. Evidentemente sé stessa piaceva ai suoi alunni, piaceva a tutti. «Davvero i ragazzi mi vedono così?» Delfi confermò. «E tu come mi vedi?» II.VII «Ti vedo più serena... Avevo ragione? Stare in clinica ti fa bene.» «Dici? Credi mi faccia bene?» I due amici muovevano le braccia a scatti meccanici in ogni direzione puntandole dritte contro lo schermo piatto di un televisore, mentre stringevano tra le mani una pistola bianca. «Attento là!» «Brutto marziano del cazzo muori!» Sparò una raffica di colpi virtuali che finirono dritti sul capo ovale dell'extraterrestre maciullandogli il cervello. «È solo che ultimamente ci rimugino meno... cerco di rimuginarci meno.» spiegò Delfi mentre concentrata cercava di evitare i raggi spaziali indirizzati contro di lei attraverso il monitor. «Ma non è che mi faccia poi così bene mentire tutti i giorni a quella donna.» «Mentire? Perché mentire? Ti ha mai chiesto "sei stata tu?" e tu le hai detto di no?» Spruzzi di sangue verdastro schizzavano dall'interno del videogioco sul display ogni volta che uno dei due ragazzi abbatteva un alieno. «Sai che intendo...» Delfi ed Alessio stavano in piedi di fronte al televisore, ma parevano starci realmente dentro, assorbiti dal gioco, intenti a combattere quei dischi volanti, cercando di schivare i missili interstellari che questi scagliavano contro i personaggi controllati dai ragazzi. 27 «Dovrei evitarla come la peste ed invece sto lì a tenerle compagnia tutti i giorni.» «Ahaa Delfi, di nuovo con 'sta storia... sei pesante però, eddai piantala, dacci un taglio!» E mentre si distraeva per rimproverare l'amica, Alessio sbagliò mira e qualche sparo della scarica di quelli destinati all'alieno ferì Delfi. «Ehi sta' un po' attento!» «Scusa non l'ho fatto apposta.» Il personaggio di Delfi ora si trascinava con una gamba spappolata. Allora Alessio si volse verso quella figura ed inaspettatamente, senza nessuna logica, la finì con un'altra mitragliata. Il corpo virtuale dell'amica simulava piccoli balzi isterici ad ogni proiettile ricevuto, come in preda ad una crisi epilettica nonostante fosse ormai esanime. Sbatté contro un muro e si afflosciò a terra, mentre pezzi di organi ridotti in poltiglia restavano appiccicati alle rovine della città dove si svolgeva il gioco. Attaccò una musichetta lugubre ed Alessio portò l'arma bianca alla bocca, soffiò sulla canna e sfoggiò un sorriso colmo di compiacimento all'amica. Delfi sconcertata lo fissò a bocca aperta e con le mani al cielo chiese: «Perché?» «È così che si fa con i cavalli.» disse lui. Una scritta insanguinata comparve ad intermittenza sullo schermo: "Sei morto." «Sei un cretino! Si suppone che io e te dovremmo essere dalla stessa parte contro gli ufo!» «Eri diventata solo un peso, non potevi più combattere!» «Delfi.» I due si girarono simultaneamente. «Papà.» disse Delfi. «Scusa ti abbiamo svegliato.» Era sulla soglia ad osservare quella morte violenta e i due ragazzi rapiti dal gioco non si erano accorti che forse li osservava da troppo tempo. Poi avanzò alcuni passi e si piazzò di fronte a quella scritta rosso scarlatto. E lesse: «Sei morto.» «Papà forse è meglio se torni a riposare.» 28 Ma quello visibilmente agitato si diresse verso la finestra, guardò in su e disse: «Stanno arrivando Delfi, devi nasconderti.» Alessio guardò titubante l'amica, non conosceva bene i sintomi di quella malattia mentale da cui era affetto l'uomo. «Chi sta arrivando?» le chiese. «Ho solo dimenticato di dargli le gocce... dice cose strane quando non prende le sue medicine.» Allora Delfi si avvicinò al padre, lo acchiappò dolcemente da un braccio e lo accompagnò al divano. «Papà, non arriva nessuno, siediti.» «Non capisci Delfi, ti porteranno via come hanno fatto con tua madre.» «D'accordo...» la ragazza lo assecondò e sospirò affranta. «Ale resta qui con lui, vado a preparargli la medicina.» Ma mentre la ragazza andava, il vecchio la seguì frenetico. «Delfi, non devi lasciare che ti portino via da me, stanno venendo a prenderti con le loro astronavi e le loro pistole, li ho visti, sono proprio lì su, stanno arrivando!» L'uomo precipitò repentinamente in un'irrefrenabile crisi paranoica difficile da tenere a bada, non la prima e purtroppo neanche l'ultima che Delfi avrebbe dovuto essere in grado di gestire. «Papà, papà ascolta!» gli prese le mani e lo guardò con occhi spalancati. «Ascoltami papà, era solo un gioco quello che hai visto in tv, non era reale, non c'è nessuna astronave, riesci a comprenderlo?» Gli parlò come si parla ad un bambino per convincerlo che il mostro nell'armadio non esiste. Allora il padre la guardò triste, come rassegnato, come se la visionaria fosse lei, sua figlia, che credeva di vivere nel mondo ideale che si era figurata intorno, come se ci riponesse così tanta fiducia da non capire che invece quello è pieno di mostri, così ingenua da non accorgersi che alcuni erano proprio lì, alla loro porta. Le accarezzò la guancia mentre quasi piangeva. «Ho bisogno che ti calmi papà, ti prego.» «Ti porteranno via piccola ed io ne morirò.» disse lui. In quell'istante bussarono alla porta. I due ragazzi si guardarono perplessi, quasi terrorizzati. Delfi lasciò la mano del vecchio e si diresse ad aprire. 29 «Buonasera, cerchiamo la signorina Delfina Moggi.» Un uomo in divisa blu notte, affiancato da una donna, sfoderò davanti allo sguardo sbigottito ed atterrito di Delfi il suo distintivo. «Sono io.» «Devi venire con noi in caserma.» disse la donna. «Che ho fatto?» chiese tremando. «Devi seguirci ed appena giunti in centrale ti verrà spiegato tutto.» «No, io non posso, c'è mio padre qui, lui è... lui non sta bene, non posso lasciarlo solo.» disse Delfi disperata, mentre la profezia del padre appena formulata si avverava. Si immaginò già lontana da lui, sbattuta a marcire in una cella, mentre lui piano ne moriva. «Infatti no, sei ancora minorenne, dovrà venire anche lui.» II.VIII Adria la osservava insistentemente e più la guardava più le faceva schifo. Quella era là, sulla sedia di fronte a reggere quelle occhiate astiose. Pareva dire, "mi dispiace se mi detesti, ma io e te diventeremo grandi amiche, anche se ora mi respingi, un giorno non potrai fare a meno di me, sarò parte di te, sarai costretta ad accettarmi prima o poi che tu lo voglia o no." Ed Adria si chiedeva se il dolore che sentiva si sarebbe mai placato. Guardava ciò che rimaneva della sua gamba e la notava ridotta, assottigliata e la fitta che provava al moncone era atroce, spietata, da lasciarla quasi in lacrime. «Ehi ciao!» Paola si presentò ansante nella sua stanza, posò le buste della spesa ai piedi del letto e senza mostrare alcuna cura per la sofferenza dell'amica le disse: «Non sai che mi è appena capitato.» Adria continuò imperturbabile a scrutare davanti a sé un punto preciso. Allora Paola incuriosita si voltò e la vide, la protesi. «Ah,» disse, «te l'hanno portata alla fine.» poi si rigirò all'amica e finalmente la vide, la sua sofferenza. Tornò alla protesi, si avvicinò, la prese tra le mani, la analizzò da ogni prospettiva per convincersi che fosse bella. «Dai, non è poi così malvagia... o no?» 30 Adria non rispondeva. «Te l'hanno fatta provare? Com'è?» Ma quella ancora taceva. Così si avvicinò a lei, le sedette accanto sul letto e la supplicò: «Dai Adri, ti prego... devi reagire.» Allora la donna schiodò finalmente la vista da quella gamba fasulla e la portò all'amica. «Mi fa male Paola, non sai quanto... non ci riesco.» «È perché sei all'inizio, la tua gamba deve ancora abituarsi... tu devi abituarti.» Adria attraversava un momento buio, uno di quelli contro cui la psicologa l'aveva messa in guardia. "Ci saranno momenti difficili," le aveva spiegato "momenti in cui ti convincerai di non potercela fare e ne saranno tanti, a volte addirittura li considererai troppi per riuscire a superarli tutti, preferirai arrenderti e rinunciare a questa ardua battaglia. Ora crederai che ti dica di cercare di frenarli sul nascere. Invece no, lascia che questi pensieri si sfoghino, che prendano vita nella tua mente, elaborali, esaminali, magari credici anche un po', però poi lasciali andare, fa' sì che vadano via e che tornino sempre meno frequentemente..." Adria si era fidata ed aveva supposto che fosse pronta ad affrontare quei momenti, che fosse possibile scacciare quei pensieri negativi che altrimenti l'avrebbero condotta in un profondo stato depressivo. «Che ti è capitato?» chiese cacciando a fatica quei pensieri dal cervello. «Ahaa... no, niente.» Paola si levò dal letto e rovistò nei sacchi della spesa, «Sciocchezze... ora hai cose più importanti da ponderare, magari faccio un salto domattina e te ne parlo.» tirò fuori un pacco di patatine e lo posò sul comodino. «Le tue preferite... vengo con Elio così ti distrae un po', ok?» Adria annuì e con un'occhiata ringraziò l'amica per quel semplice pensiero. «Mi hanno chiamato dalla caserma.» disse «Dicono che hanno delle novità.» Paola si fermò quasi incredula ad ascoltare le parole di Adria. «Miracolo!» 31 «Solo che per i prossimi due giorni non posso uscire, i dottori me l'hanno proibito...» e tentò di trasportare il suo corpo dal letto, attraverso le stampelle, sulla carrozzella. «Ad ogni modo i poliziotti hanno detto che non è così urgente, quindi ci andrò lunedì.» «Che tipo di novità, belle o brutte?» «Ah, non so.» si avvicinò alla protesi e palpò quel composto di resina e silicone, «È impressionante.» disse. «Ehi,» Paola agguantò la carrozzella e la ruotò a sé. «è venuta la ragazza oggi, la tua volontaria?» Adria ragionò fra sé, «No, oggi no.» disse. «Ecco, ora comprendo perché sei giù di morale... sei stata sola tutto il giorno, non ti fa bene.» «No, è solo che... non dormo bene, ho gli incubi. Sogno spesso di avere ancora la gamba e di essere in un campo fiorato e mentre cammino i fiori si trasformano in serpenti che strisciano sulla mia gamba ed io cerco di dimenarmi, ma quelli la divorano e siccome non posso scappare con una gamba sola, sono imprigionata lì, circondata da tutti quei fiori che diventano rettili e alla fine mi arrendo e lascio che mi pungano con la loro lingua biforcuta...» Paola la stava ad ascoltare interessata, immedesimandosi nel racconto, immaginando sé stessa avvolta dalle serpi velenose mentre cercava in tutti i modi di scrollarsele di dosso. «Mamma che schifo!» «...E mi sveglio sudata con una paura insensata, il cuore mi batte forte, sento una fitta lancinante alla gamba, sì proprio alla gamba che non ho più, ma io la sento ancora e addirittura ci sento dentro pure il dolore, dannazione! È assurdo Paola, mi fa male qualcosa che non c'è più, che non esiste, impazzisco...» passò una mano sulla fronte fino alla tempia. «E poi, poi non riesco più ad addormentarmi.» Paola la osservava con empatia, cercando di percepire ciò che provava lei, ma ci riusciva poco e male. Il meglio che poté fare per aiutarla fu dirle: «Comunque i sogni hanno un loro perché... lo cercherò su internet.» Ma Adria era ansiosa quella sera, come se una strana sensazione le attraversasse l'animo e si appoggiasse pesante sullo stomaco. 32 «Devo andare...» si avvicinò ad abbracciare l'amica. «Cerca di stare tranquilla e magari fatti dare qualcosa contro l'insonnia, ok?» E mentre Adria osservava con sguardo incantato ed assente la porta da cui usciva l'amica, entravano nella sua mente di nuovo quei pensieri negativi. II.IX "Cerca di stare tranquilla." le aveva detto. Ma lei era angosciata, non poteva stare tranquilla. Con piccoli scatti lesti e nervosi agitava la gamba generando una vibrazione incessante sulla sua sedia. La sera era calata, ma non la temperatura che si aggirava ancora attorno ai trenta gradi. Portò una mano alla fronte e la posò sopra. E non riuscì a distinguere se il sudore che sentiva apparteneva alla mano o alla fronte. Riconobbe però che quello non era sudore da afa, era paura. Decise di fuggire. Si sarebbe alzata e sarebbe corsa via costringendosi a vivere da latitante per il resto dei suoi miserabili giorni. Poi però si voltò e vide quell'uomo che poche decine di minuti prima era in un evidente stato confusionale. Pensò che non poteva lasciarlo in quella caserma, non poteva lasciarlo e basta. "Non lasciarmi, ne morirei." le aveva implorato lui. Ad ogni modo avrebbe dovuto farlo, fuggendo o no, l'imparziale mano della legge l'avrebbe allontanata da lui. Disperata contò le vite per cui avrebbe dovuto sentirsi responsabile, non sarebbe riuscita a portarsi sulla coscienza anche quella del vecchio. Lo guardò ancora, ora inebetito e distante. "Le medicine hanno fatto il loro sporco lavoro." pensò. Poi le parve di udire una vocina interiore che la rimproverava: "Non distrarti Delfi, non pensare alle medicine di tuo padre, pensa ad essere terrorizzata perché presto verrai condannata e la tua vita cesserà." Una morsa le strinse lo stomaco così violentemente che le sembrò quasi le mancasse il fiato. «Delfina Moggi.» 33 Il suo organismo era in stato di allerta a causa della minaccia di pericolo imminente, i suoi sensi erano amplificati e quel richiamo le rimbombò nel cervello. Un uomo in giacca e cravatta con dei documenti in mano la attendeva sull'uscio di un ufficio grigio e senza finestre. Si alzò e cercò di sollevare il padre, ma con le ginocchia che tremavano riusciva a malapena a trasportare il carico del suo corpo, non ce l'avrebbe fatta ad addossarsi anche quello dell'uomo. «Papà alzati per favore, dobbiamo andare.» Il vecchio non era in realtà tanto vecchio, non aveva ancora cinquant'anni, ma sembrava ne avesse settanta. I farmaci che assumeva lo avevano reso nel corso degli anni aggrinzito, brizzolato, minuto e perennemente spossato. Si levò a stento e frastornato si diresse sotto braccio a sua figlia verso l'ufficio. Ad attenderli vi era una donna, la stessa sopraggiunta a casa loro, un poliziotto e l'uomo con i documenti in mano. Si presentarono con nomi che Delfi non avrebbe mai ricordato. «Sai perché sei qui?» le chiesero. La ragazza titubò. Lo sapeva, certo. Ma non avrebbe mai potuto dichiararlo così, direttamente, all'istante, senza prima lottare un po' per la propria libertà, difendendo la sua presunta innocenza. No, non poteva ammettere di essere colpevole senza sentire prima cosa sapevano loro. «No.» disse. Aveva deciso, avrebbe cercato di nascondere la sua colpa, avrebbe provato a negare finché l'evidenza non l'avrebbe costretta a confessare. «Delfina giusto? Ascolta, il fatto che tu ci dica di non saperlo lo rende ancora più grave... intendi?» disse la donna. Allora Delfi guardò il padre che nel suo stato catalettico credeva di star seduto nel proprio salotto. E gli occhi le si bagnarono di lacrime. «Va bene, ho sbagliato, mi dispiace, non l'ho fatto apposta, ma non lasciate che a causa mia mio padre ne soffra, che paghi per qualcosa di cui non ha colpa, vi prego!» 34 Quelle persone osservarono il vecchio, le occhiate struggenti di lei, quel pianto e quelle parole, e poi qualcuno parlò. «Esatto Delfina. È per questo che siamo qui oggi.» Delfi non riusciva ad immaginare una soluzione in cui suo padre potesse non soffrire mentre lei era rinchiusa in carcere. «Neanche noi vogliamo che tuo padre soffra.» Forse l'ammenda, il perdono, la grazia, l'assoluzione. «Quello che hai fatto è un crimine... lo sai?» Delfi annuì. «Vogliamo che non accada più una cosa del genere.» Prosciolta dalle accuse. «Tuo padre deve essere controllato almeno dalle 8 alle 22. Ieri sera abbiamo ricevuto una chiamata dai tuoi vicini, non possiamo permettere che si smarrisca ancora e a detta loro non è la prima volta che accade ragazza, era già successo altre volte, ma hanno chiamato solo ieri perché il poveretto andava in giro nudo. Quando siamo arrivati lo avevano già riaccompagnato in casa e lui non ha voluto aprirci. Allora abbiamo contattato i servizi sociali che si occupano di voi.» Delfi era disorientata, stranita, non afferrava cosa essenzialmente le stavano dicendo. Si era recata lì rassegnata ormai ad essere incarcerata e quelli le parlavano di qualcosa che le suonava così nuovo, impensato. Allora l'assistente sociale prese parola: «Noi abbiamo comunicato col suo medico, ha detto che nell'ultima visita non aveva riscontrato considerevoli peggioramenti e che il prossimo controllo avrebbe dovuto farlo tra due settimane. Quindi deduco che il peggioramento sia avvenuto negli ultimi sei mesi. Avresti dovuto riferircelo, lo sai. Avremmo trovato una soluzione ideale senza rischiare che stavolta tuo padre si facesse male sul serio. Gli sarebbe potuto capitare di tutto, te ne rendi conto?» Delfi osservò con le lacrime agli occhi il vecchio padre. «Sapevi che era peggiorato e lo lasciavi comunque solo! Diamine se è un crimine! Possibile che tu non l'abbia valutato?» disse irritata la donna. L'uomo in abito scuro riprese più calmo: «Ora... comprendo che avevi paura di un'eventuale separazione, però se non erro tra due mesi compi diciotto anni, giusto?» 35 Delfi annuì ancora. «Considerato che manca così poco possiamo anche non trattarti da minore, alcune procedure burocratiche permetteranno ad entrambi di restare a casa vostra, ma lui deve essere seguito da una figura professionale quando tu non ci sei.» Le lacrime che continuavano a fuoriuscirle dagli occhi potevano sembrare a quelle persone lacrime di dispiacere per non aver esposto alle autorità competenti quel peggioramento che lei troppo presa dalla sua vita non aveva neanche rilevato. Lacrime di amaro pentimento per aver messo in pericolo la vita del padre. Sembrava che avesse assimilato la lezione attraverso quel suo errore che non avrebbe assolutamente ripetuto e che stesse solennemente promettendo d'impegnarsi a migliorare, a maturare, a crescere. Ma in realtà Delfi era semplicemente felice. Felice di aver evitato la prigione, di beneficiare ancora di tutti i diritti di cui gode un individuo libero, felice che la sua fedina penale risultasse ancora linda. Quelle erano lacrime di gioia per non essere diventata causa di morte del padre, ma non nel modo che intendevano loro. E mentre quello aveva assistito insensibile a tutta la scena, lei si sollevò con l'animo e col corpo dalla sedia e singhiozzando andò a buttargli le braccia al collo. Lui la guardò negli occhi pieni di pianto e con estrema naturalezza le sorrise. I suoi giustizieri mossi a compassione da quella triste cornice familiare invitarono i due disgraziati a lasciare l'ufficio. 36 CAPITOLO III III.I «Undici, dodici e tredici... quattordici, impegnati!» Adria sudava, il caldo e la fatica le impregnavano il corpo e quei pochi abiti estivi che indossava. L'osso tronco che poggiava sul gesso della protesi le provocava un dolore tremendo ad ogni piccolo passo conquistato. «Non ce la faccio, mi fa troppo male!» «Che diamine Adria, non sono neanche due minuti che ci stai sopra!» disse il fisiatra. Le mani imbevute di sudore scivolavano dalle parallele facendo sì che il suo equilibrio si alternasse dalle braccia alla gamba sana. «Poggia il peso sulla protesi Adria, sulla protesi! Sennò non ha senso stare qua! Non alleniamo la gamba sana, non serve che cammini su quella, è sana, lo sappiamo tutti, le cose che deve le sa fare!» urlò. «Basta sono stanca... continuo domani.» disse esausta. «Basta lo dico io!» Il fisioterapista si atteggiava a duro e lo faceva per il suo bene. Aveva intuito che la donna aveva tutte le potenzialità per potercela fare, bisognava solo spronarla un po'. «Almeno venti passi, ricordi cosa ci eravamo promessi?» Adria si fece forza e proseguì. «Quindici, sedici, dai...» l'uomo continuava a contarle i passi. «Diciassette, ancora un piccolo sforzo e... dicio-» La sbarra sinistra le sfuggì letteralmente di mano, il peso all'improvviso finì tutto sulla protesi e in una minuscola frazione di secondo una fitta feroce le penetrò lungo quel pezzo mozzo di carne ed osso attraverso le sinapsi fin su nel cervello. Perse l'equilibrio e cadde a terra. Voleva piangere, e piangeva. Interiormente piangeva, strillava, si dimenava, si chiedeva perché quella ulteriore sciagura dopo tante che aveva già affrontato. Si sentiva ancora vittima di un destino spietato che non meritava. «Che fai, resti lì a fissare il tappetino o ti rialzi?» 37 «Vada al diavolo!» Il medico osservò il suo patimento e più indulgente l'accontentò: «Va bene, per oggi basta. Vorrà dire che domani farai due passi in più. Però ora ti alzi da sola.» Adria si rialzò, come sempre, da sola e tornò sfiancata nella sua stanza dove trovò, come da promessa, il figlio e l'amica a smorzarle il malumore. III.II «...e le faccio: "fumi anche?" e lei con quell'aria da saputella ignorante mi fa: "che siamo a scuola? Non sapevo fosse vietato fare il cavolo che mi pare per strada!"...» disse imitando una vocina stridula. "Non è sola." constatò Delfi avvicinandosi alla porta, udendo sempre più nettamente un tono che non apparteneva ad Adria. "Bene, meno imbarazzo per me." «Proprio così Adria, si faceva un cannone!» Ma quella voce Delfi la conosceva, non era passato molto tempo da quando l'aveva udita l'ultima volta. «È lei, Adria! Te lo ripeto, è stata Rocchina... le ho visto il tatuaggio proprio qui, sul fianco destro...» «Peccato fosse il sinistro.» Delfi a quelle parole si arrestò e rischiò quasi di farsi vedere. Fortunatamente le due donne erano troppo prese dalla loro conversazione per accorgersi che una figura aveva varcato di mezzo passo la soglia e poi con discrezione era scivolata indietro a nascondersi oltre lo stipite della porta, intenta ad origliare quelle chiacchiere. «Eri mezza morta, che ne potevi capire di destra e sinistra... stava lì a sputarmi il fumo in faccia in segno di sfida, comprendi? Sa che siamo amiche e sembrava dirmi: "non mi beccherete mai!"...» Il corpo immobile di Delfi pareva cercasse di mimetizzarsi col muro. «Io ero lì, con le buste della spesa che mi staccavano le braccia e quel babbione del ragazzo stava con una birra in mano di prima mattina a fissare il vuoto... te lo dico Adria, è stata lei!» 38 «Non lo so Paola... non credo sia capace di qualcosa del genere. Ok, fuma canne, ma non possiamo condannarla per questo e per il resto mi sembra a posto... Non è tipa da rubare una macchina o soprattutto da lasciarmi morire bruciata.» A quelle parole Delfi chiuse gli occhi ed emanò un sospiro sofferto. «Io credo sia stato qualcuno che non mi conosce. Rocchina non mi avrebbe mai fatto una cosa simile.» «D'accordo. Non dico che devi per forza credere che sia stata lei... dico solo, prova a domandarti: e se fosse stata lei?» Delfi non poteva stare ferma lì ancora per molto, il ragazzone perennemente sudato si avvicinava a lei con la vista impegnata ad esaminare alcuni documenti, ma l'avrebbe distolta prima o poi e l'avrebbe individuata, a breve avrebbe intuito che temporeggiava sulla porta non di certo per ammirarne l'architettura. Non poteva farsi cogliere ad origliare come una spia. «Che ti costa controllare... svolgiamo noi il lavoro che tocca fare alla polizia che a quanto pare se ne frega.» Eccolo, il ragazzone alzò lo sguardo. Delfi gli sorrise e lui ricambiò il saluto. Ora doveva per forza entrare. «A proposito, ti ho detto che avevano delle novità...» «Buongiorno.» disse Delfi entrando. «Ehi, sei tornata!» Delfi assentì con un sorrisetto forzato mentre sentiva pesanti occhiate di Paola scrutarla attentamente. «Paola lei è Delfina, la volontaria di cui ti ho parlato.» La ragazza si voltò e mantenendo quel sorriso falso sul viso le porse la mano. «Piacere, può chiamarmi Delfi.» «E tu puoi chiamarmi professoressa Gervasi.» «Dai Paola, non fare l'antipatica.» disse Adria. «Delfi non temere, fa così con tutti ma in fondo è buona!» «Dove ti ho già visto?» Delfi sapeva per certo di non averla mai incontrata ufficialmente, aveva supplito in classe di Alessio, non nella sua. «Ah sì, qualche giorno fa...» 39 "Al parco," meditò lestamente Delfi. "impossibile mi abbia vista." «Proprio qui fuori, in corridoio.» concluse Paola. «Non devo averci fatto caso.» disse lei. «Già, voi giovani sempre impegnati a scrivere su questo maledetto cellulare... esistono anche i dialoghi faccia a faccia, lo sai?» La ragazza annuì timidamente. «Che poi mi chiedo, che avete da scrivere in continuazione? Di questo passo saremo sommersi da scrittori...» «Dicevo, Paola...» Adria considerò giunto il momento di troncare il logorroico monologo dell'amica. Allora Delfi colse l'occasione per svincolarsi dalle donne col pretesto di mettere un po' d'ordine in camera. «Dicevo che ho chiamato in caserma per dire che non sarei potuta andarci e... ebbene ti sbagli quando dici che non svolgono il loro lavoro.» La ragazza tese le orecchie mentre riponeva vecchie riviste nel cassetto del comodino. «È saltato fuori un testimone.» Delfi bloccò in un attimo tutte le azioni che stava compiendo, sentì il cuore accelerare, il respiro farsi corto ed uno strano calore invaderle il cervello. «Ma è fantastico!» «Non era sola. C'era un ragazzo che non ha rubato l'auto e ne è rimasto fuori.» La ragazza riprese i suoi compiti a rilento. «Questo testimone saprebbe identificarli?» chiese Paola. «Ha fornito una descrizione del ragazzo rimasto fuori... è lui che cercheranno di individuare per risalire a quella nell'auto che purtroppo il testimone non è riuscito a scorgere.» «E com'è questo ragazzo?» «Com'è!? Corporatura media, capelli corti e scuri... come la maggior parte dei ragazzi!» «Ahaa... al diavolo Adria, credevo ci fossero sul serio delle novità!» Delfi riprese a respirare e sgombrò nervosamente la tavola dagli avanzi della colazione. 40 Pigliò con una mano il vassoio con sopra la pesca, lo yogurt ed il succo che Adria non aveva consumato per riporli nel cassetto e poi tentò di acchiappare il rotolo di carta con l'altra mano. «C'è una cosa però...» continuò Adria «gli occhiali, aveva quegli occhiali che vanno tanto di moda oggi, quelli tondi, enormi...» La ragazza avanzò di pochi passi e quelle parole la fecero trasalire. «Come se fosse una cosa rara... quasi la metà dei ragazzi li usano. A volte li indossano anche se non hanno reali problemi di vista.» disse Paola. Il piede di Delfi si imbatté contro quello del letto ed inciampando fece volare dal vassoio pesca, yogurt e succo. Le due donne si voltarono per capire a cosa fosse dovuto quel leggero terremoto e la ragazza si scusò mentre impacciata si calava per raccogliere il cibo da terra. «Ehi tu, vieni un po' qua!» Non afferrò immediatamente che quel richiamo fosse rivolto a lei, poi alzò lo sguardo e vide Paola fissarla. «Sì, dico a te, Delfina o come diavolo ti chiami, vieni qua.» Posò la roba sul tavolo e si accostò alle donne. «Conosci qualcuno che usa quegli occhiali?» Pensò ad Alessio e cercò di intuire in pochi istanti cosa fosse conveniente fare. Mentire o affermare tranquillamente che il suo migliore amico portava quegli occhiali, dopotutto, come avevano appena attestato loro, non era poi così raro. Però pensò che avrebbero potuto iniziare le indagini proprio investigando su Alessio ed arrivare quindi celermente a lei. «No.» Fu così che disse la prima bugia a quelle donne. «Cioè, li ho visti addosso a molti ragazzi, ma io ho pochi amici e loro non li portano.» «E che mi dici dei tatuaggi, ti piacciono?» Delfi tremò. Ingoiò la paura e disse: «No.» «Conosci qualche ragazza che ha tatuato una specie di serpente sul fianco, proprio qua.» ed indicò alla sua sinistra sfiorandole il fianco. Delfi credette assurdamente che la donna volesse sollevarle la maglia e con un piccolo scatto balzò di lato evitando il tocco di lei. Paola la guardò perplessa. 41 «Io no...» terrorizzata prese a farfugliare parole sconnesse, muovendo istericamente capo ed occhi. «...no, non conosco, non mi pare...» «Andiamo Paola, lasciala in pace, ti ha detto che ha pochi amici.» Adria aveva assistito zitta alle domande impertinenti dell'amica, incuriosita ed in fondo speranzosa che le risposte della ragazza potessero portare realmente ad una svolta. «Non darle retta Delfi, va' a continuare quello che stavi facendo.» E mentre la ragazza si allontanava scossa, Paola sussurrò all'amica: «È parecchio strana.» Delfi uscì in fretta dalla camera prima che potessero procedere ulteriormente con quella tremenda inquisizione che la stava portando quasi a confessare purché cessassero di torturarla, facendo sì che scoprissero per caso ed anche con gran meraviglia loro la verità. Si diresse in giardino a sospirare e a respirare finalmente liberata da quelle accuse neanche troppo velate che le erano state rivolte, evitando altre che probabilmente le avrebbero a breve rivolto. «Non trovi che sia strana?» continuò Paola. «Forse. Ma non sarebbe poi così anomalo, no? Senza madre, con un padre malato... solo lei sa cosa ha dovuto passare, poverina.» disse Adria. «A me piace.» III.III «A me no, non piace affatto.» Il ragazzo andava avanti e dietro torturandosi il mento con le dita. «Non mi piace come si sta evolvendo la situazione, dobbiamo fare qualcosa.» «Non c'è bisogno che ti agiti così, te l'ho detto, quasi la metà dei ragazzi corrisponde alla descrizione che hanno fatto di te.» Ma quello continuava concitato a muoversi ignorando volutamente le parole dell'amica. «Sono finito, mi arresteranno al posto tuo, io che non ho fatto nulla, non ho neanche bevuto, volevo solo andare a quella cazzo di discoteca! È un crimine? È per questo che finirò dentro? Per essere stato respinto in discoteca?» Delfi roteò gli occhi e sospirò esasperata. «Non possono arrestarti.» 42 «I miei non approverebbero se mi arrestassero... forse dovrei dirglielo. Mio padre, lui conosce un poliziotto, forse potrebbe aiutarmi ad uscirne...» Delfi si alzò dal divano e gli acciuffò le braccia bloccando il suo flusso di idee. «Ehi ehi, ascolta e guardami. Tu non lo dirai a nessuno, intesi?» «Delfi forse non ti rendi conto che quello che hai fatto è... hai fatto una cosa grave, comprendi? Gravissima! Ed io non voglio pagare per il tuo errore, né io né nessun altro dovrebbe pagare per un tuo errore!» Delfi allora lo guardò amareggiata, ma ad ogni modo consapevole che le parole dell'amico erano legittime. Sì, se ne rendeva conto. Aveva fatto una cosa gravissima e lo sapeva. In cuor suo sapeva anche che credere di eludere la legge senza dover mai pagare per il suo errore, credere di poter continuare a frequentare quella donna senza arrivare mai al punto di doverle delle spiegazioni era soltanto una fatua illusione. «D'accordo.» disse «Non risaliranno mai a te, ma nel caso dovessero, se riuscissero mai ad identificarti, allora bhè, allora andrò a costituirmi, ok? Te lo prometto. Ma tu per ora non fare niente, non dire niente, te ne prego.» Alessio la osservò sconfortato ed acconsentì. «Me lo devi promettere Ale, promettimelo.» «Sì, te lo prometto.» disse lui. Si levò gli occhiali dal viso e con un fazzoletto ne pulì i vetri. «Da oggi solo lenti a contatto.» Mentre diceva addio a quell'oggetto, un lieve pianto gli colò dal naso. Allora portò lo stesso fazzoletto al volto e soffiò. Delfi lo guardava tremare ed intanto gli mostrava sicurezza, perché se gli avesse fatto percepire anche solo un piccolo cenno di cedimento, Alessio sarebbe crollato al posto suo. Ma interiormente Delfi era un rottame. Aveva già contribuito a rovinare una vita e si chiedeva come poteva essere stata così imprudente da finire in una condizione tanto pericolosa da rischiare di rovinare ora non solo la sua stessa vita, la sua felicità, ma anche quella di suo padre e del suo migliore amico. Inoltre trascorrere con la donna diverse ore al giorno non faceva altro che aumentare le probabilità di essere scoperta. 43 «Tu metti le lenti, ma io devo trovare un modo per coprire il tatuaggio.» «Cosa?» «Ho avuto una paura matta che lo scoprisse.» sollevò la maglia e buttò un'occhiata alla esse. «Paola mi ha quasi tirato su la maglia.» «Cosa!» disse Alessio preoccupato. «Intendi cancellarlo?» III.IV «È fuori discussione!» «Perché no? La chiamiamo e le solleviamo la maglia... sai che usa rossetti viola? E se non sono viola, peggio! Sono neri... senti, quella ragazza ha problemi, non mi stupirebbe sapere che si impasticca anche...» Adria osservava le gocce di sangue che fuoriuscivano dall'apice del moncone macchiando il bendaggio. La vescicola causata camminando sulla protesi le procurava una fitta ardente che nessun lenitivo riusciva ad affievolire. Si insinuava prepotentemente nel cervello e ci metteva radici, quasi fosse impossibile considerare altro se non quel dolore martellante, considerare addirittura le parole dell'amica piene di pregiudizio. «Sembra che stia a lite col sole, dannazione! È estate, c'è il mare a due passi, vacci! Invece no, sempre vestita di nero...» «Smettila Paola.» «Ascolta, ti chiedo solo un favore, solo uno.» e le fece quella faccia a cui Adria non sapeva resistere. «Fidati di me. D'accordo, non chiameremo Rocchina apposta per svestirla. Organizzerò una visita di classe qui, i ragazzi saranno entusiasti, lo sai che ti adorano.» «E poi?» «E poi fidati... ok?» Di nuovo quella faccia. Adria si fidò perché dopotutto anche lei aveva un sospetto. Il sospetto che quel sospetto dell'amica non fosse poi così infondato e voleva disfarsene al più presto. Così Paola andò via indaffarata ad organizzare quella subdola trappola ed Adria si soffermò a fissarsi la gamba, strinse gli occhi e cercò di ricordarla com'era, cercò di figurarsela là, immaginandola al suo vecchio posto, proprio a fianco all'altra. 44 Le sembrava di vederla, addirittura di sentirla. E non volle che, aprendo gli occhi, quell'allucinazione impalpabile svanisse, perciò rimase in quella posa per chissà quanto tempo. «Buongiorno.» Delfi la trovò così, seduta sulla sua sedia rivolta alla finestra con la vista bassa ed assorta sull'arto mancante. Le fece pena. Stette qualche secondo a contemplarla e a compatirla, poi pronunciò un altro "ciao" con timbro più forte e deciso. Adria la udì soltanto allora, dopo quel saluto, e si girò. «Ho bisogno di uscire da qui.» disse. «Andiamo in giardino?» «No, che giardino! È certo che lì mi deprimo ancora di più... Non hai la patente?» «Ad ottobre.» «Allora vorrà dire che dovrai spingermi.» Delfi faceva ancora fatica a condurre la carrozzella su e giù per i marciapiedi, evitando auto e pedoni, ed il sole che batteva rovente sulla sua testa non era certo d'aiuto. Si fermarono infine su un muretto all'ombra di un olmo rigoglioso. «Devi scusare Paola. Lei è... è particolare, fa così perché mi vuole bene.» Delfi accennò qualcosa col capo e restò zitta. «Anche tu sei particolare, no? Sei riflessiva...» Ad Adria sarebbe piaciuto entrare nel suo mondo e comprenderlo come era abituata a fare con i suoi alunni. «Ce l'hai il ragazzo?» «No.» disse Delfi. «No? Com'è possibile, una bella ragazza come te.» «Ce l'ho avuto... l'anno scorso.» spiegò «Ma era troppo appiccicoso.» Adria sorrise. «E sentiamo, ti piace la scuola? Non intendo studiare, intendo stare a scuola con i tuoi amici.» Delfi sospirò, «Non ho molti amici.» disse. «Ah no?» Adria la osservò abbassare lo sguardo, come se se ne vergognasse. Si pentì di averle chiesto qualcosa che le fu causa di tale imbarazzo e le fece pena. «Proprio nessuno?» 45 «Ho Alessio, il mio migliore amico.» «Ah bhè Alessio, vedi che allora qualcuno c'è... meglio uno buono che tanti scadenti, no?» Delfi annuì ancora. Adria la osservò meglio, ne studiò gli atteggiamenti, gli indumenti. Vestiva di moda povera, umile, senza fronzoli o abiti griffati. «Io non piaccio molto ai miei compagni di scuola.» disse la ragazza. «E perché?» «Non lo so, forse perché non sono come loro, penso.» «Sì, ti capisco.» Adria riteneva che ci potesse essere qualcosa di molto simile a lei in quella ragazza, di avere con lei una certa sintonia e per la prima volta sentiva di poter esternare liberamente i propri sentimenti, sicura di essere compresa. «Anch'io non sono come loro.» ed indicò la gente che aveva davanti, «In realtà non lo ero neanche prima dell'incidente, non lo sono mai stata.» poi si voltò alla ragazza e concluse: «Le persone Delfi, devi sapere che le persone hanno paura del diverso... però non sono loro che ci scansano perché siamo diverse, siamo noi che ci isoliamo perché sono loro diversi da noi, già è proprio così... i diversi sono sempre gli altri.» Delfi non aveva mai avuto una matura figura femminile intorno e le piaceva che quella donna stesse lì di fronte ad elargirle consigli di vita. Se si concentrava solo su quelle parole, su sé stessa e su Adria, solo sull'ombra che piano si muoveva come si muovevano le foglie a cui apparteneva e sul rumore della vita che si metteva in scena tutt'intorno, se non rifletteva sul motivo originario per cui era lì ad ascoltarla parlare, su tutto ciò che aveva causato e che avrebbe ancora potuto causare, allora Delfi era felice di essere in compagnia di quella donna. «E tuo padre come sta?» «Mio padre, bhè lui è... è difficile.» disse. «Già, cavolo se è difficile, lo so.» Allora ricordò che anche Adria come il padre aveva perduto il suo compagno rimanendo sola con un bambino. Ma lei ce l'aveva fatta, suo padre no. E le risultò più facile confidarsi. 46 «Peggiora. Ci hanno mandato un ragazzo che si occupa di lui quando io non ci sono.» «Sei davvero una ragazza di cuore Delfi, lo sai no? Alla tua età dovresti solo divertirti specialmente perché la vita con te, come con me, non è stata molto giusta... Ed invece stai qua a fare da cameriera ad una povera handicappata.» Adria ci trovava qualcosa di magnetico nella ragazza, come un segreto celato dentro che attirava la sua curiosità. «Se fossero tutte come te,» disse «io non sarei qua.» Delfi sentì qualcosa di strano, di estraneo, come un corpo estraneo, forse una lama, nel cuore. Poi ebbe una fiabesca percezione, che se in quel momento le avesse confessato tutto la donna avrebbe compreso. Ma non fece in tempo a cullarsi in quella vana illusione che l'altra continuò: «Scoprirò chi è stato e tre mesi fa avrei detto, lo scoprirò e la prenderò a calci, ma ora... ora non posso neanche tirare calci. Allora quando lo scoprirò le farò così male che rimpiangerà il fatto che non ho potuto prenderla solo a calci.» III.V «La prenderò io a calci per te, vedrai... vedrai che ho ragione!» Paola mandava occhiate ansiose al polso ad intervalli regolari e trovava la lancetta dei minuti sempre fissa sullo stesso numero. «Forse dovremmo registrare con i cellulari, sai, per avere prove nel caso la ragazza per paura dovesse ritrattare con la polizia.» continuò la donna. Sollevò il polso e lo sbatacchiò convulsamente credendo di smuovere così il meccanismo dell'orologio e farlo ripartire. «È fermo, credo si siano scaricate le batterie.» «No Paola, semplicemente non sono passati neanche due minuti da quando sei arrivata.» Il tempo per Paola aveva rallentato, lei desiderava arrivasse in fretta l'inevitabile momento della pubblica rivelazione, ma quello per dispetto sembrava avesse deciso di arrestarsi in quell'istante. «Ma mi spieghi che ti sei messa in testa di fare?» 47 Paola indifferente alla domanda dell'amica si levò dalla poltroncina ed andò a guardare con apprensione alla finestra. «Dovrebbero arrivare a momenti.» disse fra sé. E come se li avesse evocati, si sentì bussare. «Sono loro.» Camminò sollecita verso la porta, si piazzò di fronte, si scrollò di dosso l'agitazione e stampandosi un sorriso sul viso aprì. «Ah,» disse delusa, «sei tu.» si girò e tornò da dov'era venuta. «Buonasera anche a te.» sussurrò Delfi. La ragazza avanzò fino al letto della donna ancora indecisa se compiere quell'atto. Avrebbe potuto trascorrere la serata come tutte quelle precedenti, ma poi si fece coraggio e frugò nella sua capiente borsa. «Ti ho portato... ho preso una cosa...» disse imbarazzata ad Adria mentre tirava fuori quell'oggetto. «Non so se può piacerti il genere, però...» Le porse un vasetto di cotto alto una decina di centimetri con dentro radicata una pianticella. «Oh... grazie.» disse Adria piacevolmente sorpresa. «Non dovevi.» Paola scollò l'alito dalla lastra della finestra e si volse al dono. Un arboscello dalle foglie pelose e dentate poggiava sul terriccio nel vaso. «È una pianta carnivora...» spiegò Delfi. «si nutre di insetti, così le punture di zanzara non ti daranno più fastidio e non dovrai anche preoccuparti di grattarti la gamba.» Paola guardò sconcertata la ragazza, il raccapricciante dono e l'amica. «Ah,» disse Adria stranita. «grazie.» E mentre posava la pianta sul comodino, un frastuono di voci adolescenziali proveniente dal corridoio attirò l'attenzione di tutte. In un attimo una quindicina di ragazzi agitati riempì la camera. «Buonasera!» «Ciao!» si sentì ripetere. Il cuore di Adria si inondò di gioia. A modo suo anche quello di Paola. Quello di Delfi di terrore. Lei non intuì subito cosa stesse accadendo e in quel momento di grande confusione si ritrovò circondata da suoi coetanei, gli stessi che la evitavano o la deridevano quando la intravedevano per strada. Alcuni la conoscevano. Alcuni la conoscevano così bene che trovandola lì si chiesero cosa mai stesse facendo. 48 Allora cercò di farsi piccola nell'angolo più angusto della camera. «Professoressa come va?» «Professoressa a settembre tornerà a scuola?» «Professoressa le manchiamo?» «Professoressa è felice di vederci?» le chiesero a turno lasciandola a malapena il tempo di rispondere. Nel frattempo che i ragazzi sommergevano Adria di domande, Paola proiettava la vista tra quelle teste spettinate in cerca di Rocchina. La scorse in mezzo alla folla, gli occhi imbrattati di trucco nero, piercing che le fuoriuscivano dalle labbra e polsini borchiati, non ci si poteva sbagliare, era lei. Poi la più spigliata si fece largo tra i compagni, si accostò al letto e porse ad Adria un mazzo di fiori ed un regalo. «Professoressa siamo contenti che stia bene e che non sia morta. Volevamo venire già da tempo ma non sapevamo se fosse permesso dal centro...» Adria piena di commozione accettò i fiori e scartò il regalo. «Poi fortunatamente la prof mi ha chiamato chiedendomi se eravamo interessati a farle visita... certo che lo siamo! Ci è mancata così tanto in questi mesi e quello che ci fa supplenza è di una noia mortale!» Un lettore ebook tecnologico e nuovo di zecca comparve tra le mani di Adria mettendo ancora più in negativo risalto la piantina mangia mosche di Delfi. «Ci sono già degli ebook, delle letture che la aiuteranno in questi momenti difficili professoressa... e poi delle foto che abbiamo scattato poco fa tra noi nel caso sentisse la nostra mancanza.» Eccezion fatta per suo figlio, i suoi alunni erano gli unici che riuscivano ad allontanare Adria dai pensieri negativi, erano loro il suo pensiero felice. «Oh grazie ragazzi, davvero grazie.» E mentre intenerita ringraziava, Paola fissava Rocchina incessantemente. «Oggi ho ricevuto due bellissimi doni.» e poggiò quelli nuovi accanto al vegetale carnivoro. Delfi si rammaricò amaramente di aver deciso quella sera di farle quel vergognoso regalo. «Paola apriresti la finestra che siamo troppi e si inizia a non respirare... tanto c'è la piantina di Delfi per le zanzare.» disse buttando lo sguardo alla ragazza e come il suo, altri quindici sguardi si girarono per individuarla. 49 Delfi avrebbe voluto sciogliersi e fondersi col pavimento ed essere calpestata da ogni sorta di pedata per l'eternità piuttosto che stare lì a sostenere le occhiate sprezzanti dei suoi compagni. «Andresti a chiedere a Cecilia se può portare qualcosa da bere da offrire ai ragazzi?» le chiese Adria. Lasciò la stanza a disagio, ma allo stesso tempo sollevata di sottrarsi a quegli sguardi impiccioni e pettegoli. E mentre si affrettava a percorrere il lungo corridoio alla ricerca dell'assistente, un rumore di passi più veloci dei suoi la seguì. Si girò e lo vide, Dario, vecchia conoscenza, alunno di Adria. «Cazzo ci fai qui?» disse quello senza preoccuparsi di salutarla. «Ti è parente?» «No.» rispose e guardinga lo acciuffò dal braccio e lo trascinò in un ripostiglio, «Volontariato.» disse. «Ah, ah ah! Cosa, tu volontariato?! Ma ti sei fatta di qualche droga tagliata male?» «No, non sono fatta... che c'è? Non posso?» «No, è solo che mi pare strano da te, l'ultima volta che t'ho vista mi supplicavi ubriaca come una spugna di farti lo sconto a dieci grammi d'erba!» «Bhè sì, quelli erano altri tempi e le persone cambiano...» Delfi portò una mano alla fronte. «Senti è una lunga storia, però mi piacerebbe che non le riferissi di questo mio passato...» E mentre quello ancora se la rideva, noncurante di quella richiesta le domandò: «Ma ti sei trovata per caso con lei o cosa?» «Per caso, ovvio! Secondo te?» «Allora cara mia, hai una certa sfiga appiccicata al culo... è una brava donna, ma se la fai incazzare sa essere davvero stronza.» e la lasciò in quello sgabuzzino tetro alle sue riflessioni. Poi Delfi uscì, andò alla ricerca di Cecilia, la trovò, temporeggiò con lei finché recuperò qualcosa da stuzzicare per una quindicina di ragazzi in pieno sviluppo e la aiutò infine a trasportare il cibo da loro. In quei dieci minuti d'assenza, il clima all'interno della camera era parecchio cambiato. 50 Delfi vi trovò Adria che si era levata dal letto e dritta sulle stampelle parlava davanti a quei ragazzi che la stavano ad ascoltare attenti e tristi. «...perché chi è stato capace di farmi una cosa del genere non merita solo il carcere, merita l'inferno ed io spero vivamente che esista perché voglio vederla bruciare quella piccola bastarda, come ho bruciato io...» Intanto Paola non staccava lo sguardo di dosso dalla povera Rocchina per studiarne le reazioni, per vedere se le parole dell'amica la facevano sudare, senza accorgersi che nella stessa stanza un'altra ragazza stava sudando come se percepisse il calore del fuoco infernale che le era stato augurato. «...quello che mi fa incazzare è che non si è costituita, come fa a vivere con sé stessa dopo ciò che mi ha fatto! Significa che non ha una coscienza, che non se ne frega niente e chi è così non è degno neppure di chiamarsi essere umano...» Rocchina infastidita dalle occhiate accusatrici di Paola che sentiva incollate addosso si voltò alla donna e la fissò con la stessa antipatia profonda che sapeva di suscitare in lei. Allora prese parola Paola e mantenendo la vista puntata su Rocchina disse: «Ragazzi voi potete aiutare. Siete tanti ed ognuno di voi ha diversi amici, se riusciste ad individuare chi è questa ragazza che ha tatuato un serpente sul fianco magari col passaparola...» A Rocchina sarebbe anche potuta piacere Paola, ma quella si mostrava sempre così scontrosa ed insofferente nei suoi confronti che la ragazza nel corso degli anni aveva fatto sì che il sentimento diventasse reciproco. «...Rocchina tu ne hai uno, giusto? Un tatuaggio sul fianco.» La poveretta sbigottita ristette un attimo di fronte a quella domanda. «No, non ce l'ho... e ho afferrato dove vuole arrivare, non sono stupida e non sono stata io!» disse con fervore. «D'accordo, allora se non ce l'hai puoi alzare la maglia e mostrarci il fianco.» «Cosa?!» «Paola smettila.» la riprese Adria. La ragazza provò un senso di umiliazione che mai aveva provato prima. 51 «Professoressa,» disse rivolta ad Adria «lei è d'accordo, vuole che sollevi la maglia? Anche lei pensa che sia stata io?» «Rocchina, io...» Adria era combattuta. Sì, ad essere sincera lo voleva, voleva scoprire i fianchi di tutte le ragazze, non solo di Rocchina, ma in quel momento non riuscì ad ammetterlo. La ragazza sentendola bofonchiare intuì quella risposta che lei faticava a proferire ed alzò la maglia. Una voglia scura si estendeva sul fianco destro tracciando un sinuoso disegno. «Contente? È un tatuaggio? Io non credo proprio!» Le due donne mortificate si ammutolirono. «Come ha potuto pensare che fossi stata io! Credevo che in qualche modo mi capisse!» urlò ad Adria quasi in lacrime e ferita corse via. Gli altri ragazzi presenziarono in un silenzio pressoché religioso e quando Paola con immensa vergogna di sé li invitò a lasciare la stanza, quelli nello stesso umore, opposto a quello con cui erano arrivati, salutarono ed andarono. Adria stava in piedi contro la finestra, ammaliata dal cielo d'agosto che nel frattempo si era imbrunito, ad ascoltare le cicale, i grilli che ravvivavano col loro canto le afose serate estive, e a lasciare che qualche goccia le colasse dagli occhi. «Adria, io...» disse Paola. «Vattene.» «Senti mi dispiace, ma io credevo davvero che Rocchina potesse...» «Credevi che?» si girò a lei, «Mi stai facendo esaurire, lo capisci? Ed io ora non ho bisogno di te che "ti dispiace"!» le urlò e si diresse alla gamba finta, la agguantò ed agitandola continuò: «In testa ho già tanti pensieri, questa maledetta protesi, il dolore, la lontananza da mio figlio e tutto, e l'ultima cosa che mi serve è che tu mi ci metta dentro anche cose che non esistono!» e scaraventò la protesi contro il muro dietro alle spalle di Paola. Il rumore che ne scaturì fece sobbalzare anche Delfi che aveva assistito, atterrita ed appoggiata con le mani tra schiena e muro, prima all'orazione delle due donne, poi allo smascheramento finito male ed infine a quella lite. 52 Le due donne si fissarono per qualche secondo soffocando entrambe un muto pianto interiore. «Sì...» disse Paola avvilita mentre raccoglieva addolorata le sue cose «Scusa.» ed uscì. Adria si volse di nuovo alla finestra, poggiò i gomiti sul davanzale ed il capo sulle mani e stette così, a piangere. Delfi sommessamente, cercando di non disturbare o intromettersi nel dolore di Adria, raccolse la protesi, la riportò al posto, guardò con afflizione la donna, girò e se ne andò. III.VI Uscì correndo e montò sulla sua vespa, percorse in fretta il tragitto, parcheggiò, oltrepassò il vialetto, si posizionò davanti al portone, bussò e bussò. «Che è successo?» le domandò. L'amica lo guardò, allarmata lo invitò ad entrare. «Li hai comprati?» «Sì, ma si può sapere che devi fare?» «Andiamo in camera.» disse quella. Il padre come al solito sedeva incantato di fronte al televisore acceso nel salotto. Le voci del programma a quiz che si costringeva a guardare echeggiavano nella stanza ed aleggiavano per aria in cerca di qualcuno che le captasse. «Buonasera signor Armando.» gli augurò Alessio. Ma quello ovviamente non se ne avvide. Delfi chiuse la porta della sua camera, come se l'uomo avesse saputo intendere cosa sarebbero andati a fare se anche l'avesse lasciata aperta. Giunto lì, Alessio tirò fuori dalla busta quegli oggetti che l'amica gli aveva chiesto di acquistare. «Non so se sono quelli giusti, non sono propriamente un asso in materia di trucco.» Fondotinta, ombretti, correttore, cipria e crema. «Non immagini come mi ha guardato male il cassiere!» esclamò. «Sì Ale, senti...» e nel cercare le giuste parole per raccontare si levò la maglia. Alessio si voltò repentino di faccia al muro. «Devo imparare a coprirlo, ieri è successo che... ma che fai?» 53 L'amico voltandosi leggermente replicò imbarazzato: «Ti stai spogliando.» «Lo so e allora?» disse lei «No, andiamo. Sono in top, mi hai visto mille volte più nuda al mare.» «Sì, però...» «Dai,» continuò, «voltati.» lo agguantò da un braccio e lo ruotò. Alessio a disagio, non riuscendo a non far scivolare la vista sul seno dell'amica, restò imbambolato a fissarlo con occhi sgranati, mentre Delfi continuava a spiegare agitata: «Rocchina... Paola l'ha costretta a spogliarsi davanti a tutti, se lo facesse anche con me...» Alessio si riprese, scrollò il capo per spegnere le focose visioni che con gran facilità erano divampate dentro di sé e disse: «E cosa... che intendi fare, truccarlo?» «Sì, ho fatto una ricerca su internet, non dovrebbe essere difficile...» Pigliò il computer su cui erano aperte una decina di pagine web riguardanti i tatuaggi e tutto ciò che potesse essere in qualche modo inerente ad essi, lo posizionò su una sedia di fronte all'amico e pigiò invio. Partì un tutorial che spiegava ogni passo da compiere per mimetizzare un tatuaggio. «Guarda qua.» gli disse. Alessio esitò ed impensierito guardò lei lasciando scorrere il video. Quella maniacale ricerca dell'amica gli destò non poche preoccupazioni. «Delfi non credevo l'avrei mai detto, ma... hai valutato la possibilità di abbandonare? Inventati che devi stare con tuo padre e non puoi più darti al volontariato.» «Cosa? Sei impazzito?» Si fermarono un istante a guardarsi. Ora che Alessio aveva saputo che avrebbe potuto essere identificato e quindi accusato di complicità, temeva che l'amica potesse essere scoperta. Forse temeva più per sé che per l'amica. Ora che Delfi aveva imparato ad apprezzare la compagnia di Adria ed aveva imparato che avrebbe potuto apprendere meglio le informazioni che giungevano direttamente dalla polizia, o quelle che riuscivano a scoprire le due donne, e a manovrarle a suo piacimento, ora quelle parole dell'amico le sembravano senza senso. 54 «Non puoi coprirlo così un tatuaggio, è estate, il caldo scioglierà il trucco... Quanto potrà mai durare, mezz'ora?» Delfi non comprendeva perché l'amico non volesse neanche provarci. Avevano sempre provato tutto, anche le cose più stupide e scriteriate e ce ne erano state tante nel corso della loro amicizia, alcune valicarono perfino il limite legale e morale. Ed ora non capiva perché quell'atteggiamento di rigetto categorico da parte di Alessio. «Poi la maglia si sporcherà, credi che lei non lo noterà?» «Non posso rimuoverlo col laser, costa troppo e poi... e poi io non voglio cancellarlo definitivamente.» «Non ti sto dicendo questo.» Delfi lo guardò ed afflitta chiese: «Allora cosa vuoi dirmi Ale?» «Niente, che dovrei dirti?» «Perché non vuoi neanche aiutarmi a provarci?» «Perché ho paura, va bene?» «Ora hai paura?» «Ora.» Delfi ragionò e capì. Certo, ora aveva paura mica prima. «Tu mi hai mandato a mangiarci insieme tanto rischiavo solo io, che ti importava! Ma se rischi anche tu, allora bhè, allora improvvisamente per te è meglio se non ci mangio più insieme, giusto?» Delfi si rivestì, aprì la porta e spinse l'amico fino all'ingresso. «Bell'amico di merda che sei Ale!» lo cacciò fuori, «Non preoccuparti ché se mi sbattono dentro dirò che ti trovavi lì per caso e che non mi hai visto in faccia!» e gli lanciò la porta contro. Poi si volse di spalle e scivolò lentamente sulla parete adagiandosi seduta a terra con le ginocchia al petto. Si guardò la lettera della madre marchiata sul fianco e pianse. Mai avrebbe pensato che un giorno sarebbe arrivata a desiderare di raschiarla via, sarebbe arrivata ad odiarla. «Delfi.» «Papà.» disse. Si alzò cercando di riacquistare un po' di compostezza. «Papà stavo solo... io stavo-» 55 Avrebbe potuto dirgli che stava imparando a volare, al vecchio non sarebbe importato e comunque non avrebbe inteso. O avrebbe potuto raccontargli che stava comunicando telepaticamente con gli esseri di un'altra galassia grazie all'impianto che le avevano installato nel cervello, questo lui sarebbe riuscito a comprenderlo meglio. Ma lei cercava sempre di trattarlo come fosse normale, di non mentirgli mai. «Non importa quello che dicono di te piccola, io ti vorrò bene lo stesso perché sono tuo padre e tu sarai sempre la mia bambina.» disse lui. Poteva sembrare una frase enunciata con lucidità apposta per lei e per quel momento straziante, ma in realtà era soltanto una delle frasi di repertorio che il vecchio le ripeteva di tanto in tanto quando voleva far prendere un po' d'aria alla bocca. Ma Delfi come tutte le volte che la sentiva formulare gli sorrise e gli strinse una mano. «Grazie papà.» E come tutte le volte, anche quella Delfi volle convincersi che l'uomo credeva fermamente alle sue stesse parole e ne afferrava il senso, perché quelle erano esattamente le parole di cui lei aveva bisogno. Tornò in camera e sconsolata iniziò a seguire meticolosamente le istruzioni del tutorial per imparare a sbarazzarsi del tatuaggio. III.VII «In realtà sbarazzarsi di un tatuaggio non è cosa facile.» L'uomo cercava di esprimersi con parole semplici mentre lei lo stava ad ascoltare attentamente. «Una soluzione sarebbe quella di coprirlo con un altro tatuaggio, ma questa tecnica dipende dai colori del primo e... non è molto efficace.» Il colore del primo è nero, constatò lei, quel nero ormai sbiadito tendente al verde. «Poi il laser. È un procedimento lungo e costoso e non sempre riesce alla perfezione. Delle macchie resteranno sempre visibili sulla pelle.» Mentre lo ascoltava spiegare, si domandava quale titolo avesse lui, di tatuatore? E come facesse ad avere tutte quelle nozioni sui metodi di elisione dei tatuaggi. 56 «È per questo che crediamo che la ragazza non cercherà di rimuoverlo... Ad ogni modo se dovesse provarci, ci siamo messi in contatto con tutti i tatuatori della zona, ci riferiranno ogni movimento ambiguo, ogni ventenne che richiederà di eliminare o camuffare un tatuaggio.» L'uomo in divisa cessò di illuminarla su quello che avrebbe anche non potuto fare la criminale che riusciva ancora a sfuggire abbindolando tutti, ed aspettò ansioso un suo commento. «Insomma agente, niente di nuovo praticamente... poteva anche non disturbarsi a venire.» disse Adria. «Si metta nei nostri panni signora, stiamo davvero facendo il possibile, ma senza testimoni validi è difficile.» Adria non se ne diede troppa pena, ancora provata per ciò che era successo con i suoi alunni e la sua amica, aveva deciso di mettere momentaneamente da parte la questione dell'indagine. E mentre quello se ne andava, Delfi entrava. Lo vide uscire. Le aveva parlato di lei? Di Alessio? Se solo fosse arrivata cinque minuti prima, maledetto traffico. E se fosse venuto a riferirle che erano riusciti a risalire al colpevole? Impossibile, lei l'avrebbe di certo saputo prima essendo lei il colpevole. Allora si fece animo e dopo averla salutata le chiese: «Novità?» «Magari... sempre le solite chiacchiere...» Adria si sedette sul letto, agganciò la protesi e si drizzò sulle stampelle. «Andiamo a farci due passi in giardino, devo allenare la gamba sennò chi lo vuole sentire... il dottore. Le sue urla sono l'ultima cosa che sopporterei al momento.» Giunte che furono all'aperto, presero a girare lentamente per il giardino. «Quanti gradi saranno, quarantacinque? Ho scoperto che hanno una piscina, dobbiamo andarci Delfi.» La ragazza trasalì. «Ora?!» «Ora?! Certo che no, hai il costume addosso?» «No.» rispose. «E allora...» 57 Adria non aveva compiuto neanche i venti passi, che nel corso dei giorni erano divenuti "almeno cinquanta", che già sentiva di aver fatto uno sforzo immane. La tensione, la fatica, il caldo contribuivano a condurla sull'orlo di crisi di rabbia come quella avuta con la sua migliore amica. «La tua pianta è davvero utile Delfi... è affascinante.» «Sì, attira gli insetti, poi quando quelli si posano sulle setole chiude le foglie e li divora.» disse mimando con le mani le parole. «Già... che gran bastarda, prima li ammalia e poi se li mangia.» La donna aveva perso il conto dei passi, certo non erano arrivati a cinquanta, ma cominciava a sentire quella dannata fitta al moncone. «Sono stanca.» disse «Sediamoci all'ombra.» «Già?» si permise di chiederle la ragazza. Adria le inviò un'occhiata fulminante ed evitò di risponderle, evitò di innervosirsi ulteriormente. E si andarono a sedere. La donna sospirò. «Delfi scusa. Ho esagerato l'altra sera quando mi sono incazzata con Paola, mi spiace tu abbia dovuto assistere.» «Non fa niente.» «È che questa situazione mi sta massacrando sia psicologicamente che fisicamente, a volte penso che sarebbe stato meglio se fossi morta quella sera.» Delfi la ascoltava, ma come tutte le volte che Adria parlava della sorte che le era toccata, volgeva lo sguardo lontano da quello di lei. «Solo che non posso, ho Elio... non posso neanche decidere di scegliere quale finale assegnare alla mia vita, devo per forza andare avanti.» Allora la ragazza tirò fuori il cellulare. «Ho fatto delle ricerche...» disse «molte persone nella tua condizione non solo ce l'hanno fatta, ora sono delle star.» Le mostrò immagini di uomini che stavano su una gamba sola e al posto di quella mancante avevano particolari marchingegni di chissà quale lega rara, altri che praticavano sport partecipando a qualche strana olimpiade, alcuni tenevano in bella mostra il libro che avevano scritto sul proprio vissuto, ed altri semplicemente stavano ridenti davanti all'obiettivo della macchina fotografica, in ogni caso tutti felici e contenti. 58 «Che cazzo si ridono? Hanno perso una gamba mica vinto alla lotteria.» Delfi ritirò il cellulare pensando di aver forse sbagliato qualcosa. Ma la donna vedeva sé stessa in quella gente ed odiava identificarsi in quegli handicappati. «Fare sport non mi piaceva quando avevo due gambe, figurati se ci penso ora!» disse stizzita. Poi si alzò ancora dolorante, ma stufa di quelle immagini, di quelle persone che la circondavano, di quel sole che picchiava senza aver pietà di nessuno, nemmeno di lei, nemmeno il sole, stufa di tutto disse: «Torniamo.» La ragazza la seguì taciturna, timorosa persino di chiederle se avesse bisogno d'aiuto. E quando arrivarono in camera, Adria si levò la protesi rilasciando un'espressione di sollievo. «Fanculo i cinquanta passi.» Il suo arto tranciato tornava finalmente a traspirare. Si riposizionò diritta sulle stampelle davanti a Delfi ed il resto accadde in un attimo. La ragazza aveva sempre cercato di evitare di guardarla, la gamba della donna, per far sì che non le ricordasse il crimine di cui si era macchiata. Ma quella volta la curiosità vinse sul buon senso e Delfi lasciò cadere un'occhiata fugace su ciò che rimaneva della gamba, e se ne pentì subito dopo. Non vide una gamba, vide un'estensione mal ridotta ciondolare verso il basso. Adria colse il suo sguardo e più che altro ne colse il senso d'avversione. «Credi che a me piaccia?» disse infastidita «Non guardarla se ti fa schifo, certo io non la coprirò solo perché ti disturba la vista.» La ragazza rimase basita. Trattenne il fiato a mezz'aria tentando di trovare le giuste parole. Voleva farle credere di non aver inteso a cosa si riferisse, voleva negare di averla guardata, o almeno negare che le facesse schifo, voleva ad ogni modo scusarsi, voleva fare e dire molte cose, ma non fece e disse niente. La donna passandole accanto con le stampelle le scagliò un'occhiata sbieca ed uscì dalla stanza. 59 Anche lei osservava la sua gamba e provava repulsione. Non la riconosceva più, non era più la sua gamba, non era più una gamba. Era un pezzo deforme attaccato alla sua anca, avrebbe voluto strapparselo via a mani nude, ma quelli l'avevano lasciato appeso lì, inutile e fastidioso alla vista e al tatto. Le pareva la coda di qualche animale spennato che continuava a muoversi anche dopo essere stata staccata dal resto del corpo. La odiava. E se era ripugnante per lei nonostante fosse parte di sé, quale senso di ribrezzo doveva suscitare negli altri. Sentiva addosso gli sguardi di disgusto della gente, come se quel pezzo di carne molle dovesse essere oggetto di vergogna per lei, colpevole di volersela portare appresso, colpevole di volerla mostrare in giro. "Copriti quello scempio!" sembrava che le gridassero mentre nauseati le passavano accanto. Iniziò ad odiarle tutte, le persone. Anche chi il suo odio non lo meritava. Anche chi magari non la guardava affatto. Anche chi come Delfi non si interessava alla sua mezza gamba, ma a lei. Le aveva mostrato foto di uomini che ce l'avevano fatta per incoraggiarla a tenere duro, per stimolarla a continuare a combattere, per aiutarla a superare quella fase spinosa che lei stessa le aveva appena confidato di attraversare. Sembrava ad Adria di aver ottenuto la capacità di saper mutare in nemici tutti gli amici che cercavano di aiutarla. Allora tornò in camera per riconciliarsi con la ragazza, ma quella era già svanita. 60 CAPITOLO IV IV.I "Forse ha ragione," meditava "devo lasciar perdere." Camminava immersa nelle sue riflessioni senza far caso alle persone che le scorrevano accanto. "Ora entro in camera, mi scuso e le dico che lascio perdere." Decise così, mentre creava parole trascinando il dito sul cellulare e distratta dal gioco, senza rendersene conto oltrepassò l'uscio. «Ehi!» esclamò meravigliata Adria. «Ciao.» «Credevo non ti avrei più rivista.» Delfi non replicò, bloccò il gioco, silenziò la suoneria e ripose il cellulare in borsa. «Sono stata una vera stronza, sono così mortificata.» «No, non fa niente.» disse mentre si dava da fare a stipare lenzuola ed asciugamano che l'inserviente le aveva appositamente lasciato su un carrello. «Sei tesa, stai attraversando un brutto periodo, lo posso capire.» «Delfi.» Adria si levò dal letto ed arrivò saltellando su una sola stampella a lei. «Non devi per forza essere sempre così educata... se la prossima volta faccio la stronza, mandami a fanculo. Ok?» La ragazza la guardò alcuni secondi negli occhi, affermò timidamente con un cenno della testa e riprese a fare le sue faccende. «Mentre venivo ho incontrato Paola che usciva con un bambino.» «Sì, Elio. Mio figlio... devi conoscerlo.» Annuì. «Avete chiarito?» «Oh, sì.» disse «Sai com'è? Siamo come sorelle, litighiamo spesso, ma ci vogliamo bene.» «Bhè sì, lo so.» e poi pensò che magari avrebbe potuto trovare supporto in lei, perché Delfi al momento non aveva altri che lei. «Anch'io ho litigato col mio migliore amico, ma...» disse «non abbiamo ancora parlato.» «Come mai avete litigato?» 61 La ragazza rifletté, nel suo cervello si riprodussero le immagini di lei che sbatteva la porta in faccia all'amico ed il suono delle ultime parole che gli rivolse. Titubò. La donna notando la sua esitazione e credendo di aver appena invaso un territorio privato rettificò: «Insomma, se è una cretinata non dovrebbe essere difficile comprendere cosa fare, se vale più della vostra amicizia... è una cretinata?» E mentre Delfi prendeva fiato per rispondere chissà cosa, una voce la interruppe: «Professoressa buongiorno!» Delfi si paralizzò mentre osservava con occhi sbarrati quella irruzione. «Ehi, ciao Dario!» Il ragazzo era vestito di una camicetta bianca a mezze maniche, bermuda beige, capelli imbrattati di gel e teneva in mano una scatola di cioccolatini. «Ero nei paraggi e mi son detto, perché non andare a far visita alla prof?» e le porse la scatola. «Ma che bel pensiero Dario!» Il ragazzo si voltò a Delfi: «Ciao Delfi.» Lei ammiccò diffidente. «Vi conoscete?» chiese Adria. «Sì,» disse lui «un tempo... bhè a dire il vero neanche troppo tempo fa, quanto Delfi, un anno fa?» Lei non rispose. Cercava di convincersi che quella fosse una visita di piacere, ma era troppo sveglia per non accorgersi che non poteva essere una coincidenza. Così quello disinteressato al suo silenzio riprese: «Un'estate fa frequentavamo lo stesso giro... giro di amici.» Adria guardò i due ragazzi pensando che forse Dario potesse essere il ragazzo appiccicoso di cui le aveva parlato la ragazza. «Infatti Delfi, sai cos'ho trovato qualche giorno fa mentre spulciavo le foto del mio cellulare?» e mentre lo diceva, lo faceva, tirò fuori il cellulare ed iniziò a sfogliare le immagini della sua galleria. «Te la ricordi quella giornata al mare, io tu Alessio e Claudia? Ricordi come ci siamo divertiti?» 62 Delfi prese a respirare più forte, a fissarlo con ardore, mentre tutto il resto svaniva dalla sua visuale e riusciva a distinguere solo la sua faccia insolente, solo lui e ciò che diceva. «Avevo scattato un paio di foto...» il suo indice continuava a scivolare a scatti lesti sul display, «eravamo così allegri... in costume.» disse e la fissò un attimo distogliendo la vista dal telefono, «In costume.» ripeté. Notò il terrore che sprigionarono gli occhi di lei e le ostentò un sorrisino bastardo, un sorrisino che solo i due ragazzi riuscirono a cogliere. Poi tornò a cercare tra le foto. «Cavolo!» disse «Non riesco più a trovarle.» e la fissò ancora, sempre con lo stesso angolo della bocca tirato in su. Delfi si voltò ad Adria per comprendere se avesse intuito qualcosa e vide una donna che stava semplicemente aspettando che le venissero mostrate delle foto che forse erano andate perdute. «Devo andare, devo... Cecilia mi sta aspettando.» disse e senza aggiungere né gesti né altro uscì di fretta. L'incontro al mare con Dario lo ricordava bene, uno di quegli avvenimenti travestiti da casualità che invece altro non sono che argute strategie del fato per poter poi colpire facilmente in futuro. Anche Dario ricordava bene quell'incontro, ricordava bene Delfi ed Alessio e meglio ancora ricordava il suo fianco nudo e marchiato. Le stava succedendo di nuovo, l'ennesimo colpo di sfortuna dritto in pieno petto. Si diresse in bagno, chiuse a chiave la porta dietro di sé e dentro di sé, si guardò allo specchio e vide due occhi inondati di disperazione e per un breve istante ebbe come la sensazione che non le appartenessero. Aprì il rubinetto e fece scorrere un po' d'acqua sulle mani, sul volto, un altro po' ne bevve e poi stette col capo ed il peso delle sue riflessioni appoggiati sulle braccia e quelle sul lavandino. Non riusciva a riconoscere più dove avesse sbagliato, le pareva tutto un lungo e terrificante errore che durava da ormai troppi mesi. Cercò di tornare lucida, di rimettere insieme i pezzi della sua logica che si erano frantumati e taglienti andavano a zonzo per il suo cervello causando ferite sanguinolente e dolenti. 63 Poi andò ad aspettarlo fuori all'ingresso della clinica. Aspettò cinque, dieci, poi altri cinque minuti ed ancora altri eterni minuti finché quello finalmente si presentò all'uscita. Lui se l'aspettava, si aspettava che lei lo aspettasse e per nulla sorpreso della sua presenza la fissò senza arrestarsi. Lei ricambiò l'occhiataccia e prese a seguirlo. «Che vuoi?» gli strillò mentre lui strafottente proseguiva verso la sua piccola auto. «Che vuoi bastardo?» gli strillò più forte e lo spinse da dietro alle spalle. Quello inciampò e poi con molta calma si girò a lei. Sghignazzò. «Devo per forza volere qualcosa?» Delfi lo stava a guardare e con angoscia aspettava che le sferrasse il colpo. «Certo Delfi, non sei stata per niente furba... a che pensavi quando ti sei offerta di darle una mano dopo che le avevi tolto una gamba? Una mano per una gamba non mi sembra uno scambio equo.» «Dimmi che cazzo vuoi e falla finita.» «Eh Delfi, Delfi. Vorrei un sacco di cose... ma la domanda giusta è: cosa sei in grado di darmi tu?» le si avvicinò e le sfiorò la guancia col dorso delle dita. «Quanto credi che valga il mio silenzio? O piuttosto, quanto credi che valga la tua libertà?» «Ho cinquecento euro, te li porto oggi stesso a casa tua, saranno tuoi.» «Ah ah ah! Cinquecento euro! Così poco vali?» lentamente accostò la testa a quella di lei e le bisbigliò all'orecchio: «Devi valutarti di più tesoro, sei così bella... e fortunata, così fortunata che voglio solo il tuo corpo Delfi, niente soldi.» «Sei un verme schifoso, te lo puoi scordare!» Lui si scostò di scatto e la guardò. «Ah no?» disse. «O quello o mille euro.» «Non ce li ho mille euro, sono troppi.» «Va bene, allora torno dentro e spiffero tutto alla prof. Avrai tipo... mezzora di vantaggio per fuggire lontano e far perdere le tue tracce.» e si avviò verso l'ingresso. Allora Delfi lo ghermì per un braccio e lo volse a sé. «Ok.» disse. «Va bene, mille euro... ma mi servono almeno due giorni.» 64 «Uno.» «Dario ho bisogno di tempo per racimolarli, ti prego!» e con le mani giunte si chinò leggermente con la schiena come ad implorarlo. Lui gratificato di essere trattato da dio, come un dio spietatamente ribadì: «Ho detto uno. Entro domani sera.» E mentre quello entrava in auto, metteva in moto e le indirizzava occhiate di successo dal finestrino aperto, lei piangeva terrificata. IV.II «Perché piangi?» Fu la prima domanda che le rivolse dopo che la ebbe invitata ad entrare. Delfi non poteva farne a meno. Non era un pianto rumoroso il suo, era un pianto interiore e profondo, uno di quei pianti di rassegnazione alle avversità che crudelmente si abbattono sulla vita deviandone il corso. Ma Alessio lo distingueva nel suo sguardo, quel pianto riservato e discreto. Gli raccontò di Dario e d'un tratto il loro screzio passato sembrò una cretinata. «Merda! Ci dovrà pur essere una soluzione.» disse Alessio mentre passeggiava per la stanza sfregandosi le mani. «La soluzione c'è, ma non piace né a me né a te...» lo guardò un istante. «Confessare.» «Delfi, ci deve essere un altro modo.» «Quale Ale? Mettiamo una calza sul viso e rapiniamo una banca? O facciamo a pezzi quello stronzo e lo buttiamo in pasto ai pesci?» Delfi si levò dal divano ed andò a guardare fuori dalla finestra. Pioveva. Il primo temporale estivo di metà agosto. Il vapore della pioggia che si infrangeva sull'asfalto ancora cocente giungeva forte ai suoi sensi. Inspirò. «Non ho abbastanza soldi, credevo di averne di più invece ne ho solo duecento.» «Io ne ho cento.» «Appunto. Non sono neanche un terzo di quelli che vuole quel figlio di puttana.» Alessio tacque qualche secondo preso dalle sue congetture. 65 «Possiamo vendere il computer e la wii.» disse. «E quanto possiamo ricavarci, altre trecento? Il computer funziona per miracolo e la wii è datata.» Allora il ragazzo si afflosciò su una sedia e non gli parve più tutto così insensato. «D'accordo,» disse «confessalo. Ma a lei, non alla polizia.» Delfi si girò incredula mentre l'amico continuava a parlare. «Forse dovremmo prenderci le responsabilità delle nostre azioni ed accettarne le conseguenze.» Delfi non capiva. E neanche Alessio in realtà capiva a pieno ciò che diceva. Sapeva solo che: «Ho paura Delfi, non riesco più a mangiare. E in questi giorni che eri incazzata con me non riuscivo a pensare ad altro se non alle possibili conclusioni di questa cazzo di storia... ed ogni volta finiva con noi in manette.» Alessio guardava in basso, le parole gli filavano via dalla bocca come se le stesse leggendo sulle gambe. «I miei hanno intuito che c'è qualcosa che non va... ho detto che è per una ragazza, ma non sono stupidi.» Delfi ascoltava con attenzione quello sfogo. Era una faccenda che coinvolgeva troppe persone. Una volta confessato le avrebbe travolte tutte, sconvolte e trasformato i loro sentimenti in astio nei suoi confronti. Sarebbe stata additata da tutti, non solo da Adria, Paola, dai genitori di Alessio, dalla sua scuola, dall'intera città, addirittura i media nazionali l'avrebbero annunciato nei servizi e già le sembrava di udire la notizia ai telegiornali, mentre suo padre fissava a bocca aperta la faccia di lei in televisione senza afferrarne il significato, ignaro di ciò che gli stava accadendo intorno. Lui che, se fosse stato in grado di capire, sarebbe stato l'unico a poterla capire. E perdonare. «Se non c'è altra soluzione... non puoi... tu non puoi continuare a vivere in questo modo Delfi, nel terrore che domani un altro Dario potrà ricattarti.» Aveva ragione, se non ci fosse stata altra soluzione avrebbe dovuto farlo. «Credi che lei comprenderà? Sì, insomma... credi che mi farà arrestare?» Il rumore di un tuono rimbombò nel salotto come se il cielo volesse prendere parte a quella conversazione e rispondere l'ovvio. 66 E lei volle goderseli tutti i restanti momenti di libertà, così tornò a casa e trovò la tv eccezionalmente spenta ed il vecchio seduto alla sua solita postazione sulla poltrona. Si avvicinò e lo vide con la vista fissa sul muro di fronte, immobile. Si volse al muro, Delfi non ricordava se su quella parete vi fosse un quadro, un ritratto, forse una macchia, un buco o una crepa, insomma qualcosa. No, non vi era assolutamente niente. L'uomo fissava il nulla. «Papà.» disse. Ma lui non reagì. Allora gli sedette sulle gambe e l'abbracciò. «Papà, devo confessarti una cosa, non voglio che tu lo venga a sapere dalla tv.» Sperava che il padre vinto dalla curiosità le avrebbe dato almeno l'impressione di essere interessato alle sue parole. «Ho fatto una cosa di cui mi vergogno e mi dispiace... mi dispiace tanto.» Sperava che quella confessione fosse lo stimolo giusto per motivarlo a ragionare, a svegliarsi da quel torpore psichico in cui versava da troppi anni. «Ho fatto male a una persona, così male che ora non ha più una gamba e tu ora devi mettermi in punizione, sì papà, dovresti arrabbiarti con me e punirmi perché sei mio padre e i papà fanno questo.» Ma il vecchio purtroppo non era mentalmente lì con lei, Delfi l'avrebbe voluto diverso, ma quello era così, diverso. «Papà ti prego, aiutami.» Allora l'uomo abbassò lo sguardo e finalmente lo vide, il viso supplichevole della figlia. «Mi hanno mandato un messaggio Delfi, da lassù, è scritto lì.» ed indicò la parete spoglia di fronte a sé. «Tra un po' dovrò salire a bordo per dare una mano all'equipaggio e non so se riuscirò ad aiutare anche te.» «Cazzo papà.» disse Delfi e sospirò, annuì sforzandosi di sorridergli e costernata lo strinse a sé. Poi aspettò in quella posa che scendesse la sera. E quando quella calò, Delfi baciò il padre ed uscì. L'aria si appiccicava addosso soffocante, invadente, il temporale non aveva fatto altro che amplificare la percezione di calore e nonostante ciò, Delfi tremava come se una sensazione di gelo si stesse addentrando nelle ossa. 67 Percorreva il tragitto in sella alla sua vespa ed immaginava il momento. Si sarebbe presentata e senza proferire alcun sibilo si sarebbe svestita. Gliel'avrebbe fatto intendere così, poi si sarebbe arresa ed avrebbe subìto in silenzio. Arrivò, la porta era stata lasciata aperta affinché circolasse un po' di corrente d'aria, per scacciare quell'afa fastidiosa che non aveva fatto fatica ad insediarsi all'interno durante il giorno. Ma lei bussò comunque, non sapeva chi ci avrebbe trovato dentro. Entrò. «Allora?» le chiese porgendole la mano. «Non ce li ho.» disse lei. «Che vuol dire non ce li hai? Avevamo un accordo.» «Lo so.» «Bene Delfi, potevi anche risparmiarti di venire... ora levati dalle palle che ho un appuntamento in clinica con la mia professoressa.» e la scansò malamente dall'ingresso. «No aspetta!» lo frenò, «Farò sesso con te.» disse secca. Lo sguardo di lui si illuminò di entusiasmo, mentre quello di lei si spense nella repulsione di sé stessa, di lui, ma soprattutto dell'atto di sé con lui. Quello senza perder tempo, vinto dall'eccitazione che quella semplice frase gli aveva scaturito, la strinse contro il muro e le si avvicinò col fiato sul collo. «Non ce l'hai una camera?» gli chiese. «Non c'è nessuno.» e si accostò alle sue labbra per baciarla. «Scordatelo. Niente baci.» Allora lui le sfilò la maglietta e lanciò un'occhiata al tatuaggio, come a voler controllare che fosse proprio dove lo ricordava. Le scagliò un ghigno acido in faccia ed iniziò a palparle il seno. Lei allungò una mano e premette il pulsante della luce, la spense. Se grazie all'oscurità non avesse visto quello che avrebbe fatto, avrebbe avuto l'infelice illusione che non stava realmente vendendosi e tutto sarebbe stato più facile. Lui le sollevò la gonna, le tirò giù gli slip e si calò pantaloni e biancheria. Poi si avvinghiò strusciandosi energico al suo corpo, mentre lei semplicemente piangeva. 68 Lasciò che lui la usasse come un mero oggetto di piacere, si sentì un animale, perché costretta ad abbassarsi a trattare con un animale e quelle viscide mani che la toccavano le provocavano un molesto senso di ribrezzo. Un'umiliazione profonda che le si arrampicò lungo la schiena e la trapassò da parte a parte all'altezza del cuore. E mentre rassegnata si abbandonava a quella violenza, fulminee valutazioni sul valore della sua dignità le folgoravano il cervello. L'aveva svenduta in cambio della sua libertà. E poi all'improvviso capì. Capì che quella altro non era che la punizione finalmente giunta a castigarla per il crimine che aveva commesso. Chiuse gli occhi, respirò e sopportò con più tolleranza quella tortura. IV.III «Aspetta!» urlò. Sembrava avesse qualcosa di veramente importante da dire. «Fermati!» Poteva ancora impedirlo, voleva interromperlo prima che fosse troppo tardi. «Ce li ho, Delfi ce li ho!» Correva affannato lungo il tratto che collegava il cancello del cortile alla porta d'ingresso sventolando in aria una busta gialla. Arrivò e la trovò ancora aperta. Tastò la parete a destra e a sinistra alla ricerca dell'interruttore e luce fece. Gli apparve di fronte l'amica. «Delfi non devi, ho i soldi, ho i mille euro!» disse ansimando. L'altra giaceva rannicchiata a terra con le spalle al muro e le lacrime agli occhi. Alcuni rumori attirarono la vista di Alessio verso la stanza adiacente. Vide Dario di schiena, vestito di soli jeans, che stappava una bottiglia di birra ghiacciata. «Sei arrivato tardi.» gli disse senza girarsi, «Però se ci tieni così tanto, li accetto lo stesso i soldi.» Poi si voltò, si indirizzò a loro e scavalcando con un passo lungo il corpo di Delfi, procedette accompagnando la frase con un'alzata di bottiglia ed una risatina infame, «Alla prossima.» e sparì in un'altra camera. 69 Alessio gli corse dietro e sbatté contro la porta che l'altro gli serrò in faccia. «Esci fuori bastardo!» gli strillò. Ma non udendo alcun riscontro alla sua provocazione, si volse all'amica e l'aiutò ad alzarsi. «Andiamo Delfi, andiamocene da qua.» «Sto bene... sto bene Ale, davvero.» Si sollevò stanca, distrutta interiormente ed insieme uscirono e scesero quei pochi gradini che separavano il vialetto dalla porta. «Mi dispiace Delfi, avrei dovuto impedirlo, ma non sono potuto arrivare prima.» disse il ragazzo. «Solo ora sono riuscito a rimediare tutti i soldi.» «No Ale, no.» si arrestò appena fuori al cancello e costrinse l'amico ad arrestarsi dopo di lei, «Anzi... grazie lo stesso.» disse e l'abbracciò. «Delfi sarò sempre dalla tua parte, ricordalo. So che non deve essere stato facile per te...» si staccò dalle sue braccia e le prese il viso fra le mani. «Se vuoi posso aspettarlo fuori e pestarlo... non sarò forte come lui e forse avrò la peggio, però posso assicurarti che anche lui non ne uscirà illeso.» L'altra accennò qualcosa che assomigliò appena ad un sorriso, «No, lascia stare.» e proseguirono lentamente verso la vespa. «Deve finire Ale, voglio solo che tutto finisca... però devo organizzarmi prima, devo... devo prima...» si interruppe e meditò, «devo risolvere alcune cose.» disse. Alessio la guardò mentre tormentata e riflessiva estraeva il casco dalla sella e lo legava al capo. «Dove... come hai fatto?» gli chiese guardando la busta gialla. «Ho venduto la vespa.» Delfi si meravigliò che fosse arrivato a tanto per aiutarla e si commosse. «Ecco perché ho fatto tardi, sono dovuto venire a piedi e ho fatto una corsa.» le sorrise. «Quando lo scopre mio padre mi ammazza.» Ma l'amica proprio non riusciva a ricambiare sorrisi. «Cazzo Ale.» disse e le porse le chiavi. «Tieni, prendi la mia.» «No, ma che dici! A te serve, è l'unico mezzo che hai... io ho altre due macchine a casa.» Delfi abbassò la testa e passò una mano sugli occhi bagnati. «Non dovevo permettere che ti toccasse Delfi, merda!» «No Ale, ho detto lascia perdere. Non mi ha forzato, potevo scegliere di costituirmi, invece ho scelto lui... l'ho voluto io.» 70 «Lo so.» disse lui «Ma non lo volevo io.» Si guardarono qualche secondo dritto negli occhi. Poi montarono in sella, Delfi girò la chiave e disse tra sé: «Era così che doveva andare.» IV.IV "Non deve per forza andare così." rifletteva "Devo escogitare qualcosa per collaborare con le indagini e riuscire a scovarla, non deve farla franca, non può." Fantasticò di mettere una taglia come nel vecchio West. Una ricompensa a chi le avrebbe portato il fianco della ragazza tatuata. Vedeva già i manifesti affissi su ogni palo del paese con l'immagine del tatuaggio stampata sopra. E dopo un'aspra ricerca, i cacciatori di taglie l'avrebbero scovata nella sua tana, avrebbero lottato per catturarla, l'avrebbero legata e l'avrebbero condotta al suo cospetto. Poi l'avrebbero spinta, "Ecco a te!" le avrebbero detto. "È tutta tua, ora fanne che vuoi!" Lei l'avrebbe guardata solo un istante negli occhi colpevoli e le avrebbe chiesto: "Perché?" Perché Adria necessitava di un volto a cui attribuire la colpa del dolore che portava dentro e di quello che provava ogni volta che posava il piede meccanico a terra, e più d'ogni altra cosa aveva bisogno di qualcuno che meritasse i suoi sfoghi d'ira. «Mamma!» Il bambino tirava la mano di Paola costringendola ad accelerare il passo, impaziente di arrivare dalla sua mamma. Si arrampicò sul letto e l'abbracciò. «Mamma, mamma,» disse eccitato «uno di otto anni m'ha detto, "quella menomata di tua madre!" ed io gli ho tirato un pugno in faccia!» Adria sorrise sconsolata e gli pose una mano sulla guancia. «Bravo.» disse «La prossima volta digli pure che tua madre è un robot perché presto avrà una gamba d'acciaio e diventerà più forte di tutti... un supereroe.» Controbatté così a quella notizia che il figlio riteneva fosse così importante da riferirla quanto prima e con tanta enfasi. 71 «Come Cyborg?» «Come Cyborg.» Lo sguardo del bambino si irradiò di meraviglia, sognò un po' ad occhi aperti ammirando la bella faccia della madre e poi ridestandosi nel mondo reale le chiese: «Mamma posso andare alla sala gioco ora?» «Sala gioco? Amore mio, ho un'idea dieci volte più bella!» Rivolgendosi all'amica chiese: «L'hai portato?» In tutta risposta Paola tirò fuori dalla borsa un costumino celeste per il bambino ed un altro per sé. «D'accordo, allora aspettiamo che il dottore ci venga a chiamare.» E mentre il bambino usciva a curiosare in corridoio, Paola volse la vista al davanzale e vi trovò la piantina di Delfi. Notò una sfortunata zanzara caduta vittima della pianta, intrappolata su quelle foglie pelose che tentava lentamente di divincolarsi, ma con scarsi risultati. «Ehi guarda, ne ha catturata una!» «Già,» disse Adria «chi l'avrebbe mai detto, funziona.» «Devi ammettere però che questo regalo mette i brividi... come chi te l'ha fatto.» «Paola non ricominciare.» «Che c'è? Dico solo che è bizzarra.» Adria si mise seduta ed agganciò la protesi senza dare adito alle parole dell'amica. Appoggiò il piede a terra e puntualmente si presentò quel dolore lancinante di cui voleva vendicarsi. Non serviva cercare di contrastarlo, di batterlo, quello era più forte, vinceva sempre, non le rimaneva altro da fare che patirlo. «Ho controllato su internet il significato del tuo sogno, lo fai ancora?» «Ultimamente meno di frequente.» «Bene, sognare serpenti significa che c'è un pericolo di cui non ti sei resa conto, una persona vicina che si comporta in modo poco onesto... "falsa ed ingannatrice", diceva.» «E chi sarebbe, tu? Al momento vicino non ho altri a parte il personale della clinica.» Paola rilevò una certa irritabilità nelle parole dell'amica ed onde evitare di finire come la volta precedente precisò: 72 «Ci sarebbe anche un altro significato. Rinascita, guarigione... il serpente è simbolo della medicina e della salute quindi magari è un buon segno.» «Ah, non so... forse lo sogno solo perché è il simbolo di chi m'ha ridotto così, è l'unica cosa che ricordo.» «Adria sei pronta?» chiese irrompendo il medico. «Si va a nuotare!» IV.V Le sembrava di affogare, scalpitava per riuscire a riemergere, ma finiva ancora più sotto e mentre annegava non c'era nessuno a tirarle un salvagente, a porgerle una mano. Eppure non solo in quella, ma in più occasioni Delfi aveva avuto bisogno d'aiuto, di qualcuno che le dicesse: "Non si fa! Così non va! Questo non è onesto, questa non è una bella cosa." Invece dovette sempre capirla da sola la differenza tra bene e male, giusto e sbagliato, e non sempre ci riusciva, quasi sempre a proprio discapito. Era andata avanti così, dacché ebbe ricordi aveva dovuto contare solo sulla propria capacità di discernimento e questa l'aveva portata a sentirsi sommersa di melma, sporca dentro. Forse una voce amica adulta saggia avrebbe potuto impedirle certe scelte ed indirizzarla altrove. Ma lei non aveva mai udito nessuna voce. Poi inaspettatamente la udì, una voce amica adulta saggia che la chiamava. Era Adria in piscina che, ancorata ad una barra metallica, si scalmanava nella speranza di essere udita. Delfi la individuò tra una ventina di teste vestite di cuffie colorate e le si avvicinò accovacciandosi al bordo. L'eco dei rumori dell'acqua, delle pompe di depurazione, delle voci dei terapisti e dei pazienti, risonava nell'ampio ambiente chiuso e vetrato. «Mi sono sgolata per chiamarti.» disse Adria «Come mai due giorni di assenza?» «Non stavo bene.» E mentre lo diceva, Adria si sorprese di constatare quanto fosse ancora evidente quel malessere, come se ce l'avesse timbrato in volto. 73 «L'infermiera m'ha detto che hai iniziato la terapia in acqua così sono venuta a salutarti.» «Non entri?» «Non... no, il fatto è che non ho il costume e poi non mi sento ancora molto bene.» Adria annuì mentre la osservava attentamente negli occhi. Vide qualcosa di strano, diverso. «Starò qua intorno, Cecilia mi ha già dato mille cose da mettere a posto.» «D'accordo, allora magari mi farai compagnia domani.» Delfi acconsentì e si alzò a fatica. Ed Adria ne ebbe la conferma mentre la guardava allontanarsi lentamente a capo chino. «Ehi Delfi!» la chiamò sperando che non fosse ormai troppo distante per poterla udire. La ragazza si girò. «Tutto a posto?» Delfi aggrottò il viso. Perché quella domanda? Cosa l'aveva tradita? Come se n'era accorta? Ma che importava cosa come e perché. "No, non è tutto a posto, qualche giorno fa un lurido bastardo ha abusato di me ed io l'ho lasciato fare altrimenti mi avrebbe fatta arrestare per averti quasi uccisa." Invece alzò le spalle e semplicemente rispose: «Sì.» Adria tornò ai suoi esercizi, ma la sua vista non poteva fare a meno di seguire la ragazza mentre faceva ordine tra il bordo e gli spalti, andando avanti e dietro a riporre pesi e braccioli, galleggianti e tavolette. Delfi eseguiva ogni manovra come un automa, distratta, senza badare troppo a quel che andava facendo. I pesi lì, le aste qua, i braccioli là sotto. Aveva finito. «No Delfi!» strillò Cecilia. «I braccioli vanno lassù! E leva quelle carrozzelle che non servono più.» "Le carrozzelle via, i braccioli lassù, ok." Tornò a raccogliere tutti i braccioli che aveva già stipato sotto lo spalto. Alcuni erano arrivati troppo in fondo. Si allungò in avanti e la maglietta si sfilò dai pantaloncini. 74 Ma non avrebbe mai potuto rendersene conto Delfi, poiché al momento la sua mente era occupata da faccende più gravi di una maglia sfilata fuori. Si arrampicò sui primi pioli in legno della spalliera ed aggrappandosi stretta con la mano destra usò la sinistra per raccattare i braccioli da terra, raddrizzarsi e lanciarli sulla pedana. I primi cinque, dieci, quanti maledetti braccioli lanciò su quella pedana. E quando furono finalmente quasi finiti, Delfi se ne avvide. La maglietta non era più incastrata nei pantaloni e ad ogni lancio era libera di svolazzare sempre più su. Si bloccò un attimo col braccio in alto e gettò un'occhiata al fianco, scoperto. «Cazzo!» esclamò. Nello stesso istante le parve di udire una voce, la stessa amica adulta saggia voce di mezz'ora prima che come allora la chiamava. Ne era sicura? Tra tutta quella confusione, in mezzo a tutto quel trambusto, ad una tale distanza non avrebbe potuto certo riconoscere nessuna voce. Eppure le sembrava proprio quella, lo stesso timbro, la stessa parola ripetuta più volte: «Delfi, Delfi!» Fu un batter di ciglia. Non si voltò a constatare se fosse solo una percezione uditiva o meno, saltò giù ed uscì di corsa dalla sala piscina mentre quella voce che credeva di sentire continuava a strillare il suo nome. «Adria, non riuscirà mai a sentirti!» disse il fisiatra «È troppo lontana... dai, torna ad allenarti.» Ma Adria pareva immobilizzata, come se avesse visto qualcosa che l'aveva lasciata di stucco, peggio, di cemento armato. Poi con dei movimenti scattanti e robotici spaccò quella colata che le era scivolata addosso e rapida si era rappresa. «Devo uscire!» disse al medico. E mentre si posizionava sulla carrozzella meccanica che l'avrebbe gradualmente ricondotta a riva, rimuginava su ciò che aveva appena creduto di vedere. Tra un esercizio e l'altro si era voltata e rivoltata preoccupata in cerca della sua giovane amica come per assicurarsi che stesse bene. 75 E la scorse agganciata alla spalliera a tirar braccioli verso l'alto. Durò un attimo, fu solo quell'ultimo lancio che la lasciò allibita, a chiedersi se le sue capacità visive la stessero ingannando. Le sembrava di aver intravisto il fianco sinistro di Delfi sporco di chissà cosa, come scarabocchiato. Ma forse era così ossessionata da tutta quella dannata storia che vedeva macchie di serpenti sui fianchi di tutte, persino di Delfi. Raccolse un po' d'acqua con le mani e si rinfrescò il viso. Già, non poteva essere riuscita a distinguere così nettamente una figura tanto piccola da una tale distanza, peraltro in un lasso così ristretto. Si sentì come se Paola le avesse passato la paranoia. E non avrebbe certo parlato con l'amica di questo suo piccolo dubbio perché quella l'avrebbe senz'altro trasformato in un affare di stato archiviandolo come il precedente caso Rocchina. La ragazza le aveva assicurato che il giorno seguente sarebbe entrata con lei in piscina, poteva pazientare ancora un po' e vederla finalmente in costume. IV.VI «Ti vedrà in costume.» «Mi sono sentita chiamare, era lei, lo so, non è stata una mia impressione, l'ha visto!» «Metti il costume intero.» «No Ale, non hai afferrato... cercherà un altro modo di scoprirlo finché non le mostro che il fianco è pulito.» Continuavano a tentare, provando tutte le combinazioni possibili, fondotinta, ombretto arancione, correttore chiaro, poi fondotinta, ancora correttore scuro, cipria. «Non dovrò entrare in acqua...» «Delfi.» disse Alessio mentre con una spennellata cercava di togliere colore al tatuaggio. «Valuta bene... ne vale la pena? Sì insomma, tutto questo affannarti e quello che hai già passato... forse saresti stata più tranquilla se avessi confessato già dall'inizio.» 76 Allora Delfi intese che semmai l'avessero smascherata allora, la buona reputazione che si era costruita agli occhi di Adria sarebbe svanita in un baleno. Si stupì di scoprire che si rammaricava più per la magra figura che avrebbe fatto con lei piuttosto che per la perdita della sua stessa libertà. «Credi che non ci abbia mai riflettuto? Credi che non abbia passato notti insonni a chiedermi cosa fosse meglio fare?» «Ascolta,» disse pacatamente l'amico ammirando il suo fianco liscio ed armonioso. «dovresti solo abituarti all'idea che glielo dirai, immagina la sua reazione ed accettala... Ok, non dico che devi dirglielo ora. Ragiona soltanto sulla possibilità di confessarglielo. Figurati solamente il modo ed il tempo in cui potresti dirglielo. Chiediti, e se accadesse? E se glielo dicessi?» Delfi se lo immaginò mentre istericamente picchiettava col pennello sulle linee morbide del tatuaggio. «Facile parlare quando non si rischia la galera o la morte, perché se lo sapesse ora, sul serio, mi ammazzerebbe. Preferisco confessarlo alla polizia, avrei meno paura che dirlo a lei.» Il tatuaggio era completamente ricoperto di trucco. Non restava che sfumarlo con le dita sulla pelle circostante per uniformare il colore. «No Ale, ho un altro piano in mente... Lascio la clinica, compio diciotto anni, vendo la casa, prendo mio padre e lascio il paese.» «Cosa?!» chiese Alessio sbigottito. «E la scuola?» «La finisco altrove.» «Ed io?» Delfi non riuscì a guardarlo. Mantenendo il capo basso e la vista sul fianco fissò il trucco con uno spray, mentre Alessio bloccato da quell'informazione inattesa cessò di dipingere alcuni finti nei necessari a rendere più reale il lembo di pelle. «Non posso stare nella sua stessa scuola e neanche continuare ad avere rapporti con lei, lo comprendi Ale?» «Ma desterai sospetti se scappi!» «Non scappo! Dirò che me ne vado per mio padre... In questo modo non mi scoprirà mai.» 77 Alessio aveva appena appreso che avrebbe perso la sua migliore amica, allora risentito e triste si levò dal suo fianco, «La verità viene sempre a galla Delfi.» le disse. «Intendi dirglielo tu? Altrimenti non verrà mai a saperlo visto che di certo non glielo dirò io!» «Ma non ti senti in colpa? Ti importa di quello che le hai fatto o t'importa solo che non lo scopra?» «Ma si può sapere che cazzo vuoi Ale? Ho sbagliato, non avrei mai dovuto avvicinarmi a lei, colpa tua che me l'hai consigliato!» Alessio deformò il viso in un'espressione di stupore e lei noncurante di averlo ferito continuò: «Credi che per me sarà facile ricominciare tutto in un'altra città? Purtroppo non ho scelta!» «Sì che ce l'hai!» raccolse bruscamente le sue cose, «Il trucco è riuscito perfettamente,» disse, «ti chiamo fra un'ora.» batté la porta ed uscì. Delfi si guardò mestamente allo specchio, la esse era scomparsa. Aveva scordato com'era avere un fianco nitido, erano anni ormai che non appariva a quel modo, pulita fuori. Perché Delfi si sentiva diversa da ciò che era quattro mesi prima. La sua vita ora era altro, il suo futuro era cambiato, lei ne avrebbe voluto fare grandi cose, ma quello aveva altri progetti e volò via in una folata, finì chissà dove, se ne andò. E come fosse niente, pure quello la lasciò. IV.VII Stava lì in quella gabbia d'oro. D'oro perché sapeva quanto fosse magnifico il mondo, ma a lei pareva una gabbia. Costretta, stretta in condizioni che non le piacevano e da cui non c'era uscita. Accerchiata da altri come lei che compivano, un piccolo passo alla volta, percorsi spossanti da un lato all'altro della piscina. Ma il mal comune non le dava gaudio, anzi, quel male che si era riversato su quei poveracci, molti dei quali avevano dovuto, probabilmente come lei, accettarlo senza tuttavia meritarlo, la rendeva solo furiosa. «Adria non ti distrarre! Torna tra noi!» 78 Si guardava attorno, la cercava senza trovarla. Sentiva quel sospetto impossessarsi di sé e divenire sempre più forte, difficile da contrastare, lo sentiva insinuarsi nella sua mente come un'ossessione. Sapeva che più ci rifletteva più finiva per convincersi che quello che aveva creduto di vedere era stato davvero un tatuaggio, il tatuaggio. «Adria andiamo, impegnati!» Ma in un angolo neanche tanto sperduto del suo cuore Adria sperava ardentemente si fosse trattato solo di un abbaglio, non riusciva ad ammettere a sé stessa di essersi sbagliata sul conto della ragazza, di aver fatto un così madornale errore. "Che scema, s'è fatta prendere per il culo da una diciottenne!" avrebbero detto di lei, "La cercava dappertutto e quella era lì, col fianco al suo fianco! Ah ah ah!" e giù a ridere come forsennati della tonta, grulla professoressa Adriana Tosca, la barzelletta del secolo. E dopo la rabbia, la delusione che avrebbe certamente provocato in lei quell'inganno da parte di una persona che ormai le era diventata cara. E mentre si violentava l'animo in cerca di risposte, alla fine le ottenne. La vide, vestita di un costume a due pezzi e short bianchi, parlare con Cecilia. Delfi non l'aveva ancora avvistata e la donna non volendo farsi individuare si immerse fino alla bocca confondendosi tra i suoi simili. La ragazza era lontana e voltata dal lato destro. Adria volle aspettare di vederle quello sinistro ed osservarlo bene, più da vicino. Poi Delfi finalmente si girò e... "Sì!" sussurrò contenta Adria stringendo il pugno sott'acqua. Nessuna macchia, nessun disegno, nessun tatuaggio, un fianco perfetto. Quella del giorno precedente era stata solo un'insensata visione. Sospirò, ora era ovvio. Nessuno avrebbe mai avuto l'ardire di osare tanto, avvicinarsi a tal punto alla propria vittima, o carnefice, da rischiare di venire smascherata da un momento all'altro, che mossa poco strategica sarebbe stata. Che stupida Adria ad aver pensato che a qualcuno sarebbe potuto venire in mente un'idiozia simile. Sì, che stupida ad aver pensato che un piano così subdolo avrebbe potuto attuarlo proprio la sua Delfi. E no, non si era sbagliata sul suo conto. 79 Tirò fuori il collo dall'acqua e la chiamò, voleva correre ad abbracciarla. La ragazza si voltò, la vide, le sorrise, con molta naturalezza alzò il braccio sinistro mettendo in bella mostra il fianco ed agitò la mano per salutarla. E quando ebbe finito di ascoltare le disposizioni di Cecilia, andò da lei. «Ciao Adria!» disse «Sarò da te non appena termino le faccende che mi ha assegnato Cecilia.» Adria la ascoltava, ma non la guardava parlare. Guardava più giù, un fianco assolutamente normale. Poi alzò gli occhi a lei e disse: «Ok!» Ed entrambe tornarono ai propri compiti sollevate e serene. IV.VIII Delfi varcò l'ampia entrata della sala piscina come se oltre al suo stesso carico stesse trasportando uno cento volte più pesante appoggiato sul suo stomaco. Avvampava dentro, tremava fuori, stava per giocarsi tutto. Repentinamente iniziò la ricerca della donna ispezionando con occhiate meticolose ogni centimetro della vasca e la trovò impegnata nei suoi esercizi, ma assorta in onerose congetture. Si levò la maglia, controllò che il trucco fosse ancora intatto e restò in short e costume. Poi rintracciò Cecilia sul lato opposto e mentre le andava in contro, con la coda dell'occhio individuò Adria che la cercava ansiosa dalla piscina. Si arrestò a parlare con Cecilia che cominciò ad elencarle i lavori da compiere. E si accorse che Adria l'aveva avvistata, la vide farsi piccola nella piscina e continuare a fissarla. Dopo tutto quel guardare, la ragazza ebbe la conferma che la donna il giorno precedente le aveva intravisto il tatuaggio. Chiuse gli occhi, sospirò e si volse col fianco incriminato alla vista di Adria. Attese col cuore in gola una sua reazione, ma non udì nulla. Si scervellò per comprendere a cosa fosse dovuto quel silenzio. Poi d'improvviso il suo nome urlato, le pareva, con gioia. Lo avvertì all'istante nonostante il frastuono della piscina, nonostante la distanza, perché aspettava quel richiamo, lo bramava con ansia. 80 Si girò e quando vide la donna sorriderle da lontano non ebbe più dubbi, sospirò e ricambiò il sorriso. Poi alzò il braccio sinistro apposta perché Adria vedesse il suo fianco smacchiato, e la salutò. Mentre le si accostava, pensava che se avesse superato quella ulteriore prova ravvicinata sarebbe riuscita per sempre a scamparla. Le spiegò che l'avrebbe raggiunta non appena avesse ultimato le sue mansioni e poi osservò lo sguardo di lei fisso sul suo fianco. Forse parte del trucco era colato via. Delfi ci orientò fugacemente la vista e riscontrò ogni cosa al giusto posto. Forse la donna si era accorta che era stato solo ricoperto di trucco. E proprio quando Delfi stava iniziando a sudare, proprio allora il viso sollevato e sereno di Adria rispose: «Ok!» Con lo stesso umore Delfi tornò ai suoi doveri di volontariato con un'attenzione ossessiva a non urtare col fianco oggetti o persone. Intanto l'orario prestabilito era passato già da un quarto d'ora, l'attesa era estenuante e a Delfi venne il sospetto che l'amico offeso avesse dimenticato di proposito quale fosse il suo incarico. Un nervosismo visibile si stava impossessando di lei, ebbe timore che avrebbe finito le sue funzioni prima di ricevere quella chiamata e che quindi si sarebbe vista costretta a raggiungere Adria in piscina. Cominciò ad eseguire i suoi compiti a rallentatore. Tirò fuori il cellulare, ancora nessuna chiamata. "Ahaa... andiamo Ale, spicciati!" Per quanto avesse potuto rallentare, le sue attività erano ormai terminate. Considerò l'idea di fingere di ricevere una chiamata. «Delfi vieni?» le strillò Adria. La ragazza macchinò prontamente una scusa da inventare. «Sì, solo un attimo... devo-» Lo squillo. Delfi sospirò, cacciò il cellulare accertandosi che Adria vedesse quella manovra e rispose. «Delfi devi venire immediatamente.» «Che succede?» «Devi tornare subito a casa!» «Cosa? Perché?» 81 Ma l'altro chiuse la chiamata. No, non era il suo amico, non rientrava nell'accordo. «Che è successo?» chiese Adria preoccupata. Delfi ristette un istante, non lo sapeva. Ma di una cosa era sicura, del terrore nella voce del ragazzo, quella voce terrificata che non era certo parte della recita. Seppur con altri mezzi il fine fu raggiunto. «Devo... devo andare Adria, scusami.» IV.IX «Sì, va' pure, non preoccuparti.» gli disse «Da ora me ne occupo io.» Congedò l'assistente del padre e restò sola in quella camera divenuta mortuaria a vegliare accanto al corpo del vecchio, mentre paramedici, carabinieri, assistenti sociali, vicini e curiosi affollavano la casa generando un frenetico stato di confusione. Le dissero che non erano riusciti ad impedirlo. Poi le dissero che aveva ingerito sostanze e farmaci di ogni tipo. Le dissero anche che avevano tentato l'impossibile per riuscire a rianimarlo. Infine le dissero che aveva lasciato un biglietto per lei. La ragazza lo teneva stretto nella sua mano sudata, avrebbe aspettato che dai suoi occhi avesse smesso di piovere, che le sue lacrime le avessero permesso di leggerlo, magari fra un giorno, un mese, un anno o chissà, forse mai più. L'avrebbe conservato per sempre così, spiegazzato e sudicio, l'avrebbe messo nel portafogli ed ogni volta che per caso ci avrebbe posato un'occhiata sopra, le avrebbe immaginate lei quelle che avrebbero dovuto essere le ultime parole del padre: "Perdonami piccola mia. Ora che sei abbastanza grande da farcela da sola io devo andare, questa vita non fa per me ed io sento di non far parte di questo posto. So che ce la farai, sei forte. E sii felice per me come finalmente lo sono io perché sono dove ho sempre voluto, nel mio paradiso accanto a tua madre. Ora, solo ora sono nel posto giusto. E da qui ti proteggeremo, veglieremo su di te e ti procureremo solo il meglio, quello che purtroppo non sono stato in grado di assicurarti finora. Ti amo, papà." 82 Se proprio avesse dovuto scriverle un biglietto d'addio, così avrebbe dovuto essere e per timore che la sua immaginazione cozzasse con la realtà continuava a tenerlo chiuso passandolo di mano in mano, lacrimandoci sopra. In mezzo a tutto quel baccano osservava suo padre coricato esanime e freddo sul letto nuziale ed immaginava che quelle parole gli sarebbero uscite dalle labbra cianotiche da un momento all'altro. Anche allora, quando tutto era ormai finito, nel peggiore dei modi, anche allora Delfi continuava a sperare che almeno, in tutta quella insensatezza di eventi, in quel clima surreale, il vecchio alla fine l'avrebbe stupita con un comportamento sensato, un ultimo atto degno di tutto il sentimento che si addice ad un padre e le avrebbe mostrato quella ragionevolezza per la quale lei non aveva mai smesso di sperare. «Io lo so che tu capivi tutto papà, l'ho sempre saputo.» gli disse con le lacrime che le inondavano le guance buttandosi disperata sul suo petto ormai piatto e desiderò rimanere in quella posa anche quando il corpo dell'uomo avrebbe assunto un odore nauseabondo ed avrebbe iniziato a putrefarsi. «Delfi.» Non le importava che qualcuno la chiamasse, non le importava più nulla. L'amico le si avvicinò e con una dolcezza immensa le pose una mano sul braccio volgendola a sé. Senza aggiungere parole banali ed inutili l'abbracciò in un lungo momento sconfinato, mentre Delfi continuava a bagnargli la spalla di lacrime. Poi la accompagnò in salotto dagli assistenti sociali, rimasti per aiutarla ad organizzare la più umile tra le funzioni funebri e per tenerle compagnia durante la notte. E quando fu tutto predisposto, Delfi andò a ripararsi nella doccia, aprì il rubinetto e fuse le lacrime con le gocce che le cascavano sul volto e sul resto del corpo. Pian piano il getto fece colare dal fianco il trucco che quella mattina aveva così minuziosamente creato. Si accasciò nella vasca mentre l'acqua andava colorandosi di marrone e si ritrovò sola, sola davvero, sola al mondo. 83 Ma nonostante tutta quella solitudine, il giorno appresso un andirivieni di gente dai visi sconosciuti o dimenticati invasero casa sua, abbracciandola, stringendo le sue mani come se l'avessero frequentata da sempre, aiutata negli innumerevoli momenti difficili e come se le stessero promettendo aiuto per quelli futuri. "Chi cazzo siete?" le veniva da urlare. "Andatevene subito!" Invece andava baciando i volti di tutti quelli che si presentavano alla sua porta e si presentarono proprio tutti, anche Adria. Arrivò dopo il funerale, quando pochi reduci erano tornati con Delfi a casa, arrivò zoppicando accompagnata da Paola e temporaneamente l'attenzione di tutti si spostò su di lei. La donna attraversò lentamente la stanza e le si posizionò di fronte. Delfi non la guardò neppure. Allora Adria appoggiò una stampella al muro ed allungò il braccio alla ragazza. E lei sentì come se le braccia della donna fossero le uniche al momento a poterle dare il conforto che cercava, come se quelle braccia l'attirassero con una forza magnetica incontrastabile. Accettò l'abbraccio, si lasciò stringere e la strinse a sé con affetto. E quello fu il secondo sincero abbraccio che ricevette e poi nessun altro. Adria sedette su una delle poche sedie sparse a caso per la camera ed attese con pazienza che la casa si sfollasse, che la ragazza rimanesse sola con gli assistenti sociali. «Lei è?» chiese una delle due assistenti avvicinandosi ad Adria. «Sono la professoressa Tosca.» «Oh, Delfi è una sua alunna?» «No, no. L'ho conosciuta in clinica.» «In clinica?» «Sì, al centro riabilitativo.» disse Adria indicando la protesi. Ma l'altra fece cenno di non intendere. «È la volontaria che si occupa di me.» spiegò. «Ah... volontariato. Non ne sapevamo niente.» «Deve riferirvi tutto?» «No, no. È solo che... e da quanto fa volontariato?» «Con me sta da circa due mesi e mezzo.» 84 Delfi interruppe col suo ingresso quella conversazione e con l'altra assistente si unì a loro sul divano. «Delfi,» cominciò una «ti seguo ormai da cinque anni, ci tengo a te, tengo al tuo futuro. Anche se fra meno di un mese compirai diciotto anni e sarai libera di prendere le decisioni che più ti aggradano, voglio darti dei consigli.» Delfi manteneva lo sguardo basso, non aveva mai osservato così intensamente le venature del tavolino del suo salotto. «Non perderti Delfi, non ora. Sarebbe uno spreco per tutto quello che sei riuscita a conquistare finora. La professoressa mi ha detto che fai anche volontariato...» Delfi trascinò a stento la vista ad Adria. «Ad ogni modo,» continuò quella «dopo il liceo potrai iscriverti all'università grazie alle borse di studio e condurre una vita normale...» «Volete sapere perché faccio davvero volontariato?» sbottò la ragazza. Le donne si osservarono perplesse. Delfi ristette. Portò una mano agli occhi, ci ripensò e riprese: «Ve lo dico io che farò del mio futuro... se voglio continuare ad avercelo.» disse quasi bisbigliando. E poi con tono fermo dichiarò: «Vendo casa e mi trasferisco in un'altra città.» «Delfi che dici?» Delfi portò la testa tra le mani esausta e sentì di dover giustificare la sua decisione a quelle donne che avevano pieno diritto di ricevere una spiegazione che paresse logica. «Qui non riuscirei a stare.» disse «Ci sono troppi ricordi.» «Vieni da me.» propose improvvisamente Adria. «Tra due settimane inizia la scuola, io finisco la terapia e torno a casa. Ho una camera vuota e siamo solo io ed Elio. Inoltre mi conosci intimamente, hai imparato più cose tu su di me che chiunque altro.» La ragazza colta impreparata da quelle parole cercò in quel traffico di concetti che le ingorgavano la mente di declinare l'invito con una scusa che non apparisse soltanto una scusa. Intanto tentava di trovare la soluzione nelle occhiate di approvazione delle assistenti sociali, a cui non sembrò poi così irrazionale la proposta della donna. 85 «Potreste andarvene per favore, ho bisogno di stare sola per schiarirmi le idee.» disse infine risolvendo a fatica il groviglio nel suo cervello attraverso una frase più o meno sensata. «Delfi non sarebbe opportuno che restassi sola, non stanotte.» «Oh no, non sarò sola. Fra poco arriva il mio amico.» e poi non riuscendo a sostenere lo sguardo della donna guardò dritta dinanzi a sé e disse: «Adria grazie, ma non posso accettare.» Le donne se ne andarono lasciandola sola e lei si guardò attorno e tutt'intorno rumoreggiava silenzio, un silenzio pesante, pieno del vuoto che aveva lasciato il vecchio, come quello che lei aveva dentro. Se solo avesse saputo spezzarlo, invece era di ferro ed il suo peso lo sentiva addosso e la schiacciava ed a volte, ma solo a volte non le permetteva di respirare. E restava sotto, schiacciata, senza fiato, dove non c'era nessuno che l'aiutava a risorgere. Ma non le importava, l'aveva sempre fatto da sola. Oppure stavolta non valeva la pena risorgere, sarebbe rimasta lì sotto per scoprire magari che avrebbe saputo adattarsi anche al fondo, al buio, alla solitudine e per poi scoprire che le piaceva, che senza fiato, senza respirare si sta meglio perché non entrano smog e gas nocivi ed allora il buco nell'ozono non sarebbe stato neanche più un suo problema, ed anche la politica, la guerra, la fame o la morte, lei era schiacciata lì, dove non arrivava niente. 86 CAPITOLO V V.I Attraversava il lungo corridoio, lo stesso che aveva percorso per più di due mesi, ma con uno stato d'animo diverso, con la consapevolezza che quella sarebbe stata l'ultima volta. Arrivò sull'uscio ed in mente contò "uno, due, tre". Poi cercò di valicarlo, ma non ci riuscì. Allora contò più veloce, "unduetrè" e come lei varcò quella soglia, un senso di nostalgia varcò il suo animo. Le sarebbe mancato, le sarebbe mancata. Ed ancora, i loro occhi s'incrociarono come altre volte prima di quella e come la prima volta, quattro mesi addietro. «Ehi Delfi, ciao.» La ragazza ricambiò il saluto e poi restò muta. Aveva preparato un discorso, l'aveva scritto bene in mente, ma in quel momento le pareva che una fitta nebbia fosse scesa ad offuscare quelle parole impedendole di leggerle. Allora cercò di controllare le sue emozioni, cercò di apparire serena, normale per quanto normale potesse essere tutta quella circostanza, ma sentiva di sprigionare un'impressione alquanto distorta rispetto a quella che avrebbe voluto emanare. «Come stai?» chiese la donna colpita da quell'impressione. «Insomma.» rispose e respinse una lacrima indietro nel dotto. «Vieni, siediti.» disse facendole posto sul letto. E mentre la ragazza si sedeva accanto, lei continuò: «Pensavo non saresti più venuta.» «Infatti.» replicò Delfi. «Non tornerò più in clinica, ho smesso col volontariato. Sono venuta per dirti questo e... tra dieci giorni inizia la scuola e tu finisci la riabilitazione quindi volevo... volevo solo salutarti.» «Allora ci vediamo a scuola, no? Non è mica un addio.» Delfi sospirò. «Non lo so.» disse. «Delfi.» Adria prese fiato come se stesse per enunciare la sentenza più solenne che avesse mai formulato. «So che non sono nessuno per dirti quello che devi o non devi fare... però se posso darti la mia opinione, le tue assistenti hanno ragione. Finisci il liceo qui e poi fa' che vuoi.» 87 Non esattamente, lei era la sola che avrebbe mai potuto dirle cosa fare e a Delfi parve di udirla allora per la prima volta la voce adulta e saggia a cui tanto aveva ambito nel corso della sua vita, che la indirizzava sul corretto da farsi impedendole scelte errate. Peccato però che proprio quello, il consiglio più utile che avesse mai ricevuto, peccato fosse così irrealizzabile. «Sai che potrai contare sempre sul mio aiuto, devo ripagarti di tutto il bene che hai fatto per me in questi mesi, devo ricambiarti il favore.» disse. A quelle parole Delfi reagì piangendo. «Ehi ehi!» Adria la tirò a sé e l'abbracciò. «L'invito a casa mia è sempre valido.» le sussurrò in un orecchio. Aveva creduto di essere andata lì per dirle addio, ma mentre era fra le sue braccia comprese che si era recata da lei perché la riteneva l'unica in grado di poterla consolare, di riuscire a farla star meglio. Perché Delfi aveva bisogno di lei. Ed a furia di costringersi a fingere che quello tra lei e la donna fosse un rapporto idilliaco, finì col convincersi che fosse proprio così, quasi d'affetto, e con lo stivare nell'oblio della memoria il reale vincolo relazionale. E sognò di abbracciare una donna che non le doveva perdono. Eccola lì, Adria che le tirava il salvagente, un appiglio di sostegno mentre lei tentava di risalire. E Delfi necessitava di un appiglio perché l'ennesimo finto fondo dove piombò tempo fa si era aperto di nuovo. Peccato però quello non fosse l'appiglio giusto. Allora tese le braccia in su, lo sfiorò, si illuse per pochi secondi e poi lo rilasciò. E continuò a cadere. Ma stavolta nessun altro finto fondo ad attenderla più giù. Stavolta non atterrava, stavolta restava sospesa in un precipizio infinito. E dopo una vita di cadute libere, dopo tutto quel tempo in picchiata a Delfi sembrò quasi di riuscire a destreggiarsi in aria, di aver imparato a volteggiare, di sapersi librare. Si sentì ancora una volta diversa, addirittura superiore. Possedeva un'abilità che gli altri non avevano, volava. «Siamo amiche ormai, vero?» chiese la donna. 88 V.II «Certo che lo siamo.» «Allora perché vuoi andartene? I miei mi hanno dato il permesso di dormire da te, andrà tutto bene Delfi, vedrai!» «Bene come è andato finora?» Alessio non rispose. Osservò l'afflizione dell'amica e non riuscì a trovare una replica appropriata. Forse perché in fondo sapeva che aveva ragione, ma egoisticamente sperava che scegliesse di restare. Delfi fissava un punto non definito fuori dalla finestra, senza guardare veramente che là fuori la vita procedeva come di consueto. Il sole era sorto, splendeva alto in un cielo senza macchie ed il mondo aveva già scordato ciò che era capitato a lei, semmai ne avesse avuto alcun riguardo. E quello che sembrava essere solamente un giorno qualunque seguitava imperterrito sotto la sua vista. «Manca una settimana all'inizio della scuola e non hai nemmeno considerato di mettere un annuncio per vendere casa... come pensi di riuscire a fare tutto?» Delfi si voltò. Ah, quanto avrebbe voluto restare col suo amico. E con l'altra. Ma no, non si trovava di fronte ad un bivio, non c'era nulla da scegliere, doveva andarsene, basta. «Ti chiedo solo di ragionarci meglio.» buttò un'occhiata all'orologio del cellulare, «Devo andare.» disse ed uscì. Delfi osservò la parete nuda dove suo padre immaginava scritte fantasiose e pensò che quel vecchio pazzo sarebbe mancato a lei, non di certo ai suoi vicini o agli assistenti sociali, neppure al suo medico. A lei solo e alla poltrona che occupava, al televisore che fissava, all'aria che respirava. Allora tirò fuori dalla tasca il suo biglietto e proprio mentre stava per decidere di leggerlo, il suono del campanello la dissuase da quell'azione. Aprì la porta con la mente ancora altrove credendo che Alessio avesse scordato qualcosa. «Ciao.» Delfi restò sbigottita, un sentimento di profonda paura si scontrò con uno di puro piacere. 89 Non si aspettava di vederla ancora, ancora a casa sua, quel legame che lei stava cercando di recidere non pareva volersi spezzare. «Ehi Adria, ciao.» disse e dopo un'intensa pausa la invitò ad entrare. «Mi ha accompagnato Paola, sai, in questi ultimi giorni mi lasciano più libera di andare dove voglio.» disse mentre si accomodava sul divano. «Vuoi qualcosa? Caffè, tè, succo?» «Succo, grazie.» La ragazza si diresse verso la cucina. «Pesca, arancia o pera?» chiese ad alta voce. «Arancia.» sentì rispondere. Aprì il frigo, prese il succo, poi il bicchiere, i biscotti. Poi prese fiato, lontana dalla vista di Adria, e col fiato sperò che le entrasse dentro anche la forza di controbattere per l'ennesima volta a qualcuno che la esortava a rimanere. Non aveva affatto voglia di declinare le proposte appetibili della donna e di soffrire nel declinarle. Tornò in salotto e posò il vassoio sul tavolino. «Paola ha detto che torna a prendermi tra mezz'ora. È difficile stare alle dipendenze di qualcuno.» Le sorrise. La ragazza si sedette e la guardò. E l'altra guardò lei. «Delfi, hai deciso?» le chiese. «No, in realtà. Non avevo niente da decidere. Sono costretta ad andarmene.» «Costretta? E perché?» "Per te." disse senza voce. E fu dura privare quella riflessione di tono. E se non fosse rimasta solo una riflessione? Se gliel'avesse spiattellato allora infischiandosene delle conseguenze, fredda e diretta, sbalordendo la donna e soprattutto sé stessa e senza aver pianificato nulla, gliel'avesse sparato in faccia così inaspettatamente? Avrebbe potuto essere quello il momento della confessione scaturita dalla disperazione, doveva solo esordire. Allora semplicemente così parlò: «Che pensi del perdono?» «Come?» «Sai, mio padre...» le vennero gli occhi lucidi. «Fossi in me lo perdoneresti per quello che mi ha fatto?» 90 «Delfi, io...» «Mi ha lasciata sola.» «Non sei sola, ci sono io... e quel tuo amico.» «Lo perdoneresti?» ripeté animatamente. Adria sospirò. «Perdonare è amare, se gli vuoi veramente bene...» esitò, la osservò piangere per pochi secondi, «se gli vuoi bene l'hai già perdonato.» concluse. «E che mi dici di quella che t'ha investito?» «Che vuoi dire?» «Tu la perdonerai mai?» Adria titubò stupita, mai si sarebbe aspettata di dover rispondere a quella domanda, «Bhè, ecco...» si soffermò a pensare. «Di una cosa sono certa, io non le vorrò mai bene, come potrei, mi ha quasi uccisa... perciò no, non riuscirò mai a perdonarla.» Delfi si ammutolì. Avrebbe voluto allora dichiarare sconfitta, arrendersi e mandare tutto all'inferno, sé per prima. «Non lo vedrò mai più, neanche dopo morta perché io andrò all'inferno.» «Cosa?» «L'hai detto tu.» «Ma che dici Delfi?» Si agitò, passò una mano tra i capelli respirando pesantemente e si lanciò contro lo schienale. «Non voglio perderti.» le disse flebilmente. «Allora non andartene, resta.» replicò d'impulso la donna. «E non voglio che mi odii.» «Dovrei odiarti perché te ne vai? Delfi,» disse con pazienza. «certo che no.» «Oh sì invece, lo farai però ancora non lo sai.» Adria mosse il capo confusa ed accigliò la fronte in un'espressione di incomprensione. Delfi portò le mani alle tempie come a voler impedire all'immagine della reazione della donna alla sua rivelazione di entrarci, ma fallì. Quella era ormai già dentro, sistemata comodamente nel suo cervello, là dove Delfi ora era rimasta bloccata. Bloccata con quella visione prese a sudare. 91 Adria davvero non riusciva a cogliere il senso di quella nevrosi improvvisa e preoccupata le chiese: «Che ti prende?» Ma lei continuando a riprodursi in mente la sua imminente reazione, non riuscì a dirglielo. E doveva apparire parecchio strana ai suoi occhi. «Tu mi vuoi bene?» le chiese. La donna restò un istante perplessa. Scrutò quell'inquietudine e quelle frasi farneticanti. Avrebbe potuto collegare quella domanda al discorso precedente, ma lungi dalla propria immaginazione la realtà. Infine pensò che in quel contesto delicato ed incerto la ragazza forse aveva solo bisogno di un punto di riferimento stabile. Stette per rispondere affermando quando la suoneria del suo cellulare deviò il corso del destino. Lo estrasse dalla borsetta che aveva legata ai fianchi e lesse il nome della chiamata. Delfi approfittò di quel momento di disattenzione per rinsanire, spalancò gli occhi, cacciò fuori un lungo sospiro e si levò di scatto dal divano. «Pronto.» "Che cazzo sto facendo?" si chiese camminando febbrile per la stanza. «Sì, mi dica.» Aveva davvero creduto di poter concludere tutto come in una bella favola a lieto fine, con la confessione, il pentimento, il perdono. Che razza di idiota Delfi, davvero non aveva imparato nulla da quella sequela di disgrazie che le erano successe, davvero non aveva capito che niente va mai come sperato. «Ora?» Ponderò celermente i pro e i contro e si convinse di dover rinunciare alla confessione per il proprio bene e quello di lei. Non aveva detto nulla di compromettente, poteva ancora salvarsi e giustificare il suo comportamento anomalo con una crisi d'ansia dovuta a tutto ciò che le stava accadendo. «Bhè, ora non saprei... un attimo e le faccio sapere.» La donna mise il palmo sul microfono del telefonino e si rivolse a Delfi: «Puoi accompagnarmi in vespa in caserma? Dicono che è urgente.» 92 V.III «Hanno trovato il colpevole?» «Non lo so, non mi hanno accennato niente.» «Arrivo il prima possibile.» «Ok, ti aspetto qui.» Adria attaccò. Si diresse meccanicamente a Delfi e le disse: «Paola arriverà a breve. Delfi grazie del passaggio, se vuoi ora puoi andare.» «Posso anche restare, a casa non ho altro di meglio da fare.» Delfi voleva, doveva, almeno, scoprire il motivo di quella chiamata urgente. E poi magari chissà, farla finita una volta per tutte con quella sfiancante farsa. La donna distrattamente le fece cenno di consenso e poi agilmente placcò un poliziotto di passaggio: «Scusi, scusi... quanto devo ancora attendere? Mi hanno detto che era urgente.» «Signora la chiameranno a momenti.» rispose quello con distacco. Allora Adria si affacciò alla vetrata di un ufficio, spiò alla ricerca di qualche volto noto, poi passò all'ufficio appresso e così finché non trovò più uffici da perlustrare. Intanto Delfi la guardava muoversi convulsa da stanza a stanza ed una sensazione indefinita si insinuava nel suo animo. Un misto di emozioni altalenanti e negative le elettrizzavano corpo e mente a tal punto che i suoi respiri parevano una serie di scosse ravvicinate e repentine. Come avrebbe potuto ancora guardarla se l'avessero identificata? Forse sarebbe stato meglio se si fosse costituita spontaneamente. "Ok stop, fermi tutti!" avrebbe gridato. "Non affaccendatevi oltre. Sono io quella che cercate!" O forse no. Si lasciò trascinare dagli eventi non sapendo se questi l'avrebbero in fine condotta alla deriva. «Prego signora Tosca, si accomodi.» Si sentì vociare da un ufficio in fondo. Adria rispose all'appello voltandosi e, mostrando a tutti che non aveva mai dimenticato come si corre, anche con una gamba finta, anche da storpia, volò veloce verso l'ufficio. Poi frenò. «Andiamo.» disse girandosi a Delfi che era rimasta impalata di fronte a quell'invito. 93 Al richiamo della donna, la ragazza si scrollò di dosso parte dell'angoscia, intraprese una camminata spedita mantenendosi alle sue spalle ed una dopo l'altra entrarono in ufficio. «Salve signora Tosca... e?» «Oh, lei è una mia amica ed assistente, Delfina Moggi.» spiegò Adria. L'ufficiale la analizzò accuratamente in viso e tacque alcuni secondi. «Accomodatevi.» disse infine. Seppur per motivi differenti ed opposti, mentre si sedevano entrambe vacillarono. «Quello che sto per dirle signora Tosca, è... è da mesi che aspetto questo momento e sicuramente lei lo ha agognato più di me.» «Avete scovato il colpevole?» L'uomo si rialzò dalla sedia sulla quale si era appena piazzato ed accennò un timido sì con la testa. Adria si illuminò di stupore, si voltò verso Delfi e le sorrise con entusiasmo. Vide la ragazza fissare dritto davanti a sé, ma non la osservò davvero. Se l'avesse guardata con un minimo d'interesse, avrebbe notato una piccola goccia di paura colarle giù dalla tempia. «Siamo giunti ad una svolta, un colpo di fortuna lo chiamerei.» Rapita da quella notizia sibillina, Adria si ridispose incredula ad ascoltare le successive parole esplicative dell'ufficiale. «Un negoziante è tornato in città dopo cinque mesi all'estero. All'epoca ci mettemmo in contatto coi suoi familiari che ci dissero che aveva chiuso bottega, ed era partito. Possiede una di quelle attività commerciali che compra oro...» Adria non riusciva ancora a scorgere il punto risolutivo. «Il negozio è nei pressi dell'incrocio di via Roma. Ora... è venuto fuori che aveva lasciato accesa la telecamera di sorveglianza che ha continuato a registrare per qualche giorno finché lo spazio su memoria non si è esaurito. E tra questi vi è la notte dell'incidente.» Il cuore della donna esplose di eccitazione, le spedì in viso un colorito rossiccio, batteva pulsazioni raddoppiate come se si fosse impossessato 94 anche di quelle del cuore di Delfi che dunque, senza più battiti, si arrestò privando il suo viso del colorito naturale, rendendolo pallido e smorto. «Dopo aver saputo dell'incidente, il commerciante ha rilevato il video di quella notte e ce l'ha consegnato.» «Salve.» disse ansimante Paola irrompendo nell'ufficio senza aver avuto alcuna premura di bussare. «Che mi sono persa?» «Lei è?» chiese l'uomo come importunato. «Paola Gervasi, piacere.» e gli porse la destra. «È una mia collega, la mia migliore amica.» disse Adria quasi a scusarsi. E mentre ripetevano concisamente a Paola l'avvicendarsi delle novità e quella le ascoltava smaniosa, Delfi si alzò istintivamente e valutò di sfruttare quell'opportunità per volatilizzarsi dalla stanza. «Vi mostro la registrazione... però solo se è pronta, signora Tosca. Potrebbe essere un po' forte per lei.» «Scherza? Come ha detto, bramo da mesi questo momento.» L'ufficiale ruotò lo schermo del computer verso le donne e premette invio. La riproduzione video si susseguì come in un vecchio film degli anni trenta, muta e senza colori. Delfi la osservava imbambolata con la mano abbarbicata alla maniglia della porta come fosse in procinto di evadere, ma la voglia di rispolverare il reale andamento dei fatti, che nel suo cervello risultava appannato e caotico, batteva quella di dileguarsi. La ripresa della strada desolata durò alcuni secondi, poi all'improvviso si animò di un'auto che sfrecciava ad alta velocità verso l'incrocio seguita diversi metri più dietro da un ragazzo moro, di corsa, con occhiali neri e tondi, che ad un tratto si bloccò con le mani nei capelli ad osservare lo schianto contro l'altra auto. Adria sussultò come se stesse riprovando la sofferenza di allora, una fitta atroce dovuta ad una bomba esplosa proprio sulla sua gamba sinistra. Colta alla sprovvista, benché fosse stata avvisata, levò lo sguardo da quelle immagini crude e dure. La realtà non coincideva con i ricordi di Delfi. A lei era parso molto più che un istante quello intercorso prima dello scontro. 95 E rivedere quelle immagini le produsse un effetto devastante, come se stesse di nuovo lì, a riviverlo da una prospettiva diversa, dall'alto, dal punto di vista di dio. Quasi come se la criminale responsabile dell'incidente fosse la ragazza dentro l'auto, non lei. Intanto il video seguitò silenzioso per altri secondi, Adria riportò lo sguardo pieno di pianto al monitor proprio quando la figura facilmente distinguibile del ragazzo riprese a correre verso l'auto, aprì la portiera, sbatacchiò ed agitò il corpo dell'altra nell'auto. «La sta chiamando, non c'è modo di recuperare l'audio?» chiese Paola. «Purtroppo no.» Delfi si strappò finalmente dalla maniglia e crollò sulla sedia accanto rassegnata ormai a subire qualsiasi reazione, punizione o condanna fosse scaturita. La sequenza procedette col ragazzo che aiutava la ragazza ad uscire dall'auto, ma la telecamera riprendeva la scena dal retro. Filmò la schiena della colpevole che si accasciò a terra a gattoni e poi, resasi conto della tragedia appena causata, si diresse solerte verso l'altra auto e si fiondò dentro. L'amico la distoglieva tirandola a sé dai jeans, poi la lasciò, le strillò qualcosa e scappò via. Allora anche l'altra uscì ed iniziò a correre, quando lo scoppio dell'auto rubata la frenò, si girò ancora per qualche secondo verso la donna e poi indifferente riprese la via di fuga. Il video sarebbe proseguito con l'arrivo dei soccorsi e della polizia, ma l'uomo considerando lo shock che aveva procurato ad Adria lo interruppe. «Tutto ok?» le chiese. Adria non riuscì a rispondere. «Si faccia coraggio, siamo vicini all'archiviazione del suo caso.» poi si riposizionò lo schermo di fronte, manovrò il mouse su e giù e lo rigirò a loro, «Ecco il fermo immagine del ragazzo con gli occhiali.» disse. Delfi si voltò ed il profilo ben definito di Alessio le saltò alla faccia. Ricordò che Adria non aveva avuto occasione di incontrarlo neppure al funerale. Però immediatamente sentì dire: «Io... io lo riconosco, io lo conosco, so chi è!» disse concitata Paola. «Non dimentico mai un volto!» si rivolse ad Adria e le assicurò: 96 «Lo conosco! Dobbiamo chiamare la scuola e farci dare l'elenco degli alunni di prima A. Feci supplenza a Febbraio.» «La segreteria sarà aperta, manca meno di una settimana all'inizio...» L'ufficiale senza indugiare oltre alzò la cornetta ed ordinò la chiamata. «Delfi,» disse Adria «tu lo conosci?» La ragazza si destò di scatto da quel torpore catatonico in cui era sprofondata, tenendosi stretta alla sedia si sporse in avanti e strabuzzò gli occhi atterriti come a voler osservare meglio la foto. «No.» disse soffrendo. «Io... io...» Paola portò la mano alla bocca come se si fosse appena accorta di qualcosa di sconcertante. «Io l'ho visto! Sì, l'ho visto Adria, era al parco quel giorno, io ero con Elio e lui... loro due erano insieme, era con lei! Quella stronza aveva capito chi ero e si era girata di spalle per non farsi riconoscere, cazzo! Ce l'avevo a pochi metri di distanza, dannazione!» Delfi aspettava che riuscisse a collegare ed infine a comprendere che anche allora si trovava a pochi metri da lei. A lei che sapeva, le pareva logica ed intuitiva la soluzione e si sorprendeva del tempo che invece impiegava Paola per ricomporre la verità con quei cocci frammentari che andava man mano a recuperare nella memoria. Ma per la donna il nesso non era poi così lampante. «Se solo avessi saputo, avrei potuto, quel giorno avrei...» Il rumore del fax che riceveva l'elenco interruppe la frase di Paola. Le donne e l'uomo si catapultarono a leggerne i nomi. «Alessio Marino... o Attilio Marino... forse sono parenti. Ricordo che Marino è di sicuro il cognome.» dichiarò Paola. «Alessio Marino io lo conosco.» Tutti si volsero alla voce proveniente dalla ragazza. E Delfi ripeté: «Alessio lo conosco, non è lui nell'immagine.» «Perfetto, allora è Attilio Marino.» disse l'ufficiale. «Manderò dei colleghi a prelevarlo.» «Grazie Delfi.» disse Adria adagiandole una mano sul braccio. La ragazza alzò le spalle, schiuse la bocca e mosse lo sguardo colpevole in ogni direzione, cercando di non incappare in quello di lei. 97 «Devo, io devo... Adria ora devo proprio scappare.» V.IV Doveva proprio scappare. Era solo questione di tempo, sarebbero risaliti ad Alessio e di conseguenza a lei. Aveva sperato, invano, di poter aspettare almeno un'altra settimana prima di mettere in atto la grande fuga, per organizzarsi meglio e poi partire. Il sensore del display non riconosceva quelle dita sudate e tremanti e Delfi dovette provare a comporre la chiamata verso il suo amico ancora ed ancora. Finalmente ci riuscì. Un suono intermittente perdurò per parecchi secondi. "Maledizione rispondi, cazzo rispondi!" Delfi col cellulare incastrato tra collo e capo continuava a tirare fuori dall'armadio indumenti per ogni stagione e ad infilarli in una capiente valigia. Ma erano troppi. Troppi vestiti, troppi oggetti, non sarebbe mai riuscita a ficcare un'intera casa in una valigia. Ci provò ancora, il verde, chiama. Capì che avrebbe dovuto dire addio a quella roba. Capì che l'avrebbe perduta per sempre, che avrebbe dovuto rinunciare al superfluo e portare con sé solo l'essenziale. Ed il superfluo corrispondeva ad una vita sana. «Ale perché non rispondi, andiamo!» Le parve che oltre a quel grande dramma che stava vivendo, ora anche quelli di minore entità si stavano abbattendo su di lei per fustigarla. E furono proprio quelli a farla crollare. Non la sua dignità andata o che fosse rimasta orfana, non la prigione o la perdita del rispetto di Adria, ma quel dannato amico che non rispondeva a quel maledetto telefono. Un pianto dirotto le sgorgò dagli occhi. E mentre sedeva sulla valigia per riuscire a comprimerla e a sigillarla, bussarono alla porta. Era il destino che stava tornando a riscuotere, lo fa sempre, lo fa con tutti, inutile illudersi, prima o poi arriva, di solito inaspettatamente. 98 E proprio mentre Delfi si illudeva di riuscire a raggirarlo e a fuggire, quello apparve a chiedere il conto. Non solo. Si accanì su di lei come se non fosse mai sazio di vederla struggersi e ne godesse, spietato. Silenziosamente si diresse all'ingresso e guardò dallo spioncino. Aprì la porta. «Dove cazzo eri, eh?? Perché cazzo non rispondi al telefono?!» gli urlò furiosa. «Quando ho visto le chiamate ero praticamente arrivato, Delfi calmati.» osservò il viso dell'amica, «Che è successo?» le chiese impensierito. «Io devo... devo fuggire.» «Come?» Delfi non riuscì a spiegarglielo. «Perché? Ti hanno scoperto?» insisté Alessio sempre più preoccupato. Ma la ragazza gli volse le spalle e tornò in camera a dedicarsi ai bagagli. Alessio la seguì e notò quel disordine, quella valigia. «Delfi.» disse «Che cazzo sta succedendo, ti hanno scoperto?» Delfi portò un braccio al volto e si asciugò gli occhi. «Hanno scoperto te.» disse. «Cosa?» Alessio impiegò diversi secondi prima di afferrare l'esatto significato di quella semplice frase, poi si addossò all'armadio e bofonchiò: «Come... come hanno fatto?» «Dalla videocamera esterna di un negozio.» Il ragazzo portò la mano alla fronte e sbarrò gli occhi. «Ed ora?» le chiese. «Li ho mandati da tuo cugino per guadagnare tempo, ma non ci metteranno molto a capire la verità.» Alessio ingoiò il terrore e sentì le gambe cedere. Si appoggiò sul letto e con lo sguardo perso nel vuoto le domandò: «Che vuoi fare?» «Non si vede?» «Fuggire era un'opzione quando non mi avevano ancora identificato!» Delfi restò zitta, sapeva di essere in difetto. «Brava! Scappa pure, lasciami nella merda!» 99 Subì in silenzio lo sfogo dell'amico mentre continuava a cercare oggetti che le sarebbero potuti servire. «Che dovrei fare secondo te?» continuò Alessio, «Dovrei dire che non so chi sei? Eh? Me lo dici? Qualche altra idea geniale?» le strillò arrabbiato. «Fa' che vuoi.» Prelevò alcune centinaia di euro dal cassetto di un comò, chiavi, giacca e calò dal letto la pesante valigia. «Me l'avevi promesso.» disse Alessio. Delfi non riuscì a giustificarsi e non lasciando all'amico nessuna spiegazione plausibile, si avviò verso l'uscita. «Mi avevi promesso che ti saresti costituita se mi avessero identificato.» Delfi frenò senza voltarsi, «Mi dispiace.» gli disse infine. Ed uscì, zaino in spalla, trascinando la valigia, cercando di intravedere tra le lacrime la via, sperando che non fosse ormai troppo tardi per scappare. Delfi perse. Non una sfida, non una battaglia. In pochi giorni perse tutto ciò che possedeva e tutte le persone a cui voleva bene, tutto. «Ehi aspetta! Delfi aspetta!» La ragazza si voltò ed Alessio la raggiunse. Sfilò dallo zaino la busta gialla, «I mille euro della vespa.» disse. Delfi li accettò senza protestare. Voleva abbracciarlo, ma sentiva di non meritare la sua comprensione e si trattenne. L'altro la salutò a malapena con un cenno vago del capo, si girò ed andò. Delfi si perse. Non in quella via, ma nella vita. Quella sensazione di smarrimento che si prova quando il fato intralcia e sconvolge i propri progetti di vita, lei ce l'aveva incanalata dentro. Arrivò in stazione e si sistemò sul primo autobus diretto alla città più lontana che individuò sulle destinazioni. Fu allora, mentre si ammazzava per rinascere in un'altra vita, che si fermò ad ascoltare i palpiti rapidi e ripetuti del suo cuore. Lo ammirava, il suo cuore. Perché non si conciliava con lei, di lei era l'esatto opposto. Lei era sempre stata lenta, svogliata, incostante e scostante. Si chiese come fosse possibile che quel piccolo organo tanto perfetto facesse parte di sé, che perfetta non lo era per niente. 100 Come fosse possibile che battesse così costantemente, senza incipit, senza scopo, senza stancarsi. Fosse stata in quello si sarebbe fermato da tempo. "Se ci tieni battila tu questa cazzo di vita inutile, come correre in tondo senza raggiungere mai un traguardo. E per cosa poi? Una manciata di momenti vivibili per una restante esistenza penosa!" Questo le avrebbe detto fosse stata il suo cuore. Ma non era il suo cuore, era lei. Ed allora, mentre l'autobus partiva, fu lei a dire a quello: "Maledizione, ribellati, vendicati, ammalati! Batti da quasi vent'anni anni, non sei stanco? Di fare sempre lo stesso movimento del cazzo? Io sono stanca, io per te, non voglio che continui, che continui inutilmente. Fermati ora, ferma qui. Voglio scendere." V.V Ma quello continuava a battere secondi interminabili, non altri rumori, solo il ticchettio del grosso orologio appeso alla parete a riempire quella snervante attesa. D'improvviso Paola fu illuminata da un'idea, tirò fuori il cellulare dalla tasca come se fosse pienamente soddisfatta di quell'idea e convinta di quello che stava per fare. Smanettò sul social network per circa un minuto e poi chiamò: «Adria.» L'altra si voltò percependo una nota di panico in quel richiamo. Paola le porse il telefono. Lo schermo ritraeva l'immagine di un ragazzo sorridente e sconosciuto affiancata dal nome "Attilio Marino" e da un contorno blu. «Non capisco.» disse Adria. «Attilio Marino probabilmente non è il ragazzo che cerchiamo.» Adria afferrò il cellulare e diede un'occhiata ravvicinata a quella foto. Già, nessuna caratteristica nel suo volto poteva far pensare ad una lontana somiglianza col ragazzo del fermo immagine. «Prova a cercare Alessio Marino.» le suggerì Paola. «Ma Delfi ha detto che...» «Forse anche lei si è confusa.» Adria titubò, poi digitò il nome e pigiò sul primo risultato che comparve. 101 Eccola, la chiara immagine appartenente al ragazzo ricercato, Alessio Marino. Adria alzò la testa e sgranò gli occhi. «Signore,» disse l'ufficiale irrompendo nella stanza. «Attilio Marino non è il nostro ragazzo. Alessio Marino lo è.» E dopo aver ribadito l'ormai già nota informazione alle donne, aggiunse: «È qui.» Adria si voltò all'amica, si levò d'istinto dalla sedia e si diresse verso la porta, «Dov'è?» intenzionata a raggiungerlo, ad incontrarlo, a scontrarlo. «Signora Tosca... un attimo.» Adria si volse a quelle parole. «I miei uomini l'hanno portato qui dopo essersi recati dall'altro ragazzo ed aver inteso l'equivoco. Ci ho già fatto una prima chiacchierata, è irremovibile.» «Conosco dei metodi che lo renderanno removibilissimo.» disse Adria «Lasci che me ne occupi io.» «Appunto,» replicò quello «la sua irremovibilità sta nel fatto che vuole parlare solo con lei signora Tosca, con nessun altro.» La donna increspò la faccia come stranita da quella inattesa delucidazione e senza indugiare oltre esortò: «Che aspettiamo allora, andiamo.» Oltrepassarono una serie di stanzini pullulanti di agenti in divisa intenti ognuno nel proprio incarico e si immisero in un angusto corridoio. «Ha accettato di parlare con lei a patto che non vi fossero né videocamere, né microfoni nascosti, né specchi trasparenti, né altre persone, davvero petulante... ad ogni modo ho deciso di accontentarlo, voglia il cielo ci conduca alla soluzione di questo caso.» puntualizzò l'ufficiale. Ma ad Adria importava poco quella chiarificazione, lei ora aveva soltanto uno scopo da raggiungere, ottenere un nome, nient'altro. Arrivarono in fondo al corridoio. «È qui.» disse l'uomo indicando la porta di un ufficio. Adria senza aspettare ulteriori inviti o raccomandazioni entrò chiudendo la porta sul muso degli esclusi. Si imbatté nella nuca del ragazzo che sedeva su una sedia dinanzi ad una scrivania. 102 Tirò a sé la sedia accanto, si sedette e ruotò quella di Alessio ponendosela di fronte. E senza staccare le mani dai braccioli, si allungò alla sua faccia e lo fissò. Il ragazzo calò gli occhi, ma la donna non aveva ancora stabilito che il silenzio dovesse cessare e perseverò quindi nel suo profondo scrutare. In soggezione e con grande sforzo Alessio esordì: «È qualcuno che conosci.» disse incapace di subire oltre lo sguardo penetrante di lei. «La conosci abbastanza da sapere che è una brava ragazza, non devi arrabbiarti con lei perché è stato un maledetto incidente, lei non voleva...» «Basta! Dimmi chi cazzo è stato a farmi questo!» gli strillò battendo un pugno sordo sulla protesi. Il ragazzo sobbalzò. «Dimmi il nome o giuro che ti farò marcire in carcere insieme a lei.» Alessio intimorito da quella minaccia prese a respirare più veloce. «Allora?» incalzò spazientita. Il ragazzo prese fiato e lo ricacciò fuori emanando un suono che assomigliò a: «Delfi.» «Come?» Forse Adria non aveva ben udito o comunque le era parso di aver mal inteso. «Sì, Delfi, la tua volontaria.» specificò Alessio, scandendo distintamente le parole, affinché Adria non avesse più ragioni per non comprenderne l'identità. «Non è possibile, menti!» Alessio restò zitto, come ovvio che accadesse non cercò di convincere Adria della colpevolezza dell'amica. E quel silenzio parlò alla donna. «Lei, le... io le ho visto il fianco, non ha il tatuaggio.» «Era truccato.» Adria si fiondò sullo schienale. «Cosa?» mormorò. Udì il rumore del suo cuore andare in frantumi. Si sentì invasa da ondate di flussi caldi e lacrime di sangue, come paralizzata dal dolore. Cacciò un debole sospiro, uno di quei sospiri di disperazione, d'impotenza, di delusione e tradimento. «Dov'è?» chiese fievolmente. 103 «Io... io non lo so. È fuggita senza dirmi dove andava.» «Chiamala.» Alessio esitò, sapeva che non avrebbe funzionato. «Chiamala ho detto!» Il ragazzo estrasse il cellulare ed inviò la chiamata. Lo squillo si protrasse per circa un minuto senza ricevere risposta. «Riprova!» Alessio ritentò, ma stavolta nessuno squillo, solo una vocina educata che informava sull'irraggiungibilità del servizio. «L'ha spento.» disse Alessio in tono tremante. Adria spalancò gli occhi e d'un tratto vide ciò che per mesi non era stata in grado di scorgere. Capì la sua precisa richiesta di affiancarla come volontaria; collegò il nome del suo unico amico, Alessio; ricordò l'inferno che sosteneva le avesse augurato; la menzogna sul nome del ragazzo nella foto; credette persino al significato del sogno. Pian piano i pezzetti del suo cuore si ricongiunsero, tornò a respirare, tornò a sragionare. Credeva di dover sfogare quella collera che stava prendendo il posto del dolore, di doverla sfogare su Delfi. Si levò dalla sedia constatando che le era tornata la forza. Anche quella di urlare. «Cazzo!» Anche quella di combattere. Strappò il cellulare dalle mani di Alessio e copiò il numero di Delfi sul proprio. Poi con le lacrime che le ostruivano la vista si orientò a tentoni verso l'uscita. Troppe lacrime da portarsi dietro, ne lasciò gocciolare alcune sul pavimento ed uscì, scardinando quasi la porta. «Adria che succede?» «Andiamo Paola.» «Signora Tosca, dove va?» «Non agite finché non do il consenso.» ordinò all'ufficiale. Cercò di spiegare all'amica l'accaduto tentando di strozzare i singhiozzi e, giunte che furono in auto, si dedicarono ad un'estenuante ricerca della ragazza vagando per le strade della città fino al tramonto. Provò a telefonarle ancora, ma nessuna replica se non la solita vocina. 104 «Non può essere lontana, è passato quanto? Un'ora, due?» Forse di più, perché in quell'attesa infinita il tempo le si era curvato intorno e la percezione le era risultata sfasata. Le telefonò di nuovo. E poi gradualmente si arrese alla sua assenza. Ma l'avrebbe rintracciata sino in capo al mondo, non quel giorno, forse né il giorno a seguire, in qualche modo l'avrebbe trovata. Prima l'avrebbe stanata e poi... Poi improvvisamente uno squillo. «Pronto.» Non ci fu bisogno che si affannasse tanto e, con suo stesso stupore, Adria dovette dichiarare la caccia conclusa ancor prima di averla intrapresa. «Dove sei?» le chiese. Delfi non lo sapeva con esattezza. Era seduta sul marciapiede di una via qualunque, fra lo zaino e la valigia, ad ammirare le luci del cielo crepuscolare. Aveva ponderato a lungo se riaccendere il cellulare ed infine aveva concluso che Alessio avrebbe potuto avere qualcosa di veramente urgente da dirle. Avrebbe potuto dirle di non preoccuparsi, che tutto stava volgendo al meglio e magari che Adria aveva capito e l'aveva perdonata. Si destò e riprese coscienza, si guardò intorno e se ne avvide. Sì, lo sapeva dov'era. V.VI Suo padre aveva avuto un bel coraggio a compiere quel gesto estremo. Osservava la foto dell'uomo che teneva tra le mani insieme al suo biglietto e quasi lo ammirava. Forse lei non ci sarebbe mai riuscita, nemmeno nella peggiore delle avversità, nemmeno in quella che stava attraversando. Il suo istinto di sopravvivenza avrebbe vinto o semplicemente non era ancora tanto disperata da possedere la forza di sconfiggere quell'istinto. Guardò il biglietto chiuso e malconcio e pregò di non pentirsi di averlo aperto. Sperò che suo padre, lungimirante e conscio di tutto, le avesse scritto precise istruzioni sul comportamento da adottare per risolvere gli intrichi derivanti dai suoi peccati. 105 Credeva inoltre che non potesse abbattersi altra sciagura, non riusciva ad immaginare qualcosa di peggio, quello era già il peggio. Poi lo aprì. "L'equipaggio richiede la mia presenza, piccola, è giunta l'ora del decollo." lesse. Sospirò afflitta osservando quel foglio imbrattato dall'ultimo pensiero che l'uomo aveva avuto premura di rivolgerle, credendo di fare cosa gradita e doverosa. E fu come se quelle lettere si mischiassero e si ridisponessero in un ordine di parole più logiche: "No Delfi, ti sbagli. La frase senza senso del vecchio è la prova che hai torto, non c'è mai fine al peggio." E pianse, povera Delfi. Di un pianto spasmodico, pieno di singhiozzi, pareva quasi ridesse. Anzi non pareva, rideva. Ora le risultava evidente, era caduta vittima di uno scherzo, qualcuno le aveva teso uno di quelli più brutti, un brutto scherzo del destino. Ironico bastardo, si divertiva ritenendosi simpatico e lei non voleva dargli più motivo per deriderla. Pensò ad un modo rapido per farla finita e l'idea più concreta che spiccò fra tutte fu di buttarsi da un'altezza. Avrebbe finalmente potuto appurare se fosse veramente capace di volare. Forse ce l'aveva, l'aveva ereditato dal padre un po' di coraggio. C'era un ponte lì vicino, alto una ventina di metri, uno di quelli sotto cui l'acqua scorre agitata e violenta anche quando tutt'intorno è calmo. Si figurò lì sotto, trascinata dalla corrente, a sbatacchiare tra gli spuntoni delle rocce col cranio fratturato, a lasciare che il peso della sua colpa la affondasse per sempre. Sarebbe morta senza il perdono della sua vittima, vittima a sua volta, e poi sarebbe certo finita all'inferno se un inferno fosse stato certo. In fondo Adria aveva dichiarato di volerla vedere bruciare. Voleva davvero vederla bruciare? Comunque Delfi non l'avrebbe mai fatto. Vigliacca, come quando non confessò, come quando continuò a mentire, come quando fuggì, vigliacca come sempre. Eppure ora quella vigliacca di Delfi stava seduta sul pavimento del corridoio della clinica ad aspettare il castigo della donna, la 106 prigione, il disprezzo da parte della società ed il suo futuro assente. Affrontare tutto ciò era avere coraggio, non provare a volare. Un rumore isterico di passi la destò, alzò lo sguardo e scorse in fondo al corridoio le sagome di due donne. «Resta qua.» ordinò Adria a Paola. Poi per qualche arcana ragione stette lì diversi secondi a scrutare col pianto negli occhi la ragazza a terra davanti alla sua stanza. Vide che la guardava con occhi identici ai suoi e, un passo claudicante dopo l'altro, avanzò lenta lungo il corridoio. Delfi si levò in piedi come in attesa di condanna ed abbassò il capo. La donna la raggiunse e le si posizionò di fronte facendole cenno di oltrepassare l'uscio. E mentre la ragazza si inoltrava in camera, la mano di Adria, quella libera dalla gruccia, le agguantò la maglia dal lato sinistro e strappandogliela quasi, scoprì il fianco. Non era un serpente, era una esse, la lettera di sua madre, ora era ovvio. Ed era lei, era stata lei, era sempre stata lei. Delfi si voltò ed Adria la colpì con uno schiaffo. La ragazza lo incassò senza alcuna difesa e col viso in fiamme bloccò il respiro a metà. «Brucia?» domandò la donna «Mai quanto ho bruciato io.» Delfi portò lesta una mano al volto e non per il dolore, ma per la vergogna. Allora Adria la acciuffò dal braccio e gliela staccò dalla faccia. «Guardami, guardami!» e Delfi fece come le venne ordinato. «Che stupida sono stata, una cogliona!» E mentre le urlava contro, la ragazza indietreggiò impaurita battendo ripetutamente le palpebre. «Perché hai voluto prendermi anche per il culo? Non ti bastava quello che mi avevi già fatto, non ti bastava?» Ma l'altra non seppe replicare, allagò di lacrime gli occhi e noncurante della volontà della donna portò di nuovo il braccio al viso. 107 Adria avrebbe voluto malmenarla con tanta foga da farle provare tutto il male che aveva sentito lei negli ultimi mesi, tutto concentrato in pochi secondi. E mentre l'ira le ottenebrava la ragione, la sua vista mirò all'estremità di quel braccio, alla foto del padre che la ragazza teneva ancora stretta in mano. All'improvviso le parve come se stesse per infierire su un cerbiatto orfano, smarrito, spaurito, inerme e già ferito. A bocca aperta ingoiò la disperazione. «Vattene.» riuscì a malapena a pronunciare. Delfi affogando nei propri singhiozzi colse l'opportunità di risparmiarsi le percosse ed eseguì l'ordine. Paola aveva ascoltato tutto al di là della porta e quando la ragazza la sorpassò di fretta, si impegnò per non cedere all'impeto di fermarla e picchiarla. Poi andò dall'amica che intanto stava immobile a fissare la notte dalla finestra. «Che farai?» le chiese sommessamente. Adria con uno scatto repentino allungò il braccio sul davanzale e con una manata scaraventò la piantina che tanto assomigliava a Delfi a terra, riducendola in cocci. V.VII «Ha intenzione di ritirare la denuncia?» Adria affermò col capo. «La vita l'ha già punita abbastanza, non merita anche la mia denuncia.» La giudice che la interrogava restò basita. «Ne è certa signora Tosca?» Adria ci pensò. «Non merita neanche il mio perdono, sia chiaro.» «D'accordo.» disse perplessa la donna. Poi iniziò ad enunciare: «Considerata la situazione familiare della ragazza, e che al momento dei fatti era minorenne, la sua mancata denuncia signora Tosca, e considerato che ha già scontato di propria iniziativa quasi tre mesi di volontariato presso un centro di riabilitazione per mutilati tra cui lei, vittima del suo stesso crimine... se lei esprimesse anche una buona opinione sulla ragazza, la sua pena sarà una sanzione pecuniaria per appropriazione indebita di autoveicolo e distruzione dello stesso; per guida senza patente 108 la pena prevista è una sanzione, ed il rinvio per tre anni del conseguimento della licenza di guida; ed infine l'obbligo di prestare altre sessanta ore di lavoro socialmente utile presso qualche struttura di volontariato.» «Le risarcisco io.» «Come scusi?» «Le pago io le multe.» La giudice stentava a capire. «Ho già parlato con la ragazza, mi ha detto che c'era una specie di rapporto d'amicizia tra voi... Signora Tosca, non vorrei intromettermi, ma non vorrei neanche che questo le appannasse il giudizio.» Adria la fissò. «Ho detto che le pago io.» confermò seria. «D'accordo.» disse rassegnata la donna e poi rivolgendosi al suo assistente ordinò: «Falla entrare.» Delfi varcò la soglia dell'ufficio ed andò a sedersi sulla sedia accanto ad Adria, la quale, impassibile, non la degnò neppure di un'occhiata. «Delfina,» cominciò la giudice. «ho la tua dichiarazione scritta qui. Vuoi aggiungere altro? Ci tieni a dichiarare qualcos'altro alla presenza della signora Tosca?» Delfi annuì, ma poi restò zitta per troppi secondi ed ancora altri, lunghi, immensi secondi. Diverse frasi, ma nessuna abbastanza persuasiva, le ronzavano in testa. Eppure avrebbe potuto semplicemente scusarsi. Ma tacque, si voltò ad Adria e vide il suo sguardo gelido fissare dritto davanti a sé. Lo sapeva, l'aveva sempre saputo che l'avrebbe persa, semmai l'aveva posseduta realmente. La giudice considerando il suo persistente silenzio mosse la bocca in procinto di parlare, ma una richiesta troncò sul nascere la sua frase: «Posso dire io qualcosa?» chiese Adria. «Certo.» «Puoi risparmiarti le spiegazioni sul perché mi hai lasciato lì a morire.» le sue parole erano rivolte alla ragazza, ma il suo sguardo continuava a fissare altrove. «Quello che mi ha fatto più male è che ti sei insinuata 109 nella mia vita con l'inganno, mi vedevi soffrire, ma mi mentivi ogni giorno guardandomi negli occhi ed avresti continuato a tenermelo nascosto chissà fino a quando.» Delfi subì quell'ammonizione ed i restanti minuti costretta in quell'ufficio a faticare per contenere le lacrime, mentre ascoltava la pena che le veniva inflitta dalla legge e le offerte di pagamento delle sanzioni da parte di Adria. «Se nessuno ha altro da aggiungere,» annunciò infine la giudice guardando la querelante e l'imputata. «allora credo di poter ritenere la seduta sciolta.» Al che Adria si alzò, agguantò la sedia della ragazza, la ruotò a sé e si piegò leggermente verso di lei, «Credi che la tua condanna pareggi?» le disse «L'inferno nel caso non dovesse esistere lo vivrai portando per sempre il peso di quello che m'hai fatto sulla coscienza... e forse poi saremo pari.» Poi si ricompose, si avviò alla porta ed uscì. Forse aveva esagerato, avrebbe dovuto trattenersi, era solo una ragazza e non meritava tutto quel livore. Cosa? Non lo meritava? "Cazzo!" si adirò con sé stessa. Imboccò la prima svolta e si nascose in un angolo buio, appoggiando un braccio al muro e quello alla testa. Brava Delfi, aveva saputo recitare abilmente il suo ruolo, l'aveva abbindolata così bene che ora quasi era Adria a sentirsi in colpa, come se non avesse neanche il diritto di serbarle rancore, ma anzi addirittura solo il dovere di perdonarla. Ma anche avesse avuto il diritto che le spettava, Adria non ne era capace. Non riusciva a covare risentimento nei riguardi della ragazza, non sapeva odiarla, la realtà ardua da accettare era che, purtroppo, nutriva già affetto. Solo questo riusciva ad odiare, che ormai le voleva bene. 110 CAPITOLO VI VI.I Stringeva fra le braccia un paio di libri, camminava a capo chino, osservava le foglie castane che ornavano la via e che sfuggivano rapidamente alla sua vista. Alcune le capitavano sotto i piedi producendo uno scricchiolio gradevole che con discrezione la distraeva dalle sue riflessioni. Oltrepassò il cancello, giunse presso i gradini dell'ingresso e si fermò. «Credevo non saresti venuta.» le disse. Si levò, agguantò lo zaino e si accostò all'amica. «Allora perché mi aspettavi?» replicò Delfi iniziando a salire le scale, mentre Alessio le si appiccicava dietro. «Lo sai che giorno è oggi, vero? Mica l'hai dimenticato?» «No Ale, non l'ho dimenticato.» «E che intendi fare, vuoi assistere?» La ragazza varcò l'uscio dell'entrata e tacque. «Possiamo anche tagliare la corda, possiamo...» «Non ho intenzione di fare un cazzo Ale, non stancarmi.» «Ehi chiedevo così, nel tuo interesse, non devi sempre rispondermi male.» Nell'ultimo mese era stata vessata da angherie di ogni sorta provenienti da qualsiasi istituto. Il tribunale, la scuola, persino la clinica, e poi la gente. La bistrattavano, la condannavano, la lapidavano con improperi massicci. A volte le capitava addirittura di portare le mani alle orecchie, le braccia alla testa a mo' di scudo, come a volersi riparare dalle accuse che come sassi le scagliavano contro. "Criminale! Infame!" le tiravano dietro, "Monca dovresti essere tu! Dovresti marcire in gattabuia!" le mormoravano passandole accanto uomini e donne di ogni età. Come se la sua libertà, la sua vita ora fosse un enorme dono immeritato. Che oltretutto lei neppure voleva. Quel martirio non sarebbe mai finito, ma infine avrebbe sfinito lei. Entrarono nella grande aula e la sua comparsa partorì un perfido vocio che passò presto di bocca in bocca. «Che faccia tosta la bastarda!» disse qualcuno. 111 E fu l'espressione più docile che le rivolsero. Alzò lo sguardo e lesse quella gigante scritta nera stampata su uno striscione bianco che addobbava la volta. Poi un buffet in un cantuccio, sedute disposte in linea ed in fondo una pedana con un microfono collocato sopra. Si arrestò sulla soglia. Aveva creduto di poter sostenere le proprie ragioni davanti al mondo intero, di volerlo eroicamente affrontare, proprio lì su quel palco. Ma d'un tratto si accorse che l'eroina da celebrare quel giorno non era lei. L'amico la chiamò e lei riprendendosi dal coma transitorio disse: «Andiamocene.» Girarono per uscire e sulla porta un mucchio di persone ostruì improvvisamente il passaggio. «Fate spazio, lasciate passare!» ordinarono delle voci. Delfi ed Alessio si trovarono bloccati senza poter avanzare tanto meno retrocedere, stretti tra il muro e la porta che fu subitamente spalancata. La ragazza si impresse sullo stipite, schiacciata da professori ed alunni che scavalcandola le si strusciavano addosso. E tra i tanti lei, Adria. Sorrideva, pareva felice, forse lo era, paga di avere tutta quella gente ad accoglierla in un affettuoso bentornato. Gioiosa e raggiante finché il suo sguardo non cadde per caso e di sfuggita su Delfi. Si trovò addossata a lei, costretta a strisciarci contro. E si chiese per quale dannata ragione fosse lì. Il sorriso svanì, il viso si scurì ed un odio per nulla velato colpì la ragazza giusto in faccia. Poi si spiccicò col corpo e con gli occhi da lei e si diresse alla pedana, dove colleghi e studenti la aspettavano per complimentarsi di qualcosa, chissà, forse per essere ancora in vita. «Dentro o fuori?» chiese il bidello ai due ragazzi. Delfi esitò, poi guardò Alessio e compì il passo che la riportò all'interno. L'amico la seguì, come sempre, e quello chiuse la porta. Delfi decise di sedersi là accanto, in caso sarebbe potuta servirle l'uscita. Poi cercò Adria, ci incollò lo sguardo sopra e la osservò ricevere innumerevoli strette di mano. La guardò meglio, era la stessa donna che aveva frequentato per quasi tre mesi, la stessa con gli altri non più con lei. 112 Forse fra tutta quella gente che le sbandierava alta considerazione, Delfi era la sola che sapeva quanta davvero ne meritava e che aveva imparato di lei cose di cui nessun altro, neppure Paola, era a conoscenza. In qualche modo era stata incatenata a lei dalla sorte. Quale che fosse poi la sorte, se quella di Adria di rimanere monca o quella di lei di averla mutilata, non era dato saperlo. Ma nonostante il rancore di una o il pentimento dell'altra, che lo volessero o meno avrebbero comunque avuto per sempre quella sorte in comune. Quella catena stava lì anche allora, in quell'aula, trasparente ma inossidabile, a tenerle allacciate. Un estremo era fuso nell'animo della ragazza e l'altro in quello della donna. La sentivano tirare l'una verso l'altra ed Adria faticava a resistere a quel risucchio, ad ignorarlo. Poi salì sulla pedana, si posizionò davanti al microfono ed applausi, grida e fischi di approvazione si elevarono al solaio. «Grazie...» Ancora applausi e schiamazzi a soffocare la sua gratitudine. «Grazie.» ripeté Adria «Davvero io... io non so come ringraziarvi.» «Niente compiti per un anno!» urlò un alunno. «Forse state esagerando...» Molti risero, anche Adria, poi il suo sorriso si mutò gradualmente in un'espressione profonda. «Sapete, è difficile dire qualcosa quando non si ha nulla da dire, nessuno dovrebbe essere costretto a parlare in tal caso... mentre quando si vuol far sapere qualcosa di importante, bhè allora si sente da soli l'impulso impellente di salire su un palco e davanti ad un microfono e a tanta gente esprimere il proprio pensiero. E questo è l'impulso che sento io oggi.» La stavano a sentire tutti immersi, rapiti dal suo discorso. «Ho attraversato un periodaccio, duro in tutti i sensi... e in un modo o nell'altro ne sono uscita. Insomma, quello che mi è successo non è un segreto...» disse ed ebbe un attimo di esitazione rievocando quel recente e doloroso passato. «Quello che ci tengo a dirvi ragazzi, non abbattetevi mai, neppure quando una soluzione non c'è e spesso è così, non c'è, ma voi non dichiarate sconfitta, non dategliela vinta, mai.» Poi si raccolse pochi secondi come se stesse ricordando qualcosa. 113 «Mesi fa qualcuno mi disse che le persone mi rispettano perché sono schietta e giusta, ed è stata una delle cose più belle che mi abbiano detto. Però ora so che non tutti mi hanno rispettato ed oggi mi fa male ricordare quella frase, perché a dirmela è stata proprio chi non mi ha mai rispettato veramente.» Seguì una pausa di silenzio, Delfi sentì gli occhi di tutti piantati addosso e pensò di sprofondare in giù, raggomitolarsi sulla sedia per proteggersi e nascondersi da quelle occhiate colme di sdegno. «Vergognati!» si sentì dire. Invece si alzò in piedi. Già, si sollevò dalla sedia facendo sì che anche chi non l'aveva ancora avvistata la notasse. E la insultasse. Allora sentì un impulso impellente, forse quello di eclissarsi, di andarsene. Si avvicinò alla porta ed osservò la sua mano afferrare la maniglia. Diamine no. Anche lei voleva far sapere qualcosa di importante, ci teneva ad esprimere il proprio pensiero come mai aveva fatto finora. Levò gli occhi dalla maniglia e li puntò in fondo alla sala, dritti sulla donna. «Perché non hai lasciato che mi arrestassero allora?» strillò con la poca forza che ancora le circolava in corpo. Adria la individuò subito per via di quella catena invisibile che la teneva legata a sé e che in quel momento tirava quasi a volerglielo squarciare, l'animo.«Come?» chiese attonita ed il suo sgomento fu amplificato dalle casse del microfono. Un mormorio soffuso si espanse per l'aula che fu subito spezzato dalle seguenti intrepide parole di Delfi. «Avrei pagato così la mia colpa, in prigione, sarebbe stato meglio che sentirsi tartassata di ingiurie ad ogni angolo! Hai deciso di non farlo, hai scelto tu di ritirare la denuncia, bhè allora ora non rompermi il cazzo!» «Cosa?!» esclamò sempre la solita voce amplificata. Un silenzio sacro calò sopra quel brusio di voci sbalordite e lo soffocò. «Sì, hai capito, non rompermi il cazzo, non guardarmi male, non odiarmi! Non puoi fare le cose a metà, o è bianco o è nero, o mi perdoni o mi denunci!» e le ultime parole non furono scandite bene perché disturbate dal suo pianto che fungeva da interferenza. 114 Adria stette a bocca aperta, energicamente espirò un ghigno di sconcerto, ruotò il capo prima da un lato e poi dall'altro a cercare un'indicazione negli sguardi inclinati ed imbarazzati dei suoi colleghi e poi tornò a fissare la ragazza. Partì spedita nella sua direzione, passo e stampella si alternarono rapidi, giunse a lei, aprì la porta e con un breve e conciso gesto del capo le ordinò di uscire. La seguì, la superò e la guidò fino all'esterno dell'edificio, oltre il cancello, nel giardino che lo circondava. «Come cazzo ti permetti?» le chiese dura voltandosi, non lasciandosi impietosire neppure dagli occhi pieni di lacrime di lei. «Come osi rovinarmi anche questa giornata?» Delfi si era lasciata pilotare fin lì, le sue gambe avevano continuato ad andare ed andare, come da mesi ormai continuava solo per inerzia. «Se non mi vuoi in galera, allora dimmi che vuoi che faccia per scontare quello che t'ho fatto.» «È per questo, vero? È per te, per far star meglio la tua coscienza! E credi che dopo basti così?» le si accostò dirimpetto. «Sai cosa Delfi? Non sarà così facile per te, non intendo semplificarti niente, non lo meriti. Soffri e taci perché non sei nella posizione di pretendere niente, posso fare ciò che voglio di te, anche odiarti, non puoi impedirmelo.» «Sì che posso.» disse la ragazza fermamente convinta. «Se mi ammazzo.» Adria inarcò la fronte e la sfidò, «Cosa aspetti allora, fallo.» le disse. In realtà qualcosa che aspettava l'aveva. Aveva dei cari che l'aspettavano al di là ed era ansiosa di incontrarli. E se non ci fossero stati né loro né altro, non ne avrebbe sofferto perché anche lei ci sarebbe non stata. «Dopo tutto quello che mi è successo credi che non ne sia capace? Bhè, ti sbagli. Così anche tu porterai una vita sulla coscienza, la mia, e saprai finalmente che significa!» portò le dita di una mano agli occhi e le inzuppò di pianto, «Solo allora saremo veramente pari.» disse. «Sei solo una bambina, vigliacca e falsa!» esclamò Adria. «Una donna avrebbe tirato fuori il fegato per dire la verità e ne avrebbe affrontato le conseguenze. Avanti, tiralo fuori ora il coraggio, ammazzati!» La speranza di Delfi di assistere ad un minimo segno di opposizione svanì. Allora col cuore sgretolato ruotò ed andò. 115 Adria non si mosse di un fiato. "Che lo faccia pure." pensò e l'orgoglio le impedì di fermarla. Così a Delfi ora le rimaneva soltanto tutto ciò che non aveva mai avuto, cioè nulla. "Se continuo a sopravvivere finirò per ucciderti." le aveva detto il suo stesso istinto di sopravvivenza. Allora paradossalmente quello smise di funzionare. E a lei, non dovendolo combattere, risultò semplice ammazzarsi e più conveniente morire. Non era più viva, era già una non morta. Intanto Adria la osservava allontanarsi e si sentiva furiosa. Delfi non aveva avuto il coraggio di dirle la verità, meschina, non avrebbe mai avuto neppure quello di ammazzarsi. "Bambina e vigliacca, tanto non lo farà." continuava a ripetersi. "Già, bambina, è solo una bambina, non lo farà." "E se lo facesse? È ancora una bambina, non può farlo, non deve." cominciò a riflettere ed iniziò a dubitare della sua stessa convinzione, non ne era più tanto certa. Anzi, pian piano si ritrovò certa del contrario, certa che l'avrebbe fatto. Ora lo sapeva, l'avrebbe fatto e non stava agendo per impedirlo. Teneva nelle proprie mani un destino e stava lasciando che si dissolvesse, commettendo un errore che sarebbe costato la vita della ragazza. Un errore che avrebbe rimpianto per giorni, mesi, anni, sempre, struggendosi in uno strazio inesorabile senza riuscire mai a perdonarsi. No, non poteva lasciare che Delfi le infliggesse quest'ulteriore pena, la sua morte sarebbe stata un supplizio per lei solo, non per altri. L'azione criminale di Delfi nei confronti di Adria, estrapolata dal vissuto della ragazza, era riprovevole e passibile di condanna. Ma lei di punizioni ne aveva già espiate abbastanza, alcune in anticipo ed altre chissà, forse gliele tenevano in serbo per il futuro. D'un tratto la donna capì che l'inferno la ragazza lo aveva già sperimentato e che avrebbe dovuto rinunciare a punirla perché c'era già stato chi si era prodigato al suo posto. 116 Parecchi pur non avendo diritto di punirla se lo erano arrogato, troppi forse, tranne lei che il diritto se l'era guadagnato in cambio di pezzi di corpo, della gamba e di quell'altro, del cuore. Sì, l'avevano punita tutti tranne Adria. Capì che forse fra quei tanti giustizieri che giocavano ad ergersi a giudici supremi, lei che avrebbe anche potuto non doverla perdonare, proprio lei sarebbe stata l'unica che alla fine l'avrebbe fatto. VI.II Ancora qualche passo e sarebbe arrivata al ponte. Delfi aveva deciso, si sarebbe tolta la vita come aveva immaginato. Arrivò, pose le mani sul muretto e si affacciò. Era tutto come lo ricordava, le rocce, l'acqua mossa che ci sbatteva contro con veemenza. Saltò sul muretto e si sedette dal lato del vuoto. Pensò però che se si fosse buttata in piedi avrebbe avuto più probabilità di ammazzarsi. Così si alzò. E pianse così convulsamente che prima di compiere il fatidico passo, si accovacciò e vomitò. «Delfi.» La ragazza non la udì neppure, impegnata com'era a singhiozzare. Poi percepì una presenza accanto e si voltò. «Mi arrendo, sono stanca, non ho fatto altro che resistere in vita mia.» «No Delfi, non ti permetterò di farmi ancora del male.» Adria si appressò al muretto e si sporse. La ragazza credendo che volesse acchiapparla e ributtarla in strada, si scostò di lato. Poi si girò alla donna e la guardò dall'alto. «Se muoio sarà più semplice, forse sarà niente, ma comunque più semplice.» «Ehi Delfi,» disse «Delfi ascolta, quando dicevo che non bisogna mai dichiararsi sconfitti anche quando una soluzione non c'è, bhè in realtà io, sai, mi riferivo a te.» Una lieve sensazione di stupore si insinuò nella ragazza, intimamente lusingata che quelle parole fossero state segretamente rivolte a lei, ma tuttavia restia a crederci. «Sei disposta?» «A cosa?» le domandò la donna. 117 «A salvarmi,» replicò Delfi. «non solo ora, salvami per sempre, dimmi che mi perdonerai e dammi una ragione per non farlo.» e mentre lo diceva ingoiò qualcosa che sapeva di paura, di disperazione, di resa. Fu come se Adria la guardasse allora per la prima volta, prostrata ed accovacciata sul muretto, come se riuscisse finalmente ad avvertire il suo dispiacere, il suo rimorso. «Allora?» ribadì Delfi. La donna batté le palpebre e sospirò. Poi mosse appena il capo per annuire, allungò una mano e senza aspettare che l'altra le porgesse la propria, la afferrò. Delfi si lasciò trascinare a terra e si abbandonò nel suo abbraccio. «Scusa.» disse piangendo alla donna. Adria aveva deciso. In realtà non aveva deciso lì, su quel ponte, nemmeno poco prima nei giardini della scuola, né quando scoprì la vera identità della ragazza, no, molto prima. Aveva deciso di perdonarla già quando la vide attraversare la soglia della sua camera la prima volta, soltanto che all'epoca non ne era ancora consapevole. Perché fu in quell'istante che Delfi si costituì, fu in quel modo che le chiese perdono, fu allora e per i tre mesi a seguire che le mostrò pentimento e, soprattutto, le mostrò di possedere una coscienza. «Non riesco ad odiarti.» le disse e la baciò sulla tempia. Delfi avrebbe potuto credere che era stato destino. Avrebbe potuto credere che tutto era accaduto per una ragione e che c'era stato un significato profondo dietro ad ogni evento. Avrebbe potuto credere a tutte quelle banalità che si ripetono a cantilena in certe circostanze e ci credeva, non le costava nulla. Ma non avrebbe cambiato il fatto che ciò che accadde ad Adria era stata colpa sua. La sua vita, orrenda o meravigliosa che sarebbe stata, ma anche solo semplicemente banale, e pure la persona che sarebbe diventata, tutto sarebbe dipeso da quell'attimo di sorte in comune che aveva avuto con la donna. 118