1 INsCONTRO Basato su fatti realmente accaduti da

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1 INsCONTRO Basato su fatti realmente accaduti da
INsCONTRO
Basato su fatti realmente accaduti
da qualche parte nel mondo.
È proprio quella che non reputi degna neanche di chiamarsi vita,
perché quella non è vita,
la vita è altro,
proprio quella più difficile che purtroppo ti capita,
quella è la vita che merita di essere raccontata.
Perché non si racconta di vite felici e contente,
nessuno vuole ascoltarle quelle
se non i bambini nelle favole.
Invece quelle altre si raccontano,
le vite invivibili.
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CAPITOLO I
I.I
«Vi chiedo solo rispetto. Come ne do a voi esigo che mi sia ricambiato.
Quindi se sospetto che mi state prendendo in giro, vi farò pentire di averci
anche solo pensato.»
Aveva imparato a non provocarlo, Adria aveva imparato a non
impossessarsi di ciò che apparteneva al destino, ma a raccogliere solo ciò
che quello avidamente le serbava. Con lei non era stato mai molto
garbato, le aveva più tolto che dato, ma Adria aveva anche imparato a non
lamentarsi.
«Avete problemi? Potete parlarmene, resterà tra noi. Non avete potuto
studiare? Ditemi la verità, non inventate scuse e non mentitemi, mai.»
Le aveva tolto il marito quando era appena diventato tale lasciandola a
trent'anni sola con un neonato da crescere. E lei con ammirevole riserbo
aveva incassato il colpo ed un paio d'anni dopo aveva ripreso il suo lavoro
di insegnante di filosofia in un liceo.
«Siate sempre onesti perché la cosa che più mi fa arrabbiare è la slealtà, io
odio la falsità.»
Per la sua storia gli studenti la compativano e tutti la rispettavano.
Si mostrava dura, forse lo era realmente, ma sotto quella scorza
superficiale si riparava una sorta d'intelligenza emotiva.
«Vi do piena fiducia, non traditela vi prego ed io prometto di non
deludervi.»
Il suo discorso di presentazione risultava chiaro ed efficace.
Era una donna di bell'aspetto, carismatica, ai ragazzi piaceva e le ragazze
la ammiravano. A trentacinque anni Adria doveva barcamenarsi tra il
lavoro, un bambino a cui badare e la solitudine interiore. Il suo desiderio
non era quello di trovare un uomo per sé, ma un padre per suo figlio.
Però continuava a rimandare la ricerca ad un tempo che forse non sarebbe
mai arrivato. Perché intanto il tempo andava, se ne andava per non tornare
più ed Adria lo osservava allontanarsi e si riprometteva d'agire ogni volta
quanto prima. Ma poi ogni volta il tempo andava via, immutato.
Era insoddisfatta, non viveva, lei sopravviveva.
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I.II
Quel mondo, quello dei sopravvissuti, è diverso da quell'altro, dal mondo
reale. Come diversa era sempre stata Delfina fin dalla nascita. Anzi da
prima. Come se sapesse che razza di destino l'attendeva rimandò la sua
venuta al mondo di circa un mese. Volle restar lì, in quel posto ovattato e
comodo il più a lungo possibile, a godere di quella pace del grembo
materno che il destino non le avrebbe concesso.
E quello cominciò da subito a farle guerra, geloso ed offeso ché la bimba
aveva preferito quel ventre a lui, le ammazzò la madre durante il parto.
Così dovette esser accudita da suo padre e il più delle volte accudire lui
perché il pover'uomo cadde in uno stato depressivo da cui non fu più in
grado di risalire. Se ne prendeva cura come fosse lei l'acerba madre e lui,
a ruoli inversi, il suo precoce figliolo, assicurandosi che mantenesse
sempre un minimo di decenza e dignità proprie dell'essere umano;
provvedeva a nutrirlo, a curarne l'igiene e ad abbigliarlo, a volte tentava
pure di intrattenere intriganti conversazioni sperando di suscitarne
l'interesse. Lui pareva starla ad ascoltare, le sorrideva, annuiva,
dissentiva, la osservava, la amava. Ma intanto ricordava la donna che
aveva perduto e che ritrovava nel viso, nei modi, nella voce di sua figlia, e
per questa somiglianza, per lei, non volle mai lasciarsi morire
completamente. Combatteva per continuare anche solo a respirare.
Delfi aveva tatuata una S, la lettera più bella tra le lettere, sulla parte
sinistra della schiena che partiva dall'ultima costola ed arrivava quasi al
gluteo. La lettera di sua madre Sabina e non potendone avere il ricordo
portava dietro quel marchio. A diciassette anni doveva barcamenarsi tra lo
studio, un padre a cui badare e la solitudine interiore.
Era una ragazza ben fatta e ciò che la rendeva ancora più piacevole e
piacente era che non sapeva di esserlo. Non aveva ancora imparato a non
pretendere dal destino ciò che non le spettava, se ne impossessava senza
permesso e a volte quello indispettito le mandava punizioni
sproporzionate al furto subito. Eppure l'esuberanza di Delfi non era cosa
invadente o fastidiosa, la si vedeva giocare con Alessio, uscire, ballare,
schivare i ragazzi e spesso pareva anche divertirsi sul serio.
Ma era insoddisfatta, non viveva, anche lei sopravviveva.
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I.III
«Elio guardami! Fa' quello che ti dico, basta lagne altrimenti ti sculaccio e
sai che non mi piace punirti... E non piace neanche a te.»
«Ma mamma!»
«Niente mamma! Devi andare a letto e prima a lavarti i denti.»
«Ma io non ho sonno! Voglio guardare i cartoni!»
Adria lo fissò severa ed il bambino senza più proteste obbedì.
Aveva un appuntamento galante, di quelli al buio ed era terrorizzata
all'idea di trovarvi qualche pervertito represso o un fallito frustrato. Ma la
sua collega nonché amica di sempre Paola aveva organizzato l'incontro
con quest'uomo perbene, diceva lei, speranzosa di vederla frequentare
finalmente qualcuno.
«Il tuo compito è semplicemente quello di guardare la tv seduta al divano,
lui dorme e di solito non si sveglia fino al mattino... Ad ogni modo hai il
mio nume-»
«Lo so, ho recepito il messaggio, ora va' o farai tardi! Non preoccuparti e
goditi la serata.» disse Paola.
«Sarò di ritorno a mezzanotte, massimo mezzanotte e mezza... Se non mi
vedi tornare allerta le forze dell'ordine.»
Le due sorrisero ed Adria si avviò verso il suo appuntamento.
L'uomo che vi trovò, al contrario di ciò che aveva immaginato, era timido,
impacciato, esile, vecchio e, come se ciò non fosse già troppo per
svignarsela all'istante, anche un po' bruttino. Certo non sarebbe stato
l'uomo ideale, ma lei doveva decidere in base a ciò che fosse meglio per
Elio.
Così si costrinse ad ascoltarlo, lo scrutava e ne osservava gli spruzzi di
saliva che emanava dalla bocca ogni volta che pronunciava la effe. Ci
provò e ci riprovò, ma proprio non riuscì ad inquadrarlo in una figura
paterna e le salì l'ansia al pensiero che sarebbe dovuta restare lì a riparare
i suoi piatti da quegli schizzi parabolici per altri interminabili minuti.
Andò in bagno fingendo un malessere e chiamò Paola chiedendole di
richiamarla e simulare un'emergenza in casa.
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L'amica conoscendone il carattere capriccioso e difficile dapprima rifiutò,
credendo fosse una pretesa per sottrarsi all'incontro. Poi acconsentì, ma in
realtà la richiamò solo dopo che fu passata più di un'ora.
Adria entrò in auto e cominciò a guidare. Prese il cellulare e chiamò
Paola. «Ora mi sente.» pensò a voce alta.
I.IV
«Pronto?»
«Sei pronta?»
«Esco.» disse Delfi attaccando, poi chinandosi sulla fronte del vecchio
padre ci posò un bacio: «Non farò tardi.» promise.
All'uomo non importò quella rassicurazione, lui nel mondo irreale che la
malattia gli aveva costruito intorno si fidava della figlia che credeva
essere una ragazza di indubbia moralità. Continuò a fissare il televisore e
neanche si accorse che uscì.
Alessio l'aspettava infreddolito sullo scalino d'ingresso.
«Delfi ce l'hai? Mica le hai prese sul serio? Perché io ci ho meditato e sai,
i miei non approverebbero...»
«Ahaa cazzo Ale, quanto sei cagasotto?!»
Aprì la sua borsa ed invitò l'amico a sbirciarci dentro.
Alessio aggiustò gli occhiali tondi e neri appiccicandoli alla fronte e spiò.
La bottiglia di crema di whisky risaltò tra i vari oggetti prettamente
femminili. E poi un portassorbenti con dentro dell'erba.
«No no no, io non so se posso...»
«Fottiti Ale, manco fosse eroina... meglio, ce ne sarà di più per me.»
In breve arrivarono smaniosi all'entrata della discoteca dove un buttafuori,
imbalsamato nel suo bel completo nero translucido a braccia conserte,
esaminava ad uno ad uno i ragazzi che varcavano la soglia del locale.
«Tu no.» diceva di tanto in tanto vietando l'ingresso a qualche povero
sventurato che sembrava troppo sciatto, troppo ubriaco, rissoso o anche
solo troppo brutto.
«Te l'avevo detto Delfi, non te l'avevo detto? Il tacco, dovevi mettere il
tacco! E le mie scarpe? Sembra che sono andato a spasso in un pantano...
non ci farà mai entrare vestiti così!»
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«Tu non parlare, ci penso io a fargli gli occhi dolci.» replicò lei.
Intanto la fila camminava e il loro turno si avvicinava.
«Delfi ho un po' di fifa, tu no? Leggi là, è vietato introdurre bottiglie.»
«Prova a ripeterlo più forte, qualcuno in fondo alla via potrebbe non aver
sentito!»
E mentre lo richiamava alla compostezza, un vocione marcato e profondo
li fece trasalire: «Ragazzi!»
I due gli volsero l'attenzione e l'omone li analizzò severo da capo a piedi.
I piedi, già. Si soffermò su questi.
«Le scarpe Delfi, lo sapevo!» sussurrò a denti stretti Alessio.
«Shsh!» lo azzittì svelta l'amica e poi rivolgendosi all'uomo disse:
«Sa com'è? Quando si balla i tacchi sono scomodi.»
L'uomo staccò la vista da quelle scarpette vissute e sporche e non troppo
persuaso con un cenno della testa li invitò ad entrare.
I ragazzi esaltati oltrepassarono l'ingresso, ma ancora lo stesso fastidioso
vocione tornò a tuonare: «Un attimo!»
I due frenarono bruscamente e si voltarono con un punto di domanda
impresso sul viso.
Preso dall'abbigliamento la guardia aveva tralasciato il resto.
«La borsa, ci sono mica bottiglie dentro?»
«Cosa? Bottiglie? Noo... Perché mai dovrebbe portare bottiglie in borsa!»
disse nervoso Alessio e con un gesto netto della mano concluse:
«Che assurdità!»
Delfi gli sferrò una gomitata nel fianco affinché contenesse
quell'atteggiamento da colpevole colto sul fatto.
«Quindi non vi spiace se ci do un'occhiata?»
«Certo che no.» disse Delfi e, sperando che quell'opera volontaria
togliesse ogni dubbio dalle giuste congetture della guardia, si appressò
porgendogli la borsa col braccio dritto in avanti. Ma quando vide che
l'uomo era fermo nell'intenzione di curiosare tra le sue cose si bloccò,
ritirò il braccio a sé e con esso la borsa e disse:
«No! Nella borsa di una signora non si spia!»
Allora l'uomo si posizionò a gambe divaricate tra loro e l'entrata e rigido
negò col capo lentamente prima verso destra e poi a sinistra.
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«Andiamo signora Guardia, ci faccia passare!» supplicò Delfi, cercando
di rendere gli occhi più dolci possibile.
Ma quello con un atto deciso del braccio li scansò permettendo ai ragazzi
seguenti di procedere col test d'ingresso.
«Ahaa! Che si fotta!» disse Delfi e preso l'amico dalla manica della
giacca lo trascinò via con sé.
«Quindici euro di whisky! Secondo te Ale, potevo mai lasciarlo a lui?»
Disse vinta cercando di giustificare quell'amara sconfitta.
E fumava Delfi, mentre aveva già dimezzato la bottiglia.
Qualche tiro e qualche sorso acconsentì a farli anche Alessio, solo per non
dover poi essere costretto a subire gli insulti dell'amica.
«Una signora come me? Concedere a quel buzzurro di infilare le sue
sporche manacce nella mia borsetta?»
Vagabondavano di strada in strada senza meta a passi lenti e sbilenchi.
«Già, non si è mai visto! Avrebbe dovuto pagarti!» disse Alessio
leggermente affaticato mentre sorreggeva l'amica addossandosi il suo
braccio sulla spalla.
«Giusto, pagarmi con dei soldi veri!»
«Sì, proprio così... Ma ora troviamo un posticino tranquillo e ci
riposiamo, ok?»
«Un posticino? Ma qual è il tuo posto nel mondo, Ale? Ci hai mai
riflettuto?»
«A casa mia?»
«A casa tua?! Merda! Un mondo pieno di posti e tu scegli questo cesso di
posto! Devi sbrigarti, il mondo è pure pieno di persone che ne reclamano
uno...»
I due amici smisero di barcollare appoggiandosi al cofano di un'auto.
Delfi spedì un'occhiata alle stelle e continuò:
«Almeno uno, vogliono tutti almeno un posto.»
Alessio rise ma l'amica nel suo sproloquio era seria e seriamente riprese:
«Invece io non lo voglio un posto chissà dove, non uno fisso in culo al
mondo, io voglio che il mondo sia un unico posto, il mio.»
Si attaccò alla bottiglia e mandò giù diversi sorsi.
«Ahaa!» esclamò di gusto.
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Poi si voltò verso l'interno dell'auto e attraverso la nebbia ed il fumo
prodotti dall'alcol e dall'erba nel suo cervello notò le sicure disattivate.
«Entriamo.» disse eccitata.
L'amico non ne colse immediatamente l'intento e solo dopo che la vide
intrufolarsi in auto le strillò: «Ma che vuoi fare Delfi? No!»
Lei ormai era già dentro ed invitava Alessio ad unirsi: «Andiamo, è in
discesa, tolgo il freno a mano, metto a folle e guidiamo fin laggiù!»
Ma l'altro proprio non ne voleva sapere.
«Sei matta, non hai ancora la patente e poi può vederci qualcuno!»
«Fanculizzati, sei sempre il solito pauroso!» batté lo sportello in faccia
all'amico e procedette nel suo proposito.
Giocava Delfi, non sarebbe successo niente di male se il proprietario il
giorno successivo avesse trovato la macchina parcheggiata oltre quella
ripida discesa, due o tre isolati più avanti. Solo uno scherzo innocente,
voleva divertirsi Delfi, niente di più.
Alle 23.56.54 del primo Maggio l'auto partì.
E mentre prendeva velocità e l'adrenalina si metteva in circolo nelle sue
vene, Delfi era stranamente felice.
Passò il primo fortunato incrocio deserto, l'auto accelerò e lei strinse le
mani sul volante. Il vento freddo proveniente dal finestrino semi aperto le
sbatteva sul capo sconvolgendole i capelli.
Passò il secondo incrocio ed un'auto le sfrecciò davanti evitando per poco
la collisione. Il suono del clacson si perse nella notte e nelle orecchie di
Delfi che voltandosi indietro seguì con la vista quel rumore.
Alessio osservò come imbambolato i primi secondi della pazza gara
dell'amica, poi iniziò una corsetta nevrotica verso l'auto in moto.
Delfi rinsanì un po' e stabilì che fosse giunto il momento di pigiare il
freno. Lo pressò leggermente, ma ebbe come l'impressione che il pedale
fosse bloccato. Allora calò più a fondo il piede, mentre l'auto si
avvicinava al terzo incrocio ad una velocità parecchio sostenuta.
Ma poté istantaneamente constatare che non era solo e purtroppo una sua
impressione, il pedale davvero non scendeva. Lo schiacciò con tutto il
peso del suo corpo, ma quello immobile non si mosse.
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Entrò in panico e vide proiettata una luce di fari dinanzi alla sua destra.
Doveva ragionare ed agire e forse non ce l'avrebbe fatta a farli entrambi in
un tempo così ridotto.
L'altra auto sbucò dall'incrocio, certa di avere la precedenza, ad un'ora
tarda, in una strada desolata, non vedendo altri fari se non i propri, certa
di essere l'unica ad attraversare l'incrocio.
Il freno a mano Delfi, il freno a mano. Duro da alzare, lei ci provò invano.
Sterzò, ma era ormai troppo tardi. Alle 23.57.21 il frastuono dello
schianto si infranse nel silenzio della notte.
Alessio realizzò ciò che stava per accadere appena vide il muso dell'altra
auto spuntare da quel dannato terzo incrocio. Ma non poté niente in
quell'attimo se non arrestarsi ad osservare l'incidente. Portò le mani nei
capelli e come inebetito da una sorta di paralisi sentì il suo cuore fermarsi
improvviso. E poi riprendere più rapido, impazzito, in procinto di
esplodergli dal petto e con lo stesso ritmo frenetico prese a muover le
gambe, a correr giù per altri due isolati, respirando a fatica e senza fiato
arrivò dall'amica. Aprì la portiera, la scosse, la chiamò, la richiamò e la
chiamò ancora disperato.
I.V
«Che c'è?»
«Sei una stronza! Che motivo c'era di farmi penare un'altra maledetta ora
con quel rincitrullito bavoso!»
«Ah ah ah! Bavoso? Quanti anni aveva?»
«No, non è un modo per dire vecchio... oh mio dio, vecchio lo era pure,
ma bavoso nel senso che sbavava!»
«Ti sbavava dietro, era un pervertito?»
«No scema, nel senso letterale! Tirava bave mentre parlava!»
«Ma che schifo!»
«Già, dillo a me che mi ha lavato la faccia per un'ora e mezza! Ma poi mi
chiedo, dove li scovi 'sti tipi?»
«Ah ah ah! La verità è che ho letto solo la descrizione che aveva fatto di
sé e dalla foto non sembrava poi così male... dai, la prossima volta mi
impegno meglio.»
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«La prossima volta, non ci sarà una prossima volta.»
Le due risero. «Tutto a posto con Elio?»
«Sì, dorme come un angioletto... tu dove sei?»
«Sono all'incrocio di via Roma, tra cinque minuti arr-.»
«Adria? Pronto?»
Paola non attaccò perché udiva degli strani rumori provenire dall'altro
capo ed era curiosa ed allo stesso tempo preoccupata per ciò che
percepiva stesse succedendo. «Mi senti, pronto? Ci sei, Adria??»
I.VI
«Ci sono, ci sono.»
«Grazie a Dio Delfi, grazie a Dio!»
Delle lacrime iniziarono a sgorgare copiose dagli occhi di Alessio,
piangeva di terrore e di gioia per essersi ravveduto dopo aver creduto
l'amica ormai morta. «Come stai? Come ti senti?»
«Bene... sto bene.»
«Riesci ad uscire? Ti aiuto.»
Solo un po' tumefatta per l'azione dell'airbag, Delfi aiutata dall'amico uscì
dall'auto e le ginocchia cedettero, l'organismo non resse lo scoppio
d'adrenalina, di panico e di alcol. In quella posa, a gattoni, si voltò verso
le auto e riuscì a riconoscerne solo la parte posteriore, mentre ambo i
musi erano diventati delle lamiere accartocciate.
Si alzò repentina e si diresse verso l'altra auto.
«Che fai? Dobbiamo andare, c'è qualcuno a quella finestra, dobbiamo
scappare prima che ci vedano, che ci riconoscano...»
Ma Delfi senza far caso alle parole di Alessio aprì lo sportello del
passeggero e vi trovò sul sedile accanto una donna sui trentacinque anni
incosciente. Cercò di tirarla fuori ma era incastrata.
Allora cercò di liberarle le gambe, la sinistra non si distingueva più, ormai
divenuta tutt'uno con la portiera ammaccata in dentro, una poltiglia di
sangue plastica e metallo. Poi cercò di slacciarle la cintura, notò con le
lacrime agli occhi un cellulare finito nel portaoggetti e le sembrò che
parlasse, che emanasse delle urla disperate come se chiamasse qualcuno,
ripeteva un nome, Aida forse.
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«Andiamo! Sento le sirene, se ci trovano qua ci arrestano, è stata colpa
tua, l'hai uccisa cazzo! L'hai uccisa!»
A quelle grida febbricitanti Adria si rianimò, solo per pochi secondi,
quanti bastarono però per rendersi conto che sopportava il peso di
qualcosa addosso, qualcosa marcato con uno strano simbolo, distinse un
fianco, forse qualcuno non qualcosa, che allungandosi sopra di lei fece
scivolare la propria maglia in su.
Alessio acciuffò l'amica dai pantaloni e la tirò a sé rendendo ancora più
visibile il tatuaggio.
«Fanculo dobbiamo fuggire, non possiamo farci trovare qua, lo capisci?»
Ma Delfi col cuore in pena credeva di dover e poter rimediare al tragico
errore, credeva che sarebbe riuscita a salvarla.
«Sai cosa? Fottiti! Sì fottiti, sei fumata e ubriaca e l'hai uccisa. Spiegalo tu
alla polizia, che credi? Finirai in prigione cazzo, in prigione! Io me la
filo!»
A quelle crude parole Delfi afferrò finalmente la realtà dei fatti, si levò
dal corpo della donna e mentre il suo viso sfiorava quello di lei, le volse
un'occhiata e vide lo sguardo della donna fissarla per un breve istante.
E poi spegnersi.
Ristette un attimo ed indietreggiò lentamente mentre il suono delle sirene
si faceva sempre più prossimo. E proprio quando si girò per correre via,
proprio allora un boato assordante esplose dall'auto rubata mandandola in
fiamme. Si trattenne e si voltò ancora verso la donna ed il riflesso del
fuoco la fece risplendere.
Pensò che questa le aveva visto il volto, anche se in stato di shock, ed
avrebbe potuto identificarla. Allora forse se fosse morta...
Allora forse non avrebbe potuto identificarla se fosse morta.
E la lasciò lì, a bruciare.
Adria al botto rinvenne di nuovo ed in quello stato di confusione credette
di vedere una ragazza illuminata dalle fiamme che si dileguava.
Poi fu solo calore.
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CAPITOLO II
II.I
Delfi cambiò.
Il trauma che la investì le rivoluzionò gradualmente ogni cellula
dell'organismo.
Anelava la fine di quegli ultimi insopportabili mesi di scuola prima delle
vacanze estive e ne subiva il peso opprimente, come quello che gravava
sulla sua coscienza. Si nascondeva tra i banchi, in bagno, in cortile,
ovunque ci fosse un luogo ristretto dove rintanarsi. Paranoica sentiva
addosso la vista incriminante di tutti, come se sapessero quale fosse il suo
peccato, la sua vergogna. Tacitamente portava dentro quel segreto,
timorosa che un'azione, una parola, anche solo un'occhiata sbagliata
potesse rivelarlo. Calibrava ogni mossa, ogni respiro cercando di
produrne lo stretto necessario, di non attirare l'attenzione e di essere
soltanto un puntino minuto nel buio infinito.
«È passato più di un mese ormai, tra neanche due settimane finisce la
scuola... Delfi devi voltare pagina.»
Lei lo guardò appena e proseguì nel suo tragitto verso l'aula.
«Quello che è stato non possiamo cambiarlo, arriva l'estate, non
scervellarti, pensiamo solo a spassarcela come sempre.»
«È facile per te non scervellarti Ale, tu sei innocente.»
«Andiamo, in fondo è andata bene anche a te, no? Ora avresti potuto
essere al fresco.»
«Fottiti!»
Arrivata sull'uscio della sua aula la ragazza si volse all'amico e sospirò.
«Che racconta tuo padre?»
«Lunedì prossimo inizia la fisioterapia, fra due settimane esce
dall'ospedale e fra tre entra al centro di riabilitazione.»
Delfi appoggiò il capo al telaio della porta ed alzò lo sguardo in su.
«Lo sai, mio padre è solo un infermiere, non sa poi molto, però
l'amputazione che ha subito, bhè dice che avrà bisogno di una terapia
psicologica più che altro.»
Allora Delfi chiuse le palpebre ed una lacrima le attraversò lo zigomo.
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«Ehi Delfi, ascolta! Non serve rimuginare e non serve neanche
confessare. Ti metterebbero in galera e tu non hai un debito con la società,
hai un debito con lei. È a lei che devi rispondere, non alla legge... così ho
riflettuto, al centro cercano sempre volontari, perché non fai domanda e...
sì insomma, estingui il tuo debito facendole del bene. Sai, per rimediare al
male che le hai fatto, così magari poi... magari la tua coscienza si calma
un po'.»
«E se vedendomi mi riconosce?»
«Se avesse saputo riconoscerti l'avrebbe fatto già da un mese. Ha
dichiarato solo che ha visto fuggire una ragazza, ricorda il tatuaggio di un
serpente... tu copri bene il fianco e vedrai che andrà tutto liscio.»
«Non so Ale, ho paura.»
«Ma se continui a lacerarti dentro la situazione non migliora...»
Delfi affogò in una dicotomia di concetti, combattuta se liberarsi l'anima
da quelle torture prestando servizio di volontariato o condannarla ad
un'eternità di supplizi infernali.
«L'importante è che non perdi di vista il tuo scopo, durerà solo pochi
mesi, non oltre...» intanto Alessio procedeva col suo discorso di
persuasione, «mi raccomando, dovrai mantenere un profilo
professionale.» tenne a precisare. «Pensaci... provaci.»
II.II
«Ci ho pensato e... no, non voglio.»
«Andiamo Adria, perché devi essere sempre così negativa?»
«Tre mesi chiusa in un centro di riabilitazione non li sopporterei.»
«Forse non hai ben inteso che non sta a te scegliere.»
«Ed Elio? Non può stare cinque mesi senza sua madre.»
«Ma se continuerai a vederlo tutti i giorni... E poi con me sta benissimo,
siamo diventati amici ormai.»
«Non so Paola, ho paura.»
«Ah, non dire sciocchezze! Tu ci andrai, non si discute.»
Parlava così mentre sollevava l'amica dal letto e l'aiutava a sistemarsi
sulla sedia a rotelle.
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«Ho paura di non farcela, di sentirne la mancanza.» e fissò quell'arto non
aveva più.
Paola ristette un istante, patì la sua sofferenza e si sentì impotente come
negli ultimi mesi quando aveva dovuto affrontare il coma, l'operazione, la
lenta convalescenza dell'amica senza poter concretamente dare il proprio
supporto. «Ti hanno chiamato dalla caserma?»
«L'ultima volta che mi hanno chiamato è stato tre settimane fa: "Stiamo
facendo il possibile, le faremo sapere, sarà fatta giustizia." Col cazzo!»
«Possibile che non riescono a procedere con le indagini?»
«Mi hanno detto che non possono spogliare i fianchi di tutte le ragazze
del paese per vedere se sono tatuate.»
Adria non aveva ancora imparato ad orientarsi nel labirintico corridoio
dell'ospedale, sempre identico ad ogni svolta si diramava buio e triste in
ogni direzione e di rado spuntava qualche insegna a far luce sul tragitto da
tenere.
«L'unica testimone è una vecchia bacucca insonne che crede di aver visto
gli alieni rapire qualcuno, al diavolo!... Quella piccola bastarda non può
rimanere impunita.»
Il rumore stonato prodotto dalla carrozzella ogni volta che il perno della
ruota sinistra compiva un giro completo andava ad intromettersi nella
profonda pausa riflessiva di Paola. Ad ogni modo riuscì a portare a
termine il suo intimo ragionamento e sentì lo scrupolo di comunicarlo
all'amica. «E se fosse una delle nostre alunne? La più testa di cazzo
magari... c'è quella Rocchina che non mi ha mai convinto tanto, con
quella frangetta sugli occhi, tutti quei piercing e quei tatoo macabri...
posso chiederle di svestirsi.»
«Con tutte le ragazze che ci sono in città, proprio Rocchina... e comunque
non andrà bene in chimica ma con me fa degli intensi discorsi filosofici.»
Le due donne frenarono. Adria gettò un'occhiata dinanzi a sé e sospirò.
"Fisioterapia." Lesse.
«Facciamolo.»
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II.III
«Sicura di volerlo fare?»
Lei tacque per diversi secondi. In realtà no, non ne era certa.
Anzi, forse era certa del contrario. Già, non voleva farlo, aveva paura.
«Cosa ti spinge a farlo?»
"Sono costretta." Avrebbe risposto prontamente.
Il ragazzone che la interrogava era sudato, stanco, stressato. E quelle
mancate risposte lo rendevano ancora più spazientito.
«Ehilà? C'è nessuno?»
Delfi gli volse un'occhiata stordita e disse: «Sì.»
«Sì cosa? Ci sei? Ok, ci sei. Guarda tesoro, c'è afa, son dieci ore che
lavoro ed ho davvero bisogno di una doccia, per non dire che l'ultima cosa
che ricordo di aver mangiato sapeva di pappina per vecchi. Detto ciò, sai
cosa? A me non importa davvero il motivo per cui vuoi fare volontariato,
avrai sicuramente i tuoi buoni motivi e puoi anche tenerli per te... Ma
come ti dicevo, qui abbiamo davvero bisogno di una mano, quindi
qualsiasi cosa ti abbia spinto qui oggi, benvenuta!»
Delfi ascoltò quelle parole e d'un tratto si ritrovò imprigionata in qualcosa
di cui non aveva ancora assimilato a pieno il significato.
«Metti una firma qua...»
Delfi firmò.
«Un'altra qui...»
Poco male però, il ragazzone le aveva risparmiato una spiegazione che
altrimenti non avrebbe saputo articolare.
«I tuoi documenti restano a me...»
Perché volontariato? Perché, bhè, nemmeno a lei era ben chiaro. Forse per
la convinzione che attraverso quell'azione di beneficenza avrebbe
finalmente potuto espiare le sue colpe, la sua coscienza smacchiata e
ripulita le avrebbe così permesso di dormire serenamente e l'equilibrio del
suo universo personale si sarebbe ristabilito. Certo il ragazzone non ne
avrebbe afferrato la sottigliezza.
«Ecco fatto! Qualche richiesta particolare?» e con questa domanda siglò,
più che un invito, una pretesa ad abbandonare la stanza.
La ragazza si levò dalla sedia, «No.» disse.
16
Allora lui si alzò e s'indirizzò alla porta, pose la mano sulla maniglia e la
aprì.
Lei lo seguì con lo sguardo e lo vide farsi aria sventolandosi in faccia i
suoi documenti a mo' di ventaglio, impaziente di disfarsi di lei.
E meditò ad alta voce: «Certo che ce l'ho una richiesta.»
«Come?»
«Sì, s'è possibile, sì insomma, se non richiede molto disturbo, potrei
seguire un paziente in particolare?»
«E per quale motivo?»
«Bhè ecco... lei la conosco, è professoressa nella mia scuola, no, non è la
mia professoressa, però forse anche lei mi conosce... se fosse possibile
vorrei occuparmi di lei.»
«È della professoressa Tosca che parli?»
«Sì.»
«Sai, forse non dovresti iniziare con un caso così complesso.»
«La prego, mi faccia almeno provare.»
Il ragazzone traspirava perplessità e seccatura da tutti i pori della sua
grassa mole, cacciò dalla tasca un fazzoletto sudicio e si asciugò le gocce
di sudore che lente colavano giù dalle nude tempie. E stanco disse:
«D'accordo, lo propongo a lei e sento cosa ne pensa... non è una tipa
facile quella lì.»
II.IV
«D'accordo.»
«Scusi? A lei sta bene?»
«Senta devo stare imprigionata qui per tre mesi, i ragazzi dopotutto sono
il mio lavoro, la mia vita... mi ricorderà un po' cosa ho lasciato fuori
queste mura. Poi se fa volontariato non può che essere una ragazza
perbene, non credo mi farà arrabbiare... anzi magari mi distrae da tutto
questo schifo.»
«D'accordo, come vuole, vado a chiamarla allora.» disse lui ormai
rassegnato alle stranezze di quel posto che a fatica dirigeva.
17
Adria roteò la carrozzella e si avvicinò alla finestra, guardò fuori, il
giardino, le siepi e qualche panca sparsa qua e là su cui erano piazzati
uomini e donne, diversi. Diversi non da lei. Dagli altri.
A tutti mancava qualcosa, tutti con un trauma tragico alle spalle si
trascinavano a stento in quello stato.
Lì si rese conto di essere entrata a far parte di quel mondo anche lei,
sempre stata disadattata, ora anche disabile. «Cazzo!» esclamò rabbiosa.
«Sì, si sfoghi pure!»
Adria ruotò.
«Lei è la ragazza di cui le parlavo, Delfina Moggi.»
Delfi fece un gran respiro e varcò quella soglia. In mente contò "uno, due,
tre", poi cercò di alzare lo sguardo alla donna, ma non ci riuscì.
Allora contò più veloce, "unduetrè", alzò lo sguardo senza pensare più.
I loro occhi s'incrociarono come l'unica volta prima di quella, quando
disperata Delfi l'abbandonò nell'auto in contro al proprio destino.
Tremante nel corpo e paralizzata nella mente, il suo blocco fu finalmente
sciolto da Adria. «Non ti conosco.» disse «Non ti ho mai visto a scuola.»
La ragazza emanò un sospiro interiore, non la conosceva, non la
riconosceva. Ma ancora troppo scossa non disse niente.
«Sembra assente e di poche parole, e lo è veramente... le piacerà.» disse il
ragazzone all'insegnante. «Fatte le presentazioni ho fatto tutto, posso
tornare a casa... signore è stato un piacere! Per qualsiasi cosa rivolgetevi
agli inservienti.» ed uscì di scena.
Delfi se ne dispiacque. Ora sola con la sua vittima avrebbe dovuto trovare
l'adeguata intraprendenza e cominciare a comunicare.
«Quindi Delfina? Che nome.»
«Delfi, può chiamarmi Delfi.» disse cercando di camuffare quel tremolio
nel timbro di voce.
«E tu dammi del tu e chiamami Adria, non sono la tua insegnante. Magari
diventiamo amiche.»
La ragazza scostò la vista dalla sua faccia che precipitò casualmente sulle
sue gambe. Sulla sua gamba. Ed ingoiò un boccone amaro, peggio, aspro,
peggio, acido.
«Quanti anni hai Delfi?»
18
«Quasi diciotto.»
«Hai finito il quarto anno allora? Sei nella classe della professoressa
Venturi?»
«Sì.»
«Stronza la Venturi, vero?»
«Un po'.» disse.
«Un po'? Dai, devi essere onesta con me, non vado mica a dirglielo! È più
che stronza, è una vipera!»
Delfi si sforzò di sorridere. Doveva sembrare normale, una normale brava
ragazza intenta nella sua opera di bene.
«Qual è quindi il tuo compito qui?»
«Devo spingere la sedia e aiutarla ad alzarsi... se le serve qualcosa me lo
chieda pure. E devo farle compagnia, quattro ore al giorno, o mattina o
pomeriggio, come preferisce.»
«Del tu Delfi, dammi del tu... punto primo: non amo ripetere, non farmelo
fare.»
Delfi annuì.
«Ripeto già troppe volte la stessa lezione a scuola da anni e con mio
figlio. Altrove sarebbe bello se riuscissero a cogliere quello che dico la
prima volta, dopotutto non mi esprimo in modo così complicato.»
«Scusi... voglio dire scusa.»
Adria rilevò il timore della ragazza, forse eccessivo. O forse no.
In fondo aveva di fronte un'invalida, una della peggior specie, petulante e
bisognosa d'aiuto anche solo per reggersi in piedi.
«Bene, sei al mio servizio.» fece cenno a Delfi di accomodarsi e riprese:
«Fa' come ti viene più comodo, mattina o pomeriggio per me è
indifferente.»
E si osservarono per qualche istante.
Allora la ragazza imbarazzata ruotò la vista lentamente in ogni direzione
fingendo di interessarsi all'arredo scarno della camera. Adria la scrutò
ancora pochi secondi e Delfi pensò che forse stesse per identificarla.
Allora riposò lo sguardo su di lei.
La donna fece un piccolo scatto in avanti con la sedia ed emise un breve
suono come se stesse per pronunciare qualcosa. Poi si bloccò.
19
La ragazza ebbe un fremito. L'aveva riconosciuta.
«Ti riconosco.» disse.
Inebetita Delfi non fiatò. Non perché volle mantenere il silenzio, ma
perché un groppo in gola le ostacolava l'espirazione.
«Mi sembravi un viso conosciuto.»
La ragazza si alzò lentamente con l'intenzione di fuggire lontano in un
altro mondo e non fare mai più ritorno.
«Tuo padre è Armando, giusto?»
Delfi sospirò per la seconda volta in pochi minuti, il suo cuore ormai
stanco di ricevere colpi gratuiti reclamava un po' di tranquillità.
Accennò un timido sì col capo.
«Tua madre, la conoscevo sai, Sabina. Da piccole eravamo amiche, lei
aveva qualche anno più di me, l'ammiravo... tu le somigli tanto, ecco
perché mi ricordavi qualcuno.» disse.
Improvvisamente la ragazza sentì il viso andarle a fuoco e a stento
trattenne qualche lacrima.
«Dimmi Delfi, tra i tuoi compiti c'è anche quello di portarmi a spasso in
giardino?»
II.V
«No, non c'è tra i compiti.»
«Nessuna versione di greco?» chiese Delfi.
«Né di latino. Non ricordi, il professore disse che l'estate prima di quella
della maturità voleva farcela passare in libertà.»
«No, non ricordo Ale, lo sai che nelle ultime settimane di scuola uno
zombie sarebbe stato più reattivo di me.»
I due amici passeggiavano senza fretta fra i raggi cocenti che filtravano
attraverso i rami di un rumoroso parco comunale. Si adagiarono su una
panchina mentre dei bambini accaldati scorrazzavano intorno intralciando
la loro vista.
«Allora? Com'è andata?»
Delfi ristette, con molta calma sospirò. E il rumore angosciato di quel
sospiro si perse tra le urla allegre dei bambini.
20
«Ho paura Ale, non ho mai avuto tanta paura. Nemmeno quando gli
assistenti sociali hanno minacciato di rinchiudere mio padre e spedirmi in
una casa famiglia.»
Alessio portò il capo tra le mani e poggiò i gomiti sulle gambe.
«Posso sentirlo quello che provi Delfi. È solo... è solo che non so come
aiutarti. Mi fa stare in pena vederti stare in pena.»
«Cazzo, se solo t'avessi ascoltato! Ma no, io no, devo fare tutto ciò che mi
passa per la testa sennò non sono soddisfatta!» si alzò e nervosamente
cominciò a muoversi da parte a parte richiamando lo sguardo dell'amico.
«Eri ubriaca e fumata... non ragionavi.» le disse.
«E dovrebbe essere una giustificazione? No cazzo, è un aggravante! Sai
cosa Ale? Vaffanculo! Sì, proprio così, ben ti sta e vaffanculo a te, Delfi,
te lo meriti, ti meriti tutto il male che c'è e tutto quello che hai avuto
fin'ora, tua madre, tuo padre, la tua infanzia ed ora questo!»
Alessio si alzò e cercò di afferrare l'amica per placarne lo sfogo, ma lei
sfuggente continuò ad inveire contro sé stessa.
«Povera bastarda, mi hanno teso una trappola ed io ci sono cascata con
tutti i piedi... Mi hanno punito in anticipo Ale, come se già sapessero cosa
avrei combinato.»
«Andiamo Delfi, calmati.» finalmente la afferrò.
Lei non riuscì a trattenere quel paio di lacrime che le rimasero
intrappolate tra le palpebre, si lasciò abbracciare da Alessio e
nell'indifferenza generale vide qualcosa, qualcuno. Si asciugò le lacrime e
si rivolse all'amico. «Sono loro.»
«Chi?» chiese quello.
«Loro, il figlio e l'amica di Adria, la professoressa Gervasi.»
Alessio si girò e vide un bambino di circa sei anni giocare a calcio con
una signora, la professoressa di chimica dell'altro corso.
Stettero incantati ad osservarli, il bambino sembrava felice, spensierato.
Tirava calci alla palla e talvolta esclamava: "Gol!"
La donna la lasciava passare sostanzialmente per reale incapacità di
pararla. Il bambino era abbastanza bravo tanto che d'un tratto sferrò un
calcio così potente da mandare il pallone in prossimità dei due ragazzi.
«Palla!» vociò il bambino.
21
«Palla!» ripeté la donna.
Delfi la guardò rotolarle al fianco e poi impacciata, di scatto, si volse di
schiena.
Alessio rimase a guardare l'amica e per poi rimediare a
quell'atteggiamento che doveva sembrare abbastanza bizzarro, intraprese
una breve corsetta per recuperare la palla.
Delfi strinse i pugni e sbarrò gli occhi. Aveva paura. Di nuovo, ancora.
Paola con sguardo stranito e fisso sulla schiena di Delfi si avvicinò ad
Alessio che gentilmente le porgeva la palla.
«Grazie.» disse ed indirizzò la vista ad Alessio.
E mentre fece per andarsene, si bloccò un attimo. «Ti conosco?»
Delfi furtivamente prese a muovere passi piccoli e lenti per allontanarsi
dalla scena. Che fortuita coincidenza sarebbe stata avere un incontro
ravvicinato con le persone più care della donna che aveva abbattuto e che
ora cercava di aiutare a rialzarsi.
Alessio stette per negare ma la donna lo anticipò:
«Prima A. Feci supplenza a Febbraio.»
Delfi accelerò i passi.
«Non dimentico mai un volto.»
E mentre Delfi si allontanava sentì dire da Alessio:
«Giusto professoressa Gervasi, me ne ero scordato!»
Ed era vero.
Paola tornò ad osservare quella strana ragazza che sembrava quasi stesse
fuggendo da chissà cosa. Poi accennò qualcosa col capo e concluse:
«Buona giornata.»
Alessio le mostrò un falso sorrisetto di consenso e dopo che la
professoressa gli diede le spalle, sospirò sollevato e si volse in cerca
dell'amica per raggiungerla. «Ma che t'è preso? Sei impazzita?»
Delfi proseguì impassibile e le parole di Alessio si persero nel trambusto
della sua mente.
«Delfi, se volevi attirare la sua attenzione ci sei riuscita benissimo!»
«Ale no, non ce la faccio, mollo tutto, non riesco a recitare io non ne sono
capace, non è nella mia natura!»
«Ma che dici?»
22
«Portare la palla e fingere di sorridere al figlio della donna che ho
mutilato è troppo per me.»
Continuava a camminare Delfi, colpita da funesti concetti che come razzi
le esplodevano nel cervello causando cenere e rovina.
Ed Alessio stufo di correre dietro all'amica da ormai troppo tempo si
fermò: «Sai cosa, Delfi?» strillò. «Hai ragione, vaffanculo! Vaffanculo a
te Delfi, fai quello che ti pare e sì, te lo meriti, ti meriti tutto!»
Delfi a quelle parole rallentò, si arrestò e si girò all'amico.
«Hai l'occasione di rimediare, il destino te l'ha donata e tu che fai? Ci
rinunci? Male, perché non fa mai bene sputare in faccia al destino, mai!»
concluse Alessio. Il povero ragazzo raramente si agitava e quando
succedeva il suo corpo per nulla abituato reagiva tremolando.
Si volse verso l'uscita del parco e si avviò.
Ma Delfi non poteva permettersi di perdere il suo migliore amico, l'unico.
«Aspetta.» gli disse debolmente.
II.VI
«Cosa devo aspettare di preciso?»
«Voglio presentarti la volontaria che mi hanno affiancato. Si occuperà di
me, non immagineresti mai chi è!»
«Oddio, non dirmi che è una delle nostre alunne.»
«No, altro corso.» e mentre spiegava Adria cercava di imparare ad alzarsi
dalla carrozzella con l'aiuto delle stampelle. «Non credo tu la conosca,
però conoscevi... conoscevamo i genitori.»
Paola la osservava con attenzione mentre tentava di erigersi sui due
bastoni senza alcun risultato.
«La ricordi Sabina?»
«Chi?» e così chiedendo, corse in suo aiuto dopo che una stampella
l'aveva tradita scivolando sul pavimento e facendola ricadere col sedere
sulla sedia.
Ma Adria la allontanò. E Paola se ne risentì.
«Devo farcela da sola.» disse Adria cercando di rimediare.
«Forse dovresti cominciare col carrello a quattro ruote.»
23
«Andiamo Paola, non sono una novantenne... le stampelle sono più che
sufficienti.»
Paola aveva tentato in tutti i modi di rendersi utile negli ultimi due mesi,
conosceva l'amica da troppo tempo per bersi la storia che ce l'avrebbe
fatta senza tanti drammi a superare anche quest'ultima beffa che il destino
le aveva giocato.
Sapeva che ce l'avrebbe fatta, fino ad allora Adria ce l'aveva sempre fatta,
ma con quanto patimento. Soffriva nel vedere l'amica arrancare e cercare
di nascondere quel dolore a suo figlio, a lei. Anche in un ambito così
difficile Adria si preoccupava per i suoi cari e non permetteva che questi
si preoccupassero per lei. Ma Paola sapeva leggere nel suo cuore.
Aveva rinunciato alla palestra per badare ad Elio, sacrificava il poco
tempo che aveva a disposizione col marito per far visita all'amica in
ospedale, anche solo per sedersi sulla sedia a fianco al suo letto ed
ascoltarla dormire. Le voleva bene e sapeva di essere ricambiata.
«Dicevo... Armando e Sabina, li ricordi?»
«Ah, Sabina sì, sì, la ricordo... morta di parto. E Armando pover'uomo,
che famiglia sfortunata.»
«Bhè, la bimba ora ha diciotto anni, è lei la mia volontaria.»
«Ah sì?!»
In quella domanda-esclamazione Adria percepì un misto di incredulità e
stupore.
«Che c'è? Cosa non ti convince ora?»
«Niente... è solo che mi chiedo, cosa la spinge a farlo? Fa volontariato già
col padre ventiquattro ore su ventiquattro, a diciotto anni non si stufa?»
«Forse è semplicemente... buona?» Adria finalmente riuscì a levarsi e a
mantenersi in equilibrio per alcuni secondi.
«Troppo!... Buona.» precisò diffidente Paola.
«Magari proprio perché lo vive col padre sa che c'è gente che ha
bisogno.»
Paola corrugò il volto in un'espressione non troppo convinta.
Mentre Adria, intenta nella sua impresa, volle osare allungando la gruccia
sinistra in avanti, poi quella destra. E restò così, a ponderare sul da farsi.
«Ora Paola, ora come faccio? Devo saltare in avanti?»
24
«Che vuoi che ne sappia! Non te l'hanno spiegato i fisioterapisti?»
«Ahaa!! Quei due rincitrulliti. Sanno solo gridare quando non riesco a
mettermi in piedi. E mi fanno sfiancare con stupidi esercizi di resistenza
che servono a rinforzare i muscoli... dicono loro.» ritirò indietro la gruccia
sinistra, poi quella destra, «Voglio sapere se vedrò mai risultati!» e si
lasciò cadere seduta sulla carrozzella. «Ho capito che se faccio da me
faccio prima e meglio.»
«Non fare il fenomeno come al solito.» Paola guardò l'orologio, recuperò
la borsa. «È tardi, non posso più aspettare... non è una brava volontaria se
fa tardi.»
«Non ha un orario, non è un lavoro Paola.»
«Lo so.» disse incamminandosi verso la porta. «Ah! Un'altra cosa.» si
girò e le sorrise affettuosamente, «Permetti agli altri di aiutarti.» e con un
cenno deciso del capo la salutò.
E mentre percorreva il lungo corridoio, Paola pensava che fosse capitata a
lei una disgrazia del genere, se avesse perso il marito, ma se anche avesse
perso solo la gamba, forse non avrebbe avuto tutta quella forza di
rialzarsi, nel senso letterale, ed imparare di nuovo a camminare.
Sarebbe stata arrabbiata. Con chi l'aveva ridotta così. Non si sarebbe data
pace finché non fosse riuscita a scovare il colpevole. E a punirlo.
«Razza di piccola bastarda!» quella riflessione si mutò in voce e la donna
diede un'occhiata intorno per controllare se qualcuno l'avesse udita. E si
trovò faccia a faccia con Delfi.
La ragazza la guardò solo pochi istanti, quanti bastarono per realizzare chi
fosse. Poi levò subito gli occhi fingendo di interessarsi al cellulare e
continuò ad andarle in contro mentre sperava che l'altra non la notasse.
Ma Paola la vide e la osservò avanzare finché non si incrociarono e
procedettero ognuno nella direzione opposta a quella dell'altra.
Allora Paola girandosi la seguì con la vista e quella schiena, quella nuca,
quella camminata, quella fuga le ricordarono qualcosa. I volti possono
risultare anche semplici da memorizzare, ma non il retro della testa.
Delfi proseguì con quella sensazione addosso, quella che non l'aveva più
abbandonata da ormai due mesi, quella che tutti, persino gli sguardi dei
quadri sulle pareti, la accusavano di essere un'infame.
25
Poi arrivò sull'uscio del suo caso umano e prima di valicarlo si volse
indietro a scandagliare il corridoio e vide che Paola era scomparsa.
Non si era soffermata a guardare in che stanza era diretta, forse non
l'aveva notata. Poi entrò.
«Ehi Delfi! L'hai mancata per poco.»
«Cosa?»
«Paola la mia amica, la professoressa Gervasi, hai presente?»
«Sì, certo... ah! Non l'ho incrociata, o forse sì, ma non ci ho fatto caso, ero
impegnata a whatsappare con un'amica...» Alzò il cellulare e le sorrise.
«Sarà per la prossima volta.» disse Adria. «Devi conoscerla, è un
portento! Anche se a scuola ne parlano male, è davvero in gamba.»
E Delfi che aveva imparato nei giorni precedenti a costruire dialoghi
anche su stupide frasi fatte per evitare di cadere in imbarazzanti silenzi,
disse: «Non ne parlano male a scuola... non di lei.»
«Ah no? E di chi allora?»
«Di nessuno.»
«Di me forse?»
«Di te? Certo che no. Sei un'eroina per i ragazzi, lo sei sempre stata.»
«Dici?» Adria le si avvicinò con la sedia e con aria seria le chiese:
«E che dicono di me? Avanti sentiamo.»
La ragazza esitò alcuni secondi e poi disse: «Solo cose belle.»
«Andiamo non fare la fifona, nella vita bisogna sempre avere il fegato di
dire la verità, di esporre le proprie idee... e tu ce l'hai questo coraggio?»
Delfi la fissò un attimo. Per quasi diciotto anni aveva creduto di avercelo,
ma no, non ce l'aveva. Perché se lo avesse avuto le avrebbe detto:
"Sono stata io. Se sei monca è colpa mia."
Invece le stava di fronte a recitare la parte della ragazza dabbene che fa
volontariato solo per spirito di beneficenza.
No, non aveva questo coraggio.
Farfugliò qualcosa di incomprensibile che suonò all'incirca così:
«Che sei una stronza...»
Poi si ravvide e scandì distintamente: «ma di quelle buone.»
«Una stronza buona?» chiese sorridendo Adria.
26
«Sì, tosta e giusta, i ragazzi ti rispettano, insomma... una che non si lascia
fregare.»
Eppure lei era lì a fregarla spudoratamente, nonostante quella appena
enunciata fosse effettivamente una sua personale descrizione.
«Non mi faccio fregare? Mi rispettano? Bello sentirselo dire.»
Adria sognò un po' ad occhi aperti. Non aveva mai cercato di ottenere
l'approvazione degli studenti, era sempre stata semplicemente sé stessa.
Evidentemente sé stessa piaceva ai suoi alunni, piaceva a tutti.
«Davvero i ragazzi mi vedono così?»
Delfi confermò.
«E tu come mi vedi?»
II.VII
«Ti vedo più serena... Avevo ragione? Stare in clinica ti fa bene.»
«Dici? Credi mi faccia bene?»
I due amici muovevano le braccia a scatti meccanici in ogni direzione
puntandole dritte contro lo schermo piatto di un televisore, mentre
stringevano tra le mani una pistola bianca. «Attento là!»
«Brutto marziano del cazzo muori!»
Sparò una raffica di colpi virtuali che finirono dritti sul capo ovale
dell'extraterrestre maciullandogli il cervello.
«È solo che ultimamente ci rimugino meno... cerco di rimuginarci meno.»
spiegò Delfi mentre concentrata cercava di evitare i raggi spaziali
indirizzati contro di lei attraverso il monitor. «Ma non è che mi faccia poi
così bene mentire tutti i giorni a quella donna.»
«Mentire? Perché mentire? Ti ha mai chiesto "sei stata tu?" e tu le hai
detto di no?»
Spruzzi di sangue verdastro schizzavano dall'interno del videogioco sul
display ogni volta che uno dei due ragazzi abbatteva un alieno.
«Sai che intendo...»
Delfi ed Alessio stavano in piedi di fronte al televisore, ma parevano
starci realmente dentro, assorbiti dal gioco, intenti a combattere quei
dischi volanti, cercando di schivare i missili interstellari che questi
scagliavano contro i personaggi controllati dai ragazzi.
27
«Dovrei evitarla come la peste ed invece sto lì a tenerle compagnia tutti i
giorni.»
«Ahaa Delfi, di nuovo con 'sta storia... sei pesante però, eddai piantala,
dacci un taglio!»
E mentre si distraeva per rimproverare l'amica, Alessio sbagliò mira e
qualche sparo della scarica di quelli destinati all'alieno ferì Delfi.
«Ehi sta' un po' attento!»
«Scusa non l'ho fatto apposta.»
Il personaggio di Delfi ora si trascinava con una gamba spappolata.
Allora Alessio si volse verso quella figura ed inaspettatamente, senza
nessuna logica, la finì con un'altra mitragliata.
Il corpo virtuale dell'amica simulava piccoli balzi isterici ad ogni
proiettile ricevuto, come in preda ad una crisi epilettica nonostante fosse
ormai esanime. Sbatté contro un muro e si afflosciò a terra, mentre pezzi
di organi ridotti in poltiglia restavano appiccicati alle rovine della città
dove si svolgeva il gioco.
Attaccò una musichetta lugubre ed Alessio portò l'arma bianca alla bocca,
soffiò sulla canna e sfoggiò un sorriso colmo di compiacimento all'amica.
Delfi sconcertata lo fissò a bocca aperta e con le mani al cielo chiese:
«Perché?»
«È così che si fa con i cavalli.» disse lui.
Una scritta insanguinata comparve ad intermittenza sullo schermo:
"Sei morto."
«Sei un cretino! Si suppone che io e te dovremmo essere dalla stessa parte
contro gli ufo!»
«Eri diventata solo un peso, non potevi più combattere!»
«Delfi.»
I due si girarono simultaneamente.
«Papà.» disse Delfi. «Scusa ti abbiamo svegliato.»
Era sulla soglia ad osservare quella morte violenta e i due ragazzi rapiti
dal gioco non si erano accorti che forse li osservava da troppo tempo. Poi
avanzò alcuni passi e si piazzò di fronte a quella scritta rosso scarlatto.
E lesse: «Sei morto.»
«Papà forse è meglio se torni a riposare.»
28
Ma quello visibilmente agitato si diresse verso la finestra, guardò in su e
disse: «Stanno arrivando Delfi, devi nasconderti.»
Alessio guardò titubante l'amica, non conosceva bene i sintomi di quella
malattia mentale da cui era affetto l'uomo. «Chi sta arrivando?» le chiese.
«Ho solo dimenticato di dargli le gocce... dice cose strane quando non
prende le sue medicine.»
Allora Delfi si avvicinò al padre, lo acchiappò dolcemente da un braccio e
lo accompagnò al divano. «Papà, non arriva nessuno, siediti.»
«Non capisci Delfi, ti porteranno via come hanno fatto con tua madre.»
«D'accordo...» la ragazza lo assecondò e sospirò affranta. «Ale resta qui
con lui, vado a preparargli la medicina.»
Ma mentre la ragazza andava, il vecchio la seguì frenetico.
«Delfi, non devi lasciare che ti portino via da me, stanno venendo a
prenderti con le loro astronavi e le loro pistole, li ho visti, sono proprio lì
su, stanno arrivando!»
L'uomo precipitò repentinamente in un'irrefrenabile crisi paranoica
difficile da tenere a bada, non la prima e purtroppo neanche l'ultima che
Delfi avrebbe dovuto essere in grado di gestire.
«Papà, papà ascolta!» gli prese le mani e lo guardò con occhi spalancati.
«Ascoltami papà, era solo un gioco quello che hai visto in tv, non era
reale, non c'è nessuna astronave, riesci a comprenderlo?»
Gli parlò come si parla ad un bambino per convincerlo che il mostro
nell'armadio non esiste.
Allora il padre la guardò triste, come rassegnato, come se la visionaria
fosse lei, sua figlia, che credeva di vivere nel mondo ideale che si era
figurata intorno, come se ci riponesse così tanta fiducia da non capire che
invece quello è pieno di mostri, così ingenua da non accorgersi che alcuni
erano proprio lì, alla loro porta.
Le accarezzò la guancia mentre quasi piangeva.
«Ho bisogno che ti calmi papà, ti prego.»
«Ti porteranno via piccola ed io ne morirò.» disse lui.
In quell'istante bussarono alla porta.
I due ragazzi si guardarono perplessi, quasi terrorizzati.
Delfi lasciò la mano del vecchio e si diresse ad aprire.
29
«Buonasera, cerchiamo la signorina Delfina Moggi.»
Un uomo in divisa blu notte, affiancato da una donna, sfoderò davanti allo
sguardo sbigottito ed atterrito di Delfi il suo distintivo.
«Sono io.»
«Devi venire con noi in caserma.» disse la donna.
«Che ho fatto?» chiese tremando.
«Devi seguirci ed appena giunti in centrale ti verrà spiegato tutto.»
«No, io non posso, c'è mio padre qui, lui è... lui non sta bene, non posso
lasciarlo solo.» disse Delfi disperata, mentre la profezia del padre appena
formulata si avverava. Si immaginò già lontana da lui, sbattuta a marcire
in una cella, mentre lui piano ne moriva.
«Infatti no, sei ancora minorenne, dovrà venire anche lui.»
II.VIII
Adria la osservava insistentemente e più la guardava più le faceva schifo.
Quella era là, sulla sedia di fronte a reggere quelle occhiate astiose.
Pareva dire, "mi dispiace se mi detesti, ma io e te diventeremo grandi
amiche, anche se ora mi respingi, un giorno non potrai fare a meno di me,
sarò parte di te, sarai costretta ad accettarmi prima o poi che tu lo voglia o
no."
Ed Adria si chiedeva se il dolore che sentiva si sarebbe mai placato.
Guardava ciò che rimaneva della sua gamba e la notava ridotta,
assottigliata e la fitta che provava al moncone era atroce, spietata, da
lasciarla quasi in lacrime.
«Ehi ciao!»
Paola si presentò ansante nella sua stanza, posò le buste della spesa ai
piedi del letto e senza mostrare alcuna cura per la sofferenza dell'amica le
disse: «Non sai che mi è appena capitato.»
Adria continuò imperturbabile a scrutare davanti a sé un punto preciso.
Allora Paola incuriosita si voltò e la vide, la protesi.
«Ah,» disse, «te l'hanno portata alla fine.» poi si rigirò all'amica e
finalmente la vide, la sua sofferenza. Tornò alla protesi, si avvicinò, la
prese tra le mani, la analizzò da ogni prospettiva per convincersi che fosse
bella. «Dai, non è poi così malvagia... o no?»
30
Adria non rispondeva.
«Te l'hanno fatta provare? Com'è?»
Ma quella ancora taceva.
Così si avvicinò a lei, le sedette accanto sul letto e la supplicò:
«Dai Adri, ti prego... devi reagire.»
Allora la donna schiodò finalmente la vista da quella gamba fasulla e la
portò all'amica. «Mi fa male Paola, non sai quanto... non ci riesco.»
«È perché sei all'inizio, la tua gamba deve ancora abituarsi... tu devi
abituarti.»
Adria attraversava un momento buio, uno di quelli contro cui la psicologa
l'aveva messa in guardia.
"Ci saranno momenti difficili," le aveva spiegato "momenti in cui ti
convincerai di non potercela fare e ne saranno tanti, a volte addirittura li
considererai troppi per riuscire a superarli tutti, preferirai arrenderti e
rinunciare a questa ardua battaglia. Ora crederai che ti dica di cercare di
frenarli sul nascere. Invece no, lascia che questi pensieri si sfoghino, che
prendano vita nella tua mente, elaborali, esaminali, magari credici anche
un po', però poi lasciali andare, fa' sì che vadano via e che tornino sempre
meno frequentemente..."
Adria si era fidata ed aveva supposto che fosse pronta ad affrontare quei
momenti, che fosse possibile scacciare quei pensieri negativi che
altrimenti l'avrebbero condotta in un profondo stato depressivo.
«Che ti è capitato?» chiese cacciando a fatica quei pensieri dal cervello.
«Ahaa... no, niente.» Paola si levò dal letto e rovistò nei sacchi della
spesa, «Sciocchezze... ora hai cose più importanti da ponderare, magari
faccio un salto domattina e te ne parlo.» tirò fuori un pacco di patatine e
lo posò sul comodino. «Le tue preferite... vengo con Elio così ti distrae un
po', ok?»
Adria annuì e con un'occhiata ringraziò l'amica per quel semplice
pensiero. «Mi hanno chiamato dalla caserma.» disse «Dicono che hanno
delle novità.»
Paola si fermò quasi incredula ad ascoltare le parole di Adria.
«Miracolo!»
31
«Solo che per i prossimi due giorni non posso uscire, i dottori me l'hanno
proibito...» e tentò di trasportare il suo corpo dal letto, attraverso le
stampelle, sulla carrozzella. «Ad ogni modo i poliziotti hanno detto che
non è così urgente, quindi ci andrò lunedì.»
«Che tipo di novità, belle o brutte?»
«Ah, non so.» si avvicinò alla protesi e palpò quel composto di resina e
silicone, «È impressionante.» disse.
«Ehi,» Paola agguantò la carrozzella e la ruotò a sé. «è venuta la ragazza
oggi, la tua volontaria?»
Adria ragionò fra sé, «No, oggi no.» disse.
«Ecco, ora comprendo perché sei giù di morale... sei stata sola tutto il
giorno, non ti fa bene.»
«No, è solo che... non dormo bene, ho gli incubi. Sogno spesso di avere
ancora la gamba e di essere in un campo fiorato e mentre cammino i fiori
si trasformano in serpenti che strisciano sulla mia gamba ed io cerco di
dimenarmi, ma quelli la divorano e siccome non posso scappare con una
gamba sola, sono imprigionata lì, circondata da tutti quei fiori che
diventano rettili e alla fine mi arrendo e lascio che mi pungano con la loro
lingua biforcuta...»
Paola la stava ad ascoltare interessata, immedesimandosi nel racconto,
immaginando sé stessa avvolta dalle serpi velenose mentre cercava in tutti
i modi di scrollarsele di dosso.
«Mamma che schifo!»
«...E mi sveglio sudata con una paura insensata, il cuore mi batte forte,
sento una fitta lancinante alla gamba, sì proprio alla gamba che non ho
più, ma io la sento ancora e addirittura ci sento dentro pure il dolore,
dannazione! È assurdo Paola, mi fa male qualcosa che non c'è più, che
non esiste, impazzisco...» passò una mano sulla fronte fino alla tempia.
«E poi, poi non riesco più ad addormentarmi.»
Paola la osservava con empatia, cercando di percepire ciò che provava lei,
ma ci riusciva poco e male. Il meglio che poté fare per aiutarla fu dirle:
«Comunque i sogni hanno un loro perché... lo cercherò su internet.»
Ma Adria era ansiosa quella sera, come se una strana sensazione le
attraversasse l'animo e si appoggiasse pesante sullo stomaco.
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«Devo andare...» si avvicinò ad abbracciare l'amica. «Cerca di stare
tranquilla e magari fatti dare qualcosa contro l'insonnia, ok?»
E mentre Adria osservava con sguardo incantato ed assente la porta da cui
usciva l'amica, entravano nella sua mente di nuovo quei pensieri negativi.
II.IX
"Cerca di stare tranquilla." le aveva detto.
Ma lei era angosciata, non poteva stare tranquilla.
Con piccoli scatti lesti e nervosi agitava la gamba generando una
vibrazione incessante sulla sua sedia.
La sera era calata, ma non la temperatura che si aggirava ancora attorno ai
trenta gradi. Portò una mano alla fronte e la posò sopra. E non riuscì a
distinguere se il sudore che sentiva apparteneva alla mano o alla fronte.
Riconobbe però che quello non era sudore da afa, era paura.
Decise di fuggire. Si sarebbe alzata e sarebbe corsa via costringendosi a
vivere da latitante per il resto dei suoi miserabili giorni.
Poi però si voltò e vide quell'uomo che poche decine di minuti prima era
in un evidente stato confusionale. Pensò che non poteva lasciarlo in quella
caserma, non poteva lasciarlo e basta.
"Non lasciarmi, ne morirei." le aveva implorato lui.
Ad ogni modo avrebbe dovuto farlo, fuggendo o no, l'imparziale mano
della legge l'avrebbe allontanata da lui.
Disperata contò le vite per cui avrebbe dovuto sentirsi responsabile, non
sarebbe riuscita a portarsi sulla coscienza anche quella del vecchio.
Lo guardò ancora, ora inebetito e distante.
"Le medicine hanno fatto il loro sporco lavoro." pensò.
Poi le parve di udire una vocina interiore che la rimproverava:
"Non distrarti Delfi, non pensare alle medicine di tuo padre, pensa ad
essere terrorizzata perché presto verrai condannata e la tua vita cesserà."
Una morsa le strinse lo stomaco così violentemente che le sembrò quasi le
mancasse il fiato.
«Delfina Moggi.»
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Il suo organismo era in stato di allerta a causa della minaccia di pericolo
imminente, i suoi sensi erano amplificati e quel richiamo le rimbombò nel
cervello.
Un uomo in giacca e cravatta con dei documenti in mano la attendeva
sull'uscio di un ufficio grigio e senza finestre.
Si alzò e cercò di sollevare il padre, ma con le ginocchia che tremavano
riusciva a malapena a trasportare il carico del suo corpo, non ce l'avrebbe
fatta ad addossarsi anche quello dell'uomo.
«Papà alzati per favore, dobbiamo andare.»
Il vecchio non era in realtà tanto vecchio, non aveva ancora cinquant'anni,
ma sembrava ne avesse settanta.
I farmaci che assumeva lo avevano reso nel corso degli anni aggrinzito,
brizzolato, minuto e perennemente spossato.
Si levò a stento e frastornato si diresse sotto braccio a sua figlia verso
l'ufficio.
Ad attenderli vi era una donna, la stessa sopraggiunta a casa loro, un
poliziotto e l'uomo con i documenti in mano.
Si presentarono con nomi che Delfi non avrebbe mai ricordato.
«Sai perché sei qui?» le chiesero.
La ragazza titubò.
Lo sapeva, certo. Ma non avrebbe mai potuto dichiararlo così,
direttamente, all'istante, senza prima lottare un po' per la propria libertà,
difendendo la sua presunta innocenza. No, non poteva ammettere di
essere colpevole senza sentire prima cosa sapevano loro.
«No.» disse.
Aveva deciso, avrebbe cercato di nascondere la sua colpa, avrebbe
provato a negare finché l'evidenza non l'avrebbe costretta a confessare.
«Delfina giusto? Ascolta, il fatto che tu ci dica di non saperlo lo rende
ancora più grave... intendi?» disse la donna.
Allora Delfi guardò il padre che nel suo stato catalettico credeva di star
seduto nel proprio salotto. E gli occhi le si bagnarono di lacrime.
«Va bene, ho sbagliato, mi dispiace, non l'ho fatto apposta, ma non
lasciate che a causa mia mio padre ne soffra, che paghi per qualcosa di cui
non ha colpa, vi prego!»
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Quelle persone osservarono il vecchio, le occhiate struggenti di lei, quel
pianto e quelle parole, e poi qualcuno parlò.
«Esatto Delfina. È per questo che siamo qui oggi.»
Delfi non riusciva ad immaginare una soluzione in cui suo padre potesse
non soffrire mentre lei era rinchiusa in carcere.
«Neanche noi vogliamo che tuo padre soffra.»
Forse l'ammenda, il perdono, la grazia, l'assoluzione.
«Quello che hai fatto è un crimine... lo sai?»
Delfi annuì.
«Vogliamo che non accada più una cosa del genere.»
Prosciolta dalle accuse.
«Tuo padre deve essere controllato almeno dalle 8 alle 22. Ieri sera
abbiamo ricevuto una chiamata dai tuoi vicini, non possiamo permettere
che si smarrisca ancora e a detta loro non è la prima volta che accade
ragazza, era già successo altre volte, ma hanno chiamato solo ieri perché
il poveretto andava in giro nudo. Quando siamo arrivati lo avevano già
riaccompagnato in casa e lui non ha voluto aprirci. Allora abbiamo
contattato i servizi sociali che si occupano di voi.»
Delfi era disorientata, stranita, non afferrava cosa essenzialmente le
stavano dicendo. Si era recata lì rassegnata ormai ad essere incarcerata e
quelli le parlavano di qualcosa che le suonava così nuovo, impensato.
Allora l'assistente sociale prese parola: «Noi abbiamo comunicato col suo
medico, ha detto che nell'ultima visita non aveva riscontrato considerevoli
peggioramenti e che il prossimo controllo avrebbe dovuto farlo tra due
settimane. Quindi deduco che il peggioramento sia avvenuto negli ultimi
sei mesi. Avresti dovuto riferircelo, lo sai. Avremmo trovato una
soluzione ideale senza rischiare che stavolta tuo padre si facesse male sul
serio. Gli sarebbe potuto capitare di tutto, te ne rendi conto?»
Delfi osservò con le lacrime agli occhi il vecchio padre.
«Sapevi che era peggiorato e lo lasciavi comunque solo! Diamine se è un
crimine! Possibile che tu non l'abbia valutato?» disse irritata la donna.
L'uomo in abito scuro riprese più calmo:
«Ora... comprendo che avevi paura di un'eventuale separazione, però se
non erro tra due mesi compi diciotto anni, giusto?»
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Delfi annuì ancora.
«Considerato che manca così poco possiamo anche non trattarti da
minore, alcune procedure burocratiche permetteranno ad entrambi di
restare a casa vostra, ma lui deve essere seguito da una figura
professionale quando tu non ci sei.»
Le lacrime che continuavano a fuoriuscirle dagli occhi potevano sembrare
a quelle persone lacrime di dispiacere per non aver esposto alle autorità
competenti quel peggioramento che lei troppo presa dalla sua vita non
aveva neanche rilevato.
Lacrime di amaro pentimento per aver messo in pericolo la vita del padre.
Sembrava che avesse assimilato la lezione attraverso quel suo errore che
non avrebbe assolutamente ripetuto e che stesse solennemente
promettendo d'impegnarsi a migliorare, a maturare, a crescere.
Ma in realtà Delfi era semplicemente felice.
Felice di aver evitato la prigione, di beneficiare ancora di tutti i diritti di
cui gode un individuo libero, felice che la sua fedina penale risultasse
ancora linda. Quelle erano lacrime di gioia per non essere diventata causa
di morte del padre, ma non nel modo che intendevano loro.
E mentre quello aveva assistito insensibile a tutta la scena, lei si sollevò
con l'animo e col corpo dalla sedia e singhiozzando andò a buttargli le
braccia al collo.
Lui la guardò negli occhi pieni di pianto e con estrema naturalezza le
sorrise.
I suoi giustizieri mossi a compassione da quella triste cornice familiare
invitarono i due disgraziati a lasciare l'ufficio.
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CAPITOLO III
III.I
«Undici, dodici e tredici... quattordici, impegnati!»
Adria sudava, il caldo e la fatica le impregnavano il corpo e quei pochi
abiti estivi che indossava. L'osso tronco che poggiava sul gesso della
protesi le provocava un dolore tremendo ad ogni piccolo passo
conquistato.
«Non ce la faccio, mi fa troppo male!»
«Che diamine Adria, non sono neanche due minuti che ci stai sopra!»
disse il fisiatra.
Le mani imbevute di sudore scivolavano dalle parallele facendo sì che il
suo equilibrio si alternasse dalle braccia alla gamba sana.
«Poggia il peso sulla protesi Adria, sulla protesi! Sennò non ha senso
stare qua! Non alleniamo la gamba sana, non serve che cammini su
quella, è sana, lo sappiamo tutti, le cose che deve le sa fare!» urlò.
«Basta sono stanca... continuo domani.» disse esausta.
«Basta lo dico io!»
Il fisioterapista si atteggiava a duro e lo faceva per il suo bene. Aveva
intuito che la donna aveva tutte le potenzialità per potercela fare,
bisognava solo spronarla un po'.
«Almeno venti passi, ricordi cosa ci eravamo promessi?»
Adria si fece forza e proseguì.
«Quindici, sedici, dai...» l'uomo continuava a contarle i passi.
«Diciassette, ancora un piccolo sforzo e... dicio-»
La sbarra sinistra le sfuggì letteralmente di mano, il peso all'improvviso
finì tutto sulla protesi e in una minuscola frazione di secondo una fitta
feroce le penetrò lungo quel pezzo mozzo di carne ed osso attraverso le
sinapsi fin su nel cervello. Perse l'equilibrio e cadde a terra.
Voleva piangere, e piangeva. Interiormente piangeva, strillava, si
dimenava, si chiedeva perché quella ulteriore sciagura dopo tante che
aveva già affrontato. Si sentiva ancora vittima di un destino spietato che
non meritava.
«Che fai, resti lì a fissare il tappetino o ti rialzi?»
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«Vada al diavolo!»
Il medico osservò il suo patimento e più indulgente l'accontentò:
«Va bene, per oggi basta. Vorrà dire che domani farai due passi in più.
Però ora ti alzi da sola.»
Adria si rialzò, come sempre, da sola e tornò sfiancata nella sua stanza
dove trovò, come da promessa, il figlio e l'amica a smorzarle il malumore.
III.II
«...e le faccio: "fumi anche?" e lei con quell'aria da saputella ignorante mi
fa: "che siamo a scuola? Non sapevo fosse vietato fare il cavolo che mi
pare per strada!"...» disse imitando una vocina stridula.
"Non è sola." constatò Delfi avvicinandosi alla porta, udendo sempre più
nettamente un tono che non apparteneva ad Adria. "Bene, meno
imbarazzo per me."
«Proprio così Adria, si faceva un cannone!»
Ma quella voce Delfi la conosceva, non era passato molto tempo da
quando l'aveva udita l'ultima volta.
«È lei, Adria! Te lo ripeto, è stata Rocchina... le ho visto il tatuaggio
proprio qui, sul fianco destro...»
«Peccato fosse il sinistro.»
Delfi a quelle parole si arrestò e rischiò quasi di farsi vedere.
Fortunatamente le due donne erano troppo prese dalla loro conversazione
per accorgersi che una figura aveva varcato di mezzo passo la soglia e poi
con discrezione era scivolata indietro a nascondersi oltre lo stipite della
porta, intenta ad origliare quelle chiacchiere.
«Eri mezza morta, che ne potevi capire di destra e sinistra... stava lì a
sputarmi il fumo in faccia in segno di sfida, comprendi? Sa che siamo
amiche e sembrava dirmi: "non mi beccherete mai!"...»
Il corpo immobile di Delfi pareva cercasse di mimetizzarsi col muro.
«Io ero lì, con le buste della spesa che mi staccavano le braccia e quel
babbione del ragazzo stava con una birra in mano di prima mattina a
fissare il vuoto... te lo dico Adria, è stata lei!»
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«Non lo so Paola... non credo sia capace di qualcosa del genere. Ok, fuma
canne, ma non possiamo condannarla per questo e per il resto mi sembra a
posto... Non è tipa da rubare una macchina o soprattutto da lasciarmi
morire bruciata.»
A quelle parole Delfi chiuse gli occhi ed emanò un sospiro sofferto.
«Io credo sia stato qualcuno che non mi conosce. Rocchina non mi
avrebbe mai fatto una cosa simile.»
«D'accordo. Non dico che devi per forza credere che sia stata lei... dico
solo, prova a domandarti: e se fosse stata lei?»
Delfi non poteva stare ferma lì ancora per molto, il ragazzone
perennemente sudato si avvicinava a lei con la vista impegnata ad
esaminare alcuni documenti, ma l'avrebbe distolta prima o poi e l'avrebbe
individuata, a breve avrebbe intuito che temporeggiava sulla porta non di
certo per ammirarne l'architettura.
Non poteva farsi cogliere ad origliare come una spia.
«Che ti costa controllare... svolgiamo noi il lavoro che tocca fare alla
polizia che a quanto pare se ne frega.»
Eccolo, il ragazzone alzò lo sguardo.
Delfi gli sorrise e lui ricambiò il saluto. Ora doveva per forza entrare.
«A proposito, ti ho detto che avevano delle novità...»
«Buongiorno.» disse Delfi entrando.
«Ehi, sei tornata!»
Delfi assentì con un sorrisetto forzato mentre sentiva pesanti occhiate di
Paola scrutarla attentamente.
«Paola lei è Delfina, la volontaria di cui ti ho parlato.»
La ragazza si voltò e mantenendo quel sorriso falso sul viso le porse la
mano. «Piacere, può chiamarmi Delfi.»
«E tu puoi chiamarmi professoressa Gervasi.»
«Dai Paola, non fare l'antipatica.» disse Adria. «Delfi non temere, fa così
con tutti ma in fondo è buona!»
«Dove ti ho già visto?»
Delfi sapeva per certo di non averla mai incontrata ufficialmente, aveva
supplito in classe di Alessio, non nella sua.
«Ah sì, qualche giorno fa...»
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"Al parco," meditò lestamente Delfi. "impossibile mi abbia vista."
«Proprio qui fuori, in corridoio.» concluse Paola.
«Non devo averci fatto caso.» disse lei.
«Già, voi giovani sempre impegnati a scrivere su questo maledetto
cellulare... esistono anche i dialoghi faccia a faccia, lo sai?»
La ragazza annuì timidamente.
«Che poi mi chiedo, che avete da scrivere in continuazione? Di questo
passo saremo sommersi da scrittori...»
«Dicevo, Paola...» Adria considerò giunto il momento di troncare il
logorroico monologo dell'amica.
Allora Delfi colse l'occasione per svincolarsi dalle donne col pretesto di
mettere un po' d'ordine in camera.
«Dicevo che ho chiamato in caserma per dire che non sarei potuta andarci
e... ebbene ti sbagli quando dici che non svolgono il loro lavoro.»
La ragazza tese le orecchie mentre riponeva vecchie riviste nel cassetto
del comodino.
«È saltato fuori un testimone.»
Delfi bloccò in un attimo tutte le azioni che stava compiendo, sentì il
cuore accelerare, il respiro farsi corto ed uno strano calore invaderle il
cervello.
«Ma è fantastico!»
«Non era sola. C'era un ragazzo che non ha rubato l'auto e ne è rimasto
fuori.»
La ragazza riprese i suoi compiti a rilento.
«Questo testimone saprebbe identificarli?» chiese Paola.
«Ha fornito una descrizione del ragazzo rimasto fuori... è lui che
cercheranno di individuare per risalire a quella nell'auto che purtroppo il
testimone non è riuscito a scorgere.»
«E com'è questo ragazzo?»
«Com'è!? Corporatura media, capelli corti e scuri... come la maggior parte
dei ragazzi!»
«Ahaa... al diavolo Adria, credevo ci fossero sul serio delle novità!»
Delfi riprese a respirare e sgombrò nervosamente la tavola dagli avanzi
della colazione.
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Pigliò con una mano il vassoio con sopra la pesca, lo yogurt ed il succo
che Adria non aveva consumato per riporli nel cassetto e poi tentò di
acchiappare il rotolo di carta con l'altra mano.
«C'è una cosa però...» continuò Adria «gli occhiali, aveva quegli occhiali
che vanno tanto di moda oggi, quelli tondi, enormi...»
La ragazza avanzò di pochi passi e quelle parole la fecero trasalire.
«Come se fosse una cosa rara... quasi la metà dei ragazzi li usano. A volte
li indossano anche se non hanno reali problemi di vista.» disse Paola.
Il piede di Delfi si imbatté contro quello del letto ed inciampando fece
volare dal vassoio pesca, yogurt e succo.
Le due donne si voltarono per capire a cosa fosse dovuto quel leggero
terremoto e la ragazza si scusò mentre impacciata si calava per
raccogliere il cibo da terra.
«Ehi tu, vieni un po' qua!»
Non afferrò immediatamente che quel richiamo fosse rivolto a lei, poi
alzò lo sguardo e vide Paola fissarla.
«Sì, dico a te, Delfina o come diavolo ti chiami, vieni qua.»
Posò la roba sul tavolo e si accostò alle donne.
«Conosci qualcuno che usa quegli occhiali?»
Pensò ad Alessio e cercò di intuire in pochi istanti cosa fosse conveniente
fare. Mentire o affermare tranquillamente che il suo migliore amico
portava quegli occhiali, dopotutto, come avevano appena attestato loro,
non era poi così raro. Però pensò che avrebbero potuto iniziare le indagini
proprio investigando su Alessio ed arrivare quindi celermente a lei.
«No.»
Fu così che disse la prima bugia a quelle donne. «Cioè, li ho visti addosso
a molti ragazzi, ma io ho pochi amici e loro non li portano.»
«E che mi dici dei tatuaggi, ti piacciono?»
Delfi tremò. Ingoiò la paura e disse: «No.»
«Conosci qualche ragazza che ha tatuato una specie di serpente sul fianco,
proprio qua.» ed indicò alla sua sinistra sfiorandole il fianco.
Delfi credette assurdamente che la donna volesse sollevarle la maglia e
con un piccolo scatto balzò di lato evitando il tocco di lei.
Paola la guardò perplessa.
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«Io no...» terrorizzata prese a farfugliare parole sconnesse, muovendo
istericamente capo ed occhi. «...no, non conosco, non mi pare...»
«Andiamo Paola, lasciala in pace, ti ha detto che ha pochi amici.»
Adria aveva assistito zitta alle domande impertinenti dell'amica,
incuriosita ed in fondo speranzosa che le risposte della ragazza potessero
portare realmente ad una svolta.
«Non darle retta Delfi, va' a continuare quello che stavi facendo.»
E mentre la ragazza si allontanava scossa, Paola sussurrò all'amica:
«È parecchio strana.»
Delfi uscì in fretta dalla camera prima che potessero procedere
ulteriormente con quella tremenda inquisizione che la stava portando
quasi a confessare purché cessassero di torturarla, facendo sì che
scoprissero per caso ed anche con gran meraviglia loro la verità. Si
diresse in giardino a sospirare e a respirare finalmente liberata da quelle
accuse neanche troppo velate che le erano state rivolte, evitando altre che
probabilmente le avrebbero a breve rivolto.
«Non trovi che sia strana?» continuò Paola.
«Forse. Ma non sarebbe poi così anomalo, no? Senza madre, con un padre
malato... solo lei sa cosa ha dovuto passare, poverina.» disse Adria. «A
me piace.»
III.III
«A me no, non piace affatto.»
Il ragazzo andava avanti e dietro torturandosi il mento con le dita.
«Non mi piace come si sta evolvendo la situazione, dobbiamo fare
qualcosa.»
«Non c'è bisogno che ti agiti così, te l'ho detto, quasi la metà dei ragazzi
corrisponde alla descrizione che hanno fatto di te.»
Ma quello continuava concitato a muoversi ignorando volutamente le
parole dell'amica. «Sono finito, mi arresteranno al posto tuo, io che non
ho fatto nulla, non ho neanche bevuto, volevo solo andare a quella cazzo
di discoteca! È un crimine? È per questo che finirò dentro? Per essere
stato respinto in discoteca?»
Delfi roteò gli occhi e sospirò esasperata. «Non possono arrestarti.»
42
«I miei non approverebbero se mi arrestassero... forse dovrei dirglielo.
Mio padre, lui conosce un poliziotto, forse potrebbe aiutarmi ad
uscirne...»
Delfi si alzò dal divano e gli acciuffò le braccia bloccando il suo flusso di
idee. «Ehi ehi, ascolta e guardami. Tu non lo dirai a nessuno, intesi?»
«Delfi forse non ti rendi conto che quello che hai fatto è... hai fatto una
cosa grave, comprendi? Gravissima! Ed io non voglio pagare per il tuo
errore, né io né nessun altro dovrebbe pagare per un tuo errore!»
Delfi allora lo guardò amareggiata, ma ad ogni modo consapevole che le
parole dell'amico erano legittime. Sì, se ne rendeva conto.
Aveva fatto una cosa gravissima e lo sapeva. In cuor suo sapeva anche
che credere di eludere la legge senza dover mai pagare per il suo errore,
credere di poter continuare a frequentare quella donna senza arrivare mai
al punto di doverle delle spiegazioni era soltanto una fatua illusione.
«D'accordo.» disse «Non risaliranno mai a te, ma nel caso dovessero, se
riuscissero mai ad identificarti, allora bhè, allora andrò a costituirmi, ok?
Te lo prometto. Ma tu per ora non fare niente, non dire niente, te ne
prego.»
Alessio la osservò sconfortato ed acconsentì.
«Me lo devi promettere Ale, promettimelo.»
«Sì, te lo prometto.» disse lui. Si levò gli occhiali dal viso e con un
fazzoletto ne pulì i vetri. «Da oggi solo lenti a contatto.»
Mentre diceva addio a quell'oggetto, un lieve pianto gli colò dal naso.
Allora portò lo stesso fazzoletto al volto e soffiò.
Delfi lo guardava tremare ed intanto gli mostrava sicurezza, perché se gli
avesse fatto percepire anche solo un piccolo cenno di cedimento, Alessio
sarebbe crollato al posto suo.
Ma interiormente Delfi era un rottame.
Aveva già contribuito a rovinare una vita e si chiedeva come poteva
essere stata così imprudente da finire in una condizione tanto pericolosa
da rischiare di rovinare ora non solo la sua stessa vita, la sua felicità, ma
anche quella di suo padre e del suo migliore amico.
Inoltre trascorrere con la donna diverse ore al giorno non faceva altro che
aumentare le probabilità di essere scoperta.
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«Tu metti le lenti, ma io devo trovare un modo per coprire il tatuaggio.»
«Cosa?»
«Ho avuto una paura matta che lo scoprisse.» sollevò la maglia e buttò
un'occhiata alla esse. «Paola mi ha quasi tirato su la maglia.»
«Cosa!» disse Alessio preoccupato. «Intendi cancellarlo?»
III.IV
«È fuori discussione!»
«Perché no? La chiamiamo e le solleviamo la maglia... sai che usa rossetti
viola? E se non sono viola, peggio! Sono neri... senti, quella ragazza ha
problemi, non mi stupirebbe sapere che si impasticca anche...»
Adria osservava le gocce di sangue che fuoriuscivano dall'apice del
moncone macchiando il bendaggio. La vescicola causata camminando
sulla protesi le procurava una fitta ardente che nessun lenitivo riusciva ad
affievolire. Si insinuava prepotentemente nel cervello e ci metteva radici,
quasi fosse impossibile considerare altro se non quel dolore martellante,
considerare addirittura le parole dell'amica piene di pregiudizio.
«Sembra che stia a lite col sole, dannazione! È estate, c'è il mare a due
passi, vacci! Invece no, sempre vestita di nero...»
«Smettila Paola.»
«Ascolta, ti chiedo solo un favore, solo uno.» e le fece quella faccia a cui
Adria non sapeva resistere. «Fidati di me. D'accordo, non chiameremo
Rocchina apposta per svestirla. Organizzerò una visita di classe qui, i
ragazzi saranno entusiasti, lo sai che ti adorano.»
«E poi?»
«E poi fidati... ok?»
Di nuovo quella faccia.
Adria si fidò perché dopotutto anche lei aveva un sospetto.
Il sospetto che quel sospetto dell'amica non fosse poi così infondato e
voleva disfarsene al più presto.
Così Paola andò via indaffarata ad organizzare quella subdola trappola ed
Adria si soffermò a fissarsi la gamba, strinse gli occhi e cercò di
ricordarla com'era, cercò di figurarsela là, immaginandola al suo vecchio
posto, proprio a fianco all'altra.
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Le sembrava di vederla, addirittura di sentirla.
E non volle che, aprendo gli occhi, quell'allucinazione impalpabile
svanisse, perciò rimase in quella posa per chissà quanto tempo.
«Buongiorno.»
Delfi la trovò così, seduta sulla sua sedia rivolta alla finestra con la vista
bassa ed assorta sull'arto mancante. Le fece pena.
Stette qualche secondo a contemplarla e a compatirla, poi pronunciò un
altro "ciao" con timbro più forte e deciso.
Adria la udì soltanto allora, dopo quel saluto, e si girò.
«Ho bisogno di uscire da qui.» disse.
«Andiamo in giardino?»
«No, che giardino! È certo che lì mi deprimo ancora di più... Non hai la
patente?»
«Ad ottobre.»
«Allora vorrà dire che dovrai spingermi.»
Delfi faceva ancora fatica a condurre la carrozzella su e giù per i
marciapiedi, evitando auto e pedoni, ed il sole che batteva rovente sulla
sua testa non era certo d'aiuto. Si fermarono infine su un muretto
all'ombra di un olmo rigoglioso.
«Devi scusare Paola. Lei è... è particolare, fa così perché mi vuole bene.»
Delfi accennò qualcosa col capo e restò zitta.
«Anche tu sei particolare, no? Sei riflessiva...»
Ad Adria sarebbe piaciuto entrare nel suo mondo e comprenderlo come
era abituata a fare con i suoi alunni. «Ce l'hai il ragazzo?»
«No.» disse Delfi.
«No? Com'è possibile, una bella ragazza come te.»
«Ce l'ho avuto... l'anno scorso.» spiegò «Ma era troppo appiccicoso.»
Adria sorrise. «E sentiamo, ti piace la scuola? Non intendo studiare,
intendo stare a scuola con i tuoi amici.»
Delfi sospirò, «Non ho molti amici.» disse.
«Ah no?»
Adria la osservò abbassare lo sguardo, come se se ne vergognasse. Si
pentì di averle chiesto qualcosa che le fu causa di tale imbarazzo e le fece
pena. «Proprio nessuno?»
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«Ho Alessio, il mio migliore amico.»
«Ah bhè Alessio, vedi che allora qualcuno c'è... meglio uno buono che
tanti scadenti, no?»
Delfi annuì ancora.
Adria la osservò meglio, ne studiò gli atteggiamenti, gli indumenti.
Vestiva di moda povera, umile, senza fronzoli o abiti griffati.
«Io non piaccio molto ai miei compagni di scuola.» disse la ragazza.
«E perché?»
«Non lo so, forse perché non sono come loro, penso.»
«Sì, ti capisco.»
Adria riteneva che ci potesse essere qualcosa di molto simile a lei in
quella ragazza, di avere con lei una certa sintonia e per la prima volta
sentiva di poter esternare liberamente i propri sentimenti, sicura di essere
compresa.
«Anch'io non sono come loro.» ed indicò la gente che aveva davanti, «In
realtà non lo ero neanche prima dell'incidente, non lo sono mai stata.» poi
si voltò alla ragazza e concluse: «Le persone Delfi, devi sapere che le
persone hanno paura del diverso... però non sono loro che ci scansano
perché siamo diverse, siamo noi che ci isoliamo perché sono loro diversi
da noi, già è proprio così... i diversi sono sempre gli altri.»
Delfi non aveva mai avuto una matura figura femminile intorno e le
piaceva che quella donna stesse lì di fronte ad elargirle consigli di vita.
Se si concentrava solo su quelle parole, su sé stessa e su Adria, solo
sull'ombra che piano si muoveva come si muovevano le foglie a cui
apparteneva e sul rumore della vita che si metteva in scena tutt'intorno, se
non rifletteva sul motivo originario per cui era lì ad ascoltarla parlare, su
tutto ciò che aveva causato e che avrebbe ancora potuto causare, allora
Delfi era felice di essere in compagnia di quella donna.
«E tuo padre come sta?»
«Mio padre, bhè lui è... è difficile.» disse.
«Già, cavolo se è difficile, lo so.»
Allora ricordò che anche Adria come il padre aveva perduto il suo
compagno rimanendo sola con un bambino. Ma lei ce l'aveva fatta, suo
padre no. E le risultò più facile confidarsi.
46
«Peggiora. Ci hanno mandato un ragazzo che si occupa di lui quando io
non ci sono.»
«Sei davvero una ragazza di cuore Delfi, lo sai no? Alla tua età dovresti
solo divertirti specialmente perché la vita con te, come con me, non è
stata molto giusta... Ed invece stai qua a fare da cameriera ad una povera
handicappata.»
Adria ci trovava qualcosa di magnetico nella ragazza, come un segreto
celato dentro che attirava la sua curiosità. «Se fossero tutte come te,»
disse «io non sarei qua.»
Delfi sentì qualcosa di strano, di estraneo, come un corpo estraneo, forse
una lama, nel cuore.
Poi ebbe una fiabesca percezione, che se in quel momento le avesse
confessato tutto la donna avrebbe compreso. Ma non fece in tempo a
cullarsi in quella vana illusione che l'altra continuò: «Scoprirò chi è stato
e tre mesi fa avrei detto, lo scoprirò e la prenderò a calci, ma ora... ora
non posso neanche tirare calci. Allora quando lo scoprirò le farò così male
che rimpiangerà il fatto che non ho potuto prenderla solo a calci.»
III.V
«La prenderò io a calci per te, vedrai... vedrai che ho ragione!»
Paola mandava occhiate ansiose al polso ad intervalli regolari e trovava la
lancetta dei minuti sempre fissa sullo stesso numero.
«Forse dovremmo registrare con i cellulari, sai, per avere prove nel caso
la ragazza per paura dovesse ritrattare con la polizia.» continuò la donna.
Sollevò il polso e lo sbatacchiò convulsamente credendo di smuovere così
il meccanismo dell'orologio e farlo ripartire.
«È fermo, credo si siano scaricate le batterie.»
«No Paola, semplicemente non sono passati neanche due minuti da
quando sei arrivata.»
Il tempo per Paola aveva rallentato, lei desiderava arrivasse in fretta
l'inevitabile momento della pubblica rivelazione, ma quello per dispetto
sembrava avesse deciso di arrestarsi in quell'istante.
«Ma mi spieghi che ti sei messa in testa di fare?»
47
Paola indifferente alla domanda dell'amica si levò dalla poltroncina ed
andò a guardare con apprensione alla finestra.
«Dovrebbero arrivare a momenti.» disse fra sé.
E come se li avesse evocati, si sentì bussare.
«Sono loro.»
Camminò sollecita verso la porta, si piazzò di fronte, si scrollò di dosso
l'agitazione e stampandosi un sorriso sul viso aprì.
«Ah,» disse delusa, «sei tu.» si girò e tornò da dov'era venuta.
«Buonasera anche a te.» sussurrò Delfi.
La ragazza avanzò fino al letto della donna ancora indecisa se compiere
quell'atto. Avrebbe potuto trascorrere la serata come tutte quelle
precedenti, ma poi si fece coraggio e frugò nella sua capiente borsa.
«Ti ho portato... ho preso una cosa...» disse imbarazzata ad Adria mentre
tirava fuori quell'oggetto. «Non so se può piacerti il genere, però...»
Le porse un vasetto di cotto alto una decina di centimetri con dentro
radicata una pianticella.
«Oh... grazie.» disse Adria piacevolmente sorpresa. «Non dovevi.»
Paola scollò l'alito dalla lastra della finestra e si volse al dono.
Un arboscello dalle foglie pelose e dentate poggiava sul terriccio nel vaso.
«È una pianta carnivora...» spiegò Delfi. «si nutre di insetti, così le
punture di zanzara non ti daranno più fastidio e non dovrai anche
preoccuparti di grattarti la gamba.»
Paola guardò sconcertata la ragazza, il raccapricciante dono e l'amica.
«Ah,» disse Adria stranita. «grazie.»
E mentre posava la pianta sul comodino, un frastuono di voci
adolescenziali proveniente dal corridoio attirò l'attenzione di tutte.
In un attimo una quindicina di ragazzi agitati riempì la camera.
«Buonasera!» «Ciao!» si sentì ripetere.
Il cuore di Adria si inondò di gioia. A modo suo anche quello di Paola.
Quello di Delfi di terrore. Lei non intuì subito cosa stesse accadendo e in
quel momento di grande confusione si ritrovò circondata da suoi coetanei,
gli stessi che la evitavano o la deridevano quando la intravedevano per
strada. Alcuni la conoscevano. Alcuni la conoscevano così bene che
trovandola lì si chiesero cosa mai stesse facendo.
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Allora cercò di farsi piccola nell'angolo più angusto della camera.
«Professoressa come va?» «Professoressa a settembre tornerà a scuola?»
«Professoressa le manchiamo?» «Professoressa è felice di vederci?» le
chiesero a turno lasciandola a malapena il tempo di rispondere.
Nel frattempo che i ragazzi sommergevano Adria di domande, Paola
proiettava la vista tra quelle teste spettinate in cerca di Rocchina.
La scorse in mezzo alla folla, gli occhi imbrattati di trucco nero, piercing
che le fuoriuscivano dalle labbra e polsini borchiati, non ci si poteva
sbagliare, era lei.
Poi la più spigliata si fece largo tra i compagni, si accostò al letto e porse
ad Adria un mazzo di fiori ed un regalo. «Professoressa siamo contenti
che stia bene e che non sia morta. Volevamo venire già da tempo ma non
sapevamo se fosse permesso dal centro...»
Adria piena di commozione accettò i fiori e scartò il regalo.
«Poi fortunatamente la prof mi ha chiamato chiedendomi se eravamo
interessati a farle visita... certo che lo siamo! Ci è mancata così tanto in
questi mesi e quello che ci fa supplenza è di una noia mortale!»
Un lettore ebook tecnologico e nuovo di zecca comparve tra le mani di
Adria mettendo ancora più in negativo risalto la piantina mangia mosche
di Delfi.
«Ci sono già degli ebook, delle letture che la aiuteranno in questi
momenti difficili professoressa... e poi delle foto che abbiamo scattato
poco fa tra noi nel caso sentisse la nostra mancanza.»
Eccezion fatta per suo figlio, i suoi alunni erano gli unici che riuscivano
ad allontanare Adria dai pensieri negativi, erano loro il suo pensiero
felice. «Oh grazie ragazzi, davvero grazie.»
E mentre intenerita ringraziava, Paola fissava Rocchina incessantemente.
«Oggi ho ricevuto due bellissimi doni.» e poggiò quelli nuovi accanto al
vegetale carnivoro. Delfi si rammaricò amaramente di aver deciso quella
sera di farle quel vergognoso regalo.
«Paola apriresti la finestra che siamo troppi e si inizia a non respirare...
tanto c'è la piantina di Delfi per le zanzare.» disse buttando lo sguardo
alla ragazza e come il suo, altri quindici sguardi si girarono per
individuarla.
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Delfi avrebbe voluto sciogliersi e fondersi col pavimento ed essere
calpestata da ogni sorta di pedata per l'eternità piuttosto che stare lì a
sostenere le occhiate sprezzanti dei suoi compagni.
«Andresti a chiedere a Cecilia se può portare qualcosa da bere da offrire
ai ragazzi?» le chiese Adria.
Lasciò la stanza a disagio, ma allo stesso tempo sollevata di sottrarsi a
quegli sguardi impiccioni e pettegoli.
E mentre si affrettava a percorrere il lungo corridoio alla ricerca
dell'assistente, un rumore di passi più veloci dei suoi la seguì.
Si girò e lo vide, Dario, vecchia conoscenza, alunno di Adria.
«Cazzo ci fai qui?» disse quello senza preoccuparsi di salutarla. «Ti è
parente?»
«No.» rispose e guardinga lo acciuffò dal braccio e lo trascinò in un
ripostiglio, «Volontariato.» disse.
«Ah, ah ah! Cosa, tu volontariato?! Ma ti sei fatta di qualche droga
tagliata male?»
«No, non sono fatta... che c'è? Non posso?»
«No, è solo che mi pare strano da te, l'ultima volta che t'ho vista mi
supplicavi ubriaca come una spugna di farti lo sconto a dieci grammi
d'erba!»
«Bhè sì, quelli erano altri tempi e le persone cambiano...» Delfi portò una
mano alla fronte. «Senti è una lunga storia, però mi piacerebbe che non le
riferissi di questo mio passato...»
E mentre quello ancora se la rideva, noncurante di quella richiesta le
domandò: «Ma ti sei trovata per caso con lei o cosa?»
«Per caso, ovvio! Secondo te?»
«Allora cara mia, hai una certa sfiga appiccicata al culo... è una brava
donna, ma se la fai incazzare sa essere davvero stronza.» e la lasciò in
quello sgabuzzino tetro alle sue riflessioni.
Poi Delfi uscì, andò alla ricerca di Cecilia, la trovò, temporeggiò con lei
finché recuperò qualcosa da stuzzicare per una quindicina di ragazzi in
pieno sviluppo e la aiutò infine a trasportare il cibo da loro.
In quei dieci minuti d'assenza, il clima all'interno della camera era
parecchio cambiato.
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Delfi vi trovò Adria che si era levata dal letto e dritta sulle stampelle
parlava davanti a quei ragazzi che la stavano ad ascoltare attenti e tristi.
«...perché chi è stato capace di farmi una cosa del genere non merita solo
il carcere, merita l'inferno ed io spero vivamente che esista perché voglio
vederla bruciare quella piccola bastarda, come ho bruciato io...»
Intanto Paola non staccava lo sguardo di dosso dalla povera Rocchina per
studiarne le reazioni, per vedere se le parole dell'amica la facevano
sudare, senza accorgersi che nella stessa stanza un'altra ragazza stava
sudando come se percepisse il calore del fuoco infernale che le era stato
augurato.
«...quello che mi fa incazzare è che non si è costituita, come fa a vivere
con sé stessa dopo ciò che mi ha fatto! Significa che non ha una
coscienza, che non se ne frega niente e chi è così non è degno neppure di
chiamarsi essere umano...»
Rocchina infastidita dalle occhiate accusatrici di Paola che sentiva
incollate addosso si voltò alla donna e la fissò con la stessa antipatia
profonda che sapeva di suscitare in lei.
Allora prese parola Paola e mantenendo la vista puntata su Rocchina
disse: «Ragazzi voi potete aiutare. Siete tanti ed ognuno di voi ha diversi
amici, se riusciste ad individuare chi è questa ragazza che ha tatuato un
serpente sul fianco magari col passaparola...»
A Rocchina sarebbe anche potuta piacere Paola, ma quella si mostrava
sempre così scontrosa ed insofferente nei suoi confronti che la ragazza nel
corso degli anni aveva fatto sì che il sentimento diventasse reciproco.
«...Rocchina tu ne hai uno, giusto? Un tatuaggio sul fianco.»
La poveretta sbigottita ristette un attimo di fronte a quella domanda.
«No, non ce l'ho... e ho afferrato dove vuole arrivare, non sono stupida e
non sono stata io!» disse con fervore.
«D'accordo, allora se non ce l'hai puoi alzare la maglia e mostrarci il
fianco.»
«Cosa?!»
«Paola smettila.» la riprese Adria.
La ragazza provò un senso di umiliazione che mai aveva provato prima.
51
«Professoressa,» disse rivolta ad Adria «lei è d'accordo, vuole che sollevi
la maglia? Anche lei pensa che sia stata io?»
«Rocchina, io...» Adria era combattuta.
Sì, ad essere sincera lo voleva, voleva scoprire i fianchi di tutte le ragazze,
non solo di Rocchina, ma in quel momento non riuscì ad ammetterlo.
La ragazza sentendola bofonchiare intuì quella risposta che lei faticava a
proferire ed alzò la maglia. Una voglia scura si estendeva sul fianco
destro tracciando un sinuoso disegno.
«Contente? È un tatuaggio? Io non credo proprio!»
Le due donne mortificate si ammutolirono.
«Come ha potuto pensare che fossi stata io! Credevo che in qualche modo
mi capisse!» urlò ad Adria quasi in lacrime e ferita corse via.
Gli altri ragazzi presenziarono in un silenzio pressoché religioso e quando
Paola con immensa vergogna di sé li invitò a lasciare la stanza, quelli
nello stesso umore, opposto a quello con cui erano arrivati, salutarono ed
andarono.
Adria stava in piedi contro la finestra, ammaliata dal cielo d'agosto che
nel frattempo si era imbrunito, ad ascoltare le cicale, i grilli che
ravvivavano col loro canto le afose serate estive, e a lasciare che qualche
goccia le colasse dagli occhi.
«Adria, io...» disse Paola.
«Vattene.»
«Senti mi dispiace, ma io credevo davvero che Rocchina potesse...»
«Credevi che?» si girò a lei, «Mi stai facendo esaurire, lo capisci? Ed io
ora non ho bisogno di te che "ti dispiace"!» le urlò e si diresse alla gamba
finta, la agguantò ed agitandola continuò: «In testa ho già tanti pensieri,
questa maledetta protesi, il dolore, la lontananza da mio figlio e tutto, e
l'ultima cosa che mi serve è che tu mi ci metta dentro anche cose che non
esistono!» e scaraventò la protesi contro il muro dietro alle spalle di
Paola.
Il rumore che ne scaturì fece sobbalzare anche Delfi che aveva assistito,
atterrita ed appoggiata con le mani tra schiena e muro, prima all'orazione
delle due donne, poi allo smascheramento finito male ed infine a quella
lite.
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Le due donne si fissarono per qualche secondo soffocando entrambe un
muto pianto interiore.
«Sì...» disse Paola avvilita mentre raccoglieva addolorata le sue cose
«Scusa.» ed uscì.
Adria si volse di nuovo alla finestra, poggiò i gomiti sul davanzale ed il
capo sulle mani e stette così, a piangere.
Delfi sommessamente, cercando di non disturbare o intromettersi nel
dolore di Adria, raccolse la protesi, la riportò al posto, guardò con
afflizione la donna, girò e se ne andò.
III.VI
Uscì correndo e montò sulla sua vespa, percorse in fretta il tragitto,
parcheggiò, oltrepassò il vialetto, si posizionò davanti al portone, bussò e
bussò. «Che è successo?» le domandò.
L'amica lo guardò, allarmata lo invitò ad entrare. «Li hai comprati?»
«Sì, ma si può sapere che devi fare?»
«Andiamo in camera.» disse quella.
Il padre come al solito sedeva incantato di fronte al televisore acceso nel
salotto. Le voci del programma a quiz che si costringeva a guardare
echeggiavano nella stanza ed aleggiavano per aria in cerca di qualcuno
che le captasse.
«Buonasera signor Armando.» gli augurò Alessio.
Ma quello ovviamente non se ne avvide.
Delfi chiuse la porta della sua camera, come se l'uomo avesse saputo
intendere cosa sarebbero andati a fare se anche l'avesse lasciata aperta.
Giunto lì, Alessio tirò fuori dalla busta quegli oggetti che l'amica gli
aveva chiesto di acquistare. «Non so se sono quelli giusti, non sono
propriamente un asso in materia di trucco.»
Fondotinta, ombretti, correttore, cipria e crema.
«Non immagini come mi ha guardato male il cassiere!» esclamò.
«Sì Ale, senti...» e nel cercare le giuste parole per raccontare si levò la
maglia.
Alessio si voltò repentino di faccia al muro.
«Devo imparare a coprirlo, ieri è successo che... ma che fai?»
53
L'amico voltandosi leggermente replicò imbarazzato:
«Ti stai spogliando.»
«Lo so e allora?» disse lei «No, andiamo. Sono in top, mi hai visto mille
volte più nuda al mare.»
«Sì, però...»
«Dai,» continuò, «voltati.» lo agguantò da un braccio e lo ruotò.
Alessio a disagio, non riuscendo a non far scivolare la vista sul seno
dell'amica, restò imbambolato a fissarlo con occhi sgranati, mentre Delfi
continuava a spiegare agitata: «Rocchina... Paola l'ha costretta a spogliarsi
davanti a tutti, se lo facesse anche con me...»
Alessio si riprese, scrollò il capo per spegnere le focose visioni che con
gran facilità erano divampate dentro di sé e disse:
«E cosa... che intendi fare, truccarlo?»
«Sì, ho fatto una ricerca su internet, non dovrebbe essere difficile...»
Pigliò il computer su cui erano aperte una decina di pagine web
riguardanti i tatuaggi e tutto ciò che potesse essere in qualche modo
inerente ad essi, lo posizionò su una sedia di fronte all'amico e pigiò
invio. Partì un tutorial che spiegava ogni passo da compiere per
mimetizzare un tatuaggio. «Guarda qua.» gli disse.
Alessio esitò ed impensierito guardò lei lasciando scorrere il video.
Quella maniacale ricerca dell'amica gli destò non poche preoccupazioni.
«Delfi non credevo l'avrei mai detto, ma... hai valutato la possibilità di
abbandonare? Inventati che devi stare con tuo padre e non puoi più darti
al volontariato.»
«Cosa? Sei impazzito?»
Si fermarono un istante a guardarsi.
Ora che Alessio aveva saputo che avrebbe potuto essere identificato e
quindi accusato di complicità, temeva che l'amica potesse essere scoperta.
Forse temeva più per sé che per l'amica.
Ora che Delfi aveva imparato ad apprezzare la compagnia di Adria ed
aveva imparato che avrebbe potuto apprendere meglio le informazioni che
giungevano direttamente dalla polizia, o quelle che riuscivano a scoprire
le due donne, e a manovrarle a suo piacimento, ora quelle parole
dell'amico le sembravano senza senso.
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«Non puoi coprirlo così un tatuaggio, è estate, il caldo scioglierà il
trucco... Quanto potrà mai durare, mezz'ora?»
Delfi non comprendeva perché l'amico non volesse neanche provarci.
Avevano sempre provato tutto, anche le cose più stupide e scriteriate e ce
ne erano state tante nel corso della loro amicizia, alcune valicarono
perfino il limite legale e morale. Ed ora non capiva perché
quell'atteggiamento di rigetto categorico da parte di Alessio.
«Poi la maglia si sporcherà, credi che lei non lo noterà?»
«Non posso rimuoverlo col laser, costa troppo e poi... e poi io non voglio
cancellarlo definitivamente.»
«Non ti sto dicendo questo.»
Delfi lo guardò ed afflitta chiese: «Allora cosa vuoi dirmi Ale?»
«Niente, che dovrei dirti?»
«Perché non vuoi neanche aiutarmi a provarci?»
«Perché ho paura, va bene?»
«Ora hai paura?»
«Ora.»
Delfi ragionò e capì. Certo, ora aveva paura mica prima.
«Tu mi hai mandato a mangiarci insieme tanto rischiavo solo io, che ti
importava! Ma se rischi anche tu, allora bhè, allora improvvisamente per
te è meglio se non ci mangio più insieme, giusto?»
Delfi si rivestì, aprì la porta e spinse l'amico fino all'ingresso.
«Bell'amico di merda che sei Ale!» lo cacciò fuori, «Non preoccuparti ché
se mi sbattono dentro dirò che ti trovavi lì per caso e che non mi hai visto
in faccia!» e gli lanciò la porta contro.
Poi si volse di spalle e scivolò lentamente sulla parete adagiandosi seduta
a terra con le ginocchia al petto. Si guardò la lettera della madre marchiata
sul fianco e pianse.
Mai avrebbe pensato che un giorno sarebbe arrivata a desiderare di
raschiarla via, sarebbe arrivata ad odiarla.
«Delfi.»
«Papà.» disse.
Si alzò cercando di riacquistare un po' di compostezza.
«Papà stavo solo... io stavo-»
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Avrebbe potuto dirgli che stava imparando a volare, al vecchio non
sarebbe importato e comunque non avrebbe inteso. O avrebbe potuto
raccontargli che stava comunicando telepaticamente con gli esseri di
un'altra galassia grazie all'impianto che le avevano installato nel cervello,
questo lui sarebbe riuscito a comprenderlo meglio. Ma lei cercava sempre
di trattarlo come fosse normale, di non mentirgli mai.
«Non importa quello che dicono di te piccola, io ti vorrò bene lo stesso
perché sono tuo padre e tu sarai sempre la mia bambina.» disse lui.
Poteva sembrare una frase enunciata con lucidità apposta per lei e per
quel momento straziante, ma in realtà era soltanto una delle frasi di
repertorio che il vecchio le ripeteva di tanto in tanto quando voleva far
prendere un po' d'aria alla bocca.
Ma Delfi come tutte le volte che la sentiva formulare gli sorrise e gli
strinse una mano. «Grazie papà.»
E come tutte le volte, anche quella Delfi volle convincersi che l'uomo
credeva fermamente alle sue stesse parole e ne afferrava il senso, perché
quelle erano esattamente le parole di cui lei aveva bisogno.
Tornò in camera e sconsolata iniziò a seguire meticolosamente le
istruzioni del tutorial per imparare a sbarazzarsi del tatuaggio.
III.VII
«In realtà sbarazzarsi di un tatuaggio non è cosa facile.»
L'uomo cercava di esprimersi con parole semplici mentre lei lo stava ad
ascoltare attentamente.
«Una soluzione sarebbe quella di coprirlo con un altro tatuaggio, ma
questa tecnica dipende dai colori del primo e... non è molto efficace.»
Il colore del primo è nero, constatò lei, quel nero ormai sbiadito tendente
al verde.
«Poi il laser. È un procedimento lungo e costoso e non sempre riesce alla
perfezione. Delle macchie resteranno sempre visibili sulla pelle.»
Mentre lo ascoltava spiegare, si domandava quale titolo avesse lui, di
tatuatore? E come facesse ad avere tutte quelle nozioni sui metodi di
elisione dei tatuaggi.
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«È per questo che crediamo che la ragazza non cercherà di rimuoverlo...
Ad ogni modo se dovesse provarci, ci siamo messi in contatto con tutti i
tatuatori della zona, ci riferiranno ogni movimento ambiguo, ogni
ventenne che richiederà di eliminare o camuffare un tatuaggio.»
L'uomo in divisa cessò di illuminarla su quello che avrebbe anche non
potuto fare la criminale che riusciva ancora a sfuggire abbindolando tutti,
ed aspettò ansioso un suo commento.
«Insomma agente, niente di nuovo praticamente... poteva anche non
disturbarsi a venire.» disse Adria.
«Si metta nei nostri panni signora, stiamo davvero facendo il possibile,
ma senza testimoni validi è difficile.»
Adria non se ne diede troppa pena, ancora provata per ciò che era
successo con i suoi alunni e la sua amica, aveva deciso di mettere
momentaneamente da parte la questione dell'indagine.
E mentre quello se ne andava, Delfi entrava.
Lo vide uscire. Le aveva parlato di lei? Di Alessio? Se solo fosse arrivata
cinque minuti prima, maledetto traffico. E se fosse venuto a riferirle che
erano riusciti a risalire al colpevole?
Impossibile, lei l'avrebbe di certo saputo prima essendo lei il colpevole.
Allora si fece animo e dopo averla salutata le chiese: «Novità?»
«Magari... sempre le solite chiacchiere...»
Adria si sedette sul letto, agganciò la protesi e si drizzò sulle stampelle.
«Andiamo a farci due passi in giardino, devo allenare la gamba sennò chi
lo vuole sentire... il dottore. Le sue urla sono l'ultima cosa che sopporterei
al momento.»
Giunte che furono all'aperto, presero a girare lentamente per il giardino.
«Quanti gradi saranno, quarantacinque? Ho scoperto che hanno una
piscina, dobbiamo andarci Delfi.»
La ragazza trasalì. «Ora?!»
«Ora?! Certo che no, hai il costume addosso?»
«No.» rispose.
«E allora...»
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Adria non aveva compiuto neanche i venti passi, che nel corso dei giorni
erano divenuti "almeno cinquanta", che già sentiva di aver fatto uno
sforzo immane.
La tensione, la fatica, il caldo contribuivano a condurla sull'orlo di crisi di
rabbia come quella avuta con la sua migliore amica.
«La tua pianta è davvero utile Delfi... è affascinante.»
«Sì, attira gli insetti, poi quando quelli si posano sulle setole chiude le
foglie e li divora.» disse mimando con le mani le parole.
«Già... che gran bastarda, prima li ammalia e poi se li mangia.»
La donna aveva perso il conto dei passi, certo non erano arrivati a
cinquanta, ma cominciava a sentire quella dannata fitta al moncone.
«Sono stanca.» disse «Sediamoci all'ombra.»
«Già?» si permise di chiederle la ragazza.
Adria le inviò un'occhiata fulminante ed evitò di risponderle, evitò di
innervosirsi ulteriormente. E si andarono a sedere.
La donna sospirò. «Delfi scusa. Ho esagerato l'altra sera quando mi sono
incazzata con Paola, mi spiace tu abbia dovuto assistere.»
«Non fa niente.»
«È che questa situazione mi sta massacrando sia psicologicamente che
fisicamente, a volte penso che sarebbe stato meglio se fossi morta quella
sera.»
Delfi la ascoltava, ma come tutte le volte che Adria parlava della sorte che
le era toccata, volgeva lo sguardo lontano da quello di lei.
«Solo che non posso, ho Elio... non posso neanche decidere di scegliere
quale finale assegnare alla mia vita, devo per forza andare avanti.»
Allora la ragazza tirò fuori il cellulare.
«Ho fatto delle ricerche...» disse «molte persone nella tua condizione non
solo ce l'hanno fatta, ora sono delle star.»
Le mostrò immagini di uomini che stavano su una gamba sola e al posto
di quella mancante avevano particolari marchingegni di chissà quale lega
rara, altri che praticavano sport partecipando a qualche strana olimpiade,
alcuni tenevano in bella mostra il libro che avevano scritto sul proprio
vissuto, ed altri semplicemente stavano ridenti davanti all'obiettivo della
macchina fotografica, in ogni caso tutti felici e contenti.
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«Che cazzo si ridono? Hanno perso una gamba mica vinto alla lotteria.»
Delfi ritirò il cellulare pensando di aver forse sbagliato qualcosa.
Ma la donna vedeva sé stessa in quella gente ed odiava identificarsi in
quegli handicappati.
«Fare sport non mi piaceva quando avevo due gambe, figurati se ci penso
ora!» disse stizzita.
Poi si alzò ancora dolorante, ma stufa di quelle immagini, di quelle
persone che la circondavano, di quel sole che picchiava senza aver pietà
di nessuno, nemmeno di lei, nemmeno il sole, stufa di tutto disse:
«Torniamo.»
La ragazza la seguì taciturna, timorosa persino di chiederle se avesse
bisogno d'aiuto.
E quando arrivarono in camera, Adria si levò la protesi rilasciando
un'espressione di sollievo. «Fanculo i cinquanta passi.»
Il suo arto tranciato tornava finalmente a traspirare.
Si riposizionò diritta sulle stampelle davanti a Delfi ed il resto accadde in
un attimo.
La ragazza aveva sempre cercato di evitare di guardarla, la gamba della
donna, per far sì che non le ricordasse il crimine di cui si era macchiata.
Ma quella volta la curiosità vinse sul buon senso e Delfi lasciò cadere
un'occhiata fugace su ciò che rimaneva della gamba, e se ne pentì subito
dopo.
Non vide una gamba, vide un'estensione mal ridotta ciondolare verso il
basso.
Adria colse il suo sguardo e più che altro ne colse il senso d'avversione.
«Credi che a me piaccia?» disse infastidita «Non guardarla se ti fa schifo,
certo io non la coprirò solo perché ti disturba la vista.»
La ragazza rimase basita. Trattenne il fiato a mezz'aria tentando di trovare
le giuste parole.
Voleva farle credere di non aver inteso a cosa si riferisse, voleva negare di
averla guardata, o almeno negare che le facesse schifo, voleva ad ogni
modo scusarsi, voleva fare e dire molte cose, ma non fece e disse niente.
La donna passandole accanto con le stampelle le scagliò un'occhiata
sbieca ed uscì dalla stanza.
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Anche lei osservava la sua gamba e provava repulsione. Non la
riconosceva più, non era più la sua gamba, non era più una gamba.
Era un pezzo deforme attaccato alla sua anca, avrebbe voluto strapparselo
via a mani nude, ma quelli l'avevano lasciato appeso lì, inutile e fastidioso
alla vista e al tatto. Le pareva la coda di qualche animale spennato che
continuava a muoversi anche dopo essere stata staccata dal resto del
corpo. La odiava.
E se era ripugnante per lei nonostante fosse parte di sé, quale senso di
ribrezzo doveva suscitare negli altri.
Sentiva addosso gli sguardi di disgusto della gente, come se quel pezzo di
carne molle dovesse essere oggetto di vergogna per lei, colpevole di
volersela portare appresso, colpevole di volerla mostrare in giro.
"Copriti quello scempio!" sembrava che le gridassero mentre nauseati le
passavano accanto.
Iniziò ad odiarle tutte, le persone.
Anche chi il suo odio non lo meritava. Anche chi magari non la guardava
affatto. Anche chi come Delfi non si interessava alla sua mezza gamba,
ma a lei.
Le aveva mostrato foto di uomini che ce l'avevano fatta per incoraggiarla
a tenere duro, per stimolarla a continuare a combattere, per aiutarla a
superare quella fase spinosa che lei stessa le aveva appena confidato di
attraversare.
Sembrava ad Adria di aver ottenuto la capacità di saper mutare in nemici
tutti gli amici che cercavano di aiutarla.
Allora tornò in camera per riconciliarsi con la ragazza, ma quella era già
svanita.
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CAPITOLO IV
IV.I
"Forse ha ragione," meditava "devo lasciar perdere."
Camminava immersa nelle sue riflessioni senza far caso alle persone che
le scorrevano accanto.
"Ora entro in camera, mi scuso e le dico che lascio perdere."
Decise così, mentre creava parole trascinando il dito sul cellulare e
distratta dal gioco, senza rendersene conto oltrepassò l'uscio.
«Ehi!» esclamò meravigliata Adria.
«Ciao.»
«Credevo non ti avrei più rivista.»
Delfi non replicò, bloccò il gioco, silenziò la suoneria e ripose il cellulare
in borsa.
«Sono stata una vera stronza, sono così mortificata.»
«No, non fa niente.» disse mentre si dava da fare a stipare lenzuola ed
asciugamano che l'inserviente le aveva appositamente lasciato su un
carrello. «Sei tesa, stai attraversando un brutto periodo, lo posso capire.»
«Delfi.» Adria si levò dal letto ed arrivò saltellando su una sola stampella
a lei. «Non devi per forza essere sempre così educata... se la prossima
volta faccio la stronza, mandami a fanculo. Ok?»
La ragazza la guardò alcuni secondi negli occhi, affermò timidamente con
un cenno della testa e riprese a fare le sue faccende.
«Mentre venivo ho incontrato Paola che usciva con un bambino.»
«Sì, Elio. Mio figlio... devi conoscerlo.»
Annuì. «Avete chiarito?»
«Oh, sì.» disse «Sai com'è? Siamo come sorelle, litighiamo spesso, ma ci
vogliamo bene.»
«Bhè sì, lo so.» e poi pensò che magari avrebbe potuto trovare supporto in
lei, perché Delfi al momento non aveva altri che lei. «Anch'io ho litigato
col mio migliore amico, ma...» disse «non abbiamo ancora parlato.»
«Come mai avete litigato?»
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La ragazza rifletté, nel suo cervello si riprodussero le immagini di lei che
sbatteva la porta in faccia all'amico ed il suono delle ultime parole che gli
rivolse. Titubò.
La donna notando la sua esitazione e credendo di aver appena invaso un
territorio privato rettificò:
«Insomma, se è una cretinata non dovrebbe essere difficile comprendere
cosa fare, se vale più della vostra amicizia... è una cretinata?»
E mentre Delfi prendeva fiato per rispondere chissà cosa, una voce la
interruppe: «Professoressa buongiorno!»
Delfi si paralizzò mentre osservava con occhi sbarrati quella irruzione.
«Ehi, ciao Dario!»
Il ragazzo era vestito di una camicetta bianca a mezze maniche, bermuda
beige, capelli imbrattati di gel e teneva in mano una scatola di
cioccolatini.
«Ero nei paraggi e mi son detto, perché non andare a far visita alla prof?»
e le porse la scatola.
«Ma che bel pensiero Dario!»
Il ragazzo si voltò a Delfi: «Ciao Delfi.»
Lei ammiccò diffidente.
«Vi conoscete?» chiese Adria.
«Sì,» disse lui «un tempo... bhè a dire il vero neanche troppo tempo fa,
quanto Delfi, un anno fa?»
Lei non rispose. Cercava di convincersi che quella fosse una visita di
piacere, ma era troppo sveglia per non accorgersi che non poteva essere
una coincidenza. Così quello disinteressato al suo silenzio riprese:
«Un'estate fa frequentavamo lo stesso giro... giro di amici.»
Adria guardò i due ragazzi pensando che forse Dario potesse essere il
ragazzo appiccicoso di cui le aveva parlato la ragazza.
«Infatti Delfi, sai cos'ho trovato qualche giorno fa mentre spulciavo le
foto del mio cellulare?» e mentre lo diceva, lo faceva, tirò fuori il
cellulare ed iniziò a sfogliare le immagini della sua galleria.
«Te la ricordi quella giornata al mare, io tu Alessio e Claudia? Ricordi
come ci siamo divertiti?»
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Delfi prese a respirare più forte, a fissarlo con ardore, mentre tutto il resto
svaniva dalla sua visuale e riusciva a distinguere solo la sua faccia
insolente, solo lui e ciò che diceva.
«Avevo scattato un paio di foto...» il suo indice continuava a scivolare a
scatti lesti sul display, «eravamo così allegri... in costume.» disse e la
fissò un attimo distogliendo la vista dal telefono, «In costume.» ripeté.
Notò il terrore che sprigionarono gli occhi di lei e le ostentò un sorrisino
bastardo, un sorrisino che solo i due ragazzi riuscirono a cogliere. Poi
tornò a cercare tra le foto.
«Cavolo!» disse «Non riesco più a trovarle.» e la fissò ancora, sempre con
lo stesso angolo della bocca tirato in su.
Delfi si voltò ad Adria per comprendere se avesse intuito qualcosa e vide
una donna che stava semplicemente aspettando che le venissero mostrate
delle foto che forse erano andate perdute.
«Devo andare, devo... Cecilia mi sta aspettando.» disse e senza
aggiungere né gesti né altro uscì di fretta.
L'incontro al mare con Dario lo ricordava bene, uno di quegli avvenimenti
travestiti da casualità che invece altro non sono che argute strategie del
fato per poter poi colpire facilmente in futuro.
Anche Dario ricordava bene quell'incontro, ricordava bene Delfi ed
Alessio e meglio ancora ricordava il suo fianco nudo e marchiato.
Le stava succedendo di nuovo, l'ennesimo colpo di sfortuna dritto in
pieno petto.
Si diresse in bagno, chiuse a chiave la porta dietro di sé e dentro di sé, si
guardò allo specchio e vide due occhi inondati di disperazione e per un
breve istante ebbe come la sensazione che non le appartenessero. Aprì il
rubinetto e fece scorrere un po' d'acqua sulle mani, sul volto, un altro po'
ne bevve e poi stette col capo ed il peso delle sue riflessioni appoggiati
sulle braccia e quelle sul lavandino.
Non riusciva a riconoscere più dove avesse sbagliato, le pareva tutto un
lungo e terrificante errore che durava da ormai troppi mesi.
Cercò di tornare lucida, di rimettere insieme i pezzi della sua logica che si
erano frantumati e taglienti andavano a zonzo per il suo cervello causando
ferite sanguinolente e dolenti.
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Poi andò ad aspettarlo fuori all'ingresso della clinica.
Aspettò cinque, dieci, poi altri cinque minuti ed ancora altri eterni minuti
finché quello finalmente si presentò all'uscita.
Lui se l'aspettava, si aspettava che lei lo aspettasse e per nulla sorpreso
della sua presenza la fissò senza arrestarsi.
Lei ricambiò l'occhiataccia e prese a seguirlo. «Che vuoi?» gli strillò
mentre lui strafottente proseguiva verso la sua piccola auto.
«Che vuoi bastardo?» gli strillò più forte e lo spinse da dietro alle spalle.
Quello inciampò e poi con molta calma si girò a lei. Sghignazzò.
«Devo per forza volere qualcosa?»
Delfi lo stava a guardare e con angoscia aspettava che le sferrasse il
colpo.
«Certo Delfi, non sei stata per niente furba... a che pensavi quando ti sei
offerta di darle una mano dopo che le avevi tolto una gamba? Una mano
per una gamba non mi sembra uno scambio equo.»
«Dimmi che cazzo vuoi e falla finita.»
«Eh Delfi, Delfi. Vorrei un sacco di cose... ma la domanda giusta è: cosa
sei in grado di darmi tu?» le si avvicinò e le sfiorò la guancia col dorso
delle dita. «Quanto credi che valga il mio silenzio? O piuttosto, quanto
credi che valga la tua libertà?»
«Ho cinquecento euro, te li porto oggi stesso a casa tua, saranno tuoi.»
«Ah ah ah! Cinquecento euro! Così poco vali?» lentamente accostò la
testa a quella di lei e le bisbigliò all'orecchio: «Devi valutarti di più
tesoro, sei così bella... e fortunata, così fortunata che voglio solo il tuo
corpo Delfi, niente soldi.»
«Sei un verme schifoso, te lo puoi scordare!»
Lui si scostò di scatto e la guardò.
«Ah no?» disse. «O quello o mille euro.»
«Non ce li ho mille euro, sono troppi.»
«Va bene, allora torno dentro e spiffero tutto alla prof. Avrai tipo...
mezzora di vantaggio per fuggire lontano e far perdere le tue tracce.» e si
avviò verso l'ingresso.
Allora Delfi lo ghermì per un braccio e lo volse a sé.
«Ok.» disse. «Va bene, mille euro... ma mi servono almeno due giorni.»
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«Uno.»
«Dario ho bisogno di tempo per racimolarli, ti prego!» e con le mani
giunte si chinò leggermente con la schiena come ad implorarlo.
Lui gratificato di essere trattato da dio, come un dio spietatamente ribadì:
«Ho detto uno. Entro domani sera.»
E mentre quello entrava in auto, metteva in moto e le indirizzava occhiate
di successo dal finestrino aperto, lei piangeva terrificata.
IV.II
«Perché piangi?»
Fu la prima domanda che le rivolse dopo che la ebbe invitata ad entrare.
Delfi non poteva farne a meno. Non era un pianto rumoroso il suo, era un
pianto interiore e profondo, uno di quei pianti di rassegnazione alle
avversità che crudelmente si abbattono sulla vita deviandone il corso.
Ma Alessio lo distingueva nel suo sguardo, quel pianto riservato e
discreto.
Gli raccontò di Dario e d'un tratto il loro screzio passato sembrò una
cretinata.
«Merda! Ci dovrà pur essere una soluzione.» disse Alessio mentre
passeggiava per la stanza sfregandosi le mani.
«La soluzione c'è, ma non piace né a me né a te...» lo guardò un istante.
«Confessare.»
«Delfi, ci deve essere un altro modo.»
«Quale Ale? Mettiamo una calza sul viso e rapiniamo una banca? O
facciamo a pezzi quello stronzo e lo buttiamo in pasto ai pesci?»
Delfi si levò dal divano ed andò a guardare fuori dalla finestra. Pioveva. Il
primo temporale estivo di metà agosto. Il vapore della pioggia che si
infrangeva sull'asfalto ancora cocente giungeva forte ai suoi sensi.
Inspirò. «Non ho abbastanza soldi, credevo di averne di più invece ne ho
solo duecento.»
«Io ne ho cento.»
«Appunto. Non sono neanche un terzo di quelli che vuole quel figlio di
puttana.»
Alessio tacque qualche secondo preso dalle sue congetture.
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«Possiamo vendere il computer e la wii.» disse.
«E quanto possiamo ricavarci, altre trecento? Il computer funziona per
miracolo e la wii è datata.»
Allora il ragazzo si afflosciò su una sedia e non gli parve più tutto così
insensato. «D'accordo,» disse «confessalo. Ma a lei, non alla polizia.»
Delfi si girò incredula mentre l'amico continuava a parlare.
«Forse dovremmo prenderci le responsabilità delle nostre azioni ed
accettarne le conseguenze.»
Delfi non capiva. E neanche Alessio in realtà capiva a pieno ciò che
diceva. Sapeva solo che: «Ho paura Delfi, non riesco più a mangiare. E in
questi giorni che eri incazzata con me non riuscivo a pensare ad altro se
non alle possibili conclusioni di questa cazzo di storia... ed ogni volta
finiva con noi in manette.» Alessio guardava in basso, le parole gli
filavano via dalla bocca come se le stesse leggendo sulle gambe. «I miei
hanno intuito che c'è qualcosa che non va... ho detto che è per una
ragazza, ma non sono stupidi.»
Delfi ascoltava con attenzione quello sfogo.
Era una faccenda che coinvolgeva troppe persone. Una volta confessato le
avrebbe travolte tutte, sconvolte e trasformato i loro sentimenti in astio
nei suoi confronti. Sarebbe stata additata da tutti, non solo da Adria,
Paola, dai genitori di Alessio, dalla sua scuola, dall'intera città, addirittura
i media nazionali l'avrebbero annunciato nei servizi e già le sembrava di
udire la notizia ai telegiornali, mentre suo padre fissava a bocca aperta la
faccia di lei in televisione senza afferrarne il significato, ignaro di ciò che
gli stava accadendo intorno. Lui che, se fosse stato in grado di capire,
sarebbe stato l'unico a poterla capire. E perdonare.
«Se non c'è altra soluzione... non puoi... tu non puoi continuare a vivere in
questo modo Delfi, nel terrore che domani un altro Dario potrà ricattarti.»
Aveva ragione, se non ci fosse stata altra soluzione avrebbe dovuto farlo.
«Credi che lei comprenderà? Sì, insomma... credi che mi farà arrestare?»
Il rumore di un tuono rimbombò nel salotto come se il cielo volesse
prendere parte a quella conversazione e rispondere l'ovvio.
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E lei volle goderseli tutti i restanti momenti di libertà, così tornò a casa e
trovò la tv eccezionalmente spenta ed il vecchio seduto alla sua solita
postazione sulla poltrona.
Si avvicinò e lo vide con la vista fissa sul muro di fronte, immobile. Si
volse al muro, Delfi non ricordava se su quella parete vi fosse un quadro,
un ritratto, forse una macchia, un buco o una crepa, insomma qualcosa.
No, non vi era assolutamente niente. L'uomo fissava il nulla.
«Papà.» disse.
Ma lui non reagì.
Allora gli sedette sulle gambe e l'abbracciò. «Papà, devo confessarti una
cosa, non voglio che tu lo venga a sapere dalla tv.»
Sperava che il padre vinto dalla curiosità le avrebbe dato almeno
l'impressione di essere interessato alle sue parole.
«Ho fatto una cosa di cui mi vergogno e mi dispiace... mi dispiace tanto.»
Sperava che quella confessione fosse lo stimolo giusto per motivarlo a
ragionare, a svegliarsi da quel torpore psichico in cui versava da troppi
anni. «Ho fatto male a una persona, così male che ora non ha più una
gamba e tu ora devi mettermi in punizione, sì papà, dovresti arrabbiarti
con me e punirmi perché sei mio padre e i papà fanno questo.»
Ma il vecchio purtroppo non era mentalmente lì con lei, Delfi l'avrebbe
voluto diverso, ma quello era così, diverso.
«Papà ti prego, aiutami.»
Allora l'uomo abbassò lo sguardo e finalmente lo vide, il viso
supplichevole della figlia.
«Mi hanno mandato un messaggio Delfi, da lassù, è scritto lì.» ed indicò
la parete spoglia di fronte a sé. «Tra un po' dovrò salire a bordo per dare
una mano all'equipaggio e non so se riuscirò ad aiutare anche te.»
«Cazzo papà.» disse Delfi e sospirò, annuì sforzandosi di sorridergli e
costernata lo strinse a sé. Poi aspettò in quella posa che scendesse la sera.
E quando quella calò, Delfi baciò il padre ed uscì.
L'aria si appiccicava addosso soffocante, invadente, il temporale non
aveva fatto altro che amplificare la percezione di calore e nonostante ciò,
Delfi tremava come se una sensazione di gelo si stesse addentrando nelle
ossa.
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Percorreva il tragitto in sella alla sua vespa ed immaginava il momento.
Si sarebbe presentata e senza proferire alcun sibilo si sarebbe svestita.
Gliel'avrebbe fatto intendere così, poi si sarebbe arresa ed avrebbe subìto
in silenzio.
Arrivò, la porta era stata lasciata aperta affinché circolasse un po' di
corrente d'aria, per scacciare quell'afa fastidiosa che non aveva fatto fatica
ad insediarsi all'interno durante il giorno.
Ma lei bussò comunque, non sapeva chi ci avrebbe trovato dentro. Entrò.
«Allora?» le chiese porgendole la mano.
«Non ce li ho.» disse lei.
«Che vuol dire non ce li hai? Avevamo un accordo.»
«Lo so.»
«Bene Delfi, potevi anche risparmiarti di venire... ora levati dalle palle
che ho un appuntamento in clinica con la mia professoressa.» e la scansò
malamente dall'ingresso.
«No aspetta!» lo frenò, «Farò sesso con te.» disse secca.
Lo sguardo di lui si illuminò di entusiasmo, mentre quello di lei si spense
nella repulsione di sé stessa, di lui, ma soprattutto dell'atto di sé con lui.
Quello senza perder tempo, vinto dall'eccitazione che quella semplice
frase gli aveva scaturito, la strinse contro il muro e le si avvicinò col fiato
sul collo.
«Non ce l'hai una camera?» gli chiese.
«Non c'è nessuno.» e si accostò alle sue labbra per baciarla.
«Scordatelo. Niente baci.»
Allora lui le sfilò la maglietta e lanciò un'occhiata al tatuaggio, come a
voler controllare che fosse proprio dove lo ricordava. Le scagliò un
ghigno acido in faccia ed iniziò a palparle il seno.
Lei allungò una mano e premette il pulsante della luce, la spense.
Se grazie all'oscurità non avesse visto quello che avrebbe fatto, avrebbe
avuto l'infelice illusione che non stava realmente vendendosi e tutto
sarebbe stato più facile.
Lui le sollevò la gonna, le tirò giù gli slip e si calò pantaloni e biancheria.
Poi si avvinghiò strusciandosi energico al suo corpo, mentre lei
semplicemente piangeva.
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Lasciò che lui la usasse come un mero oggetto di piacere, si sentì un
animale, perché costretta ad abbassarsi a trattare con un animale e quelle
viscide mani che la toccavano le provocavano un molesto senso di
ribrezzo. Un'umiliazione profonda che le si arrampicò lungo la schiena e
la trapassò da parte a parte all'altezza del cuore.
E mentre rassegnata si abbandonava a quella violenza, fulminee
valutazioni sul valore della sua dignità le folgoravano il cervello.
L'aveva svenduta in cambio della sua libertà.
E poi all'improvviso capì.
Capì che quella altro non era che la punizione finalmente giunta a
castigarla per il crimine che aveva commesso.
Chiuse gli occhi, respirò e sopportò con più tolleranza quella tortura.
IV.III
«Aspetta!» urlò.
Sembrava avesse qualcosa di veramente importante da dire. «Fermati!»
Poteva ancora impedirlo, voleva interromperlo prima che fosse troppo
tardi. «Ce li ho, Delfi ce li ho!»
Correva affannato lungo il tratto che collegava il cancello del cortile alla
porta d'ingresso sventolando in aria una busta gialla. Arrivò e la trovò
ancora aperta. Tastò la parete a destra e a sinistra alla ricerca
dell'interruttore e luce fece. Gli apparve di fronte l'amica.
«Delfi non devi, ho i soldi, ho i mille euro!» disse ansimando.
L'altra giaceva rannicchiata a terra con le spalle al muro e le lacrime agli
occhi.
Alcuni rumori attirarono la vista di Alessio verso la stanza adiacente.
Vide Dario di schiena, vestito di soli jeans, che stappava una bottiglia di
birra ghiacciata.
«Sei arrivato tardi.» gli disse senza girarsi, «Però se ci tieni così tanto, li
accetto lo stesso i soldi.» Poi si voltò, si indirizzò a loro e scavalcando
con un passo lungo il corpo di Delfi, procedette accompagnando la frase
con un'alzata di bottiglia ed una risatina infame, «Alla prossima.» e sparì
in un'altra camera.
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Alessio gli corse dietro e sbatté contro la porta che l'altro gli serrò in
faccia. «Esci fuori bastardo!» gli strillò.
Ma non udendo alcun riscontro alla sua provocazione, si volse all'amica e
l'aiutò ad alzarsi. «Andiamo Delfi, andiamocene da qua.»
«Sto bene... sto bene Ale, davvero.»
Si sollevò stanca, distrutta interiormente ed insieme uscirono e scesero
quei pochi gradini che separavano il vialetto dalla porta.
«Mi dispiace Delfi, avrei dovuto impedirlo, ma non sono potuto arrivare
prima.» disse il ragazzo. «Solo ora sono riuscito a rimediare tutti i soldi.»
«No Ale, no.» si arrestò appena fuori al cancello e costrinse l'amico ad
arrestarsi dopo di lei, «Anzi... grazie lo stesso.» disse e l'abbracciò.
«Delfi sarò sempre dalla tua parte, ricordalo. So che non deve essere stato
facile per te...» si staccò dalle sue braccia e le prese il viso fra le mani.
«Se vuoi posso aspettarlo fuori e pestarlo... non sarò forte come lui e forse
avrò la peggio, però posso assicurarti che anche lui non ne uscirà illeso.»
L'altra accennò qualcosa che assomigliò appena ad un sorriso, «No, lascia
stare.» e proseguirono lentamente verso la vespa. «Deve finire Ale, voglio
solo che tutto finisca... però devo organizzarmi prima, devo... devo
prima...» si interruppe e meditò, «devo risolvere alcune cose.» disse.
Alessio la guardò mentre tormentata e riflessiva estraeva il casco dalla
sella e lo legava al capo.
«Dove... come hai fatto?» gli chiese guardando la busta gialla.
«Ho venduto la vespa.»
Delfi si meravigliò che fosse arrivato a tanto per aiutarla e si commosse.
«Ecco perché ho fatto tardi, sono dovuto venire a piedi e ho fatto una
corsa.» le sorrise. «Quando lo scopre mio padre mi ammazza.»
Ma l'amica proprio non riusciva a ricambiare sorrisi.
«Cazzo Ale.» disse e le porse le chiavi. «Tieni, prendi la mia.»
«No, ma che dici! A te serve, è l'unico mezzo che hai... io ho altre due
macchine a casa.»
Delfi abbassò la testa e passò una mano sugli occhi bagnati.
«Non dovevo permettere che ti toccasse Delfi, merda!»
«No Ale, ho detto lascia perdere. Non mi ha forzato, potevo scegliere di
costituirmi, invece ho scelto lui... l'ho voluto io.»
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«Lo so.» disse lui «Ma non lo volevo io.»
Si guardarono qualche secondo dritto negli occhi. Poi montarono in sella,
Delfi girò la chiave e disse tra sé: «Era così che doveva andare.»
IV.IV
"Non deve per forza andare così." rifletteva "Devo escogitare qualcosa
per collaborare con le indagini e riuscire a scovarla, non deve farla franca,
non può."
Fantasticò di mettere una taglia come nel vecchio West. Una ricompensa
a chi le avrebbe portato il fianco della ragazza tatuata. Vedeva già i
manifesti affissi su ogni palo del paese con l'immagine del tatuaggio
stampata sopra.
E dopo un'aspra ricerca, i cacciatori di taglie l'avrebbero scovata nella sua
tana, avrebbero lottato per catturarla, l'avrebbero legata e l'avrebbero
condotta al suo cospetto. Poi l'avrebbero spinta, "Ecco a te!" le avrebbero
detto. "È tutta tua, ora fanne che vuoi!"
Lei l'avrebbe guardata solo un istante negli occhi colpevoli e le avrebbe
chiesto: "Perché?"
Perché Adria necessitava di un volto a cui attribuire la colpa del dolore
che portava dentro e di quello che provava ogni volta che posava il piede
meccanico a terra, e più d'ogni altra cosa aveva bisogno di qualcuno che
meritasse i suoi sfoghi d'ira.
«Mamma!»
Il bambino tirava la mano di Paola costringendola ad accelerare il passo,
impaziente di arrivare dalla sua mamma. Si arrampicò sul letto e
l'abbracciò.
«Mamma, mamma,» disse eccitato «uno di otto anni m'ha detto, "quella
menomata di tua madre!" ed io gli ho tirato un pugno in faccia!»
Adria sorrise sconsolata e gli pose una mano sulla guancia.
«Bravo.» disse «La prossima volta digli pure che tua madre è un robot
perché presto avrà una gamba d'acciaio e diventerà più forte di tutti... un
supereroe.»
Controbatté così a quella notizia che il figlio riteneva fosse così
importante da riferirla quanto prima e con tanta enfasi.
71
«Come Cyborg?»
«Come Cyborg.»
Lo sguardo del bambino si irradiò di meraviglia, sognò un po' ad occhi
aperti ammirando la bella faccia della madre e poi ridestandosi nel mondo
reale le chiese: «Mamma posso andare alla sala gioco ora?»
«Sala gioco? Amore mio, ho un'idea dieci volte più bella!»
Rivolgendosi all'amica chiese: «L'hai portato?»
In tutta risposta Paola tirò fuori dalla borsa un costumino celeste per il
bambino ed un altro per sé.
«D'accordo, allora aspettiamo che il dottore ci venga a chiamare.»
E mentre il bambino usciva a curiosare in corridoio, Paola volse la vista al
davanzale e vi trovò la piantina di Delfi. Notò una sfortunata zanzara
caduta vittima della pianta, intrappolata su quelle foglie pelose che
tentava lentamente di divincolarsi, ma con scarsi risultati.
«Ehi guarda, ne ha catturata una!»
«Già,» disse Adria «chi l'avrebbe mai detto, funziona.»
«Devi ammettere però che questo regalo mette i brividi... come chi te l'ha
fatto.»
«Paola non ricominciare.»
«Che c'è? Dico solo che è bizzarra.»
Adria si mise seduta ed agganciò la protesi senza dare adito alle parole
dell'amica. Appoggiò il piede a terra e puntualmente si presentò quel
dolore lancinante di cui voleva vendicarsi. Non serviva cercare di
contrastarlo, di batterlo, quello era più forte, vinceva sempre, non le
rimaneva altro da fare che patirlo.
«Ho controllato su internet il significato del tuo sogno, lo fai ancora?»
«Ultimamente meno di frequente.»
«Bene, sognare serpenti significa che c'è un pericolo di cui non ti sei resa
conto, una persona vicina che si comporta in modo poco onesto... "falsa
ed ingannatrice", diceva.»
«E chi sarebbe, tu? Al momento vicino non ho altri a parte il personale
della clinica.»
Paola rilevò una certa irritabilità nelle parole dell'amica ed onde evitare di
finire come la volta precedente precisò:
72
«Ci sarebbe anche un altro significato. Rinascita, guarigione... il serpente
è simbolo della medicina e della salute quindi magari è un buon segno.»
«Ah, non so... forse lo sogno solo perché è il simbolo di chi m'ha ridotto
così, è l'unica cosa che ricordo.»
«Adria sei pronta?» chiese irrompendo il medico. «Si va a nuotare!»
IV.V
Le sembrava di affogare, scalpitava per riuscire a riemergere, ma finiva
ancora più sotto e mentre annegava non c'era nessuno a tirarle un
salvagente, a porgerle una mano.
Eppure non solo in quella, ma in più occasioni Delfi aveva avuto bisogno
d'aiuto, di qualcuno che le dicesse: "Non si fa! Così non va! Questo non è
onesto, questa non è una bella cosa."
Invece dovette sempre capirla da sola la differenza tra bene e male, giusto
e sbagliato, e non sempre ci riusciva, quasi sempre a proprio discapito.
Era andata avanti così, dacché ebbe ricordi aveva dovuto contare solo
sulla propria capacità di discernimento e questa l'aveva portata a sentirsi
sommersa di melma, sporca dentro.
Forse una voce amica adulta saggia avrebbe potuto impedirle certe scelte
ed indirizzarla altrove. Ma lei non aveva mai udito nessuna voce.
Poi inaspettatamente la udì, una voce amica adulta saggia che la
chiamava.
Era Adria in piscina che, ancorata ad una barra metallica, si scalmanava
nella speranza di essere udita.
Delfi la individuò tra una ventina di teste vestite di cuffie colorate e le si
avvicinò accovacciandosi al bordo.
L'eco dei rumori dell'acqua, delle pompe di depurazione, delle voci dei
terapisti e dei pazienti, risonava nell'ampio ambiente chiuso e vetrato.
«Mi sono sgolata per chiamarti.» disse Adria «Come mai due giorni di
assenza?»
«Non stavo bene.»
E mentre lo diceva, Adria si sorprese di constatare quanto fosse ancora
evidente quel malessere, come se ce l'avesse timbrato in volto.
73
«L'infermiera m'ha detto che hai iniziato la terapia in acqua così sono
venuta a salutarti.»
«Non entri?»
«Non... no, il fatto è che non ho il costume e poi non mi sento ancora
molto bene.»
Adria annuì mentre la osservava attentamente negli occhi.
Vide qualcosa di strano, diverso.
«Starò qua intorno, Cecilia mi ha già dato mille cose da mettere a posto.»
«D'accordo, allora magari mi farai compagnia domani.»
Delfi acconsentì e si alzò a fatica.
Ed Adria ne ebbe la conferma mentre la guardava allontanarsi lentamente
a capo chino. «Ehi Delfi!» la chiamò sperando che non fosse ormai troppo
distante per poterla udire.
La ragazza si girò.
«Tutto a posto?»
Delfi aggrottò il viso. Perché quella domanda? Cosa l'aveva tradita?
Come se n'era accorta?
Ma che importava cosa come e perché.
"No, non è tutto a posto, qualche giorno fa un lurido bastardo ha abusato
di me ed io l'ho lasciato fare altrimenti mi avrebbe fatta arrestare per
averti quasi uccisa."
Invece alzò le spalle e semplicemente rispose: «Sì.»
Adria tornò ai suoi esercizi, ma la sua vista non poteva fare a meno di
seguire la ragazza mentre faceva ordine tra il bordo e gli spalti, andando
avanti e dietro a riporre pesi e braccioli, galleggianti e tavolette.
Delfi eseguiva ogni manovra come un automa, distratta, senza badare
troppo a quel che andava facendo. I pesi lì, le aste qua, i braccioli là sotto.
Aveva finito.
«No Delfi!» strillò Cecilia. «I braccioli vanno lassù! E leva quelle
carrozzelle che non servono più.»
"Le carrozzelle via, i braccioli lassù, ok."
Tornò a raccogliere tutti i braccioli che aveva già stipato sotto lo spalto.
Alcuni erano arrivati troppo in fondo.
Si allungò in avanti e la maglietta si sfilò dai pantaloncini.
74
Ma non avrebbe mai potuto rendersene conto Delfi, poiché al momento la
sua mente era occupata da faccende più gravi di una maglia sfilata fuori.
Si arrampicò sui primi pioli in legno della spalliera ed aggrappandosi
stretta con la mano destra usò la sinistra per raccattare i braccioli da terra,
raddrizzarsi e lanciarli sulla pedana.
I primi cinque, dieci, quanti maledetti braccioli lanciò su quella pedana.
E quando furono finalmente quasi finiti, Delfi se ne avvide.
La maglietta non era più incastrata nei pantaloni e ad ogni lancio era
libera di svolazzare sempre più su.
Si bloccò un attimo col braccio in alto e gettò un'occhiata al fianco,
scoperto.
«Cazzo!» esclamò.
Nello stesso istante le parve di udire una voce, la stessa amica adulta
saggia voce di mezz'ora prima che come allora la chiamava.
Ne era sicura? Tra tutta quella confusione, in mezzo a tutto quel
trambusto, ad una tale distanza non avrebbe potuto certo riconoscere
nessuna voce. Eppure le sembrava proprio quella, lo stesso timbro, la
stessa parola ripetuta più volte: «Delfi, Delfi!»
Fu un batter di ciglia. Non si voltò a constatare se fosse solo una
percezione uditiva o meno, saltò giù ed uscì di corsa dalla sala piscina
mentre quella voce che credeva di sentire continuava a strillare il suo
nome.
«Adria, non riuscirà mai a sentirti!» disse il fisiatra «È troppo lontana...
dai, torna ad allenarti.»
Ma Adria pareva immobilizzata, come se avesse visto qualcosa che
l'aveva lasciata di stucco, peggio, di cemento armato.
Poi con dei movimenti scattanti e robotici spaccò quella colata che le era
scivolata addosso e rapida si era rappresa.
«Devo uscire!» disse al medico.
E mentre si posizionava sulla carrozzella meccanica che l'avrebbe
gradualmente ricondotta a riva, rimuginava su ciò che aveva appena
creduto di vedere.
Tra un esercizio e l'altro si era voltata e rivoltata preoccupata in cerca
della sua giovane amica come per assicurarsi che stesse bene.
75
E la scorse agganciata alla spalliera a tirar braccioli verso l'alto.
Durò un attimo, fu solo quell'ultimo lancio che la lasciò allibita, a
chiedersi se le sue capacità visive la stessero ingannando.
Le sembrava di aver intravisto il fianco sinistro di Delfi sporco di chissà
cosa, come scarabocchiato.
Ma forse era così ossessionata da tutta quella dannata storia che vedeva
macchie di serpenti sui fianchi di tutte, persino di Delfi.
Raccolse un po' d'acqua con le mani e si rinfrescò il viso.
Già, non poteva essere riuscita a distinguere così nettamente una figura
tanto piccola da una tale distanza, peraltro in un lasso così ristretto. Si
sentì come se Paola le avesse passato la paranoia.
E non avrebbe certo parlato con l'amica di questo suo piccolo dubbio
perché quella l'avrebbe senz'altro trasformato in un affare di stato
archiviandolo come il precedente caso Rocchina.
La ragazza le aveva assicurato che il giorno seguente sarebbe entrata con
lei in piscina, poteva pazientare ancora un po' e vederla finalmente in
costume.
IV.VI
«Ti vedrà in costume.»
«Mi sono sentita chiamare, era lei, lo so, non è stata una mia impressione,
l'ha visto!»
«Metti il costume intero.»
«No Ale, non hai afferrato... cercherà un altro modo di scoprirlo finché
non le mostro che il fianco è pulito.»
Continuavano a tentare, provando tutte le combinazioni possibili,
fondotinta, ombretto arancione, correttore chiaro, poi fondotinta, ancora
correttore scuro, cipria.
«Non dovrò entrare in acqua...»
«Delfi.» disse Alessio mentre con una spennellata cercava di togliere
colore al tatuaggio. «Valuta bene... ne vale la pena? Sì insomma, tutto
questo affannarti e quello che hai già passato... forse saresti stata più
tranquilla se avessi confessato già dall'inizio.»
76
Allora Delfi intese che semmai l'avessero smascherata allora, la buona
reputazione che si era costruita agli occhi di Adria sarebbe svanita in un
baleno. Si stupì di scoprire che si rammaricava più per la magra figura che
avrebbe fatto con lei piuttosto che per la perdita della sua stessa libertà.
«Credi che non ci abbia mai riflettuto? Credi che non abbia passato notti
insonni a chiedermi cosa fosse meglio fare?»
«Ascolta,» disse pacatamente l'amico ammirando il suo fianco liscio ed
armonioso. «dovresti solo abituarti all'idea che glielo dirai, immagina la
sua reazione ed accettala... Ok, non dico che devi dirglielo ora. Ragiona
soltanto sulla possibilità di confessarglielo. Figurati solamente il modo ed
il tempo in cui potresti dirglielo. Chiediti, e se accadesse? E se glielo
dicessi?»
Delfi se lo immaginò mentre istericamente picchiettava col pennello sulle
linee morbide del tatuaggio. «Facile parlare quando non si rischia la
galera o la morte, perché se lo sapesse ora, sul serio, mi ammazzerebbe.
Preferisco confessarlo alla polizia, avrei meno paura che dirlo a lei.»
Il tatuaggio era completamente ricoperto di trucco. Non restava che
sfumarlo con le dita sulla pelle circostante per uniformare il colore.
«No Ale, ho un altro piano in mente... Lascio la clinica, compio diciotto
anni, vendo la casa, prendo mio padre e lascio il paese.»
«Cosa?!» chiese Alessio sbigottito. «E la scuola?»
«La finisco altrove.»
«Ed io?»
Delfi non riuscì a guardarlo. Mantenendo il capo basso e la vista sul
fianco fissò il trucco con uno spray, mentre Alessio bloccato da
quell'informazione inattesa cessò di dipingere alcuni finti nei necessari a
rendere più reale il lembo di pelle.
«Non posso stare nella sua stessa scuola e neanche continuare ad avere
rapporti con lei, lo comprendi Ale?»
«Ma desterai sospetti se scappi!»
«Non scappo! Dirò che me ne vado per mio padre... In questo modo non
mi scoprirà mai.»
77
Alessio aveva appena appreso che avrebbe perso la sua migliore amica,
allora risentito e triste si levò dal suo fianco, «La verità viene sempre a
galla Delfi.» le disse.
«Intendi dirglielo tu? Altrimenti non verrà mai a saperlo visto che di certo
non glielo dirò io!»
«Ma non ti senti in colpa? Ti importa di quello che le hai fatto o t'importa
solo che non lo scopra?»
«Ma si può sapere che cazzo vuoi Ale? Ho sbagliato, non avrei mai
dovuto avvicinarmi a lei, colpa tua che me l'hai consigliato!»
Alessio deformò il viso in un'espressione di stupore e lei noncurante di
averlo ferito continuò: «Credi che per me sarà facile ricominciare tutto in
un'altra città? Purtroppo non ho scelta!»
«Sì che ce l'hai!» raccolse bruscamente le sue cose, «Il trucco è riuscito
perfettamente,» disse, «ti chiamo fra un'ora.» batté la porta ed uscì.
Delfi si guardò mestamente allo specchio, la esse era scomparsa. Aveva
scordato com'era avere un fianco nitido, erano anni ormai che non
appariva a quel modo, pulita fuori.
Perché Delfi si sentiva diversa da ciò che era quattro mesi prima. La sua
vita ora era altro, il suo futuro era cambiato, lei ne avrebbe voluto fare
grandi cose, ma quello aveva altri progetti e volò via in una folata, finì
chissà dove, se ne andò. E come fosse niente, pure quello la lasciò.
IV.VII
Stava lì in quella gabbia d'oro. D'oro perché sapeva quanto fosse
magnifico il mondo, ma a lei pareva una gabbia. Costretta, stretta in
condizioni che non le piacevano e da cui non c'era uscita. Accerchiata da
altri come lei che compivano, un piccolo passo alla volta, percorsi
spossanti da un lato all'altro della piscina.
Ma il mal comune non le dava gaudio, anzi, quel male che si era riversato
su quei poveracci, molti dei quali avevano dovuto, probabilmente come
lei, accettarlo senza tuttavia meritarlo, la rendeva solo furiosa.
«Adria non ti distrarre! Torna tra noi!»
78
Si guardava attorno, la cercava senza trovarla. Sentiva quel sospetto
impossessarsi di sé e divenire sempre più forte, difficile da contrastare, lo
sentiva insinuarsi nella sua mente come un'ossessione.
Sapeva che più ci rifletteva più finiva per convincersi che quello che
aveva creduto di vedere era stato davvero un tatuaggio, il tatuaggio.
«Adria andiamo, impegnati!»
Ma in un angolo neanche tanto sperduto del suo cuore Adria sperava
ardentemente si fosse trattato solo di un abbaglio, non riusciva ad
ammettere a sé stessa di essersi sbagliata sul conto della ragazza, di aver
fatto un così madornale errore.
"Che scema, s'è fatta prendere per il culo da una diciottenne!" avrebbero
detto di lei, "La cercava dappertutto e quella era lì, col fianco al suo
fianco! Ah ah ah!" e giù a ridere come forsennati della tonta, grulla
professoressa Adriana Tosca, la barzelletta del secolo.
E dopo la rabbia, la delusione che avrebbe certamente provocato in lei
quell'inganno da parte di una persona che ormai le era diventata cara.
E mentre si violentava l'animo in cerca di risposte, alla fine le ottenne.
La vide, vestita di un costume a due pezzi e short bianchi, parlare con
Cecilia.
Delfi non l'aveva ancora avvistata e la donna non volendo farsi
individuare si immerse fino alla bocca confondendosi tra i suoi simili.
La ragazza era lontana e voltata dal lato destro. Adria volle aspettare di
vederle quello sinistro ed osservarlo bene, più da vicino.
Poi Delfi finalmente si girò e... "Sì!" sussurrò contenta Adria stringendo il
pugno sott'acqua.
Nessuna macchia, nessun disegno, nessun tatuaggio, un fianco perfetto.
Quella del giorno precedente era stata solo un'insensata visione.
Sospirò, ora era ovvio. Nessuno avrebbe mai avuto l'ardire di osare tanto,
avvicinarsi a tal punto alla propria vittima, o carnefice, da rischiare di
venire smascherata da un momento all'altro, che mossa poco strategica
sarebbe stata. Che stupida Adria ad aver pensato che a qualcuno sarebbe
potuto venire in mente un'idiozia simile. Sì, che stupida ad aver pensato
che un piano così subdolo avrebbe potuto attuarlo proprio la sua Delfi.
E no, non si era sbagliata sul suo conto.
79
Tirò fuori il collo dall'acqua e la chiamò, voleva correre ad abbracciarla.
La ragazza si voltò, la vide, le sorrise, con molta naturalezza alzò il
braccio sinistro mettendo in bella mostra il fianco ed agitò la mano per
salutarla.
E quando ebbe finito di ascoltare le disposizioni di Cecilia, andò da lei.
«Ciao Adria!» disse «Sarò da te non appena termino le faccende che mi
ha assegnato Cecilia.»
Adria la ascoltava, ma non la guardava parlare. Guardava più giù, un
fianco assolutamente normale. Poi alzò gli occhi a lei e disse: «Ok!»
Ed entrambe tornarono ai propri compiti sollevate e serene.
IV.VIII
Delfi varcò l'ampia entrata della sala piscina come se oltre al suo stesso
carico stesse trasportando uno cento volte più pesante appoggiato sul suo
stomaco.
Avvampava dentro, tremava fuori, stava per giocarsi tutto.
Repentinamente iniziò la ricerca della donna ispezionando con occhiate
meticolose ogni centimetro della vasca e la trovò impegnata nei suoi
esercizi, ma assorta in onerose congetture.
Si levò la maglia, controllò che il trucco fosse ancora intatto e restò in
short e costume. Poi rintracciò Cecilia sul lato opposto e mentre le andava
in contro, con la coda dell'occhio individuò Adria che la cercava ansiosa
dalla piscina. Si arrestò a parlare con Cecilia che cominciò ad elencarle i
lavori da compiere.
E si accorse che Adria l'aveva avvistata, la vide farsi piccola nella piscina
e continuare a fissarla.
Dopo tutto quel guardare, la ragazza ebbe la conferma che la donna il
giorno precedente le aveva intravisto il tatuaggio.
Chiuse gli occhi, sospirò e si volse col fianco incriminato alla vista di
Adria. Attese col cuore in gola una sua reazione, ma non udì nulla.
Si scervellò per comprendere a cosa fosse dovuto quel silenzio.
Poi d'improvviso il suo nome urlato, le pareva, con gioia.
Lo avvertì all'istante nonostante il frastuono della piscina, nonostante la
distanza, perché aspettava quel richiamo, lo bramava con ansia.
80
Si girò e quando vide la donna sorriderle da lontano non ebbe più dubbi,
sospirò e ricambiò il sorriso. Poi alzò il braccio sinistro apposta perché
Adria vedesse il suo fianco smacchiato, e la salutò.
Mentre le si accostava, pensava che se avesse superato quella ulteriore
prova ravvicinata sarebbe riuscita per sempre a scamparla.
Le spiegò che l'avrebbe raggiunta non appena avesse ultimato le sue
mansioni e poi osservò lo sguardo di lei fisso sul suo fianco.
Forse parte del trucco era colato via.
Delfi ci orientò fugacemente la vista e riscontrò ogni cosa al giusto posto.
Forse la donna si era accorta che era stato solo ricoperto di trucco.
E proprio quando Delfi stava iniziando a sudare, proprio allora il viso
sollevato e sereno di Adria rispose: «Ok!»
Con lo stesso umore Delfi tornò ai suoi doveri di volontariato con
un'attenzione ossessiva a non urtare col fianco oggetti o persone.
Intanto l'orario prestabilito era passato già da un quarto d'ora, l'attesa era
estenuante e a Delfi venne il sospetto che l'amico offeso avesse
dimenticato di proposito quale fosse il suo incarico. Un nervosismo
visibile si stava impossessando di lei, ebbe timore che avrebbe finito le
sue funzioni prima di ricevere quella chiamata e che quindi si sarebbe
vista costretta a raggiungere Adria in piscina. Cominciò ad eseguire i suoi
compiti a rallentatore. Tirò fuori il cellulare, ancora nessuna chiamata.
"Ahaa... andiamo Ale, spicciati!"
Per quanto avesse potuto rallentare, le sue attività erano ormai terminate.
Considerò l'idea di fingere di ricevere una chiamata.
«Delfi vieni?» le strillò Adria.
La ragazza macchinò prontamente una scusa da inventare.
«Sì, solo un attimo... devo-»
Lo squillo.
Delfi sospirò, cacciò il cellulare accertandosi che Adria vedesse quella
manovra e rispose.
«Delfi devi venire immediatamente.»
«Che succede?»
«Devi tornare subito a casa!»
«Cosa? Perché?»
81
Ma l'altro chiuse la chiamata. No, non era il suo amico, non rientrava
nell'accordo.
«Che è successo?» chiese Adria preoccupata.
Delfi ristette un istante, non lo sapeva.
Ma di una cosa era sicura, del terrore nella voce del ragazzo, quella voce
terrificata che non era certo parte della recita.
Seppur con altri mezzi il fine fu raggiunto.
«Devo... devo andare Adria, scusami.»
IV.IX
«Sì, va' pure, non preoccuparti.» gli disse «Da ora me ne occupo io.»
Congedò l'assistente del padre e restò sola in quella camera divenuta
mortuaria a vegliare accanto al corpo del vecchio, mentre paramedici,
carabinieri, assistenti sociali, vicini e curiosi affollavano la casa
generando un frenetico stato di confusione.
Le dissero che non erano riusciti ad impedirlo. Poi le dissero che aveva
ingerito sostanze e farmaci di ogni tipo. Le dissero anche che avevano
tentato l'impossibile per riuscire a rianimarlo. Infine le dissero che aveva
lasciato un biglietto per lei.
La ragazza lo teneva stretto nella sua mano sudata, avrebbe aspettato che
dai suoi occhi avesse smesso di piovere, che le sue lacrime le avessero
permesso di leggerlo, magari fra un giorno, un mese, un anno o chissà,
forse mai più.
L'avrebbe conservato per sempre così, spiegazzato e sudicio, l'avrebbe
messo nel portafogli ed ogni volta che per caso ci avrebbe posato
un'occhiata sopra, le avrebbe immaginate lei quelle che avrebbero dovuto
essere le ultime parole del padre: "Perdonami piccola mia. Ora che sei
abbastanza grande da farcela da sola io devo andare, questa vita non fa
per me ed io sento di non far parte di questo posto. So che ce la farai, sei
forte. E sii felice per me come finalmente lo sono io perché sono dove ho
sempre voluto, nel mio paradiso accanto a tua madre. Ora, solo ora sono
nel posto giusto. E da qui ti proteggeremo, veglieremo su di te e ti
procureremo solo il meglio, quello che purtroppo non sono stato in grado
di assicurarti finora. Ti amo, papà."
82
Se proprio avesse dovuto scriverle un biglietto d'addio, così avrebbe
dovuto essere e per timore che la sua immaginazione cozzasse con la
realtà continuava a tenerlo chiuso passandolo di mano in mano,
lacrimandoci sopra.
In mezzo a tutto quel baccano osservava suo padre coricato esanime e
freddo sul letto nuziale ed immaginava che quelle parole gli sarebbero
uscite dalle labbra cianotiche da un momento all'altro.
Anche allora, quando tutto era ormai finito, nel peggiore dei modi, anche
allora Delfi continuava a sperare che almeno, in tutta quella insensatezza
di eventi, in quel clima surreale, il vecchio alla fine l'avrebbe stupita con
un comportamento sensato, un ultimo atto degno di tutto il sentimento che
si addice ad un padre e le avrebbe mostrato quella ragionevolezza per la
quale lei non aveva mai smesso di sperare.
«Io lo so che tu capivi tutto papà, l'ho sempre saputo.» gli disse con le
lacrime che le inondavano le guance buttandosi disperata sul suo petto
ormai piatto e desiderò rimanere in quella posa anche quando il corpo
dell'uomo avrebbe assunto un odore nauseabondo ed avrebbe iniziato a
putrefarsi.
«Delfi.»
Non le importava che qualcuno la chiamasse, non le importava più nulla.
L'amico le si avvicinò e con una dolcezza immensa le pose una mano sul
braccio volgendola a sé. Senza aggiungere parole banali ed inutili
l'abbracciò in un lungo momento sconfinato, mentre Delfi continuava a
bagnargli la spalla di lacrime.
Poi la accompagnò in salotto dagli assistenti sociali, rimasti per aiutarla
ad organizzare la più umile tra le funzioni funebri e per tenerle compagnia
durante la notte.
E quando fu tutto predisposto, Delfi andò a ripararsi nella doccia, aprì il
rubinetto e fuse le lacrime con le gocce che le cascavano sul volto e sul
resto del corpo. Pian piano il getto fece colare dal fianco il trucco che
quella mattina aveva così minuziosamente creato. Si accasciò nella vasca
mentre l'acqua andava colorandosi di marrone e si ritrovò sola, sola
davvero, sola al mondo.
83
Ma nonostante tutta quella solitudine, il giorno appresso un andirivieni di
gente dai visi sconosciuti o dimenticati invasero casa sua, abbracciandola,
stringendo le sue mani come se l'avessero frequentata da sempre, aiutata
negli innumerevoli momenti difficili e come se le stessero promettendo
aiuto per quelli futuri.
"Chi cazzo siete?" le veniva da urlare. "Andatevene subito!"
Invece andava baciando i volti di tutti quelli che si presentavano alla sua
porta e si presentarono proprio tutti, anche Adria.
Arrivò dopo il funerale, quando pochi reduci erano tornati con Delfi a
casa, arrivò zoppicando accompagnata da Paola e temporaneamente
l'attenzione di tutti si spostò su di lei.
La donna attraversò lentamente la stanza e le si posizionò di fronte.
Delfi non la guardò neppure.
Allora Adria appoggiò una stampella al muro ed allungò il braccio alla
ragazza. E lei sentì come se le braccia della donna fossero le uniche al
momento a poterle dare il conforto che cercava, come se quelle braccia
l'attirassero con una forza magnetica incontrastabile.
Accettò l'abbraccio, si lasciò stringere e la strinse a sé con affetto.
E quello fu il secondo sincero abbraccio che ricevette e poi nessun altro.
Adria sedette su una delle poche sedie sparse a caso per la camera ed
attese con pazienza che la casa si sfollasse, che la ragazza rimanesse sola
con gli assistenti sociali.
«Lei è?» chiese una delle due assistenti avvicinandosi ad Adria.
«Sono la professoressa Tosca.»
«Oh, Delfi è una sua alunna?»
«No, no. L'ho conosciuta in clinica.»
«In clinica?»
«Sì, al centro riabilitativo.» disse Adria indicando la protesi.
Ma l'altra fece cenno di non intendere.
«È la volontaria che si occupa di me.» spiegò.
«Ah... volontariato. Non ne sapevamo niente.»
«Deve riferirvi tutto?»
«No, no. È solo che... e da quanto fa volontariato?»
«Con me sta da circa due mesi e mezzo.»
84
Delfi interruppe col suo ingresso quella conversazione e con l'altra
assistente si unì a loro sul divano. «Delfi,» cominciò una «ti seguo ormai
da cinque anni, ci tengo a te, tengo al tuo futuro. Anche se fra meno di un
mese compirai diciotto anni e sarai libera di prendere le decisioni che più
ti aggradano, voglio darti dei consigli.»
Delfi manteneva lo sguardo basso, non aveva mai osservato così
intensamente le venature del tavolino del suo salotto.
«Non perderti Delfi, non ora. Sarebbe uno spreco per tutto quello che sei
riuscita a conquistare finora. La professoressa mi ha detto che fai anche
volontariato...»
Delfi trascinò a stento la vista ad Adria.
«Ad ogni modo,» continuò quella «dopo il liceo potrai iscriverti
all'università grazie alle borse di studio e condurre una vita normale...»
«Volete sapere perché faccio davvero volontariato?» sbottò la ragazza.
Le donne si osservarono perplesse.
Delfi ristette. Portò una mano agli occhi, ci ripensò e riprese:
«Ve lo dico io che farò del mio futuro... se voglio continuare ad
avercelo.» disse quasi bisbigliando. E poi con tono fermo dichiarò:
«Vendo casa e mi trasferisco in un'altra città.»
«Delfi che dici?»
Delfi portò la testa tra le mani esausta e sentì di dover giustificare la sua
decisione a quelle donne che avevano pieno diritto di ricevere una
spiegazione che paresse logica.
«Qui non riuscirei a stare.» disse «Ci sono troppi ricordi.»
«Vieni da me.» propose improvvisamente Adria. «Tra due settimane
inizia la scuola, io finisco la terapia e torno a casa. Ho una camera vuota e
siamo solo io ed Elio. Inoltre mi conosci intimamente, hai imparato più
cose tu su di me che chiunque altro.»
La ragazza colta impreparata da quelle parole cercò in quel traffico di
concetti che le ingorgavano la mente di declinare l'invito con una scusa
che non apparisse soltanto una scusa.
Intanto tentava di trovare la soluzione nelle occhiate di approvazione delle
assistenti sociali, a cui non sembrò poi così irrazionale la proposta della
donna.
85
«Potreste andarvene per favore, ho bisogno di stare sola per schiarirmi le
idee.» disse infine risolvendo a fatica il groviglio nel suo cervello
attraverso una frase più o meno sensata.
«Delfi non sarebbe opportuno che restassi sola, non stanotte.»
«Oh no, non sarò sola. Fra poco arriva il mio amico.» e poi non riuscendo
a sostenere lo sguardo della donna guardò dritta dinanzi a sé e disse:
«Adria grazie, ma non posso accettare.»
Le donne se ne andarono lasciandola sola e lei si guardò attorno e
tutt'intorno rumoreggiava silenzio, un silenzio pesante, pieno del vuoto
che aveva lasciato il vecchio, come quello che lei aveva dentro. Se solo
avesse saputo spezzarlo, invece era di ferro ed il suo peso lo sentiva
addosso e la schiacciava ed a volte, ma solo a volte non le permetteva di
respirare. E restava sotto, schiacciata, senza fiato, dove non c'era nessuno
che l'aiutava a risorgere. Ma non le importava, l'aveva sempre fatto da
sola.
Oppure stavolta non valeva la pena risorgere, sarebbe rimasta lì sotto per
scoprire magari che avrebbe saputo adattarsi anche al fondo, al buio, alla
solitudine e per poi scoprire che le piaceva, che senza fiato, senza
respirare si sta meglio perché non entrano smog e gas nocivi ed allora il
buco nell'ozono non sarebbe stato neanche più un suo problema, ed anche
la politica, la guerra, la fame o la morte, lei era schiacciata lì, dove non
arrivava niente.
86
CAPITOLO V
V.I
Attraversava il lungo corridoio, lo stesso che aveva percorso per più di
due mesi, ma con uno stato d'animo diverso, con la consapevolezza che
quella sarebbe stata l'ultima volta.
Arrivò sull'uscio ed in mente contò "uno, due, tre". Poi cercò di valicarlo,
ma non ci riuscì. Allora contò più veloce, "unduetrè" e come lei varcò
quella soglia, un senso di nostalgia varcò il suo animo. Le sarebbe
mancato, le sarebbe mancata.
Ed ancora, i loro occhi s'incrociarono come altre volte prima di quella e
come la prima volta, quattro mesi addietro.
«Ehi Delfi, ciao.»
La ragazza ricambiò il saluto e poi restò muta.
Aveva preparato un discorso, l'aveva scritto bene in mente, ma in quel
momento le pareva che una fitta nebbia fosse scesa ad offuscare quelle
parole impedendole di leggerle.
Allora cercò di controllare le sue emozioni, cercò di apparire serena,
normale per quanto normale potesse essere tutta quella circostanza, ma
sentiva di sprigionare un'impressione alquanto distorta rispetto a quella
che avrebbe voluto emanare.
«Come stai?» chiese la donna colpita da quell'impressione.
«Insomma.» rispose e respinse una lacrima indietro nel dotto.
«Vieni, siediti.» disse facendole posto sul letto. E mentre la ragazza si
sedeva accanto, lei continuò: «Pensavo non saresti più venuta.»
«Infatti.» replicò Delfi. «Non tornerò più in clinica, ho smesso col
volontariato. Sono venuta per dirti questo e... tra dieci giorni inizia la
scuola e tu finisci la riabilitazione quindi volevo... volevo solo salutarti.»
«Allora ci vediamo a scuola, no? Non è mica un addio.»
Delfi sospirò. «Non lo so.» disse.
«Delfi.» Adria prese fiato come se stesse per enunciare la sentenza più
solenne che avesse mai formulato. «So che non sono nessuno per dirti
quello che devi o non devi fare... però se posso darti la mia opinione, le
tue assistenti hanno ragione. Finisci il liceo qui e poi fa' che vuoi.»
87
Non esattamente, lei era la sola che avrebbe mai potuto dirle cosa fare e a
Delfi parve di udirla allora per la prima volta la voce adulta e saggia a cui
tanto aveva ambito nel corso della sua vita, che la indirizzava sul corretto
da farsi impedendole scelte errate.
Peccato però che proprio quello, il consiglio più utile che avesse mai
ricevuto, peccato fosse così irrealizzabile.
«Sai che potrai contare sempre sul mio aiuto, devo ripagarti di tutto il
bene che hai fatto per me in questi mesi, devo ricambiarti il favore.»
disse.
A quelle parole Delfi reagì piangendo.
«Ehi ehi!» Adria la tirò a sé e l'abbracciò. «L'invito a casa mia è sempre
valido.» le sussurrò in un orecchio.
Aveva creduto di essere andata lì per dirle addio, ma mentre era fra le sue
braccia comprese che si era recata da lei perché la riteneva l'unica in
grado di poterla consolare, di riuscire a farla star meglio. Perché Delfi
aveva bisogno di lei. Ed a furia di costringersi a fingere che quello tra lei
e la donna fosse un rapporto idilliaco, finì col convincersi che fosse
proprio così, quasi d'affetto, e con lo stivare nell'oblio della memoria il
reale vincolo relazionale. E sognò di abbracciare una donna che non le
doveva perdono.
Eccola lì, Adria che le tirava il salvagente, un appiglio di sostegno mentre
lei tentava di risalire. E Delfi necessitava di un appiglio perché l'ennesimo
finto fondo dove piombò tempo fa si era aperto di nuovo. Peccato però
quello non fosse l'appiglio giusto. Allora tese le braccia in su, lo sfiorò, si
illuse per pochi secondi e poi lo rilasciò. E continuò a cadere.
Ma stavolta nessun altro finto fondo ad attenderla più giù.
Stavolta non atterrava, stavolta restava sospesa in un precipizio infinito.
E dopo una vita di cadute libere, dopo tutto quel tempo in picchiata a
Delfi sembrò quasi di riuscire a destreggiarsi in aria, di aver imparato a
volteggiare, di sapersi librare.
Si sentì ancora una volta diversa, addirittura superiore. Possedeva
un'abilità che gli altri non avevano, volava.
«Siamo amiche ormai, vero?» chiese la donna.
88
V.II
«Certo che lo siamo.»
«Allora perché vuoi andartene? I miei mi hanno dato il permesso di
dormire da te, andrà tutto bene Delfi, vedrai!»
«Bene come è andato finora?»
Alessio non rispose. Osservò l'afflizione dell'amica e non riuscì a trovare
una replica appropriata. Forse perché in fondo sapeva che aveva ragione,
ma egoisticamente sperava che scegliesse di restare.
Delfi fissava un punto non definito fuori dalla finestra, senza guardare
veramente che là fuori la vita procedeva come di consueto. Il sole era
sorto, splendeva alto in un cielo senza macchie ed il mondo aveva già
scordato ciò che era capitato a lei, semmai ne avesse avuto alcun riguardo.
E quello che sembrava essere solamente un giorno qualunque seguitava
imperterrito sotto la sua vista.
«Manca una settimana all'inizio della scuola e non hai nemmeno
considerato di mettere un annuncio per vendere casa... come pensi di
riuscire a fare tutto?»
Delfi si voltò. Ah, quanto avrebbe voluto restare col suo amico. E con
l'altra. Ma no, non si trovava di fronte ad un bivio, non c'era nulla da
scegliere, doveva andarsene, basta.
«Ti chiedo solo di ragionarci meglio.» buttò un'occhiata all'orologio del
cellulare, «Devo andare.» disse ed uscì.
Delfi osservò la parete nuda dove suo padre immaginava scritte fantasiose
e pensò che quel vecchio pazzo sarebbe mancato a lei, non di certo ai suoi
vicini o agli assistenti sociali, neppure al suo medico. A lei solo e alla
poltrona che occupava, al televisore che fissava, all'aria che respirava.
Allora tirò fuori dalla tasca il suo biglietto e proprio mentre stava per
decidere di leggerlo, il suono del campanello la dissuase da quell'azione.
Aprì la porta con la mente ancora altrove credendo che Alessio avesse
scordato qualcosa.
«Ciao.»
Delfi restò sbigottita, un sentimento di profonda paura si scontrò con uno
di puro piacere.
89
Non si aspettava di vederla ancora, ancora a casa sua, quel legame che lei
stava cercando di recidere non pareva volersi spezzare.
«Ehi Adria, ciao.» disse e dopo un'intensa pausa la invitò ad entrare.
«Mi ha accompagnato Paola, sai, in questi ultimi giorni mi lasciano più
libera di andare dove voglio.» disse mentre si accomodava sul divano.
«Vuoi qualcosa? Caffè, tè, succo?»
«Succo, grazie.»
La ragazza si diresse verso la cucina.
«Pesca, arancia o pera?» chiese ad alta voce.
«Arancia.» sentì rispondere.
Aprì il frigo, prese il succo, poi il bicchiere, i biscotti. Poi prese fiato,
lontana dalla vista di Adria, e col fiato sperò che le entrasse dentro anche
la forza di controbattere per l'ennesima volta a qualcuno che la esortava a
rimanere. Non aveva affatto voglia di declinare le proposte appetibili
della donna e di soffrire nel declinarle.
Tornò in salotto e posò il vassoio sul tavolino.
«Paola ha detto che torna a prendermi tra mezz'ora. È difficile stare alle
dipendenze di qualcuno.» Le sorrise.
La ragazza si sedette e la guardò. E l'altra guardò lei.
«Delfi, hai deciso?» le chiese.
«No, in realtà. Non avevo niente da decidere. Sono costretta ad
andarmene.»
«Costretta? E perché?»
"Per te." disse senza voce. E fu dura privare quella riflessione di tono.
E se non fosse rimasta solo una riflessione?
Se gliel'avesse spiattellato allora infischiandosene delle conseguenze,
fredda e diretta, sbalordendo la donna e soprattutto sé stessa e senza aver
pianificato nulla, gliel'avesse sparato in faccia così inaspettatamente?
Avrebbe potuto essere quello il momento della confessione scaturita dalla
disperazione, doveva solo esordire. Allora semplicemente così parlò:
«Che pensi del perdono?»
«Come?»
«Sai, mio padre...» le vennero gli occhi lucidi. «Fossi in me lo
perdoneresti per quello che mi ha fatto?»
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«Delfi, io...»
«Mi ha lasciata sola.»
«Non sei sola, ci sono io... e quel tuo amico.»
«Lo perdoneresti?» ripeté animatamente.
Adria sospirò. «Perdonare è amare, se gli vuoi veramente bene...» esitò, la
osservò piangere per pochi secondi, «se gli vuoi bene l'hai già perdonato.»
concluse.
«E che mi dici di quella che t'ha investito?»
«Che vuoi dire?»
«Tu la perdonerai mai?»
Adria titubò stupita, mai si sarebbe aspettata di dover rispondere a quella
domanda, «Bhè, ecco...» si soffermò a pensare. «Di una cosa sono certa,
io non le vorrò mai bene, come potrei, mi ha quasi uccisa... perciò no, non
riuscirò mai a perdonarla.»
Delfi si ammutolì. Avrebbe voluto allora dichiarare sconfitta, arrendersi e
mandare tutto all'inferno, sé per prima.
«Non lo vedrò mai più, neanche dopo morta perché io andrò all'inferno.»
«Cosa?»
«L'hai detto tu.»
«Ma che dici Delfi?»
Si agitò, passò una mano tra i capelli respirando pesantemente e si lanciò
contro lo schienale. «Non voglio perderti.» le disse flebilmente.
«Allora non andartene, resta.» replicò d'impulso la donna.
«E non voglio che mi odii.»
«Dovrei odiarti perché te ne vai? Delfi,» disse con pazienza. «certo che
no.»
«Oh sì invece, lo farai però ancora non lo sai.»
Adria mosse il capo confusa ed accigliò la fronte in un'espressione di
incomprensione.
Delfi portò le mani alle tempie come a voler impedire all'immagine della
reazione della donna alla sua rivelazione di entrarci, ma fallì. Quella era
ormai già dentro, sistemata comodamente nel suo cervello, là dove Delfi
ora era rimasta bloccata. Bloccata con quella visione prese a sudare.
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Adria davvero non riusciva a cogliere il senso di quella nevrosi
improvvisa e preoccupata le chiese: «Che ti prende?»
Ma lei continuando a riprodursi in mente la sua imminente reazione, non
riuscì a dirglielo. E doveva apparire parecchio strana ai suoi occhi.
«Tu mi vuoi bene?» le chiese.
La donna restò un istante perplessa. Scrutò quell'inquietudine e quelle
frasi farneticanti. Avrebbe potuto collegare quella domanda al discorso
precedente, ma lungi dalla propria immaginazione la realtà.
Infine pensò che in quel contesto delicato ed incerto la ragazza forse
aveva solo bisogno di un punto di riferimento stabile.
Stette per rispondere affermando quando la suoneria del suo cellulare
deviò il corso del destino. Lo estrasse dalla borsetta che aveva legata ai
fianchi e lesse il nome della chiamata.
Delfi approfittò di quel momento di disattenzione per rinsanire, spalancò
gli occhi, cacciò fuori un lungo sospiro e si levò di scatto dal divano.
«Pronto.»
"Che cazzo sto facendo?" si chiese camminando febbrile per la stanza.
«Sì, mi dica.»
Aveva davvero creduto di poter concludere tutto come in una bella favola
a lieto fine, con la confessione, il pentimento, il perdono.
Che razza di idiota Delfi, davvero non aveva imparato nulla da quella
sequela di disgrazie che le erano successe, davvero non aveva capito che
niente va mai come sperato.
«Ora?»
Ponderò celermente i pro e i contro e si convinse di dover rinunciare alla
confessione per il proprio bene e quello di lei.
Non aveva detto nulla di compromettente, poteva ancora salvarsi e
giustificare il suo comportamento anomalo con una crisi d'ansia dovuta a
tutto ciò che le stava accadendo.
«Bhè, ora non saprei... un attimo e le faccio sapere.»
La donna mise il palmo sul microfono del telefonino e si rivolse a Delfi:
«Puoi accompagnarmi in vespa in caserma? Dicono che è urgente.»
92
V.III
«Hanno trovato il colpevole?»
«Non lo so, non mi hanno accennato niente.»
«Arrivo il prima possibile.»
«Ok, ti aspetto qui.»
Adria attaccò. Si diresse meccanicamente a Delfi e le disse: «Paola
arriverà a breve. Delfi grazie del passaggio, se vuoi ora puoi andare.»
«Posso anche restare, a casa non ho altro di meglio da fare.»
Delfi voleva, doveva, almeno, scoprire il motivo di quella chiamata
urgente. E poi magari chissà, farla finita una volta per tutte con quella
sfiancante farsa.
La donna distrattamente le fece cenno di consenso e poi agilmente placcò
un poliziotto di passaggio: «Scusi, scusi... quanto devo ancora attendere?
Mi hanno detto che era urgente.»
«Signora la chiameranno a momenti.» rispose quello con distacco.
Allora Adria si affacciò alla vetrata di un ufficio, spiò alla ricerca di
qualche volto noto, poi passò all'ufficio appresso e così finché non trovò
più uffici da perlustrare.
Intanto Delfi la guardava muoversi convulsa da stanza a stanza ed una
sensazione indefinita si insinuava nel suo animo. Un misto di emozioni
altalenanti e negative le elettrizzavano corpo e mente a tal punto che i
suoi respiri parevano una serie di scosse ravvicinate e repentine.
Come avrebbe potuto ancora guardarla se l'avessero identificata?
Forse sarebbe stato meglio se si fosse costituita spontaneamente.
"Ok stop, fermi tutti!" avrebbe gridato. "Non affaccendatevi oltre. Sono io
quella che cercate!"
O forse no. Si lasciò trascinare dagli eventi non sapendo se questi
l'avrebbero in fine condotta alla deriva.
«Prego signora Tosca, si accomodi.» Si sentì vociare da un ufficio in
fondo.
Adria rispose all'appello voltandosi e, mostrando a tutti che non aveva
mai dimenticato come si corre, anche con una gamba finta, anche da
storpia, volò veloce verso l'ufficio. Poi frenò. «Andiamo.» disse girandosi
a Delfi che era rimasta impalata di fronte a quell'invito.
93
Al richiamo della donna, la ragazza si scrollò di dosso parte dell'angoscia,
intraprese una camminata spedita mantenendosi alle sue spalle ed una
dopo l'altra entrarono in ufficio.
«Salve signora Tosca... e?»
«Oh, lei è una mia amica ed assistente, Delfina Moggi.» spiegò Adria.
L'ufficiale la analizzò accuratamente in viso e tacque alcuni secondi.
«Accomodatevi.» disse infine.
Seppur per motivi differenti ed opposti, mentre si sedevano entrambe
vacillarono.
«Quello che sto per dirle signora Tosca, è... è da mesi che aspetto questo
momento e sicuramente lei lo ha agognato più di me.»
«Avete scovato il colpevole?»
L'uomo si rialzò dalla sedia sulla quale si era appena piazzato ed accennò
un timido sì con la testa.
Adria si illuminò di stupore, si voltò verso Delfi e le sorrise con
entusiasmo.
Vide la ragazza fissare dritto davanti a sé, ma non la osservò davvero. Se
l'avesse guardata con un minimo d'interesse, avrebbe notato una piccola
goccia di paura colarle giù dalla tempia.
«Siamo giunti ad una svolta, un colpo di fortuna lo chiamerei.»
Rapita da quella notizia sibillina, Adria si ridispose incredula ad ascoltare
le successive parole esplicative dell'ufficiale.
«Un negoziante è tornato in città dopo cinque mesi all'estero. All'epoca ci
mettemmo in contatto coi suoi familiari che ci dissero che aveva chiuso
bottega, ed era partito. Possiede una di quelle attività commerciali che
compra oro...»
Adria non riusciva ancora a scorgere il punto risolutivo.
«Il negozio è nei pressi dell'incrocio di via Roma. Ora... è venuto fuori
che aveva lasciato accesa la telecamera di sorveglianza che ha continuato
a registrare per qualche giorno finché lo spazio su memoria non si è
esaurito. E tra questi vi è la notte dell'incidente.»
Il cuore della donna esplose di eccitazione, le spedì in viso un colorito
rossiccio, batteva pulsazioni raddoppiate come se si fosse impossessato
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anche di quelle del cuore di Delfi che dunque, senza più battiti, si arrestò
privando il suo viso del colorito naturale, rendendolo pallido e smorto.
«Dopo aver saputo dell'incidente, il commerciante ha rilevato il video di
quella notte e ce l'ha consegnato.»
«Salve.» disse ansimante Paola irrompendo nell'ufficio senza aver avuto
alcuna premura di bussare.
«Che mi sono persa?»
«Lei è?» chiese l'uomo come importunato.
«Paola Gervasi, piacere.» e gli porse la destra.
«È una mia collega, la mia migliore amica.» disse Adria quasi a scusarsi.
E mentre ripetevano concisamente a Paola l'avvicendarsi delle novità e
quella le ascoltava smaniosa, Delfi si alzò istintivamente e valutò di
sfruttare quell'opportunità per volatilizzarsi dalla stanza.
«Vi mostro la registrazione... però solo se è pronta, signora Tosca.
Potrebbe essere un po' forte per lei.»
«Scherza? Come ha detto, bramo da mesi questo momento.»
L'ufficiale ruotò lo schermo del computer verso le donne e premette invio.
La riproduzione video si susseguì come in un vecchio film degli anni
trenta, muta e senza colori. Delfi la osservava imbambolata con la mano
abbarbicata alla maniglia della porta come fosse in procinto di evadere,
ma la voglia di rispolverare il reale andamento dei fatti, che nel suo
cervello risultava appannato e caotico, batteva quella di dileguarsi.
La ripresa della strada desolata durò alcuni secondi, poi all'improvviso si
animò di un'auto che sfrecciava ad alta velocità verso l'incrocio seguita
diversi metri più dietro da un ragazzo moro, di corsa, con occhiali neri e
tondi, che ad un tratto si bloccò con le mani nei capelli ad osservare lo
schianto contro l'altra auto.
Adria sussultò come se stesse riprovando la sofferenza di allora, una fitta
atroce dovuta ad una bomba esplosa proprio sulla sua gamba sinistra.
Colta alla sprovvista, benché fosse stata avvisata, levò lo sguardo da
quelle immagini crude e dure.
La realtà non coincideva con i ricordi di Delfi.
A lei era parso molto più che un istante quello intercorso prima dello
scontro.
95
E rivedere quelle immagini le produsse un effetto devastante, come se
stesse di nuovo lì, a riviverlo da una prospettiva diversa, dall'alto, dal
punto di vista di dio. Quasi come se la criminale responsabile
dell'incidente fosse la ragazza dentro l'auto, non lei.
Intanto il video seguitò silenzioso per altri secondi, Adria riportò lo
sguardo pieno di pianto al monitor proprio quando la figura facilmente
distinguibile del ragazzo riprese a correre verso l'auto, aprì la portiera,
sbatacchiò ed agitò il corpo dell'altra nell'auto.
«La sta chiamando, non c'è modo di recuperare l'audio?» chiese Paola.
«Purtroppo no.»
Delfi si strappò finalmente dalla maniglia e crollò sulla sedia accanto
rassegnata ormai a subire qualsiasi reazione, punizione o condanna fosse
scaturita.
La sequenza procedette col ragazzo che aiutava la ragazza ad uscire
dall'auto, ma la telecamera riprendeva la scena dal retro.
Filmò la schiena della colpevole che si accasciò a terra a gattoni e poi,
resasi conto della tragedia appena causata, si diresse solerte verso l'altra
auto e si fiondò dentro. L'amico la distoglieva tirandola a sé dai jeans, poi
la lasciò, le strillò qualcosa e scappò via.
Allora anche l'altra uscì ed iniziò a correre, quando lo scoppio dell'auto
rubata la frenò, si girò ancora per qualche secondo verso la donna e poi
indifferente riprese la via di fuga.
Il video sarebbe proseguito con l'arrivo dei soccorsi e della polizia, ma
l'uomo considerando lo shock che aveva procurato ad Adria lo interruppe.
«Tutto ok?» le chiese.
Adria non riuscì a rispondere.
«Si faccia coraggio, siamo vicini all'archiviazione del suo caso.» poi si
riposizionò lo schermo di fronte, manovrò il mouse su e giù e lo rigirò a
loro, «Ecco il fermo immagine del ragazzo con gli occhiali.» disse.
Delfi si voltò ed il profilo ben definito di Alessio le saltò alla faccia.
Ricordò che Adria non aveva avuto occasione di incontrarlo neppure al
funerale. Però immediatamente sentì dire:
«Io... io lo riconosco, io lo conosco, so chi è!» disse concitata Paola.
«Non dimentico mai un volto!» si rivolse ad Adria e le assicurò:
96
«Lo conosco! Dobbiamo chiamare la scuola e farci dare l'elenco degli
alunni di prima A. Feci supplenza a Febbraio.»
«La segreteria sarà aperta, manca meno di una settimana all'inizio...»
L'ufficiale senza indugiare oltre alzò la cornetta ed ordinò la chiamata.
«Delfi,» disse Adria «tu lo conosci?»
La ragazza si destò di scatto da quel torpore catatonico in cui era
sprofondata, tenendosi stretta alla sedia si sporse in avanti e strabuzzò gli
occhi atterriti come a voler osservare meglio la foto.
«No.» disse soffrendo.
«Io... io...» Paola portò la mano alla bocca come se si fosse appena
accorta di qualcosa di sconcertante.
«Io l'ho visto! Sì, l'ho visto Adria, era al parco quel giorno, io ero con Elio
e lui... loro due erano insieme, era con lei! Quella stronza aveva capito chi
ero e si era girata di spalle per non farsi riconoscere, cazzo! Ce l'avevo a
pochi metri di distanza, dannazione!»
Delfi aspettava che riuscisse a collegare ed infine a comprendere che
anche allora si trovava a pochi metri da lei.
A lei che sapeva, le pareva logica ed intuitiva la soluzione e si
sorprendeva del tempo che invece impiegava Paola per ricomporre la
verità con quei cocci frammentari che andava man mano a recuperare
nella memoria. Ma per la donna il nesso non era poi così lampante.
«Se solo avessi saputo, avrei potuto, quel giorno avrei...»
Il rumore del fax che riceveva l'elenco interruppe la frase di Paola.
Le donne e l'uomo si catapultarono a leggerne i nomi.
«Alessio Marino... o Attilio Marino... forse sono parenti. Ricordo che
Marino è di sicuro il cognome.» dichiarò Paola.
«Alessio Marino io lo conosco.»
Tutti si volsero alla voce proveniente dalla ragazza. E Delfi ripeté:
«Alessio lo conosco, non è lui nell'immagine.»
«Perfetto, allora è Attilio Marino.» disse l'ufficiale. «Manderò dei
colleghi a prelevarlo.»
«Grazie Delfi.» disse Adria adagiandole una mano sul braccio.
La ragazza alzò le spalle, schiuse la bocca e mosse lo sguardo colpevole
in ogni direzione, cercando di non incappare in quello di lei.
97
«Devo, io devo... Adria ora devo proprio scappare.»
V.IV
Doveva proprio scappare.
Era solo questione di tempo, sarebbero risaliti ad Alessio e di
conseguenza a lei. Aveva sperato, invano, di poter aspettare almeno
un'altra settimana prima di mettere in atto la grande fuga, per organizzarsi
meglio e poi partire.
Il sensore del display non riconosceva quelle dita sudate e tremanti e
Delfi dovette provare a comporre la chiamata verso il suo amico ancora
ed ancora. Finalmente ci riuscì.
Un suono intermittente perdurò per parecchi secondi.
"Maledizione rispondi, cazzo rispondi!" Delfi col cellulare incastrato tra
collo e capo continuava a tirare fuori dall'armadio indumenti per ogni
stagione e ad infilarli in una capiente valigia.
Ma erano troppi. Troppi vestiti, troppi oggetti, non sarebbe mai riuscita a
ficcare un'intera casa in una valigia.
Ci provò ancora, il verde, chiama.
Capì che avrebbe dovuto dire addio a quella roba. Capì che l'avrebbe
perduta per sempre, che avrebbe dovuto rinunciare al superfluo e portare
con sé solo l'essenziale. Ed il superfluo corrispondeva ad una vita sana.
«Ale perché non rispondi, andiamo!»
Le parve che oltre a quel grande dramma che stava vivendo, ora anche
quelli di minore entità si stavano abbattendo su di lei per fustigarla. E
furono proprio quelli a farla crollare.
Non la sua dignità andata o che fosse rimasta orfana, non la prigione o la
perdita del rispetto di Adria, ma quel dannato amico che non rispondeva a
quel maledetto telefono. Un pianto dirotto le sgorgò dagli occhi.
E mentre sedeva sulla valigia per riuscire a comprimerla e a sigillarla,
bussarono alla porta.
Era il destino che stava tornando a riscuotere, lo fa sempre, lo fa con tutti,
inutile illudersi, prima o poi arriva, di solito inaspettatamente.
98
E proprio mentre Delfi si illudeva di riuscire a raggirarlo e a fuggire,
quello apparve a chiedere il conto. Non solo. Si accanì su di lei come se
non fosse mai sazio di vederla struggersi e ne godesse, spietato.
Silenziosamente si diresse all'ingresso e guardò dallo spioncino.
Aprì la porta.
«Dove cazzo eri, eh?? Perché cazzo non rispondi al telefono?!» gli urlò
furiosa.
«Quando ho visto le chiamate ero praticamente arrivato, Delfi calmati.»
osservò il viso dell'amica, «Che è successo?» le chiese impensierito.
«Io devo... devo fuggire.»
«Come?»
Delfi non riuscì a spiegarglielo.
«Perché? Ti hanno scoperto?» insisté Alessio sempre più preoccupato.
Ma la ragazza gli volse le spalle e tornò in camera a dedicarsi ai bagagli.
Alessio la seguì e notò quel disordine, quella valigia.
«Delfi.» disse «Che cazzo sta succedendo, ti hanno scoperto?»
Delfi portò un braccio al volto e si asciugò gli occhi.
«Hanno scoperto te.» disse.
«Cosa?»
Alessio impiegò diversi secondi prima di afferrare l'esatto significato di
quella semplice frase, poi si addossò all'armadio e bofonchiò:
«Come... come hanno fatto?»
«Dalla videocamera esterna di un negozio.»
Il ragazzo portò la mano alla fronte e sbarrò gli occhi. «Ed ora?» le
chiese.
«Li ho mandati da tuo cugino per guadagnare tempo, ma non ci
metteranno molto a capire la verità.»
Alessio ingoiò il terrore e sentì le gambe cedere. Si appoggiò sul letto e
con lo sguardo perso nel vuoto le domandò: «Che vuoi fare?»
«Non si vede?»
«Fuggire era un'opzione quando non mi avevano ancora identificato!»
Delfi restò zitta, sapeva di essere in difetto.
«Brava! Scappa pure, lasciami nella merda!»
99
Subì in silenzio lo sfogo dell'amico mentre continuava a cercare oggetti
che le sarebbero potuti servire.
«Che dovrei fare secondo te?» continuò Alessio, «Dovrei dire che non so
chi sei? Eh? Me lo dici? Qualche altra idea geniale?» le strillò arrabbiato.
«Fa' che vuoi.»
Prelevò alcune centinaia di euro dal cassetto di un comò, chiavi, giacca e
calò dal letto la pesante valigia.
«Me l'avevi promesso.» disse Alessio.
Delfi non riuscì a giustificarsi e non lasciando all'amico nessuna
spiegazione plausibile, si avviò verso l'uscita.
«Mi avevi promesso che ti saresti costituita se mi avessero identificato.»
Delfi frenò senza voltarsi, «Mi dispiace.» gli disse infine.
Ed uscì, zaino in spalla, trascinando la valigia, cercando di intravedere tra
le lacrime la via, sperando che non fosse ormai troppo tardi per scappare.
Delfi perse. Non una sfida, non una battaglia. In pochi giorni perse tutto
ciò che possedeva e tutte le persone a cui voleva bene, tutto.
«Ehi aspetta! Delfi aspetta!»
La ragazza si voltò ed Alessio la raggiunse.
Sfilò dallo zaino la busta gialla, «I mille euro della vespa.» disse.
Delfi li accettò senza protestare. Voleva abbracciarlo, ma sentiva di non
meritare la sua comprensione e si trattenne.
L'altro la salutò a malapena con un cenno vago del capo, si girò ed andò.
Delfi si perse. Non in quella via, ma nella vita. Quella sensazione di
smarrimento che si prova quando il fato intralcia e sconvolge i propri
progetti di vita, lei ce l'aveva incanalata dentro.
Arrivò in stazione e si sistemò sul primo autobus diretto alla città più
lontana che individuò sulle destinazioni.
Fu allora, mentre si ammazzava per rinascere in un'altra vita, che si fermò
ad ascoltare i palpiti rapidi e ripetuti del suo cuore.
Lo ammirava, il suo cuore. Perché non si conciliava con lei, di lei era
l'esatto opposto.
Lei era sempre stata lenta, svogliata, incostante e scostante. Si chiese
come fosse possibile che quel piccolo organo tanto perfetto facesse parte
di sé, che perfetta non lo era per niente.
100
Come fosse possibile che battesse così costantemente, senza incipit, senza
scopo, senza stancarsi.
Fosse stata in quello si sarebbe fermato da tempo.
"Se ci tieni battila tu questa cazzo di vita inutile, come correre in tondo
senza raggiungere mai un traguardo. E per cosa poi? Una manciata di
momenti vivibili per una restante esistenza penosa!"
Questo le avrebbe detto fosse stata il suo cuore.
Ma non era il suo cuore, era lei. Ed allora, mentre l'autobus partiva, fu lei
a dire a quello: "Maledizione, ribellati, vendicati, ammalati! Batti da quasi
vent'anni anni, non sei stanco? Di fare sempre lo stesso movimento del
cazzo? Io sono stanca, io per te, non voglio che continui, che continui
inutilmente. Fermati ora, ferma qui. Voglio scendere."
V.V
Ma quello continuava a battere secondi interminabili, non altri rumori,
solo il ticchettio del grosso orologio appeso alla parete a riempire quella
snervante attesa.
D'improvviso Paola fu illuminata da un'idea, tirò fuori il cellulare dalla
tasca come se fosse pienamente soddisfatta di quell'idea e convinta di
quello che stava per fare.
Smanettò sul social network per circa un minuto e poi chiamò: «Adria.»
L'altra si voltò percependo una nota di panico in quel richiamo.
Paola le porse il telefono. Lo schermo ritraeva l'immagine di un ragazzo
sorridente e sconosciuto affiancata dal nome "Attilio Marino" e da un
contorno blu.
«Non capisco.» disse Adria.
«Attilio Marino probabilmente non è il ragazzo che cerchiamo.»
Adria afferrò il cellulare e diede un'occhiata ravvicinata a quella foto.
Già, nessuna caratteristica nel suo volto poteva far pensare ad una lontana
somiglianza col ragazzo del fermo immagine.
«Prova a cercare Alessio Marino.» le suggerì Paola.
«Ma Delfi ha detto che...»
«Forse anche lei si è confusa.»
Adria titubò, poi digitò il nome e pigiò sul primo risultato che comparve.
101
Eccola, la chiara immagine appartenente al ragazzo ricercato, Alessio
Marino.
Adria alzò la testa e sgranò gli occhi.
«Signore,» disse l'ufficiale irrompendo nella stanza. «Attilio Marino non è
il nostro ragazzo. Alessio Marino lo è.»
E dopo aver ribadito l'ormai già nota informazione alle donne, aggiunse:
«È qui.»
Adria si voltò all'amica, si levò d'istinto dalla sedia e si diresse verso la
porta, «Dov'è?» intenzionata a raggiungerlo, ad incontrarlo, a scontrarlo.
«Signora Tosca... un attimo.»
Adria si volse a quelle parole.
«I miei uomini l'hanno portato qui dopo essersi recati dall'altro ragazzo ed
aver inteso l'equivoco. Ci ho già fatto una prima chiacchierata, è
irremovibile.»
«Conosco dei metodi che lo renderanno removibilissimo.» disse Adria
«Lasci che me ne occupi io.»
«Appunto,» replicò quello «la sua irremovibilità sta nel fatto che vuole
parlare solo con lei signora Tosca, con nessun altro.»
La donna increspò la faccia come stranita da quella inattesa delucidazione
e senza indugiare oltre esortò: «Che aspettiamo allora, andiamo.»
Oltrepassarono una serie di stanzini pullulanti di agenti in divisa intenti
ognuno nel proprio incarico e si immisero in un angusto corridoio.
«Ha accettato di parlare con lei a patto che non vi fossero né videocamere,
né microfoni nascosti, né specchi trasparenti, né altre persone, davvero
petulante... ad ogni modo ho deciso di accontentarlo, voglia il cielo ci
conduca alla soluzione di questo caso.» puntualizzò l'ufficiale.
Ma ad Adria importava poco quella chiarificazione, lei ora aveva soltanto
uno scopo da raggiungere, ottenere un nome, nient'altro.
Arrivarono in fondo al corridoio.
«È qui.» disse l'uomo indicando la porta di un ufficio.
Adria senza aspettare ulteriori inviti o raccomandazioni entrò chiudendo
la porta sul muso degli esclusi. Si imbatté nella nuca del ragazzo che
sedeva su una sedia dinanzi ad una scrivania.
102
Tirò a sé la sedia accanto, si sedette e ruotò quella di Alessio ponendosela
di fronte. E senza staccare le mani dai braccioli, si allungò alla sua faccia
e lo fissò.
Il ragazzo calò gli occhi, ma la donna non aveva ancora stabilito che il
silenzio dovesse cessare e perseverò quindi nel suo profondo scrutare.
In soggezione e con grande sforzo Alessio esordì: «È qualcuno che
conosci.» disse incapace di subire oltre lo sguardo penetrante di lei.
«La conosci abbastanza da sapere che è una brava ragazza, non devi
arrabbiarti con lei perché è stato un maledetto incidente, lei non voleva...»
«Basta! Dimmi chi cazzo è stato a farmi questo!» gli strillò battendo un
pugno sordo sulla protesi.
Il ragazzo sobbalzò.
«Dimmi il nome o giuro che ti farò marcire in carcere insieme a lei.»
Alessio intimorito da quella minaccia prese a respirare più veloce.
«Allora?» incalzò spazientita.
Il ragazzo prese fiato e lo ricacciò fuori emanando un suono che
assomigliò a: «Delfi.»
«Come?»
Forse Adria non aveva ben udito o comunque le era parso di aver mal
inteso.
«Sì, Delfi, la tua volontaria.» specificò Alessio, scandendo distintamente
le parole, affinché Adria non avesse più ragioni per non comprenderne
l'identità.
«Non è possibile, menti!»
Alessio restò zitto, come ovvio che accadesse non cercò di convincere
Adria della colpevolezza dell'amica. E quel silenzio parlò alla donna.
«Lei, le... io le ho visto il fianco, non ha il tatuaggio.»
«Era truccato.»
Adria si fiondò sullo schienale. «Cosa?» mormorò.
Udì il rumore del suo cuore andare in frantumi.
Si sentì invasa da ondate di flussi caldi e lacrime di sangue, come
paralizzata dal dolore. Cacciò un debole sospiro, uno di quei sospiri di
disperazione, d'impotenza, di delusione e tradimento.
«Dov'è?» chiese fievolmente.
103
«Io... io non lo so. È fuggita senza dirmi dove andava.»
«Chiamala.»
Alessio esitò, sapeva che non avrebbe funzionato.
«Chiamala ho detto!»
Il ragazzo estrasse il cellulare ed inviò la chiamata. Lo squillo si protrasse
per circa un minuto senza ricevere risposta.
«Riprova!»
Alessio ritentò, ma stavolta nessuno squillo, solo una vocina educata che
informava sull'irraggiungibilità del servizio.
«L'ha spento.» disse Alessio in tono tremante.
Adria spalancò gli occhi e d'un tratto vide ciò che per mesi non era stata
in grado di scorgere.
Capì la sua precisa richiesta di affiancarla come volontaria; collegò il
nome del suo unico amico, Alessio; ricordò l'inferno che sosteneva le
avesse augurato; la menzogna sul nome del ragazzo nella foto; credette
persino al significato del sogno.
Pian piano i pezzetti del suo cuore si ricongiunsero, tornò a respirare,
tornò a sragionare.
Credeva di dover sfogare quella collera che stava prendendo il posto del
dolore, di doverla sfogare su Delfi. Si levò dalla sedia constatando che le
era tornata la forza. Anche quella di urlare. «Cazzo!»
Anche quella di combattere. Strappò il cellulare dalle mani di Alessio e
copiò il numero di Delfi sul proprio.
Poi con le lacrime che le ostruivano la vista si orientò a tentoni verso
l'uscita. Troppe lacrime da portarsi dietro, ne lasciò gocciolare alcune sul
pavimento ed uscì, scardinando quasi la porta.
«Adria che succede?»
«Andiamo Paola.»
«Signora Tosca, dove va?»
«Non agite finché non do il consenso.» ordinò all'ufficiale.
Cercò di spiegare all'amica l'accaduto tentando di strozzare i singhiozzi e,
giunte che furono in auto, si dedicarono ad un'estenuante ricerca della
ragazza vagando per le strade della città fino al tramonto.
Provò a telefonarle ancora, ma nessuna replica se non la solita vocina.
104
«Non può essere lontana, è passato quanto? Un'ora, due?»
Forse di più, perché in quell'attesa infinita il tempo le si era curvato
intorno e la percezione le era risultata sfasata.
Le telefonò di nuovo. E poi gradualmente si arrese alla sua assenza.
Ma l'avrebbe rintracciata sino in capo al mondo, non quel giorno, forse né
il giorno a seguire, in qualche modo l'avrebbe trovata. Prima l'avrebbe
stanata e poi... Poi improvvisamente uno squillo.
«Pronto.»
Non ci fu bisogno che si affannasse tanto e, con suo stesso stupore, Adria
dovette dichiarare la caccia conclusa ancor prima di averla intrapresa.
«Dove sei?» le chiese.
Delfi non lo sapeva con esattezza. Era seduta sul marciapiede di una via
qualunque, fra lo zaino e la valigia, ad ammirare le luci del cielo
crepuscolare. Aveva ponderato a lungo se riaccendere il cellulare ed
infine aveva concluso che Alessio avrebbe potuto avere qualcosa di
veramente urgente da dirle. Avrebbe potuto dirle di non preoccuparsi, che
tutto stava volgendo al meglio e magari che Adria aveva capito e l'aveva
perdonata.
Si destò e riprese coscienza, si guardò intorno e se ne avvide.
Sì, lo sapeva dov'era.
V.VI
Suo padre aveva avuto un bel coraggio a compiere quel gesto estremo.
Osservava la foto dell'uomo che teneva tra le mani insieme al suo
biglietto e quasi lo ammirava. Forse lei non ci sarebbe mai riuscita,
nemmeno nella peggiore delle avversità, nemmeno in quella che stava
attraversando. Il suo istinto di sopravvivenza avrebbe vinto o
semplicemente non era ancora tanto disperata da possedere la forza di
sconfiggere quell'istinto.
Guardò il biglietto chiuso e malconcio e pregò di non pentirsi di averlo
aperto. Sperò che suo padre, lungimirante e conscio di tutto, le avesse
scritto precise istruzioni sul comportamento da adottare per risolvere gli
intrichi derivanti dai suoi peccati.
105
Credeva inoltre che non potesse abbattersi altra sciagura, non riusciva ad
immaginare qualcosa di peggio, quello era già il peggio.
Poi lo aprì.
"L'equipaggio richiede la mia presenza, piccola, è giunta l'ora del
decollo." lesse.
Sospirò afflitta osservando quel foglio imbrattato dall'ultimo pensiero che
l'uomo aveva avuto premura di rivolgerle, credendo di fare cosa gradita e
doverosa.
E fu come se quelle lettere si mischiassero e si ridisponessero in un ordine
di parole più logiche: "No Delfi, ti sbagli. La frase senza senso del
vecchio è la prova che hai torto, non c'è mai fine al peggio."
E pianse, povera Delfi. Di un pianto spasmodico, pieno di singhiozzi,
pareva quasi ridesse. Anzi non pareva, rideva. Ora le risultava evidente,
era caduta vittima di uno scherzo, qualcuno le aveva teso uno di quelli più
brutti, un brutto scherzo del destino. Ironico bastardo, si divertiva
ritenendosi simpatico e lei non voleva dargli più motivo per deriderla.
Pensò ad un modo rapido per farla finita e l'idea più concreta che spiccò
fra tutte fu di buttarsi da un'altezza. Avrebbe finalmente potuto appurare
se fosse veramente capace di volare. Forse ce l'aveva, l'aveva ereditato dal
padre un po' di coraggio.
C'era un ponte lì vicino, alto una ventina di metri, uno di quelli sotto cui
l'acqua scorre agitata e violenta anche quando tutt'intorno è calmo.
Si figurò lì sotto, trascinata dalla corrente, a sbatacchiare tra gli spuntoni
delle rocce col cranio fratturato, a lasciare che il peso della sua colpa la
affondasse per sempre. Sarebbe morta senza il perdono della sua vittima,
vittima a sua volta, e poi sarebbe certo finita all'inferno se un inferno
fosse stato certo.
In fondo Adria aveva dichiarato di volerla vedere bruciare.
Voleva davvero vederla bruciare?
Comunque Delfi non l'avrebbe mai fatto. Vigliacca, come quando non
confessò, come quando continuò a mentire, come quando fuggì, vigliacca
come sempre. Eppure ora quella vigliacca di Delfi stava seduta sul
pavimento del corridoio della clinica ad aspettare il castigo della donna, la
106
prigione, il disprezzo da parte della società ed il suo futuro assente.
Affrontare tutto ciò era avere coraggio, non provare a volare.
Un rumore isterico di passi la destò, alzò lo sguardo e scorse in fondo al
corridoio le sagome di due donne.
«Resta qua.» ordinò Adria a Paola.
Poi per qualche arcana ragione stette lì diversi secondi a scrutare col
pianto negli occhi la ragazza a terra davanti alla sua stanza. Vide che la
guardava con occhi identici ai suoi e, un passo claudicante dopo l'altro,
avanzò lenta lungo il corridoio.
Delfi si levò in piedi come in attesa di condanna ed abbassò il capo.
La donna la raggiunse e le si posizionò di fronte facendole cenno di
oltrepassare l'uscio.
E mentre la ragazza si inoltrava in camera, la mano di Adria, quella libera
dalla gruccia, le agguantò la maglia dal lato sinistro e strappandogliela
quasi, scoprì il fianco.
Non era un serpente, era una esse, la lettera di sua madre, ora era ovvio.
Ed era lei, era stata lei, era sempre stata lei.
Delfi si voltò ed Adria la colpì con uno schiaffo.
La ragazza lo incassò senza alcuna difesa e col viso in fiamme bloccò il
respiro a metà.
«Brucia?» domandò la donna «Mai quanto ho bruciato io.»
Delfi portò lesta una mano al volto e non per il dolore, ma per la
vergogna.
Allora Adria la acciuffò dal braccio e gliela staccò dalla faccia.
«Guardami, guardami!» e Delfi fece come le venne ordinato.
«Che stupida sono stata, una cogliona!»
E mentre le urlava contro, la ragazza indietreggiò impaurita battendo
ripetutamente le palpebre.
«Perché hai voluto prendermi anche per il culo? Non ti bastava quello che
mi avevi già fatto, non ti bastava?»
Ma l'altra non seppe replicare, allagò di lacrime gli occhi e noncurante
della volontà della donna portò di nuovo il braccio al viso.
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Adria avrebbe voluto malmenarla con tanta foga da farle provare tutto il
male che aveva sentito lei negli ultimi mesi, tutto concentrato in pochi
secondi.
E mentre l'ira le ottenebrava la ragione, la sua vista mirò all'estremità di
quel braccio, alla foto del padre che la ragazza teneva ancora stretta in
mano. All'improvviso le parve come se stesse per infierire su un cerbiatto
orfano, smarrito, spaurito, inerme e già ferito.
A bocca aperta ingoiò la disperazione.
«Vattene.» riuscì a malapena a pronunciare.
Delfi affogando nei propri singhiozzi colse l'opportunità di risparmiarsi le
percosse ed eseguì l'ordine.
Paola aveva ascoltato tutto al di là della porta e quando la ragazza la
sorpassò di fretta, si impegnò per non cedere all'impeto di fermarla e
picchiarla.
Poi andò dall'amica che intanto stava immobile a fissare la notte dalla
finestra. «Che farai?» le chiese sommessamente.
Adria con uno scatto repentino allungò il braccio sul davanzale e con una
manata scaraventò la piantina che tanto assomigliava a Delfi a terra,
riducendola in cocci.
V.VII
«Ha intenzione di ritirare la denuncia?»
Adria affermò col capo.
«La vita l'ha già punita abbastanza, non merita anche la mia denuncia.»
La giudice che la interrogava restò basita. «Ne è certa signora Tosca?»
Adria ci pensò. «Non merita neanche il mio perdono, sia chiaro.»
«D'accordo.» disse perplessa la donna. Poi iniziò ad enunciare:
«Considerata la situazione familiare della ragazza, e che al momento dei
fatti era minorenne, la sua mancata denuncia signora Tosca, e considerato
che ha già scontato di propria iniziativa quasi tre mesi di volontariato
presso un centro di riabilitazione per mutilati tra cui lei, vittima del suo
stesso crimine... se lei esprimesse anche una buona opinione sulla
ragazza, la sua pena sarà una sanzione pecuniaria per appropriazione
indebita di autoveicolo e distruzione dello stesso; per guida senza patente
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la pena prevista è una sanzione, ed il rinvio per tre anni del
conseguimento della licenza di guida; ed infine l'obbligo di prestare altre
sessanta ore di lavoro socialmente utile presso qualche struttura di
volontariato.»
«Le risarcisco io.»
«Come scusi?»
«Le pago io le multe.»
La giudice stentava a capire.
«Ho già parlato con la ragazza, mi ha detto che c'era una specie di
rapporto d'amicizia tra voi... Signora Tosca, non vorrei intromettermi, ma
non vorrei neanche che questo le appannasse il giudizio.»
Adria la fissò.
«Ho detto che le pago io.» confermò seria.
«D'accordo.» disse rassegnata la donna e poi rivolgendosi al suo
assistente ordinò:
«Falla entrare.»
Delfi varcò la soglia dell'ufficio ed andò a sedersi sulla sedia accanto ad
Adria, la quale, impassibile, non la degnò neppure di un'occhiata.
«Delfina,» cominciò la giudice. «ho la tua dichiarazione scritta qui. Vuoi
aggiungere altro? Ci tieni a dichiarare qualcos'altro alla presenza della
signora Tosca?»
Delfi annuì, ma poi restò zitta per troppi secondi ed ancora altri, lunghi,
immensi secondi. Diverse frasi, ma nessuna abbastanza persuasiva, le
ronzavano in testa. Eppure avrebbe potuto semplicemente scusarsi. Ma
tacque, si voltò ad Adria e vide il suo sguardo gelido fissare dritto davanti
a sé. Lo sapeva, l'aveva sempre saputo che l'avrebbe persa, semmai
l'aveva posseduta realmente.
La giudice considerando il suo persistente silenzio mosse la bocca in
procinto di parlare, ma una richiesta troncò sul nascere la sua frase:
«Posso dire io qualcosa?» chiese Adria.
«Certo.»
«Puoi risparmiarti le spiegazioni sul perché mi hai lasciato lì a morire.» le
sue parole erano rivolte alla ragazza, ma il suo sguardo continuava a
fissare altrove. «Quello che mi ha fatto più male è che ti sei insinuata
109
nella mia vita con l'inganno, mi vedevi soffrire, ma mi mentivi ogni
giorno guardandomi negli occhi ed avresti continuato a tenermelo
nascosto chissà fino a quando.»
Delfi subì quell'ammonizione ed i restanti minuti costretta in quell'ufficio
a faticare per contenere le lacrime, mentre ascoltava la pena che le veniva
inflitta dalla legge e le offerte di pagamento delle sanzioni da parte di
Adria.
«Se nessuno ha altro da aggiungere,» annunciò infine la giudice
guardando la querelante e l'imputata. «allora credo di poter ritenere la
seduta sciolta.»
Al che Adria si alzò, agguantò la sedia della ragazza, la ruotò a sé e si
piegò leggermente verso di lei, «Credi che la tua condanna pareggi?» le
disse «L'inferno nel caso non dovesse esistere lo vivrai portando per
sempre il peso di quello che m'hai fatto sulla coscienza... e forse poi
saremo pari.» Poi si ricompose, si avviò alla porta ed uscì.
Forse aveva esagerato, avrebbe dovuto trattenersi, era solo una ragazza e
non meritava tutto quel livore.
Cosa? Non lo meritava?
"Cazzo!" si adirò con sé stessa.
Imboccò la prima svolta e si nascose in un angolo buio, appoggiando un
braccio al muro e quello alla testa.
Brava Delfi, aveva saputo recitare abilmente il suo ruolo, l'aveva
abbindolata così bene che ora quasi era Adria a sentirsi in colpa, come se
non avesse neanche il diritto di serbarle rancore, ma anzi addirittura solo
il dovere di perdonarla.
Ma anche avesse avuto il diritto che le spettava, Adria non ne era capace.
Non riusciva a covare risentimento nei riguardi della ragazza, non sapeva
odiarla, la realtà ardua da accettare era che, purtroppo, nutriva già affetto.
Solo questo riusciva ad odiare, che ormai le voleva bene.
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CAPITOLO VI
VI.I
Stringeva fra le braccia un paio di libri, camminava a capo chino,
osservava le foglie castane che ornavano la via e che sfuggivano
rapidamente alla sua vista. Alcune le capitavano sotto i piedi producendo
uno scricchiolio gradevole che con discrezione la distraeva dalle sue
riflessioni. Oltrepassò il cancello, giunse presso i gradini dell'ingresso e si
fermò.
«Credevo non saresti venuta.» le disse. Si levò, agguantò lo zaino e si
accostò all'amica.
«Allora perché mi aspettavi?» replicò Delfi iniziando a salire le scale,
mentre Alessio le si appiccicava dietro.
«Lo sai che giorno è oggi, vero? Mica l'hai dimenticato?»
«No Ale, non l'ho dimenticato.»
«E che intendi fare, vuoi assistere?»
La ragazza varcò l'uscio dell'entrata e tacque.
«Possiamo anche tagliare la corda, possiamo...»
«Non ho intenzione di fare un cazzo Ale, non stancarmi.»
«Ehi chiedevo così, nel tuo interesse, non devi sempre rispondermi male.»
Nell'ultimo mese era stata vessata da angherie di ogni sorta provenienti da
qualsiasi istituto. Il tribunale, la scuola, persino la clinica, e poi la gente.
La bistrattavano, la condannavano, la lapidavano con improperi massicci.
A volte le capitava addirittura di portare le mani alle orecchie, le braccia
alla testa a mo' di scudo, come a volersi riparare dalle accuse che come
sassi le scagliavano contro. "Criminale! Infame!" le tiravano dietro,
"Monca dovresti essere tu! Dovresti marcire in gattabuia!" le
mormoravano passandole accanto uomini e donne di ogni età.
Come se la sua libertà, la sua vita ora fosse un enorme dono immeritato.
Che oltretutto lei neppure voleva.
Quel martirio non sarebbe mai finito, ma infine avrebbe sfinito lei.
Entrarono nella grande aula e la sua comparsa partorì un perfido vocio
che passò presto di bocca in bocca.
«Che faccia tosta la bastarda!» disse qualcuno.
111
E fu l'espressione più docile che le rivolsero.
Alzò lo sguardo e lesse quella gigante scritta nera stampata su uno
striscione bianco che addobbava la volta. Poi un buffet in un cantuccio,
sedute disposte in linea ed in fondo una pedana con un microfono
collocato sopra.
Si arrestò sulla soglia.
Aveva creduto di poter sostenere le proprie ragioni davanti al mondo
intero, di volerlo eroicamente affrontare, proprio lì su quel palco. Ma d'un
tratto si accorse che l'eroina da celebrare quel giorno non era lei.
L'amico la chiamò e lei riprendendosi dal coma transitorio disse:
«Andiamocene.»
Girarono per uscire e sulla porta un mucchio di persone ostruì
improvvisamente il passaggio.
«Fate spazio, lasciate passare!» ordinarono delle voci.
Delfi ed Alessio si trovarono bloccati senza poter avanzare tanto meno
retrocedere, stretti tra il muro e la porta che fu subitamente spalancata.
La ragazza si impresse sullo stipite, schiacciata da professori ed alunni
che scavalcandola le si strusciavano addosso. E tra i tanti lei, Adria.
Sorrideva, pareva felice, forse lo era, paga di avere tutta quella gente ad
accoglierla in un affettuoso bentornato. Gioiosa e raggiante finché il suo
sguardo non cadde per caso e di sfuggita su Delfi. Si trovò addossata a lei,
costretta a strisciarci contro. E si chiese per quale dannata ragione fosse lì.
Il sorriso svanì, il viso si scurì ed un odio per nulla velato colpì la ragazza
giusto in faccia. Poi si spiccicò col corpo e con gli occhi da lei e si diresse
alla pedana, dove colleghi e studenti la aspettavano per complimentarsi di
qualcosa, chissà, forse per essere ancora in vita.
«Dentro o fuori?» chiese il bidello ai due ragazzi.
Delfi esitò, poi guardò Alessio e compì il passo che la riportò all'interno.
L'amico la seguì, come sempre, e quello chiuse la porta.
Delfi decise di sedersi là accanto, in caso sarebbe potuta servirle l'uscita.
Poi cercò Adria, ci incollò lo sguardo sopra e la osservò ricevere
innumerevoli strette di mano. La guardò meglio, era la stessa donna che
aveva frequentato per quasi tre mesi, la stessa con gli altri non più con lei.
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Forse fra tutta quella gente che le sbandierava alta considerazione, Delfi
era la sola che sapeva quanta davvero ne meritava e che aveva imparato di
lei cose di cui nessun altro, neppure Paola, era a conoscenza.
In qualche modo era stata incatenata a lei dalla sorte. Quale che fosse poi
la sorte, se quella di Adria di rimanere monca o quella di lei di averla
mutilata, non era dato saperlo.
Ma nonostante il rancore di una o il pentimento dell'altra, che lo volessero
o meno avrebbero comunque avuto per sempre quella sorte in comune.
Quella catena stava lì anche allora, in quell'aula, trasparente ma
inossidabile, a tenerle allacciate. Un estremo era fuso nell'animo della
ragazza e l'altro in quello della donna. La sentivano tirare l'una verso
l'altra ed Adria faticava a resistere a quel risucchio, ad ignorarlo.
Poi salì sulla pedana, si posizionò davanti al microfono ed applausi, grida
e fischi di approvazione si elevarono al solaio.
«Grazie...»
Ancora applausi e schiamazzi a soffocare la sua gratitudine.
«Grazie.» ripeté Adria «Davvero io... io non so come ringraziarvi.»
«Niente compiti per un anno!» urlò un alunno.
«Forse state esagerando...»
Molti risero, anche Adria, poi il suo sorriso si mutò gradualmente in
un'espressione profonda. «Sapete, è difficile dire qualcosa quando non si
ha nulla da dire, nessuno dovrebbe essere costretto a parlare in tal caso...
mentre quando si vuol far sapere qualcosa di importante, bhè allora si
sente da soli l'impulso impellente di salire su un palco e davanti ad un
microfono e a tanta gente esprimere il proprio pensiero. E questo è
l'impulso che sento io oggi.»
La stavano a sentire tutti immersi, rapiti dal suo discorso.
«Ho attraversato un periodaccio, duro in tutti i sensi... e in un modo o
nell'altro ne sono uscita. Insomma, quello che mi è successo non è un
segreto...» disse ed ebbe un attimo di esitazione rievocando quel recente e
doloroso passato. «Quello che ci tengo a dirvi ragazzi, non abbattetevi
mai, neppure quando una soluzione non c'è e spesso è così, non c'è, ma
voi non dichiarate sconfitta, non dategliela vinta, mai.»
Poi si raccolse pochi secondi come se stesse ricordando qualcosa.
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«Mesi fa qualcuno mi disse che le persone mi rispettano perché sono
schietta e giusta, ed è stata una delle cose più belle che mi abbiano detto.
Però ora so che non tutti mi hanno rispettato ed oggi mi fa male ricordare
quella frase, perché a dirmela è stata proprio chi non mi ha mai rispettato
veramente.»
Seguì una pausa di silenzio, Delfi sentì gli occhi di tutti piantati addosso e
pensò di sprofondare in giù, raggomitolarsi sulla sedia per proteggersi e
nascondersi da quelle occhiate colme di sdegno.
«Vergognati!» si sentì dire.
Invece si alzò in piedi.
Già, si sollevò dalla sedia facendo sì che anche chi non l'aveva ancora
avvistata la notasse. E la insultasse. Allora sentì un impulso impellente,
forse quello di eclissarsi, di andarsene.
Si avvicinò alla porta ed osservò la sua mano afferrare la maniglia.
Diamine no. Anche lei voleva far sapere qualcosa di importante, ci teneva
ad esprimere il proprio pensiero come mai aveva fatto finora.
Levò gli occhi dalla maniglia e li puntò in fondo alla sala, dritti sulla
donna. «Perché non hai lasciato che mi arrestassero allora?» strillò con la
poca forza che ancora le circolava in corpo.
Adria la individuò subito per via di quella catena invisibile che la teneva
legata a sé e che in quel momento tirava quasi a volerglielo squarciare,
l'animo.«Come?» chiese attonita ed il suo sgomento fu amplificato dalle
casse del microfono.
Un mormorio soffuso si espanse per l'aula che fu subito spezzato dalle
seguenti intrepide parole di Delfi.
«Avrei pagato così la mia colpa, in prigione, sarebbe stato meglio che
sentirsi tartassata di ingiurie ad ogni angolo! Hai deciso di non farlo, hai
scelto tu di ritirare la denuncia, bhè allora ora non rompermi il cazzo!»
«Cosa?!» esclamò sempre la solita voce amplificata.
Un silenzio sacro calò sopra quel brusio di voci sbalordite e lo soffocò.
«Sì, hai capito, non rompermi il cazzo, non guardarmi male, non odiarmi!
Non puoi fare le cose a metà, o è bianco o è nero, o mi perdoni o mi
denunci!» e le ultime parole non furono scandite bene perché disturbate
dal suo pianto che fungeva da interferenza.
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Adria stette a bocca aperta, energicamente espirò un ghigno di sconcerto,
ruotò il capo prima da un lato e poi dall'altro a cercare un'indicazione
negli sguardi inclinati ed imbarazzati dei suoi colleghi e poi tornò a
fissare la ragazza.
Partì spedita nella sua direzione, passo e stampella si alternarono rapidi,
giunse a lei, aprì la porta e con un breve e conciso gesto del capo le
ordinò di uscire. La seguì, la superò e la guidò fino all'esterno
dell'edificio, oltre il cancello, nel giardino che lo circondava.
«Come cazzo ti permetti?» le chiese dura voltandosi, non lasciandosi
impietosire neppure dagli occhi pieni di lacrime di lei. «Come osi
rovinarmi anche questa giornata?»
Delfi si era lasciata pilotare fin lì, le sue gambe avevano continuato ad
andare ed andare, come da mesi ormai continuava solo per inerzia.
«Se non mi vuoi in galera, allora dimmi che vuoi che faccia per scontare
quello che t'ho fatto.»
«È per questo, vero? È per te, per far star meglio la tua coscienza! E credi
che dopo basti così?» le si accostò dirimpetto. «Sai cosa Delfi? Non sarà
così facile per te, non intendo semplificarti niente, non lo meriti. Soffri e
taci perché non sei nella posizione di pretendere niente, posso fare ciò che
voglio di te, anche odiarti, non puoi impedirmelo.»
«Sì che posso.» disse la ragazza fermamente convinta. «Se mi ammazzo.»
Adria inarcò la fronte e la sfidò, «Cosa aspetti allora, fallo.» le disse.
In realtà qualcosa che aspettava l'aveva. Aveva dei cari che l'aspettavano
al di là ed era ansiosa di incontrarli. E se non ci fossero stati né loro né
altro, non ne avrebbe sofferto perché anche lei ci sarebbe non stata.
«Dopo tutto quello che mi è successo credi che non ne sia capace? Bhè, ti
sbagli. Così anche tu porterai una vita sulla coscienza, la mia, e saprai
finalmente che significa!» portò le dita di una mano agli occhi e le
inzuppò di pianto, «Solo allora saremo veramente pari.» disse.
«Sei solo una bambina, vigliacca e falsa!» esclamò Adria. «Una donna
avrebbe tirato fuori il fegato per dire la verità e ne avrebbe affrontato le
conseguenze. Avanti, tiralo fuori ora il coraggio, ammazzati!»
La speranza di Delfi di assistere ad un minimo segno di opposizione
svanì. Allora col cuore sgretolato ruotò ed andò.
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Adria non si mosse di un fiato. "Che lo faccia pure." pensò e l'orgoglio le
impedì di fermarla.
Così a Delfi ora le rimaneva soltanto tutto ciò che non aveva mai avuto,
cioè nulla.
"Se continuo a sopravvivere finirò per ucciderti." le aveva detto il suo
stesso istinto di sopravvivenza. Allora paradossalmente quello smise di
funzionare.
E a lei, non dovendolo combattere, risultò semplice ammazzarsi e più
conveniente morire. Non era più viva, era già una non morta.
Intanto Adria la osservava allontanarsi e si sentiva furiosa. Delfi non
aveva avuto il coraggio di dirle la verità, meschina, non avrebbe mai
avuto neppure quello di ammazzarsi.
"Bambina e vigliacca, tanto non lo farà." continuava a ripetersi. "Già,
bambina, è solo una bambina, non lo farà."
"E se lo facesse? È ancora una bambina, non può farlo, non deve."
cominciò a riflettere ed iniziò a dubitare della sua stessa convinzione, non
ne era più tanto certa. Anzi, pian piano si ritrovò certa del contrario, certa
che l'avrebbe fatto.
Ora lo sapeva, l'avrebbe fatto e non stava agendo per impedirlo.
Teneva nelle proprie mani un destino e stava lasciando che si dissolvesse,
commettendo un errore che sarebbe costato la vita della ragazza. Un
errore che avrebbe rimpianto per giorni, mesi, anni, sempre, struggendosi
in uno strazio inesorabile senza riuscire mai a perdonarsi.
No, non poteva lasciare che Delfi le infliggesse quest'ulteriore pena, la
sua morte sarebbe stata un supplizio per lei solo, non per altri.
L'azione criminale di Delfi nei confronti di Adria, estrapolata dal vissuto
della ragazza, era riprovevole e passibile di condanna. Ma lei di punizioni
ne aveva già espiate abbastanza, alcune in anticipo ed altre chissà, forse
gliele tenevano in serbo per il futuro.
D'un tratto la donna capì che l'inferno la ragazza lo aveva già
sperimentato e che avrebbe dovuto rinunciare a punirla perché c'era già
stato chi si era prodigato al suo posto.
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Parecchi pur non avendo diritto di punirla se lo erano arrogato, troppi
forse, tranne lei che il diritto se l'era guadagnato in cambio di pezzi di
corpo, della gamba e di quell'altro, del cuore.
Sì, l'avevano punita tutti tranne Adria.
Capì che forse fra quei tanti giustizieri che giocavano ad ergersi a giudici
supremi, lei che avrebbe anche potuto non doverla perdonare, proprio lei
sarebbe stata l'unica che alla fine l'avrebbe fatto.
VI.II
Ancora qualche passo e sarebbe arrivata al ponte.
Delfi aveva deciso, si sarebbe tolta la vita come aveva immaginato.
Arrivò, pose le mani sul muretto e si affacciò. Era tutto come lo
ricordava, le rocce, l'acqua mossa che ci sbatteva contro con veemenza.
Saltò sul muretto e si sedette dal lato del vuoto. Pensò però che se si fosse
buttata in piedi avrebbe avuto più probabilità di ammazzarsi. Così si alzò.
E pianse così convulsamente che prima di compiere il fatidico passo, si
accovacciò e vomitò.
«Delfi.»
La ragazza non la udì neppure, impegnata com'era a singhiozzare. Poi
percepì una presenza accanto e si voltò.
«Mi arrendo, sono stanca, non ho fatto altro che resistere in vita mia.»
«No Delfi, non ti permetterò di farmi ancora del male.»
Adria si appressò al muretto e si sporse.
La ragazza credendo che volesse acchiapparla e ributtarla in strada, si
scostò di lato. Poi si girò alla donna e la guardò dall'alto. «Se muoio sarà
più semplice, forse sarà niente, ma comunque più semplice.»
«Ehi Delfi,» disse «Delfi ascolta, quando dicevo che non bisogna mai
dichiararsi sconfitti anche quando una soluzione non c'è, bhè in realtà io,
sai, mi riferivo a te.»
Una lieve sensazione di stupore si insinuò nella ragazza, intimamente
lusingata che quelle parole fossero state segretamente rivolte a lei, ma
tuttavia restia a crederci.
«Sei disposta?»
«A cosa?» le domandò la donna.
117
«A salvarmi,» replicò Delfi. «non solo ora, salvami per sempre, dimmi
che mi perdonerai e dammi una ragione per non farlo.» e mentre lo diceva
ingoiò qualcosa che sapeva di paura, di disperazione, di resa.
Fu come se Adria la guardasse allora per la prima volta, prostrata ed
accovacciata sul muretto, come se riuscisse finalmente ad avvertire il suo
dispiacere, il suo rimorso.
«Allora?» ribadì Delfi.
La donna batté le palpebre e sospirò.
Poi mosse appena il capo per annuire, allungò una mano e senza aspettare
che l'altra le porgesse la propria, la afferrò.
Delfi si lasciò trascinare a terra e si abbandonò nel suo abbraccio.
«Scusa.» disse piangendo alla donna.
Adria aveva deciso. In realtà non aveva deciso lì, su quel ponte, nemmeno
poco prima nei giardini della scuola, né quando scoprì la vera identità
della ragazza, no, molto prima. Aveva deciso di perdonarla già quando la
vide attraversare la soglia della sua camera la prima volta, soltanto che
all'epoca non ne era ancora consapevole. Perché fu in quell'istante che
Delfi si costituì, fu in quel modo che le chiese perdono, fu allora e per i
tre mesi a seguire che le mostrò pentimento e, soprattutto, le mostrò di
possedere una coscienza.
«Non riesco ad odiarti.» le disse e la baciò sulla tempia.
Delfi avrebbe potuto credere che era stato destino.
Avrebbe potuto credere che tutto era accaduto per una ragione e che c'era
stato un significato profondo dietro ad ogni evento.
Avrebbe potuto credere a tutte quelle banalità che si ripetono a cantilena
in certe circostanze e ci credeva, non le costava nulla.
Ma non avrebbe cambiato il fatto che ciò che accadde ad Adria era stata
colpa sua.
La sua vita, orrenda o meravigliosa che sarebbe stata, ma anche solo
semplicemente banale, e pure la persona che sarebbe diventata, tutto
sarebbe dipeso da quell'attimo di sorte in comune che aveva avuto con la
donna.
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