sport, giochi, musica e danza nell tombe etrusche di

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sport, giochi, musica e danza nell tombe etrusche di
SPORT,
GIOCHI,
MUSICA
E
DANZA
NELL
TOMBE
ETRUSCHE
DI
TARQUINIA.
Il popolo etrusco, che si mostra estremamente versatile nelle varie manifestazioni
della sua civiltà, manifesta nei molti reperti giunti sino a noi, un notevole interesse per lo
sport, i giochi, la danza e la musica.
Questo, però, non deve meravigliare in quanto, se noi ricerchiamo attentamente,
possiamo vedere come, in particolar modo, quella attività che oggi indichiamo come
sportiva, sia stata presente anche nei popoli dell’Asia Minore e del bacino del Mediterraneo
sin dal 3000 a.C.. Testimonianze sono state ritrovate tra i resti della civiltà sumera,
babilonese, egizia, cretese ecc.
Le prime prove sicure di questo interesse da parte degli Etruschi, ci presentano
figure di guerrieri muscolosi, che possiamo considerare come “sportivi”, perché per
diventare guerrieri bisognava raggiungere un certo tipo fisico, che era possibile avere solo
dopo una lunga serie di esercizi atletici per sviluppare nel modo giusto la muscolatura.
Tali figure sono sia a piedi (stele funeraria di Avile Feluska, ritrovata a Vetulonia e
ora nel Museo Archeologico di Firenze, nella quale è possibile vedere un guerriero dal
grande torace e dalle gambe tozze e muscolose), che a cavallo di animali fantastici (askos
della Tomba Benucci I-Bologna).
Nei reperti dell’VIII secolo si hanno raffigurazioni sempre a carattere bellicoso, forse
perché è il tempo in cui gli Etruschi stanno spandendosi tanto sul mare che sulla
terraferma. La figura del guerriero è perciò estremamente attuale.
Verso il VII sec. a.C. comincia a manifestarsi l’amore per l’attività ludica quindi non
si hanno più rappresentazioni solo a carattere bellicoso e forse, si possono considerare tra
le prime immagini di scene di caccia, quelle della “Tazza d’Argento Dorato” (metà VII
sec.a.C.) ritrovata nella Tomba Bernardini a Preneste. E’ possibile infatti seguire, negli
ornamenti di questa “Tazza”, tanto un inseguimento di cavalli ed uccelli, quanto alcuni
momenti di una battuta di caccia del principe Cinira.
Durante il periodo che va dalla fine del VII sec. a.C. alla fine del VI sec. a.C., poi, c’è
la massima espressione della civiltà etrusca, ed è quindi logico che, in questo momento di
progresso economico, ci sia un cambiamento anche nelle abitudini. Poco alla volta,
l’attività fisica passa dall’essere essenzialmente propedeutica alle arti belliche, ad un tipo di
attività per diletto proprio e degli altri (spettatori).
Da quanto ci ha tramandato Tito Livio, sappiamo che in occasione delle cerimonie
per la fine dell’anno, presso il Fanum Voltumnae (la cui collocazione è ancora incerta), si
svolgevano i cosiddetti “Giochi Panetruschi”, che avevano inizio con l’atto di piantare un
chiodo sul Sacrario di Norchia da parte del sommo dignitario, in segno dell’inarrestabile
passare del tempo.
Infatti, come scrive l’annalista Cincio Alimento, era questo il modo in cui venivano
contati gli anni. La nazione etrusca sarebbe durata dieci secoli e, anno dopo anno, la sacra
parete del Tempio, che si riempiva sempre più, rendeva ancora più evidente lo scorrere del
tempo e l’avvicinarsi della fine del “Nomen Etruscum”. A questi giochi partecipavano atleti
di tutte e dodici le lucumonie etrusche. Tutto avveniva in modo spettacolare.
In tali solenni manifestazioni non si affrontavano solo gli atleti o gli artisti per
manifestare la loro abilità o la loro forza, ma, insieme a quella, che poteva essere
un’affermazione personale, era in gioco anche l’importanza della lucumonia che
rappresentavano, in quanto tra i lucumoni c’era quasi una sfida a chi avesse i campioni più
potenti ed i musici e danzatori più abili. Le gare avvenivano tra “l’agitazione rumorosa e
disordinata della fiera che si teneva accanto e gli intrighi politici che si annodavano
all’ombra dei boschi sacri” (Heurgon), dato che durante queste assemblee veniva eletto tra
i dodici lucumoni il capo supremo della lega, lo “zilath mechl rasnal” (magistrato supremo
della nazione etrusca). Era una manifestazione di vigoria e di amore per la vita, un modo di
affrontare l’ineluttabilità del destino e l’imperscrutabilità dei voleri degli dei.
Anche Minerva, però aveva delle gare atletiche che si svolgevano in un periodo
dell’anno che dovrebbe corrispondere al nostro mese di marzo e precisamente cinque
giorni dopo le idi. Venivano designate queste feste, con il nome di “Quinquatrus”. Accolte
dai Romani, venivano celebrate queste “Quinquatri” in onore di Minerva, dal 13 al 23
marzo le “maiores”, e il 13 di giugno le “Minores”.
Non sempre però i giochi avevano il solo scopo di onorare gli dei, infatti Erodoto ci
dice che dal 537 a.C. vennero celebrate nella zona di Pyrgi (dove erano stati massacrati
dagli Agyllei, davanti al tumulo dei principes etruschi di Montetosto, tutti i prigionieri
focesi presi nella battaglia di Alalia, persa dagli Etruschi), pratiche espiatorie richieste
dalla Pizia, sacerdotessa di Apollo Delfico, per far cessare infausti e misteriosi avvenimenti
che si manifestavano sul luogo dell’eccidio.
Dice a questo proposito Erodoto: “... I Ceretani ebbero un numero di prigionieri
superiore a quello degli altri (popoli d’Etruria), li portarono via e li lapidarono. Oltre ai
Ceretani, quanti passavano per il luogo in cui giacevano i Focesi lapidati, animali da
pascolo per il luogo in cui giacevano i Focesi lapidati, animali da pascolo o da tiro e uomini,
diventavano storpi e mutilati e colpiti. I Ceretani, volendo riparare l’errore, inviarono a
Delfi una delegazione a interrogare l’oracolo. La Pizia disse che i Ceretani facessero ciò che
anche ora fanno: essi infatti compiono grandi sacrifici funebri e organizzano ludi ginnici ed
equestri”. Si svolgevano quindi “corse di cavalli, gare atletiche, danze e sacrifici”.
Infine c’erano i giochi che venivano disputati in onore dei defunti. Nelle tombe di
Tarquinia, nelle pitture murarie, scene di danze, di corse e di lotta, eseguite in onore dei
morti e facenti parte spettacolare dei riti funebri, ci dimostrano quali siano stati i costumi
etruschi in questo campo. Tali testimonianze poi, sono state rinvenute non solo nelle
tombe, ma anche scolpite nei cippi e nei sarcofagi. Dalla forza vitale che si sprigiona dalle
pitture delle varie tombe, ci si può rendere che le manifestazioni che si facevano in onore
del defunto, quasi per esorcizzare l’idea della morte ineluttabile, non differivano molto da
quelle che, “nelle feste di campagna, all’epoca delle semine e dei raccolti, tendevano ad
eccitare magicamente le energie della natura, o nelle cerimonie cittadine ad assicurare la
protezione divina ai loro Campidogli. Ch’esse fossero votate ai mani o agli dei non
cambiava nulla nel loro programma” (Heurgon). La connessione delle competizioni
sportive con il rituale funerario la possiamo però avere solo relativamente alla classe
aristocratica. “Gli atleti o erano servi del defunto o erano impegnati e pagati; nell’uno o
nell’altro caso qualificano il defunto come ricco” (Camporeale).
Queste celebrazioni ci esprimono la grande vitalità del popolo etrusco nel campo
della musica, della danza, delle rappresentazioni teatrali e nell’attività prettamente
sportiva.
Da
quanto
si
può
stabilire
e
conoscere
dell’attività
ludica,
attraverso
rappresentazioni pittoriche che si trovano nelle tombe, si può anche seguire l’evoluzione di
questa civiltà dal primo stadio (VIII-VII sec. a.C.), in cui primeggiano figure di guerrieri e
di atleti, all’ultimo (dal IV sec. in poi) in cui invece sembra prevalere un tipo fisico più
pingue, nel quale molti hanno voluto vedere e vedono l’immagine di un popolo in
decadenza che non riuscirà, ad un certo momento, a trovare la forza per resistere alla
pressione romana. G. Camporeale, però, afferma... “in verità i personaggi grassi sono
pochissimi nella grande quantità di quelli rappresentati sdraiati su sarcofagi o urnette. E’
molto probabile che qualche tratto di obesità debba essere inteso come una connotazione
individualistica, in modo da ritrarre più efficacemente il defunto, piuttosto che un
carattere generale riguardante il popolo nella sua totalità o quasi”.
Quelli che si possono indicare come “giochi atletici” (lontani parenti dei Giochi
Olimpici greci), cominciano ad apparire nel VI sec. a.C., segno di una civiltà, ormai giunta
al suo apice, che può permettersi di dedicarsi allo sport e alla danza per puro piacere e
divertimento.
Nel V sec. a.C. questa situazione ha un brusco cambiamento, infatti c’è la sconfitta di
Cuma (474 a.C.) subita dagli Etruschi ad opera dei Siracusani di Gerone, mentre Roma sta
crescendo sempre più, e i terreni lungo il litorale, poco alla volta, tornano paludosi ed i
porti cominciano ad insabbiarsi (colpa del bradisismo?). In questo momento, la vita si
svolge con pieno rigoglio solo nelle città poste sulle colline e circondate da una ricca
agricoltura. Sembra quasi che i nobili Etruschi di tale periodo vogliano circondardi di
musici, danzatori e atleti per godere appieno ogni istante della vita.
Diodoro Siculo scriverà: “.... (gli Etruschi) hanno perso in genere l’antico valore e,
trascorrendo il tempo in banchetti e feste, a ragione non conservano più la gloria dei propri
antenati di fronte ai nemici...”.
Appartengono a tali periodi numerose tombe dipinte di Tarquinia, le pareti delle
quali mostrano artisti ed atleti nell’atto di manifestare la loro abilità e la loro forza.
Le vicende storiche, però, precipitano: nel 396 a.C. cadde Veio, nel 353 Caere e
anche Tarquinia è costretta nel 351 a C., dopo essere stata sconfitta, ad accettare un
armistizio quarantennale con Roma. Sarà poi definitivamente sottomessa nel 308 a.C..
In questo clima di incertezza, gli Etruschi seguitano, dentro le mura delle città, a
vivere al meglio delle loro possibilità, quasi come se volessero non pensare, assistendo a
spettacoli vari e partecipando a banchetti, all’incerto futuro che si preparava per la loro
civiltà.
Per alcuni il tipico rappresentante di questa epoca, per quanto riguarda il
“guerriero”, è il bronzetto votivo (prima metà del V secolo), che probabilmente rappresenta
il dio Maris (Marte), in cui si notano gambe robuste sì, ma braccia quasi prive di
muscolatura. Non è l’immagine tradizionale del focoso e irruente dio della guerra, ma
quella di un guerriero pensieroso. Gli Etruschi, quindi, non soono più sicuri di poter
concludere vittoriosamente i vari scontri. E’ un periodo di crisi e le pitture ci presentano
uomini, che, poco o niente, hanno a che vedere con i forti atleti del passato. Anche le
movenze dei danzatori sono meno decise, più “morbide” e presentano una dolcezza quasi
femminea.
Lo sport viene nuovamente alla ribalta nel periodo ellenistico (fine III, II, I sec.
a.C.). C’è poi la romanizzazione, che ripropone le “palestre” (non per niente molti legionari
di Cesare ed Augusto proveranno proprio dall’Etruria). Pugilato e pancrazio (un esercizio
sportivo in cui si fondevano il pugilato e la lotta, di cui erano ammesse tutte le figure)
ritorneranno in auge con i “collegia iuvenum” voluti da Augusto. E tutto questo verrà
fissato con espressioni artistiche plastiche e pittoriche.
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Da quello che si è detto fin qui, risulta evidente che è possibile dividere l’attività
fisica degli Etruschi in un gruppo più rude, più a carattere bellicoso, ed in uno a sfondo
prettamente ludico. Possiamo però prendere anche un altro parametro per dividerla e
precisamente quella presente già in Grecia (pugilato, lotta, lancio del disco, lancio del
giavellotto, corsa podistica, corsa dei carri ecc.) e quella tipicamente etrusca (gioco del
Phersu, giochi di Troia, gioco del candelabro ecc.). Comunque una cosa sembra
sicuramente affermabile ossia che, mentre nelle raffigurazioni etrusche accanto agli atleti
si trovano dei musici, flautisti in modo particolare, questi non sono mai presenti in quelle
greche.
Dato che le tombe dipinte di Tarquinia sono ricche di raffigurazioni di tutte queste
manifestazioni, è possibile seguire, attraverso la loro osservazione, l’evoluzione e gli sport
privilegiati nel corso dei vari secoli.
E’ opportuno però, prima di iniziare a trattare questo argomento, ricordare quanta
importanza veniva data da questo popolo, alla musica, che si può considerare una
componente essenziale del loro modus vivendi.
Come dice l’Heurgon “.... ciò che doveva essere più difficile da scovare in una città
etrusca era il silenzio”. Tutto infatti era scandito ed accompagnato da una cadenza
musicale. Nella Tomba “Golini” (Orvieto) si scorge uno schiavo che mescola, trita
energicamente gli ingredienti, al suono del flautista che accompagna con la melodia i suoi
movimenti decisi e forti.
Altri schiavi, che stanno preparando della carne, del pesce da cucinare o le spezie
macinate necessarie per le varie pietanze, si muovono con movenze ritmiche; nella
punizione corporale di un servo, la verga per la sua fustigazione, scende rapida, ma con
regolare cadenza, al ritmo di un suonatore.
Al di là di quanto raffigurato in tale tomba, pure i pastori di porci guidavano i loro
animali, abituandoli al suono della musica, che ritmava il tempo nei loro movimenti e gli
ordini di chi li conduceva al pascolo. La musica quindi, accompagnava ogni atto della vita
privata o sociale: matrimoni, funerali, semina e raccolta del farro, banchetti, vendemmia
ecc. Eliano nella sua “Storia degli animali”, scrive che gli Etruschi catturavano i cinghiali e i
cervi attirandoli nelle reti con l’aiuto della musica. Aristotele però, che non comprende
bene il compito che questa svolgeva, la ritiene fonte di pigro languore; non si rende conto
che spesso imprimeva il ritmo, la cadenza ad azioni violente. Se oggi si pensa ad un
incontro di pugilato a suon di musica, forse si può restare sconcertati, ma il fatto che i
pugni fossero scanditi e che gli atleti si muovessero come in una danza ritmica, non
toglieva violenza e brutalità al loro scontro.
Non esisteva infatti un solo tipo di musica, ma tanti quante erano le attività umane.
Lo strumento principe per gli Etruschi era il flauto doppio con due imboccature. Di
questo strumento però, conoscevano tutte le varietà: da quello semplice a quello doppio già
ricordato, al clarinetto e all’oboe.
Diodoro Siculo afferma che anche la tromba da guerra, che è detta “tirrenica” era
stata inventata da questo popolo. “Il suo limpido squillo accompagnava le truppe, ma
poteva anche avere un altro, più profondo significato: poiché anche i celesti, si credeva,
annunciavano la loro irrevocabile volontà con uno squillo di tromba. Quando fosse
risuonato argentino nel cielo, era segno infallibile che si chiudeva un periodo nell’esistenza
del popolo etrusco e iniziava un nuovo saeculum” (Keller). Accanto alla “tyrrhenica tuba”
ce ne erano altre. Un tipo, ad esempio, aveva l’estremità curva come il lituus degli auguri,
un altro ancora era circolare e rassomigliava al nostro corno da caccia. La presenza di
queste trombe si ritrova specialmente durante le battaglie e le sfilate militari. Per tutto ciò,
per questa loro presenza continua nella società etrusca, non ci si deve quindi meravigliare
se i suonatori sono continuamente raffigurati sulle pareti dipinte delle tombe.
***
Terminata questa breve parentesi, iniziamo la nostra analisi relativa, appunto, alle
attività fisiche che, nel corso dei secoli, sono state testimoniate dagli antichi pittori, che
avevano il compito di rendere più bella l’ultima dimora dei ricchi dell’epoca.
La prima attività fisica di cui ci occuperemo, sarà la danza, attività più legata alla
musica ieri come oggi. La danza, poi, può essere considerata indispensabile per un
banchetto. Banchetto che, in un primo tempo, è rappresentato come una semplice scena
familiare, nella quale usualmente marito e moglie vengono presentati sdraiati sulla kliné,
attorniati da servi, da ancelle, dai figli ecc. Poi sarà più articolato in quanto sono riuniti
parenti ed amici per banchettare in onore del defunto. Sin dal VII secolo a.C. si trovano
testimonianze della danza che, secondo le sue gestualità può essere “armata”, “bacchica” e
“sacra”. La più antica è sicuramente la prima. Sulle sue origini gli studiosi sono quasi tutti
d’accordo: dovrebbero essere orientali. In Grecia, infatti, già nell’VIII secolo era abitudine
di presentare, durante le feste religiose dei Dioscuri a Sparta, le Panatee ad Atene ecc., un
tipo particolare di danza “armata” che riproduceva a tempo di musica i movimenti e le fasi
di una battaglia. Questo falso combattimento, che veniva indicato come “pirrico” (dal nome
del leggendario inventore, Pirrico, che era stato ispirato al dio Marte) era usualmente
accompagnata dal suono del flauto. Una traccia di questa danza è possibile vederla: nelle
pitture della Tomba delle Bighe (490 a.C.), dove c’è un giovane danzatore (o corridore?)
armato, con elmo, scudo, lancia, che sta in procinto di scattare, attendendo il via di un
giudice alla corsa; nel giovane danzatore armato (elmo, scudo, schinieri e lancia) della
Tomba del Guerriero (prima metà del IV sec. a.C.); nella figura di guerriero danzante della
Tomba della Caccia al Cervo (450 a.C.); in quella di danzatore armato con mantello rosso,
elmo, scudo e lancia della Tomba del Letto Funebre (460 a.C.); nei tre danzatori nudi,
armati con elmo, scudo e lancia della Tomba dei Pirrichisti (500/490 a.C.) ecc. ecc.
Raymond Bloch, quasi a testimonianza dell’esistenza di questa danza nel periodo
anteriore alla vera fioritura della civiltà etrusca, ha trovato in una tomba villanoviana di
Bolsena, un piccolo scudo votivo bilobato, caratteristica questa che sarà propria degli
anciles, che, a Roma, venivano battuti uno contro l’altro dai danzatori Salii, durante le loro
cerimonie sacre. Nel Museo Archeologico di Firenze, è possibile vedere in un bassorilievo
due Salii che portano l’ancile. I movimenti della danza salica venivano indicati come
“amptruare” e “redamptruare”. Il primo significava il salto che il direttore del ballo
(praesul) faceva mentre girava (amptruabat), mentre il secondo la ripetizione di questo
movimento da parte degli altri danzatori (redamptruabat).
La radicale “truare” sembra proprio che abbia origine etrusca, dato che la parola
“truia” dovrebbe significare o una specie di danza armata o il luogo, l’arena in cui si
svolgeva. Il “lusus Troiae”, al quale, sotto Augusto, partecipavano nel Campo di Marte, tre
gruppi di giovani nobili cavalieri armati, che non avevano superato i diciassette anni di età,
dovrebbe quindi derivare il suo nome da tale gioco o danza armata etrusca. Virgilio però,
nel V libro dell’Eneide, descrivendo la sfilata della “Troiae iuventus” in occasione dei
funerali di Anchise, ci presenta le evoluzioni “dei cavalieri i cui giri e controgiri gli
ricordano il labirinto di Creta” e quindi le fa risalire al popolo troiano per accreditare
maggiormente la leggenda delle origini troiane di Roma. “Lusus Troiae” veniva quindi
inteso dai Romani come il “Gioco di Troia”. “I tre plotoni al galoppo si suddividevano
formando gruppi separati: a un nuovo comando operano una conversione correndo con la
lancia in testa gli uni contro gli altri. Seguono altre evoluzioni in avanti e indietro, sempre
fronteggiantesi, ma a distanza, circoli che si intersecano e “simulacri di battaglia” con le
armi “ (Heurgon). La “truia” etrusca invece doveva svolgersi in un labirinto, tenendo
presente la scena graffita sui fianchi di una oinochoé (VII sec. a.C.) scoperta a Tragliatella,
presso Bracciano, in cui ci sono due cavalieri armati che, preceduti da sette soldati che
ballano una danza guerriera, stanno uscendo appunto da un labirinto. Proprio nelle volute
di questo si può leggere la parola “truia” scritta in etrusco.
Nelle tombe di Tarquinia sono numerose le scene in cui danzatori e danzatrici si
abbandonano alla danza “bacchica”, anche se è difficile segnare con un confine ben
delineato il punto dove la danza “sacra” è “bacchica” e viceversa. Si può dire però che non
solo la pittura, ma anche qualsiasi altra manifestazione artistica, porti esempi di questo
tipo di danza. Infatti Sileni e Menadi, fermati nel movimento indiavolato del ballo, ornano
lebes, candelabri, treppiedi ecc. ecc.. Dalle ricostruzioni dei vari movimenti di tali danze
orgiastiche, si è voluto trarre un significato drammatico: le varie azioni mimavano il
rapimento della Menade da parte del Sileno. Sileni e Menadi erano al seguito di Dioniso ed
è proprio a questo dio che tale danza etrusca si ricollega. Nei dipinti delle tombe di
Tarquinia, specialmente in quelli delle Tombe delle Leonesse (520 a.C.), dei Baccanti
(510/500 a.C.) e del Triclinio (470 a.C.) si può notare come nel breve lasso di tempo che
separa la prima dalla terza, si sia modificata la gestualità di questa danza. Nella Tomba
delle Leonesse, nella parete di fondo, al centro c’è un grande cratere “coronato” di edera
(pianta sacra a Dioniso) alla destra e alla sinistra del quale ci sono due suonatori, uno di
flauto e uno di cetra. Sempre nella stessa parete, a destra, una coppia di danzatori, che si
fronteggiano, sta seguendo il ritmo del “tripudium” (con questa parola viene ad essere
indicato un ballo a tre tempi, una danza saltellante). Ambedue i danzatori, la donna
ricoperta da una tunica trasparente e l’uomo nudo dal corpo color rosso mattone, stanno
eseguendo lo stesso passo, saltellando, con le braccia uno in aria e l’altro lungo il corpo. Si
muovono a “specchio”: l’uomo solleva il braccio e la gamba destra, la donna il braccio e la
gamba sinistra (movimento tipico della danza “bacchica”). Nella parte sinistra della parete,
un’altra danzatrice, che è però completamente e pesantemente vestita, ben pettinata e con
ai piedi i calcei repandi, sta compiendo un passo “scivolato”, girando su se stessa. Anche le
sue braccia sono uno alzato e l’altro piegato verso il basso. Particolarmente interessante è
osservare il movimento delle mani di questi danzatori. La “chironomia” è infatti elemento
essenziale della danza etrusca che, si può dire, si basa più sulla gestualità delle mani che
sui movimenti delle gambe. Nella Tomba dei Baccanti le grandi figure dei danzatori sono
fissate nella loro ebbrezza, che viene esaltata dai gesti della danza. Nella Tomba del
Triclinio l’atmosfera è più composta. I movimenti denotano un sommesso senso
drammatico, anche quando c’è l’abbandono più completo alla musica, rappresentato
quest’ultimo visivamente dalla danzatrice della parete di destra che, con la testa rovesciata
all’indietro, le labbra socchiuse, un braccio ripiegato sul capo, sta muovendosi nel passo di
danza con grazia e dignità. Anche il citareda ed il suonatore di flauto partecipano alla
danza, separati da alberelli che rendono l’idea dell’ambiente, in cui si svolge la scena, pieno
di pace e tranquillità. Forse in questa tomba i movimenti più delicati e più raccolti di alcuni
danzatori, e l’abbigliamento più sobrio denotano come ti stia partecipando ad una
cerimonia a sfondo religioso; però al di là di questa apparente “compostezza”, si vede bene
come tutti siano in preda all’ebbrezza dionisiaca. E’ la più bella raffigurazione di danza che
si abbia per la grazia, la varietà e la misura dei gesti. Altra Tomba di Tarquinia in cui la
frenesia bacchica è presente, è quella della Caccia e della Pesca (520 a.C. circa). Infatti
nella prima camera, quella dedicat alla caccia, lungo tutte le pareti, si snoda una animata
danza dionisiaca, interpretata da danzatori e danzatrici che seguono il ritmo della musica,
facendo dei movimenti molto accentuati.
L’evidente muscolatura dei loro corpi, forse potrebbe testimoniare una intensa
attività fisica preparatoria, giacché queste prestazioni richiedevano un grande dispendio di
energie sia per il tipo di movimenti che per la lunghezza della esecuzione.
***
Nella Tomba degli Auguri (520/510 a.C.) che, dice L. Banti, “è forse il più antico
esempio di gare “etrusche”, ossia non influenzate completamente dalla Grecia”, il pittore,
padrone della tecnica a grandi figure (megalografia), fondendo elementi stilistici ionici con
elementi e soggetti prettamente etruschi, presenta gare atletiche, cerimonie e giochi in
onore del defunto. Nella parete di destra due lottatori, sullo sfondo di tre lebeti (il premio
per il vincitore), si sono già saldamente presi per gli avambracci in attesa che il giudice
arbitro, l’agonoteca, che è vicino a loro, dia il segnale per l’inizio del combattimento. I due
atleti sono nudi e presumibilmente unti di olio di oliva, per rendere la presa più difficile.
Da quello che si conosce, questo sport ebbe molta fortuna presso gli antichi. I greci, ad
esempio, fin dal 708 a.C. (diciottesima olimpiade) lo avevano inserito tra le cinque gare del
pentathlon. Gli Etruschi, con molta probabilità, dovrebbero aver praticato un tipo di lotta
che aveva degli addentellati con quella ellenica chiamata “acrochiria”, nella quale i
contendenti si prendevano solo per gli avambracci. I due lottatori nella tomba sono indicati
con nomi etruschi: Teitu e Latithe, ma le loro caratteristiche somatiche sono orientali. I
capelli e la barba sono nerissimi, gli occhi sono ornati da ciglia lunghissime ed il profilo
presenta delle labbra molto carnose.
La muscolatura è possente ed il peso del corpo è
saldamente equilibrato sulle gambe; I due atleti stanno attentamente studiantosi per
captare il punto debole dell’altro, cosa questa che potrà agevolare la vittoria. I due sono
sotto l’attento sguardo di un tevarath con il lituo in mano. Quando sarà terminato il
combattimento? Forse quando uno dei due sarà stato costretto a toccare con le spalle la
terra. Altri lottatori sono presenti nella Tomba delle Iscrizioni (520 a.C.), dove, sulla parete
di sinistra, tra le altre figure ci sono quelle di due lottatori impegnati nel combattimento
(uno di loro ha sollevato il rivale sulle proprie spalle e sta accingendosi a gettarlo a terra).
Purtroppo tale tomba non è accessibile e le sue pitture non si possono più vedere. Esistono
però dei disegni dello Stackelberg, che sono molto fedeli agli originali. Una situazione
analoga si rileva nei riguardi delle pitture della Tomba delle Bighe (490 a.C.), distaccate ed
ora al Museo Archeologico di Tarquinia. Il loro stato di conservazione è precario ed in
alcuni punti sono poco leggibili, però anche per esse ci sono dei lucidi dello Stackleberg
(scopritore della tomba stessa), che presentano chiaramente tutti i contorni delle varie
figure. Tale tomba presenta il più grande ciclo etrusco con raffigurazione di gare atletiche,
e quindi per questo è particolarmente importante conoscere le varie attività sportive
praticate da questo popolo. Un gruppo che raffigura una coppia di lottatori si trova nel
piccolo fregio della parete di fondo. Gli atleti stanno all’inizio della loro lotta e uno cerca di
liberarsi da una presa al collo operata dall’altro, bloccando nello stesso tempo il polso
dell’avversario. I gesti sono fissati con grande vivacità e precisione.
***
Altro sport, che richiedeva una notevole forza fisica, era il pugilato, le cui origini si
perdono nella notte dei tempi. Già è presente, infatti, nella protostoria. In Grecia, inserito
nei Giochi Olimpici dalla XXIIII Olimpiade, ossia dal 688 a.C., vi restò fino a quando
l’imperatore Teodosio non soppresse i giochi nel 394-393 a.C.. I pugili non rendevano
meno pericolosi i loro pugni con guantoni, come fanno i moderni loro emuli, ma
ricoprivano tanto le loro mani che gli avambracci con delle strisce di cuoio (cesti), con
l’intento di rendere ancora più temibili i loro colpi. Spesso questi cesti avevano delle
borchie di piombo, cosa che peggiorava ancora più l’effetto dei pugni. Nelle
rappresentazioni di pugili, presenti nelle pitture delle tombe tarquiniesi, non si notano
queste borchie e quindi ciò lascia supporre che i combattimenti, che si svolgevano in
queste circostanze, non dovevano concludersi in modo molto cruento. Doveva essere solo
uno spettacolo di forza e agilità.
Scene che riguardano tale sport si possono ammirare nella già citata Tomba degli
Auguri, nella cui parete sinistra, tra le altre figure, ci sono anche due di questi atleti nudi,
che stanno lottando sopra un lebete. Nel piccolo fregio della parete di fondo della Tomba
delle Bighe, un’altra coppia sta lottando: uno dei due pugili è “in guardia” (in un modo che
rassomiglia molto a quello di un suo emulo moderno), l’altro invece è in procinto di
portare un colpo oggi “proibito” dall’alto in basso, a “martello”.
Sempre su questa parete altri due stanno portando avanti il loro scontro. Sulla
parete sinistra invece, sempre nel piccolo fregio, altri due pugili (con le mani senza cesti ed
i pugni chiusi) sono nel pieno della loro gara, che si svolge sotto lo sguardo di un epistates.
Uno dei due è a terra e l’altro sta cercando di approfittare di questa sua momentanea
superiorità.
Delle figure un po' particolari di pugilatori, sono quelle che si trovano nella Tomba
Cardarelli (510/500 a.C.), infatti sono stati raffigurati con un certo gusto per la cultura.
Anche nella Tomba delle Iscrizioni è possibile vederne altri due, che stanno nel
mezzo del loro combattimento (anche se la pittura è molto rovinata). Nella parete destra
della Tomba del Letto Funebre (460 a.C.), un pugilatore sta cercando sollievo alle sue
ferite, portandosi una spugna al volto, che reca visibili tracce di sangue. Di altri due non si
riesce a vedere che pochi resti pittorici. Di quelli presenti nella Tomba delle Olimpiadi (510
a.C.), si scorge solo una parte del corpo di uno, mentre è completamente scomparso l’altro.
***
Altri sport e giochi sono quelli che vedevano gli atleti impegnati nel lancio del
giavellotto e del disco. Discipline anche queste che gli Etruschi avevano recepito dei Greci.
Sia il primo che il secondo erano molto praticati oltre che nel campo sportivo anche in
quello militare dato che, sia l’uno che l’altro potevano trasformarsi in armi di offesa. Il
giavellotto lo si vedrà poi trasformato dai Romani in “pilum” (arma d’attacco dei cavalieri e
dei fanti) ed in “hasta” (arma degli hastati, più pesante e più grande del “pilum”). Del disco
ci sono giunti molti esemplari, tra i quali uno in bronzo del diametro di trenta centimetri e
del peso di due chili circa. La tecnica etrusca di lancio, da quello che si può notare sia nei
bronzetti che nelle pitture vascolari o murarie, era diversa da quella greca per
l’impostazione del corpo e per la parabola che il disco faceva prima di ricadere al suolo.
Per il lancio del giavellotto si possono vedere atleti impegnati in questo sport, ad
esempio nella Tomba delle Olimpiadi, delle Bighe; mentre per il lancio del disco, oltre che
nelle due già citate, in quella del Guerriero.
***
La corsa è presentata in molte raffigurazioni tanto vascolari che tombali. Con molta
probabilità in Etruria, come in Grecia, dovevano svolgersi gare su varie distanze. Sappiamo
che gli atleti greci potevano cimentarsi nello “stadio” (ossia correre una sola volta la
lunghezza appunto dello stadio, circa trecento metri), nel “diaulo” (corsa che prevedeva
due percorsi dello stadio girando attorno ad una “meta”, quattrocento metri circa) e nel
“dolico” (una corsa di fondo che vedeva il corridore impegnato a percorrere per
ventiquattro volte, la lunghezza dello stadio, circa cinquemila metri). Non si può dire però,
con certezza che le regole greche venissero rispettate anche dagli Etruschi. Da quanto si
può arguire, osservando le testimonianze giunte fino a noi, possiamo distinguere una corsa
a “corpo libero” e una corsa “armata”. Della prima una scena molto bella è quella che
troviamo nella Tomba delle Olimpiadi che ci permette di assistere al termine di una corsa a
piedi tiratissima: tre atleti, vestiti solo di un perizoma, stanno raggiungendo il traguardo,
producendo lo sprint finale. Il loro slancio è perfetto. Per la corsa “armata”, ossia fatta
indossando le armi (elmo, scudo, lancia ecc.) possiamo prendere come esempi i due opliti
della Tomba delle Bighe. Anche per questa corsa, come per la danza armata, si può notare
che più che uno sport, era una preparazione per il momento della battaglia.
Lo sport, però, che sembra abbia suscitato un vero entusiasmo tra gli Etruschi, deve
essere stato quello che vedeva impegnati uomini e cavalli: le corse equestri in ogni loro
modo di essere. Il cavallo infatti, doveva esercitare un vero fascino su questo popolo che lo
ha raffigurato tanto sulle pareti delle tombe, che sui vasi, che sui sarcofagi e nei frontoni.
Non dimentichiamo che uno dei pezzi più belli della coroplastica è proprio il gruppo dei
“Cavalli Alati” (IV sec. a.C.), che doveva ornare il frontone dell’Ara della Regina dell’etrusca
Tarquinia. Per un nobile e ricco etrusco doveva essere quasi un punto d’onore possedere
più bighe o quadrighe. Nel periodo di Cicerone, I sec. a.C., ad esempio, il nobile Aulo
Cecina, esponente di una tra le più illustri famiglie nobili di Volterra, amava le corse di
quadrighe e partecipava con i suoi “colori” a quelle che si svolgevano a Roma nel Circo
Massimo. Aveva poi un metodo molto celere per annunciare ai suoi amici l’esito delle gare:
portava delle rondini quando si spostava da Volterra a Roma ed erano proprio queste
rondini che, lasciate libere dopo essere state dipinte del colore del vincitore, ritornando ai
loro nidi, comunicavano le ultime novità.
Le tombe presenti nel territorio di Tarquinia sono ricche di pitture rappresentanti
cavalli, cavalieri, corse di bighe e di quadrighe. Cavallerizzi che con grazia e agilità balzano
a terra con un armonico volteggio, a fianco dei loro rossi destrieri, ornano una delle
semipareti dell’ingresso della “Tomba del Triclinio”; un giovane che aggioga ad una biga un
cavallo azzurro, forma invece uno dei gruppi più belli della “Tomba del Letto Funebre”. In
quella del “Barone” (ultimo venticinquennio del VI sec. a.C.),in modo elegante, solenne,
calmo, in un alternarsi di colori rosso, nero (per i cavalli), e rosso e verde (per i mantelli dei
cavalieri), si succedono le varie figure con un effetto particolarmente suggestivo per la
tecnica di sovrapposizione cromatica attuata dal pittore. Sembra che queste pitture
rappresentino il momento antecedente alla gara: la presentazione dei concorrenti che vi
avrebbero partecipato. Nelle scene del piccolo fregio della Tomba delle Bighe, si trovano
raffigurazioni appunto di bighe già pronte ad iniziare la gara, ma forse più interessanti di
queste, sono i preparativi che si fanno per aggiogare due cavalli frontalmente. I due
giovani, che stanno cercando di mettere i cavalli al giusto posto, sono rappresentati con un
audace scorcio di spalle. Secondo alcuni poi, nel cavaliere armato, con elmo, che ha vicino
a sé un altro cavallo, si può riconoscere un apobate, ossia un esempio di quegli agilissimi
cavalieri che, di volta in volta, durante gli scontri saltavano da un cavallo all’altro per
difendersi meglio dai nemici. Probabilmente dovrebbero essere stati i Greci (che a loro
volta l’avevano ricevuta dagli Egiziani), a trasmettere questa “tecnica” agli Etruschi, i quali,
poi, la passarono ai Romani. Questi ultimi indicavano tali cavalieri con il nome
“desultores”.
Sulla parete sinistra della Tomba delle Olimpiadi invece è in pieno svolgimento una
corsa di bighe: quattro carri e due cavalli stanno per concludere la loro sfida. La gara si
svolge in aperta campagna. Due colori caratterizzano tanto la casacca degli aurighi, che i
carri e le gualdrappe dei cavalli: il rosso e l’azzurro. Sia le corti vesti degli aurighi che il
modo in cui sono legate con un vistoso nodo le briglie dietro le loro schiene, sono
particolari prettamente etruschi. Era quest’ultimo infatti, un accorgimento che agevolava
la frenata, in quanto il guidatore così poteva scaricare su di esse il peso del corpo. Non c’è
pietà per i cavalli, che vengono frustati per incitarli allo sforzo finale. Per uno dei carri il
traguardo è vicino e quindi l’auriga si volta per controllare gli inseguitori. Ancora
apertissima è la lotta per l’assegnazione del secondo posto, infatti, il terzo sta cercando di
superare il secondo sulla sinistra.
Per il quarto carro, invece, non c’è più speranza: si
è rovesciato e mentre uno dei cavalli, caduto, sta scalciando faticosamente con le zampe
l’aria, l’altro, impennandosi, ha fatto perdere l’equilibrio al conducente che, sbalzato fuori
dal carro, sta fendendo l’aria con le gambe, prima di concludere miseramente il suo “volo”.
Tra il pubblico, che sta seguendo lo svolgersi della gara ed assiste quindi a questo
spaventoso incidente, tre donne, che si trovano sulla tribuna, si stringono la testa fra le
mani e sembra quasi di percepire il grido che esce dalle loro bocche. E’ una scena
vivacissima; il pittore, con molta probabilità, per essa si è ispirato, mettendoci però un
dinamismo particolare, ad una corsa di carri raffigurata su un’anfora greca (575-550 a.C.),
che si pensa abbia potuto vedere in quanto è stata ritrovata vicino Tarquinia.
La vivace e spontanea reazione delle tre donne sulle tribune, all’incidente che si sta
svolgendo sotto i loro occhi, ci spinge a fare delle riflessioni. La prima riguarda il fatto che
le donne etrusche potevano assistere a queste gare ed il loro entusiasmo non temeva il
confronto con quello maschile. La loro presenza in questi luoghi era una delle tante
“libertà” che le poneva in una posizione molto diversa da quella delle loro contemporanee
greche e romane, e che perciò dava spunto assieme alla loro partecipazione ai banchetti e
alle feste, ad insinuazioni ed a giudizi poco favorevoli sulla loro moralità da parte tanto dei
Greci che dei Romani. Abbiamo visto poi che il pubblico seguiva le varie competizioni dalle
tribune, e tali strutture sono chiaramente presentate sia nella Tomba delle Olimpiadi che
in quella delle Bighe. In quest’ultima anzi sono presenti all’estremità di ogni parte del
fregio rivoltate verso il centro, verso cioè il punto in cui si svolgevano le gare sportive. “Ci si
domanda anche - ma nulla sulle varie maniere della pittura antica autorizza tale ipotesi - se
ciò che vediamo rappresentato non sia lo spaccato di un anfiteatro, che permette di vedere
le tribune solamente a sezioni, mentre, in realtà, facevano tutto il giro dell’arena a forma
ellittica o circolare. Comunque, esse ricordano molto da vicino, sebbene siano meno alte, “i
palchi elevati su un’armatura” che Tarquinio Prisco aveva fatto disporre nel Circo Massimo
per i senatori e per i cavalieri romani. Queste comportano una piattaforma di legno
sostenuta da montanti alti meno di un metro dal suolo, sopra il quale è teso un velum che
protegge gli spettatori dal sole.
Gli spettatori sono ammassati otto o dieci per tribuna, gli
uni dietro gli altri, seduti su un solo banco, del quale non si può dire, per ignoranza delle
leggi della prospettiva, se sia visto di fronte o di profilo. Vi si riconoscono nella libera
promiscuità che abbiamo segnalato, uomini maturi, giovani e donne con il tutulus, tutta la
buona società di Tarquinia, mentre nella platea, se così si può chiamare lo stretto spazio
riservato tra la piattaforma e il suolo, si accalca, accoccolata o distesa alla bell’e meglio, una
plebaglia di servi turbolenti, di cui quelli che possono vedere qualche cosa guardano e
talora applaudono mentre quelli dietro passano il tempo in modo che non è sempre
decoroso” (Heurgon).
Una corsa di tre bighe i cui focosi cavalli rosso-blu, sono guidati da aurighi che
indossano un corto corpetto blu, la potremo vedere, anche se un po’faticosamente (una
sola delle bighe è ben conservata) nella Tomba del Maestro delle Olimpiadi (500 a.C. circa)
sulle cui pareti si alternano cavalli, cavalieri, ed altri atleti. Le figure però non reggono il
confronto con quelle della Tomba delle Olimpiadi in quanto sono disegnate in modo meno
preciso ed elegante. Alcune scene (quelle sulla parete destra) con molta probabilità
potrebbero essere una replica delle corse a piedi ed a cavallo (“kalpes dromoi”), che si
svolgevano in Grecia. “Kalpes dromoi” dovrebbero essere anche quelle rappresentate nella
Tomba delle Iscrizioni (anche questa inaccessibile). Una biga guidata da un auriga di
statura notevole e che ha sulla testa un piccolo acrobata (gruppo in cui si unisce forza,
abilità e agilità) si trova invece nella Tomba del Guerriero.
***
Nella Tomba degli Auguri, in quella delle Olimpiadi e in quella del Pulcinella (510
a.C. circa), il pennello degli antichi pittori ci ha lasciato la testimonianza di un tipico gioco
etrusco: quello del Phersu. Una lotta fra un cane ed un uomo, che si ritrova solo in Etruria
e, almeno fino ad ora, solo nelle tombe dipinte di Tarquinia. E’ uno strano combattimento
che è molto vicino ad un supplizio. Infatti sulla parete destra della prima dopo il gruppo
dei due lottatori, un Phersu mascherato e vestito di un corto giubbetto rossonero, con un
cane nero rabbioso, al guinzaglio, sta portando a termine il suo compito. Davanti a lui un
uomo armato di clava e con la testa incappucciata, sta cercando di difendersi dal cane che,
il sangue lo dimostra, lo ha già morso più volte e lo sta mordendo alla gamba sinistra. Il
guinzaglio, che il Phersu tiene in mano, è pericolosamente arrotolato intorno alla gamba, al
braccio e al collo del condannato. Sulla parete opposta invece un Phersu con una maschera
barbuta, sta fuggendo, forse perché il “gioco” non è andato come sperava. La stessa scena
viene ad essere presentata anche sulla parete destra della Tomba delle Olimpiadi.
Qui
il Phersu ha sempre il volto ricoperto da una maschera, ma il giubbetto è a quadri bianchi e
neri. Un Phersu danzante, con una maschera barbuta e un alto berretto a punta a spicchi
rossi e bianchi (simile a quello di un mago), ed un corto corsetto a quadri neri e bianchi, si
può vedere anche nella Tomba del Pulcinella. Il gioco del Phersu deve essere, in qualche
modo, connesso con il resto del rituale funebre. Molti lo vedono come un precursore dei
“ludi gladiatori”, che si svolgeranno poi a Roma. Viene visto anche come un’ultima
manifestazione di quella abitudine “barbara”, che voleva che, durante le cerimonie funebri
si dovessero sacrificare dei prigionieri. Dare quindi, una clava in mano al condannato
incappucciato, per fargli affrontare un cane inferocito, significava dargli una possibilità di
restare in vita, se fosse riuscito ad uccidere l’animale. Questo scronto, in cui si lottava per
la vita, crudele e spietato, proprio per l’incertezza dell’esito, doveva avvincere il pubblico.
Nella Tomba degli Auguri c’è chiaramente il nome di Phersu (= persona,= maschera) ad
indicare questi due uomini mascherati. Su una parete è un aguzzino, sull’altra invece, come
già detto, cerca di sfuggire a qualcosa, correndo (chi l’insegue?). Per molti, nelle sue
sfaccettature questo personaggio è un antenato delle maschere e come tale manifesta una
variabilità di ruoli.
Un altro gioco prettamente etrusco, per il quale si doveva possedere una grande
agilità e abilità, era quello “del candelabro”. Forse per capire bene che cosa si intende è
bene riandare con il pensiero alla Tomba dei Giocolieri (fine VI sec. a.C.): sulla parete di
fondo una giovane danzatrice sta cercando di mantenere in equilibrio sulla testa un
candelabro nel quale si sono già infilati alcuni livelli. Davanti a lei un fanciullo sta
lanciandone degli altri, cercando di centrare appunto il candelabro. Il tutto, beninteso,
viene scandito ed eseguito al ritmo della musica di un flautista.
Colpo d’occhio e gesto deciso erano invece i requisiti che si dovevano possedere per
giocare al “kottabos” la tecnica di questo gioco, che gli Etruschi amavano molto fare (ne
sono la prova oltre alle raffigurazioni, i vari kottaboi di bronzo del III-II sec. ritrovati
durante gli scavi), è possibile vederla tanto nella Tomba Cardarelli (fine VI sec. a.C.), che
nella Tomba Querciola I (fine V prima metà IV sec. a.C.), ambedue nel territorio di
Tarquinia. Nella prima c’è un giovane uomo in piedi, colto proprio nell’atto di colpire con
un gesto della mano e dell’avambraccio, la coppa piena di vino, il cui contenuto doveva
essere scagliato contro qualcosa, che però non è presente nella scena. Nella seconda, il
giocatore è sdraiato, è infatti uno dei commensali del banchetto della parete di fondo.
Quale doveva essere il bersaglio contro il quale veniva scagliato violentemente il contenuto
dei kottaboi? Con molta probabilità un piattello in equilibrio su un’asta. Chi riusciva a
vincere la sfida conquistava il premio (oggetti di valore? un fanciullo? una fanciulla? o la
possibilità di scegliere una fra le fanciulle presenti? chissà, ognuno può rispondere secondo
i suoi gusti).
***
Altri sport, che ancora oggi vengono esercitati con passione, sono la caccia e la
pesca. Il pensiero per questi corre subito alle scene della Tomba della Caccia e della Pesca,
in cui l’irreale policromia rende una rappresentazione realistica con toni fantastici,
incantati. Le sue pareti presentano infatti scene prorompenti di vita a contatto con la
natura, specialmente nella seconda camera, quella meglio conservata. è tutto un tripudio di
uccelli dai colori più vari: azzurri, rossi, bianchi, che volano sicuri nel cielo e si posano
sull’acqua, quell’acqua che accoglie delfini che balzano fuori o si tuffano nelle onde. Gli
uomini, “piccoli e rispettosi del mondo che li circonda e di cui fanno parte, come le rocce, i
cespugli, i pesci e gli uccelli”, ritornano dalla caccia o sono intenti alla pesca con la lenza o
osano un ardito tuffo da uno scoglio. Su una rupe un cacciatore, armato di fionda, sta
prendendo accuratamente la mira per colpire degli uccelli. Sembra dominare la scena, che
si sta svolgendo sotto di lui. Affronta la “caccia” affidandosi solo alla sua abilità personale.
Sembra quasi una figura eroica. Scene di caccia però possono vedersi pure nella
prima camera, anche se le pitture sono più rovinate. In un frontone infatti si scorgono due
cacciatori a cavallo. Stanno ritornando e quindi i cavalli vanno al passo. Le prede e le armi
sono portate dai servi, che li seguono a piedi insieme ai cani, davanti a loro sembra esserci
un battitore che, con l’aiuto dei cani, sta cercando un altro trofeo (una lepre?) per i suoi
signori. I destinatari della tomba dovevano essere molto amanti di queste attività. Ma non
erano delle eccezioni, infatti tra gli Etruschi tali sport erano molto seguiti. Le pitture di
numerose altre tombe presentano gli animali che venivano cacciati da questo popolo. Nella
Tomba del Padiglione di Caccia (510/500 a.C.), ad esempio è possibile vedere le prede
abbattute: due anatre selvatiche, che sono appese per il becco, e due caprioli. Al di là della
tenda poi, si scorge un capriolo che sta tranquillamente brucando l’erba. La caccia
all’anatra si svolgeva nella palude e solo agli uomini era permesso usare l’arco. Le donne e i
ragazzi potevano cacciare solo con le reti.
Anche la lepre era uno degli animali più cacciati: numerose sono le scene che la
vedono protagonista. Spesso viene inseguita dai cani e dai cacciatori, che sono armati del
lagobolo, il bastone ricurvo, che sarà poi un distintivo dei cacciatori in generale.
Però la lepre poteva essere cacciata (e questo si rileva dalle scene del periodo
arcaico) anche con le reti o a borsa o rettangolari. La Tomba della Scrofa Nera (metà-terzo
quarto del V sec. a.C.) e la Querciola I (dalle pitture in pessimo stato di conservazione) ci
presentano invece scene di caccia al cinghiale.
Il “tuscus aper” aveva il suo habitat nei boschi e nelle selve dell’Etruria e per venire
catturato richiedeva veramente coraggio, forza, determinazione e abilità; in compenso il
cacciatore, che riusciva ad infliggergli il colpo mortale, conquistava fama e gloria. L’abilità
degli Etruschi in questo campo doveva essere notevole. Virgilio nell’Eneide, quando parla
ad esempio di guerrieri etruschi (Lauso, Ornito) li indica come “cacciatori”. Uno degli
strumenti più usati per la caccia era lo spiedo e la tradizione fa risalire ad un etrusco, un
certo Piseo, la sua invenzione. La caccia è sempre presente nell’arte etrusca, dal periodo
villanoviano all’ellenismo. Nella Tomba della Scrofa Nera interessa il timpano della parete
di fondo: un cinghiale femmina, dal colore nero e la criniera rossa, si trova al centro, tra
due cacciatori, uno a sinistra, vestito con un corto mantello rosso, ed alcuni cani, l’altro a
destra di tre quarti, rivoltato di schiena, con indosso un giubbetto di pelliccia maculata.
Ambedue hanno in mano un giavellotto e sono estremamente attenti alla loro preda. Un
altro momento di caccia al tuscus aper, come ho già detto si può vedere nelle pitture della
Tomba Querciola I, alla quale viene dato anche il nome di Tomba della Caccia al Cinghiale.
Un particolare non trascurabile e che non trova alcuna corrispondenza tra i Greci e i
Romani contemporanei, è la presenza di una donna tra i partecipanti a questa pericolosa
battuta venatoria (altro motivo di biasimo da parte dei “moralisti” greci e romani, che non
riuscivano ad accettare il ruolo della donna così come era nella società etrusca). Sulla
parete sinistra si può notare un rosso cinghiale, che sta cercando di sfuggire ad otto
cacciatori a piedi e a due a cavallo, armati di lance e asce.
Temibili per la bestia braccata, sono anche dei cani di colore giallastro, che aiutano
gli uomini nell’azione venatoria. Sono due scene che si avvicinano molto nella loro
rappresentazione, scene vive, che ripropongono momenti di una realtà passata.
Anche se per praticare la pesca non occorrevano né coraggio, né velocità, né forza,
gli Etruschi hanno lasciato una testimonianza del piacere che provavano a dedicarvisi.
Nella già citata Tomba della Caccia e della Pesca, ci sono due scene che la riguardano: un
pescatore che con la sua fiocina sta colpendo un pesce ed un altro che, con grande
attenzione, sta pescando (con la lenza o la nassa?). Queste raffigurazioni danno modo
anche di osservare come erano strutturate e dipinte le barche. Queste infatti, con la loro
conformazione ed i loro disegni, dovevano servire a dare una certa tranquillità e quindi a
non spaventare o far fuggire i pesci. Non si sa però se in Etruria ci fosse qualche culto
particolare o divinità protettrici della pesca.
Non si può appurare nemmeno se, come poi
a Roma, vi si svolgessero “ludi piscatori”, ossia feste in loro onore.
***
Da questa breve analisi, riferentesi solo a parte delle attività fisiche degli Etruschi, in
alcune delle tombe dipinte di Tarquinia, si è avuta la possibilità di osservare come gli stessi
direttamente (come atleti danzatori, cacciatorti ecc.) o indirettamente (come spettatori) si
dedicassero a tutto ciò che riguardava manifestazioni di forza, abilità, agilità e coraggio.
Frequenti sono stati i riferimenti alla Grecia, da cui in verità, il popolo dei Rasenna
ha ricevuto molto, ma ciò nulla toglie all’importanza delle testimonianze, che ci ha lasciato.
Tutto quello che è giunto in Etruria infatti, è stato poi rivissuto e trasformato secondo il
carattere etrusco e questo vale tanto per l’arte che per le varie possibili espressioni ginnicoludiche. Quando quindi si affronta il discorso dell’influenza greca sugli Etruschi, non si può
né si deve cadere nell’errore di pensare ad essa come ad una sterile limitazione, ma
considerarla come un punto di partenza per una rielaborazione di tematiche e di tecniche,
secondo la sensibilità degli artisti, che hanno eternato momenti di vita sulle pareti delle
tombe dipinte, sui vasi e sui sarcofagi. Questo loro eccellere nel campo dello sport, nei
giochi, nell’arte della danza e della musica, rivela anche l’opulenza e il grado di benessere
da essi raggiunto. La figura umana, diffusamente impiegata come motivo decorativo, nella
sua quotidianità di vita, denota come l’artista etrusco inserisse l’umanità nel suo ambiente
naturale.
Lilia Grazia Tiberi
TOMBE DIPINTE DI TARQUINIA CITATE ED ESAMINATE
-
Tomba degli Auguri
-
Tomba dei Baccanti
-
Tomba del Barone
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Tomba delle Bighe
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Tomba della Caccia al Cervo
-
Tomba della Caccia e Pesca
-
Tomba Cardarelli
-
Tomba dei Giocolieri
-
Tomba del Guerriero
-
Tomba delle Iscrizioni
-
Tomba delle Leonesse
-
Tomba del Letto Funebre
-
Tomba delle Olimpiadi
-
Tomba del Padiglione di Caccia
-
Tomba dei Pirrichisti
-
Tomba del Pulcinella
-
Tomba Querciola I
-
Tomba della Scrofa Nera
-
Tomba del Triclinio
BIBLIOGRAFIA
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G. Camporeale – Vita privata (Rasenna) – Casa Ed. Garzanti
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M. Torelli – Storia degli Etruschi – Ed. Laterza
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