Saggi. Natura e artefatto

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Serie Critica del progetto
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Cristina Bianchetti e Mariavaleria Mininni
Volumi pubblicati:
Cristina Bianchetti, Urbanistica e sfera pubblica
Angelo Sampieri, Nel paesaggio.
Il progetto per la città negli ultimi venti anni
Cristina Bianchetti
IL NOVECENTO È DAVVERO FINITO
Considerazioni sull’urbanistica
Pier Carlo Palermo, I limiti del possibile.
Governo del territorio e qualità dello sviluppo
Antonio G. Calafati, Economie in cerca di città.
La questione urbana in Italia
Carmen Andriani (a cura di), Il patrimonio e l’abitare
DONZELLI EDITORE
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IL NOVECENTO È DAVVERO FINITO
Indice
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Spazi praticabili
1. Riformismi
2. Un esercizio sul discorso
3. Un esercizio sulla distanza
4. Quatto temi
I.
1. Forme della descrizione
2. Lo sperimentalismo degli anni novanta
3. La dispersione è finita, le sue storie no
4. Critica della ragione morfologica
5. La decrescita: un salto all’indietro
6. Conclusioni
II.
1. Abitare
2. La casa isolata è un sogno senza avvenire
3. Riscritture del lusso
4. Nuovi funzionalismi
5. Vivre ensemble
6. Mistica del buon abitare ed etnografie urbanistiche
7. Conclusioni
III.
© 2011 Donzelli editore, Roma
Via Mentana 2b
INTERNET www.donzelli.it
E-MAIL [email protected]
ISBN 978-88-6036-
1. Nuove scritture
2. La sfera pubblica non è più duratura
3. Théâtres en plein air
4. Ceti medi
5. Chi norma lo spazio pubblico?
6. Prossimità e condivisione
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
7. Il controllo estetico dello spazio
8. Conclusioni
IV.
1. Tre posizioni riformiste
2. Una nuova forma di piano
3. Ancora uno scarto
4. Principi di giustificazione
5. Congruenze con le forme dell’azione politica
6. Conclusioni
Quiete, convergenze, disaccordi
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Il Novecento è davvero finito
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
IL NOVECENTO È DAVVERO FINITO
II.
La popolazione del Municipio XI, a Roma, presenta dinamiche
non dissimili da quelle di altre frange urbane1: un sostanziale, progressivo decremento e un rapido invecchiamento degli abitanti;
un’accentuata presenza di soggetti che vivono senza risiedere; una
popolazione più giovane di servizio a quella più anziana. Questa popolazione che invecchia e dà corpo a nuclei familiari sempre più piccoli abita un patrimonio edilizio formato in larga parte da appartamenti di dimensione media, intorno ai cento metri quadrati. Non
meno che altrove, qui l’abitare è espressione di condizioni trasversali, di comportamenti individualistici che si universalizzano: è temporaneo quando legato alla precarietà del lavoro e alla doppia residenza; coinvolge altri quando diviene strategia per compensare bisogni differenti, non solo economici; invade luoghi di lavoro quando si posiziona in negozi o laboratori. È un gioco aperto in cui campo, regole, vincoli e insidie sono l’intera città. E non solo per le importanti operazioni di trasformazione in atto, tese a rivendicare in
questa parte della città, come ovunque, una nuova centralità. È un
gioco aperto perché muove abitudini, comportamenti, credenze,
screziature di immaginari che rendono difficile usare categorie tradizionali. O correlazioni semplici tra possibilità, preferenze e profili
sociali.
1. Abitare.
L’abitare è un campo in cui le disuguaglianze si manifestano. Ma
è anche l’ambito in cui queste si articolano e si riproducono. Il disagio abitativo si individualizza, non è più rappresentabile per grandi
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categorie, né facilmente localizzabile sul territorio: entro una società
che si polarizza, il disagio sembra frammentarsi in scaglie minute e
disordinate. Le ragioni del malessere abitativo non sono unicamente
riconducibili ad aspetti monetari2. Certo si sta male se non si riesce a
far fronte all’aumento dell’affitto; se si è sfrattati per morosità; se si
è costretti ad occupare abusivamente; se l’abitazione nella quale si
abita è considerata provvisoria. Ma si sta male anche quando non si
riesce a mantenere la casa in proprietà; se si invecchia soli in un appartamento vuoto; se si è badanti costrette ad alloggi inadeguati; se
non si hanno servizi di prossimità; se le strade sono poco e male illuminate. Si sta bene e si sta male nello stesso quartiere, nella stessa
strada, a volte nello stesso appartamento. L’abitare influisce in modo
diverso sulle condizioni di vita delle persone e sul loro benessere o
malessere quotidiano. Sul loro diritto di cittadinanza. Creando nuove fratture, nuove disuguaglianze tra condizioni ritenute positive e
moralmente apprezzabili, o, all’opposto, negative e moralmente disprezzabili. In altri termini, assumendo un posto non irrilevante in
ciò che struttura la differenza nella società locale. La consapevolezza del legame tra spazio e disuguaglianza dovrebbe contribuire a
spezzare un’idea pervasiva quanto banale della povertà come qualcosa di omogeneo: «i poveri senza nome e cognome»3, gli indigenti
trattati come un unico corpo sociale compatto, ad alto tasso di emotività. I poveri sono una figura retorica massmediatica, scrive Antonio Pascale, che struttura il discorso su un’opposizione semplice:
una massa indistinta di indigenti e chi parla per loro. Così che il trattamento della povertà è portato a coincidere con la carità,
l’assistenza, il buon cuore. Ragionare su come lo spazio attraversa la
condizione contemporanea di povertà aiuta a spezzare circuiti emotivi e assistenziali, configurazioni sociali omogenee, ben levigate e
compatte. Permette di cogliere non solo differenze di status, di comportamenti, di possibilità, di usi. Ma il modo in cui specifiche figure
spaziali introducono differenze, isolano o distanziano4. Si tratta di
avere la vista sufficientemente acuta per cogliere quelle piccole differenze tra lo spazio e le azioni che lo costruiscono, «tra il luogo e ciò
che ha luogo nel luogo»5, tenendo bene in mente White on White6,
l’opera di Malevič nella quale, eliminato il colore, ciò che conta è la
differenza tra lo sfondo e la forma. Una differenza «evanescente»,
ma essenziale. Il quadrato bianco è la messa in scena di uno scarto
minimo. E nel contempo, la dichiarazione di «un protocollo sottrattivo diverso da quello della distinzione»7.
In questa parte di Roma le logiche di crescita della città appaiono
assolutamente tradizionali. Lungo tutto il corso degli anni ottanta,
novanta e del decennio successivo, qui si continuano a costruire pezzi di città simili a quelli del passato. Gli attori, i meccanismi di produzione della città, i principi insediativi sono gli stessi di sempre8. I
materiali urbani anche: condomini e palazzine. Orientati a un ceto,
quello medio, che nell’immaginario comune, non meno che in molte ricerche, appare opaco, forte, ancora bene assestato nonostante il
malessere che insistentemente dichiara9. Soprattutto capace di esprimere modelli di consumo attorno ai quali costruire una riconoscibilità anche in una fase in cui l’individualizzazione sembra connotare
la vita sociale. Questa contraddizione tra desideri, tensioni, esigenze
individualizzate e convergenze che ridefiniscono stili di consumo
abitativo, confini economici, relazionali e simbolici è una delle questioni che vedremo continuamente riaffiorare. Questione che ha una
sua specifica forma in quelle che Arnaldo Bagnasco chiama «categorie nel mezzo» della stratificazione sociale. In ogni caso l’offerta abitativa sembra progredire indifferente a questi problemi, per modelli
compatti.
Quella che stiamo osservando è una città che cresce per parti distinte, riconoscibili in virtù della distanza reciproca e di qualche elemento morfologico che allude a distinzioni di reddito, non a differenti modi dell’abitare. Le parti non si intersecano, sovrappongono,
confondono come siamo abituati ritenere avvenga nella città storica10. Non configgono, né creano nuove contraddizioni. Sembrano
anche incapaci di mutare nel tempo. C’è un gioco di variazione, certo. Ma solo di superficie. Qui il mercato è un meccanismo che riproduce incessantemente se stesso. A differenza che a Milano, dove
si è mostrato un meccanismo facile ad incepparsi11, e a Torino, dove
si è mostrato un meccanismo che lavora male12. Ciò che avviene nella periferia romana è ciò che negli anni novanta e duemila è avvenuto quasi ovunque in Italia: una ripresa forte del ciclo edilizio accompagnata dalla crescita esponenziale dei prezzi, oltre che dell’offerta
di spazio abitativo. Una crescita solo un po’ rallentata dalla crisi del
2007. Ma poi neppure tanto. La progressione è lineare e questa linearità è scambiata con una predicibilità dei modi di vivere. Mentre
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l’abitare si mostra una strategia evolutiva, quasi darwiniana, il mercato lavora su tempi lineari, omogenei, senza scarti. Nulla di evolutivo o innovativo: edifici realizzati gli uni accanto agli altri entro
grosse operazioni promosse da enti pubblici a fini di investimento o
da promotori privati che hanno la dimensione di impresa adatta per
operazioni di grosso calibro. Le logiche appaiono nel loro insieme
semplici. Qualcosa certo può arrestare il procedere della singola
operazione, i processi decisionali, economici, imprenditoriali possono complicarsi, non sono mai dati per scontati, ma non scardinano
neppure un meccanismo che vede nella casa sostanzialmente un bene economico prodotto entro un modo di produzione dato. Un
meccanismo capace di reggersi sull’incremento di valore progressivo
dello spazio residenziale. La casa rimane una risorsa per investire risparmi, per offrire uno spazio abitativo ai figli. Fino a pochi mesi fa,
un investimento non troppo rischioso. Ma cosa succede, nel tempo,
a questo patrimonio edilizio? Come invecchia? Gli ostacoli alla
commercializzazione di alloggi in proprietà non sono, qui come altrove, indifferenti. Così il sottoutilizzo diventa la condizione più
frequente. Gli adattamenti sono minimi, dell’ordine dell’allestimento e dello svuotamento.
Da questo schizzo possiamo trarre alcune considerazioni. La prima concerne il tipo di risposta che il mercato dà all’abitare. Una risposta opaca, prima ancora che inadeguata, legata sostanzialmente
all’offuscamento delle differenze. Il nuovo spazio abitativo assume il
carattere di un tutto poco differenziato, un grande corpo speculare a
quello che si ritiene essere il grande corpo sociale dei ceti medi.
L’opacità non è tuttavia legata unicamente alle logiche della produzione o a meccanismi di formazione dei prezzi che ben poco hanno
a che fare con ciò che gli economisti chiamano fair value, cioè valori riferiti a scambi potenziali in condizioni astratte. I tempi della trasformazione sono plurimi e intrecciati, certo, ma non imprevedibili.
Le aree in attesa sono sospese entro logiche di cui si intuiscono meccanismi e attori. La diversità sembra offuscata anche entro meccanismi amministrativi. Benché la differenza abbia una componente generativa importante che sarebbe interessante capire come valorizzare, al di fuori ovviamente di una prospettiva romantica di puro riconoscimento della diversità. E al di fuori di una prospettiva inversa,
ansiogena e sicuritaria, di controllo della diversità. Riconoscendo in
essa un carattere ineludibile dell’abitare contemporaneo.
Perché è così difficile uscire da un’idea dell’abitare tradizionale,
produrre materiali e spazi diversi da quelli già sperimentati? Che
idea precisamente ha la cultura di progetto del rapporto tra abitare e
città? Per rispondere a questa domanda è utile osservare (prima ancora che progetti di spazi abitativi) alcune esperienze recenti che
hanno riscritto nel progetto per la città le priorità dell’abitare (come
nel caso della competizione su Grand Pari(s) del 2009)13, o che immaginano configurazioni nuove dei complessi abitativi degradati
(come nelle ricerche promosse dal ministero della Cultura francese
nel 2004 o nel dibattito tedesco sulle cosiddette plattenbauten)14, o
ancora quelle esperienze che ridisegnano da capo l’alloggio secondo
i parametri del paradigma ecologico (come nelle tante iniziative che
si susseguono in questi ultimi tempi)15. Una tale ricognizione permette di evidenziare quattro temi ricorrenti16: la sostituzione nell’immaginario disciplinare dell’abitazione individuale con il grande
alloggio collettivo; la riscrittura di una nozione antica quale quella
del lusso; la ridefinizione dei parametri del comfort; le nuove forme
di condivisione che ridisegnano il vivere insieme. Ciascuno di essi si
riflette in una casistica ampia e veicola una sostanziale riduzione del
discorso sull’abitare entro un discorso semplificato e fortemente irrigidito.
Il grande alloggio collettivo, la centralità del lusso, l’idea di
comfort e quella del vivre ensemble sono quattro declinazioni nelle
quali è possibile ritrovare legami (di permanenza o di rovesciamento) con l’idea coltivata negli anni novanta, per la quale l’abitare era
innanzitutto il luogo della felicità privata. La ricerca della felicità
torna entro un fondamentale slittamento: non più espressione della
posizione cauta di chi rinuncia a rovesciare il mondo. Né solo
espressione del «trionfo della democrazia liberale» sancito nei «felici anni novanta», come nelle parole di Žižek17. Ma un nuovo ossessivo luogo comune che giunge a lambire il pensiero radicale, apparentemente, il più lontano18. Forse la ricerca della felicità è un equivoco.
Forse il termine è solo un feticcio che basta invocare per ritenere di
aver individuato una soluzione, risolto un problema. Un po’ come
capitava con il concetto di complessità negli anni novanta. È necessario tuttavia osservare la cosa con qualche maggiore attenzione.
Oggi la felicità si riposiziona entro la «decrescita felice e convi-
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viale» in cui «le sujet individuel n’existe pas en dehors d’un milieu»19.
Si riscrive non più sulla sfera intima, familiare, individuale, ma entro
rinnovate alleanze con la natura, entro la scoperta della condivisione
generata da una fonte energetica a emissioni zero, entro conquiste di
nuove solidarietà, di una dimensione pubblica nei pressi di un orto
urbano e di un’identità territoriale entro un capitale simbolico, il cui
valore si misura in emissioni di CO2. L’abitare è letteralmente invaso da queste preoccupazioni, fino a definire una sorta di mistica del
buon abitare, capace di contagiare progressivamente tutto e creare
nuove uniformità: si condividono stili di vita, preoccupazioni ecologiche, ci si sente parte di un tutto. Non c’è bisogno di sottoporre il
nuovo sfondo a misura, a vagli critici. Questo sfondo porta con sé i
propri parametri di giudizio: quelli di un nuovo funzionalismo dettato dall’ecologia, considerato fortemente auspicabile. Qualcosa di
apprezzabile che è necessario perseguire. Difficile dire che questa
idea mistica non muova preoccupazioni in sé condivisibili (come lo
sono la riduzione dell’inquinamento, il migliore funzionamento dello spazio dell’abitazione, un diverso rapporto con l’ambiente e via
discorrendo). La domanda che tutto ciò pone non è se i nuovi stili
dell’abitare che accolgono queste preoccupazioni siano una buona
cosa in sé, se ci permettano veramente di sbarazzarci degli egoismi
privati della casa unifamiliare dispersa, delle diseconomie, degli inceppamenti di funzionamento (ovvero degli alti costi, dell’inquinamento, del consumo di suolo), degli errori, delle fobie, delle ansie sicuritarie. Ma perché errori, paure, disfunzionamenti sono diventati
giustificazioni potenti entro un discorso sull’abitare che prima li
ignorava.
Dove la casa isolata persiste evoca la sensibilità di qualche maestro organicista, primitivismi vernacolari, tecniche costruttive di
paesi in via di sviluppo e pratiche artigianali di autocostruzione che
tolgono di mezzo intermediazioni organizzative ed economiche e
sciolgono relazioni tra progettista, costruttore e abitante, entro un’idea di produzione autoconsapevole. Il tutto rigidamente regolato
dall’uso di materiali naturali e aggregazioni semplici, rispondenti ai
parametri di case-clima e convenzioni simili. Ovunque si tratta di un
richiamo al rigore e all’austerità, come nei lavori ormai esemplari di
Alejandro Aravena, Rural Studio, Martin Rauch e altri progettisti
che entro il nuovo paradigma ecologico si sono ritagliati una certa
notorietà.
Per il resto la casa isolata è un «sogno senza avvenire»20 e materiale problematico ogni volta che lo si prova ad aggiornare. Bisognosa di un cappotto termico isolante e di altri innumerevoli accorgimenti per far fronte a consumi che gravano su tutti. È evidente la
distanza con le sperimentazioni degli anni novanta che mettevano al
centro l’individualità (Borneo-Sporenburg ne è stata una sorta di
icona, capace di rendere espliciti nuovi precetti: minimal public space/maximal individual expression). Oggi è come se tutto o quasi si
fosse sciolto nell’impraticabilità della casa unifamiliare. È come se
tornasse, rafforzata, quella maggiore razionalità che il Movimento
Moderno ascriveva all’edificio collettivo. Mentre la casa individuale
va in crisi e il problema si moltiplica in modo esponenziale nei tessuti pavillonnaires, affrontati attraverso densificazioni, più o meno
sparse o gerarchizzanti (recuperando un filone minoritario di lavoro, peraltro da sempre presente)21.
L’éloge de la densité ricorre continuamente. Per motivi di risparmio energetico, ma non solo. Nella competizione Le Grand Pari(s)22
l’urbanità, l’interazione, lo scambio tornano a essere misurati su fattori di concentrazione, tanto che sovente si ribadisce che «la compacité est la première règle de l’urbanisme»23, e si ridisegna, da capo, la
città compatta e monocentrica. Ma anche altrove è così. Di New
York si dice che sia più sostenibile di quanto non lo siano agglomerati meno densi24 e che poco conti, da questo punto di vista, riempirla
di alberi e di spazi verdi come nell’inquietante e banale PlaNYC presentato dal sindaco Bloomberg nel marzo 2007: un piano che aveva
la pretesa di risolvere alcuni rilevanti problemi della città (aumento
della popolazione, obsolescenza delle infrastrutture, rischi ambientali) a mezzo della moltiplicazione delle aree adibite a parco25.
L’elogio della densità non esclude una varietà di altre configurazioni. Nella competizione francese, la metropoli territoriale de
l’après-Kyoto è geografica e multipolare, costellata di micro e macro
centralità sparse nella natura, tese a densificarsi entro nuclei e diramazioni o a rarefarsi fino all’isotropia. Anche qui però secondo una
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2. La casa isolata è un sogno senza avvenire.
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sistematizzazione di programmi e soluzioni in cui la riconfigurazione del patrimonio abitativo è essenzialmente un problema di modelli di aggregazione di alloggi. Si tratta di ricomporli in modo nuovo.
Estenderli e contrarli. Operare integrazioni, rimodellazioni, correzioni, completamenti. In modo tale che ogni parte possa ritrovare un
proprio funzionamento in equilibrio con la natura, l’ambiente,
l’estetica, la mobilità. Tanto da far apparire l’intero patrimonio abitativo come malleabile, facilmente rigenerabile, organico. E come tale evolutivo, dinamico, capace di ridefinirsi continuamente entro
mix funzionali nuovi e diversificati.
Il grande alloggio collettivo è oggetto privilegiato di questa azione di riqualificazione e riconfigurazione. Strutturalmente solido, facilmente manipolabile data l’essenzialità costruttiva, compatto, denso, contenuto. Si smonta e si rimonta. Secondo i principi del riciclaggio (e della sua convenienza economica) e in osservanza a una
patrimonializzazione del moderno che accomuna tutte le prefigurazioni (quando della barra modernista non rimane che uno scheletro).
Al centro vi è un problema di performance energetica del manufatto. Ma non solo, si tratta anche di riconfigurare in modo nuovo
forme dell’abitare standardizzate e modelli di comfort usurati. Rivalutando la complessità dell’alloggio collettivo della prima modernità
(almeno fino all’Unité d’habitation di Marsiglia), facendo fuori le riduzioni della seconda (l’Unité d’habitation di Berlino) e al contempo cercando di rispondere alla domanda di differenziazione che
l’abitare disperso ha malamente espresso (e che invece la ricerca architettonica ha talvolta abilmente interpretato, come nelle esperienze spesso richiamate, e ancora dei novanta, di matrice SuperDutch).
Così che il degrado abitativo dei grandi alloggi sociali è affrontato da
un lato attraverso l’inserimento di ambienti a uso collettivo: bar, ristoranti, cinema, hammam, asili, piscine. Dall’altro tramite un lavoro fine di riprogettazione dell’alloggio dove riformulare principi del
benessere individuale e riscritture praticabili della felicità privata di
un tempo.
privata degli anni novanta può essere recuperata entro un formato
nuovo (l’alloggio collettivo) capace di dare rappresentazione a nuovi desideri. «Un logement “bien” c’est un logement luxueux»26. Il
lusso permette di eludere le ambiguità della nozione vaga di qualità,
strumento passe-partout di una logica economica e amministrativa
usurata che ha guidato il maquillage burocratico degli edifici (spesso
delle sole facciate), scambiandolo per un miglioramento della qualità
dello spazio abitativo. Negli anni ottanta gli esempi sono numerosi,
un po’ ovunque nelle maggiori città europee.
Oggi l’idea di lusso indica una maggiore libertà d’azione, intenzioni e aspirazioni consapevoli e autonome27: permette di immaginare trasformazioni impensabili. Tali da poter mettere in atto pratiche
auto-rigenerative del benessere cui ognuno aspira, ogni volta entro
qualcosa di più personale, e al contempo più generoso, più spazioso,
più luminoso, ma anche (entro un’ambiguità evidente) più essenziale ed economico28. Raddoppiare la superficie, le possibilità d’uso, la
luminosità. Le finestre sono moltiplicate non più nell’ipotesi di governare l’ansia dei confini instabili tra spazio privato e pubblico29, ma
nell’ipotesi opposta, del godimento. Che è anche quella che permette di rileggere i classici (l’Encyclopédie de l’architecture nouvelle di
Alberto Sartoris) come repertori di spazi prossimi all’intimità, mostrati con dovizia di particolari, perché concepiti come tali: soggiorni, terrazze, balconi, logge, ingressi, giardini d’inverno30. Il problema
non è tanto che questi repertori restino inchiodati dove sono, senza
osare quel piccolo passo che (a giudizio di Anne Lacaton) porta, dalla percezione dell’importanza di un disegno articolato dello spazio
dell’alloggio, al lusso. Il problema è la riscrittura, a buon mercato,
dell’intimità, di quell’essere «felici tra piccole cose» che per Hannah
Arendt è proprio il contrario del lusso (e sul quale il giudizio dell’allieva di Karl Jaspers è di «irrilevanza», sebbene la sua dimensione
non possa essere espunta dal nostro vivere).
Materiale base di questi esercizi è il grand ensemble: forma sulla
quale si esercitano numerose rivisitazioni e della quale vengono ricostruite, da capo, le storie31. L’idea di comfort sottostante alla sua
costruzione originaria non pare più difendibile. Ma rimane necessario sfruttare il potenziale di questi grandi edifici per rivelare, far
evolvere e sviluppare anche questo aspetto. Il potenziale è riconosciuto nelle grandi dimensioni, nelle trasparenze, nelle grandi altez-
3. Riscritture del lusso.
A osservare ricerche come Plus nulla è perduto. Tutta la felicità
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ze, nelle viste libere che permettono, negli spazi aperti che ridefiniscono, nel riconoscimento del loro carattere collettivo, da parte di
chi li abita. Condizioni che individuano un importante margine di
manovra per inventare nuove forme di habitat32 costruite sul riciclaggio, le performance tecnologiche, la patrimonializzazione, un’idea di ambiente che guarda analogamente allo spazio che circonda
l’edificio e a quello circoscritto nell’appartamento.
Il problema che il grand ensemble pone a una sua rivisitazione riguarda il superamento della norma, della standardizzazione, di un’idea asfittica della socialità che può essere realizzato entro aggregazioni omogenee, capaci di dare luogo a comunanze33. Come se i
grands ensambles non avessero sufficientemente dimostrato «il fallimento di qualsiasi ipotesi comunitarista»34. In luogo di tutto questo
si tratta di «salvaguardare la singolarità di ogni situazione e stile di
vita». Tentando di coinvolgere gli abitanti in una ricerca (ottimistica
e virtuosa) di emancipazione. Mettendo in gioco azioni nel solo rispetto «delle regole dell’arte […] ovvero del lusso»35. Praticando
estensioni e ampliamenti di superfici, aperture e balconi, creando associazioni di vani attraverso l’uso di pareti mobili, distribuzioni inedite, addizioni di funzioni e di alloggi, giocando con le textures, le
trasparenze, i colori, gli arredi, la vegetazione. Provando così a costruire la differenza. Nell’ipotesi che la felicità sia un lusso e il lusso
una libertà.
Ma alla fine cosa si ristabilisce in questi edifici se non il mito modernista della trasparenza? Edifici invisibili e società aperta,
l’immagine della società di vetro, uno spazio infinitamente esteso,
purificato: il luogo di corpi in piena salute. È ancora «lo spazio di un
funambolo in equilibrio tra essere e spazio vuoto»36. Un tema, quello
dell’apertura e della trasparenza, che ritorna con forza nella recente
ricerca sull’abitare. Non più contestualizzato. Come valesse per sé e
senza alcuna memoria dei contrari che ha generato: l’intérieur di
Adorno, l’Hotelhalle di Kracauer, il passage di Benjamin, figure che
hanno simboleggiato feticismo, nomadismo e individualismo dell’abitare moderno nello spazio urbano, probabilmente meglio del richiamo alla grande superficie libera e aperta. La rimozione dell’interno nello spazio collettivo è un altro importante aspetto della ricerca contemporanea sull’abitare. La faccia complementare della trasparenza, ricercata nel grande edificio collettivo.
Entro ipotesi di questo tipo, le attenzioni alla felicità privata sembrano assumere una rilevanza addirittura maggiore che negli anni
novanta. Tanto da acquisire un carattere simbolico, più che reale. Basti considerare che Plus non sembra neppure trattare di alloggi sociali in condizioni di disagio, povertà e conflitto, ma ancora delle casette sparse della città diffusa, con le loro superfici colorate e i prati
ben rasati. Certo, l’individualismo che suggerisce non è più quello
«narcisista» studiato da Christopher Lasch alla fine degli anni settanta37: riflesso di una ricerca della gratificazione personale, della caduta della tensione politica e di un ripiegamento su se stessi. Né, ovviamente, quello «eroico-innovatore» dei racconti classici sull’imprenditore schumpeteriano o sul capitalista ascetico weberiano. Ma
neppure quello «solidale», riflessivo e depotenziato che secondo alcuni studiosi caratterizzerebbe gli anni più recenti38, capace di tenere assieme una solidarietà un po’ generica e un orientamento individualistico entro una caratterizzazione identitaria.
«Le confort, avant tout»39. Gli stessi Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal, consulenti in Le Grand Pari(s) per l’équipe di Jean Nouvel, ribadiscono a cinque anni di distanza le scelte di Plus, ma diversamente calibrate. Non più in ragione di un lusso emancipativo,
quanto piuttosto per favorire «nuovi criteri di qualità», esito sì di
scelte concertate e pratiche partecipazioniste, ma ancor prima di un
adeguamento energetico dell’alloggio collettivo e di un funzionamento complessivo dell’edificio quale sistema energetico che lavora
all’unisono. Tanto che la differenza adesso sembra farla l’edificio e
non più l’alloggio. Operando così uno scarto rilevante rispetto a
quando l’osservazione era tutta introversa, rivolta al mondo interno
e al suo riarticolarsi sulla base di desideri non generalizzabili.
Si tratta di costruire il funzionamento di una macchina che lavora, che produce energia e non inquina, ben regolata e certificata. Tutte le attenzioni al riciclaggio, scomposizione e ricomposizione, permangono intatte, così come i temi di riconfigurazione estetica ed
energetica degli edifici, che per lo più avvengono a partire dalla riprogettazione di un involucro isolante, garante di una buona prote-
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4. Nuovi funzionalismi.
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zione e traspirazione. Il lavoro sugli alloggi individuali appare invece diverso, meno guidato dalle regole dell’arte e più dai nuovi parametri del comfort. Le abitazioni devono essere più grandi delle esistenti, adatte a famiglie per lo più monoparentali. Una delle camere
da letto (solitamente due) più spaziosa. Il living non più un vano tra
gli altri, ma ambiente bisognoso di spazio, parte del quale aperto, un
balcone, meglio ancora se climatizzato attraverso la presenza di un
giardino d’inverno. Quindi più luce, più trasparenze, una relazione
più stretta con l’esterno, non più dettata da regole igieniste, ma panoramiche. I collegamenti tra l’alloggio e il suolo devono essere rapidi, fluidi, adatti a una popolazione che sta invecchiando. A terra, la
hall, i servizi di portineria, le sale comuni e gli spazi del commercio
(più frequenti di cinema e bagni turchi). Poi giardini, ampi parcheggi per le biciclette, servizio car sharing e fermata del tram in prossimità. Perché anche all’esterno i movimenti devono essere veloci,
scorrevoli, e la città facilmente percorribile e comoda in ogni sua
parte, esattamente come si immaginava anni prima la città diffusa in
un progetto di modernizzazione rimasto incompiuto.
È un nuovo funzionalismo che ritorna e si afferma come codice
simbolico e narrativo prima ancora che pragmatico. Qualcosa che riduce l’abitare alla sua semplificazione, fino alla parodia e senza la
consolazione di quell’idea universalistica dell’uomo (nel suo rapporto con lo spazio) che il vecchio funzionalismo aveva. Ma senza neppure aver guadagnato molto rispetto a quello (e condividendone la
medesima arroganza).
Entro ipotesi di questo tipo, la felicità privata si declina sul funzionamento (dell’alloggio, dell’edificio, della città). Il fatto che alloggio, edificio, città funzionino, e funzionino assieme, è il fondamento
di un legame sociale importante che tende a escludere chi non vi partecipa, e a relegarlo entro una condizione di inadeguatezza. La medesima sorte della casa isolata. Così si riscrive, in modo diverso, la
partecipazione, la comunanza. Forme leggere di aggregazione locale
nelle quali la condivisione (di spazi, di aspirazioni, di stili di consumo, di paure, di fobie) è dichiarata apprezzabile. Ipotesi emancipative perseguibili entro codici e forme ben regolate da una produzione
edilizia che si riorganizza sulla base di parametri ecologici (ridefinendo in questo modo valori e comportamenti propri del buon abitare).
«Una persona felice […] partecipa in misura ridottissima all’attività economica della società» così come a sistemi di relazioni vaste,
ritenute fragili e insicure41. È bene trovare forme nuove e diverse di
comunione e partecipazione. Più protette e solide. Da ricreare pazientemente in una condivisione di valori, lingue, culture. Quel che
resta della felicità privata di un tempo non è che alienazione. Meglio
mettersi al riparo, trovare conforto e sostegno in vicinanza di qualcuno (e possibilmente nella natura). Marcare una distinzione in compagnia. Prendere misure e distanza da una dimensione pubblica assistenziale e dai modelli deboli del multiculturalismo democratico.
Tutte ragioni per riscoprire atteggiamenti comunitari e di condivisione. Il calore discreto dello stare assieme, reazione a uno spazio urbano che si ritiene consegnato allo straniero di Simmel: «colui che
arriva oggi e resta domani»42: lo squatter che si stabilisce illegalmente, il senzatetto che rifiuta di muoversi, il vagabondo che ignora i
confini stabiliti. Ancora un riflesso, deformato, di un paesaggio moderno.
La condivisione allude al calore affettivo della Gemeinschaft contrapposto all’impassibile funzionamento della Gesellschaft. Entro
questo sfondo, il bene comune passa dalla salvaguardia delle proprie
propensioni, quanto dalle proprie eredità43. Quest’idea dell’abitare
nega che le specificità possano essere lasciate alle spalle per rifugiarsi nel regno di valori universali (quelli kantiani del XVIII secolo, come quelli moderni della metà del XX) in opposizione ai quali si affermano ancora una volta i valori particolari44. La condivisione gioca contro l’economia: non ammette di porre sullo stesso piano modalità diverse di esistenza. Giudica disumanizzante la riduzione della qualità a quantità. Mantiene un legame costitutivo con la diversità
culturale, assunta come eredità, ma anche come credenza, come habitus, consuetudine: «abito così perché così si abita laddove vivo».
Qualcosa che ha a che fare, direbbe Jacques Lacan, con l’ordine simbolico. Appartenenze, credenze condivise sono forti e fragili: esistono nella misura in cui i soggetti si comportano come se esistessero.
Molti sforzi nel campo del progetto rimandano all’abitare come
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5. Vivre ensemble40.
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forma dello stare assieme, dove l’abitare è passaggio fondamentale
della costruzione di un noi. Sono le ricerche condotte a Los Angeles
da Robert Mangurian e Mary-Ann Ray, riprese da Margaret
Crawford; gli studi più recenti di Philipp Oswald a Berlino, di Robert Temel e Florian Haydn a Vienna, della Fondazione Maurice
Braillard condotti sul quartiere di Les Grottes, nel cuore di Ginevra.
In ciascuno di questi casi, il rimando è a comunità leggere, nomadi.
Qualcosa in cui stare fianco a fianco, marciare allo stesso passo, costruisce l’abitare. Qualcosa che considera le traiettorie di ciascuno
cumulabili a quelle degli altri. Come se i percorsi individuali avessero «la forma necessaria a intrecciarsi». Un atteggiamento le cui matrici statunitensi risalgono agli anni cinquanta e sono segnate dalla
presenza di John Brinckerhoff Jackson45.
Le forme della comunanza sono aggregazioni segnate da un multicolore insieme di istanze46. C’è il mercato che setaccia, aggregando
domande e offerte. Ma ci sono anche forme di aggregazione volontarie47, comunità proprietarie, cooperative residenziali, consorzi e
cooperative temporanee e molto altro. Nella cultura del progetto la
comunanza appare qualcosa di più leggero: richiama un’aggregazione locale, la convivialità dello stare assieme entro un edificio, la fiducia nei vantaggi della vicinanza. È espressione di una socialità che
si oppone alle regole burocratiche e ai loro risvolti patologici. Tutto
ben piantato entro un paradigma ecologico. Abitare assieme è sostenibile. Così che abitare bene, ovvero écologique, vuol dire praticare
«la frugalità, la sobrietà, l’austerità nel consumo materiale»48. Il paradigma ecologico costruisce buone ragioni per riorientare il discorso
sull’abitare in direzione diversa. Entro racconti di territori lenti,
quieti, confortanti, molto meno espressivi e nervosi di un tempo49.
Entro ipotesi di ristrutturazione urbana attorno a questioni di mobilità ed ecologia. Nelle nuove disposizioni dell’abitare sostenibile e
nella sicurezza di un domicilio ben protetto.
La ricerca e la mostra Habiter Écologique non sono che uno dei
manifesti del progetto ai tempi della crisi. Un manifesto che si declina in forme ben riconoscibili e pare disciogliere la complessità dell’abitare elaborata in anni recenti: la metropoli non appare più pervasa da individualità imprendibili (ciò che era inteso, in passato, come un tessuto prezioso di relazioni mobili, qualcosa che faceva saltare i modelli, rendeva la città un territorio di differenze, e la diffe-
renza un valore anche quando non biologica). Le disposizioni ambientali oggi articolano pratiche, coordinano comportamenti e riconfigurano spazi. Ridefiniscono nuove convergenze: le passioni per
il riciclaggio (del patrimonio abitativo), le riscritture di principi e regole funzionaliste in chiave ecologista o le nostalgie comunitarie entro forme nuove di associazionismo e cooperazione.
A osservare ricerche come Habiter Écologique la condivisione è
un’opzione aperta entro la quale sono privilegiate le forme di cohousing nord-europeo piuttosto che le aggregazioni volontarie americane (troppo segnate da pulsioni individualistiche e istanze particolari). Anche se non mancano i richiami a esperienze statunitensi
che dalla lezione di Wright conducono all’Arcosanti di Soleri. Più
interessanti le esperienze tedesche, quelle danesi nelle realizzazioni
dello studio Vandkunsten, le austriache di Wolfgang Ritsch. Molto
meno quelle asiatiche cui si offre un’attenzione ampia e poco critica.
Ovunque, in ragione di un approccio organicista e olistico, impegnato a favorire relazioni e scambi attraverso configurazioni morbide e articolate, ricche di occasioni ove ribadire che il benessere abitativo è comfort individuale non meno che preoccupazione ecologica della collettività. E come tale, determinante atteggiamenti comuni e scelte da prendere assieme. Così che accanto a spazi di aggregazione consueti compaiono sale per la discussione e l’educazione ambientale, l’animazione e le attività ricreative, il lavoro artigianale.
Ove possibile, orti, giardini didattici, biolaghi come piscine. Riscrivere spazi in cui stare assieme significa condividere una causa il cui
obiettivo è quello di superare particolarismi eco-incompatibili. Il
tutto raccolto in un sistema (edificio, aggregazione di fabbricati,
quartiere) che ricicla aria, acqua, rifiuti, e produce energia. Espressione riverniciata di un vecchio progetto pedagogico che voleva «insegnare alla gente ad abitare»50.
Così si ricostruisce un senso elastico della comunità passando per
le ideologie della crisi, della decrescita e dell’ecologia. E per il rifiuto di una metropoli pervasa da individualità imprendibili. Su nuovi
acquietati sfondi si definiscono requisiti, annessioni, esclusioni, appartenenze, codici di comportamento, restrizioni, accettazione di regole e un richiamo forte al dovere e alla responsabilità51. I rischi (isolamento, rigidità nel tempo, costrizione e riduzione di privacy, minore coscienza e partecipazione pubblica) sono bilanciati da vantag-
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gi economici, un comfort elevato e una qualità alta del contesto di vita, sicurezza, sostegno reciproco nell’affrontare problemi, sconforto,
lontananza. Abbastanza per ricomporre la dispersione di un tempo
e riportare l’abitare a un presente che non si consuma nella contemporaneità, ma si distende entro un tempo dilatato e denso, sincronico con i processi della comunità e della natura. Così tutto sembra
riarticolarsi entro dimensioni comunitarie dove distinzioni e differenze si giocano tra le aggregazioni. Più o meno coese, caratterizzate e sovrascritte nei luoghi.
Il grande alloggio collettivo, la centralità del lusso, l’idea di
comfort e quella del vivre ensemble sono, come si è detto, quattro
tentativi di stabilizzare un nuovo discorso che accoglie e ordina numerosi progetti52 accomunati da una distanza con il moderno giudicato compatto, uniforme, solido. Ma che finiscono con il mostrare
una nuova uniformità, un’evidente convergenza, una sorta di idea
mistica dell’abitare. Come si misura quest’idea con gli studi che tentano di ricostruire le nuove fenomenologie dell’abitare?53 Cioè con
quell’insieme di ricerche discorsive (etnografie urbanistiche, si potrebbe dire, mutuando da Hal Foster)54 che pongono quesiti specificamente urbanistici sulla natura dello spazio domestico e sul suo
ruolo nella costruzione del soggetto? Mi riferisco a quelle indagini
che hanno esplorato il modo in cui si realizza, attraverso pratiche
specifiche, il controllo dello spazio dell’abitazione, mettendo in gioco un insieme ampio di valori, di riferimenti simbolici e di risorse cognitive. Riferendosi spesso ad autori come Michel de Certeau e Pierre Bourdieu per osservare appropriazioni, riscritture, azioni (e dunque anche capacità, nei termini di Amartya Sen). Indagini che si collocano fuori da una letteratura di matrice sociologica, provando a distinguersi da essa per il peso dato agli aspetti spaziali (che cercano di
leggere con gli strumenti che l’urbanistica offre) e non come semplice implicazione di strategie materiali e simboliche. Quando l’abitare
è indagato dal lato dell’urbanistica si attua una sorta di spostamento.
Le pratiche quotidiane, gli aspetti affettivi e simbolici e lo spazio definiscono traiettorie che vengono a scontrarsi55. Lo spazio è sottrat-
to alla condizione di un supporto duttile che può essere segnato, delimitato, usato e ripiegato in rapporto alle necessità. Pone condizioni e resistenze che gli strumenti del progetto e della descrizione permettono di indagare.
Come si pone dunque quell’idea mistica del buon abitare in rapporto alle fenomenologie relative al modo in cui si abita? I punti di
incontro appaiono nel contempo espliciti, superficiali e contraddittori. Sono espliciti nella comune importanza conferita alla sfera privata e alla libertà di abitare (da soli o insieme)56: un riconoscimento del
diritto di affermare se stessi e di agire conformemente a questo diritto. Il diritto «di essere lasciati in pace», aggiungerebbe Bauman57. Ricerche, pratiche artistiche e progetti inseguono questa idea di libertà
nel determinare le proprie condizioni abitative nelle sue diverse forme: nel loro schernirsi (il termine è di Peter Sloterdijk)58, nel tracimare dell’abitare fuori dall’abitazione, fino a delimitare gusci, spazi
immunitari59, appropriazioni, riscritture60, esposizioni antropologiche della quotidianità. Ma anche nel comporsi, entro un’oscillazione
pendolare, con il bisogno di contrastare l’insicurezza e la paura (così che libertà e sicurezza paiono due valori che si respingono reciprocamente e si compongono come mostrano i tanti esperimenti di
costruzione di comunità nei quali il carattere volontario delle nuove
aggregazioni si accompagna a questo doppio vincolo: limitazione
della libertà e protezione dall’insicurezza). Ricerche, pratiche artistiche e progetti architettonici e urbanistici dichiarano ed esasperano libertà legate a differenze culturali, etniche, religiose, identificandole
con la possibilità di scegliere percorsi e stili di vita diversi61. Cercano,
nei casi migliori, di cogliere come queste libertà siano strettamente
legate (pur dipendendo ovviamente da molti fattori) all’ambiente costruito, al contesto urbano.
Ma c’è un altro aspetto che accomuna direzioni progettuali e fenomenologie indagate. La centralità conferita implicitamente dalle
prime come dalle seconde all’abitare dei ceti medi62: un gruppo sociale che dalla metà del secolo scorso è ritenuto occupare «l’intero
spazio visibile e vivibile» (e non solo per l’architettura e
l’urbanistica)63. L’abitare che si studia e si indaga è in gran parte il loro. Se c’è una specificità della ricerca italiana sull’abitare contemporaneo è riconducibile al fatto che poca attenzione è conferita (ad
esclusione di alcuni pochi studiosi)64 al lato oscuro dell’abitare: il di-
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6. Mistica del buon abitare ed etnografie urbane.
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sagio, l’emarginazione, l’esclusione. Questa parte del problema rimane minoritaria, ben confinata. Così che sono altre figure (letterati, sociologi, cineasti) a parlarne e quando lo fanno, quando ad esempio descrivono le condizioni abitative degli immigrati africani nel
Sud Italia, lo fanno con sensibilità, osservazioni, argomenti del tutto
simili a quelli mossi nelle inchieste ottocentesche sulle condizioni
abitative della classe operaia65. Quello che voglio dire è che le ricerche sull’abitare di rom, immigrati, gruppi a rischio povertà sono entrate poco nella riflessione sull’abitare contemporaneo. Del progetto si è detto: anche quando lavora sull’edilizia sociale sembra pensare prevalentemente ad altro.
In secondo luogo, i punti di incontro tra culture del progetto e
indagini sulle nuove fenomenologie dell’abitare sono superficiali.
Convergono sulla libertà e la sfera privata, ma non colgono altri caratteri. Le fenomenologie dell’abitare disegnano una perdita di predicibilità dei modi di vivere. L’abitare diviene un mestiere66, legato alle capacità, ai vincoli, alle risorse del contesto. Mestiere che si costruisce con «esperienza e arguzia, con tattiche più che con un progetto o una strategia» e nel quale le variabili importanti sono «come,
con chi, dove». In termini lefebvriani si potrebbe sostenere che
l’abitare, in quanto prodotto sociale, contiene una molteplicità di
forme, un’irriducibile diversità67. In termini meno lefebvriani si potrebbe aggiungere che raramente è tenuta in considerazione la capacità da parte di chi abita di scegliere come abitare68. Raramente, cioè,
si mettono al centro scelte che non sono mai completamente prive
di vincoli, che non sono concepite, né realizzate, né realizzabili in
isolamento, né possono dirsi atti singoli. Sono piuttosto sequenze di
scelte, quasi-scelte, non-scelte a mezzo delle quali si decide come
abitare: si decide, direbbe Pier Luigi Crosta, di far corrispondere
uno stile di consumo abitativo a un luogo (costruendo conseguentemente sia l’abitare, sia il luogo nei suoi caratteri simbolici, ma anche
fisici). La scelta di vivere in una comunità squatter a Les Grottes costruisce Les Grottes come luogo segnato da un’identità culturale
contrastativa e pittoresca al contempo; la scelta di tornare a vivere a
San Salvario, a Torino, costituisce quest’ultimo come luogo di un’urbanità nostalgica, fatta di buone intenzioni, dove l’illegalità è tollerata e diventa folklore; la scelta di sentirsi pionieri a Spina 3, costituisce Spina 3 come il luogo di una nuova, deprivata centralità a Tori-
no69. Scelte che non salvaguardano, ovviamente, anzi espongono
maggiormente alla delusione. Poiché la qualità e la vivibilità di questi luoghi sono supposte a priori nelle scelte degli abitanti e guidano
il loro desiderio di corrispondere a essi.
Infine i punti di incontro sono ambigui. Tra celebrazione della libertà dell’abitare e rifiuto dei modelli moderni dell’abitare, c’è qualcosa di simile a una velata contraddizione. Le ricerche sull’abitare
contemporaneo affermano (contro la riduzione funzionalista) il carattere processuale dell’abitare; enfatizzano il suo essere mai determinato fino in fondo, esprimono una prospettiva dichiaratamente
lontana da quella dei modelli moderni per i quali l’abitare è invece
funzione specifica, separata, inscritta in uno spazio definito, appositamente prodotto70. I modelli moderni sono rigidi, capaci di tollerare pratiche informali o anomale solo se queste rimangono residuali.
Le ricerche muovono da una concezione ribaltata: celebrano la varietà, con qualche rischio di generalizzazione antropologica, o di riconoscimento ideologico del valore di un abitare pre-moderno. E
con un eccesso di attenzioni decertiane. Ma qui si colloca la contraddizione. L’affermazione della libertà e dell’intangibilità della sfera privata è principio assolutamente moderno. Principio che viene
affermato mentre si sottolinea la lontananza dell’abitare contemporaneo dai modelli moderni. L’abitare (di nuovo, d’aiuto è Antonio
Tosi) è, nel moderno, funzione specializzata, trattata entro orientamenti universalistici ed entro ipotesi di razionalizzazione della vita
quotidiana71. L’abitazione è spazio distinto da quello del lavoro e internamente differenziato, secondo principi che si generalizzano e assumono carattere prescrittivo, legandosi a un nuovo sistema di valori, in rapporto all’organizzarsi di una socialità ristretta72 che dà forma a valori. Tra i quali l’intimità familiare e la privacy individuale.
Gli stessi che si affermano, rivendicando al contempo la lontananza
da questi stessi modelli.
Nell’insieme possiamo dire che se le ricerche sull’abitare segnano
uno scarto importante nei confronti del modello moderno (e dell’omogeneità dei suoi riferimenti culturali), il nuovo modo di ripensare l’abitare sembra posizionarsi attorno a una diversa, ma non minore omogeneità di riferimenti culturali. Valori come la condivisione, il
comfort, il buon funzionamento sono ritenuti buoni per tutti. Validi allo stesso modo. C’è una evidente convergenza che non necessi-
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ta di essere dichiarata. Il modello moderno presentava un carattere
unitario, omogeneo e rigido, esito di «una normazione razional universalistica e della consegna della produzione abitativa alla competenza di agenzie specializzate»73. Oggi le cose non vanno poi in modo molto diverso. Almeno sotto il profilo dall’unitarietà, dell’omogeneità e della rigidità. Senza una normazione razional-universalistica. E senza agenzie specializzate.
parte che a volte si rende esplicito con grande evidenza. Quando a
San Salvario78 gli abitanti si ritrovano attorno a un’idea di convivialità che si avvale dei caratteri fisici e antropologici del luogo e quella
medesima idea è sostenuta dalle politiche locali che usano San Salvario come esempio di buona integrazione, si dà una convergenza forte ed esplicita. Si condivide l’idea che quella parte di città funzioni in
virtù di una convivialità, di una comunanza dolce. La negoziazione
forse non è più semplice, ma può appoggiarsi a un terreno comune.
Le diverse culture dell’abitare convergono su questi luoghi comuni senza toccarsi, ridefinendo idee di modernizzazione del paese
in modo forse meno pedagogico di un tempo, ma non tanto. Alludendo a una pursuit of happiness che si mostra, come si è detto, un
equivoco. Debitrice di una piegatura intima e sentimentale che va accentuandosi. Il grande corpo mistico che si è costruito attorno all’abitare risulta rassicurante, quanto lo possono essere le virtù dei risparmi energetici, dei funzionalismi, dei comunitarismi, delle convivialità. Rassicurante e facilmente riassumibile. Definisce una convergenza, nuove emozioni e buone intenzioni. Le dimensioni ideologiche e sociali sono sparite solo dalla superficie. Le esigenze di cui si
lamenta la mancata soddisfazione non riguardano più un diritto con
riferimento ai singoli. Quanto condizioni virtuose (minore inquinamento, maggiore comfort, migliore funzionamento) con riferimento
a tutti. Affermando che ciò che è bene per la società, lo è per
l’individuo (un’equivalenza che, per essere naturalizzata, ha richiesto un duro lavoro)79. È sulla base di un’idea altrettanto rigida di
quella che sosteneva i modelli moderni, che la cultura del progetto si
trova a negoziare con le culture dell’impresa e delle politiche. Ritrovando, come si è detto, un sostanziale accordo. Ma senza la forza di
ridefinire l’abitare, di nuovo come questione in senso gramsciano.
Qualcosa capace di organizzare un’intelligenza collettiva nella società.
7. Conclusioni.
Per lungo tempo attorno alla casa si è costruita la difesa del benessere individuale e familiare, il mantenimento dell’ordine sociale,
la garanzia dei processi di accumulazione e sviluppo. Nella convinzione che il mercato non ce l’avrebbe fatta da solo. Politiche che dichiaravano attenzione alle modificazioni delle condizioni di vita e di
lavoro dei lavoratori e alle loro attese (per se stessi e per i propri figli). In sostanza la realizzazione di un sistema di sicurezza che passava per la casa, non meno che per le pensioni, le carriere, le prospettive fornite dai titoli di studio. Imperniato da fiducia nel progresso, nella produttività e nell’efficacia. Senza che ciò diminuisse,
beninteso, l’uso politico fatto dell’abitare entro strategie di acquisizione del consenso, come ha mostrato molto bene Alessandro Pizzorno74. In altri termini sull’abitare si è a lungo costruito quello sfondo ideologico che accompagnava il cambiamento delle forme di accumulazione capitalistica centrato sull’organizzazione industriale75.
Ora, nuovi provvedimenti76, fiduciosi in ipotetiche e inaspettate riserve di liquidità da parte delle famiglie da orientare verso il settore
edilizio, sembrano disegnare un’analoga politica di acquisizione del
consenso77. Giocata con altri strumenti, ma su un piano simile. Mentre sul piano sostantivo (quello del problema «sociale» dell’abitazione) prevale la fiducia di sempre nell’aggiustarsi delle cose.
Nel contempo, le diverse culture che hanno a che fare con
l’abitare (dell’impresa, dell’amministrazione, del progetto) convergono su pochi valori condivisi: risparmi energetici, nuovi funzionalismi, comunitarismi dolci, convivialità, aperture. Valori che vediamo orientare i progetti, le politiche, in parte l’impresa e che tornano
come rivendicazione da parte di chi abita. È un andare dalla stessa
70
1
Le considerazioni qui sviluppare sono esito di una ricerca condotta tra il 2009 e il 2010
per il Consiglio regionale del Lazio (Abitare il Municipio Roma XI. Storie forme pratiche,
rapporto di ricerca a cura di C. Bianchetti, A. Sampieri, F. Zampa, marzo 2010). Questo secondo capitolo è stato scritto con Angelo Sampieri.
2
A. Tosi, Abitanti. Le nuove strategie dell’azione abitativa, il Mulino, Bologna 1994; Id.,
Case, quartieri, abitanti, politiche, Clup, Milano 2004; Id., Povertà e domanda sociale di casa. La nuova questione abitativa e le categorie delle politiche, in «la Rivista delle Politiche Sociali», 2006, 3, pp. 61-77; F. Indovina, Appunti sulla questione abitativa oggi, in «Archivio di
Studi Urbani e Regionali», 2005, 82, pp. 15-50.
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II
Pascale, Questo è il paese che non amo cit., p. 53.
In questa direzione torna il tema della giustizia spaziale («Justice spatiale/spatial justice», settembre 2009, 1, in particolare i testi di Edward Soja, Susan Fainstein, Peter Marcuse).
Tema che può essere posto nella traiettoria aperta, a metà anni novanta, da David Harvey con
Justice, Nature and the Geography of Difference, Blackwell, Oxford 1996. Laddove egli ragiona sui caratteri ambientali e posizionali del tema della giustizia. Ma che ha radici ancora
più lontane nel «diritto alla città» di Henri Lefebvre (Il diritto alla città [1968], Marsilio, Venezia 1978).
5
A. Badiou, Il secolo (2005), Feltrinelli, Milano 2008, p. 72. È Badiou a utilizzare il riferimento alla pittura di Malevič nel modo qui richiamato.
6
K. S. Malevič, White on White, 1918, New York, MoMa.
7
Badiou, Il secolo cit., p. 71.
8
M. Cremaschi (a cura di), Politiche, città, innovazione. Programmi regionali tra retoriche e cambiamento, Donzelli, Roma 2009.
9
A. Bagnasco (a cura di), Ceto medio. Perché e come occuparsene, il Mulino, Bologna
2008, p. 9; G. Semi, La questione del ceto medio. Una rassegna delle prospettive francesi e anglosassoni, in «Rassegna italiana di sociologia», 2008, 4, pp. 639-64.
10
M. Cremaschi, Urbanità e resistenza, in «Archivio di Studi Urbani e Regionali», 2009,
94, pp. 126-39.
11
2007. Milano Boom, numero monografico di «Lotus», 2007, 131; A. Balducci, V. Fedeli, I territori della città in trasformazione. Tattiche e percorsi di ricerca, Franco Angeli, Milano 2007; M. Bolocan Goldstein, Geografie milanesi, Maggioli, Santarcangelo di Romagna
2009; Bricocoli - Savoldi (a cura di), Milano Downtown cit.
12
Bianchetti, Spina 3 e i paradossi della politica urbana cit., pp. 47-53.
13
La métropole du XXIe siècle de l’après-Kyoto, consultazione internazionale sull’avvenire della metropoli parigina, annunciata il 17 settembre 2007 dal presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, e conclusasi il 19 febbraio 2009 (nove mesi dopo l’inizio dei lavori) con la presentazione dei dieci progetti selezionati; Le Grand Pari(s). Consultation internationale sur l’avenir de la métropole parisienne, numero speciale della rivista «amc», Le
Moniteur Architecture, 2009 (catalogo della mostra Le Grand Pari(s) de l’agglomération parisienne (Parigi, Cité de l’architecture & du patrimoine, 29 aprile-22 novembre 2009); M. Leloup - M. Bertone, Le Grand Paris. Le coulisses de la consultation, Archibooks, Paris 2009;
Apur (a cura di), Une petite synthèse du Grand Pari(s) de l’agglomération parisienne, prefazione di B. Delanoë, Apur, Paris 2009; Le Grand Pari(s), dossier monografico della rivista
«Urbanisme», settembre-ottobre 2009, 368.
14
F. Druot, A. Lacaton, J.-P. Vassal, Plus. La vivienda colectiva, Gustavo Gil, Barcelona
2007; M. van der Hoorn, Consuming the Platte in East Berlin. The New Popularity of Former Gdr Architecture, in «Home Cultures», I, luglio 2004, 2, pp. 89-126.
15
Ad esempio, Aa.Vv., Habiter Écologique. Quelles architectures pour une ville durable?, Actes Sud-Cité de l’architecture & du patrimoine, Paris 2009.
16
A. Sampieri, Il riarticolarsi del discorso sull’abitare nelle culture del progetto contemporaneo, in Città e crisi globale. Clima, sviluppo e convivenza, atti della XIII Conferenza Società italiana degli urbanisti, a cura di M. Cremaschi, D. De Leo, S. Annunziata, in «Planum,
The European Journal of Planning on-line», 2010.
17
Žižek, In difesa delle cause perse cit., p. 526.
18
M. Castells, Viva l’economia della felicità; reperibile ora in http://www.internazionale.it.
19
A. Berque, L’existence humaine dans sa plénitude, in Aa.Vv., Habiter Écologique cit.,
p. 40. Id., Écoumène. Introduction à l’étude des milieux humains, Belin, Paris 2000.
20
Aa.Vv., Habiter Écologique cit., p. 276.
21
Si consideri ad esempio: M.-A. Ray, R. Sherman, M. Zardini (a cura di), The DenseCity. Dopo la dispersione. After the Sprawl, numero monografico di «Quaderni di Lotus»,
1999, 22.
22
Si considerino in particolare le proposte di Richard Rogers, Roland Castro, Mvrdv. Sul
tema il contributo di Jean-Michel Roux, Éloge de la densité. Leçon de morale ou projet urbain?, reperibile in http://www.urbanisme.fr.
Torna a ribadirlo Richard Rogers, Le Grand Pari(s) cit., p. 44.
D. Owen, Green Metropolis. La città è più ecologica della campagna? (2009), Egea, Milano 2010.
25
R. Aggarwala, PlaNYC e l’accesso agli spazi aperti nella città di New York, in C. Cassatella, Landscape to Be. Paesaggio al futuro, Marsilio, Venezia 2009, pp. 49-61.
26
Druot, Lacaton, Vassal, Plus. La vivienda colectiva cit., p. 41.
27
T. Paquot, Elogio del lusso. Ovvero l’utilità dell’inutile (2005), Castelvecchi, Roma
2007.
28
Druot, Lacaton, Vassal, Plus. La vivienda colectiva cit., pp. 42-3.
29
Su ciò, Vidler, La deformazione dello spazio cit.
30
Druot, Lacaton, Vassal, Plus. La vivienda colectiva cit., p. 51.
31
F. Poggi, Reinterpretare i grands ensembles. Per un approccio ermeneutico all’urbanistica, tesi di dottorato in Urbanistica, Scuola di dottorato Iuav, 2007; S. Parvu, Grands ensembles en situation. Journal de bord de quatre chantiers, Métis Presses, Genève 2010.
32
Druot, Lacaton, Vassal, Plus. La vivienda colectiva cit., pp. 57-9.
33
Ibid., pp. 72-7.
34
Ibid., p. 81.
35
Ibid., p. 73.
36
Come immagina Sigfried Giedion; si veda Vidler, La deformazione dello spazio cit., p.
49.
37
C. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive (1978), Bompiani, Milano 1981, e Id., L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti (1984), Feltrinelli, Milano 1996.
38
L. Sciolla, Introduzione. Comprendere la trasformazione sociale, in Processi e trasformazioni sociali. La società europea dagli anni sessanta a oggi, a cura di L. Sciolla, Laterza,
Roma-Bari 2009, pp. 26-7.
39
Architecture-Studio, La ville écologique. Contributions pour une architecture durable,
Archives d’Architecture Moderne, Brussels 2009, p. 68.
40
P. Pellegrini - P. Viganò (a cura di), Comment vivre ensemble. Prototypes of
Idiorrhythmical Conglomerates and Shared Space, Officina, Roma 2006.
41
Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo cit., p. 79.
42
G. Simmel, On Individual and Social Formes, University of Chicago Press, Chicago
1971, p. 143, cit. da Vidler, La deformazione dello spazio cit., p. 112.
43
Tema molto indagato da Alain Finkielkraut, Noi, i moderni (2005), Lindau, Torino
2006, e Id., L’umanità perduta cit.
44
Z. Sternhell, Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda (2006), Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.
45
Sampieri, Nel paesaggio cit.
46
A. Sampieri (a cura di), L’abitare collettivo, Franco Angeli, Milano 2011.
47
G. Brunetta - S. Moroni, Libertà e istituzioni nella città volontaria, Bruno Mondadori, Milano 2008.
48
Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo cit., p. 79.
49
E. Lancerini e altri, Territori Lenti cit.; Lanzani, I paesaggi italiani cit.; A. Lanzani - E.
Granata (a cura di), Esperienze e paesaggi dell’abitare. Itinerari nella regione urbana milanese, Abitare Segesta, Milano 2007.
50
J.-M. Léger, Derniers domiciles connus. Enquête sur les nouveaux logements, 19701990, Éditions Créaphis, Paris 1990, citato in Tosi, Abitanti. Le nuove strategie cit., p. 24.
51
Senza beninteso arrivare, almeno entro la cultura del progetto, a quell’idea di comunità integrata che per Zygmut Bauman è eredità di un’era panottica, ormai tramontata. Bauman chiama «comunità integrata» quella definita dallo sforzo organizzato per fortificare la
linea di confine che segna l’interno dall’esterno. Dove l’applicazione di un codice è uniforme, duraturo, ascritto al tempo e allo spazio. Una forza conservatrice che conserva, stabilisce, impone la routine che preserva. Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori (2009),
Laterza, Roma-Bari 2010, p. 21.
52
Si veda ad esempio il repertorio illustrato in L. Gelsomino - O. Marinoni, Territori europei dell’abitare. 1990-2010, Editrice Compositori, Bologna 2009.
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
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E. Granata, Abitare: mestiere difficile, in «Territorio», 2005, 34, pp. 40-9; M. Zardini,
Notizie dall’interno. Note sull’Italia del 2004, sezione dell’IX Mostra internazionale di architettura di Venezia, 2004; Gabi Scardi, Less. Strategie alternative dell’abitare, 5 Continents, Milano 2006; Multiplicity (a cura di), Milano. Cronache dell’abitare cit.; Lanzani Granata (a cura di), Esperienze e paesaggi dell’abitare cit.; F. Garofalo (a cura di), L’Italia cerca casa, catalogo dell’XI Mostra internazionale di architettura di Venezia (Venezia, 14 settembre-23 novembre 2008), Electa, Milano 2008; C. Bianchetti, Abitare la città contemporanea. Torino, numero monografico di «Archivio di Studi Urbani e Regionali», 2009, 94; P. Viganò, Porosità sottili, in Id., I territori dell’urbanistica cit., pp. 193-9.
54
H. Foster, L’artista come etnografo, in Id., Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine
del Novecento (1996), Postmedia, Milano 2006, pp. 175-210. In questo saggio, Foster si domanda quali interconnessioni siano avvenute tra arte e antropologia a partire dagli anni sessanta del Novecento. Individua, a riguardo, un doppio movimento: da un lato quella che egli
definisce «una sorta d’invidia dell’artista» da parte di alcuni antropologi e dall’altro
l’ammirazione maturata da certi artisti per un metodo di lavoro proprio della disciplina antropologica.
55
C. Bianchetti, Pratiche dell’abitare, in Id., Abitare la città contemporanea cit., e Id., Introduzione. Quantità e quiete: il discorso ideologico sull’abitare, in Id., Abitare la città contemporanea. Torino cit., pp. 9-22.
56
Tosi, Abitanti. Le nuove strategie cit., p. 7.
57
Bauman, L’etica in un mondo di consumatori cit., p. 13.
58
P. Sloterdijk, Gusci per rifugiarsi dal mondo, in «Reset», marzo-aprile 2007, 100, pp.
33-6.
59
Ibid.
60
G. Mandich (a cura di), Culture quotidiane. Addomesticare lo spazio e il tempo, Carocci, Roma 2010.
61
Una critica in B. Secchi, La recherche et le projet urbain, in Y. Tsiomis, Matières de ville. Projet urbain et enseignement, Éditions de la Villette, Paris 2008, pp. 7-12.
62
Bagnasco (a cura di), Ceto medio cit.; Semi, La questione del ceto medio cit.
63
Berardinelli Casi critici cit., p. 135.
64
Ad esempo: M. Revelli, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, Bollati Boringhieri,
Torino 1999; P. Cottino, La città imprevista. Il dissenso nell’uso dello spazio urbano, elèuthera, Milano 2003; B. Borlini, E. Mingione, T. Vitale, Immigrés à Milan. Faible ségrégation
mais fortes tensions, in «Urbanisme», settembre-ottobre 2008, 362, pp. 83-6; A. Tosi, Questione sociale, questione urbana: dentro e fuori dai quartieri in crisi, in «Territorio», 2008, 46,
pp. 99-103; T. Vitale (a cura di), Politiche possibili. Abitare le città con i rom e i sinti, Carocci, Roma 2009.
65
A. Pascale, Ritorno alla città distratta, Einaudi, Torino 2001.
66
Granata, Abitare: mestiere difficile cit.; Lanzani - Granata (a cura di), Esperienze e paesaggi dell’abitare cit.; A. di Campli, Il mestiere di abitare, in «L’Indice dei libri del mese»,
giugno 2007, 6, p. 35.
67
Lefebvre, La produzione dello spazio cit., pp. 48-9. Passare dall’attenzione al prodotto all’attenzione alla produzione dell’abitare significa cogliere il modo in cui lo spazio contiene i rapporti sociali. Sottolineare, di conseguenza, molteplicità e diversità.
68
A. Todros, Forme di comunanza e scelte reiterate. Pratiche e politiche di condivisione
nella città contemporanea, tesi di dottorato in Politiche pubbliche del territorio, Scuola di
dottorato Iuav, 2011.
69
Sono i casi indagati da Anna Todros, ibid.
70
A. Tosi, Modelli moderni. Una storia sintetica della problematica abitativa, in Id., Abitanti. Le nuove strategie cit., pp. 13-48.
71
Ibid., p. 18.
72
Ibid.; P. Ariès - G. Duby, La vita privata. Dall’Impero romano all’anno mille (1985),
Laterza, Roma-Bari 1988-1993.
73
Tosi, Abitanti cit., p. 22.
74
A. Pizzorno, I ceti medi nei meccanismi del consenso, in Il caso italiano, a cura di F. L.
Cavazza e S. R. Graubard, Garzanti, Milano 1974, 2 voll., pp. 315-38.
Boltanski - Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme cit., pp. 55 sgg.
Ci si riferisce al Piano Casa promosso dal governo nel 2009, il cui decreto riguarda
«Misure urgenti in materia edilizia, urbanistica e opere pubbliche», mentre le norme per ampliamenti e sostituzioni degli edifici esistenti sono state disciplinate dalle Regioni.
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Vittorio Gregotti, Massimiliano Fuksas, Pier Luigi Cervellati sono intervenuti dalle
pagine de «la Repubblica» l’8 e il 10 marzo 2009; Giuseppe Campos Venuti da quelle de
«l’Unità», il 15 marzo 2009. Diverse le posizioni espresse da Pippo Ciorra su «La Stampa»,
il 24 marzo 2009, da Stefano Boeri, sempre su «La Stampa», l’11 marzo 2009, da Lorenzo
Bellicini (Tra opportunità e rischi, in «Il Giornale dell’Architettura», aprile 2009, 72) e da
Luigi Mazza (I tre effetti del piano casa, ivi, ottobre 2009, 77).
78
Todros, Forme di comunanza cit.
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R. L. Heilbroner, Natura e logica del capitalismo (1986), Jaca Book, Milano 2001.
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