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SE QUESTO È AMORE
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Capitolo 1
Torino, 24 marzo 2006
Quel pomeriggio Stella era di turno in reparto.
Ci sarebbe rimasta fino a tarda sera, quando sarebbe stata l’unica
del piano. Aveva cominciato a lavorare al mattino presto e sentiva
un fastidioso cerchio alla testa. Non si era fermata nemmeno un
attimo, non era riuscita a mangiare nulla e lo stomaco glielo stava
facendo pesare, brontolando rumorosamente. Stava cercando di
sistemare gli esami dei pazienti nelle cartelle cliniche, quando
l’altoparlante annunciò: «La dottoressa Caminiti è desiderata al
telefono».
Sbuffò tra sé e per l’ennesima volta in quella giornata percorse il
lungo corridoio grigio in direzione dell’infermeria. Sollevò la cornetta
senza sapere cosa aspettarsi. L’odore acre del disinfettante
intensificava il dolore che sentiva alla testa.
«Pronto, chi parla?»
«Buongiorno, dottoressa Caminiti.»
«Oh… Sofia.»
Sofia era la giovane brasiliana che da qualche anno a quella parte
faceva da tata ai suoi figli. Quando suo marito se ne era andato di
casa si era trasferita a vivere con loro, diventando una sorta di alter
ego di Stella.
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«La devo disturbare per una questione urgente…»
La voce della ragazza tremava leggermente. Sembrava piuttosto
agitata.
La sua ansia si trasmise a Stella come una scossa elettrica.
«Che succede? I bambini… è tutto a posto?» domandò.
Il cuore aveva iniziato a battere all’impazzata. Il dolore alle tempie
stava diventando intollerabile.
«I bambini stanno bene, è che… sono arrivati degli uomini della
guardia di finanza e vorrebbero parlarle.»
Stella sbiancò. Cosa c’entrava la guardia di finanza con lei? Aveva
sempre pagato regolarmente tutti i contributi, compresi quelli di
Sofia.
Che si trattasse di qualche guaio in cui l’aveva lasciata il suo ex
marito? Sofia le passò uno degli agenti.
«Buongiorno» disse, sforzandosi di tenere a bada l’ansia. «Che
succede?»
«Buongiorno, dottoressa. Sono il maresciallo Rolle… devo
chiederle di tornare subito a casa»
L’uomo che le rispose aveva una voce roca. Stranamente
autoritaria.
«Ma… non posso!» rispose. «Sono di guardia fino a stasera. Posso
sapere che succede?»
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Aveva iniziato a torcersi nervosamente una ciocca di capelli tra le
dita.
«Purtroppo per telefono non possiamo fornirle alcuna informazione.
Dobbiamo perquisire la sua abitazione. Se non può venire lei,
deleghi il suo legale… Ma faccia in fretta, perché dobbiamo
procedere. Le possiamo concedere mezz’ora di tempo per
organizzarsi, poi cominceremo la perquisizione, con o senza di lei.»
Il suo tono di voce non concedeva alcuna possibilità di replica.
Stella si resse con fatica alla scrivania. Si sentiva mancare.
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Capitolo 2
Torino, 10 luglio 1989
«Ciao Stella, sono Sara! Ci sei stasera a cena? Ho invitato anche
Giovanni… mi sembra di aver notato una certa simpatia fra voi
due.»
Sara
era
l’insegnante
di
danza
di
Stella,
un’affascinante
cinquantenne che dimostrava assai meno della sua età per via
della costante attività fisica.
Aveva formato un gruppo di teatro e danza di cui Stella faceva
parte insieme alla sorella minore, Cristina, e ad altre studentesse
universitarie. Anche se studiava medicina, la danza restava la sua
vera passione, molto più che una semplice attività fisica.
«Ci sarò. Va bene per le venti? Porto il gelato!»
Per tutto il pomeriggio Stella non aveva fatto altro che pensare alla
serata.
Si era preparata con cura scegliendo un abitino da sera rosso,
piuttosto scollato sul davanti, che metteva in risalto il suo bel seno.
L’aveva usato la notte di Capodanno e aveva riscosso un grande
successo. Si era truccata e pettinata con una cura quasi maniacale,
restando per ore chiusa in bagno, cosa che aveva mandato in
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bestia sua sorella, che attendeva il proprio turno bussando
nervosamente alla porta.
«Ne hai ancora per molto?»
«Ho quasi finito!» rispondeva Stella, serafica.
Probabilmente, pensava, mentre si preparava al ballo con il
Principe, Cenerentola si era sentita proprio come lei, persa nei suoi
sogni.
Come sempre da Sara c’era un sacco di gente.
C’era
Leone,
l’assessore,
accompagnato
dall’onnipresente
segretario alla ricerca di qualche nuova fanciulla da accalappiare;
c’era Marco, l’amico di Giovanni, indolente impiegato di banca e
scrittore a tempo perso; c’erano poi tutte le ragazze del gruppo,
compresa Lara, la compagna di Sara. L’ appartamento di Sara si
trovava nel cuore della città. Piuttosto piccolo, possedeva però un
salone accogliente al cui centro era stata allestita una tavolata
piena di ogni ben di Dio, da cui ci si serviva a buffet.
La serata si preannunciava piacevole, proprio come Stella si era
immaginata. Era una graziosa biondina dagli occhi verdi e la
corporatura esile, ma muscolosa. All’epoca aveva un fidanzato, o
meglio, come lo definiva lei, un accompagnatore. Lorenzo. Eppure
Giovanni la intrigava come mai nessuno prima. Quella sera si
accorse con un certo sgomento di pendere letteralmente dalle sue
labbra.
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«Faccio il giornalista freelance. Mi occupo prevalentemente di
politica estera» stava raccontando alle ragazze del gruppo di
danza.
«Per quali testate giornalistiche?» chiese Stella, superando la
timidezza.
«Beh, diverse. Vendo i miei pezzi a chi li paga meglio.»
«Sicuramente viaggerai moltissimo per lavoro» si inserì Mara, una
graziosa brunetta.
«Eh, sì! Sono stato in molti Paesi dell’Est europeo, in Polonia al
tempo di Lech Walesa, poi in Unione Sovietica, in Jugoslavia.
Qualche volta ho persino rischiato di essere arrestato… Sono
luoghi pericolosi per un giornalista che vuole raccontare la verità.»
Intorno a Giovanni si era creato un cordone di persone interessate
ai suoi racconti. Stella non aveva mai conosciuto un uomo così
brillante. Lo ascoltava rapita, senza perdersi una sola parola. La
sua attenzione cresceva febbrilmente mentre Giovanni elencava
una serie di personaggi famosi che aveva conosciuto e intervistato.
Non sognava nemmeno di poter catturare l’interesse di un uomo
come lui. Del resto la sua vita era così scontata. Figlia primogenita,
rimasta
orfana
di
padre
in
tenera
età,
aveva
trascorso
l’adolescenza in un paesino di provincia; si stava laureando in
Medicina – con ottimi risultati, è vero, ma per il resto... Restò in
silenzio per il resto della serata.
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Sapeva di potersi reputare una ragazza carina, quello sì, ma anche
ben poco interessante. Giovanni invece aveva il fuoco vivo
addosso. Brioso, irriverente, spumeggiante: sembrava una bottiglia
di champagne appena aperta.
«A tempo perso scrivo romanzi Harmony sotto pseudonimo…»
«Non ci posso credere!» esclamò Cristina. «Non me ne perdo
uno!»
«Sì, è una ragazza molto romantica» ironizzò Stella, con palese
disgusto. Secondo lei quel genere di romanzi era quanto di più
adatto ci fosse per ragazzine sdolcinate e senza un briciolo di
cervello, il cui unico scopo nella vita era accaparrarsi un marito.
Subito dopo però si sarebbe morsa la lingua. Che cretina! Invece di
lodarlo, tra le righe aveva fatto capire a Giovanni che disprezzava
quel che faceva.
Si sarebbe presa a schiaffi da sola.
«Scrivere quel genere di libri rende molto bene» ribatté lui, senza
scomporsi più di tanto.
Non solo era bello come un Dio Greco, ma probabilmente
guadagnava anche bene. Non gli mancava assolutamente nulla per
essere considerato il classico “buon partito”, il sogno di ogni
ragazza, rifletteva Stella, convincendosi sempre più che Giovanni
non si sarebbe mai interessato a una come lei. Come avrebbe
potuto catturare la sua attenzione? Non le veniva in mente niente.
E poi lui continuava a pavoneggiarsi con le altre ragazze del
gruppo, versando loro da bere e facendo vagamente il cascamorto,
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senza mai degnarla di uno sguardo. Si sentiva parte del mobilio.
Una parte del tutto trascurabile, per giunta. Insolitamente triste,
decise di ritornarsene a casa anzitempo. Proprio al momento dei
saluti, però, Giovanni le andò incontro. Stava infilandosi il
soprabito, quando si voltò e all’improvviso se lo trovò davanti.
«Posso accompagnarti io?»
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Capitolo 3
Torino, gennaio 1990
Per circa sei mesi, Giovanni e Stella avevano giocato agli
innamoratini di Peynet. Si sentivano telefonicamente più volte al
giorno e il sabato di solito lui la invitava a cena in qualche locale
romantico del centro storico cittadino.
Ogni volta che si vedevano riusciva a catturare l’attenzione di Stella
con le sue storie di viaggi, luoghi e personaggi conosciuti; il tempo
con lui passava veloce: era brillante e ferrato su qualsiasi
argomento, mai banale, di una cultura fuori dal comune. Parlavano
tanto, di ogni cosa, e il mondo intorno a loro cessava di esistere.
Una sera Giovanni le fece una rivelazione che la lasciò sgomenta.
«Sai, Stella, quando ero molto giovane sono stato sposato. Ero
molto innamorato di mia moglie. Era bella, intelligente, la mia
donna ideale… Le ho donato tutto me stesso, ma dopo due anni lei
mi ha lasciato. È scappata all’estero senza darmi spiegazioni!» Gli
si erano inumiditi gli occhi. «Da allora non l’ho più vista, né sentita.
Ancora oggi non so perché l’abbia fatto. Per anni ho vissuto nella
disperazione, ma ora ho incontrato te, un Angelo che è entrato a far
parte della mia vita… E non lo lascerò scappare. Sei troppo
importante!»
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Stella trattenne il fiato. Erano passati mesi, ma ancora non riusciva
a credere che Giovanni fosse lì, accanto a lei, e che la tenesse per
mano fissandola con aria adorante. Provava un’intensa attrazione
per quell’uomo. Era qualcosa di fisico, certo, ma andava ben oltre.
Era un sentimento che la toccava nel profondo, confondendola.
Alto, moro, muscoloso, Giovanni aveva grandi occhi castani che
quando la osservavano con attenzione, come in quel momento, le
facevano quasi tremare le gambe. La storia della sua ex moglie
l’aveva colpita più di quanto fosse disposta ad ammettere:
condivideva la sua sofferenza, ma soprattutto si chiedeva come
fosse possibile per una donna abbandonare un uomo così
meraviglioso.
Giovanni riusciva a sorprenderla anche con le piccole cose, come
quando per strada si fermava a raccogliere un fiore da donarle.
“Lo sai che la margherita in realtà si chiama “leuchanteum vulgare”,
ossia “fiore bianco”? Simboleggia amore fedele e pazienza. Un
tempo le fanciulle che la ricevevano in dono accettavano una
promessa di amore, la stessa che io voglio fare a te!”
Ed ecco che all’improvviso, come per magia, la storia di quel
piccolo vegetale si trasformava in fiaba, e agli occhi di Stella
acquisiva la dignità di un diamante. Conoscendolo meglio, scoprì
che Giovanni era anche dolce, premuroso, molto diverso dai
ragazzi che aveva frequentato fino allora. Era tenero, sensibile,
amava gli animali, la natura, ed era terribilmente romantico. Le
faceva
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provare
emozioni
che
lei
nemmeno
immaginava
esistessero. Una sera aveva insistito per portata al parco. Si erano
seduti su una panchina e tenendosi per mano avevano guardato il
tramonto, mentre Giovanni le sussurrava nell’orecchio parole
dolcissime.
«Mia stupenda principessa, ti adoro. Da quando ti conosco penso
che nulla sia impossibile per noi.»
Poi l’aveva baciata a lungo, appassionatamente. Con una
tenerezza infinita. Stella aveva ricambiato, abbracciandolo forte, e
gli aveva detto che lo amava. Era un sentimento vero, intenso, ed
era la prima volta che provava qualcosa del genere. Da quel
momento Giovanni aveva preso a scriverle lunghe lettere, e lei si
era sentita sempre più attratta da qualcosa immensamente più
grande di lei.
Cara Stella,
più ti conosco, più i miei dubbi e le mie paure svaniscono. Dopo
tanto tempo sento nascere in me un sentimento nuovo, fortissimo,
che rischia di travolgermi. Da principio ne avevo paura, perch é so
quanta angoscia, quanta tristezza può causare un amore finito
male… Ma ora che ci sei tu, io sono tornato ad avere fiducia.
Istintivamente. Mi sto innamorando di te e non voglio che questo
sentimento sia solo questione di “pelle”, voglio che si trasformi in
qualcosa di più forte. Voglio passare tutta la vita con te, capisci?
Non sto cercando una fidanzata qualsiasi, ma una donna speciale
cui dedicare tutto ciò che posso, tutto ciò che possiedo e che
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riuscirò a dare. Per questo ti faccio tante domande: avrei voluto
conoscerti da bambina, o da adolescente. Voglio avere stima di te,
rispettare ogni tuo vezzo, ogni abitudine… più ti conosco, più mi
convinco che tu sia una persona meravigliosa, molto più di quanto
avrei mai potuto immaginare. Eppure le mie mille paure non mi
lasciano in pace nemmeno adesso.
Ti piaccio? Continuerò a piacerti? Chi sono, io, per essere amato
da te? Sei giovane, bella, circondata da persone più interessanti di
me, che fanno cose più importanti, che ti sono più simili e che ti
potrebbero assicurare una vita più tranquilla di quella che avresti al
mio fianco… persone che si accontenterebbero più facilmente. Io
non mi accontento: voglio darti il massimo, rischiare il massimo,
perché desidero che tutta la nostra vita sia al massimo.
Desidero dividere con te le gioie e le tristezze che il futuro ci
riserva, esserti utile come lo è la tua famiglia, il tuo lavoro. Per
questo sono geloso. Vorrei che tu contassi su di me come conti su
di loro, anche solo per appoggiare la testa sulla mia spalla in un
attimo di tristezza. Voglio esserti necessario.
Scrivere a te, Stella, per uno che fa il mio mestiere è un piacere
egoista, ma voglio che tu sappia quanto stai rendendo felice la mia
vita in questo momento. Di te mi piace tutto: la tua intelligenza, il
tuo buonsenso di provincia, la dolcezza e ogni curva del tuo corpo.
Lasciati amare, Stella. “Prestami il tuo viso e il tuo corpo. Anche
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solo per un attimo. Anche solo per l’eternità, affinché io li faccia
danzare” (purtroppo quest’ultima frase non è mia, ma di Marco).
Tuo, Giovanni
Sorridendo, Stella piegò la lettera e la ripose nel cassetto della
scrivania, che ormai conteneva decine e decine di lettere di
Giovanni. A quel punto non poteva più sottrarsi all’inevitabile.
Tentennò ancora un po’, poi con un sospiro alzò la cornetta e
compose il numero di Lorenzo. Erano giorni che rimandava quella
telefonata.
«Mi dispiace, ma non posso più stare con te. Io non ti amo.»
Un annuncio frettoloso, lapidario, che non gli lasciò il tempo di
replicare. Mise giù che quasi le mancava il fiato per il dolore e lo
sconcerto. Per la prima volta nella sua vita, Stella si sentiva un
verme. Non aveva avuto neanche il coraggio di comunicargli la sua
decisione guardandolo negli occhi. Aveva preferito tenersi a
distanza, ricorrendo a quella diavoleria tecnologica, per evitare uno
sguardo che non avrebbe retto. Eppure non era mai stata
innamorata di Lorenzo, non aveva mai pensato seriamente a un
futuro insieme… Ma questi pensieri non le impedivano di sentirsi
colpevole.
Sapeva che Lorenzo aveva intuito da tempo come stavano davvero
le cose, e soffriva in silenzio. Sperava che prima o poi Stella
sarebbe tornata da lui, comprendendo quanto profondo e sincero
fosse il suo sentimento. Ma si sbagliava.
Ormai per Stella esisteva solo Giovanni.
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Quell’uomo l’aveva coinvolta totalmente, senza appello.
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Capitolo 4
A sua madre Maria, Giovanni non piaceva per niente.
«C’è qualcosa nel suo modo di fare che non mi convince» aveva
commentato una sera mentre parlavano al telefono.
Il tono lapidario era di quelli che non ammettevano repliche, proprio
come quando Stella e sua sorella erano bambine.
«Sei solo gelosa! » aveva ribattuto lei, infastidita. «Il tuo è un
sentimento naturale, devi imparare a conviverci… e a farti una
ragione del fatto che ormai io e Giovanni stiamo insieme». Aveva
continuato, sicura della sua diagnosi.
Non solo Giovanni era d’accordo con lei, ma più volte le aveva
ripetuto che era ora di tagliare il cordone ombelicale una volta per
tutte. Nel modo di pronunciare quell’espressione era implicito che al
ragazzo il legame così forte che Stella aveva con sua madre
appariva un po’ insano per sua età. Del resto anche lei si stava
gradualmente convincendo che fosse proprio così.
Nonostante la vita l’avesse messa a dura prova, Maria era una
donna ancora piacente. Sposatasi in giovane età, era rimasta
vedova a soli ventisette anni con due bambine piccole da crescere
e aveva dovuto rimboccarsi le maniche per laurearsi e dare avvio
alla sua carriera professionale. Era riuscita a ottenere una cattedra
alle scuole medie, un mestiere che le garantiva una certa
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autonomia. Nonostante l’apparente bonarietà, era una donna dal
piglio deciso: le difficoltà che aveva dovuto affrontare avevano
affinato il suo fiuto per le incognite che la vita riservava anche
laddove uno non se le aspettava, ma Stella, complice la sua
giovane età, credeva che fosse tipico di una madre vedere pericoli
ovunque.
Quando la figlia le aveva presentato Giovanni, Maria non aveva
potuto fare a meno di notare alcuni particolari che l’avevano
turbata. Una sera Stella lo aveva invitato a cena per farglielo
conoscerlo, così lei aveva preparato il bollito con salse miste, il
piatto che la figlia le aveva detto essere il preferito del suo nuovo
fidanzato. Aveva apparecchiato la tavola con cura, scegliendo una
tovaglia di lino bianca che usavano solo nelle occasioni importanti.
Dalla cucina si spargeva il delizioso profumo della carne e Maria
era impaziente di conoscere il giovanotto di cui sua figlia si era
innamorata. Quella sera a cena c’era anche la nonna di Stella,
Onorina, che, abitando da sola, mangiava spesso a casa della
figlia.
Quella sera Stella era molto nervosa. Dentro di sé avvertiva un
senso d’inquietudine che non riusciva a spiegarsi. Nemmeno la
presenza della nonna, cui era molto legata, riusciva a mitigare la
sua ansia. Sapeva quanto fosse arguta e talora inopportuna, perciò
le fece mille raccomandazioni.
«Per favore, nonna, non farmi fare brutte figure con il mio
ragazzo!» la implorò mentre aspettavano Giovanni.
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Stranamente lui si presentò in ritardo. Sembrava trafelato.
«Ho avuto un impegno di lavoro che mi ha trattenuto oltre l’orario
previsto», disse, scusandosi.
Ed effettivamente aveva un’espressione colpevole.
Di primo acchito, Maria lo trovò semplicemente strano. Durante la
cena lo aveva invitato a parlare di sé. I denti in disordine, le unghie
un po’ sporche, ma soprattutto il fatto che raramente la guardava
negli occhi quando le parlava della sua professione non mancarono
di metterla immediatamente su chi va là. Nonostante i continui
apprezzamenti sul cibo da parte di Giovanni, l’atmosfera si fece
presto irrespirabile. L’iniziale diffidenza di Maria non tardò a
trasformarsi in aperta ostilità, e, cosa ancor peggiore, era
impossibile non accorgersene: non gli toglieva gli occhi di dosso, e
quando gli rivolgeva la parola lo faceva con un tono di voce
stridulo, a stento garbato.
Imbarazzatissima, Stella cercava invano le gambe di sua madre
per darle un calcio. Poi sorrideva forzatamente, cercando una
battuta che smorzasse la tensione.
Prima di congedarlo, aveva stretto forte le mani di Giovanni in
segno di complicità. Ben sapendo di mentire – e consapevole che
lui se ne sarebbe accorto – gli aveva detto: «Sei piaciuto moltissimo
alla mia famiglia! A domani».
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Mentre aiutava a sparecchiare, Stella inveì contro la madre: «Ti sei
resa conto di aver sottoposto Giovanni a una specie di macchina
della verità? Gli hai fatto il quarto grado!».
Maria si asciugò con cura le mani. Non voleva ferire sua figlia, ma
al tempo stesso non poteva tacere.
«Non mi piace, Stella. Quel ragazzo non mi piace per niente»
ripeté, convinta.
«Ma non deve mica piacere a te! Perché non vuoi che io sia
felice?» urlò Stella, sfogando il nervosismo accumulato durante
quella terribile serata. Poi abbandonò la tavola ancora imbandita e
corse a rifugiarsi in camera sua.
Maria sentì sbattere la porta.
Costernata, si mise a sedere su una poltrona e passandosi
ripetutamente le dita tra i capelli, come faceva quando doveva
prendere una grave decisione, cominciò a chiedersi come tutelare
sua figlia senza farsi odiare da lei. La nonna per tutta la cena non
aveva parlato, limitandosi a osservare. Dopo che Stella si era
ritirata in camera sua, però, aveva commentato con la figlia:
«Questo
ragazzo
più
che
un
giornalista,
mi
sembra
un
giornalaio…».
I discorsi acculturati di Giovanni non erano riusciti ad ammaliare
Onorina.
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Dopo quella cena, Maria cominciò a tormentare costantemente
Stella, sempre più infastidita dai continui interrogatori cui sua
madre la sottoponeva.
Forse Giovanni aveva ragione, pensava la ragazza. Era ora di
diventare autonomi dalla famiglia, sia economicamente che
emotivamente.
D’altra parte poteva permetterselo.
Studiava ancora, è vero – frequentava il corso di specializzazione
post lauream – ma aveva la sua borsa di studio, e poi guadagnava
qualche soldino lavorando come medico presso alcuni centri
estetici.
Sì, avrebbe potuto farcela.
Nell’estremo tentativo di far ragionare sua figlia, Maria aveva
cercato di coinvolgere amici e conoscenti. Ma più di tutti aveva
puntato su sua madre, la nonna che Stella adorava. Capelli canuti
su un viso disteso e poche rughe a segnare una vita dura, ma tutto
sommato serena, Onorina era una donna decisa. La guerra e le
dolorose vicende familiari che avevano visto un patrimonio
immenso sgretolarsi dopo la morte del padre, l’avevano resa una
roccia, un “generale”, come la definivano spiritosamente i suoi figli.
Si era sposata con un uomo buono e docile, uno stimato medico di
paese, e l’aveva dominato per tutta la vita.
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Maria era la figlia maggiore nata dalla loro unione, così chiamata in
onore della Vergine. Dopo la morte del marito, invecchiando
Onorina si era addolcita. Stella la ammirava per la sua
lungimiranza: dopo la laurea, sua nonna aveva insistito per pagarle
un corso di medicina estetica.
«Così potrai lavorare e mantenerti da sola agli studi di
specializzazione» le aveva suggerito.
E così era stato.
Quando sua figlia Maria aveva deciso di sposarsi con un uomo che
non corrispondeva ai suoi canoni perché squattrinato e di umili
origini, aveva fatto fuoco e fiamme. Solo l’intervento del marito
aveva messo pace.
Le aveva chiesto: «Se quando Maria è nata ti avessero detto che si
sarebbe sposata con un medico, saresti stata contenta?». Così
l’aveva spiazzata.
Alla morte del marito, Maria aveva accolto in casa la figlia e le
nipoti, alle quali aveva fatto un po’ da seconda mamma. Per questo
Stella le era così affezionata. Anche lei non vedeva di buon occhio
il nuovo fidanzato della nipote, ma rispetto a sua figlia era molto più
scaltra. Sapeva che a nulla sarebbe valso osteggiare l’amore tra i
due giovani. Per cui, almeno apparentemente, non si era mai
messa contro la nipote. Si limitava a lavorare dietro le quinte,
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aiutando Maria nelle sue indagini. A Stella faceva domande
all’apparenza innocue.
Ogni tanto le chiedeva: “Sei felice con il tuo ragazzo?”.
“Ma certo, nonna! Mi tratta come una regina”, rispondeva Stella,
sicura.
“Sono contenta per te, tesoro! Sai, ora che sono vecchia ti posso
svelare un segreto: una coppia è stabile quando ci sono sincerità e
rispetto. Purtroppo la passione prima o poi si spegne…”
Stella apprezzava i consigli della nonna, e mai e poi mai avrebbe
intuito che anche lei nutriva forti sospetti nei confronti Giovanni.
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Capitolo 5
Stava studiando, quando fu interrotta dal telefono che squillava.
«Avevo ragione io!» strillò sua madre, agitata, senza nemmeno
salutarla. «Giovanni non è un giornalista!»
«Come… ?! E tu come fai a saperlo?»
«Ho i miei informatori. E lui non è nell’albo dei giornalisti!»
Non aveva mai sentito sua madre così alterata.
Sembrava un’indemoniata.
«Mamma, ma ci vogliono anni prima che un giornalista venga
iscritto all’Albo!»
«Ma lui ha raccontato di avere anni di esperienza! Com’è che non
risulta ancora iscritto?»
«Smettila, stai esagerando!»
«Stella, tu sei innamorata, non riesci a vedere lucidamente la
realtà!»
Solo allora Stella si rese conto di quello che sua madre aveva fatto.
Un’andata d’indignazione la travolse e per qualche secondo le
impedì di parlare.
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«Come ti sei permessa?» La sua voce vibrava di rabbia. «Come
hai potuto metterti a indagare sul mio fidanzato senza avvertirmi?
Senza che io ti avessi dato l’autorizzazione?!»
«Dai retta a me e alla mia esperienza!» insistette sua madre.
Ma lei non la ascoltava più. Non ricordava di essere mai sentita
così in collera, fuori di sé e con intenzioni bellicose; lei, che in
genere era così mite e che non aveva mai dato alcun problema né
in casa, né fuori.
Ma era troppo tempo che quella storia andava avanti, e lei era
giunta al culmine della sopportazione.
«Ascoltami bene, mamma. Io sono innamorata di Giovanni e, che
tu lo voglia o no, porterò avanti questa storia… Ognuno ha il diritto
di fare le proprie esperienze!»
Mentre parlava, le sue pupille si chiusero a spillo come quelle di un
serpente a sonagli, le mani le sudavano copiosamente.
«Un giorno, Stella, quando la passione finirà, capirai…» continuò
Maria, senza capire che stava innescando un meccanismo senza
via d’uscita.
Stella sentiva la rabbia crescere ancora e ancora.
«Basta! Non voglio più vederti né sentirti! Voglio vivere la mia vita
senza che tu interferisca ancora. Addio!»
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Capitolo 6
Torino, marzo 1990
Qualche giorno dopo Stella traslocò a casa di Giovanni, una
mansarda nel pieno centro storico di Torino. Era piccola – una
bomboniera, come la definiva lei – e aveva i muri un po’ scrostati,
costantemente umidicci; Giovanni fumava a dismisura e nell’aria
aleggiava un forte odore di sigarette, ma era intrisa di storia, e
questo la rendeva affascinante nonostante tutti i suoi difetti. Chissà
chi ci aveva abitato prima di loro, quali amori e quante vicende si
erano intrecciati, consumandosi in quei pochi metri quadri…
A poca distanza da loro abitava Marco assieme alla sua famiglia.
Una sera di qualche anno prima, Giovanni aveva sentito suonare il
campanello. Era andato ad aprire e si era trovato davanti un uomo
sulla cinquantina, di bell’aspetto, coi capelli brizzolati e una barba
incolta da bohémien.
Era Marco.
«Mi scusi, volevo chiederle se il suo alloggio è in vendita.»
«Non è di mia proprietà» rispose Giovanni, perplesso.
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«Non è che per caso ha intenzione di andarsene? Non che lei mi
sia antipatico, ma… mi farebbe comodo appropriarmi del suo
alloggio.»
«Appropriarsi… del mio alloggio?»
«Sì. Confina con il mio, quindi potrei allargarmi. Sa, ora che ho
avuto una figlia, il mio appartamento comincia a essere un po’
troppo piccolo per tre persone…»
«No, ma neanche per sogno! Tutto ciò che posso fare per lei è
offrirle una birra, le va?»
Da quel momento in poi erano diventati buoni amici.
Marco era un personaggio piuttosto singolare, fumatore accanito di
tutto ciò che si poteva fumare: pipe, sigari, cigarillos e sigarette.
Amava comporre poesie simboliste e scrivere canzoni impegnate,
stile cantautore, che canticchiava durante i dopo cena con gli amici,
accompagnandosi con la chitarra.
“A tempo perso”, come diceva spesso sua moglie, dal momento
che l’uomo in realtà lavorava presso la filiale di una banca. Lui e
Giovanni spesso si scontravano perché Marco non condivideva le
sue idee politiche di estrema sinistra. Discutevano su tutto, ma non
litigavano mai. Le loro serate si concludevano quasi sempre con
grandi bevute, fumando fino a tarda notte stecche di Malboro.
Ben presto Stella fece amicizia con Clara, la moglie di Marco, una
donna minuta, dal sorriso aperto e dal carattere dolce e paziente.
Di mestiere faceva la disegnatrice presso la Fancetti, una famosa
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ditta di giocattoli. E poi c’era Titty, la loro deliziosa figlioletta di
appena quattro anni, con grandi occhi neri e un carattere vispo.
Spesso s’intratteneva con lei al parco giochi.
Nei primi tempi Stella portò una vera e propria rivoluzione nel
piccolo appartamento di Giovanni.
«Giovanni, ti piace il nuovo copri divano? L’ho visto oggi al mercato
e mi è subito piaciuto!»
«Sì tesoro, mi piace moltissimo. E poi il colore s’intona con quello
delle pareti.»
«Giovanni, mi aiuti a spostare i mobili? Ho pensato a una nuova
disposizione che farà apparire l’ambiente più spazioso.»
«Va bene, Stella… Sono ai tuoi ordini, mia regina!»
Con quell’attività frenetica, che le ricordava i gesti compiuti
quotidianamente da sua madre quando ancora vivevano insieme,
cercava di cacciare in fondo all’anima il dolore per quella loro
brutale separazione. Con la sorella era invece rimasta in buoni
rapporti. Di lì a poco, Cristina si sarebbe sposata. Stava allestendo
casa a Milano con il futuro marito, dunque aveva altri pensieri per la
testa. Stella sentiva quasi tutti i giorni anche nonna Onorina, che
cercava disperatamente di mettere pace tra mamma e figlia.
«È vero, tua madre è stata troppo protettiva, troppo impulsiva, ma ti
ha sempre voluto bene!»
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«Se mi avesse voluto davvero bene, avrebbe accettato il mio
amore per Giovanni… proprio come hai fatto tu quando lei si è
innamorata di mio padre.»
«Non essere così dura, con lei. Ricordati che la sua non è stata
affatto una vita facile.»
La voce della nonna era dolce, comprensiva.
«Ma perché le è così difficile accettare che io sia felice? Non riesco
a perdonarla per come ha trattato Giovanni.»
«Stella, la nostra vita non ritorna indietro e non si ferma a ieri.
Pensa alla tua mamma con l’affetto e l’amore di un tempo.»
«Non ce la faccio, nonna…» La voce le si spezzava in gola.
«Tesoro, non rincorrere le nuvole trascurando la luce del sole.
Ricordati che noi siamo, e rimarremo sempre, la tua famiglia.»
Dopo ogni telefonata con la nonna, Stella si chiudeva in bagno a
piangere. Quelle parole le toccavano il cuore, più di quanto non
volesse ammettere. Ma era troppo ostinata, e pur di dimostrare di
aver ragione era decisa a non mollare.
Ma il vuoto restava, e anzi si faceva sempre più profondo.
Cercava di riempirlo organizzando cene con gli amici di sempre,
ma si accorgeva che loro, dopo aver conosciuto Giovanni, si
allontanavano da lei ed evitavano ulteriori uscite inventandosi le
scuse più disparate. Con lei Giovanni era sempre dolce, ma stava
diventando anche possessivo. Proprio nelle ultime settimane le
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aveva fatto ripetutamente notare come gli altri uomini la
guardassero quando indossava abiti troppo scollati.
Una sera le aveva fatto una scenata epocale.
«Hai visto come ha sbirciato la tua scollatura il vicino quando ti ha
incrociato sulle scale?»
«Quale vicino?»
«Non fare la finta tonta! Il negro che abita al terzo piano.»
Giovanni si accese una sigaretta con un gesto nervoso, espirando
la prima boccata di fumo sul viso di Stella.
«Ma non è vero!» protestò lei. Cercò inutilmente di allontanare il
fumo con le mani.
«Fai finta di non essertene accorta? Sbirciava proprio il tuo decolté!
Non voglio che tu indossi abiti succinti. Ora stai con me, perciò vedi
di non comportarti da troietta.»
Quell’affermazione ferì profondamente Stella.
«Non usare certi termini con me, Giovanni. Non me lo merito!»
«E allora piantala di provare in tutti i modi a farmi ingelosire!»
Parlando si tormentava il lobo dell’orecchio destro.
«A che cosa ti stai riferendo?» Stella era sempre più perplessa.
Non si era mai comportato così, prima d’allora, e quel che era
peggio è che le sue accuse erano completamente campate per
aria. Il vestito che indossava quel giorno era quanto di più lontano
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ci fosse dall’essere un abito sexy, o anche solo vagamente
provocante.
La sua risposta la lasciò senza parole.
«A Lorenzo. Mi dà terribilmente fastidio pensare che lui ti abbia
baciata, che ti abbia toccata, che abbia fatto l’amore con te!»
Che Giovanni non stesse scherzando era evidente dall’espressione
seria e imbronciata, e dal modo in cui fumava, a scatti nervosi,
mentre camminava su e giù per la minuscola stanza che costituiva
il loro soggiorno.
«Ma Lorenzo è acqua passata… Come puoi essere geloso di lui?»
«Hai continuato a frequentarlo per mesi, mentre io ti sbavavo
dietro!» le rinfacciò.
«Ma poi l’ho lasciato per stare con te! Giovanni, io ti amo, come
faccio a fartelo capire?»
«Io sono geloso di ogni uomo che ti avvicina, lo capisci?» le urlò
quasi in faccia, gettando la sigaretta a terra e schiacciandola con
un piede.
«Ma non ce n’è motivo! Comunque, se ti dà fastidio che indossi
questo abito, non lo metterò più.»
«Tu sei mia, per ora e per sempre.» Il suo tono suonava quasi
minaccioso, ma non ebbe tempo di rendersene conto.
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All’improvviso Stella si sentì afferrare i capelli e rovesciare la testa
all’indietro. La bocca di Giovanni s’incollò alla sua. Cominciò a
baciarla avidamente, come a suggellare un’unione che nessuno
avrebbe mai potuto dividere. Quella notte fecero l’amore con
passione e furore, mordendosi e graffiando la pelle, e il mattino
successivo, come sempre da quando abitavano insieme, lui le
portò la colazione a letto.
Era quella la cosa che più adorava, in lui. Giovanni la riempiva di
attenzioni: la cullava tra le braccia quando non riusciva ad
addormentarsi, cucinava per lei i suoi piatti preferiti, le sbucciava
persino la frutta, facendola sentire una regina.
La svegliò con un bacio profondo, infinitamente più tenero di quelli
che si erano scambiati durante la notte.
«Ma tu lo capisci quanto ti amo?» le sussurrò all’orecchio.
«Anch’io ti amo… da impazzire!»
Era vero.
Stella era perdutamente, irrimediabilmente innamorata di lui, e
sapeva di non poterne più fare a meno.
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Capitolo 7
Una sera, qualche mese dopo l’inizio della loro convivenza,
Giovanni invitò Stella a cena all’Hosteria Mamutones, un ristorante
sardo nel centro storico di Torino, i cui proprietari lo conoscevano
piuttosto bene.
Ordinarono cozze marinate, spaghetti allo scoglio e fritto di mare, il
tutto annaffiato da un buon vino bianco secco.
Al momento del dolce, Stella si alzò per andare in bagno.
Al suo ritorno, trovò Giovanni che la aspettava in piedi: tra le
braccia teneva un enorme cuore rosso formato da decine di
palloncini. Su ciascuno di essi, disegnata con un pennarello blu,
c’era una lettera che contribuiva a formare la scritta: “Mi vuoi
sposare? Ti amo da morire!”.
Tutti gli avventori del locale si erano voltati a fissare la scena, e
Stella si sentiva al tempo stesso felice e imbarazzata. Subito dopo
fecero il loro ingresso due suonatori di fisarmonica che attaccarono
Strangers in the Night. Giovanni la invitò a ballare e lei gli si strinse
contro, facendosi più piccola che poteva, felice di non doversi più
guardare intorno, incrociando gli occhi curiosi della gente.
Giovanni aveva lo sguardo languido e gli occhi lucidi.
«Voglio che tu diventi mia moglie, e che rimanga con me per
sempre» le ripeté con urgenza, quasi le parole scritte sui palloncini
non bastassero.
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Con le guance in fiamme e un filo di voce, Stella gli sussurrò
all’orecchio: «Anch’io lo voglio».
Quella sera non tornarono subito a casa.
Andarono a godersi lo spettacolo della luna piena su una panchina
del parco, stretti l’uno contro l’altra, un po’ intorpiditi dal gelo che si
faceva via via più intenso, penetrando nelle ossa.
A Stella sembrava che anche il suo cuore fosse infreddolito.
Provava una strana mescolanza di gioia e di dolore, come quando
stai vivendo in un bellissimo sogno che non puoi condividere con la
persona più importante della vita.
Sua madre, la sua unica famiglia.
«Mi piacerebbe che ci sposassimo in chiesa.» Questo fu l’unico
desiderio che espresse. Giovanni era già stato sposato, ma solo
civilmente, perciò il matrimonio religioso era possibile.
«Ma sai che sono ebreo» obiettò lui.
«Domenica potremmo andare a trovare don Carlo e chiedergli se
sono possibili riti misti… Per favore, Giovanni, accontentami!» gli
chiese con voce petulante da bambina.
Lui le aveva ripetuto più volte di essere ebreo, motivo per cui un
matrimonio cristiano avrebbe potuto rappresentare un problema.
Quando le aveva raccontato la storia della sua famiglia, le aveva
parlato a lungo di come i suoi nonni materni erano stati perseguitati
durante il fascismo proprio a causa della loro discendenza. Per
fortuna gli erano stati risparmiati i campi di concentramento.
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Ogni volta che si recavano al cimitero per trovare i parenti defunti,
Giovanni depositava sulla loro tomba un sassolino.
La prima volta che l’aveva visto compiere quel gesto, Stella l’aveva
osservato rapita.
«Che significa?» aveva chiesto.
«Gli ebrei lasciano un sasso sulla tomba dei loro cari come
testimonianza della visita fatta» le aveva spiegato Giovanni.
Da allora anche Stella, trovando questo gesto pregno di significato,
aveva preso la stessa abitudine.
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Capitolo 8
I genitori di Giovanni erano persone molto ospitali.
Di origine veneta, dopo il matrimonio si erano trasferiti a Torino. Il
padre era stato funzionario delle Ferrovie dello Stato, e una volta in
pensione aveva aperto un’agenzia di assicurazioni nella quale
lavorava anche la moglie. Anche Giovanni, insieme alla sua prima
moglie, ogni tanto aveva dato una mano. Stella aveva avuto modo
di incontrare i genitori di Giovanni qualche tempo dopo la proposta
di matrimonio, la prima volta in cui erano stati invitati a cena da
loro. La casa in cui abitavano era arredata con uno stile essenziale
ma accogliente; si trovava in un quartiere popolare della città,
costruito intorno agli anni Sessanta.
Stella aveva cercato di aiutare la madre di Giovanni a preparare la
tavola e aveva subito notato quanto fosse poco loquace. Non
aveva rifiutato l’aiuto, ma era come se si sentisse in imbarazzo.
Era una donna esile, dall’aspetto curato.
Avrà all’incirca una settantina di anni, pensò Stella, osservandola
con curiosità.
I capelli erano di un biondo artefatto, dalle sfumature che andavano
dal miele al color cenere; era chiaro che si faceva la tinta in casa,
senza ricorrere alla parrucchiera. Tuttavia erano in perfetto ordine,
e Stella si chiedeva come facesse a mantenerli in quello stato,
mentre lei, nonostante tutte le attenzioni, aveva i capelli sempre
spettinati.
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Quando si erano finalmente seduti a tavola, aveva notato quanto
differenti fossero tra loro i genitori di Giovanni.
Il padre, anche lui sulla settantina, sembrava lontano anni luce
dalla moglie sia per l’aspetto – era calvo, di corporatura massiccia –
sia per la personalità. L’aveva subito messa a suo agio con un paio
di battute sui torinesi: aveva rotto il ghiaccio e durante tutta la cena
si era mostrato socievole.
Era chiaro che era una persona di compagnia. Stella se lo
immaginava a una di quelle feste di paese, dove ci sono grandi
tavolate, in cui si mangia e si beve a dismisura, intento a ridere e a
scherzare con gli altri commensali.
La madre aveva cucinato la polenta “con gli uccellini scappati”, una
specialità veneta. Consisteva in un piatto di polenta e carne in cui
non c’era traccia di uccellini proprio perché… erano scappati!
Avevano riso e scherzato sul nome di quel piatto delizioso, e Stella
si era sentita subito a suo agio.
Dopo la cena e dopo qualche bicchiere di un buon vino rosso, si
erano spostati in salotto, dove, come da tradizione, le avevano
mostrato gli album fotografici che ritraevano la famiglia al completo.
Compariva anche Paolo, il fratello maggiore di Giovanni.
«Lo sai, Stella, che Paolo dopo la laurea è diventato il manager di
una grossa multinazionale?» le raccontò con orgoglio il padre. «Lo
vediamo poco perché è sempre così impegnato… è sposato, e ci
ha dato un nipotino!» Nel nominarlo gli brillarono gli occhi.
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«Altro che nipotino…» s’intromise la moglie. «Ormai è un
adolescente! Ha già tredici anni, il nostro paciughino!»
E intanto le mostravano le immagini del nipotino da piccolo, con
ancora il ciuccio, e poi più grandicello, durante una cerimonia,
insieme a dei genitori palesemente orgogliosi.
Stella ebbe la netta impressione che ai loro occhi Paolo fosse il
figlio perfetto. Tra le foto, ecco comparire quelle del battesimo di
Giovanni in cui lui, contrariato per l’acqua che gli era appena stata
versata sulla testolina rotonda, strillava tra le braccia del padrino.
All’improvviso Giovanni divenne molto nervoso.
«Ma che volete che importi a Stella delle nostre foto di famiglia!»
commentò, acido, torcendosi nervosamente le mani. «Dai! Si è
fatto tardi. Andiamocene…»
Si alzò bruscamente, tirandola per un braccio. L’espressione dei
suoi occhi era cambiata, sembrava che da un momento all’altro
potessero prendere fuoco dalla collera.
Ma anche l’umore di Stella era cambiato all’improvviso.
Prima ancora che arrabbiata, era incredula: non c’era alcun dubbio
che Giovanni le avesse mentito, visto che non era affatto ebreo.
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Capitolo 9
Quando arrivarono a casa, Stella non riuscì a trattenersi.
«Sei un bugiardo, mi hai mentito su una questione così
importante!» urlò con voce incrinata dal pianto.
Si sentiva così delusa! A fatica sfilò gli stivali e li gettò a terra. I
polpacci si erano gonfiati, le vene dei piedi erano dilatate e le
dolevano, e a questo c’era da aggiungere il suo amor proprio ferito,
che faceva male più di tutto il resto.
«E io, stupida, che ci ho creduto… ti ho portato persino da don
Carlo!» Sentiva che le sue corde vocali s’infiammavano sempre
più, disabituate com’erano a urlare.
«E poi la messa in scena di quando deponevi i sassolini al cimitero!
Mi fai schifo!»
Era così presa dalla sua rabbia che non riusciva nemmeno a
voltarsi per guardarlo. Sentì solo uno schiaffo arrivarle in pieno
volto. Alzò gli occhi un istante, sbalordita, poi non ebbe più tempo
di rendersi conto di nulla.
Accadde tutto in un lampo.
Giovanni aveva il viso paonazzo, livido, sfigurato in una maschera
di rabbia. Si sentì prendere per i capelli e trascinare a terra. Poi, in
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maniera frenetica, incontrollata, cominciarono ad arrivarle addosso
i pugni e gli schiaffi. Una ferocia inaudita, una violenza così
inaspettata da lasciarla tramortita. Non riusciva a reagire in alcun
modo, non riusciva a difendersi. Sentiva i colpi percuoterle il corpo,
ma non il viso, come se Giovanni cercasse di evitarlo di proposito.
Passò del tempo – non avrebbe saputo dire quanto – prima che
riuscisse a parlare.
«Bastardo, piantala! Cosa stai facendo?» urlò, a metà tra i
singhiozzi e un lungo gemito di dolore.
Ben presto si accorse che le sue urla lo eccitavano ancora di più,
proprio come succede al toro nell’arena di fronte al drappo rosso.
S’impose di tacere, sperando che lui si calmasse da solo. Dov’era
finito il Giovanni romantico, quello che l’accarezzava dolcemente,
sussurrandole parole d’amore? A che razza di uomo aveva lasciato
il posto?
Sfinita dalle botte, s’impose di non reagire. Sarebbe rimasta muta,
immobile, un animale che cerca di difendersi dal suo carnefice
fingendosi morto. Forse in questo modo sarebbe riuscita a
calmarlo, a far sì che la lasciasse perdere.
E difatti poco dopo Giovanni mollò la presa.
Stella sentì di aver scampato un pericolo mortale.
Ricordava quando da bambina, in preda a un raptus di rabbia,
aveva lanciato dei sassi contro una finestra, spaccandola. Solo in
un secondo momento si era resa conto di quel che aveva
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combinato e delle possibili conseguenze di quell’atto. In quel
momento il suo cervello era andato in tilt, proprio come doveva
essere successo a Giovanni.
Si trascinò sul pavimento, dolorante e sfinita, cercando di
raggiungere la camera da letto. Non capiva dove fosse finito lui; di
certo era uscito dalla stanza.
Era terrorizzata, non sapeva cosa fare. Doveva andarsene da lì
prima possibile, questo era chiaro. In camera, indossò velocemente
il pigiama e si infilò sotto le coperte.
Chiuse gli occhi e spense la luce, non perché volesse dormire, ma
perché non voleva vedere più nulla. Dopo tutto quel che era
successo non sarebbe mai riuscita ad addormentarsi, ne era
sicura.
Sentì il rumore dell’acqua scrosciare nel bagno.
Giovanni si stava facendo la doccia.
Sperava che decidesse di dormire sul divano e non accanto a lei,
perché non sarebbe riuscita a sopportarlo. L’acqua scrosciava e
scrosciava ininterrotta, ma lui non usciva mai.
Che stava succedendo ancora?
Il tempo scorreva senza che lei ne avesse la percezione, senza che
si rendesse conto quanti minuti fossero passati – o forse erano
ore? Una, due… di più? – quando all’improvviso sentì aprirsi la
porta. Trattenne il respiro nel buio sentendo che si stava
avvicinando al letto. Fece finta di dormire, ma aveva il cuore in
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subbuglio. Batteva così forte da dolerle, temeva che lui lo sentisse.
Con crescente sgomento, si rese conto che Giovanni era nudo.
Le labbra attaccate al suo orecchio, le bisbigliò: «Ricordati che tu
sei mia».
Poi la prese, spogliandola con brutalità, e cominciò a fare sesso
con lei. Non c’era amore nei suoi gesti.
Avvertiva chiaramente come desiderasse solo scaricare in lei i suoi
impulsi più bestiali, ma rimase inerme.
Sapeva di essere impotente. Si sentiva usata, ferita nella sua
dignità di donna. Quando lui infine crollò sul materasso, soddisfatto,
si sentiva sporca, nel corpo e nell’anima.
Scese dal letto e si precipitò in bagno per lavare via da sé tutta la
vergogna e la rabbia che provava, anche se non sarebbe mai stato
possibile, lo sapeva.
Durante la notte non riuscì a chiudere occhio.
Le botte che aveva preso cominciavano a farle male. Sentiva delle
fitte sul torace, sulle braccia e sulle gambe. Sentiva anche un peso
sullo stomaco, una gran voglia di vomitare. La testa era pesante, le
tempie pulsavano dolorosamente.
Mamma, pensò, dove sei? Ho bisogno di te!
Perché non ti ho dato retta?
Nella sua testa rivedeva le immagini di sua sorella, della nonna e
degli amici di un tempo, gli stessi che a causa della sua relazione
con Giovanni si erano gradualmente allontanati da lei. Si sentiva in
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colpa per non aver saputo comprendere i loro segnali d’allarme. O
forse aveva compreso, ma aveva preferito non vedere.
Era la prima volta che qualcuno le metteva le mani addosso, che la
violentava, e mai in vita sua Stella avrebbe immaginato che
un’esperienza simile sarebbe toccata proprio a lei. Stesa, con gli
occhi sbarrati, inerte di fianco al suo aguzzino, meditò un piano.
Sapeva che una volta presa la decisione di abbandonare quella
casa non avrebbe potuto portare via le sue cose, ma quello che
Giovanni le aveva appena fatto era talmente orribile che la paura
cancellava qualunque altro dettaglio materiale.
Grazie alla scappatoia offertale dal suo lavoro, il mattino seguente
uscì da quella casa per non rientrarvi più.
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Capitolo 10
Stella si rivolse alla sua migliore amica.
Quando Veronica le aprì la porta di casa e la ragazza rivide i suoi
lunghi capelli scuri, il bel viso dall’ovale perfetto, ornato da dolci
occhi azzurri e labbra carnose, sempre sorridenti, si sentì quasi
rinascere. In un certo senso poteva considerarsi nuovamente a
casa, se per casa s’intendeva un luogo in cui essere al sicuro. Era
certa che in quel paesino Giovanni non sarebbe riuscito a trovarla.
In quel momento non pensava alle mille peripezie che l’uomo
aveva messo in atto per scovare e riconquistare l’ex moglie.
«Ti ricordi di quello che ti ho raccontato della prima moglie di
Giovanni?» chiese a Veronica una sera, mentre sorseggiavano una
tazza di tè davanti alla televisione.
«Sì… quella ragazza che l’ha abbandonato andandosene all’estero
senza dargli spiegazioni, giusto?»
«E se anche lei fosse una vittima di Giovanni?»
Quel pensiero la terrorizzava.
«Già. È possibile che sia fuggita per non subire più le sue
angherie.»
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«Altro che povero marito abbandonato… Giovanni è un aguzzino, e
quella donna è stata una sua vittima!»
Alla luce di quella considerazione, molte cose all’improvviso
acquisivano un senso.
E poi accadde l’inevitabile. Una domenica pomeriggio Veronica si
trovò Giovanni sulla soglia di casa. L’espressione afflitta, lo
sguardo basso, teneva tra le mani un enorme mazzo di rose rosse.
Dal soggiorno, Stella riusciva a udire distintamente il loro vocio.
«Stella non desidera vederti» continuava a ripetere Veronica. Poi,
indignata: «Mi ha raccontato ogni cosa: le bugie che le hai
raccontato e… tutto il resto».
Studentessa in diritto penale, la sua amica sapeva bene a quali
rischi poteva ancora andare incontro se lo avesse rivisto, e non
voleva in alcun modo che Giovanni entrasse in casa per incontrare
Stella. Ma non ci fu verso di fermarlo.
«Devo vederla» insistette l’uomo. «Anche solo per un attimo! Non
puoi fermarmi, ho assolutamente bisogno di parlarle.»
Spintonando Veronica, riuscì infine a raggiungere il salotto. Stella
era seduta su un divano angolare di pelle rossa; si era appena
scottata la lingua sorseggiando una tisana. Quando vide entrare
Giovanni, le mani le tremarono e rovesciò parte del liquido caldo
sui pantaloni.
Non riusciva a parlare.
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Lui le si gettò letteralmente ai piedi, implorandola di perdonarlo,
proprio come aveva fatto Cyrano di fronte a Rossana, poco prima
di morire.
«Stella, dimentica quello che è successo! Non ho osato dirti la
verità perché non volevo sposarti in chiesa!» disse, cercando di
afferrarle le mani.
Stella non parlava. Aveva la bocca secca, l’animo in subbuglio.
Avrebbe solo voluto scomparire.
«Ma ora ho capito!» continuò lui. «L’amore infinito che provo per te
mi ha cambiato…»
Mentre le giurava che mai, mai più si sarebbero ripetuti episodi di
violenza, con lo sguardo cercava gli occhi verdi di Stella, che
invece cercavano disperatamente di evitarlo.
«Ti sposerò in chiesa o anche sulla luna, se lo vuoi. Purché tu,
amor mio, ritorni con me e con me rimanga per sempre!»
In quel momento Stella si accorse che Veronica batteva un piede a
terra a ritmo serrato, come per richiamarla alla realtà. Ma Giovanni
continuava, imperterrito.
«Sulla terra non ci sarà mai spazio per un amore grande come il
nostro… Stella, non troverai mai un uomo che ti ami come ti amo
io!»
Lei gli ripeté meccanicamente che non sarebbe tornata indietro e
che no, non avrebbe cambiato idea. La sua voce era quasi ferma,
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ma qualcosa dentro di lei aveva iniziato a vacillare. E intanto
cercava complicità negli occhi azzurri di Veronica, quegli occhi
limpidi, coraggiosi, che lei le aveva sempre invidiato. In cuor suo
già sapeva di stare mentendo, e avvertiva tutta la disapprovazione
dell’amica.
Torino 31 dicembre 1990
«Dai, Stella! Non puoi rimanere a casa anche stasera!»
Veronica era seriamente preoccupata per l’amica, che si era chiusa
in un isolato mutismo. Non se la sentiva di vedere nessuno, non
aveva voglia di parlare con nessuno. Con la scusa dello studio,
stava sempre chiusa in casa. Non si era più comprata abiti nuovi,
preferendo vestire tute extra-large.
«Veronica, non insistere! Non ne ho voglia!» piagnucolò Stella in
risposta.
Proprio non se la sentiva di partecipare a una festa. Non c’era nulla
da festeggiare.
«Questa volta non demordo. Hai bisogno di uscire e conoscere
gente nuova!»
La voce di Veronica era ferma. Le poggiò le mani sulle spalle,
cominciando a massaggiarla.
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«Ma non ho niente da mettermi… ! I miei vestiti sono rimasti quasi
tutti a casa di Giovanni» insisteva Stella, tormentando la pagina del
libro che stava studiando.
«Io ho l’armadio pieno di abiti che non metto mai. Ne troveremo
uno adatto a te! »
«Oh, sei terribile, Veronica! Lo sai che mi stai convincendo a fare
una cosa che non desidero?»
Stella rise di gusto. Era da tanto che non lo faceva. Le mani
sapienti dell’amica gradatamente scioglievano la sua tensione.
«Dai, allora! In piedi. Ora ti trasformo!»
La trascinò in camera da letto e tirò fuori dal grosso armadio di
noce un paio di abiti da sera niente male. Stella li indossò e poi sfilò
come su una passerella, fingendosi una mannequin. Giocarono con
l’abbinamento di scarpe e accessori, finché non scelsero quelli
adatti: un abitino nero con una profonda scollatura sulla schiena,
che metteva in mostra le sue belle spalle tornite, e un paio di
décolleté dello stesso colore.
“Se inciampo e mi faccio male, mi avrai sulla coscienza!” scherzò
Stella, strizzando l’occhio all’amica.
Sentiva di volerle davvero bene. Si stava prendendo cura di lei con
una dedizione degna di una crocerossina. Poi il tocco finale.
Veronica la portò in bagno e la truccata. Quando si guardò allo
specchio, quasi non si riconobbe.
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Niente male, ragazza!, pensò. Si sentiva serena.
Veronica aveva ragione: un’uscita in compagnia era proprio quello
che ci voleva.
Dopo una cena frugale a base di insalata scondita e acqua
minerale, uscirono per raggiungere in l’auto l’abitazione di Guido,
un compagno di università di Veronica.
«Benvenute!»
Ad accoglierle, oltre al padrone di casa, un robusto ragazzone
bruno con gli occhiali, c’era una comitiva composta da una ventina
di ragazzi e ragazze, tutti elegantissimi. Insieme scesero una ripida
scala con i muri scrostati dall’umidità che dall’appartamento portava
a una grande tavernetta con i mattoni a vista, arredata con un
tavolo rustico e vecchi divani sdruciti, evidentemente di recupero.
«Prego, ragazze!»
Guido offrì loro da bere e le invitò a servirsi al tavolo.
C’erano vassoi con salatini, tartine e panini, tutto cibo che doveva
aver preparato sua madre. L’atmosfera era di grande allegria. Tutti
si conoscevano e chiacchieravano amabilmente. Guido mise su
della musica ad alto volume, fingendosi disk-jokey. Stella la trovò
subito assordante e fastidiosa. Alcuni ragazzi iniziarono a ballare,
mentre lei se ne stava in disparte. Ingannava il tempo mangiando
tartine e bevendo vino bianco. Si sentiva a disagio, come un pesce
fuor d’acqua. Non conosceva nessuno, non sapeva con chi e di
cosa parlare. La sua convinzione di aver fatto bene a uscire
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cominciava a vacillare. Si sentiva trascurata anche da Veronica,
troppo impegnata a ridere e a scherzare. Alcune coppiette si erano
appartate sui divani e si baciavano teneramente.
«Cosa stai facendo? Il soprammobile?»
La voce di Veronica la riscosse da una sorta di trance. L’amica la
prese per mano come se fosse una bambina e la strascinò a
ballare. Stella sentiva i suoi piedi muoversi stancamente, senza
convinzione. Era come se non le appartenessero. Fingeva
un’allegria che non provava.
Non voleva che Veronica se ne accorgesse, perché l’avrebbe
sicuramente sgridata. E intanto continuava a bere, nella speranza
che il vino spegnesse il dolore dell’anima.
Guido cominciò il conto alla rovescia.
«Meno dieci, nove…»
Allo scattare della mezzanotte iniziarono i brindisi: baci, abbracci,
auguri per il nuovo anno. Stella si sentiva come su una barca in
mezzo al mare. La testa leggera, tutto ruotava intorno a lei. Aveva
esagerato con l’alcol, non era abituata. Sentì impellente il bisogno
di andare in bagno: arrivò giusto in tempo per vomitare anche
l’anima. Per non cadere si appoggiò con le mani alle pareti di
piastrelle blu e senza accorgersena scoppiò in lacrime. Un pianto
dirotto, liberatorio. Tutti gli oggetti intorno a lei ruotavano come in
un valzer vorticoso. Nella sua testa un solo, ossessivo pensiero:
Giovanni mi manchi! Dove sei?.
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«Insomma, cosa sta succedendo?»
La voce di Veronica la riportò alla realtà. Stava bussando
energicamente alla porta, il suo tono era preoccupato.
Dio mio! Fa che non abbia sentito niente! Stella aprì il rubinetto
dell’acqua fresca, si lavò il viso e cercò di darsi un contegno. Aveva
un aspetto davvero indecente: capelli scompigliati, occhiaie
profonde. Il mascara le si era sciolto in una maschera mostruosa
solo in parte attenuata dall’acqua fresca. Non voleva che l’amica la
vedesse in quelle condizioni.
«Apri! Non farmi preoccupare!»
Veronica sapeva essere davvero insistente.
«Non sto bene.»
E intanto le aprì la porta.
Doveva avere davvero un aspetto grottesco.
L’amica non commentò, ma Stella sentiva i suoi occhi puntati
contro di lei come le luci di polizia durante un interrogatorio.
Probabilmente intuiva i suoi pensieri e, pur non dicendo nulla,
disapprovava.
«Dai, Stella. Andiamo!»
Con una stretta decisa le afferrò il braccio, e senza aggiungere
altro la portò via.
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Capitolo 11
Cara Stella,
Mio amore adorato, mio immenso tesoro che non esiste più.
Mi trovo costretto a scrivere all’altra Stella, quella infantile ed
egoista, ma nella mia mente non riesco a scindere l’una dall’altra, e
così piango. Non sono lacrime per te, Stella crudele e ottusa,
incapace di comprensione e di perdono.
Io sto andando in mille pezzi per la malinconia dell ’altra Stella,
quella che adoro, e tu sei capace solo di concentrarti su documenti,
vestiti, libri, esami, tempi di riflessione, che sai dilatare e
amministrare con la sapienza di un saggio aguzzino.
Quante volte ti ho chiesto scusa in questi mesi, quante volte ho
invocato il tuo perdono per il mio errore e ti ho chiesto amicizia?
Quante lettere ti ho inviato, piene di dolcezza e di amore?
Io sto morendo di dolore e tu riesci solo a chiedermi di farti avere i
tuoi documenti tramite Marco?
Lasciami almeno morire in pace, ti prego.
Mentre il mondo mi crolla addosso e non so dove sei, cosa fai, con
chi passi i tuoi pomeriggi, che numero di telefono hai, come
rintracciarti, lasciami immaginare che anche tu ti strugga per la fine
del nostro amore.
Io ti chiedo soltanto di capirmi e di avere fiducia in me, altrimenti, ti
supplico, lasciami affondare nel mio dolore.
So che tu mi accusi di averti tenuto nascoste alcune verit à.
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È vero. Ma se io avessi trovato un po ’ di fiducia in te, ti avrei detto
tutto. E comunque ti avrei detto tutta la verit à il giorno del nostro
matrimonio. Poi mi accusi di essere aggressivo: è vero. Ma questo
aspetto del mio carattere si può temperare.
Guardati indietro, pensa all’anno trascorso insieme.
Se non ci fossero stati tanti pettegolezzi sul mio conto, se io fossi
stato meno aggressivo e più sincero, non sarebbe stato un anno
fantastico, pieno di cose belle fatte insieme?
Il tempo stringe. Guarda al futuro, Stella, immagina quanto
potrebbe essere meravigliosa una vita da passare insieme PER
SEMPRE… non soffermarti solo sul presente.
Restituiscimi il tuo amore, Stella, dammi fiducia.
Io ti amo immensamente, desidero disperatamente che tu ritorni qui
con me. Rivoglio la mia Stella, quella capace di dimenticare il
passato e di gettare il cuore oltre l ’ostacolo.
Solo tu hai la possibilità di rimettere insieme i cocci del nostro
amore… Ti scongiuro! Rifletti!
Ps: ho una voglia matta di fare l’amore con te, di stringerti forte, di
dirti quanto ti amo.
Perdutamente tuo, Giovanni.
Stella ripose la lettera nella sua busta.
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Ebbe l’impulso di gettarla nella spazzatura, ma si trattenne e la
infilò nel cassetto in cui conservava le decine di lettere ricevute da
quando era andata via da casa di Giovanni.
Nel ripensare a ciò che lui le aveva fatto, provava ancora una
rabbia infinita; al tempo stesso, però, quelle lettere avevano il
potere di farla sentire in colpa.
Forse anche lei non era stata una buona compagna, non aveva
saputo comprendere e aiutare Giovanni. Forse, se solo fosse stata
più comprensiva, un po’ meno esigente, lui non sarebbe arrivato a
tanto… Lo aveva giudicato, esattamente come aveva fatto sua
madre con lei.
Il paragone le faceva venire i brividi.
Se solo mia madre mi fosse stata più vicina!, pensava con
amarezza. Se solo avesse provato a capirmi, invece di criticarmi e
basta, forse tutto questo non sarebbe successo.
La verità è che Stella si sentiva sola come mai prima d’allora.
Le costava ammetterlo, Giovanni le mancava enormemente.
Torino, 14 luglio 1991
Stella cercava disperatamente di ridare una parvenza di normalità
alla sua vita. Aveva ripreso a frequentare i compagni di università, i
vecchi amici.
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Ma soprattutto ci dava dentro con lo studio, dedicandosi alla
preparazione della tesi di specializzazione in medicina interna con
una passione quasi maniacale.
Finalmente arrivò il grande giorno. Era luglio, faceva un gran caldo
e in quella giornata afosa quasi non si riusciva a respirare. Stella
aveva scelto di indossare un completo elegante con giacca gialla e
gonna a pois trovato in un outlet di grandi firme. L’aveva scelto a
colpo sicuro. Si era innamorata delle nuance calde di quel
completo, che ben si abbinavano ai colori dell’estate. Si era tagliata
i capelli a caschetto e la nuova acconciatura le donava un aspetto
sbarazzino.Veronica la aiutò a prepararsi. Sarebbe stata l’unica
amica presente in quell’occasione.
Cristina ormai abitava a Milano, dove lavorava. Con sua madre non
si parlavano più e la nonna era troppo anziana per spostarsi
autonomamente.
Ricordava con gioia e nostalgia il giorno in cui si era laureata. La
sua famiglia, quel giorno, era presente al gran completo. La
mamma sprizzava gioia da tutti i pori, era così orgogliosa di lei! Sua
nonna si era precipitata ad abbracciarla appena aveva finito di
discutere la tesi, proclamando davanti all’uditorio: “Questa è mia
nipote!”.
Poi tutti insieme erano andati a pranzo al ristorante.
Avevano riso, scherzato e brindato a un futuro radioso. Quel giorno
tutto sembrava possibile, tutto sembrava realizzabile.
E invece, solo quattro anni dopo, le nubi avevano oscurato il sole e
non sembravano avere nessuna intenzione di spostarsi.
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Stella provava un misto di eccitazione e nostalgia. Aveva però
deciso di indossare la maschera della donna autonoma che non ha
bisogno di niente e nessuno e si presentò alla discussione della
tesi ostentando un atteggiamento indifferente.
Quando la chiamarono, sentì il cuore accelerare e un rivolo di
sudore colarle dalla fronte. Nonostante ciò avanzò decisa verso il
tavolo dei docenti e discusse l’argomento della sua tesi con
apparente scioltezza.
«Complimenti, dottoressa!» le disse il direttore di specialità
tendendole la mano in una stretta vigorosa, quasi da vecchio
sportivo. «Lei è molto brillante e preparata».
Stella sapeva che quel complimento non era gratuito. I compagni di
specialità le rivolsero un caloroso applauso. Si sentiva orgogliosa.
Aveva studiato così tanto, ci aveva messo così tanto impegno! Ma
un senso di vuoto le impediva di essere felice fino in fondo. C’era
sempre quel groppo alla gola le impediva di deglutire. Respirò
profondamente per mandare giù la saliva.
Sentiva la sua vita monca.
Le mancava la sua famiglia.
Le mancava un uomo.
Assorta nei suoi pensieri, si voltò per tornare al suo posto.
Una scossa elettrica le percorse la spina dorsale. Il cuore quasi le
si fermò quando lo vide seduto nelle ultime file.
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Giovanni era lì, e aveva un mazzo di rose rosse in grembo.
Stella le rifiutò sdegnosamente, andando via subito dopo, scortata
da Veronica. Sapeva che Giovanni non avrebbe mollato facilmente
la presa, e aveva paura di ammettere a se stessa che questo non
le dispiaceva affatto.
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Capitolo 12
Dopo due mesi di ardente assedio, lettere-fiume e dichiarazioni di
amore eterno, Stella decise che avrebbe dato un’altra chance a
Giovanni. In fondo cosa sarebbe potuto succedere se si fossero
semplicemente incontrati per chiarirsi? Si auto-giustificava così.
Non disse nulla a Veronica, la quale, lo sapeva, non avrebbe
approvato.
Decise di dargli appuntamento in un bar del centro, un “luogo
neutro” e sicuro, in modo da avere testimoni nel caso le avesse
fatto un’altra sceneggiata.
Arrivò all’incontro volutamente in ritardo.
Quando lo vide, però, sentì che il cuore accelerava i battiti. La gola
era secca, le mani le s’inumidirono di sudore.
Improvvisamente il suo cervello si era come resettato: aveva
dimenticato il discorso che avrebbe voluto proporgli e tutti i
programmi che aveva fatto, i suoi buoni propositi.
Giovanni le si avvicinò, cauto, e lei d’impulso gli gettò le braccia al
collo. Si sentì una cretina, una sciocca ragazzina innamorata, ma
l’istinto la dominava. Sapeva che stava facendo la scelta sbagliata,
ma le emozioni avevano preso il sopravvento sulla razionalità.
Di colpo, tutta la sua rabbia era svanita nel nulla.
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Ancora una volta si sentiva rapita da quell’uomo, in sua completa
balìa. Quel pomeriggio andarono a prendere un caffè e fecero una
passeggiata mano nella mano, senza riuscire a staccarsi gli occhi
di dosso.
Giovanni la supplicava: «Torna con me, Stella. Ti prego. La mia vita
non ha più senso senza di te!».
A quell’incontro ne seguirono altri.
Giovanni cercava di ripercorrere le tappe del loro innamoramento:
la invitava nei “loro” locali, le faceva ascoltare la “loro” musica, le
ripeteva frasi romantiche, le faceva recapitare mazzi di rose rosse.
E Stella si sentiva sciogliere tra le braccia incantatrici di quell’uomo.
Dopo appena due settimane, Stella decise di tornare a vivere da
Giovanni.
Aveva vinto lui, con il suo irresistibile fascino ammaliatore. Sapeva
bene di essere in sua balìa, ma si sentiva come un uccellino che,
fuggito dalla gabbia, si sente perso e non vede l’ora di tornare in
cattività.
«Questa volta sarà diverso. Giuramelo!»
L’aveva quasi supplicato.
«Fidati di me. Tu sei troppo importante, non voglio perderti un’altra
volta!»
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La sua decisione ebbe come effetto quello di allontanare Veronica,
che aveva invano tentato di dissuaderla.
Se ne fece una ragione perché, così com’era convinta che con il
suo amore e la sua devozione Giovanni sarebbe cambiato, Stella
era anche certa che nessuno avrebbe potuto capirla, nemmeno la
sua migliore amica.
Solo lei sapeva davvero come stavano le cose tra loro, solo lei
conosceva il vero Giovanni. Lui sarebbe cambiato per lei, per il loro
amore che era speciale, completamente diverso da tutti gli altri. Un
amore da romanzo.
Ed effettivamente, nei primi periodi dopo la riappacificazione, il loro
idillio come per incantesimo era tornato quello di un tempo.
Giovanni era capace di farla sentire una Giulietta cui Romeo era
stato negato dall’opposizione della famiglia.
L’aveva anche portata a Verona, sua città natale, a vedere il
balcone di Giulietta. Le aveva ripetuto che il loro legame sarebbe
durato eterno, come eterna sarebbe stata la felicità di quegli attimi
fugaci. Pur sentendosi un po’ soffocata da tutte quelle attenzioni,
che spesso le facevano sentire una specie di sua proprietà privata,
Stella era convinta di essere la donna più amata del mondo.
In realtà Giovanni non aveva smesso di far leva sulle sue
numerose insicurezze: aveva solo imparato a dosare con cura le
offese, mascherandole da burle che però la facevano sentire
inadeguata in più circostanze, soprattutto come donna.
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«Devi impegnarti a essere una brava dottoressa» le disse una volta
con un mezzo sorriso. «Perché come compagna non vali un
granché.»
Era solo uno dei suoi misurati, ma micidiali, attacchi verbali.
Altre volte la accusava di non essere una brava cuoca, altre ancora
di non avere sufficiente fantasia a letto.
“Solo io sono in grado di sopportare i tuoi difetti, tesoro. Non
troveresti facilmente un altro uomo in gradi di amarti come me!” le
faceva notare.
E poco per volta Stella si lasciava avvolgere dalla calda trappola
verso cui Giovanni la stava conducendo.
La sua gelosia opprimente, unita all’imbarazzo che la ragazza
provava quando si trovavano in compagnia di amici, poiché temeva
sempre che da un momento all’altro l’avrebbe trattata come una
stupida, impedivano a Stella di frequentare la sua vecchia comitiva.
Si era vergognata moltissimo quando Giovanni aveva telefonato
alla sua migliore amica ai tempi dell’università, Laura.
«Devi aiutarmi con Stella. Bisogna farla visitare da un sessuologo
perché ha delle grosse difficoltà a raggiungere l’orgasmo.»
«Forse perché è ancora inesperta… ha bisogno di tempo» aveva
controbattuto Laura, sconcertata.
Ma Giovanni aveva insistito.
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«Sai, io ho una nutrita esperienza con le donne, ne avrò avute più
di cento… credimi, una cosa del genere non mi era mai successa!»
Avrebbe voluto sprofondare sottoterra quando aveva invitato a
cena un gruppo di amici e Giovanni aveva guastato l’atmosfera
innescando un litigio inerente temi politici, incurante delle gomitate
che lei gli dava affinché la smettesse.
«Smettila, Giovanni, mi fai fare brutta figura!» gli aveva sussurrato
all’orecchio, senza che lui la ascoltasse.
Per non parlare di quella volta in cui lui aveva attaccato la categoria
dei medici proprio durante una cena tra colleghi cui aveva preteso
di accompagnarla. Si era letteralmente sentita mancare, e da quel
momento in poi aveva contato i minuti che la separavano dalla fine
di quell’orribile serata.
Pur di non litigare con Giovanni, che trovava da ridire su tutto,
aveva anche smesso di frequentare il gruppo di teatro-danza cui
teneva tanto.
«Siete troppo svestite, sembrate tante puttanelle!» Oppure: «Non
mi va che tu vada a fare lo spettacolo il sabato sera, voglio che tu
esca con me», e così via.
Stella ormai stentava a reggere i conflitti che aumentavano di
giorno in giorno, così si trovò a rifuggirli sistematicamente, proprio
come un leone scansa il fuoco.
Era inutile affrontare qualcosa contro cui sapeva di non poter
vincere, perciò restava in silenzio e ubbidiva, riducendo al minimo
le occasioni di scontro.
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D’altro canto Giovanni sembrava aver messo la testa a posto,
quanto meno a livello professionale: ora lavorava come public
relator per l’agenzia di un amico comune.
Le prolungate assenze dovute al nuovo impiego cominciarono a
farla sentire nuovamente al sicuro.
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Capitolo 13
In
quel
periodo
Stella
stava
terminando
il
tirocinio
di
specializzazione in medicina interna. Un giorno, sulla strada di
casa, trovò Giovanni seduto su una panchina, chiuso in un’aria
afflitta e desolata.
Si spaventò perché non l’aveva mai visto così.
«Cosa ti è successo, amore?» gli chiese, abbracciandolo.
«Siamo stati sfrattati… Non abbiamo più una casa!» rispose lui con
le lacrime agli occhi.
Fu una doccia fredda, tanto più inaspettata perché arrivava in un
periodo di relativa calma. Lavorano entrambi, e lei non aveva mai
avuto il sentore che Giovanni non ce la facesse a pagare l’affitto.
Da una parte si sentiva furibonda per non aver saputo prima dello
sfratto imminente: che diamine, avrebbe potuto aiutarlo! Ma alla
fine, come sempre, prevalse il suo spirito da crocerossina.
«Verrai a stare a casa mia!» propose d’impulso.
Avrebbe ospitato Giovanni nel suo alloggio di fronte al collegio
universitario. Era piccolo, essenziale ma accogliente, con le sue
pareti tinte di giallo che ricordavano il sole, pregno di ricordi di vita
goliardica; lì aveva vissuto con sua sorella e con Veronica quando
studiavano tutte e tre all’università. Da quando Cristina si era
sposata per poi trasferirsi a Milano, era rimasto disabitato. Se la
madre l’avesse saputo, sarebbe andata su tutte le furie.
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Erano quasi due anni che non si parlavano.
In quel periodo Maria aveva proseguito le sue indagini su Giovanni
e aveva tentato in ogni modo di avvisare la figlia, soprattutto
quando era venuta a conoscenza del suo progetto di matrimonio.
Stella continuava a ricevere telefonate da vecchie amiche
d’infanzia e di università.
«Stella, sei sicura di volerti sposare?» era la frase che le ripetevano
più di frequente.
Lei ormai ripeteva meccanicamente: «So che ti ha contattata mia
madre per cercare di dissuadermi, ma io amo Giovanni, il nostro è
un amore forte, speciale. Mia madre è solo gelosa perché lei non
ha mai provato un sentimento così profondo».
Anche Cristina aveva insistito per incontrarla.
«Stella, la mamma è preoccupata per te» le aveva detto
sorseggiando un caffè in un bar nel centro di Torino, dove si erano
date appuntamento di pomeriggio per poter parlare in santa pace.
«Lo so, me lo ripetono tutti, non ne posso più!» era sbottata. «Ma io
non cambio idea, e prima o poi la mamma capirà che sta
sbagliando!»
Anche sua nonna cercava di metterla in guardia, ma l’età e i
numerosi acciacchi le avevano fatto perdere la forza e la verve di
un tempo. Fu tutto vano: dopo ripetuti tentativi, sia le sue amiche
che Cristina gettarono la spugna, rinunciando persino a contattarla.
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Questo fece sì che lei si legasse sempre di più a Giovanni, che
nell’isolamento in cui si trovava era ormai diventato il suo unico
punto di riferimento.
Al diavolo mia madre e le sue paturnie!, pensò quando lui si
presentò alla sua porta con le valigie.
D’altra parte cosa poteva fare in quella situazione? Abbandonarlo
in mezzo ad una strada?
Certo, l’alloggio era minuscolo e sarebbe andato bene solo
temporaneamente, in attesa di trovare qualcosa di più adatto a una
coppia di futuri sposi.
Detto, fatto.
D’altra parte quando Stella si metteva in testa qualcosa, la
perseguiva con la stessa determinazione di Don Chisciotte contro i
suoi mulini a vento. Raccolsero i loro quattro stracci e si
trasferirono in un minuscolo appartamento tutto loro.
In questa nuova situazione si sentiva più sicura, più a suo agio: in
fondo, era a casa sua…
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Capitolo 14
Torino, giugno 1993
“Questo alloggio è troppo piccolo per noi due” commentò Stella una
sera. Stavano cenando in silenzio, ognuno immerso nei propri
pensieri. “Dovremmo cercare una casa nuova, più adatta alla
nostra vita di coppia.”
“Come vuoi tu, amore mio” rispose Giovanni senza troppa
convinzione. “A me sembra che questa casa vada benissimo, ma
ogni tuo desiderio è un ordine, ma chèrie!”
Così si misero a cercare una casa nuova. La ricerca fu piena di
gioia e portò presto i suoi frutti, perché trovarono ciò che faceva al
caso loro: una romanticissima mansarda in un palazzo d’epoca, in
pieno centro storico; era da ristrutturare, quindi economicamente
alla loro portata.
Stella mise in vendita il piccolo alloggio e con i suoi risparmi pagò il
necessario per fare il compromesso di vendita.
“Divideremo l’acquisto a metà.”
Era questo era il loro patto.
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“Mi occuperò personalmente della ristrutturazione” aveva promesso
Giovanni. “Ho un amico d’infanzia che ha messo su un’impresa
edile… È molto valida!”
La loro avventura stava per iniziare e, come tutte le avventure, era
impreziosita dal sapore della novità, dell’eccitazione e del piacere
dell’ignoto.
Una sera, però, l’idillio si ruppe.
«Quel ragazzo ti telefona troppo spesso. Cosa vuole da te?»
«Ma no, è solo un amico!»
Giovanni si era messo a fumare una sigaretta dietro l’altra. Stella
presagì che la discussione sarebbe degenerata, ma non sapeva
come scongiurare il pericolo. Cercò di afferrargli una mano, ma lui
si allontanò, sprezzante.
«Se è un amico, perché non vi parlate quando vi trovate ai vostri
corsi?»
Aveva le narici dilatate, le pupille puntiformi.
Un rigagnolo di sudore gli colava dalla fronte.
«Doveva chiedermi delucidazioni… sul programma del prossimo
esame» fece Stella con voce flebile, quasi impercettibile, mentre il
suo battito accelerava.
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«Cos’è, l’esame di sessuologia? Dovete per caso fare pratica
insieme?» insistette lui con tono duro e sprezzante.
«Giovanni, basta! Basta! Basta! Smettila di insultarmi!»
Anziché calmarlo, quella frase brusca scatenò la bestia feroce che
si era già rivelato in passato. Come posseduto da una rabbia
demoniaca, perdette ogni controllo.
Questa volta non si limitò ad accanirsi fisicamente su Stella: la sua
violenza si abbatté su tutto ciò che li circondava, dalle suppellettili
al tavolo della cucina, fino ai pochi quadri appesi alle pareti; staccò
persino i fili del telefono.
Poi all’improvviso uscì di casa e sparì.
Di lui non si ebbero più tracce. Per qualche tempo, almeno.
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Capitolo 15
Stella si trovò catapultata in una situazione da incubo. Senza
nessuno che la aiutasse e con un alloggio appena acquistato da
pagare e ristrutturare. Di nuovo precipitò nello sconforto e
nell’amarezza,
chiedendosi
cosa
avrebbe
potuto
fare
e
colpevolizzandosi per aver dato nuovamente fiducia a Giovanni,
credendo nel suo cambiamento.
Non aveva alternative: come il figliol prodigo, con il capo cosparso
di cenere tornò da sua madre, che l’accolse a braccia aperte. A
Maria non sembrava vero che quella storia d’amore lungamente
osteggiata – e a ragione – si fosse finalmente conclusa.
“Ti aiuterò” promise alla figlia. “Ma a un patto: non voglio più sentir
nominare Giovanni. Mai più!” La sua voce era ferma.
“Va bene, mamma.” Stella accettò senza porre condizioni.
Il cuor suo era convinta di non volerlo vedere mai più.
Anche se soffriva immensamente, aveva deciso che la storia con
lui era finita per sempre. Si dedicò anima e corpo all’allestimento
della nuova casa, finì gli studi, iniziò a lavorare e nel frattempo fece
nuove amicizie.
A una cena tra colleghi conobbe Sergio, un radiologo col quale
cominciò a fare coppia fissa. Era alto, dinoccolato con il naso un
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po’ aquilino; simpatico e interessante, sapeva suonare divinamente
il pianoforte. Lui aveva cominciato a farle la corte serrata,
portandola a cena in locali lussuosi e facendole continuamente dei
regali.
“Sei una ragazza dolcissima” le ripeteva, guardandola negli occhi.
“Quanto sei bella… Sono così felice di averti incontrata!”
Era di una dolcezza disarmante. Stella all’inizio aveva tentennato,
per poi decidere di seguire il vecchio detto “chiodo scaccia chiodo”
e mettersi con lui. Eppure, nonostante la convinzione che liberarsi
dalla sua triste storia con Giovanni grazie a una nuova relazione
fosse la strada giusta da percorrere, Giovanni le mancava
moltissimo. Una sera Sergio la portò a cena in un locale che Stella
era solita frequentare con il suo ex.
“Sai che sto davvero bene in tua compagnia?” le disse, porgendole
il bicchiere per un brindisi. Poi cercò di prenderle la mano. “Non
puoi immaginare quanto sia felice…”
Ma Stella si scansò bruscamente, cupa in volto.
All’improvviso si era ritrovata a pensare a Giovanni, ai momenti
trascorsi insieme proprio in quel luogo, e le era venuta una gran
voglia di piangere.
Sergio la osservava, preoccupato. «Ho forse fatto o detto qualcosa
che ti ha fatta star male?»
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«Sergio, tu mi piaci moltissimo… Sei un ragazzo dolce, premuroso.
Ma io non ti amo, perché non riesco a dimenticare Giovanni. Mi
dispiace.»
Sconvolto, lui l’aveva riaccompagnata a casa. Dopo quella sera
aveva cercato di contattarla qualche volta per telefono, ma Stella
non si era fatta trovare. Si sentiva in colpa per come l’aveva
trattato, ma non poteva continuare a illuderlo.
Sergio non se lo meritava.
Torino 15 dicembre 1993
Durante la mattinata il tempo era cambiato.
La neve si stava sciogliendo in acqua sporca, rigagnoli di
quell’acqua scorrevano sulla finestrella della cucina. Si sentiva il
rumore delle auto che passavano frusciando su una strada sempre
più buia. Si stava facendo buio anche in casa di Maria, che
appariva grigia e tetra, illuminata da una fioca luce artificiale. Il
citofono continuava a squillare per l’arrivo di mazzi di fiori, il salone
ne era ormai invaso. Cristina si stava preparando nella vecchia
camera da letto di quando era bambina, con l’aiuto delle sue
amiche d’infanzia.
Maria continuava a dare direttive e a rispondere al telefono,
raggiante. Stella era nella stanza della sua infanzia a casa della
madre. Da quando se ne era andata via, era rimasta praticamente
intatta. Il letto a una piazza e mezza aveva un copriletto a fiori ed
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era ricoperto da cuscini a punto croce, con motivi floreali, che lei
aveva ricamato da ragazza. Il grande armadio in ciliegio era ancora
tappezzato dai poster dei suoi amatissimi cantautori e da foto di
attori giovani e belli. Ricordava quando lei e Cristina, da piccole,
giocavano alle bambole immaginando il loro futuro. Entrambe
desideravano una famiglia numerosa con tanti bambini e un marito
bello come uno dei loro attori preferiti. Quel ricordo la faceva
sorridere. Anche lei si stava preparando per la cerimonia.
Indossava un abito in raso e seta color verde brillante che una
sarta le aveva cucito su misura per l’occasione speciale. Si
sforzava di essere felice per sua sorella, ma avrebbe tanto voluto
trovare una scusa per non essere presente al matrimonio.
Invece si fece forza, cercò di darsi un contegno e uscì dalla stanza
per andare incontro agli invitati. Erano tutti concentrati sull’evento:
con suo grande sollievo Stella non era al centro dell’attenzione.
Sua cugina Lella le andò incontro.
«Stella, sei stupenda. In ottima forma!»
Stella era stupita dalla trasformazione. Di fronte a sé non aveva più
la bambinetta che ricordava dall’ultima volta che l’aveva incontrata,
ma una splendida adolescente dagli occhi e dai capelli castani, con
riccioli ribelli che sfuggivano all’acconciatura a chignon opera della
parrucchiera.
«Mi sei mancata molto!» proseguì la ragazza, come a rimarcare –
quasi rimproverandola – il suo allontanamento dalla famiglia a
causa di Giovanni. La abbracciò stretta e Stella sentì venir meno i
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suoi propositi di mantenere un atteggiamento impeccabile. Gli occhi
le si inumidirono, per un attimo fu sul punto di scoppiare a
piangere.
Poi miracolosamente si trattenne.
«Sono felice per Cristina» affermò, sorridendo.
Era vero. Trovava simpatico e gradevole il futuro marito di sua
sorella e approvava la sua scelta.
Ma si tormentava con un pensiero ossessivo: perché non io?
Forse sua sorella era psicologicamente più forte di lei. Stella
sentiva di aver patito terribilmente la perdita del padre: quel suo
enorme vuoto, quel bisogno d’amore, doveva essere legato al
trauma infantile mai superato.
Sei un genio Mrs. Freud!, si prendeva in giro quando le frullavano
in testa questi pensieri.
Che ne sai tu di psicologia?, si ripeteva, ben sapendo che solo uno
specialista avrebbe potuto aiutarla.
L’arrivo di sua sorella mise a tacere i suoi pensieri.
Era semplicemente favolosa, uno schianto.
I capelli, raccolti in un’acconciatura da principessa, le mettevano
ancora più in risalto il bel viso e gli occhi azzurri, che quel giorno
sembravano ancora più chiari.
Gli occhi di papà!, pensava Stella con una certa invidia.
Il suo sorriso era raggiante, la sua felicità si palpava nell’aria. Il
citofono squillò. Era arrivato l’autista della limousine che l’avrebbe
accompagnata
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fino
in
chiesa.
La
vide
procedere
decisa,
trascinandosi lo strascico bianco di quasi due metri, verso l’uscio di
casa. All’improvviso Stella si rese davvero conto, in una frazione di
secondo, che la sua adorata sorellina se ne stava andando via per
sempre e non poté fare a meno di ricacciare un singhiozzo in gola.
«Stella, sono qui. Guardami!»
Giovanni era seduto sul suo letto e la abbracciava. Poi si era
messo a baciarle lentamente la nuca, il collo e i lobi delle orecchie.
Sentiva il suo fiato caldo e tenero. Lui le sussurrava: «Anche tu
puoi essere felice, come tua sorella. Lascia tua madre e torna con
me. Io sono il futuro, lei è il passato».
Stella aprì la bocca e lo attrasse a sé in un bacio appassionato.
Lui si staccò da lei e proseguì: «Lascia tutto, vieni via con me.
Questa è la strada giusta per la tua felicità».
Stella lo osservava rapita. Non riusciva a non lasciarsi incantare dai
suoi splendidi occhi castani. Lui sapeva come sedurla, come
convincerla. Il tono della sua voce era così suadente, così dolce.
Come poteva resistergli? Sentiva come una morsa all’altezza della
bocca dello stomaco, unita a un’indomabile voglia di piangere. Le
lacrime scorrevano incontrollate sulle guance, bagnandole i capelli
e il cuscino.
Stella si svegliò completamente bagnata.
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Stava piangendo veramente. Aprì gli occhi, faceva fatica a capire
dove si trovava. Lentamente cominciò a individuare, nell’oscurità, i
contorni della camera, accese una luce e capì di trovarsi nella sua
vecchia stanza di bambina a casa di sua madre. Di colpo ricordò
tutto. La cerimonia.
Lo scambio delle fedi e della promessa di fedeltà.
La festa al castello che ne era seguita.
Il taglio della torta. E infine la partenza di Cristina e del marito per il
viaggio di nozze.
Quella terribile sensazione di solitudine.
Ancora una volta doveva aver esagerato con il vino, lei che un
tempo non beveva mai.
Che cosa non rivela l’ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste.
Così scriveva Orazio. I suoi studi classici ancora una volta si erano
rivelati uno strumento fondamentale di comprensione. I suoi freni
inibitori si erano rilassati, e nel sogno le si erano rivelati i pensieri e
i desideri più profondi. Tuttavia, ora che era sveglia e ben presente
a se stessa, con altrettanta certezza sapeva che doveva tenere a
bada i suoi sogni.
Non poteva e non doveva sbagliare di nuovo.
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Capitolo 16
«Io vado a letto. Vieni anche tu, dai, che la Valle dei Re ci aspetta!
Domattina sveglia alle quattro.»
Stella era seduta al tavolino di un disco bar, a bordo della nave su
cui viaggiavano ormai da qualche giorno. Accanto a lei c’era
Franca, una sua cara amica di Roma.
Avevano prenotato quella crociera sul Nilo all’ultimo minuto, spinte
dalla voglia di staccare dalla vita di tutti i giorni e dal lavoro che le
assorbiva completamente. E così si trovavano in Egitto, alla
scoperta dei resti dell’epoca dei faraoni. Era una tutta la vita che
Stella era affascinata da quei luoghi che pure non aveva mai avuto
l’opportunità di visitare; nell’attesa, si era accontenta di divorare
saggi e romanzi ambientati proprio nell’antico Egitto.
«È un viaggio troppo stancante… per godersi per bene tutto
bisognerebbe avere più tempo» sbuffò Franca.
I suoi limpidi occhi azzurri erano cerchiati da occhiaie profonde.
«Hai ragione. Non si fa neanche in tempo a scattare una foto, che
già dobbiamo correre da un’altra parte!»
Stella represse uno sbadiglio di stanchezza. Si guardò intorno e
casualmente i suoi occhi si posarono su una giovane coppia
sorridente seduta al tavolino di fronte. Sembravano inglesi. Si
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guardavano negli occhi mentre le loro mano si sfioravano, si
cercavano, per poi stringersi forte.
Quando anche le loro labbra si avvicinarono per scambiarsi un
lungo bacio, Stella sentì un nodo alla gola.
Mai come allora si era sentita terribilmente sola.
Non era la prima volta che le succedeva, su quella nave che nelle
intenzioni avrebbe dovuto portarle così lontano da aiutarle a
superare il dolore per il distacco dai rispettivi partner.
Durante una gita nei pressi del lago Nasser, si trovarono di fronte a
un’antica fonte che sorgeva al centro di una radura. Era così
grande e austera da incutere un certo timore, e si componeva di
una base ellittica sormontata da un imponente gruppo marmoreo,
sulla cui sommità si elevava un obelisco riccamente decorato.
«Si tratta della fonte della vita», spiegò loro la guida con l’accento
un po’ stentato di chi si trova costretto per lavoro a parlare molte
lingue.
«La leggenda narra che qui sgorghi un’acqua miracolosa, una sorta
di “acqua della vita” che si può trovare solo dopo aver superato le
“terre oscure”, ovvero il deserto, che un tempo si pensava fosse
abitato da mostri e spiritelli. Chi riusciva a giungere fin qui, doveva
correre intorno alla fonte e poi abbeverarsi. Si narra che, bevuta o
anche solo sfiorata, la sua acqua sia in grado di curare malattie
anche gravi e ferite del cuore.»
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La voce della guida era suadente e melodiosa e rendeva
affascinanti tutti i suoi racconti. La storia che quell’acqua guarisse i
cuori infranti, poi, era particolarmente affascinante.
Le due amiche si scambiarono uno sguardo eloquente.
Qualche minuto dopo, non viste dal resto della comitiva, si misero a
correre intorno alla fonte, eccitate come due bambine. Quella
stessa sera, dopo cena, mentre la nave era in viaggio, si
spostarono sul pontile per godersi il tramonto. L'aria era frizzante e
il vento filtrava attraverso le ciocche dei capelli, quasi volesse
accarezzarle. Il mare era calmo, la temperatura gradevole. Era una
serata perfetta.
La nave lasciava piccole scie di acqua spumeggiante, il movimento
dell’imbarcazione era lento e calmo.
Franca aveva con sé l’immancabile macchina fotografica.
«Sto aspettando il “raggio verde”, quel fenomeno che talvolta si
manifesta per pochi istanti quando il sole tramonta sul mare. Lo
voglio immortalare. Nelle foto appare come una luce che squarcia il
cielo rosso e giunge a lambire il mare, che sembra nero.»
«Sei un’inguaribile romantica!»
La voce di Stella si fece dolce.
Sentiva di potersi confidare con l’amica.
«Quale desiderio hai espresso mentre correvamo intorno alla
fontana?» le chiese a bruciapelo, mordendosi le labbra.
Non avrebbe voluto fare quella domanda, ma ormai le era sfuggita.
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«Di rimettermi con il mio ex una volta tornata a casa. Mi manca un
sacco» ammise Franca. «Tu?»
Stella ebbe quasi paura della risposta che le si era formata
istantaneamente sulle labbra. Si sentiva una sciocca, una che era
non in grado di mantenere i propositi, né di andare fino in fondo alle
decisioni prese.
«Anch’io mi sono augurata di ritrovare Giovanni al mio ritorno»
mormorò, nella segreta speranza che l’amica non la udisse.
Si rendeva perfettamente conto che il suo era un atteggiamento
masochistico. Come faceva, nonostante tutto quel che era
successo, a provare ancora un desiderio così profondo, così
struggente? Che problemi aveva, per sentire la mancanza di un
uomo come Giovanni?
«Non riesco proprio a dimenticarlo. In questo momento vorrei solo
che fosse qui con me!»
I suoi pensieri le facevano paura. Nel tentativo di giustificarsi, la
sua mente continuava a ripeterle che il sentimento che provava per
lui doveva per forza essere amore vero, un sentimento più forte di
tutto e di tutti, di quelli che in pochi hanno la fortuna di provare nella
vita.
Con amore e con pazienza riuscirò a cambiarlo, rimuginava ormai
tutte le sere.
Il guaio era che se ne convinceva sempre più.
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Capitolo 17
Al ritorno dal viaggio si trasferì nella casa nuova, che dopo i lavori
di ristrutturazione era diventata esattamente come l’aveva sempre
immaginata. Il punto forte dell’arredamento era un romanticissimo
camino che si affacciava sia sulla camera da letto sia sul
soggiorno; nelle lunghe e solitarie serate invernali, Stella amava
accoccolarsi lì accanto per godersi il fuoco scoppiettante.
Le piaceva mettere a cuocere le caldarroste nella brace e poi
mangiarle poi con le mani, seminando briciole ovunque.
Lo faceva anche da piccola, a casa della nonna. Era uno di quei
piccoli riti che avevano il potere di rassicurarla.
Deliziosi erano anche i due terrazzini che si affacciavano sulla via
principale. Stella li aveva impreziositi con vasi di gerani e piante
aromatiche, e passava ore a innaffiare canticchiando tra sé.
Adorava il profumo che salvia, rosmarino, basilico e menta
emanavano per tutta la casa.
Nel tentativo di scacciare il dolore, ricominciò a uscire sempre più
spesso e a organizzare feste con i suoi nuovi amici. Ma nessuno
dei ragazzi che si avvicinavano a lei riusciva a catturare il suo
interesse; anzi, sembrava ormai del tutto disinteressata ad avere
una storia sentimentale. Preferiva rimanere sola, convinta com’era
che non sarebbe mai più riuscita a innamorarsi.
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Dopo ormai sei mesi di silenzio, il telefono un pomeriggio squillò.
Quando riconobbe la voce di lui, il cuore le si fermò in gola.
«Stella, ho bisogno di vederti. Devo dirti una cosa molto
importante.»
Stella trattenne il respiro. Non voleva – non poteva – ricadere in
quella trappola, e resistette.
«Dopo tutto quello che hai fatto, hai ancora il coraggio di rifarti
vivo? Non ti voglio rivedere, né ora né mai.»
Si era dovuta sforzare molto per mantenere la voce ferma.
Il viaggio in Egitto l’aveva resa consapevole di quanto fragile fosse
la sua determinazione. Per tutti quei mesi aveva continuato a
pensare a Giovanni, provando una nostalgia indicibile, che non le
dava pace neanche quando era impegnata a fare altro. Sapeva che
rivederlo avrebbe rappresentato un rischio enorme per lei.
Sarò forse malata?, rifletteva tra sé la sera, stesa a letto, gli occhi
sbarrati a fissare il soffitto buio. Come faccio a desiderarlo ancora,
dopo le violenze e tutte le bugie che mi ha raccontato? Perché mai
dovrei fidarmi di nuovo di lui?
Si sentiva come sdoppiata.
C’era una Stella che detestava Giovanni con tutte le sue forze e
che non voleva cadere di nuovo nella sua trappola, e poi c’era
l’altra Stella, quella che desiderava tornare con lui a tutti i costi.
Una donna incosciente, caparbia, ostinata.
Che non ammetta ragioni se non quelle del cuore.
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Ma nella sua situazione, si poteva davvero parlare di cuore? Di
amore? Quella domanda, purtroppo, se la sarebbe posta soltanto
molti anni dopo.
Dal canto suo, Giovanni sapeva benissimo di essere diventato la
sua droga preferita. Era proprio quella certezza a dargli il potere di
andare e tornare quando voleva, senza mai dubitare del fatto che
lei l’avrebbe accolto di nuovo.
Ricominciò con le solite telefonate e con le lettere fiume piene di
buoni propositi e dichiarazioni d’amore eterno.
Seguendo la consueta tattica, da una parte giocava il ruolo di
vittima, dall’altra cercava di farla sentire in colpa. Un déjà vu. Ma
questa volta la sua tattica non funzionò.
Almeno all’apparenza, Stella sembrava irremovibile.
Allora Giovanni progettò altre tecniche.
Un mattino, Stella si vide recapitare a casa un mazzo di rose rosse
con annesso un bigliettino che recitava: “Sono passati sei mesi da
quando non stiamo più insieme, la mia vita si è trasformata in un
inferno senza di te. Io ti amo e ti desidero come il primo giorno.
Perché vuoi farmi soffrire così, mia crudele aguzzina?”.
Le faceva poi trovare bigliettini sul parabrezza dell’auto con frasi
sdolcinate e piccoli gadget a forma di cuore. Infine, aveva
cominciato a seguirla: spesso lo trovava in attesa fuori di casa,
oppure davanti all’ospedale in cui faceva il tirocinio.
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Un pomeriggio, all’imbrunire, lo trovò addirittura all’uscita dal
supermercato. Non appena la vide, si gettò in ginocchio ai suoi
piedi e le dichiarò tutto il suo amore.
«Perdonami, Stella! Io ti adoro e farei di tutto pur di riaverti tra le
mie braccia! Neanche a un assassino si può somministrare una
pena così dura… Ho sbagliato, è vero, ma per tutti esiste una
possibilità di redenzione! Perché il tuo cuore si è così indurito?»
Per quanto restia ad ammetterlo perfino con se stessa, Stella si
sentiva turbata. Ogni piccolo gesto di Giovanni era come una
goccia in più che cadeva in un cuore sul punto di traboccare
d’amore, di dolore e di tutti i rimpianti che ancora conteneva.
Se quando l’aveva lasciato era convinta di poter vivere senza di lui,
ora sentiva che le sue sicurezze svanivano, lasciando il posto al
tormento, al dilemma. Si rendeva conto di essere caduta nella
trappola della dipendenza: proprio come una drogata che ruba e si
umilia per ottenere ciò di cui ha bisogno, così lei era conscia che
avrebbe potuto fare pazzie per amore. Quando lui non la cercava,
arrivava a provare un dolore fisico, un senso di vuoto nello stomaco
che doveva riempire al più presto, convulsivamente. Non era più il
suo cervello a comandare, ma il bisogno impellente e irrazionale di
lui. Era spaventata da questo stato d’animo, ma non riusciva a
controllarlo. Aveva provato con un corso di training autogeno che la
aiutasse a tenere a bada le sue ansie, ma non aveva ottenuto
alcun risultato.
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Sto impazzendo, ho bisogno di un buon psicoanalista…, si trovava
a pensare sempre più spesso.
Giovanni, poi, era davvero bravo nel suscitarle sensi di colpa. E se
fosse cambiato davvero? iniziò a chiedersi.
Perché non dargli un’altra opportunità, l’ultima?
Accettò dunque di incontrarlo, e lo invitò nella sua nuova casa. Lo
accolse con estrema freddezza, anche se sapeva benissimo che si
trattava di una facciata. Giovanni conosceva il modo di abbatterla,
l’aveva già fatto altre volte.
Quasi senza parlare, lui la afferrò e la strinse forte, con passione a
stento contenuta. Di lì a poco cominciò ad accarezzarle il viso, i
capelli, tempestandole il collo e le guance di teneri baci. Poi, di
scatto, con una mano le afferrò i polsi e con l’altra le rovesciò il
volto all’indietro. Le loro bocche si avvicinarono pericolosamente
per poi unirsi in bacio appassionato.
«Cosa ci è accaduto in questi mesi?» le sussurrò con dolcezza, il
respiro sul suo collo. «Come abbiamo potuto stare lontani? Io e te
siamo una cosa sola… lo Yin e lo Yang, perché non lo capisci?»
Con le labbra ancora umide cominciò a tastarle la pelle, dapprima
dolcemente, lentamente, poi sempre più avidamente, mentre
iniziava a spogliarla.
«No, Giovanni, non voglio», cercava di resistere Stella.
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Ma la sua colonna vertebrale era percorsa da un brivido di piacere
e sentiva i battiti del suo cuore che acceleravano.
E invece ti voglio! Ti desidero, Giovanni, ti ho sempre desiderato! A
dispetto della mente, il segnale che le dava il corpo era chiaro e
inequivocabile.
«Sei irresistibile, Stella. Ho sempre voluto che fossi mia, fin dal
primo giorno in cui ti ho vista!»
Stella sentiva chiaramente il desiderio di Giovanni crescere.
Infine lui la prese in braccio e finirono nel lettone, di fronte al
camino acceso. I loro corpi si cercarono intensamente, come fanno
gli assetati quando finalmente trovano una fonte, e fecero l’amore
con frenesia.
«Finalmente quello che desidero è mio!» lo sentì godere.
Suo malgrado, anche Stella provava un piacere infinito in quel
contatto fisico; ogni minuscola particella del suo corpo sentiva che
in quel momento anche le loro anime si erano fuse. Erano
ridiventati un corpo solo, un unico spirito.
Dopo aver perso molte battaglie, con la sua determinazione
Giovanni stava nuovamente vincendo la guerra.
Lei, ormai, aveva rinunciato a combattere. Non vedeva più alcun
nemico, perciò gradualmente aveva deposto le armi.
Dopo appena un mese da quell’incontro, Stella firmò la resa
definitiva permettendo a Giovanni di installarsi nella sua nuova
casa. Questa volta era perfettamente consapevole del pericolo che
correva, sapeva che si stava lanciando da un aereo con un
paracadute che forse non si sarebbe aperto.
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Ma in quei mesi si era sentita così sola, e Giovanni le era mancato
così intensamente, che non voleva più correre il rischio di soffrire
per amore. Sapeva anche che, quando l’avesse saputo, sua madre
si sarebbe infuriata.
E quel momento non tardò ad arrivare.
Un pomeriggio, mentre Stella si trovava all’università, Maria entrò in
casa per portarle un set di bicchieri. Immaginando che non ci fosse
nessuno, aveva usato il suo mazzo di chiavi; quando vide Giovanni,
che stava tranquillamente guardando la TV sdraiato sul divano
nuovo, quasi urlò dallo spavento.
“Che ci fai a casa di mia figlia?”, lo investì come una furia.
Giovanni rimase senza parole, la bocca aperta.
Era come inebetito.
«Quando Stella si risveglierà dall’incantesimo, per te sarà tutto
finito! E credimi, prima o poi succederà.»
“Non succederà mai” replicò Giovanni, nuovamente calmo.
Dopo l’iniziale sbigottimento, si era ripreso in fretta.
“Stella è troppo innamorata di me.”
Il guaio è che aveva ragione.
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Capitolo 18
Torino, 24 settembre 1993
Dopo essersi accertata che Giovanni non fosse in casa, nel
pomeriggio Maria andò a trovare sua figlia per cercare di farla
ragionare. Non solo non capiva la situazione, ma la riteneva
inaccettabile. Bussò nervosamente alla porta, e una volta entrata in
casa prese posto sulla poltrona bianca di fronte al camino. Senza
tanti preamboli disse a sua figlia quello che pensava di lei.
«Tu puoi fare quello che vuoi della tua vita» pronunciò questa frase
in tono particolarmente duro, mentre tamburellava ritmicamente i
polpastrelli sui poggioli della poltrona.
Stella sentiva il sudore colarle sotto le ascelle e sul collo.
Non sapeva cosa ribattere, non riusciva a pensare a nessuna frase
intelligente.
«Ma non puoi pretendere che io approvi!», continuò imperterrita.
«Non posso essere complice in una decisione così distruttiva, né
come madre, né come amica… né tanto meno come donna.».
Frasi secche, pronunciate senza apparente emozione. La guardava
fissa, con occhi torvi. Non riuscendo a sostenere il suo sguardo,
Stella si voltò di schiena; non avrebbe mai voluto che sua madre si
accorgesse che aveva iniziato a piangere. Si era aspettata una
sceneggiata napoletana di quelle che era solita farle in passato, lo
avrebbe preferito.
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E invece l’apparente freddezza con cui l’aveva trattata, le frasi
razionali pronunciate, la mettevano a disagio.
Alle sue parole, il senso di colpa che Stella sentiva dentro aumentò
a dismisura. Non riusciva più a mentire a se stessa; era nel torto, si
era comportata come un’opportunista. Nel momento del bisogno
non aveva esitato a sfruttare l’aiuto di sua madre, ma poi alla prima
occasione aveva disatteso tutte le promesse fatte. Non sapeva
come rispondere, perciò taceva, gli occhi bassi come quando da
piccola veniva sorpresa a fare qualcosa che non doveva.
«È molto meglio che io rimanga fuori da questa vicenda» continuò
sua madre, sempre più arrabbiata.
«Ma mamma, non ricordi di quando hai sposato papà? La nonna ti
ostacolava, ma tu hai ascoltato il tuo cuore…», riuscì finalmente a
ribattere.
«Non azzardarti a paragonare tuo padre a quell’uomo!» tuonò
Maria, senza farla finire. «Lui era un uomo straordinario, di
un’intelligenza superiore, un medico stimato.»
Stella non riusciva più a replicare.
«Dopo la sua morte non ho mai preso decisioni avventate perché
non ho più pensato a me stessa, ma solo ed esclusivamente alle
mie figlie. Tu mi hai aiutata, ti sei laureata in una materia difficile e
importante. Eri la perla più brillante della nostra famiglia!» continuò,
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la voce strozzata dall’emozione. «Proprio non capisco come tu
possa unirti a un uomo che non ha mai avuto la volontà né di
studiare,
né
di
lavorare….
Come
fai
ad
avere
stima
e
considerazione di lui? A questo punto, molto meglio farsi
mantenere!»
Maria riusciva a toccare corde che puntualmente incendiavano
l’animo di Stella.
«Mamma, adesso lavora! Non puoi continuare sempre con la solita
solfa!»
«Stella, è inutile parlare con te. Sei cieca e sorda, non vuoi dar
retta a nessuno, nemmeno a chi ti vuole più bene della sua stessa
vita. Se bastasse la mia morte a farti rinsavire, in questo momento
sarei più che disposta a sacrificarmi per te!»
«Non metterla sul melodrammatico, per favore, mamma.»
«Lui non può offrirti niente. Niente! Neanche la bontà d’animo,
perché è prepotente, aggressivo, speculatore. Lui non vede l’ora di
sposarti per poterti sfruttare» concluse con amarezza.
«Come fai a pensare che sia così meschino?» replicò lei,
tormentandosi nervosamente il lobo dell’orecchio.
La conversazione si stava facendo insostenibile.
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«Fai quel che vuoi. Ma io non posso accettare una persona che ha
ingannato me e mia figlia. Tra l’altro le sue menzogne sarebbero
facilmente verificabili anche da te, se solo lo volessi.»
«Stai esagerando, come al solito.» Il lobo del suo orecchio era
quasi violaceo. «Io lo amo, e voglio sposarlo.»
«E se un giorno vi separerete? Lui pretenderà di essere mantenuto
a vita! In ogni caso, se deciderai di sposarti con lui, ti prego di non
farmelo sapere. Sarebbe un dolore troppo grande per me.»
Quell’ultima frase fu come un pugno nello stomaco. All’improvviso
le lacrime le punsero gli occhi, ma in quel momento piangere era
l’ultima cosa che voleva, perciò, a fatica, le ricacciò indietro.
«È questo ciò che vuoi? Continuare a stare lontana da tua figlia?»
«Te lo ripeto, Stella, a questo punto fa’ quel che vuoi. Stai solo
attenta che oltre al tuo cuore, lui non distrugga anche la tua
carriera, il tuo futuro e il tuo benessere.»
Lei distolse lo sguardo. Non riusciva a reggere la vista di sua
madre un attimo in più.
«Non succederà, ma tu ancora una volta mi stai costringendo a una
scelta che non vorrei fare: o lui, o te. Mi dispiace, mamma, ma sei
tu che lo vuoi… »
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Capitolo 19
Stella cullava il suo spirito da crocerossina come se fosse la cosa
più preziosa che possedeva. Giorno dopo giorno, le sue nuove
certezze si rinsaldavano: grazie all’amore immenso che provava
per lui, Giovanni sarebbe cambiato. In fondo lo stava già facendo, e
anche sua madre presto o tardi avrebbe dovuto cambiare opinione
su di lui.
Fu così che i due piccioncini, più innamorati che mai, cominciarono
a fare nuovamente progetti di matrimonio.
Marco e Clara, che erano rimasti loro amici anche dopo il trasloco
di Giovanni e Stella nella nuova abitazione, non perdevano
occasione di invogliarli.
Una sera, mentre cenavano insieme, Marco cominciò a dire:
«Allora, ragazzi, quand’è che vi sposate?».
Stella prese la palla al balzo.
«In realtà è da un po’ che ci stiamo pensando. Credo che giugno
sarebbe un bel mese per il nostro sì… Che ne dici, Giò?»
Giovanni rispose con voce tremula, sfuggendo al suo sguardo.
«Io ho voglia di stare con te oggi, domani e per sempre. Marco, mi
faresti da testimone di nozze?».
Stavolta faceva sul serio. Aveva cominciato a lavorare per
un’agenzia di assicurazioni, e per la prima volta da quando si
conoscevano, aveva presentato a Stella un suo collega di lavoro.
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Iniziarono i preparativi per le nozze, coinvolgendo come sempre
Marco e Clara. Decisero che il loro sarebbe stato un matrimonio
“diverso”: tanto per cominciare, niente bomboniere, solo confetti
sciolti da distribuire agli invitati; al biglietto di invito, riservato a una
ristretta cerchia di persone, era stato aggiunto un delizioso disegno
della piccola Tilly, che ritraeva i futuri sposi mano nella mano, in
abiti sontuosi. Di comune accordo, avevano deciso che non
avrebbero offerto né un pranzo né una cena, bensì un semplice
rinfresco in un locale storico di Torino.
Non volendo rinunciare all’accompagnamento musicale durante la
cerimonia, scelsero musiche alternative: al posto della solita marcia
nuziale, la melodia delle Nozze di Figaro; invece dell’Ave Maria di
Bach, quella dolcissima di Gounod. Marco si occupò di trovare sia il
musicista che la cantante, entrambi suoi amici.
Sull’abito da sposa, Stella non aveva le idee chiare.
Dapprima aveva pensato a un abbigliamento elegante, ma
informale; poi, quando vide uno stupendo abito bianco, lungo e in
pizzo, se ne innamorò perdutamente e decise che sì, quello
sarebbe stato il suo vestito da sposa.
Al diavolo il vestito alternativo! Al diavolo anche il prezzo: poco per
volta avrebbe trovato il denaro per permettersi quel sogno. E poi,
pensava, c’è solo un matrimonio nella vita.
E il suo sarebbe durato per sempre.
Le nozze furono celebrate da don Pietro, un sacerdote che
Giovanni aveva conosciuto durante la sua fanciullezza, quando
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ancora frequentava l’oratorio, un uomo dalle vedute moderne, di
grande saggezza e cultura.
Si sposarono in una calda giornata d’estate, in un clima che la
temperatura bollente contribuiva a rendere ancora più surreale.
Una scorta di amici dovette stare di guardia perché non
avvenissero tafferugli tra gli invitati. In chiesa, la prima fila riservata
ai parenti della sposa era vuota.
Persino sua sorella Cristina si era rifiutata di sedersi al primo
banco, dopo che una sera avevano avuto una brutta discussione
per telefono.
«Ma perché non proseguite la convivenza? Ti rendi conto che il
matrimonio è una scelta seria?» le aveva detto una volta appresa la
notizia.
Il suo tono paternalistico aveva irritato Stella.
«Proprio da te non mi sarei mai aspettata un consiglio del genere!
Io amo Giovanni, e la mia è una scelta seria: come puoi
dubitarne?»
«Ma… »
«Se non ti va che io mi sposi, puoi anche non venire al mio
matrimonio!» continuò Stella, riattaccando bruscamente la cornetta.
Da quel momento i loro rapporti si erano incrinati.
Neanche l’adorata nonna aveva voluto partecipare alle nozze.
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Qualche giorno prima le aveva inviato una lettera nella quale si
scusava per la sua decisione, concludendo che: “In un clima di
tensione come quello che immagino ci sarà al tuo matrimonio, il
mio vecchio cuore non reggerebbe. Perdonami, se puoi. Ricordati
che ti voglio bene e che non ti abbandonerò mai”.
Per Stella quella lettera era stata una stilettata al cuore.
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Capitolo 20
Torino, 26 giugno 1994
Quel giorno c’era un caldo afoso, insopportabile.
A Torino si festeggiava il santo patrono, San Giovanni.
Non era un caso se avevano scelto proprio quel giorno per
festeggiare il loro matrimonio.
Al banco dello sposo c’era la madre di Giovanni, gioiosa e
sorridente nel suo tailleur nuovo color blu e panna, il padre, in
completo grigio e sorriso sgargiante, e suo fratello Paolo,
elegantissimo con il suo papillon rosso e la rosa nel taschino della
giacca. Era accompagnato dalla nuova compagna e dal figlio avuto
dal primo matrimonio.
Era stato proprio Paolo con la sua limousine ad accompagnare
Stella fino alla chiesa, dove erano arrivati con il consueto ritardo
concesso alla sposa.
Lì, ad attenderla, aveva trovato Giovanni, che l’aveva poi
accompagnata fino all’altare. Nel vederla, non era riuscito a
trattenere il suo entusiasmo: «Sei meravigliosa!», le aveva
bisbigliato all’orecchio.
Era rimasto a bocca aperta quando l’aveva vista arrivare nel suo
lungo abito bianco, che fino all’ultimo era rimasto un segreto.
Portava i capelli raccolti sulla nuca, tenuti fermi da una coroncina di
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fiori di pizzo, e un lungo scialle le copriva pudicamente il decolté.
Giovanni sembrava apprezzare molto il suo look. Non riusciva a
smettere di osservarla.
Del resto Stella era radiosa. Al suo passaggio nel lungo corridoio
della chiesa udiva commenti entusiastici e stupiti.
Come Marco, anche Giovanni indossava un frac nero.
I capelli, tagliati di fresco, denotavano qualche incertezza da parte
del parrucchiere, e a Stella venne da chiedersi chi fosse l’artefice di
un tale disastro.
Restava comunque l’uomo più affascinante che avesse mai
conosciuto, e il suo cuore traboccava di felicità all’idea che proprio
lui quel giorno sarebbe diventato suo marito.
Pronunciarono il fatidico sì senza nemmeno leggere il foglietto che
il sacerdote mostrava loro, guardandosi teneramente negli occhi e
stringendosi le mani. Avevano imparato quella frase a memoria, nei
giorni precedenti l’avevano ripetuta più e più volte, come attori
consumati che studiano la parte provando toni e intonazioni
diverse.
Si scambiarono le fedi nuziali. Gli occhi inumiditi dalla commozione,
Stella non riusciva a smettere di fissare quel semplice anello
all’anulare sinistro, simbolo del suo amore e della sua devozione
per Giovanni. Non si sarebbero più lasciati, finché morte non li
avesse separati.
Al termine della cerimonia, invitata all’altare da don Pietro, fece un
discorso che commosse più di un invitato.
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«Vorrei ringraziare tutti gli amici e i parenti che oggi si sono riuniti
intorno a noi per festeggiarci. E vorrei chiedere a Dio di vegliare su
di noi, sulla nostra futura famiglia, facendo cessare le ostilità che si
sono create in questi anni. Vorrei che questo fosse un momento di
felicità per tutti, ma anche un’occasione di riconciliazione tra le
nostre famiglie. Vorrei davvero che la pace regnasse tra di noi… Ci
tengo anche a farvi sapere che vi vogliamo bene, e che sapremo
meritarci la vostra fiducia.» Quasi si commosse nel pronunciare
quelle frasi, ma in pochi credettero alle sue parole.
Il clima fu comunque festoso.
Visse quel giorno da protagonista, ma con la costante sensazione
di trovarsi in un film; si sentiva come stordita, drogata ma felice,
una sensazione irreale, meravigliosa.
O almeno così credeva in quel momento.
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Capitolo 21
Subito dopo le nozze, Giovanni sembrava il marito perfetto.
Non smetteva un attimo di coccolarla, le preparava succulenti
pranzetti, le teneva sempre la mano quando uscivano e le
ricordava ogni giorno il suo amore infinito per lei. Tutte le sue
amiche la invidiavano.
Qualche mese dopo, una grande gioia si aggiunse alla serenità di
quel periodo: Stella aspettava un bambino!
In quel periodo lavorava in un ospedale di provincia, non aveva
ancora un posto fisso e si era da poco riappacificata con sua madre
grazie a un incontro organizzato dalla sorella. A malincuore e per
non perdere l’affetto della figlia, Maria aveva infine accettato il suo
matrimonio.
Tuttavia continuava a non approvare, e non mancava occasione
per farglielo notare.
Forse non era ancora il momento giusto per mettere al mondo un
figlio, come le fece notare acidamente sua madre quando apprese
la notizia: «Se solo tu avessi più senno, penseresti prima a
sistemarti con il lavoro e poi a far figli!».
Ma lei era felice, e decise che avrebbe portato avanti la gravidanza.
Per paura di perdere il lavoro non disse nulla ai suoi superiori,
finché per legge non fu costretta a sospendere l’attività. Ma
quell’esserino che cresceva dentro di lei non sembrava un ostacolo
per il suo lavoro: anzi, le portò fortuna. Cominciò a vincere alcuni
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concorsi cui aveva partecipato e le possibilità di trovare un posto
fisso divennero presto una certezza. Finì addirittura con l’avere
l’imbarazzo della scelta; alla fine optò per l’ospedale più vicino alla
casa dei suoceri, che così avrebbero potuto aiutarla con il bambino.
Si stava avverando tutto quello che aveva sempre desiderato: un
marito amorevole, dei figli, un lavoro che amava.
Al settimo mese di gravidanza, Stella si mise in maternità.
Fu in quei mesi che notò qualcosa di strano: Giovanni era spesso a
casa, troppo spesso. Un pomeriggio decise di non indugiare oltre:
doveva conoscere la verità. Si fece forza e, dopo aver inspirato
profondamente, compose il numero dell’ufficio di Giovanni.
«Sto
cercando
mio
marito»,
la
voce
era
debole,
quasi
impercettibile. Dovette ripetere due volte la domanda perché
l’operatore sentisse. La risposta che le diede la fece trasalire.
«Signora… Suo marito non lavora più nella nostra agenzia da
almeno due mesi! ». A stento aveva riagganciato la cornetta,
incredula, mentre le gambe si facevano molli sotto il suo peso ogni
giorno più ingombrante.
Bastardo! Perché non mi hai detto nulla! Ma quando metterai la
testa a posto, se non adesso che aspetti un figlio?
A Stella cadde il mondo addosso. La cosa peggiore è che non
riusciva a trovare la forza per affrontare l’argomento con suo
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marito, perché aveva paura della reazione che avrebbe avuto.
Iniziò ad accusare i sintomi di una depressione che lui attribuì alla
gravidanza, finché un giorno crollò e decise di spiegargli la ragione
di quell’improvvisa tristezza. Si sentiva sfinita, spossata e non
poteva più reggere il peso del segreto.
«Ho telefonato al tuo ufficio e ho saputo che non lavori più…»
iniziò, balbettando. «Perché non me l’hai detto? Adesso come
faremo?». Il suo sguardo si posò sulla pianta di ciclamino sul
davanzale della grande finestra del salone. Da qualche tempo non
la bagnava più e le sue foglie erano gialle e avvizzite. Ormai non si
curava più di nulla. Neanche del suo aspetto, che era divenuto
sciatto, a dispetto della gravidanza.
Con il dito raccolse una lacrima che era scesa sulla guancia,
raggiungendo il naso. All’improvviso era spaventata da tutto.
Sentiva mancarle l’aria e una terribile voglia di scappare. Perché mi
fa questo? Perché proprio adesso?
«Cristo, smettila con questi toni patetici!» sbottò Giovanni,
passandosi nervosamente una mano tra i capelli. I lineamenti del
suo viso si fecero duri. Con la bocca fece una smorfia, una sorta di
sorriso beffardo. «Sono già in trattative per un altro lavoro, farò
l’agente per una finanziaria. Va tutto benissimo… Devi stare
tranquilla, che fai del male al bambino.». Improvvisamente la sua
101
voce si fece melliflua, le prese le mani e gliele strinse forte, poi
l’attirò verso di sé e cominciò ad accarezzarle il collo, simulando
una sorta di massaggio rilassante.
Tirando su col naso, Stella finse di rilassarsi e si sforzò di annuire.
Avrebbe voluto divincolarsi da quell’abbraccio, lo sentiva falso e le
dava enormemente fastidio. Ma non ebbe il coraggio di rifiutarlo.
La parte del suo cuore che conosceva la verità – quella più
profonda, che fin dall’inizio aveva cercato in ogni modo di soffocare
– aveva ricominciato a sussurrarle che niente, niente stava bene
come aveva sognato. Si sentiva come il suo ciclamino, trascurata,
sfiorita e senza linfa vitale.
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Capitolo 22
Torino 16 maggio 1995
La nascita di Giacomo fu una gioia indescrivibile.
Complice quella strana sensazione latente di timore che non la
abbandonava mai, e che lei riusciva abilmente a mascherare da
amore della pace, Stella decise che avrebbe smesso di indagare
sulle
attività
lavorative
svolte
o
non
svolte
dal
marito,
accontentandosi delle sue dichiarazioni. Giacomo era il bambino
più bello, più sano e radioso che si potesse desiderare, una gioia
per tutti quelli che gli stavano accanto. A renderlo inconfondibile, il
nasino buffo che doveva aver ereditato da qualche lontano
antenato e una fossetta sulla guancia destra. Stella lo allattò a
lungo.
Amava quel contatto fisico così speciale, durante il quale lei e il
bambino si guardavano amorevolmente, lui alla ricerca di cibo e
consolazione, lei di un rapporto esclusivo e insostituibile come
quello che avevano avuto durante i nove mesi di gravidanza.
Giovanni le impediva di allattare in pubblico e talvolta sembrava
addirittura geloso.
Un pomeriggio, mentre si trovavano in auto per recarsi a trovare la
nonna paterna, il bambino aveva cominciato a piangere perché
aveva fame. Stella si scoprì il seno per offrirglielo, ma fu subito
fermata dal marito.
103
«Che stai facendo? Non ti accorgi che ti guardano tutti? Non voglio
che mostri il seno in pubblico!» le disse con severità.
«Ma il bambino ha fame! Anche in chiesa si vedono ritratti della
Madonna che allatta Gesù! È la cosa più naturale che esista… »
provò a ribattere Stella, cui sanguinava il cuore nel sentire Giacomo
piangere disperato.
Ma le sue proteste non valsero a nulla.
A malincuore, fu costretta a riprendere il lavoro quando suo figlio
aveva solo tre mesi, lasciandolo prima a una baby-sitter, poi in un
vicino asilo nido.
Per lei, che era perdutamente innamorata di suo figlio e viveva
ormai in simbiosi con lui, con i suoi ritmi di pappa-nanna, lasciarlo
fu un dolore immenso. Ogni volta che usciva per andare al lavoro si
sentiva soffocare dai sensi di colpa.
Ma non aveva scelta: in quei mesi il suo conto in banca si era
prosciugato, e Stella sapeva di non poter contare sulle risorse
economiche del marito.
104
Capitolo 23
Torino, dicembre 1996
Circa diciotto mesi dopo la nascita del bimbo, Stella ne aspettava
già un secondo. Quando ne ebbe la certezza, non seppe se essere
felice per la nuova maternità o spaventata all’idea di dover gestire
due bambini piccoli.
Soprattutto, non sapeva come dirlo a suo marito.
Come avrebbe reagito? Decise di comunicarglielo il giorno di
Capodanno, preparando una cenetta romantica a base di crostacei
e spumante italiano, e facendogli trovare sotto il tovagliolo un
ciuccio accompagnato da un bigliettino: «Fra poco avremo un altro
bambino».
Giovanni reagì furiosamente, molto peggio di quanto Stella aveva
temuto. Se ne andò di casa sbattendo la porta e lasciandola da
sola, in lacrime e spaventata, con il piccolo Giacomo. Passò una
serata orribile. Mentre in strada tutti quanti festeggiavano l’anno
nuovo con brindisi e botti, lei sperimentava una solitudine così
profonda che per la prima volta le sembrava incolmabile. Nessuno
con cui parlare, nessuno cui confidare l’insopprimibile angoscia che
le impediva persino di pensare lucidamente.
105
Certo non poteva condividere quel suo stato d’animo con la madre,
che l’avrebbe aspramente rimproverata, e neanche con sua nonna
o con sua sorella.
Per una settimana Giovanni non le rivolse la parola. Quando
riprese a parlarle, lo fece solo per farla sentire in colpa.
«Non sei neanche stata in grado di prendere delle precauzioni»
continuava a ripetere, addossandole tutte le colpe di una
gravidanza che non desiderava.
Anzi, ne sembrava quasi disgustato.
«Il nostro matrimonio non sarà mai più lo stesso! Te ne rendi
conto?» diceva con aria minacciosa. «Io non potrò mai affezionarmi
a un secondo bambino, non ho abbastanza energie. D’ora in poi il
nostro rapporto cambierà perché io non ho più fiducia in te!»
ripeteva quasi ossessivamente.
Stella, però, era decisa a portare a termine la gravidanza.
Percepiva quell’esserino come una parte di sé, lo amava già con
tutta se stessa. Al contrario di quanto era successo quando era in
attesa di Giacomo, questa volta ebbe delle nausee terribili. Mai una
volta, quando la sentiva vomitare in bagno, Giovanni si precipitò ad
assisterla.
La denigrava anche di fronte agli amici, cercando di farla sentire in
colpa per la nuova gravidanza.
«Meno male che è un medico: non sa neppure come evitare una
gravidanza!» la scherniva pubblicamente.
106
Un giorno, quando la gravidanza era già piuttosto avanzata, perse
l’equilibrio e cadde in mezzo alla strada.
Giovanni, che era con lei, continuò a camminare come se niente
fosse, mentre Stella veniva soccorsa da un passante. Per tre
interminabili ore non sentì più alcun movimento fetale, e si
spaventò moltissimo.
Quando si confidò col marito, lui rispose: «E a me che importa?
Anche se non dovesse sopravvivere, per me è come se morisse
una rana, proverei la stessa pena».
Stella pianse in silenzio e pregò a lungo finché, finalmente, sentì
che il bambino si muoveva ancora.
Da quel momento in poi si chiuse in se stessa e nell’amore per il
suo piccolino, che cresceva quasi a vista d’occhio. Come sempre,
confidava nel fatto che l’amore sarebbe bastato. Più la pancia
cresceva, più si affezionava alla creaturina che c’era dentro, ai suoi
calcetti. La sua felicità crebbe quando seppe che si trattava di una
femminuccia. Fu così che, due anni e tre mesi dopo Giacomo,
nacque Elisa, una bimba biondissima, dal carattere assai forte e
deciso sin dalla nascita. Poche ore dopo il parto si mise a strillare
incessantemente e continuò senza tregua per almeno un’ora,
finché non raggiunse il suo obiettivo: il seno materno. Si
preannunciava dunque un carattere da combattente!
107
Stella immaginava che avrebbe dovuto lottare, con lei. Anche in
occasione del congedo per la maternità di Elisa, Stella rivisse una
sorta di déjà vu: quando telefonò ai datori di lavoro della finanziaria,
questi le dissero che il marito non lavorava più per loro da circa tre
mesi.
Stavolta non aspettò neanche un giorno per dire al marito cosa ne
pensava del suo atteggiamento irresponsabile.
Lui cercò di rassicurarla.
«Ma cara, ora lavoro in proprio come consulente finanziario.
Guadagnerò molto di più e avrò orari più flessibili».
«Ma perché non me l’hai detto?» replicò lei, il volto livido di rabbia.
Non ne poteva più di quelle continue prese in giro.
«Perché tu sei troppo apprensiva, ti preoccupi per tutto…» disse
Giovanni, laconico.
Da quel momento in poi, i suoi movimenti lavorativi divennero del
tutto incontrollabili.
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Capitolo 24
Torino, 6 gennaio 2002
Gli anni passavano, Stella aveva deciso consapevolmente di
coprirsi gli occhi con due fette di salame. Aveva smesso di
indagare, di fare domande, purché ci fosse armonia in casa.
Dopo la nascita di Elisa anche sua madre li aveva riaccolti, e ora
sembravano davvero l’emblema della famiglia felice. Alla festa del
novantesimo compleanno della nonna c’erano davvero tutti: sua
madre, sua sorella con il marito e le figlie – due splendide bambine
bionde e con occhi azzurri, simili a dei cherubini –, gli zii materni, i
cugini e, naturalmente, Giovanni e i loro adorati frugoletti.
Avevano scattato molte foto, mangiato prelibati manicaretti
preparati da Maria e bevuto un magnifico spumante italiano.
I bambini si erano scatenati in giardino, allietando la festa con le
loro urla gioiose. In futuro avrebbe guardato più volte con nostalgia
quelle fotografie. In quell’occasione si era sentita finalmente
accettata dalla sua famiglia, come sempre aveva desiderato e
sperato. Finalmente il vento aveva iniziato a girare a favore, il mare
non sembrava più in tempesta.
Ogni giorno che passava, la casa dove avevano abitato fino allora
si faceva sempre più piccola per quattro persone.
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Una sera, mentre cenavano guardando il telegiornale, Stella aveva
spento la TV e fatto al marito la proposta cui pensava ormai da un
po’ di tempo.
«Caro, dobbiamo cambiare casa. »
«Perché? Questa va benissimo! » aveva subito replicato lui, sulla
difensiva.
«Ma i bambini crescono, e hanno bisogno di una stanza per
ciascuno! E anche noi stiamo stretti, qui. »
«Beh, io non ho intenzione di sganciare una lira!»
Ma Stella non intendeva arrendersi.
«Ne ho già parlato con mia madre. È disposta ad aiutarci
economicamente», disse tutto in un fiato.
«Come vuoi, Stella… Come vuoi tu», le concesse Giovanni.
Ottenuta la sua approvazione, Stella iniziò con entusiasmo la
ricerca di un nuovo appartamento; coinvolse la madre, il marito, gli
onnipresenti Marco e Clara e alcuni nuovi amici, genitori di
compagni di scuola dei loro figli che avevano conosciuto di recente.
Tra di essi vi era un architetto che si rivelò essenziale nella ricerca.
In tempi piuttosto brevi trovarono un vecchio appartamento con
mansarda, completamente da ristrutturare, che si estendeva su tre
piani. Si trovava nel centro storico della città e aveva una storia
affascinante: un tempo era stato un bordello, ma da molti anni
ormai era completamente abbandonato.
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I lavori di ristrutturazione sarebbero stati impegnativi, soprattutto in
termini economici, ma Stella si innamorò a prima vista di quella
casa e di ciò che sarebbe potuta diventare. Dopo tante storie,
anche Giovanni infine sembrava contento. Con il suo entusiasmo
contagioso, Stella era riuscita a coinvolgere tutti coloro che la
circondavano.
In breve tempo riuscì fare il compromesso. Si sentiva al settimo
cielo, con l’entusiasmo di una bambina che ha ricevuto un dono
desiderato a lungo. Rimaneva un solo problema: vendere la casa in
cui abitavano.
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Capitolo 25
Torino, marzo 2004
«La sua casa mi piace moltissimo!» esordì la prima potenziale
acquirente che venne a vedere la mansarda nella quale Stella e la
sua famiglia abitavano.
«È così romantica… E poi adoro i colori caldi con cui è arredata!»
Non è possibile!, pensava Stella, incredula.
Non le pareva vero di aver centrato il bersaglio al primo colpo. Si
era immaginata un via vai di gente che sarebbe entrata in casa sua
anche solo per curiosità, per mesi e mesi. E invece…
«Le lascio la caparra» insistette la donna. «Tornerò con calma per
farla vedere a mio marito. Ma non voglio lasciarmi sfuggire questa
occasione!»
Così dicendo le porse un assegno per bloccare l’acquisto. Stella
era felicissima: ora poteva dedicarsi completamente alla casa
nuova! Non perse occasione per informare tutti, amici, conoscenti,
colleghi, dei progetti di ristrutturazione che occupavano le sue
fantasie. La sua fervida immaginazione veniva continuamente
stimolata, si sentiva eccitata, come se fosse in partenza per un
paese esotico, sconosciuto e affascinante.
Un pomeriggio, mentre si trovava in un negozio di tessuti con i figli
e la madre per scegliere la tappezzeria nuova, ricevette una
telefonata.
112
«Buonasera dottoressa, sono la signora Miotta, quella che vuole
comprare il suo appartamento…»
La voce della donna era più seria di quanto ricordava.
«Oh, buonasera! Mi dica» rispose Stella.
Dentro di sé, inspiegabilmente già tremava. Ebbe come un terribile
presagio, ancora prima che l’altra parlasse, confermando in pieno
le sue sensazioni.
«Ho commissionato al notaio una ricerca sul suo immobile, e
purtroppo è emerso che è pignorato.»
A Stella sembrò che all’improvviso le mancasse la terra sotto i
piedi.
113
Capitolo 26
«Si può sapere che pasticci hai combinato?» urlò al marito. Si
sentiva come percorsa da tante scosse di corrente elettrica.
«Voglio delle spiegazioni» continuò, in un tono che non ammetteva
repliche.
In tutti quegli anni era stato Giovanni a gestire l’economia
domestica. Stella destinava una parte del suo stipendio alle spese
per la gestione della casa, lui aggiungeva la stessa cifra e poi si
occupava di effettuare i pagamenti e gli acquisti.
Com’era possibile che avessero un pignoramento in atto? E,
soprattutto, come mai lei non aveva mai ricevuto comunicazioni,
lettere, telegrammi o comunque avvisaglie relative a ciò che stava
succedendo?
Di nuovo Giovanni le stava nascondendo la verità? La risposta a
queste domande era così scontata che pensarci la faceva quasi
sentire stupida. Certo che sì.
Come si aspettava, suo marito rispose in maniera vaga e
insoddisfacente, capovolgendo la situazione e cercando di farla
sentire in colpa per aver dubitato di lui.
«Il fatto è che degli ultimi due anni mi sono rifiutato di effettuare i
pagamenti delle spese condominiali, come segno di protesta per
114
quel litigio che avevi avuto con la vecchia vicina di casa… Te la
ricordi quella riunione?»
«Ma è avvenuto tanti anni fa! E poi cosa c’entrano le spese di
amministrazione condominiali?»
«È stato un gesto dimostrativo, per difendere te. Dovresti
essermene grato!»
Stella continuava a scrocchiarsi le dita. Se solo avesse potuto,
avrebbe preso un piatto e gliel’avrebbe rotto sulla testa. Tutto
quello che stava accadendo non era solo terribile, drammatico, a
tratti surreale: era anche un costante insulto alla sua intelligenza.
«Ti prometto che provvederò al pagamento e che tutto si sistemerà.
Sei la solita ansiosa, Stella! Con te non si può mai parlare… Devi
solo stare tranquilla.»
Ma le parole ormai non le bastavano più.
Era come se quella scoperta l’avesse risvegliata di colpo da un
sogno ipnotico, come se la previsione fatta anni prima da Maria –
«Quando Stella si sveglierà dall’incantesimo, per te sarà la fine!» –
avesse infine cominciato ad avverarsi.
Stella infatti divenne una furia. Nessuno se lo sarebbe mai
aspettato da lei, una donna così dolce e remissiva, soprattutto
quando si trattava del marito. Contattò un avvocato matrimonialista
e tramite lui si mise in contatto con un investigatore, decisa a
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conoscere la verità una volta per tutte. Chi era l’uomo con il quale
divideva la sua vita, con il quale aveva avuto due figli? Chi era
davvero lo sconosciuto con cui spartiva il letto?
Si recò nello studio del professionista accompagnata da sua cugina
Lella, che studiava giurisprudenza.
Non voleva presentarsi a quell’appuntamento da sola.
Sulle scale di quell’edificio liberty in pieno centro storico di Torino,
Stella si sentiva a disagio. Enormi leoni di marmo dall’aspetto
minaccioso la osservavano ai lati della grande scalinata.
Lella, intuendone lo stato d’animo, la prese per le mani e le sentì
umide e appiccicaticce.
« Che ne dici se ci facciamo le scale a piedi? », le propose con
voce dolce.
« Ma sono cinque piani! », borbottò Stella « Sono fuori forma. Non
ce la farò mai! »
Lella, incurante delle lamentele della cugina la trascinò sulle scale.
Il sudore della corsa si mescolava a quello dell’ansia e del disagio.
« Ora ti senti meglio? », le chiese prima di suonare al campanello.
« Sono stordita dalla fatica», rispose con il fiatone. « Ma sì, ora mi
sento più tranquilla, strega che non sei altro» e scoppiò in una
risata liberatoria.
Immaginava che ad aspettarla ci fosse una sorta di agente 007
oppure un uomo di mezz’età con baffi e barba incolta, che
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l’avrebbe accolta in una penombra fumosa, per non farsi troppo
notare, sottoponendola immediatamente a un vero e proprio terzo
grado. Riconosceva di aver visto troppi film gialli, ma in ogni caso
non riusciva a vincere il disagio che provava all’idea di avere a che
fare con un’investigatore privato, uno che per mestiere mette il
naso negli affari altrui, persino quelli più intimi. Effettivamente si
trovò di fronte un uomo di mezza età, ma dall’aspetto simile in tutto
e per tutto a quello di un’impiegato di banca: rasato di fresco,
indossava giacca e cravatta e aveva un’aria molto cordiale.
Sempre stringendo la mano di Lella, che non aveva abbandonato
un attimo da quando erano entrate nel palazzo, cominciò infine a
rilassarsi. In fondo, pensava, niente poteva essere più terribile di
ciò che aveva passato in quegli anni.
Purtroppo si sbagliava.
L’investigatore non la sottopose a nessun interrogatorio, ma cercò
di comprendere le problematiche che l’avevano portata lì.
Solitamente si trovava di fronte a donne che cercavano di scoprire
se il marito avesse un’amante, ma la richiesta di Stella era ben
diversa e, come lui stesso affermò, molto più “intrigante”. Si trattava
di afferrare la reale identità di un uomo che possedeva più facce.
Disse a Stella che avrebbe fatto pedinare suo marito e che avrebbe
svolto indagini riguardo alle sue attività precedenti e attuali,
117
verificando dati come la dichiarazione dei redditi e le posizioni INPS
e INAIL.
Uscita dallo studio, si sentiva quasi rinfrancata.
Se davvero voleva la verità – e su questo non aveva più alcun
dubbio – quell’uomo era la sua unica possibilità.
Ma la verità che venne a galla si rivelò ben peggiore di quello che
era riuscita a immaginarsi.
«Signora», disse l’investigatore dopo una settimana di accurate
indagini. «Suo marito è completamente sconosciuto al fisco… Di
fatto risulta che non ha lavorato un solo giorno in vita sua!»
«Ma com’è possibile?» balbettò Stella. «E cosa fa tutto il giorno?»
«Frequenta biblioteche, bar, mercatini e negozi. Spesso passa ore
a leggere seduto in auto e cerca di rincasare ogni volta che è sicuro
che lei non ci sia. Ah, certo che con lei suo marito ha davvero
trovato l’America!» si lasciò scappare l’uomo, che fino allora aveva
mantenuto un’aria grave.
Stella non riusciva a capacitarsi della sua ingenuità.
Come aveva potuto credere a quello che il marito le aveva
raccontato negli anni? Soprattutto, com’era possibile che appena
qualche mese prima gli avesse affidato una cospicua somma di
denaro da investire per “un buon affare”, denaro che proveniva da
sua madre e che doveva servire per la ristrutturazione della nuova
casa! Come aveva fatto a credere che Giovanni facesse davvero il
118
promotore finanziario, convincendo le sue amiche a investire
denaro affidandosi a lui? Le fu chiaro che i soldi non sarebbero mai
più tornati indietro, ma non era quello il motivo per cui stava così
male.
Ciò che più la faceva soffrire era la sensazione di essere stata
ingannata per tanto tempo da un uomo che diceva di amarla, ma
che di fatto si stata rivelando uno sconosciuto.
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Capitolo 27
Quando Stella trovò il coraggio di dire a suo marito che l’aveva fatto
seguire e che conosceva tutta la verità, si trovavano in vacanza in
campagna, in una deliziosa casetta che sua madre aveva messo a
loro disposizione.
La villa era immersa nel verde delle colline canavesane, circondata
da splendidi vigneti dove si produceva l’Erbaluce, un vino bianco
frizzante e profumato, e possedeva anche una bella piscina dove i
bambini sguazzavano felici. Quel luogo conservava il ricordo di
tante belle serate e grigliate con gli amici. Quella sera avevano
deciso di cenare all’aperto, sotto il pergolato di glicini da cui si
godeva la vista sulle vigne e sul bosco di castagni e noci. Per
cucinare, avevano usato il barbecue. Dopo essersi saziati di
salsicce e spiedini, di cui erano ghiotti, i bambini iniziarono a
rincorrersi attorno al tavolo, riempiendo il silenzio con i loro strilli
acuti.
La serata era limpida e molto calda, i prati erano disseminati di
lucciole in amore che illuminavano il buio.
Stella non aveva quasi toccato cibo. Continuava a mordicchiarsi
una ciocca di capelli che si era portata all’angolo della bocca. Era
stranamente taciturna.
«Cos’hai stasera? Ti è morto il gatto?» la prendeva in giro
Giovanni. Anche quella sera aveva alzato il gomito. Negli ultimi
tempi accadeva spesso, e a nulla valevano le prediche della
moglie.
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«Smettila di prendermi in giro!»
Stella pronunciò la frase tutta di un fiato. Era l’unico modo per
riuscire a confessargli la verità.
«So tutto, ti ho fatto pedinare» continuò imperterrita, senza
guardarlo negli occhi.
«Mi hai fatto…. cosa?!» Suo marito la fulminò con lo sguardo.
In un attimo fu come se il suo corpo fosse posseduto dal demonio: i
suoi occhi s’incendiarono e cominciò a urlare di fronte ai bambini
spaventati.
«Io ti ammazzo! Ti faccio a pezzettini e li seppellisco nella terra, in
modo che vengano mangiati dai vermi e che nessuno li ritrovi mai
più!»
Le afferrò bruscamente il braccio destro, conficcandole le unghie
nella carne. Stella avrebbe voluto divincolarsi, ma la testa le girava
vorticosamente e le gambe le si erano fatte molli, incapaci di
sorreggerla.
«Lasciami! Ti prego!»
La sua voce suonava flebile, supplicante.
Ma il suo carnefice non aveva alcuna intenzione di mollare la
presa, anzi, stringeva sempre più forte. Ormai le dita della mano di
Stella erano diventate viola e sentiva uno strano formicolio risalire
su per il braccio. Il respiro si faceva sempre più superficiale, veloce.
Come in un incubo, in lontananza sentiva i bambini urlare disperati.
Per la paura si erano nascosti sotto il tavolo. Si accorse
121
confusamente che un rivolo liquido scorreva verso di lei: Elisa si
era fatta la pipì addosso. Stella chiuse istintivamente gli occhi
all’arrivo di un ceffone in pieno viso.
Sentì un dolore lancinante provenire dal labbro inferiore, fece
scorrere la lingua nella bocca e la sentì piena di sangue tiepido e
dolciastro. Nonostante il suo istinto le dicesse di restare ferma,
immobile, quella volta Stella reagì.
Giovanni aveva un alito pesantemente alcolico e se non si fosse
liberata l’avrebbe certamente uccisa. La sua sensazione di fine
imminente era netta e precisa.
Dalla sua gola uscì un suono gutturale altissimo. Con un
movimento rapido riuscì a liberare il braccio e con un calcio colpì i
testicoli di Giovanni. Mentre lui si accasciava a terra ululando,
Stella si avvicinò al cancello e lo spalancò con forza. Nemmeno lei
sapeva dove avesse preso la forza per compiere un gesto così
coraggioso. Mentre si allontanava velocemente, metà correndo,
metà incespicando, il suo corpo era come percorso come da una
scossa elettrica.
Dal petto, il dolore che la trafiggeva si irradiava fino alle mandibole.
Ma non poteva fermarsi, per nessun motivo al mondo. Sapeva che,
una volta che si fosse ripreso, Giovanni l’avrebbe rincorsa e non le
avrebbe dato tregua.
E per lei sarebbe stata la fine.
122
Protetta da un Dio di cui ormai metteva in dubbio l’esistenza, fuggì
attraverso le vigne che circondavano la casetta. Il suo cuore
batteva all’impazzata.
Devo salvarmi!, era l’unico pensiero sensato che riusciva a
formulare.
Temeva di veder sbucare Giovanni nel buio e, come in un film
dell’orrore, tenderle un agguato. Le sue gambe si muovevano da
sole, meccanicamente, in una corsa senza sosta, quando sentì
qualcosa che le avvolgeva la caviglia sinistra. Inciampò e ruzzolò a
terra, cercando invano un appiglio cui aggrapparsi.
Mi ha presa! Sono in trappola! Iniziò a piangere disperata prima di
accorgersi che si trattava di un cespuglio. Cercò di liberarsi, ma le
sue mani non rispondevano ai comandi.
Abbandonò la scarpa da ginnastica che indossava e riprese la
corsa. Doveva essersi presa una storta, perché la caviglia le
doleva. Ma il terrore le anestetizzava i sensi.
Infine, stremata, si nascose dietro un grande noce.
In lontananza udì un latrato di cani e di nuovo si sentì persa.
Mi ha trovata! Il bastardo mi ha trovata… È finita!
Le lacrime scendevano senza sosta, in un pianto senza rumore.
Restò immobile per un tempo che le sembrò infinito.
«Mamma! Dove sei? Torna a casa!»
123
Il pianto lontano dei suoi bambini la convinse che non poteva
rimanere tutta la notte nel bosco.
Ma che razza di madre sono, per lasciarli soli in una situazione del
genere?
Da sempre i sensi di colpa le provocavano la sensazione fisica di
un nodo alla gola che le impediva di respirare. Cominciò a tossire.
Doveva trovare un sistema per rientrare senza che lui se ne
accorgesse, così da poterli rassicurare e mettere a letto.
Si sfilò anche l’altra scarpa e, quatta quatta, riprese la strada del
ritorno, nel silenzio più assoluto. Arrivata davanti al cancello ancora
spalancato, si impose di respirare profondamente per ritrovare la
calma. La luce nel salone era accesa, così come la TV.
Lentamente Stella salì le scale e aprì la porta di casa. Si nascose
dietro una tenda.
Giovanni russava rumorosamente, sprofondato nel divano.
Evidentemente aveva rinunciato a inseguirla, immaginando che
presto o tardi sarebbe tornata. Conosceva bene sua moglie e i suoi
punti deboli. Per fortuna tutto l’alcol ingerito l’aveva fatto cadere in
un sonno profondo, quasi comatoso.
Stella sentì i muscoli rilassarsi e il cuore rallentare.
Il pianto dei bambini, che aveva avvertito così forte mentre si
trovava nel bosco, ora si era affievolito. Si diresse silenziosamente
verso la loro stanza. Giacomo, rannicchiato sotto il letto, le corse
incontro per abbracciarla. Aveva la fronte caldissima e continuava a
piagnucolare. Sembrava un gattino ferito.
124
Stella lo prese in braccio e lo zittì dolcemente: «Sss… Non
piangere più. La mamma è tornata e ora ti porta nel tuo lettino».
Mentre gli rimboccava le coperte, lo riempì di baci e carezze.
Elisa si era addormentata sul tappeto della cameretta, ancora
fradicia di pipì e pianto. Stella la sollevò dolcemente per non farla
svegliare. La cambiò e la sistemò sotto le coperte. Poi chiuse a
chiave la cameretta dei bimbi e decise che quella notte avrebbe
dormito con loro, sul tappeto. Voleva restare con i suoi bambini,
lontano dal mostro.
Prese un cuscino e si coprì con un lenzuolo azzurro decorato con
dei cagnolini. L’aveva scelto assieme a Giacomo, che se ne era
subito innamorato.
Afferrò la manina calda di suo figlio e iniziò a canticchiare una
cantilena. Sentiva male dappertutto e aveva una disperata voglia di
piangere, ma non poteva.
Soprattutto non doveva.
I suoi cuccioli avevano bisogno di una madre che li consolasse.
Pian piano crollò in un sonno profondo e agitato.
Come sua madre aveva previsto molti anni prima, quella sera Stella
finalmente si risvegliò e anche le ultime remore scivolarono via
dinanzi all’evidenza di quella situazione.
Anche volendo, vivere
nell’omertà come aveva fatto fino a quel momento non le sarebbe
più stato possibile.
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Per lungo tempo aveva sostenuto la parte della moglie e della
madre felice, rifiutandosi di raccontare ad anima viva i suoi
turbamenti per paura che il solo pronunciarli ad alta voce li
rendesse più reali.
Ma quella sera le minacce di Giovanni erano suonate così vere,
così profondamente sentite e cattive, che Stella all’improvviso si
trasformò in un fiume in piena e cominciò a raccontare a tutti,
parenti e amici, la sua verità.
Aveva paura, non voleva più restare sola con lui; ma come fare a
evitarlo, se aveva due figli a cui badare? Aveva bisogno che
qualcuno cercasse di parlargli, di farlo ragionare, riflettere, ma
nessuno era in grado di farlo.
Sempre più spesso suo marito si chiudeva in un inquieto mutismo e
aggrediva chiunque cercasse di avvicinarlo, cercando al contempo
di allontanarla da quegli amici che mostravano di volerla aiutare.
In sordina, senza la violenza di un tempo ma in maniera forse
ancor più subdola, cercava di costruire un recinto in cui segregare
sua moglie, un luogo dove nessuno potesse raggiungerla, in modo
da averla nuovamente in pugno, dipendente da lui e dai suoi umori.
Stella era solo sua, guai a chi avesse tentato di avvicinarla!
«Trovati un lavoro» gli ripeteva continuamente Stella, cercando di
far breccia nel buono che c’era in lui.
E doveva pur esserci qualcosa di buono in quell’uomo, pensava, se
lei l’aveva amato così tanto, così a lungo!
126
«Ti aiuterò io» gli prometteva ogni volta, nella voce un’egual dose
di esasperazione e dolcezza.
E ogni volta lui le rispondeva in maniera scocciata.
«Lavorerò solo quando troverò qualcosa che mi piaccia. Tu cerchi
di sminuirmi, proponendomi lavori umilianti!» borbottava, facendo
leva sul suo innato senso di colpa.
Fu allora che Stella cercò la complicità dei suoceri e del cognato,
trovandosi di fronte a una delusione altrettanto cocente.
Si rese conto infatti dell’omertà che regnava in quella famiglia,
colpevole quanto Giovanni di averle sempre mentito.
Tutti sapevano com’era davvero suo marito, c’erano stati
precedenti che nessuno le aveva mai raccontato.
L’investigatore era stato molto chiaro.
Le aveva fatto un elenco impressionante di cose che le erano
sempre state taciute.
La famiglia di Giovanni aveva formato una sorta di cordone di
protezione nei suoi confronti, difendendolo a spada tratta sempre e
comunque.
Come quando l’uomo, insieme alla sua ex moglie, aveva cercato di
compiere una rapina ai danni del Museo del Risorgimento,
portando via alcuni cimeli napoleonici.
Una sorta di impresa alla Bonnie e Clyde. Se l’erano cavata solo
grazie all’intervento del padre di Giovanni, che aveva pagato loro
l’avvocato, e a una provvidenziale amnistia.
127
L’investigatore le aveva raccontato anche che suo marito non
aveva mai terminato gli studi superiori.
Il padre aveva cercato di trovargli un impiego come assicuratore,
ma Giovanni aveva sottratto del denaro alla filiale in cui lavorava ed
era stato licenziato.
Da allora non aveva mai più avuto un lavoro fisso.
Ma come avevano potuto tacere anche con lei? Con la madre dei
loro nipoti? Stella non si dava pace. Provava un profondo disgusto
verso di loro.
Sì, forse era stata ingenua.
Avrebbe dovuto dare maggior peso ad alcune frasi che aveva
sentito pronunciare dal cognato.
«La storia si ripete sempre uguale…», oppure: «Non aiuterò mio
fratello a trovare un lavoro, perché ho una reputazione da
difendere».
Quelle frasi erano marchiate a fuoco nella memoria.
E pensare che lei aveva sempre provato pena per Giovanni, per
come era sempre stato ingiustamente considerato la pecora nera
dalla famiglia!
Sono stata una stupida! Stupida! Stupida!, si ripeteva invece ora,
senza riuscire a darsi pace per non aver dato importanza ai
numerosi segnali di pericolo.
Ma la delusione più grande gliela diede sua suocera, che Stella
aveva sempre considerato un’amica, una confidente; proprio lei,
infatti, le riversò tutte le colpe addosso, dandole dell’ingrata.
128
«In fondo mio figlio non ha mai lavorato per darti l’occasione di
emergere e di far carriera, e tu non gliene sei nemmeno
riconoscente!» le disse una sera per telefono, lasciandola in
silenzio per lo stupore e l’incredulità.
Quelle parole stroncarono sul nascere ogni possibile replica.
Cosa mai poteva dire a quella donna così ottusa, così cieca,
abituata a nascondere la testa sotto la sabbia pur di non vedere chi
era davvero suo figlio?
Ormai era chiaro che nella famiglia di Giovanni tutti sapevano, ma
ovviamente si erano ben guardati dal metterla in guardia. E ora che
la situazione era precipitata, la scaricavano come fosse stata un
vuoto a perdere, un oggetto che non serviva più.
129
Capitolo 28
Il vero problema è che Stella voleva ancora bene a suo marito e
l’idea di avviare un processo di separazione da lui le sembrava
impossibile. Ogni tanto faceva degli incubi in cui si immaginava
sola nel grande letto matrimoniale; si svegliava di botto, agitata e
madida di sudore, e ritrovarselo di fianco le procurava un sollievo
inimmaginabile. Iniziava vagamente a rendersi conto di mantenere
l’atteggiamento masochistico che aveva alimentato negli anni, ma
nonostante questa consapevolezza non riusciva a liberarsi da quel
giogo.
Suo marito aveva lavorato bene, convincendola della sua
inefficienza come donna e del fatto che, se lo avesse lasciato, non
avrebbe più trovato nessun altro che la amasse e desiderasse
vivere con lei. Da qualche tempo, poi, aveva anche cominciato a
mostrare segni d’insofferenza per la loro routine sessuale,
proponendole strani giochetti erotici.
In qualche occasione aveva voluto fotografarla in pose osé e
filmare i loro rapporti intimi. Stella non si era opposta, ma
cominciava a trovare quell’abitudine fastidiosa.
«Sei forse diventata lesbica?» insinuava lui con cattiveria. «Il sesso
non ti interessa più? O forse non sei più interessata a me? Stella,
dimmi la verità: hai un amante?»
130
Quell’idea era un’ossessione, glielo chiedeva di continuo.
Una sera le aveva proposto un gioco erotico con degli oggetti
acquistati in un sexy-shop.
«Ho voglia di provare sensazioni nuove, comincio ad annoiarmi.»
Dopo una giornata di lavoro Stella era stanca morta, ma non aveva
la forza di respingerlo. Temeva che lui, sentendosi rifiutato,
sarebbe andato su tutte le furie, e in quel caso non si poteva mai
sapere come sarebbe andata a finire.
Lo accontentò di malavoglia, senza guardarlo negli occhi.
Lui non se ne accorse nemmeno; stava armeggiando con il piccolo
telecomando che avrebbe dovuto mettere in moto un vibratore.
Stella se ne stava zitta a osservare la scena di cui a breve avrebbe
dovuto diventare la protagonista.
La sola vista di quell’oggetto la disgustava, e sentiva come un
groppo alla gola.
Cosa c’entra l’amore in tutto ciò?, si chiedeva, ingoiando le lacrime.
Dov’era finito il romanticismo dei primi tempi?
Infine Giovanni cominciò a manovrare quell’oggetto su di lei.
Come paralizzata, non riusciva a sentire nulla.
Era come se il suo cervello avesse disconnesso le terminazioni
nervose della parte inferiore del corpo. Più lui insisteva, sperando
di farla godere, più l’anestesia aumentava; più cercava di simulare,
più avvertiva il nulla.
Sperava solo che finisse il prima possibile.
131
Mentre suo marito armeggiava con il telecomando, aumentando
l’intensità della vibrazione, Stella osservava il soffitto senza riuscire
a trattenere uno sbadiglio.
Giovanni se ne accorse e andò su tutte le furie.
«Sei completamente frigida, senza fantasia! Come sempre sei una
delusione! O forse il tuo amante ti soddisfa più di me?»
Si alzò di scatto dal letto, si rivestì e uscì di casa sbattendo la porta.
Senza riuscire a smettere di piangere, Stella si chiuse in bagno e
fece una doccia. Mentre l’acqua lavava via le lacrime, strofinava
forte la spugna contro la pelle, cercando invano di cancellare le
tracce che le mani di suo marito le avevano impresso sul corpo.
Era stata usata, non c’era una briciola di amore in ciò che avevavo
fatto.
Da quella sera cercò in tutti i modi di evitare di avere rapporti con
Giovanni.
Arrivò a non sopportare neanche più la sua vicinanza.
Tutto ciò che in passato aveva amato, ora la infastidiva: la sua
presenza nel letto, le sue carezze, i baci. Persino il suo odore. Ogni
scusa era buona per non stargli vicino e non dover rivivere
l’umiliazione di quella sera.
132
Capitolo 29
Torino, 22 dicembre 2003
A Natale la scuola di Giacomo organizzò la classica recita con
annessa festicciola cui avrebbero partecipato i bambini assieme ai
genitori. Dopo la rappresentazione, le madri si erano intrattenute a
mangiare pasticcini e a chiacchierare tra di loro. Nel corridoio
dell’istituto si udiva l’allegro vocio dei bimbi che giocavano e si
rincorrevano.
«Sai, Stella, tuo marito mi ha convinto a investire del denaro in
azioni americane» le rivelò la madre di un compagno di scuola di
suo figlio.
Stella la conosceva bene, era una stimata commercialista, e nel
tempo erano diventate amiche.
«Mi ha promesso buoni guadagni. Non mi voglio lasciar fuggire
questa opportunità!» continuò allegramente, stropicciandosi i
boccoli biondi con le dita.
Un senso di nausea si impossessò di Stella. Si sentiva come una
nave in mezzo alla tempesta. Tutto le girava intorno, ma
improvvisamente tutto le era chiaro. Ecco come Giovanni riusciva a
far girare il denaro! Era una sorta di gioco delle tre carte: prendeva
a una vittima per poi restituire alle altre. Lo aveva fatto anche con
lei, sottraendole una cifra cospicua: cinquantamila euro! Che
cretina… come aveva potuto cadere nella trappola?
133
Un pensiero diabolico le balenò nella mente. Se quel colpo fosse
andato a segno, il marito le avrebbe restituito la somma che le
doveva.
Mors tua vita mea. Ma no, non poteva! Gli scrupoli e un atavico
senso del dovere le impedivano di fingere.
Le parole le uscirono di bocca come da un giradischi incantato,
senza controllo.
Si sentiva dominata dalla rabbia e dall’impotenza.
«Non ti far fregare» sbottò di colpo. «La speculazione che ti ha
proposto è un bluff. Lui non si occupa realmente d’investimenti
finanziari. In realtà imbroglia la gente: ha raggirato anche me.
Cerca di prendere soldi da qualche sprovveduto per poi saldare i
debiti che ha contratto con gli altri. Non so esattamente cosa faccia
del denaro quando ne è possesso, forse gioca, e se gli va bene
qualche soldo gli rimane in tasca…»
L’ amica la guardava sbalordita.
Si conoscevano da anni, e mai avrebbe immaginato che Giovanni
fosse un imbroglione. Stella avvertì come un senso di liberazione.
Forse il vino che aveva bevuto aveva sciolto i suoi freni inibitori. In
vino veritas.
Sapeva che quel suo bisogno di onestà le sarebbe costato caro.
Non solo i soldi che le spettavano non le sarebbero mai tornati
indietro, ma Giovanni si sarebbe arrabbiato con lei.
Temeva le sue rabbie improvvise e incontrollate, sapeva bene
quanto potevano essere violente.
134
Da qualche tempo aveva notato che in casa erano spariti diversi
oggetti di valore: un paio di cappotti di pelle che le aveva regalato
sua madre per il compleanno, un collo di pelliccia appartenuto alla
nonna materna, un cameo d’avorio raffigurante una donna e un
oggetto di antiquariato che proveniva da una zia morta tanti anni
prima, cui Stella era stata molto legata.
Quella sera rincasarono a tarda ora, stanchi morti.
Messi a dormire i bambini, iniziò l’ennesimo litigio.
«Devi restituirmi quei soldi!»
Non era la prima volta che Stella chiedeva al marito la restituzione
del denaro, ma quella sera il suo tono di voce era più risoluto del
solito. Le mani le prudevano, avvertiva la voglia impellente di
strozzarlo. Si sentiva, ancora una volta, presa in giro. Nonostante le
tante promesse di cambiamento, nonostante il matrimonio,
nonostante i bambini. Com’era possibile che non si decidesse a
mettere la testa a posto?
«Ti restituirò il denaro, dal momento che è l’unica cosa di cui ti
importa!».
Ovviamente cercava di farla sentire in colpa.
«Ecco qua!»
Giovanni le lanciò con stizza un pezzo di carta stropicciato. Si
trattava di un assegno post-datato.
«Lo vedi come sei venale? Ti interessano soltanto i soldi!»
Il suo tono era sprezzante, come se parlasse a un verme.
135
Ma quella volta Stella resistette ai sensi di colpa, alla voglia
traditrice di abbracciarlo e chiedergli scusa per non aver avuto
fiducia in lui. Con una scusa scese nello studiolo e fece una
fotocopia dell’assegno.
Quindi si mise cercare le chiavi della cassaforte per riporre
l’assegno in attesa che divenisse incassabile, ma non ci fu nulla da
fare: erano come sparite nel nulla.
Eppure era certa di averle riposte nel solito cassetto!
Era ormai a notte fonda e lei continuava a rovistare nonostante
fosse sfinita dall’ora tarda, cui si univa la sconsolante prospettiva
del turno di lavoro di dodici ore che l’aspettava il giorno seguente.
Giovanni, stanco del rumore e desiderando riposare, si dimostrò
insolitamente remissivo e le fece una promessa.
«Domattina te le cerco io le chiavi… Vedrai che le troverò. Ora
vieni a dormire».
Accettò l’offerta, ma quelle parole le provocarono un intenso senso
d’inquietudine. Quella vaga premonizione non la abbandonò un
attimo neanche il giorno successivo.
Quando infine rientrò a casa, quasi investì il marito.
«Hai trovato le chiavi?».
Il suo istinto le urlava che non doveva fidarsi.
«Ma certo tesoro, sei la solita pasticciona… Erano cadute a terra.
Eccole!» rispose lui con un sorriso che la fece rabbrividire. Non
aveva niente di diverso dai soliti, dolci sorrisi che le dispensava
136
quando la trattava con condiscendenza, come un’adorabile
incapace, ma quella volta le ricordò un serpente a sonagli.
Lo sgabuzzino nel quale tenevano la cassaforte era tutto in
disordine. Stella si sentiva sempre più nervosa, il suo istinto le
diceva che qualcosa non andava e l’ansia le faceva battere il cuore
a mille.
In quei giorni i presagi più terribili si susseguivano senza darle
tregua, ormai non avrebbe più saputo dire se fossero fondati o solo
frutto della sua immensa paura.
Afferrò le chiavi e le infilò nella serratura della cassaforte con le
mani che tremavano. Per un attimo rimase stupita nel trovare i
contenitori in cui riponeva i gioielli perfettamente sistemati, allineati
in file ordinate. Ma continuava a sentirsi a disagio, per cui prese i
contenitori e li aprì uno a uno.
Sbiancò e quasi svenne quando si accorse che erano praticamente
vuoti. Era rimasta solo la bigiotteria: dei gioielli non vi era più
alcuna traccia! Le gioie di famiglia, la collana di perle che l’adorata
nonna le aveva regalato per la laurea e che era il suo
portafortuna… tutti i suoi ricordi, spariti!
La rabbia montò all’improvviso, e anche volendo questa volta non
sarebbe riuscita a trattenerla. Uscì dallo sgabuzzino. Non si sentiva
più padrona delle sue emozioni. La voce le usciva fuori senza
controllo. Urlava e piangeva.
137
«Ladro! Ladro! Vattene via da qui! Non voglio vivere con un ladro!».
Quelle urla ebbero il potere di allarmare Giovanni, che non perse
tempo. Cominciò a frugare freneticamente nella borsetta di Stella
alla ricerca dell’assegno, lo trovò e lo ridusse in mille pezzettini.
A stento Stella riuscì a telefonare a sua madre.
In lacrime, quasi non riusciva a distinguere i tasti che spingeva. La
guidò l’istinto, che non la abbandonava mai e che troppe volte si
era rifiutata di ascoltare.
«Mamma, aiutami! Sono in pericolo! Aiuto!»
Giovanni le piombò addosso come una belva. In lontananza, udiva
la voce di sua madre che imprecando le chiedeva cosa stesse
succedendo. Poi più nulla. Giovanni le strappò di mano il
telefonino, tolse la batteria e strappò i fili del telefono fisso. Infine
prese le chiavi di casa e chiuse a doppia mandata il portone
blindato d’ingresso, in modo che Stella non potesse uscire né
chiedere aiuto. Era in trappola.
In un attimo, come un ciclone, fu sopra di lei e la sbatté a terra,
afferrandola per i capelli. Poi cominciò a colpirla con ferocia, colpi
su colpi sul corpo, evitando accuratamente il viso. Il volto del marito
appariva trasfigurato, come in preda ad un raptus di follia.
Stella si mise a urlare forte.
Sentiva i bambini, usciti dalle loro stanze in seguito al trambusto,
piangere disperatamente.
138
Li supplicava: «Per favore! Andate a chiedere aiuto!», ma loro non
riuscivano a muoversi. Erano come impietriti dal terrore.
Giovanni cercava di metterle una mano davanti alla bocca, in modo
da impedirle di parlare o di urlare. Stella si sentì soffocare e
credette che sarebbe morta così, senza aria per respirare. Infine lui
cominciò a sussurrarle, come un serpente che sibila: «Stai zitta,
smettila, smettila, che spaventi i bambini…».
Allora capì che se avesse continuato a dimenarsi avrebbe solo
peggiorato le cose.
Ebbe paura, una paura agghiacciante, che la paralizzava.
Il suo istinto di sopravvivenza le suggerì una tecnica già utilizzata:
smise di muoversi e di parlare, come se fosse morta o svenuta, in
modo che pian piano Giovanni si calmasse e mollasse la presa.
Funzionava sempre.
Dopo un po’, infatti, suo marito si rilassò e la lasciò libera.
Dolorante e piena di lividi, ma libera.
Si allontanò da lei, dirigendosi verso salone, e nel tragitto si accese
meccanicamente una sigaretta.
Quando Stella trovò la forza di alzarsi da terra, come un automa
andò in bagno a lavarsi il viso dalle lacrime e dal mascara che si
era sciolto sulle guance, rendendola una maschera grottesca.
Quindi cercò di calmare i bambini, li mise a letto e cercò la chiave
di scorta con cui andare ad aprire il portone d’ingresso. Fece tutte
queste azioni, ma in seguito non avrebbe ricordato di averle fatte:
139
agiva come in trance, guidata dal buon senso e dall’abitudine a
sistemare tutto, cercando di dare una parvenza di normalità anche
quando di normalità non ve n’era alcuna traccia.
Nel frattempo Giovanni si era tranquillizzato.
Seduto sul divano, guardava un programma alla televisione, come
se nulla fosse. Era un cliché cui Stella era abituata. La quiete dopo
la tempesta.
Da quando aveva chiesto aiuto era passato un tempo che le
sembrava infinito; nel frattempo avrebbe anche potuto essere
morta. Finalmente suonò il campanello.
Erano sua madre e sua zia.
Allarmate dalla telefonata, avevano deciso di andare a vedere cosa
stesse succedendo. Quando la videro, livida ma viva, la
abbracciarono e tirarono un sospiro di sollievo.
«Grazie a Dio siete arrivate voi! Ho avuto paura di morire!» disse
Stella, piangendo suo malgrado.
Solo quando sua madre la strinse forte si rese conto che stava
tremando violentemente.
Venti minuti più tardi arrivò anche la pattuglia di carabinieri che sua
madre aveva chiamato prima di uscire di casa.
Apparentemente tutto sembrava rientrato nella normalità, ma
dentro di lei si era scatenato un inferno.
Raccolse tutta la lucidità che possedeva e raccontò l’accaduto per
filo e per segno, mostrando ai carabinieri sia la fotocopia
dell’assegno che i fili del telefono strappati.
140
Con fare sarcastico, quasi distaccato, Giovanni continuava a
negare l’accaduto.
«Mia moglie ha dei seri problemi psichici, si sta inventando tutto…
Purtroppo ultimamente sta peggiorando!», la derideva.
Accecata dalla rabbia, Stella gli si avvicinò come un lampo e senza
dargli il tempo di reagire infilò le mani nelle tasche dei suoi
pantaloni, dove sapeva che aveva nascosto la batteria del suo
telefonino. La mostrò agli agenti.
«Ah, sì? Mi invento tutto? E questa che cos’è, perché si trova nelle
tue tasche?» urlò con tutta la voce che aveva in gola.
Giovanni non l’avrebbe avuta vinta, non quella volta. Di fronte
all’evidenza, i carabinieri chiesero a Giovanni di andarsene di casa.
«Non finirà così!» le urlò Giovanni mentre veniva allontanato con la
forza dalla casa.
Stella avvertì come una scossa elettrica percorrerle la spina
dorsale: sapeva che Giovanni non minacciava mai a vanvera.
Quindi gli agenti la accompagnarono al pronto soccorso, dove
raccolsero la sua denuncia. La serata era tiepida e migliaia di stelle
brillavano in un cielo senza nuvole, che per l’indomani lasciava
presagire una splendida giornata di sole. Le strade pullulavano di
coppiette felici che si scambiavano effusioni, mentre il cuore di
Stella andava in frantumi.
141
142
Capitolo 30
Nei giorni successivi a quel violento litigio, Giovanni cercò di
contattarla per chiederle scusa. Mostrò una dolcezza che da tempo
non si dava più la pena di simulare, arrivando addirittura a seguirla
per strada per urlarle il suo amore e a mettersi in ginocchio davanti
a lei perché lo perdonasse.
Il solito clichè, insomma, cui Stella finalmente non credeva più.
Aveva vissuto quella scena troppe volte, e proprio da quel passato
fatto di moine e finti pentimenti trasse la freddezza necessaria per
comportarsi in maniera astuta, sfruttando quella situazione a suo
vantaggio.
«Se davvero mi ami e sei disposto a tutto per tornare con me»
disse al marito, «consegnami le ricevute di deposito dei gioielli al
Monte dei Pegni.»
«E va bene, te le darò» disse lui, ammettendo così di aver
impegnato i gioielli.
Vergognandosi come una ladra, Stella andò all’istituto di credito per
recuperare a sue spese almeno una parte dei beni di famiglia. Quel
posto la faceva sentire a disagio.
Circondata da loschi figuri e sventurati che impegnavano fino
all’ultimo quattrino, sentiva che la sua dignità di onesta lavoratrice
143
era offesa dal solo pensiero di avere qualcosa a che fare con quella
gente, seppur indirettamente.
Non riuscì a togliersi gli occhiali da sole neanche quando, arrivato il
suo turno, le chiesero i documenti.
«Quale dei due lotti vuole riscattare, signora?» le chiese
l’impiegato.
«Come, prego?»
Il suo viso si fece ancora più pallido quando venne a sapere che
c’era un’altro lotto impegnato, quello contenente i gioielli e le
pellicce della madre di Giovanni.
Le sembrò giusto avvertire suo cognato, che nonostante la
partentela non si trattenne dall’esprimere tutto il suo disgusto per il
fratello, che “non cambiava mai”.
Le sue speranze che l’incubo fosse finito, però, si rivelarono vane.
Dopo qualche giorno di falsa bontà, Giovanni cominciò a
minacciarla.
«Lo sai che tu, a tutti gli effetti, sei ancora mia moglie? Sei
obbligata a riprendermi in casa, e guai a te se per caso in questi
giorni hai cambiato la serratura!»
Effettivamente Stella l’aveva fatto. Non poteva rischiare di ritrovarsi
quell’uomo in casa da un momento all’altro.
«Potrei anche denunciarti, lo sai?»
144
Incredula e spaventata a morte, si rivolse a un legale e scoprì che
purtroppo, non essendo separati, ciò era vero.
La legge le imponeva riaccogliere in casa il suo aguzzino!
Colui che l’aveva raggirata e picchiata, colui che l’aveva derubata
della fiducia e di tutte le speranze di ragazza innamorata
dell’amore. Fu così costretta a prepararsi al rientro del marito, ma
chiese alla madre di trasferirsi momentaneamente a casa loro: non
era tranquilla, e purtroppo non c’era istituzione che potesse
proteggerla.
Gli unici a essere contenti del rientro di Giovanni erano,
ovviamente, i bambini. Fu proprio a loro che lui si rivolse non
appena ebbe varcato la soglia di casa.
«Non succederà più che io me ne vada da questa casa. Rimarrò
per sempre con voi!»
Mentre parlava, fissava Stella con uno sguardo diabolico, come se
intendesse suggellare una minaccia inestinguibile.
Quando ebbe l’occasione di rimanere da solo con lei, la minaccia
divenne ancora più esplicita.
«Se cercherai di divorziare da me, ti porterò via tutto: la casa, i
bambini… Ti denuncerò alla guardia di finanza, ti rovinerò. Sarai
costretta a passarmi dei soldi, a mantenermi per tutta la vita! Non ti
conviene. Altrimenti la nostra storia finirà come La guerra dei
Roses, ricordi? Nel sangue!»
145
Stella iniziò a dormire con il portafoglio e il telefono sotto il cuscino.
Si metteva a letto molto presto, ma temeva il momento in cui
quell’uomo le si sarebbe addormentato affianco. La cosa più
terribile era che lui non aveva alcun ritegno e continuava a cercarla
sessualmente, mentre lei ormai provava solo un infinito disprezzo.
146
Capitolo 31
Torino, settembre 2004
Trascorsero mesi terribili, in cui Giovanni non si faceva più alcuno
scrupolo nel farsi mantenere, arrivando persino a farsi pagare una
vacanza all’isola d’Elba.
Nel mese di settembre, Stella infine si decise.
Non ne poteva più di un marito che si comportava da eterno
adolescente. Era arrivata persino a proporgli di badare alla casa e
ai figli, ma lui le aveva risposto con sdegno che quell’occupazione
l’avrebbe fatto sentire umiliato.
Così, in un piovoso pomeriggio di metà settembre, Stella firmò la
separazione. Non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbero
passati così tanti mesi prima che il tribunale prendesse in
considerazione la sua richiesta.
Quando lo comunicò a Giovanni, la sua reazione fu del tutto
inaspettata. Era preparata al comportamento violento cui lui l’aveva
abituata
negli
anni;
stavolta
invece
Giovanni
si
disperò,
cominciando a piangere anche di fronte ai bambini.
Disse che aveva già un progetto lavorativo in testa e che Stella non
poteva mollarlo proprio adesso.
«Quale progetto?» chiese lei, stupita.
147
«Voglio
aprire
un’enogastronomia
in
cui
vendere
prodotti
provenienti dagli Stati Uniti, tipo carne di coccodrillo.»
Insomma, un’idea geniale! Perché la moglie voleva lasciarlo proprio
adesso? Cambiavano i modi, ma non la sostanza del loro rapporto:
come sempre quando la violenza non sortiva l’effetto desiderato, lui
cercava di farla sentire in colpa.
Chiamò i bambini e descrisse loro la sua avventura con dovizia di
particolari, quasi fosse stato l’eroe di un romanzo, ingigantendo le
“gesta eroiche” che avrebbe compiuto in questa fantomatica
enogastronomia e convincendoli che sarebbe diventato ricchissimo.
Riuscì persino a trovare un locale in pieno centro storico dove,
senza
denaro,
senza
capacità
e
senza
permessi,
iniziò
un’avventura chiaramente destinata al fallimento.
Una sera Stella, che ormai perquisiva regolarmente il borsello del
marito, trovò alcuni cd rom inseriti in custodie che recavano
un’etichetta con su scritto: “Santa Maria”.
Pensando si trattasse di filmati girati nel paesino in cui erano soliti
trascorrere le vacanze estive, li inserì nel computer per dargli
un’occhiata. Fu così che fece una scoperta agghiacciante: i cd
contenevano fotografie pornografiche sulle quali Giovanni aveva
effettuato dei fotomontaggi, unendo il suo viso al corpo delle
pornostar in azione! Stella si spaventò moltissimo: cosa significava
148
tutto ciò? Cosa aveva in mente Giovanni? Voleva forse diffonderle
su Internet, per poi dimostrare che sua moglie era una poco di
buono? Decise di farle sparire, e con l’aiuto di un’amica fece
pervenire i cd all’avvocato perché potesse utilizzarli in vista del
dibattimento.
Quando Giovanni si accorse che qualcuno gli aveva sottratto i cd,
reagì con un violento impulso di panico e collera.
«Li ho presi io» confessò Stella.
«Perché? Perché l’hai fatto?», balbettò, ancora incredula e con la
voce che le tremava.
Questa volta temeva seriamente per la sua incolumità.
«Ma, amore, non hai capito che io ti ho sempre nei miei pensieri?
Dovresti essere orgogliosa di avere un marito che ti ama così
tanto!» rispose lui, cercando invano di prenderla tra le braccia.
Ma ormai lei non lo stava nemmeno a sentire.
Ogni volta che ce l’aveva accanto doveva lottare contro un forte
disgusto e l’insopprimibile voglia di scappare il più lontano
possibile.
Ciò che più la faceva soffrire, però, era la paura di non essere mai
stata davvero amata.
149
Capitolo 32
Torino, 30 novembre 2004
Stella stava sparecchiando la tavola quando squillò il telefono fisso.
Che strano! A quell’ora – erano le 22:00 passate – non telefonava
mai nessuno.
Quasi inciampò nel tentativo di raggiungere l’apparecchio il più in
fretta possibile. Si trattava di un vecchio telefono a gettoni,
comprato da un rigattiere per poche lire.
Quando afferrò la cornetta, sentì una voce rotta dal pianto. Era sua
madre. Non riusciva a capire cosa stesse dicendo.
«Stella, vieni subito in paese! Per favore, corri!» furono le sole
parole che riuscì a comprendere.
Subito agganciò la cornetta.
Si assicurò che i bambini stessero dormendo e in tutta fretta, senza
quasi degnarlo di uno sguardo, disse a suo marito che doveva
uscire. Giovanni, sprofondato nel sofà, i piedi sul tavolino, la TV
accesa, le rispose con uno sbadiglio: «A quest’ora?».
«Dev’essere successo qualcosa di grave! Ti farò sapere» replicò
seccamente lei.
150
Al silos, attese per un tempo che le sembrò interminabile che quel
maledetto ascensore si decidesse a consegnarle l’automobile. Vi
salì e come un missile si diresse verso l’autostrada, incurante dei
semafori rossi. Il freddo di quella notte era pungente, le penetrava
nelle ossa, facendole battere i denti. Accese a manetta il
riscaldamento, ma dopo qualche minuto fu costretta a fermarsi a un
distributore automatico per fare benzina.
Quando tolse la pompa dal serbatoio e si bagnò un lembo del
cappotto con la benzina che ancora scorreva, maledisse con tutte
le sue forze l’inventore di quegli strani congegni, il cui corretto
funzionamento per lei restava un mistero.
Poi via, velocissima, sull’autostrada.
La nebbia le creava difficoltà nella visione, ma lei conosceva la
strada a memoria. Si diresse a casa della madre, dove ad
aspettarla c’era un vicino che le disse di recarsi in fretta a casa
della nonna. Quando arrivò trovò il cancello spalancato, le luci
accese e una sfilza di automobili parcheggiate.
Allora capì.
Percorse lentamente le scale che portavano alla camera da letto e
lì la vide. Era morta.
La sua adorata nonna non c’era più!
Si avvicinò al letto piangendo e la abbracciò come aveva fatto tante
volte da bambina. Il suo corpo era ancora caldo, ma questa volta la
151
nonna non poteva rispondere all’abbraccio, non poteva consolarla
in alcun modo.
«Perché proprio adesso?» si disperò Stella.
Si sentiva tradita da Dio e da lei, perché l’aveva abbandonata
quando ancora avrebbe avuto bisogno dei suoi saggi consigli.
«Ti prego, nonna, adesso che sei lassù, veglia su di me e sui miei
bambini!»
Sapeva che la strada per la separazione era ancora lunga, irta di
difficoltà, e si augurava che la nonna potesse continuare ad aiutarla
come suo angelo custode.
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Capitolo 33
Torino, 22 febbraio 2005
I tempi della separazione si avvicinavano, ma alla prima udienza
Giovanni non si presentò.
Gli diedero quarantacinque giorni di tempo per lasciare la casa
coniugale, ma lui finse fino all’ultimo che non stesse succedendo
nulla, continuando a comportarsi normalmente.
Solo l’intervento dell’ufficiale giudiziario riuscì a convincerlo ad
andarsene definitivamente. La sera precedente all’intimazione
dell’ufficiale, dopo aver intavolato una scenata drammatica di fronte
ai figli, una volta al riparo da occhi indiscreti lui pretese ancora di
fare l’amore con Stella.
«Tu non ti rendi conto di cosa stai perdendo! Stai distruggendo una
famiglia, lo capisci? Stai rovinando la vita di un uomo che ti ama
immensamente e l’infanzia dei nostri figli! Quando rimarrai sola te
ne pentirai, ma ormai sarà troppo tardi!» le diceva, afferrandole le
mani e rovesciandole la testa all’indietro nel tentativo di baciarla.
Stella sperava solo che facesse in fretta.
Finito di sfogare i suoi istinti, prese i suoi pochi stracci e verso
mezzanotte finalmente se ne andò.
Stella tirò un sospiro di sollievo.
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154
Capitolo 34
Torino, maggio 2005
Nei primi tempi dopo la separazione, Giovanni andò a vivere nel
locale commerciale che aveva messo in piedi in città e che dopo
neanche un mese dall’apertura era miseramente fallito. Per circa
un mese non si era fatto più sentire né vedere, né da lei, né dai loro
figli.
Stella era sollevata da questa lontananza, ma sentiva che i bambini
soffrivano un distacco di cui non avevano compreso fino in fondo il
motivo. Un pomeriggio, senza alcun preavviso, Giovanni suonò al
citofono.
Nel sentire la sua voce, cominciò a sudare freddo.
«Cosa vuoi?» gli chiese sottovoce, cercando di non farsi udire dai
bambini.
«Voglio che i ragazzi scendano. Li voglio portare con me, come
previsto dal giudice.»
Cercò inutilmente di ribattere.
«Non puoi presentarti così, all’improvviso, senza avvisare. Potevi
almeno telefonarmi!»
155
«Falli scendere immediatamente» sibilò lui con voce ferma.
«Oppure chiamo la polizia e li faccio venire a prendere da loro.»
Spaventata da quella minaccia, Stella chiamò i figli, che in quel
momento erano impegnati in un gioco di società, e fingendosi
calma e tranquilla li aiutò a preparare uno zaino con qualche
vestito, spiegando loro che sarebbero stati qualche giorno lontani
da casa, con il papà.
Straniti ma contenti, Giamomo ed Elisa si prepararono e scesero,
dando alla mamma un bacio di saluto.
Stella li accompagnò all’ascensore, poi chiuse la porta e pianse a
lungo: era la prima volta che si trovava da sola in quella casa, e
dovette lottare contro la triste percezione che la sua vita
all’improvviso si fosse come svuotata, perdendo significato. Non
poteva opporsi alla sentenza del giudice, ma sperava che quando li
teneva in custodia, non possedendo una casa propria, Giovanni
portasse i bambini dai nonni.
Invece, come Stella ebbe presto modo di scoprire, teneva i ragazzi
nello scantinato del suo ex negozio.
Si trattava di un locale a due piani, senza riscaldamento e con un
bagno che sembrava una latrina, tanto era umido e sporco. In più
c’erano i criceti che Giovanni aveva comperato ai figli come animali
da compagnia, i quali venivano tenuti liberi e prolificavano a
dismisura, contribuendo ad aumentare la sporcizia del locale.
Stella fece seguire la situazione da un investigatore privato che
potesse fornire delle testimonianze in merito alle condizioni in cui
156
venivano tenuti i ragazzi, poi presentò la relazione al giudice,
affinché prendesse posizione.
Si appellò anche agli assistenti sociali perché impedissero che dei
bambini vivessero in un ambiente così insalubre, senza neanche
un impianto di riscaldamento, ma nessuno fece nulla. Come spesso
accade, bisognò attendere la tragedia prima che qualcuno
intervenisse. Un pomeriggio, mentre era di turno, Stella ricevette la
telefonata
del
marito
che
la
implorava
di
raggiungerlo
immediatamente all’ospedale in cui aveva portato d’urgenza
Giacomo.
«Ha fatto un salto da un muretto di mezzo metro» le disse,
concitato. «Stava giocando con gli altri bambini… Poi si è
accasciato al suolo con il ginocchio dolorante: da quel momento
non è più riuscito a muoverlo.»
Stella si innervosì moltissimo quando scoprì che anziché chiamare
un taxi, un’ambulanza oppure la moglie, Giovanni aveva caricato
Giacomo sulla canna della bicicletta e l’aveva portato in ospedale
attraversando l’intera città, con Elisa che li seguiva sulla sua
biciclettina.
Dovette fare uno sforzo enorme per mantenere la calma.
Sapeva che suo marito aveva volutamente evitato di portare il figlio
nell’ospedale in cui lavorava lei, avvertendola solo a cose fatte,
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quando ormai, dato che la gamba di Giacomo era stata ingessata,
era impossibile riportarlo a casa.
Il peggio però doveva ancora venire.
Una volta, infatti, il bambino fu lasciato solo nello scantinato del
negozio per circa due ore, quando all’improvviso cominciò ad
accusare un forte dolore addominale.
Chiamò la madre al telefono, disperato.
«Vieni subito, mamma, la pancia mi fa malissimo… vomito e papà
non c’è, sono solo!»
«Non piangere, Giacomo, arrivo subito!» disse Stella, che in quel
momento stava facendo la spesa in un supermercato di periferia.
Pigiò senza pietà l’accelleratore, rischiando una multa per eccesso
di velocità e superando almeno tre semafori rossi con la sua Panda
gialla 4X4, che in mezzo al traffico di certo non passava
inosservata.
Ma fu proprio grazie alla sua tempestività che potè constatare la
gravità della situazione e portare di corsa il figlio all’ospedale.
«Appendicite acuta» diagnosticò il chirurgo con aria grave.
Nell’arco di mezz’ora, Giacomo venne portato in sala operatoria per
l’intervento chirurgico d’urgenza che gli avrebbe salvato la vita.
Ai giudici e agli assistenti sociali di tutto questo sembrava non
importare nulla; in fondo loro avevano casi ben più seri di cui
occuparsi, dai figli degli zingari a quelli di tossicodipendenti o
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delinquenti: era questo ciò che Stella si sentiva ripetere. Fu la
provvidenza – o destino che dir si voglia – a mettere fine a quella
terribile situazione.
In maggio, dopo che per ben sei mesi i bambini erano stati costretti
a una vita da barboni, il padrone del negozio riuscì a ottenere lo
sfratto esecutivo e Giovanni fu letteralmente sbattuto fuori dal
locale.
Fu così obbligato a far ritorno a casa dei genitori.
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Capitolo 35
Dopo la separazione, Stella si era trasformata.
Era come se avesse scoperchiato un vaso di Pandora e fatto
emergere tutta la rabbia repressa per le ingiustizie e i
maltrattamenti subiti negli anni. Aveva perciò trovato la forza di
denunciare l’ex-marito, vincendo la paura che l’aveva bloccata
durante il matrimonio.
Seppur lentamente, anche la giustizia cominciò a fare il suo corso.
Iniziarono i procedimenti penali a carico di Giovanni, ai quali lui
regolarmente non si presentava. Veniva condannato, ma poi, vuoi
per via della fedina penale intonsa, vuoi per le varie indulgenze di
cui secondo la legge italiana godeva, non gli succedeva mai nulla
di concreto.
Anzi, la sua rabbia e il suo desiderio di vendetta aumentavano a
dismusura, e lui li metteva in atto con una ferocia ormai priva di
scrupoli etici.
Anzitutto applicava le disposizioni del giudice a suo piacimento,
tenendosi i ragazzi quando gli faceva comodo e non riportandoli
mai a casa nei tempi stabiliti.
«La mamma è cattiva» ripeteva loro ogni volta che li aveva in
custodia. «Io la amo e lei non mi vuole. Mi ha cacciato di casa e ora
io non posso più stare con voi!» ripeteva, atteggiandosi a vittima.
«La mamma non mi vuole più perché vuole stare con altri uomini»
insinuava.
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Ogni uomo che le si avvicinava doveva per forza essere un suo
amante. Queste illazioni innervosivano i ragazzi a tal punto che per
Stella era sempre più difficile gestirli, e intaccavano la stima e il
rispetto che i figli avrebbero dovuto portarle. Spesso la aspettava
nelle vicinanze del posto in cui aveva parcheggiato l’auto o andava
a cercarla al lavoro, in ospedale; a volte le faceva recapitare mazzi
di rose rosse, salvo poi riempirla di insulti appena riusciva a
parlarle.
Un pomeriggio Stella stava camminando sovrappensiero.
Rifletteva su cosa acquistare per cena, e non si accorse della sua
presenza. Con il telecomando aprì l’automobile parcheggiata a
diversi metri di distanza.
Quando salì e si ritrovò Giovanni seduto accanto a sé, urlò dallo
spavento. Fu come trovarsi di colpo catapultata in un film horror del
quale era l’ignara protagonista.
«Che ci fai nella mia auto?» urlò con tutto il fiato che aveva.
Il cuore le era balzato in gola.
«Voglio baciarti» disse lui, senza indugio.
In quel momento si accorse con terrore che le portiere dell’auto
erano chiuse e che non sarebbe riuscita a scappare dal suo
aguzzino. Miracolosamente ruscì ad aprire uno spiraglio nel
finestrino e cominciò a urlare con tutto il fiato che aveva in gola.
«Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»
Due anziani, allarmati, intervennero prontamente, minacciando
Giovanni.
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«Se non lascia in pace quella donna, chiamiamo le forze
dell’ordine!» gli intimarono.
Lui la lasciò andare con uno strattone, ma prima di scendere
dall’auto le sibilò: «Non finisce così…».
Fuggì sgommando, terrorizzata.
Il senso di orrore e paura non l’abbandonò nemmeno una volta che
fu al sicuro dentro casa, protetta dalla porta blindata e da un
sofisticato sistema d’allarme.
Sapeva che Giovanni non minacciava mai a vuoto, e che presto o
tardi gliel’avrebbe fatta pagare cara.
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Capitolo 36
Torino, 24 settembre 2005
Quella sera Stella aveva deciso di portare i bambini a mangiare la
pizza, il loro cibo preferito, per far sì che si distendessero un po’.
Ne avevano bisogno, considerando la tensione continua nella quale
erano costretti a vivere.
Con loro c’era anche Sofia, la preziosa tata che ormai per lei era
un’amica. Usciti dal ristorante, avevano deciso di fare una
passeggiata per le vie del centro, soffermandosi di tanto in tanto a
guardare le vetrine dei negozi. I bambini correvano, gareggiando
tra di loro. La serata era tiepida, il cielo terso, e anche lei finalmente
riusciva a rilassarsi un po’.
All’improvviso il cellulare squillò nella borsa.
Cominciò a frugare ovunque, maledicendo le troppe chincaglierie
che le impedivano di raggiungerlo in fretta.
Ogni traccia di serenità era scomparsa: magari era solo un
problema di lavoro, ma lei viveva costantemente con l’asia
addosso. Finalmente riuscì a rispondere.
«Ciao cara, sono Dani» rispose in tono mesto una sua cara amica,
madre di una compagna di scuola di Elisa.
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«Volevo avvertirti che ho ricevuto una mail da Giovanni. Ho
preferito non leggerla, ma te la inoltro.»
Non poteva fare altrimenti: obbligò i bambini a un immediato rientro
a casa e si precipitò al computer. Con le mani che le tremavano
accese l’apparecchio e attese per un tempo che le sembrò infinito,
maledicendo quella vecchia carcassa e la connessione internet che
quando serviva era più lenta che mai. Quando lesse i contenuti
della mail, si sentì morire.
Cara Dani,
Nella certezza che Stella ti abbia lungamente intrattenuta sulle mie
gravissime “colpe” nelle vicende relative alla nostra separazione,
ma abbia dimenticato di aggiungere alcuni fatti importanti, provvedo
a colmare questa lacuna. Ritengo che ciò sia necessario,
soprattutto in considerazione del fatto che tu hai una bambina
ancora così piccola che a volte potresti affidare a Stella o a
qualcuno della sua corte.
Ciò anche per chiederti, quando sei con Giacomo ed Elisa, di
avere, almeno tu, una particolare cura e attenzione nei loro
riguardi, dato il terribile stato psicologico in cui si trovano.
In questi mesi Stella ha allevato due bambini che conservano
l’affetto verso di lei, ma che la considerano sostanzialmente una
164
nullità pericolosa e instabile, che interpreta costantemente la parte
dell’orco nei loro incubi notturni.
Dopo avere visto che gli appuntamenti e l'amicizia della persona
che per anni ho considerato come una dea, il cui giudizio era per
me così importante, sono in vendita a 9,90 euro su internet, ho
finalmente capito la sua vera natura.
Fondamentale è stato apprendere della sua iscrizione a un sito web
per cuori solitari con la formula “Donna cerca Uomo”.
Ma ti rendi conto, Dani?
“Donna cerca Uomo” è come dire, traslato: Vacca cerca Toro –
Puledra cerca Stallone – Scrofa cerca Verro – Cagna cerca
Cane…. Lasciando da parte la facile ironia, solo ora che il disgusto
e il ribrezzo si sono un poco attenuati comprendo
perfettamente
che, solo immersa in un mondo di bugie in internet, una sorta di
porto franco dove tutto è permesso, Stella possa sentirsi a suo
agio. Uscendo e frequentando casi umani, persone con disturbi
relazionali e psicopatici, può continuare con la sua menzogna.
Può sentirsi
grande e forte per l’ascendente che sicuramente
esercita su quelle povere persone. Pu ò fingere di essere quello che
non è, di avere sentimenti che non ha mai provato, può sbandierare
una moralità e un rapporto con i suoi figli che non ha mai avuto,
sicura di trovare dall’altra parte persone con i suoi stessi problemi e
165
che quindi non la giudicheranno, né cercheranno di capirla, perché
troppo intenti a raggiungere altri scopi e a consolidare il loro fragile
e precario equilibrio emotivo.
Da una parte mi fa tenerezza, vorrei stringerla forte e scuoterla,
rassicurarla, perché penso a quanta disistima abbia di sè, a quanta
disperazione, a quanta povertà morale deve avere per accettare
questa scorciatoia in cui si cerca un uomo allo stesso modo in cui si
cerca un’automobile o si sceglie una vacanza. Mi fa un pò schifo
questo amore a comando, ridotto a fermenti ormonali ed emozioni
recitate.
Mi fa un po’ schifo perché è la volgarizzazione, la profanazione di
quanto di più puro e intimo l’essere umano abbia da offrire, perché
è il sintomo evidente di quanto frustrata e profondamente infelice
sia la sua vita.
Incapace di amare chiunque, anche se stessa, incapace di stare
con sola se stessa, tanto da doversi addormentare ogni sera negli
ultimi quindici anni grazie a degli psicolettici e, mi raccontano i
bambini, all’alcool, incapace di stare con i suoi figli, che delega a
chiunque, ma proprio a chiunque, pur di non rimanere sola con
loro, incapace di volersi bene, di cucinarsi qualcosa, di stirarsi una
camicia senza il contributo continuo di una terza persona che la
assista e le impedisca di trovarsi a tu per tu con la sua coscienza,
circondata da un mondo di menzogne che si è faticosamente
costruita e che va via via sgretolandosi… mi fa una profonda pena
per la sua evidente sconfitta. Ma mi fa anche una grande rabbia,
166
perché con questo suo atteggiamento è riuscita a ferirmi
profondamente.
È riuscita a sciupare e sporcare la cosa pi ù importante che
conservavo nel cuore: il mio amore per lei.
Stella chiuse la mail e corse in bagno in preda a conati di vomito.
Sudava freddo. Non poteva credere a quello che aveva appena
letto!
Lurido bastardo! Stella non riusciva a darsi pace.
Eppure doveva aspettarselo: Giovanni le aveva promesso una
guerra senza esclusione di colpi, e ora la stava mettendo in atto.
Ma arrivare a darle pubblicamente della “puttana”, che si mette in
vendita su Internet… Non immaginava sarebbe arrivato a tanto. Era
pur sempre la madre dei suoi figli: perché colpirla in maniera così
meschina?
Nei giorni successivi Stella scoprì con orrore che la stessa mail era
stata inoltrata a tutti i contatti della sua rubrica, dunque anche agli
insegnanti della scuola dei suoi figli e ai genitori dei loro compagni
di scuola, nonché a tutti gli amici comuni. Si chiese disperatamente
come avrebbe potuto affrontare tutte queste persone dopo che
avevano ricevuto informazioni così denigratorie sul suo conto.
Ma ormai il danno era stato fatto.
Tutto ciò che potè fare fu chiudere la sua casella di posta
elettronica e denunciare l’ex-marito alla polizia postale.
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Stella non riusciva però a darsi pace: cosa si sarebbe inventato ora
Giovanni per tormentarla e vendicarsi di lei?
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Capitolo 37
Come Stella aveva ben immaginato, neanche la denuncia alla
polizia postale e la chiusura della casella di posta bastarono a far
cessare le vessazioni di Giovanni. Da quel momento in poi, infatti,
Stella cominciò a ricevere sms minatori che la spaventavano
moltissimo, rammentandole la minaccia fattale dall’ex marito al
momento della separazione.
La nostra storia finirà nel sangue!
Sei stata avvertita mille volte di quello che sarebbe successo, ma
sei troppo presuntuosa e mal consigliata per ascoltare.
Ora il momento è giunto, ed è solo l’inizio.
“Chi ti salva sciagurata dalla sorte che ti aspetta? In dolor hai tu
cangiato un amor che ugual non ha. Dei miei pianti la vendetta or
dal cuor comparirà.”
Molti di quei messaggi erano ossessivi, con contenuti a sfondo
sessuale, come quando si era convinto che Stella chattasse su
Internet, inventandosi fantasiosi nickname con i quali si sarebbe
presentata ai presunti corteggiatori.
Non ho tempo e voglia da spendere con te. Se vuoi giocare a
rimpiattino vai su Internet dove Achiladostasera61 ti sta mandando
una sbandata e non disturbarmi più.
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Altri messaggi erano apertamente denigratori e offensivi.
Avendo perso completamente il contatto con la realtà, cercava di
colpire Stella laddove sapeva di farle più male, cioè nella sua
dignità di donna e di madre, accusandola di essere diventata una
poco di buono, una specie di mostro.
Sei proprio una stronza… Mi fai pena e schifo! Che orribile persona
e che orribile madre sei diventata! In tutti i sensi. Se hai cose pi ù
importanti da fare, cose che, si presume, tu abbia imparato da tua
madre che evidentemente ti ha lasciato il suo mestiere, fai pure
quello che ti pare. Sei a un raduno di nani e non puoi assentarti?
Sparisci e non farti sentire mai più. Trovati un buon psichiatra, che
ne hai proprio bisogno. Continua pure a zoccoleggiare su Internet,
caro Doctor-on line, e a fregartene del benessere dei tuoi figli!
Ti consiglio, assieme a un’operazione estetica, di farti impiantare
un pene, così completerai il percorso verso quel mostro anaffettivo
che sei diventata.
Altri sms ancora erano maniacali, come quando si inventava
relazioni inesistenti con uomini dai profili professionali più diversi:
un giardiniere, un poliziotto e perfino degli anziani.
Lascia fuori i miei figli dalle tue oscenità gerontofile.
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Lo sai che è considerata una malattia? Se non hai nessun rispetto
per te stessa e per quel corpo che ha generato i nostri figli, lascia
che almeno loro tentino di conservarlo e lasciali fuori dalle tue
schifezze notturne, ora che sei diventata lo scola-sperma di tutti i
vecchietti del paese. Mi fai schifo!
E fai schifo anche ai tuoi figli!
Stella aveva collezionato ormai quasi mille messaggi di questo tipo
da quando Giovanni se n’era andato di casa, e mai una volta aveva
ceduto alla tentazione di rispondere alle sue provocazioni, pur
vivendole con indescrivibile angoscia.
Aveva cominciato a soffrire d’insonnia: di notte riusciva a riposare
qualche ora solo grazie a un aiuto farmacologico.
Era ridotta a uno straccio, con occhiaie profondissime e la costante
paura
di
sbagliare
sul
lavoro
o
di
avere
un
incidente
automobilistico. Nonostante tutto, non voleva cedere alle sue
provocazioni: sperava che, di fronte alla sua remissività, presto o
tardi lui si sarebbe stancato.
Ma una sera, durante una conversazione telefonica con il figlio, che
si trovava a casa del padre, si accorse che quegli stessi improperi
Giovanni li suggeriva direttamente ai ragazzi. Mentre parlava con
Giacomo, infatti, sentiva in sottofondo il suo ex-marito che urlava:
«Di’ a quella troia di tua madre che quando siete con me vi deve
lasciare in pace! Dille di andare dai suoi amanti e di farsi scopare
da loro!».
«Smettila, papà, per favore!» lo supplicava invano Giacomo.
Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
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Accorgendosi che neanche in presenza dei figli riusciva a
contenersi, Stella non ce l’aveva più fatta e aveva deciso di
denunciarlo per stalking.
Lo doveva a se stessa, ma soprattutto ai suoi figli.
172
Capitolo 38
Giovanni aveva cominciato a coinvolgere i figli nella lotta morbosa
contro la ex-moglie, incurante del loro equilibrio psichico, spesso
coinvolgendoli in veste di merce di scambio.
Da quando l’avevano sfrattato dallo scantinato in cui viveva insieme
ai criceti, Giovanni era tornato a vivere con i genitori, ed proprio
presso la sua casa natale che incontrava i bambini. Tuttavia,
ogniqualvolta se ne presentava l’occasione, cercava di farle dei
dispetti non restituendole i figli una volta terminate le ore
assegnategli per le visite, opponendosi a ogni loro partecipazione
ad attività extrascolastiche o gite, mandandole a casa i carabinieri e
la polizia a ogni pie’ sospinto e inventando falsi maltrattamenti mai
comprovati.
Una sera, al rientro a casa dopo un pomeriggio passato con il
padre, Elisa le aveva raccontato di essere stata accompagnata dal
lui in un pronto soccorso cittadino per controllare un graffio
sull’avambraccio destro.
Stella
si
chiese
ingenuamente
perché
Giovanni
si
fosse
preoccupato per così poco. La risposta la ebbe qualche tempo
dopo,
quando
venne
convocata
dai
carabinieri
per
un
interrogatorio. Proprio non riusciva a capire il motivo della
convocazione. Che si trattasse di una denuncia professionale?
Eppure non rammentava avvenimenti particolari… Oppure si
trattava di qualcosa che aveva a che fare con Giovanni? Era
173
senz’altro più verosimile! Quando si trovò davanti all’ispettore di
polizia le tremavano le gambe, le mani grondavano sudore e la
salivazione si era bloccata.
«Signora Caminiti, il motivo della sua convocazione qui è un
presunto maltrattamento nei confronti di sua figlia Elisa.»
Per un attimo Stella pensò di aver capito male, o che ci fosse stato
un fraintendimento. L’ispettore però continuò.
«Il padre della bambina l’ha denunciata per averle provocato una
ferita lacero-contusa all’avambraccio destro mentre la malmenava»
le spiegò, mostrandole il verbale di pronto soccorso.
No! Non era possibile! Giovanni era stato così bastardo da
utilizzare un minuscolo graffio di sua figlia contro di lei!
Avrebbe voluto urlare dalla rabbia, ma le parole non le uscivano
dalla gola. Erano come congelate.
«Naturalmente dovremo interrogare anche la bambina.»
Naturalmente? Cosa mai poteva esserci di naturale nel sottoporre
una bambina a un interrogatorio di polizia?!
Che danni psicologici avrebbe mai potuto provocarle?
Che tu sia stramaledetto, Giovanni!, pensò mentre si allontanava
dall’ufficio.
Doveva stare molto attenta a non perdere l’equilibrio, perché i
pensieri le vorticavano in testa a un ritmo vertiginoso, presi dal
disperato tentativo di trovare al più presto un escamotage che
174
evitasse quel penoso interrogatorio. Provò a coinvolgere l’avvocato
e la psicologa della scuola, ma non ci fu nulla da fare: un
pomeriggio, l’ispettore di polizia – che perlomeno aveva avuto il
buon senso di non far andare la bambina in tribunale – si presentò
a casa loro.
«Signora, dovrebbe lasciarmi solo con sua figlia» le intimò.
Poi si sedette al tavolo della cucina e iniziò a parlare fitto fitto con
Elisa.
Stella non poteva sentire cosa si stavano dicendo, ma
rimase tutto il tempo immobile di fianco alla porta della cucina,
quasi trattenendo il fiato, in fibrillazione.
Ti odio, Giovanni… ti odio con tutta me stessa! pensava. Come
riuscirò d’ora in poi a farmi rispettare dai bambini?
Immaginava benissimo che da quel momento in poi i figli si
sarebbero sentiti più forti, spalleggiati da un padre-eroe, pronto a
soccorrerli e a difenderli dalla mamma cattiva.
Dopo un tempo che le sembrò interminabile, l’interrogatorio si
concluse e l’ispettore la congedò mettendole una mano sulla spalla.
«Stia tranquilla signora, ho capito la situazione. Non procederemo
oltre.»
Stella si sentì come un imputato senza speranza che alla fine fosse
stato graziato: le gambe diventarono molli all’improvviso, e quasi
cedettero sotto il peso della tensione che si scioglieva. Provava un
175
misto di rabbia e di soddisfazione, ma certamente era la prima a
prevalere.
Neanche il benessere dei figli era in grado di fermare Giovanni. In
occasione di una gita che avrebbero dovuto fare con la scuola,
all’ultimo momento cambiò idea.
Scrisse infatti una lettera al preside, sostenendo che: “In occasione
della gita verrà leso il mio diritto, sancito dal Tribunale di Torino, di
incontrare i figli”.
Quando Stella lo seppe, per un attimo il cuore le si fermò.
Che tu sia stramaledetto!
Com’era possibile che un padre arrivasse a usare i propri figli per
farle dispetto, ben sapendo quanto ci tenessero a quella gita
insieme a tutti i loro compagni di classe?
Dopo dieci minuti di panico assoluto, Stella telefonò al suo
avvocato.
«Quel disgraziato non vuole far partecipare i bambini alla gita!»
urlò, fuori di sé
«Non si agiti così, dottoressa, o le verrà un infarto! Domani stesso
andrò dal giudice e gli spiegherò la questione. Cercheremo di
ottenere il permesso direttamente da lui.»
«Ma mancano tre giorni alla partenza! Non ce la faremo mai!»
Stella quasi piangeva.
«Faremo l’impossibile, dottoressa.»
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E in effetti il giorno dopo era riuscito nel suo intento, facendosi
accordare il permesso dal giudice in persona, il quale aveva
ritenuto insensate le motivazioni addotte da Giovanni.
Capitolo 39
Torino, 23 marzo 2006
«Dottoressa, ci sono due signori fuori dal reparto che vogliono
parlarle.»
«Li faccia entrare» rispose Stella, rassegnata.
Sapeva già di chi si trattava.
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Sofia le aveva anticipato telefonicamente che, in seguito alla
perquisizione, i funzionari della finanza la stavano raggiungendo in
ospedale. Era sempre più stordita, non riusciva nemmeno più a
concentrarsi sul lavoro.
Cosa avrò mai a che fare io con questa storia?, pensava.
Sicuramente ci sarà un errore,
mi avranno confusa con
qualcun’altra.
Intanto
continuava
a
osservare
nervosamente
le
lancette
dell’orologio. Dopo che aveva ricevuto quella telefonata inattesa, il
tempo sembrava essersi fermato, proprio come il suo cuore. Alla
fine gli agenti arrivarono in ospedale e la raggiunsero in reparto.
«Dottoressa,
nella sua abitazione
confezioni di farmaci ospedalieri,
abbiamo rilevato alcune
siamo quindi costretti a
comunicarle che lei è formalmente indagata per peculato. Si procuri
un legale. Verrà contattata per un interrogatorio presso i nostri
uffici.»
No, non era possibile… Era certamente un incubo!
Sentiva uno strano sapore metallico in bocca e una gran voglia di
vomitare che partiva dallo stomaco. Era madida di sudore. Stava
sognando, erano le immagini confuse di un incubo provocato dai
calmanti che prendeva per dormire… Perché no, questo non
poteva succedere proprio a lei!
178
Capitolo 40
Stella tornò a casa, la stessa nella quale aveva convissuto con
Giovanni e nella quale, ora, viveva con Sofia e con i bambini. La
serata era limpida e tiepida, la luna piena.
Aveva gli occhi colmi di lacrime, non essendo più riuscita a
trattenere il pianto una volta uscita dal lavoro.
Prima di entrare in casa, controllò nello specchio dell’ascensore
che le lacrime non avessero lasciato tracce evidenti; non voleva
che i bambini la vedessero in quello stato pietoso. Per fortuna loro
non erano presenti al momento della perquisizione. Erano a scuola,
ricordò all’improvviso. Entrando notò che Sofia aveva già
provveduto a riordinare la casa, che di sicuro dopo l’incursione dei
finanzieri doveva avere lo stesso aspetto che avrebbe avuto dopo il
passaggio di un uragano.
Sofia, che angelo! Se non ci fosse stata lei, con la sua allegria, la
sua capacità di comprendere gli stati d’animo di Stella e dei suoi
bambini, di consolarli e confortarli, come se la sarebbero cavata in
quell’orrenda situazione?
Sofia aveva conosciuto bene Giovanni e nonostante le difficoltà
legate a una separazione conflittuale come la loro, aveva deciso di
rimanere vicino a Stella. Ne aveva preso le parti, tant’è che più
179
volte si era sentita appellare da Giovanni “sporca negra”. Ne aveva
sofferto, ma aveva tirato avanti, facendo finta di non sentire:
avrebbe aiutato Stella e i bambini finché ne avessero avuto
bisogno.
I suoi bambini…
Giacomo, che con la perfezione quasi cherubina dei suoi lineamenti
e la fossetta “tirabaci”, non passava inosservato.
Le avevano persino chiesto di girare una pubblicità con lui come
protagonista. Faceva la quinta elementare e aveva patito
terribilmente la separazione. Lui e il padre erano stati molto legati,
come in simbiosi, e nemmeno in seguito alle scene cui
disgraziatamente aveva assistito era riuscito a prendere le distanze
da lui. Anzi, era quasi come se il padre gli facesse pena e vedesse
sua madre come la strega cattiva che aveva allontanato un uomo
tanto innamorato di lei…
Ogni tanto, piagnucolando, chiedeva a Stella: «Ma quand’è che fai
ritornare papà a casa?».
Poi, con un’ingenuità che riusciva sempre a sconvolgerla,
aggiungeva: «Sta persino cercando di smettere di fumare!».
Era convinto che la buona volontà del padre sarebbe stata
premiata.
E poi c’era Elisa, che ormai faceva la terza elementare.
Stava diventando grandicella, ma aveva mantenuto la caparbietà
dimostrata alla nascita. Prova ne erano i lunghi capelli biondi
180
costantemente arruffati, che ogni mattina rifiutava di farsi pettinare.
Dopo la separazione, anche lei aveva iniziato a manifestare disturbi
comportamentali che le insegnanti le avevano segnalato e di cui
erano seriamente preoccupate. Come quando le chiedevano di
rifare un compito e lei cominciava a temperare nervosamente una
matita sotto il banco, chiudendosi in un silenzio impenetrabile e
rifiutandosi di obbedire alla consegna. Oppure quando, nel bel
mezzo di una lezione, saliva sul banco e improvvisava una sorta di
lap dance, incurante dei rimproveri.
Quante preoccupazioni! Stella sentiva che non avrebbe potuto
gestirle da sola, senza l’aiuto di Sofia, che condivideva tutte le sue
pene e le cattiverie che lei e i suoi bambini erano costretti a subire.
La sosteneva assicurandole che “la malvagità è come un
boomerang, prima o poi si ritorce contro chi la compie”.
Anche quella sera le era stata vicina, cercando di consolarla e, nel
contempo, di tenere allegri i bambini.
Quella volta però Giovanni aveva davvero esagerato.
E se la perquisizione fosse avvenuta nel cuore della notte, se i
bimbi si fossero svegliati di soprassalto, terrorizzati dai finanzieri?
Ormai non c’era più nulla che lo trattenesse, neanche l’amore che
diceva di provare per loro.
E poi, cosa voleva ottenere? Che Stella perdesse il lavoro?
E di cosa avrebbero vissuto i ragazzi senza il suo sostentamento,
dal momento che lui non contribuiva in alcun modo al loro
mantenimento?
181
Non riusciva a trovare una ragione, ma soprattutto provava una
pena infinita per i figli, vittime innocenti della sventurata e rabbiosa
fine di un amore.
182
Capitolo 41
Il giorno successivo alla perquisizione, Stella decise di parlare con
il suo primario. Era ora che sapesse tutto.
Aveva taciuto troppo a lungo, continuando imperterrita a svolgere il
suo lavoro come un bravo soldatino, mentre il mondo le crollava
addosso. Eppure era riuscita a non mostrare alcun cedimento, a
non permettersi alcuna distrazione. Almeno fino a quel giorno,
quando il suo ultimo spazio era stato invaso e la guerra aveva
coinvolto anche il lavoro che amava tanto, fino allora l’unica zona
franca concessale dalla vita. L’ospedale presso il quale lavorava
era una struttura moderna, costruita durante gli anni Settanta nella
periferia Nord della città. Si trattava di un istituto pubblico molto
grande e conosciuto, di otto piani.
Dopo aver percorso quasi correndo il lungo corridoio del sesto
piano dove si trovava il suo reparto, Stella entrò nello studio del
primario, che si trovava all’estremità opposta rispetto a quello dei
medici.
Trovò la porta aperta, e senza chiedergli se fosse occupato o meno
si sedette di fronte alla sua scrivania, cominciando senza preamboli
a parlargli della sua situazione.
Il dottor Mutti era un bell’uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati,
carnagione perennemente abbronzata e un sigaro sempre in
bocca. Più che fumarlo, lo ciucciava.
Non riusciva a credere alle sue orecchie.
183
Conosceva Stella da ormai sette anni, e prima di diventare il suo
capo era stato suo collega. Aveva coccolato Stella quando lei era in
attesa di Elisa, proponendosi di fare alcuni turni al posto suo, e
l’aveva voluta con sé, nel suo reparto, quando infine era stato
promosso primario. In più abitavano a pochi chilometri di distanza,
e dunque in più occasioni era stato ospite a casa di Stella.
Aveva persino conosciuto Giovanni.
Come aveva potuto non accorgersene?
Aveva sempre pensato che Stella avesse una vita sentimentale
serena, e invece… Le chiese subito se si fosse già procurata un
legale. Lei gli confidò di avere un civilista, che la seguiva per la
separazione, ma che non aveva ancora contattato un penalista.
«Ma possibile che in tutti questi anni non ti sia mai venuto in mente
di denunciarlo?»
Stella aveva le lacrime agli occhi. Non riusciva a rispondere.
«Oggi sei sollevata dai tuoi incarichi. Ti porto a conoscere un
avvocato che ti tirerà fuori da questa storia. È un mio carissimo
amico e un professionista molto valido. Abbi fiducia in me.»
Senza darle il tempo di replicare, alzò la cornetta del telefono e
compose un numero.
«Pronto, sono il dottor Mutti, c’è l’avvocato Sgarbi?»
Dopo qualche minuto di attesa, gli passarono il legale.
184
«Ciao, carissimo! So che sei molto impegnato, ma ho bisogno che
tu mi riceva perché ti devo affidare una mia collega che ha un
grosso problema. Possiamo venire subito?»
Oltre a stimare umanamente e professionalmente Stella, Mutti
aveva anche un motivo personale che lo induceva a prendersi a
cuore quella situazione: anche sua sorella, parecchi anni prima,
aveva subito angherie di ogni genere da parte dell’ex marito; era
stato proprio lui ad aiutarla a venirne fuori. Di questa vicenda
avrebbe parlato a Stella solo molti mesi dopo.
La prese sottobraccio e con la sua automobile l’accompagnò
dall’avvocato Sgarbi, cui Stella raccontò nuovamente tutta sua
vicenda. L’uomo decise di prendersi a cuore la sua causa e
rassicurò il dottor Mutti che la dottoressa Caminiti sarebbe uscita
da quell’incubo molto presto.
185
Capitolo 42
Le indagini della guardia di finanza erano state assai capillari.
Stella scoprì di essere stata pedinata per circa due mesi nel vano
tentativo di scoprire traffici illeciti di farmaci.
Eseguirono addirittura delle perquisizioni all’interno del suo reparto,
per cui Stella fu costretta a raccontare a tutti il suo dramma,
raccogliendo molta solidarietà da parte dei colleghi che nel tempo
avevano imparato ad apprezzarla e a volerle bene. Venne anche
interrogata, proprio con un delinquente incallito, ma a suo carico
non emerse nulla e il caso fu archiviato. Il suo fisico e l’anima erano
però molto provati, e per qualche tempo soffrì di dolorosissime
coliche addominali, resistenti a qualunque analgesico. Abituata
com’era alle vicissitudini umane dei suoi pazienti, fragile e
impaurita, iniziò a temere seriamente di essere affetta da qualche
brutta malattia. Il suo terrore più grande non era per la sua vita, di
cui ormai poco le importava, ma quello di lasciare orfani i figli, così
com’era successo a lei, che nonostante l’amore di sua madre
aveva sempre sofferto la mancanza di un padre.
Cominciò a sottoporsi a una serie infinita di esami, tutti dall’esito
negativo. La diagnosi definita fu: “Coliche addominali di origine
psicosomatica”.
186
Ecco a cosa porta la guerra: a dolore e malattie! pensava, sempre
più prostrata. Il peggio era che non vedeva alcuna luce in fondo al
tunnel. Fermare Giovanni, che per distruggerla non aveva
intenzione di fermarsi dinanzi a nulla, ormai sembrava un’impresa
impossibile.
Le ci vollero parecchi mesi per superare lo shock legato alla
vicenda, mesi durante i quali la guerra iniziata dall’ex marito
proseguì imperterrita, mediante piccoli o grandi colpi.
Ma l’evento che fece traboccare il vaso ormai colmo avvenne in
occasione della cerimonia finale del corso di canto che Elisa aveva
seguito per tre anni; l’evento avrebbe compreso anche la consegna
di un diploma. Nonostante fosse al corrente della celebrazione,
Giovanni aveva cominciato a tormentare Stella.
«Questo fine settimana i figli toccano a me, e il fine settimana inizia
dal venerdì pomeriggio!»
«Ma lo sapevi da tempo che oggi ci sarebbe stato il saggio dei
Piccoli Cantori! Sai quanto Elisa ci tenga… Li prenderai a fine
spettacolo!» lo supplicò Stella.
«Ti ho detto che i bambini devono stare con me! Verrò a prenderli a
casa tua alle 14:00 in punto, e se non li troverò chiamerò i
carabinieri. Se necessario li farò intervenire anche nel bel mezzo
della cerimonia!»
187
Nonostante l’ansia la divorasse, lei decise di tenere duro.
Giovanni chiamò effettivamente le forze dell’ordine. Ciò per fortuna
avvenne solo al termine dello spettacolo e al di fuori dal teatro, ma
creò ugualmente un forte imbarazzo tra i presenti, provocando
dolore e vergogna ai bambini.
Quella sera Stella si convinse che una situazione del genere non
poteva andare avanti un giorno di più.
Nessun
giudice
si
era
mai
preso
la
briga
di
verificare
l’incompatibilità di un affido congiunto in una situazione così
conflittuale, rendendosi conto che la prosecuzione di quello stato di
cose avrebbe portato inevitabilmente alla distruzione psicologica
dei più deboli, cioè dei figli. A malincuore, pur di non continuare a
subire, Stella decise che avrebbe lasciato la città e fatto ritorno al
suo paesello. Avrebbe portato con sé i bambini, rinunciando
all’amata Sofia.
Del resto anche economicamente le continue battaglie legali la
stavano gettando sul lastrico. Pur di non continuare in quel modo,
avrebbe rinunciato persino al suo amato lavoro. Piuttosto, se
necessario, avrebbe fatto il medico di famiglia al paese; Giovanni
non avrebbe potuto continuare a perseguitarla.
Ma questo era solo ciò che Stella sperava…
188
Capitolo 43
Torino, settembre 2006
Per ottenere il nullaosta allo spostamento scolastico dei figli, Stella
dovette chiedere un permesso al giudice. Lui glielo concesse a
patto che un giorno a settimana ospitasse l’ex marito a casa sua.
Questo perché Giovanni, separandosi da lei, aveva perso tutto,
compresa l’automobile, che era di proprietà di Stella. La decisione
del giudice le sembrò paradossale: una volta alla settimana
avrebbe dovuto andarsene da casa sua per lasciare il letto all’ex
marito, e questo perché lui non dotato di auto propria! La situazione
era assurda, ma adeguarsi era necessario per ottenere l’agognato
permesso. Così, a metà ottobre, Stella chiuse a malincuore la casa
di città e si trasferì al paese, dove lei e i bambini per un po’
avrebbero alloggiato dalla madre.
Mentre Elisa viveva questo cambiamento come un’opportunità,
dato che a scuola andava male e non era mai riuscita a instaure
legami importanti con i compagni e le insegnanti, per Giacomo fu
un vero e proprio dramma. Com’era prevedibile, questo disagio fu
subito sfruttato dal padre, che cercava di ostacolare in ogni modo il
trasferimento. Nel giorno previsto per la partenza, Stella dovette
quasi trascinare di peso il bambino in auto; neanche in
189
quell’occasione Giovanni rinunciò a chiedere l’intervento delle forze
dell’ordine, affermando che Stella obbligava con le botte il figlio a
lasciare la sua stessa casa.
All’arrivo dell’ambulanza, che doveva portare Giacomo in ospedale
per verificare se davvero avesse subito delle percosse e riportasse
eventuali lesioni, Giovanni si presentò alla porta di casa. Non
appena lo vide arrivare, Giacomo gli corse incontro in cortile.
Si abbracciarono stretti e cominciarono a parlare a bassa voce, fitto
fitto. Nel frattempo il suo ex marito guardava verso la finestra da cui
lei era affacciata, fissandola da sopra la spalla del bambino con
occhi torvi.
«Non avrai vita facile!», sembrava volesse dirle.
Giacomo fu così condotto al pronto soccorso accompagnato dalla
madre e dai carabinieri. Stella si vergognava così tanto che non
osò neanche dire di essere una collega.
All’arrivo, il medico di guardia fece spogliare il bambino.
In seguito alla visita, in cui non venne rilevato alcun segno di
violenza, il medico decise per le sue immediate dimissioni.
«Non compilerò alcun referto» disse inoltre ai funzionari delle forze
dell’ordine, «perché non ho trovato nulla. Mi dispiace, signora,
dev’essere una situazione molto imbarazzante per lei» disse poi,
rivolgendosi a Stella.
Aveva colto nel segno.
190
Stella avrebbe voluto sprofondare sotto un metro di terra, sparire
nel nulla per la vergogna. Così li lasciarono andare. Dopo quella
scena imbarazzante, Giacomo si convinse a salire in auto,
continuando tuttavia a lamentarsi e a piangere. Stella temeva una
sua fuga da scuola il giorno successivo, ma fortunatamente
l’accoglienza dei nuovi compagni fu ottima. Organizzarono una
grande festa, offrendogli dolciumi e piccoli doni. Quando la madre
lo andò a prendere a scuola, si aspettava di vederlo immusonito e
contrariato: sorprendentemente invece suo figlio entrò in auto
allegro e in vena di chiacchiere.
«Sai, mamma, che questa è proprio una bella scuola! Tutti si
conoscono e giocano insieme nell’intervallo…»
Sembrava stupito, abituato com’era al caos della grande scuola
cittadina. Giacomo fu il primo ad adattarsi alla nuova realtà,
facendosi dei nuovi amici che frequentava anche nelle ore
pomeridiane. D’altra parte lui non aveva mai avuto problemi a
socializzare, e l’ambiente del paese gli permetteva di muoversi
autonomamente, frequentando i compagni anche al di fuori
dell’orario scolastico, cosa impossibile in città. Ben presto si creò
una compagnia e non ne volle più sapere di ritornare a Torino.
Anche nei fine settimana assegnati al padre, spesso inventava
scuse per non rientrare in città.
191
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Capitolo 44
San Giulio, novembre 2006
Il paese in cui si trasferirono si trovava nel basso Canavese; era un
villaggio grazioso, piccolo ma immerso nel verde. Dalla casa di sua
madre si potevano ammirare le catene montuose più belle, dal
Monviso alle Alpi valdostane, e la sera, all’ora del tramonto, il
panorama era così bello da toglierle il fiato. La villetta dove si
sistemarono era la stessa in cui Stella e Cristina erano cresciute,
calda e accogliente, circondata da un grande giardino in cui da
piccole le due sorelle trascorrevano i pomeriggi in compagnia degli
amici del paese e dei compagni di scuola. Per i suoi figli, Stella
desiderava un’esistenza placida e tranquilla come quella che aveva
avuto lei alla loro età: corse a perdifiato per il giardino, gite in
bicicletta e gare con i pattini.
Il paese le sembrava un’oasi di tranquillità.
Anche la scuola – la stessa che aveva frequentato lei – le dava
garanzia di serietà; essendo piccola, poi, era certa che i ragazzi
sarebbero stati seguiti attentamente.
Tuttavia la vita in paese non si dimostrò così semplice come Stella
aveva previsto e, in cuor suo, sperato. Presto vennero a galla
profonde conflittualità tra i bambini e la nonna, litigi che Giovanni
puntualmente sfruttava a suo favore.
193
Non riusciva ad accettare il trasferimento dei figli e continuava a
denigrare il paese, la madre di Stella e tutto ciò che li circondava.
«La mamma vi ha portati a vivere in quel buco di culo di San Giulio
con quella maledetta strega della nonna… È lei che ha mandato a
monte il nostro matrimonio, intromettendosi sempre!» ripeteva con
insistenza ai bambini.
«Ricordate come stavamo bene quando eravamo una famiglia
unita e vivevamo a Torino? La mamma è cattiva, vi ha rapiti e
portati lontano da me…» continuava, imperterrito.
Così, quando Stella li rimproverava, i ragazzi avevano preso
l’abitudine di ripetere meccanicamente le frasi che il padre
pronunciava contro di lei. Sembravano scimmie ben ammaestrate,
e quest’idea le riusciva insopportabile.
Il lavaggio del cervello che subivano era così profondo, così
subdolo ed efficace, che temeva fosse troppo tardi per contrastarne
gli effetti. Il mercoledì pomeriggio, puntuale come la sventura,
Giovanni veniva a trovare i bambini e si installava a casa della
suocera. Stella era costretta a lasciargli la sua camera, il suo letto,
e a trovare qualcuno che la ospitasse. Giovanni non aveva
nemmeno l’accortezza di portare qualcosa da mangiare, perciò la
suocera era costretta a preparargli la cena. Com’è facile
immaginare, non si degnava né di sparecchiare, né di lavare i piatti,
anzi, non perdeva occasione per denigrare o insultare la suocera di
194
fronte ai nipoti. Una sera, verso mezzanotte, Maria non riusciva a
dormire perché Giovanni e i ragazzi stavano ancora guardando la
televisione a un volume piuttosto alto.
«È ora di andare a dormire, domani c’è scuola» disse quindi,
rivolgendosi a Giacomo ed Elisa.
«Quando sono con me, decido io cosa far fare ai miei figli! Si tolga
dai c…» ribatté Giovanni.
«Sì, nonna, togliti dai c…!» gli fecero eco i ragazzi.
Ovviamente il giorno successivo non andarono a scuola perché si
sentivano troppo stanchi.
Una mattina, al suo rientro a casa, Stella si accorse che la sua
macchina fotografica si era inspiegabilmente volatilizzata. Con ogni
probabilità era stato proprio Giovanni s sottrargliela; roso dalla
gelosia, doveva aver pensato che magari avrebbe trovato
qualcos’altro con cui tormentarla.
Coltivava il suo ascendente negativo su Giacomo ed Elisa con una
costanza quasi maniacale. Incalzati dal padre, i figli non si
trattenevano dal chiamare Stella stronza, puttana o troia, epiteti che
di tanto in tanto ripetevano anche contro la nonna. Dopo il furto
della macchina fotografica, la sopportazione di Stella venne meno.
Revocò al marito l’offerta di trascorrere la notte a casa della
suocera, ma lui trovò altri sistemi per perseguitarla.
In questo, la sua mente lavorava senza mai stancarsi, continuando
a mantenere la promessa fatta all’atto della separazione: «Ti ricordi
195
la Guerra dei Roses, Stella? La nostra storia sarà come quel film e
non potrà che finire nel sangue».
Si rendeva sempre più consapevole del fatto che nessuno, proprio
nessuno, non i suoi parenti, non i suoi amici e neppure la legge,
avrebbe potuto proteggerla. Neanche l’essersi spostata di diversi
chilometri l’aveva messa al sicuro. Anzi…
196
Capitolo 45
Crescendo, i ragazzi diventavano sempre più irrispettosi nei
confronti della nonna e della madre.
Stella si rendeva conto con terrore che si stava creando una strana
alleanza tra il padre e i figli, un’alleanza che si fondava su una
profonda avversione nei suoi confronti.
Proprio non riusciva a capacitarsene.
Eppure negli anni i suoi figli avevano visto come Giovanni la
trattava! Avevano assistito a scene di violenza cui nessun bambino
dovrebbe mai assistere. Ma, anziché allearsi con lei e difenderla, si
erano schierati dalla parte del carnefice, probabilmente perché lo
vedevano forte e vincente.
Fu costretta ad ammettere che i figli le stavano sfuggendo di mano.
Ogni qualvolta cercava di riprenderli, riportandoli sulla retta via, loro
telefonavano al padre, il quale li difendeva sparando a zero contro
di lei. Si era avverato il peggiore dei suoi incubi: Giacomo ed Elisa
avevano imparato a sfruttare a loro vantaggio il perenne conflitto tra
i genitori; uniti com’erano, all’occorrenza rappresentavano una
macchina da guerra predisposta e guidata da Giovanni, anche a
distanza. Non solo Stella aveva perso autorevolezza, ma si
rendeva conto di non provare più per loro l’amore e l’attaccamento
che sarebbero stati naturali. Aveva paura di loro come a suo tempo
aveva avuto paura dell’ex marito.
Era questa la cosa che la faceva soffrire di più.
197
Come fare a cambiare la situazione? Anche a scuola erano
diventati ingestibili, gli insegnanti erano disperati.
Non sapendo come comportarsi, telefonavano in continuazione a
Stella sperando in un suo intervento “miracoloso”, che tale però
non si rivelava mai. Ovviamente Giovanni non si assumeva alcuna
responsabilità, attribuendo la colpa di tutti i problemi all’ex moglie e
alla sua scellerata scelta di trasferirsi. Continuava imperterrito a
screditare il contesto in cui vivevano i figli, scuola compresa,
elogiando quella che a suo parere era stata l’età dell’oro, quando la
famiglia era ancora unita e abitava in città.
I ragazzi diventavano sempre più nervosi, intolleranti a ogni forma
di autorità. Un pomeriggio Elisa si era rifiutata di fare i compiti e
Stella l’aveva ripresa bruscamente.
«Ti meriteresti una bella sculacciata!» l’aveva minacciata.
All’arrivo di Giacomo, i due fratelli si chiusero nella loro stanza e
dopo aver confabulato telefonicamente con il padre per almeno
dieci minuti ne uscirono con una scopa, con la quale cercarono di
colpirla.
Nel mentre, inveivano contro di lei.
«Cosa vorresti fare a Elisa?» urlavano. «Picchiarla? Provaci, se ne
hai il coraggio! Papà ha detto che chiamerà i carabinieri e ti farà
arrestare!»
198
Solo l’intervento della nonna, che ostacolò fisicamente la
colluttazione, impedì che la situazione degenerasse.
Ogni giorno c’era un’occasione per discutere, ogni giorno Stella
riceveva lamentele telefoniche, anche da parte dei vicini di casa.
«Signora, i suoi figli continuano a disturbare! Musica a tutto volume,
immondizie sparse ovunque, un via vai continuo di ragazzi… Li
faccia smettere!» tuonò il tabaccaio che confinava con la loro casa.
Ma ogni giorno loro alzavano il tiro.
Stella non ce la faceva più, stremata da quel vivere in costante
tensione per ciò che sarebbe potuto accadere da un momento
all’altro. Non riusciva neanche più a lavorare serenamente, aveva il
terrore di commettere errori gravi.
Sentiva di aver completamente perso di mano il controllo dei figli e
per loro, carne della sua carne, intravedeva un triste destino.
199
Capitolo 46
San Giulio, novembre 2009
Dopo tre anni di burrascosa convivenza con la madre, Stella decise
che era giunta l’ora di andarsene a stare per conto suo, da sola con
i figli.
Era anche un modo per mettersi alla prova.
Sua madre presagiva che il trasferimento avrebbe portato ulteriori,
grosse difficoltà nella gestione della casa e dei figli, ma non si
sottrasse dall’aiutarla e sostenerla.
Ristrutturarono una bella casa nel centro del paese, un edificio di
tre piani con un giardino che potesse ospitare anche i gatti e il cane
che avevano preso dal canile per Elisa, nella speranza che avere
degli animali a cui badare avrebbe calmato il suo animo inquieto.
Stella era entusiasta. Anche i ragazzi sembravano felici: sarebbero
stati lontani dalla nonna, ciascuno avrebbe avuto la sua cameretta
e tanto spazio per i giochi, dal calcio-balilla al ping-pong; avrebbero
potuto persino invitare gli amici a dormire da loro!
Voleva con tutta se stessa che quella nuova situazione
funzionasse, e cercava di fare in modo che tra loro regnasse
l’armonia. Si preoccupava che la sera ci fosse sempre della musica
ad accoglierli al loro rientro e che la cena fosse un momento
dedicato allo stare insieme, senza la televisione accesa. Tutto ciò
che sognava per la sua famiglia era la pace.
200
Mentalmente, per avere un punto di riferimento costante nella
realizzazione del suo sogno, aveva deciso di chiamare il vicoletto
che conduceva dalla strada principale alla loro casa “vicolo della
serenità”. Immaginava come si sarebbero svolte le giornate nella
nuova casa: di primo mattino sarebbe suonata la sveglia per
andare a scuola, quindi avrebbero fatto colazione insieme, intorno
a un tavolo pieno di leccornie di ogni genere; la sera, a cena, si
sarebbero raccontati le rispettive giornate con un sottofondo
musicale a fare da contorno.
Lontana dalla presenza ingombrante di sua madre, era certa che lei
e i suoi figli avrebbero ritrovato una maggiore intimità, e che
finalmente i loro rapporti sarebbero migliorati.
Quel luogo così caldo e accogliente avrebbe dovuto sancire la fine
delle ostilità e l’inizio di un periodo di serenità.
201
Capitolo 47
Tuttavia le aspirazioni dei ragazzi si rivelarono ben presto molto
diverse da quelle di Stella.
Lontani dall’occhio vigile della nonna “cattiva”, cominciarono a
sentirsi liberi, troppo liberi.
Con i suoi pesantissimi turni, Stella non riusciva a essere
abbastanza presente. I suoi figli ne approfittavano, ospitando in
casa ragazzi di tutte le età, dall’aspetto trasandato e dall’eloquio
profondamente volgare, con cui cominciarono a organizzare festini.
In sua assenza, in casa cominciò a circolare di tutto: marijuana,
hashish, alcol.
Giacomo cominciò anche a fare sesso.
In occasione della sua festa di compleanno, i ragazzi chiesero alla
madre di invitare i loro amici e che lei si “togliesse dalle scatole” per
qualche ora. A malincuore, Stella acconsentì alle loro richieste, non
prima di aver fatto mille raccomandazioni.
Si allontanò da casa solo per un paio d’ore.
Quando ritornò, trasalì. Musica ad altissimo volume, resti di salatini
spiaccicati al suolo, cicche di sigarette sparse ovunque, bottiglie di
birra dappertutto, rovesciate sui pavimenti e sui tappeti. Persino
una coppietta appartata nella camera matrimoniale! La rabbia le
montava dentro mentre urlava contro quell’orda di vandali.
202
«Tutti via! Subito! Come vi permettete di trasformare casa nostra in
un porcile?»
Un ragazzino dall’aria ebete, alto poco più di un metro e mezzo e
con una cicatrice sulla fronte, cominciò a insultarla rivolgendosi a
Giacomo.
«Ma quella stronza è tua madre? Che c… vuole da noi? Che si levi
dai c…»
Mortificata, lei continuò a urlare con tutta l’estensione che le
consentivano le sue corde vocali.
«Via! Via da casa mia, non voglio rivedervi mai più! Vergognatevi!»
Solo così riuscì ad allontanare quei ragazzi da casa, almeno
temporaneamente. La reazione di suo figlio fu delle peggiori.
«Guarda che figura di merda mi hai fatto fare! Hai rovinato la mia
festa! Non te la perdonerò mai!»
Sempre più spesso quando Stella tornava a casa percepiva uno
schifoso odore dolciastro che insieme agli occhi languidi, allo
sguardo ebete e al grande appetito dei figli, le fecero comprendere
cosa stava accadendo. Si aggiungevano le richieste sempre più
frequenti di denaro e le reazioni sempre più violente, specialmente
da parte di Giacomo, a ogni divieto o rifiuto della madre. Un
pomeriggio, mentre rientrava a casa dal lavoro, trovò Giacomo
203
riverso vicino ai cassonetti dell’immondizia a poca distanza dalla
loro abitazione.
Era coperto di vomito e urina, con un alito che esalava
l’inconfondibile odore della grappa. Presa dal panico, cercò
telefonicamente l’aiuto dell’ex marito.
«Giovanni, Giacomo è ubriaco e respira a fatica! Sono terribilmente
preoccupata
per
lui!»
quasi
piangeva,
mangiucchiandosi
nervosamente le unghie delle mani.
Come avrebbe dovuto aspettarsi, lui non perse l’occasione di
insultarla, scaricando su di lei la colpa delle disavventure dei figli.
«Tu hai voluto la separazione, tu hai deciso di trasferirti in quel
paesello! Ora cosa vuoi da me, zoccola?» urlò così forte da
provocare un dolore lancinante all’orecchio di Stella.
Poi, con un rapido cambio di tono, sibilando come un serpente a
sonagli, aggiunse: «E poi non esagerare come tuo solito! Certe
esperienze bisogna farle nella vita… Prima o poi chi non si è
beccato una sbronza?».
«Ma non un ragazzino, non in pieno pomeriggio!» urlò Stella.
Essendo medico, notava come gli atti respiratori di suo figlio
diventavano sempre più flebili.
«Dagli una tazza di caffè e mettilo sotto le coperte, vedrai che
domani gli sarà passato tutto.»
204
Quel giorno Giacomo finì al pronto soccorso in coma etilico.
Giacomo aveva preso a rispondere alla madre con epiteti e insulti
che le ricordavano molto quelli che per anni si era sentita ripetere
dal marito e che continuava a ricevere attraverso gli SMS che lui le
spediva ogni santo giorno.
Talvolta continuava fino a tarda notte, mentre lei se ne stava
distesa con gli occhi sbarrati nel buio, il cuore a mille e nemmeno
una vaga speranza di addormentarsi.
Non era raro che Giacomo urlasse e spaccasse tutto quello che gli
capitava a tiro; una volta in cui la madre gli aveva negato cinque
euro, persino il parabrezza dell’auto in corsa.
Ovviamente Giovanni non prendeva mai posizione, anzi, difendeva
i figli a spada tratta. Ogni occasione era buona per attaccare e
insultare l’ex moglie.
Sfidando ogni evidenza, negava che i ragazzi facessero uso di
sostanze stupefacenti. Quando Stella decise di sottoporli al test
delle urine e anche lui fu messo di fronte all’evidenza dei fatti –
risultarono entrambi positivi – continuò a negare risolutamente,
mostrandosi più che mai complice delle strategie di ribellione che i
figli mettevano in atto.
Giorno dopo giorno, Elisa diventava sempre più difficile da gestire,
soprattutto a scuola; suo padre però insisteva dicendo che nessuno
la capiva, e che era la scuola a essere inadatta alla ragazza, non
viceversa.
205
206
Capitolo 48
Una mattina, mentre si trovava a lavoro, ricevette una telefonata.
«Buongiorno, sono il professor Barchi, l’insegnante di Giacomo.
Volevo avvertirla che sono almeno tre giorni che suo figlio non
viene a scuola, e che spesso entra in classe in ritardo senza
portare la giustificazione.»
Stella entrò nel panico. Cercò invano di mettersi in contatto
telefonico con suo figlio, ma niente, il cellulare squillava a vuoto.
Dove si era cacciato? Cosa faceva quando non andava a scuola?
Distratta dalle sue preoccupazioni, finì di visitare frettolosamente i
pazienti per riuscire a rincasare presto.
Percorse l’autostrada a velocità elevata, l’animo in tumulto, ma
arrivata a casa di Giacomo non c’era traccia.
Si mise a cercarlo freneticamente nel paese e in quelli limitrofi,
perlustrando tutti i locali.
Niente! Era come se si fosse volatilizzato.
Rincasò
alle
sei
di
sera,
arrancando
su
una
bicicletta
scassatissima, senza pedali né freni. Dalla rabbia, avrebbe voluto
afferrarlo per i capelli e riempirgli il viso di schiaffi.
Ovviamente non poteva: Giovanni avrebbe subito trovato il modo di
farle passare i guai.
«Si può sapere dove ti sei cacciato?» lo aggredì.
Giacomo non rispondeva.
207
Aveva l’aria trafelata e due occhiaie profonde, il suo bel viso
angelico era come trasfigurato.
«Siccome non mi posso fidare di te, non ti permetterò di prendere
la patente di guida per il motorino!» tuonò con un tono così
imperioso che per una volta Giacomo non osò controbattere.
Le dispiaceva interpretare la parte della cattiva, la madre dispotica
che non avrebbe mai voluto essere, ma a quel punto che altro le
restava fare?
Anche Elisa le dava grosse preoccupazioni.
Un mattino ricevette la chiamata piuttosto concitata della donna
delle pulizie.
«Dottoressa, oggi Elisa non è andata a scuola. Quando sono
arrivata, alle dieci, l’ho trovata in camera con un’amica. Le ho
chiesto cosa stessero facendo e lei mi ha risposto di farmi i fatti
miei, poi è uscita. Sono molto preoccupata!».
Anche in quell’occasione Stella dovette lasciare il posto di lavoro
per rientrare prima del previsto. La cercò ovunque, per poi ritrovarla
a casa dell’amica; si era fatta sera e lei ormai era stremata, in
preda a un panico così violento da farla tremare.
In seguito a quell’episodio, redarguì pesantemente la figlia.
«Ora basta con computer e telefonini! Te li restituirò solo quando
mi dimostrerai che posso fidarmi di te!»
208
Elisa reagì con un’alzata di spalle, come se la punizione le fosse
indifferente, poi sbatté la porta e si era chiuse in camera sua.
Invano cercava di parlare ai figli spiegando loro quanto quel
comportamento la preoccupasse: sembravano indifferenti, refrattari
a ogni parola, a ogni supplica.
Cominciò a vegliare su di loro con più attenzione, seguendone ogni
movimento.
Prese ad accompagnarli personalmente a scuola e a controllare gli
zaini; si accorse così che Giacomo aveva accumulato gli scontrini
di un bar limitrofo alla scuola, dove evidentemente si rifugiava
quando decideva di scansare le lezioni. Nonostante la sua
spasmodica attenzione, dunque, le evasioni proseguivano.
Giacomo veniva visto spesso nell’auto di persone adulte durante
l’orario scolastico e Stella si domandava preoccupata cosa
significasse tutto ciò: veniva forse utilizzato come portantino per i
loro loschi traffici?
Ma i ragazzi si rifiutavano di raccontare la verità, e ciò comportava
tensioni crescenti e discussioni ormai quotidiane.
Inevitabilmente, anche il lavoro iniziava a risentirne.
La mente di Stella non era lucida, le preoccupazioni le impedivano
di concentrarsi adeguatamente. Le capitava di confondere i turni di
guardia, mettendo in difficoltà i colleghi, o di prescrivere farmaci
errati.
Si spaventò moltissimo quando confuse le terapie di due pazienti,
invertendole. Glielo face notare un’infermiera particolarmente
209
attenta, evitandole così di commettere un grave errore, ma
quell’episodio rese ancora più evidente la triste realtà: se avesse
continuato in quel modo, prima o poi si sarebbe messa seriamente
nei guai.
Dovrei prendermi un’aspettativa, meditava. Dovrei stare più vicina
ai miei figli, cercare di essere più tranquilla.
Ma in quel caso come li avrebbe mantenuti?
No, non se lo poteva permettere!
Mantenendo la promessa risalente ai tempi della loro separazione,
Giovanni continuava a minacciare la moglie.
Non
solo:
criticava
il
suo
metodo
educativo,
definendolo
fallimentare, quindi passò all’attacco dicendo di volerle portare via i
figli. Pretendeva che Stella gli lasciasse usare l’appartamento che
avevano condiviso da sposati e chiedeva anche un cospicuo
mantenimento.
Come
d’abitudine,
poi,
cercava
di
coinvolgere
i
ragazzi
promettendo loro più libertà e cercando di convincerli che una volta
tornati in città la loro vita sarebbe migliorata.
Non si rendeva conto – o forse lo sapeva benissimo, ma non gliene
importava – che ammaliandoli con quelle promesse irrealizzabili li
stava portando sulla cattiva strada, molto più di quanto già non
fossero.
210
Capitolo 49
Disperata per ciò che i figli stavano combinando e sempre più
preoccupata che stessero buttando via le loro giovani vite, Stella
cercò disperatamente aiuto nei servizi sociali.
Cercò di instaurare un dialogo costruttivo con il marito avvalendosi
dell’aiuto di un conciliatore, ma Giovanni non voleva alcuna
mediazione, non voleva collaborare con lei per il benessere dei
ragazzi, voleva solo la guerra, e pur di averla vinta era disposto a
usare i figli come arma contro di lei.
Per lui gli incontri con lo psicologo erano l’occasione per recitare la
parte del povero marito abbandonato, del padre in pena per il
benessere dei figli. La recita sfociava puntualmente in una vera e
propria invettiva contro Stella, accusata di ogni nefandezza,
compresa quella secondo cui la notte era solita allontanarsi da
casa per raggiungere un fantomatico amante, lasciando così i
ragazzi da soli, e tornando solo la mattina successiva, all’alba.
Le sue trovate, le assurde illazioni, non avevano più freno né
pudore. Stella usciva da quelle sedute completamente distrutta, sia
come donna che come madre. Dopo un’attenta osservazione del
caso, i servizi sociali avevano compreso la situazione ed erano
seriamente intenzionati ad aiutare Stella. Decisero di darsi da fare
211
per conferirle l’affido esclusivo dei figli, allontanando Giovanni dalle
loro vite, ben consci dell’effetto deleterio che esercitava su di loro.
Non solo era privo di qualunque pudore, ma probabilmente non era
nemmeno più psichicamente equilibrato.
Tuttavia l’unico modo per ottenere ciò era fare richiesta al giudice
affinché prescrivesse una perizia psicologica sull’intera famiglia.
A quel punto, dopo cinque, terribili anni, la guerra sarebbe finita.
Stella avrebbe potuto prendere in mano la situazione e cercare di
mettere in riga i ragazzi, salvandoli.
212
Capitolo 50
San Giulio, dicembre 2009
Ebbe così inizio un lungo periodo di osservazione durante il quale
un
perito
nominato
dal
giudice
scandagliò
le
loro
vite,
sottoponendoli a un attento monitoraggio. Furono sottoposti a
colloqui e test della personalità, furono ascoltati educatori,
psicologi, insegnanti: nulla fu lasciato al caso.
Pur essendo abituata a sopportare situazioni difficili nella vita
privata e sul lavoro, ogni volta che si recava a un colloquio Stella si
sentiva come una studentessa alle prime armi di fronte a un
professore particolarmente esigente e pignolo. Le tremavano le
mani e il cuore le batteva all’impazzata perché si rendeva conto
che dai risultati di quella perizia sarebbero dipese le sorti della sua
famiglia, dei suoi figli. Al contrario Giovanni ostentava una certa
spavalderia, affermando di volere i figli con sé e screditando i
metodi educativi dell’ex moglie. Convinto com’era di avere la
vittoria in pugno, tornò a fare opera di persuasione sui figli,
promettendo loro che presto sarebbero tornati a vivere in città
insieme a lui, in una casa nuova, grande e bellissima. Utilizzava la
bacheca di Facebook per lanciare messaggi in cui quasi
vaneggiava.
213
Presto Giacomo ed Elisa torneranno a Torino! Preparatevi per una
grande festa di “Come back home”, che festeggeremo nella nuova
casa! Vi faremo sapere!
Nel frattempo Giacomo diventava sempre più violento.
Stava emergendo quella rabbia distruttiva che terrorizzava Stella
perché le ricordava le violenze subite da Giovanni ai tempi del loro
matrimonio. Come allora, non trovava la forza di reagire,
sentendosi paralizzata dal terrore. In preda ai sempre più frequenti
attacchi d’ira, Giacomo cambiava aspetto. Gli si gonfiavano le vene
del collo, diventava paonazzo. Spesso mostrava i pugni, pronto a
colpire.
In quei nove mesi di osservazione la situazione fu costantemente
sul punto di precipitare.
Stando così le cose, il giudice decise che l’affidamento congiunto
non era più sostenibile. I comportamenti antisociali messi in atto dai
ragazzi erano troppo gravi perché continuassero a ignorarli.
Sarebbe stata Stella, supportata dai servizi sociali e da educatori
professionisti, ad avere l’affido esclusivo dei ragazzi. A Giovanni, la
cui personalità fu definita “profondamente disturbata e patogena,
inadeguata per una sana crescita dei figli”, venne invece tolto
l’affido.
Avrebbe potuto vedere i figli solo una volta al mese, in un ambiente
protetto e alla presenza degli assistenti sociali. Stella immaginava
214
che la reazione di Giovanni sarebbe stata di furia. Se lo
immaginava ad urlare e lanciare oggetti contro le pareti con i suoi
occhi di fuoco, di quando sembrava avere il demonio in corpo, a
ripetere frasi oscene contro le assistenti sociali. Per fortuna, però,
questa volta non avrebbe dovuto assistere alle sue scene di follia.
Da una parte Stella si sentiva sollevata da quella decisione,
dall’altra non poteva fare a meno di preoccuparsi della reazione
che avrebbero avuto i figli.
215
Capitolo 51
San Giulio, 30 maggio 2010
Per una curiosa beffa del destino, proprio quando i problemi più
gravi sembravano sul punto di risolversi, la situazione si aggravò
per poi precipitare nel giro di poco tempo.
Una sera, rientrando a casa al termine di un lungo turno di lavoro,
trovò ad attenderla i carabinieri.
«Dov’è sua figlia Elisa?» le chiesero a bruciapelo.
«Credo sia con la sua amica, Simona. Cos’ha combinato?» chiese
Stella, sudando freddo.
«Glielo spiegherà sua figlia. Ora la stiamo cercando per portarla al
comando. Ci raggiunga lì.»
Chiese a Giacomo cosa fosse successo, ma suo figlio stavolta
sembrava del tutto ignaro dell’accaduto. Gli preparò una cena
veloce, quindi si precipitò in caserma.
Le aprì la porta un carabiniere stempiato, la fronte corrugata e
sopracciglia assai marcate. Aveva un aspetto severo e accigliato.
Stella pensò che quell’uomo doveva avere all’incirca una
quarantina d’anni, ma che ne dimostrava molti di più.
216
«Attenda, signora, le chiamo sua figlia». Il tono di voce era roco,
quasi baritonale e a Stella era sembrato sgradevole.
Si sedette su una sedia di legno pieghevole, come quelle dei vecchi
cinema. Sulle pareti grigie e stantie notò appese fotografie di raduni
delle forze dell’ordine in vari siti italiani: Roma, Firenze, Torino.
Quelle foto dovevano essere lì da molto tempo: il vetro era
appannato e unto. L’aspetto delle persone ritratte era scarsamente
riconoscibile, tanto era sbiadito il colore.
Dopo minuti, che erano sembrati eterni, finalmente la porta,
cigolando, si era aperta. Elisa le era andata incontro senza
entusiasmo, quasi trascinando le gambe. Sembrava inebetita.
Aveva il viso pallidissimo, occhiaie profonde e le mani che
tremavano. Sembrava un fantasma.
Stella sentì il cuore stringersi in una morsa. Si sentiva, al tempo
stesso arrabbiata e sollevata nel vedere la figlia. Non avrebbe
saputo dire quale sentimento prevalesse.
«Dopo cena» raccontò con voce fioca Elisa, «prima che tu tornassi
dal lavoro, io e Simona abbiamo cercato di scavalcare il cancello
della scuola media e di entrare. »
Stella allontanò le mani della figlia dalla bocca, impedendole di
continuare a mangiucchiarsele.
«Poi è scattato l’allarme, ci siamo spaventate, i vicini ci urlavano
contro e sono intervenuti i carabinieri, così noi… siamo scappate.».
Con lo sguardo Elisa sfuggiva lo sguardo della madre.
Stella non riusciva a capacitarsi di quel racconto.
217
Era furibonda, sul punto di andare fuori di testa.
«Ma perché? Vi rendete conto di cosa avete fatto?» urlò senza
curarsi del fatto che si trovassero in un commissariato.
Si chiese cosa sarebbe successo se fossero effettivamente riuscite
a entrare nella scuola, ma non riusciva a darsi una risposta.
Avevano intenzione di rubare qualcosa? Oppure volevano
compiere atti vandalici come imbrattare i muri di scritte offensiva
contro la scuola e gli insegnanti e rompere gli oggetto che
capitavano loro a tiro?
O forse si trattava di una bravata per
dimostrare di essere una “grande”, magari guidata da amici che le
chiedevano la fatidica prova di coraggio per entrare a far parte del
gruppo?
Elisa si era fatta scura in volto, rifiutandosi di parlare e di dare
spiegazioni.
«Tentato furto» sentenziò il brigadiere, sbrigativo.
Stella si rese conto con sgomento che quell’evento avrebbe
cambiato drammaticamente le loro vite, ma decise di non dire nulla
ai suoi figli.
218
Capitolo 52
San Giulio, 2 giugno 2010
Quel pomeriggio i carabinieri suonarono nuovamente alla porta di
Stella. Lei non c’era, così parlarono con Giacomo.
Gli annunciare che il giorno dopo, anziché andare a scuola, lui e la
sorella avrebbe dovuto presentarsi in caserma.
Li aspettavano per le 9:30.
Col suo fare canzonatorio, Giacomo comunicò a Stella quella che
per lui era una notizia meravigliosa: l’occasione per saltare un altro
giorno di scuola!
Ma lei sapeva benissimo che non c’era niente di cui gioire. In
silenzio, preparò ai suoi figli la cena e chiese loro di farsi una
doccia. Cercò di goderseli il più possibile, evitando ogni genere di
discussione. Sapeva che per un po’ sarebbero stati separati. Le
lacrime le scendevano dagli occhi senza riuscire a fermarle, ma
cercò di non far trapelare la sua disperazione.
Nessuno aveva compreso fino in fondo cosa stesse per accadere,
neanche il suo avvocato, che continuava a rassicurarla.
«Non ho ricevuto alcuna comunicazione giudiziaria, per cui stia
tranquilla, dottoressa.»
219
«Ma allora perché i ragazzi sono stati convocati in caserma,
domani?» ribatteva lei, scuotendo la testa. «Per di più senza
coinvolgere me, che sono la madre?»
«Li avranno convocati in seguito all’episodio della scuola, per
chiedere dei chiarimenti o per far loro una ramanzina.»
«Ma cosa c’entra Giacomo con la vicenda della scuola, perché è
stato convocato anche lui?»
A quel punto l’avvocato perse la pazienza.
«Insomma, sono due minorenni che ne hanno combinate di tutti i
colori e i carabinieri li vorranno spaventare, ma stia serena: non
può succedere nulla senza che io ne sia avvertito! Non si preoccupi
prima del tempo.»
Il suo cuore di mamma però non si dava pace: sentiva che la verità
era un’altra.
Il giorno dopo svegliò i ragazzi con tutta la dolcezza possibile.
Portò loro la colazione a letto e passò un po’ di tempo a coccolarli
come non faceva da tempo.
Loro sembravano infastiditi da quelle smancerie: si sentivano
grandi, e cercavano in ogni modo di schivare gli abbracci e i baci di
Stella. In cuor loro in quel momento c’era posto solo per il padre, in
quale presto li avrebbe riportati in città, dove avrebbero cambiato
completamente vita. Verso le 9:25 salirono in auto diretti in
220
caserma. Il comandante, che li stava aspettando, invitò Stella ad
allontanarsi per un’oretta. Poteva approfittarne per andare a fare la
spesa, le suggerì con affettata cordialità.
Era chiaro che non la voleva tra i piedi.
Se ne andò da sua madre, dove attese, inquieta, che quell’ora
finalmente passasse. Dopo circa trenta minuti squillò il cellulare.
Era l’assistente sociale che la invitava a ritornare in caserma,
perché “stava succedendo un casino”.
Quella frase suonò come la conferma delle sue ipotesi peggiori.
Telefonò nuovamente all’avvocato, ma questi continuò a ripeterle di
stare tranquilla. Non appena entrò nell’anticamera della caserma, si
ritrovò di fronte una scena agghiacciante: i ragazzi si dimenavamo
per terra, gridando a squarciagola.
Non appena la vide, Giacomo urlò.
«Lo sai cosa vogliono farci?»
Non fece in tempo a rispondere. Un carabiniere la spinse
delicatamente ma con decisione nell’ufficio vicino: non volevano
che parlasse con i figli. Lì, ad aspettarla insieme agli agenti, c’erano
gli assistenti sociali.
«Li portate in comunità, vero?» chiese Stella, in lacrime.
«Sì, li porteremo in due comunità separate, ma lei potrà vederli una
volta a settimana, mentre suo marito solo una volta al mese. I
221
ragazzi hanno avuto una reazione terribile quando l’hanno
saputo… Hanno tentato la fuga, aggredendo le forze dell’ordine…»
«Cosa vi aspettavate» replicò Stella, amara. «Che accogliessero la
notizia con gioia? Li state portando via dalla loro casa, dai loro
genitori, dai loro amici… quale reazione avrebbero dovuto avere? E
poi in modo così crudele, senza neanche prepararli!»
La decisione era stata presa, ed era irrevocabile.
Dopo qualche minuto, i ragazzi furono trasferiti su due volanti dei
carabinieri dirette chissà dove e chissà per quanto tempo. Alle
10:30 l’avvocato le telefonò confermandole di avere ricevuto un fax
del tribunale che ordinava l’allontanamento immediato dei ragazzi
da casa loro.
«Hanno applicato l’articolo 403 del codice di procedura civile, su
ordine del giudice. Quando il minore è moralmente o materialmente
abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da
persone per negligenza, immoralità, ignoranza, o per altri motivi
incapaci di provvedere all’educazione di lui, la pubblica autorità, a
mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo
sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla
sua protezione. In pratica, hanno ritenuto che i suoi figli fossero in
pericolo e li hanno temporaneamente collocati in un luogo sicuro,
una comunità.»
222
Pur avendolo previsto, Stella non si capacitava del fatto che ciò
fosse successo proprio a lei.
Aveva sempre pensato che decisioni del genere riguardassero solo
i figli delle prostitute, dei tossicodipendenti, dei delinquenti… non
certo i figli di uno stimato medico!
Tuttavia non poteva nemmeno mentire a se stessa.
In cuor suo, infatti, sapeva che quella decisione, per quanto
crudele, avrebbe salvato la vita dei suoi figli.
223
Capitolo 53
Quando tornò a casa, Stella ne percepì tutta la desolazione.
Non sentiva più le grida cui le sue orecchie non si erano mai
abituate, ma nemmeno la presenza ingombrante dei figli, dei suoi
bambini. Come avrebbe resistito a quell’assenza?
Come sarebbe stata la sua vita senza di loro?
Non riusciva nemmeno a immaginarlo.
Non poteva neanche pensare a cosa stavano provando in quel
preciso momento e a quanto sarebbe durato il loro distacco. Pianse
a lungo, con violenti singhiozzi che riuscivano a scuoterla fino alla
bocca dello stomaco.
Giovanni le scrisse un messaggio molto differente dagli ultimi che
aveva ricevuto.
Malgrado tutto, qualcosa ci unisce ancora: la tristezza e il senso del
fallimento. Perché non provare a condividerlo?
Ma cosa c’era da condividere? Decise che anche questa volta non
avrebbe risposto. Ormai era troppo tardi per spartire qualsiasi cosa
con lui, che fosse gioia o tristezza.
Il giudice aveva stabilito che il padre potesse vedere i figli una volta
al mese, mentre lei una volta a settimana: in programma c’era il
loro progressivo reinserimento a casa sua, ma Stella sentiva
comunque di aver perso il controllo della situazione. Non era più lei
224
a decidere del loro futuro; da quel momento in poi, a occuparsene
sarebbero stati dei perfetti estranei. Iniziò a lavorare come una
forsennata, senza più orari, senza nemmeno sentire la stanchezza.
Nel tentativo di riempire quell’incolmabile senso di vuoto che si
portava dentro, cercava di dedicarsi ai malati come se fossero stati
la sua famiglia.
Eppure niente riusciva a distrarla dalla sensazione di aver fallito
nella sua missione più importante. Quella di madre.
225
Capitolo 54
San Giulio, 8 giugno 2010
Pochi giorni dopo l’inserimento in comunità, Giacomo tentò la fuga.
Gli operatori avvertirono Stella con ben dodici ore di ritardo,
giustificandosi con la scusa di non avere il suo numero. Lei reagì
come una belva ferita: incurante delle rassicurazioni dei servizi
sociali, degli educatori e delle forze dell’ordine, non esitò a
intraprendere la sua personale ricerca. Giacomo aveva visto il
padre il giorno precedente alla fuga, e ben presto si convinse che
l’uomo doveva per forza avergli dato del denaro.
Per cinque interminabili giorni non si ebbero notizie di lui, ma Stella
nel frattempo non si fermò un attimo, agendo con la frenesia tipica
di chi è pronta a tutto: fece appelli ai giornali locali e nazionali e alle
televisioni, girovagando in auto dalla mattina alla sera per
perlustrare a tappeto le zone limitrofe; soprattutto, non perse mai
d’occhio la casa in cui viveva Giovanni. Era attiva giorno e notte.
Non dormiva più.
La sua più grande paura era che il figlio avesse trovato ospitalità in
casa di uno dei malviventi con cui aveva avuto a che fare nei mesi
precedenti.
A quel pensiero, Stella si sentiva tremare dentro.
226
Era pallida e smunta, con due occhiaie profondissime sotto gli
occhi. All’improvviso si sentiva invecchiata di dieci anni, nello spirito
e nel corpo. Non si fidava del lavoro che stavano facendo gli
inquirenti, ed era sempre più certa che non avessero alcuna
intenzione di renderla partecipe delle indagini; semplicemente non
volevano averla tra i piedi.
La sera del quinto giorno crollò, addormentandosi vestita sul
divano. Quella notte fece un sogno che non avrebbe mai più
dimenticato: Giacomo si trovava in casa di una nota famiglia di
pregiudicati che abitavano in un paese limitrofo; si era nascosto in
una stanza angusta, solo e incattivito, ed era in pericolo.
Si svegliò boccheggiando, madida di sudore.
Non si fermò a pensare neanche un secondo: si lavò velocemente
la faccia, afferrò le chiavi dell’auto abbandonate sul tavolino
all’ingresso e guidò fino all’edificio che le era apparso in sogno, la
villetta in cui abitava uno dei malavitosi più potenti e temuti della
zona.
Erano quasi le quattro del mattino e l’abitazione era illuminata a
giorno. Nei mesi passati, Maria aveva visto Giacomo parlare con
quell’uomo in più di un’occasione, e subito l’aveva riferito a Stella,
informando la figlia sulla reale identità dell’uomo. Coordinava lo
spaccio di droga nella provincia torinese, e le due donne temevano
potesse aver coinvolto Giacomo nei suoi loschi traffici.
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Lo avevano anche segnalato ai carabinieri, non ricevendo però
alcuna considerazione. Quella notte nell’abitazione dell’uomo stava
succedendo qualcosa. Decine di automobili andavano e venivano
senza sosta, mentre gli uomini che erano a bordo entravano in
casa e ne uscivano chi dopo pochi minuti, chi dopo mezz’ora.
Nascosta in un vicolo buio, le dita che tremavano violentemente,
Stella compose il numero delle forze dell’ordine.
Dovette fermarsi e ripetere l’operazione più volte prima di udire
finalmente la voce assonnata del commissario.
Giacomo fu trovato proprio in quell’abitazione.
Perché si trova lì?, continuava a chiedersi Stella, senza riuscire a
darsi pace. Cosa pensavano di fare con suo figlio?
Sua madre aveva ragione quando la metteva in guardia. Lei invece
non era riuscita ad allontanare Giacomo dal pericolo…
Si sentiva stanca, infelice, confusa.
Di una cosa sola era certa: quella volta, almeno, era riuscita a
salvare suo figlio.
228
Capitolo 55
Luglio, 2010
Sia a Stella che a Giovanni fu concesso di andare a trovare i
ragazzi in comunità. Stella non si aspettava certo che filasse tutto
liscio, ma nemmeno immaginava quello che sarebbe successo.
L’incontro tra Elisa e Giovanni si rivelò disastroso.
«Dammi subito una sigaretta, papà!» lo aggredì lei non appena lo
vide.
«Non posso, non fare la sciocchina» replicò Giovanni.
Elisa reagì a quel diniego con una violenza spropositata.
Si scagliò contro il padre, urlando.
«È tutta colpa tua se mi trovo qui!».
«Elisa, non comportarti così… si faranno un’idea sbagliata di te!»
cercò inutilmente di blandirla Giovanni.
Quelle parole ebbero come unico effetto quello di accrescere la
rabbia della ragazzina. All’improvviso Elisa afferrò una sedia e
cercò di tirargliela addosso. Poi si buttò per terra e cominciò a
urlare senza sosta: «Io sono qui e tu sei fuori! Io sono qui e tu sei
fuori!». Le sue urla disperate erano agghiaccianti. Si dimenava sul
229
pavimento e intanto agitava i pugni contro il padre, cercando di
prenderlo a calci ogni volta che provava ad avvicinarsi.
Gli operatori della comunità furono costretti a intervenire per
interrompere il colloquio e far allontanare Giovanni.
Ci vollero ore per calmare Elisa, e gli operatori temevano che la
stessa scena si sarebbe ripetuta anche durante l’incontro con la
madre. Avvertirono Stella che, qualora si fosse reso necessario,
avrebbero interrotto il colloquio con la figlia.
Stella però si sentiva stranamente tranquilla.
Anziché andare nel panico al pensiero di quello che sarebbe potuto
succedere, affrontò quell’incontro con uno stato d’animo tutto
sommato sereno.
Ancora una volta le sue sensazioni si rivelarono giuste.
Non appena la vide, Elisa le corse incontro.
Si strinsero forte, piangendo.
«Mamma, coraggio» le sussurrò la figlia tra i singhiozzi, avvinghiata
al suo collo come se non volesse mai lasciarla.
Sembrava che i loro ruoli si fossero invertiti.
Era come se Elisa avesse finalmente compreso la gravità degli
eventi accaduti, accorgendosi al contempo che il padre le aveva
mentito, illudendola con promesse irrealizzabili.
Era arrabbiata con lui e solidale con lei, cosa che appena un mese
prima sarebbe stata impensabile.
«Papà mi ha ingannata, mi ha presa in giro!» ripeteva con voce
rotta dal pianto, stringendo forte le mani della madre.
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Dopo aver seriamente temuto per la sua incolumità fisica, Stella si
accorse che la figlia si stava lentamente riprendendo: la sua
carnagione era tornata rosea, e non aveva più le brutte occhiaie
degli ultimi tempi. Avendo smesso di fumare, le stava passando la
tosse
che
negli
ultimi
mesi
sembrava
diventata
cronica.
Gradualmente stava riacquistando rispetto, fiducia e amore nei
confronti di Stella, e glielo dimostrava facendole tanti piccoli doni.
Il più bello fu un ciondolo a forma di cuore realizzato con la pasta di
sale. Sopra, a caratteri cubitali, c’era scritto “MAMMA”. Stella lo
portava al collo, orgogliosa, come se si fosse trattato di un gioiello
raro e prezioso.
Con Giacomo invece il processo fu più lungo e complicato.
Nonostante le restrizioni giudiziarie, a lui era concesso tenere un
telefonino grazie al quale si metteva regolarmente in contatto con
Giovanni. L’uomo gli mandava messaggi in cui prometteva un
rapido ritorno a casa e continuava ad aizzarlo contro la madre.
Stai tranquillo, Giacomo, sto facendo di tutto per farvi uscire da lì il
più rapidamente possibile. Non sarà facile, perché tua madre e la
psicologa, sua consulente di parte, concordano che la scelta giusta
per voi sia restare in comunità!
Ci sono solo io a pensarla diversamente.
Come se non bastasse, cercava di convincerlo che era stata la
madre a decidere di chiuderlo in comunità. Sosteneva che Stella e
231
la nonna fossero “contentissime” di questa soluzione, e concludeva
asserendo che:
Il giudice mi ha chiesto di fare un percorso psicologico di supporto
alla genitorialità, al termine del quale voi verrete affidati a me, ed è
quello che sto facendo.
Solo che senza di voi è dura…
Non
c’era
dunque
da
meravigliarsi
se
Giacomo
fosse
arrabbiatissimo con Stella: la considerava l’artefice della sua
attuale situazione, e inizialmente non volle neppure incontrarla. Ci
vollero molti mesi prima che tra loro si ricostituisse un rapporto che
non fosse di pura conflittualità, e ciò avvenne solo quando il
ragazzo comprese che le promesse del padre erano fasulle e del
tutto infondate.
Stella visse quel periodo con grande angoscia, sforzandosi di
credere che presto o tardi la verità sarebbe venuta a galla. “La
verità non va difesa”, le aveva detto un giorno il suo confessore
spirituale, esortandola a non perdere mai la speranza. Da quando
si era separata da Giovanni, Stella aveva ripreso a pregare.
Durante il matrimonio, la sua fede e di conseguenza la pratica
religiosa si erano affievolite, ma le vicissitudini vissute avevano
rinforzato la sua spiritualità.
Aveva poi avuto la fortuna di conoscere don Antonio, che a
differenza di altri sacerdoti aveva saputo ascoltarla e consolarla,
non facendola mai sentire in colpa per aver sciolto un matrimonio
232
religioso. L’aveva aiutata senza giudicarla, anzi, più volte la
incoraggiava nella convinzione di aver fatto la scelta giusta.
Da parte loro, le forze dell’ordine le avevano fatto chiaramente
capire come le denunce contro l’ex marito non avrebbero trovato
soddisfazione in questa vita terrena.
Per lei fu una grande delusione, ma al tempo stesso le parole
dell’ispettore di polizia contribuirono a una salutare presa di
coscienza sulle reali possibilità della giustizia.
Stella aveva accusato Giovanni di stalking per le persecuzioni cui
l’aveva sottoposta dopo la separazione. L’ispettore la interrogò a
lungo, quindi tirò un lungo sospiro, poggiò sul tavolo la biro che fino
allora aveva tormentato nervosamente tra le dita, si protese in
avanti e la guardò dritta negli occhi.
«Non crederà mica che nel nostro Paese il suo ex marito pagherà
per i reati commessi?» disse, ruvido, scandendo bene le parole.
«Conosce le leggi italiane?»
Poi aggiunse: «Il suo ex marito potrà anche subire un’ulteriore
condanna, ma glielo assicuro per esperienza, non metterà mai
piede in carcere. Dia retta a me, si metta al sicuro da sola. Cambi
numero
di
telefono,
se
necessario
cambi
anche
città…
Continuando a denunciarlo, ho paura che non solo non otterrà
giustizia, ma aumenterà la sua rabbia. Sono queste le conclusioni
233
cui sono giunto dopo anni di lavoro nel settore, e mi creda, sono io
il più dispiaciuto nel fare queste considerazioni».
La frase che Stella si ripeteva spesso e che ormai era diventata il
suo mantra – la verità non va difesa – la aiutò anche a superare i
momenti difficili con Giacomo.
A poco a poco, infatti, la verità venne a galla per davvero e i loro
rapporti iniziarono a migliorare sensibilmente.
In fondo al cuore, Stella sapeva che il cordone ombelicale che li
aveva legati non si era mai spezzato e che, seppur con fatica e non
senza dolore, un giorno sarebbe riuscita a riconquistare la sua
fiducia e il suo rispetto.
Gradualmente vennero a ricrearsi le condizioni per riaccogliere i
figli in casa, ma Stella sapeva che non sarebbe bastato lavorare
solo su di
loro: lei stessa si sottopose a un percorso
psicoterapeutico intensivo tale da aiutarla a ritrovare se stessa e a
supportare la sua genitorialità.
234
Capitolo 56
Il tempo trascorreva e i ragazzi proseguivano il loro percorso
riabilitativo. Elisa era stata inserita in una piccola comunità per
bambini fino ai quattordici anni e abitava in un’antica badia
ristrutturata, in mezzo al verde, doveva aveva una stanza propria.
La struttura ospitava cinque bambini e una famigliola di gatti: Elisa
non era mai sola, e forse anche per questo si adattò più facilmente
del previsto alle rigide regole che le vennero imposte. Non
possedeva
telefono
né
computer,
non
poteva
fumare
e
gradualmente ritornava a essere una bambina come le altre.
In fondo aveva solo dodici anni!
Ricominciò a dare importanza al gioco e alla lettura, volle iscriversi
a un corso di teatro e disse a Stella che da grande avrebbe voluto
diventare animatrice. Iniziò anche un percorso psicoterapeutico; lo
fece di buon grado, senza opporre resistenza. Grazie al suo
comportamento collaborativo,
gradualmente le permisero di
trascorrere sempre più tempo con Stella, finché non riuscì
addirittura a passare qualche fine settimana a casa con lei.
Tra Elisa e la madre si stava creando quel rapporto di solidarietà,
amore e fiducia che forse non c’era mai stato.
La ragazzina continuava a rifiutarsi di vedere il padre, il quale come
sua abitudine non perdeva occasione per cercare di inculcarle la
sua lettura dei fatti.
235
Non si capacitava del fatto che Elisa avesse ripreso a voler bene
alla mamma. Avrebbe voluto averla nuovamente alleata contro l’exmoglie, ma Elisa rifiutava categoricamente, dimostrando una
lucidità che stupì persino Stella.
Giacomo invece si trovava nel vercellese, in una comunità per
adolescenti situata in un paesino in mezzo alle risaie.
Per molto tempo continuò a ripetere che voleva andare a vivere
con il padre e che non voleva vederla mai più.
Ma Stella resistette. Sapeva che Giacomo aveva bisogno di tirare
fuori tutta la rabbia accumulata negli anni, e che lei ne era
l’obiettivo principale. Ci volle molta pazienza, unita a un intervento
psicoterapeutico lungo e intenso, per fargli comprendere almeno in
parte le motivazioni del suo inserimento in comunità. Fu iscritto a
una scuola professionale che frequentò senza passione.
Dopo i loro primi incontri, Stella si sentiva uno straccio.
Giacomo non perdeva occasione per insultarla e dirle quanto lo
avesse fatto soffrire.
«Quelli passati con te sono stati gli anni peggiori della mia vita! Ti
odio e ti incontro solo perché mi obbligano, ma per quanto mi
riguarda io ho solo mio padre. Tu per me non sei nulla!»
Le sue parole erano spilli roventi che le martoriavano l’anima;
spesso, di notte, restava sveglia a chiedersi dove avesse sbagliato
con lui e cosa avrebbe potuto fare di diverso. Un giorno, durante
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l’ennesimo, sfiancate incontro, ebbe il coraggio di fargli una
domanda.
«Giacomo, dimmi che cosa posso fare per renderti felice» gli
chiese, cercando di incrociare il suo sguardo. «Sappi che io voglio il
tuo bene… e con questo intendo dire che voglio che tu stia bene».
Quella domanda apparentemente banale, mai pronunciata prima
tra loro, ruppe le dighe. Giacomo era come un fiume in piena che
finalmente riusciva a oltrepassare gli argini.
La sua rabbia esplose, incontenibile, seguita da quiete e da
sollievo. In quell’occasione, per la prima volta dopo mesi, non rifiutò
l’abbraccio della madre quando infine dovettero salutarsi.
«Mamma…» La chiamò quando Stella era già sulla porta. «Io
voglio che voi grandi mi lasciate libero di essere me stesso, di
essere felice. In questi anni con le vostre continue liti mi avete fatto
vivere una vita d’inferno. Quando mi arrabbiavo, era come se il
diavolo si fosse impossessato di me… Spaccavo gli oggetti solo
per non fare del male a te. Stavo male, ma nessuno di voi adulti mi
aiutava e mi comprendeva…»
Per Stella quelle parole furono come un pugno in pieno viso.
Fecero un male indescrivibile, e il senso di colpa che ne seguì fu
devastante. Tuttavia in qualche modo riuscì ad affrontarlo, forte del
fatto che da quel momento in poi il rapporto con Giacomo fu
sempre pacifico. Capì di essere sulla buona strada quando suo
237
figlio le scrisse una lettera, la prima da quando frequentava le
elementari e scriveva su ordine della maestra.
Cara mamma,
Ti scrivo perché sento il bisogno di dirti tutto quello che avrei voluto
in questi anni. Non voglio più litigare con te, voglio fidarmi. So che
abbiamo sbagliato tutto, ma voglio ripartire da zero. Quando
ritornerò a casa e tu verrai a cercarmi, io non mi nasconderò più:
sarò orgoglioso di dire a tutti che tu sei mia madre e che ti
preoccupi per me. Ti voglio bene, mamma, avrei dovuto dirtelo
molto tempo fa. Tuo G.
238
Capitolo 57
San Giulio, 4 giugno 2011
Il primo rientro a casa di Giacomo avvenne dopo circa un anno,
quando educatori e psicologi ritennero che fosse divenuto
abbastanza forte da resistere alla tentazione di tornare a
frequentare le cattive compagnie.
Quel giorno Stella organizzò un pranzo con gli amici più cari, quindi
lei e il figlio trascorsero il pomeriggio in giro per negozi, spensierati
e allegri come mai prima, fermandosi a far merenda in un
McDonald’s. La sera invece andarono al cinema. Una volta in
macchina, mentre Stella lo riportava in comunità, fecero una lunga
chiacchierata.
Giacomo era finalmente in grado di parlare con sua madre senza
insultarla, e si accorgeva con un certo stupore che discutere con lei
poteva essere persino piacevole.
«Non avrei mai immaginato di poterti raccontare di me» ammise,
osservandola di sottecchi. «Non mi fidavo. Invece è bello!»
«Forse perché negli anni ho imparato ad ascoltare. Prima riuscivo
solo a dettar regole» rispose Stella, sorridendo lievemente.
Arrossiva rivelando al figlio le sue mancanze, ma sapeva che solo
così lui l’avrebbe sentita davvero vicina. Man mano che Giacomo
riprendeva contatto con la realtà, si rendeva conto di quanto lo
239
avesse ingannato suo padre, e il loro rapporto s’incrinò
profondamente. Dovette ammettere a se stesso che sua madre non
gli aveva mai mentito: con lui era stata forse troppo dura, ma
sincera.
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Capitolo 58
Torino, 3 novembre 2011
Quel mattino, mentre si trovava in corsia a effettuare le visite di
routine, Stella fu raggiunta da una caposala trafelata e rossa in
viso.
«Dottoressa Caminiti, deve scendere subito al pronto soccorso!»
ansimò la donna. «Non perda tempo!»
Dal tono di voce e dal colore livido del suo volto, Stella comprese
che doveva essere successo qualcosa di molto grave. I miei figli!,
fu il suo primo pensiero, accompagnato da una scarica di
adrenalina che le gelò il sangue nelle vene.
«La cerca il dottor Cataldi, si trova in sala emergenze, e…»
Le ultime parole si persero in lontananza. Stella attraversò di corsa
il corridoio e volò giù per le scale facendo i gradini a due a due,
rischiando persino di cadere.
L’ansia cresceva, ricoprendola di sudore freddo.
Dopo pochi minuti che le sembrarono interminabili, finalmente
raggiunse il pronto soccorso. Ancora sulla soglia, vide un gruppo di
suoi colleghi, internisti e anestesisti, che si accanivano su un uomo
nel disperato tentativo di rianimarlo.
Stella conosceva molto bene le procedure di rianimazione.
Era docente di tecniche di supporto vitali di base e avanzate, ma
non riusciva a mantenere l’autocontrollo richiesto nelle situazioni
241
d’emergenza. Il cuore le batteva all’impazzata mentre si avvicinava
al malcapitato, per poi fare un tuffo assordante quando lo sguardo
si posò sul volto innaturalmente cereo di Giovanni.
Fu travolta da una spirale di sentimenti aggrovigliati tra loro.
Pietà, amore, odio, senso di colpa. E ancora terrore, rimpianto,
esaltazione, incredulità.
All’improvviso sentiva mancare la terra sotto i piedi.
Oddio! Era forse per colpa sua se Giovanni si trovava in quelle
condizioni?
Si scoprì a supplicare i colleghi di massaggiare con più energia, lei
stessa a un certo punto si trovò con le mani al centro del torace
dell’ex marito, nel disperato tentativo di riportarlo in vita.
«Cos’è successo?» balbettò, le lacrime che scorrevano a fiumi
sulle guance.
«Infarto» rispose Cataldi, serio.
Una diagnosi lapidaria, che lasciava poche speranze.
«È stato trasportato dall’ambulanza con un dolore toracico e
nell’arco di cinque minuti è andato in arresto. Stella, lo stiamo
rianimando da quarantacinque minuti e non si è ripreso nemmeno
per un attimo…»
La voce del collega era pacata, ma ferma.
242
«No!» supplicò Stella. «Continuiamo ancora! È giovane, ce la può
fare!»
Sfinita, madida di sudore e lacrime, continuava a intestardirsi in un
massaggio senza speranze.
«Basta, Stella. Mi rendo conto cosa tu stia provando, ma ormai è
finita… Ora del decesso, 11:45.»
Cataldi le strinse forte il braccio in segno di solidarietà, ma lei non
se ne accorse nemmeno.
Non riusciva a credere che quella fosse la fine di tutto.
È vero, era arrivata a odiare quell’uomo, a volte aveva persino
desiderato ucciderlo con le sue mani, ma non aveva mai voluto
davvero la sua morte.
C’era stato un tempo in cui aveva amato Giovanni alla follia, l’aveva
sposato contro il parere di tutti e aveva fatto due figli insieme a lui…
Cose che nessuna donna potrebbe mai dimenticare. La morte era
un finale inaspettato, a sorpresa, una beffa del destino, se davvero
esisteva qualcosa che assomigliava al destino.
In fondo erano ancora giovani, e pur avendo intrecciato
indissolubilmente le loro vite, a lei non era mai stato concesso di
capire chi fosse veramente quello sconosciuto con il quale aveva
condiviso più di quindici anni della sua vita.
243
Capitolo 59
Il problema maggiore, la prova più ardua che Stella avrebbe dovuto
affrontare al più presto, era comunicare a Giacomo ed Elisa che il
loro padre era morto.
I ragazzi si trovavano sempre in comunità, in una situazione
emotiva ancora fortemente instabile, e Stella temeva che se la
sarebbero presa con lei, accusandola di aver causato la sua morte.
Non riusciva ad ammetterlo neanche con se stessa, ma temeva
soprattutto la reazione di Giacomo.
La confortava sapere che non si sarebbe trovata da sola a gestire
quella situazione. Gli educatori e la psicologa avrebbero fatto la
loro parte, ma toccava pur sempre a Stella comunicare la notizia
per prima.
Chiese di poterlo fare alla presenza dei due figli insieme.
Era nervosa, non sapeva da che parte cominciare. Quando
cominciò a parlare, non riuscì a trattenere le lacrime.
«Vostro padre è morto ieri… un infarto» singhiozzò, senza riuscire
a guardare i suoi figli negli occhi.
Era da quando era entrata che cercava di evitare i loro sguardi,
certa che, abituati com’erano alle tragedie, Elisa e Giacomo
avrebbero capito immediatamente.
Quando infine alzò lo sguardo, terrorizzata dal silenzio surreale che
era calato nella stanza, vide che Giacomo sembrava diventato di
244
pietra, come se gli avessero iniettato una qualche sostanza
sedativa a effetto immediato.
Se ne stava immobile, senza proferire parola e senza che neanche
una lacrima gli rigasse il viso.
Elisa invece le si buttò tra le braccia.
La sentì tremare, e un per attimo credette che non ce l’avrebbe
fatta a sopportare anche quel colpo.
Ma quell’attimo passò quando sentì la vocina seria e triste di sua
figlia sussurrarle: «Dai, mamma, fatti coraggio. Supereremo anche
questa!».
Contemporaneamente, quasi vi fosse una connessione empatica
tra i due fratelli, Giacomo batté forte i pugni contro il muro e
scoppiò in un pianto rumoroso, irrefrenabile.
Stella lo attirò a sé in silenzio, mettendocela tutta per ricacciare
indietro altre lacrime. Non sapeva più perché piangeva, se per
Giovanni o per sé, per la loro famiglia sgangherata, per il futuro
incerto e un passato doloroso.
Eppure, da qualche parte nel suo cuore, quel giorno era rifiorita la
speranza. Come se dai rami di una pianta più volte sottoposta a
una potatura maldestra, dove molte stagioni erano trascorse senza
che sbocciassero fiori, all’improvviso avessero ripreso a crescere
minuscole foglioline e boccioli appena schiusi.
Stella si sentiva come quella pianta, e i suoi figli erano rami che
riprendevano vita da lei.
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Capitolo 60
Torino, 5 novembre 2011
Il giorno del funerale di Giovanni era freddo e piovoso.
Il tempo rispecchiava lo stato d’animo di Stella, che era stata molto
in dubbio se essere presente o meno. Si sentiva in imbarazzo. Non
aveva più notizie dei parenti di Giovanni ormai da anni e temeva le
loro reazioni.
Fu sua sorella Cristina a convincerla.
«Tu non hai nulla da nascondere, ti sei sempre comportata bene. E
poi Giovanni è il padre dei tuoi figli, tu gli hai voluto bene!»
«Sì, ma in questi anni chissà cosa avrà raccontato ai suoi parenti…
Nessuno si è mai più fatto sentire né con me, né con i ragazzi.
Penseranno che sono una stronza, una poco di buono.»
«Ma tu sai di non esserlo!» ribatté sua sorella. «Devi andare al
funerale a testa alta. Sono loro a essersi comportati male con te,
dimenticandosi completamente anche dei nipoti!»
Fu costretta ad ammettere che Cristina aveva ragione.
In macchina, mentre cercava un parcheggio, si era sentita male,
come se stesse per svenire. Il cuore le batteva all’impazzata e in
pochi secondi si era ricoperta di un sottile strado di sudore gelido. Il
suo cuore le diceva di scappare, ma il cervello le imponeva di
restare.
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Dai, Stella, non mollare proprio adesso!, si ripeteva come un
mantra, cercando invano di calmarsi.
Riuscì persino a litigare con il parcheggiatore abusivo di turno, cui
si rifiutò di dare la mancia. La vecchia Stella non avrebbe mai osato
fare una cosa del genere, anche se la infastidivano non poco le
arroganti pretese di quei perdigiorno, ma la nuova Stella si sentiva
in credito con la vita, ed era ben decisa a non accettare più alcun
tipo di sopraffazione.
Al cimitero, quando a stento riconobbe la suocera nell’anziana
donna che avanzava a fatica col bastone, piegata dalla vita e dagli
anni come un salice, trasformata in una maschera grottesca di
rughe e lacrime, e poi il cognato, reso irriconoscibile dal dolore,
pallido e invecchiato, la grande rabbia che l’aveva consumata per
anni si trasformò in pena. In quell’occasione seppe che mentre lei e
Giovanni si facevano la guerra, suo suocero si era ammalato per
poi spegnersi appena qualche mese prima, consumato dalla
malattia. Chissà, forse tutte le loro peripezie gli avevano spezzato il
cuore e minato il fisico. Forse Giovanni, così legato al padre, era
rabbioso anche per via della malattia del padre e di quella morte
inaspettata, mai accettate.
Perché non gliene aveva mai parlato? Troppo preso dalla sete di
vendetta, non aveva voluto coinvolgerla nella malattia del suocero
neanche come medico.
D’impulso si avvicinò alla suocera. Nonostante i dissapori di quegli
anni, sentiva il bisogno di abbracciarla.
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La donna che vedeva dinanzi a sé era l’ombra di se stessa, un
cumulo di ossa e pelle rugosa, avvizzita.
Quasi senza accorgersene, Stella si ritrovò a sorreggerla.
La donna le lanciò uno sguardo di gratitudine, poi, con voce flebile,
chiese notizie dei nipoti.
La risposta di Stella fu istintiva.
«Quando torneranno a casa, ti prometto che li porterò a trovarti…
hanno tanta voglia di vederti.»
Mentre pronunciava quelle parole, capì quanto potessero utili, a
volte, le cosiddette bugie “bianche”. Trovò la forza di avvicinarsi
anche al cognato, Paolo, che la strinse in un abbraccio
inaspettatamente
vigoroso,
sussurrandole
all’orecchio:
«Ma
perché? Perché tutto questo dolore?».
Stella si morse le labbra, sbattendo velocemente le palpebre per
ricacciare le lacrime. All’improvviso la sua testa si popolò di scene
di vita felici, immagini di tavolate chiassose e baci appassionati,
corse in campagna e gite in bici con i figli.
Anche volendo, non sarebbe riuscita a dare una risposta a suo
cognato. In disparte, mentre il prete mormorava parole che le
apparivano svuotate di senso, quel pensiero la torturava: come
avevano fatto ad arrivare a tanto?
La memoria le stava facendo progressivamente dimenticare le
molte angherie subite, facilitando un perdono tardivo, ma catartico.
Perdonare serviva a lei, era l’unico modo per voltare pagina,
andare avanti nonostante tutto.
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Intanto la pioggia si faceva più intensa, martellante, e a un tratto si
ritrovarono completamente bagnati, con le lacrime che scivolavano
via assieme ai ricordi tristi e felici.
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Epilogo
Torino, 17 dicembre 2011
Quel venerdì sera Stella era di ritorno da un convegno sul lago di
Stresa. Fabrizio, suo compagno da qualche mese, era andato a
prenderla alla stazione. Era allegro e canticchiava a voce alta una
vecchia canzone d’amore trasmessa alla radio.
Anche Stella si sentiva di buon umore.
Quell’uomo, incontrato quando pensava che sarebbe rimasta sola
per sempre, era stato una benedizione dal cielo.
Era dolce, paziente e costantemente sereno.
Si erano conosciuti a Pasqua, durante un viaggio in Terra Santa, in
un momento in cui Stella sentiva il bisogno di riprendere in mano la
sua vita e aveva bisogno di una vacanza che non fosse solo
turistica, ma soprattutto spirituale. Aveva avuto la fortuna di
viaggiare con un gruppetto di persone guidate da un sacerdote
intelligente e simpatico. Mentre cercava se stessa, aveva trovato
Fabrizio, un cinquantenne di corporatura atletica, rappresentante di
una ditta farmaceutica di prodotti omeopatici, dal viso dolce, con
grandi occhi scuri sempre sorridenti, accoglienti come il suo sorriso.
Quel sorriso curiosamente familiare e contagioso l’aveva subito
fatta sentire a casa.
Tra i due era nata una bella amicizia.
Dopo quel viaggio avevano cominciato a uscire con una certa
assiduità; Fabrizio l’aveva corteggiata dolcemente, senza fretta,
251
senza farle pressioni. Aveva condiviso con lei le angosce per il
destino dei suoi ragazzi in comunità ed era stato per lei di grande
conforto.
Aveva compreso che Stella aveva bisogno di tempo per
riacquistare fiducia in se stessa e negli uomini.
Il percorso di psicoterapia la stava aiutando a recuperare le
energie, a credere nuovamente nelle proprie risorse dopo il
disprezzo di cui era stata vittima per tanti anni. Fabrizio era entrato
nella sua vita al momento giusto, mentre Stella lentamente
rinasceva: in quel periodo aveva riallacciato i rapporti con la
famiglia, ripreso i contatti con i vecchi amici, da cui aveva ricevuto
affetto e sostegno, e stretto nuove stimolanti amicizie. Trovare la
forza di denunciare, non solo giuridicamente, le violenze subite da
Giovanni si era rivelato determinante per la sua autostima: si era
liberata dalle angherie dell’ex marito a testa alta, ma si era
ripromessa che mai, mai più avrebbe avuto una relazione stabile. E
invece Fabrizio aveva trovato il modo di aggirare le sue difese,
colpendola al cuore nel modo più dolce e indolore possibile. Si
trasferì da Stella con gradualità, dopo l’esplicita richiesta di lei,
senza mai costringerla a prendere una decisione definitiva. Voleva
vivere con Stella, ma voleva che fosse lei a deciderlo. Nei fine
settimana, quando ai ragazzi era concesso tornare a casa, Fabrizio
spariva, comprendendo la necessità di Stella di passare del tempo
da sola con loro.
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Fu solo dopo molti mesi che cominciò a partecipare a qualche cena
con loro. Con dolcezza e pazienza, cercò di conquistarsi le loro
simpatie poco per volta.
Inaspettatamente interagire con Giacomo fu più semplice, quasi
naturale. Condividevano la passione per le moto, e un giorno
Fabrizio lo sorprese regalandogli un motorino, quello che aveva
sempre desiderato e che suo padre gli aveva promesso tante volte,
senza mai mantenere l’impegno.
Giacomo era al settimo cielo.
Elisa fu più sospettosa, all’inizio sembrava quasi chiedersi cosa
volesse quell’uomo da sua madre. Ma ancora una volta la pazienza
di Fabrizio e il suo savoir-faire discreto, mai invadente, si rivelarono
determinati.
Presto anche Elisa si affezionò a lui, arrivando a parlargli dei
problemi di scuola e della cotta per un compagno di classe.
Fabrizio provava nei loro confronti un affetto sincero; la vita non gli
aveva concesso dei figli, e lui iniziò ad amare quelli di Stella come
se fossero i suoi.
I ragazzi rientrarono definitivamente a casa dopo due anni
dall’ingresso in comunità. Crescendo, Elisa era diventata molto
bella: la bambina ostile e aggressiva si era trasformata in una
ragazza gioiosa, entusiasta e piena di interessi.
La prima cosa che Stella e sua figlia fecero insieme dopo il suo
rientro fu un lungo viaggio.
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Meta prevista: il Brasile. Lì Stella prestò servizio come medico
volontario, mentre Elisa aiutava le volontarie ad accudire i bambini
più piccoli.
Fu un’esperienza intensa, che rafforzò ancora di più il loro legame,
aiutando Elisa a prendere coscienza della fortuna di avere una
casa e una famiglia, per quanto con un passato difficile alle spalle.
Dopo quel viaggio, madre e figlia presero l’abitudine di fare molte
cose insieme. Cantavano in un coro, andavano a sciare,
frequentavano
i
teatri
e
i
cinema.
Fabrizio
s’inserì
progressivamente in quel loro rapporto ritrovato, ma lo fece solo
quando comprese che Elisa era pronta.
Giacomo tornò a casa qualche mese dopo, a novembre, dopo la
conclusione del ciclo di scuole professionali che frequentava.
Aveva deciso di terminare i suoi studi iscrivendosi a un istituto
alberghiero. Dopo la morte del padre aveva smesso di fumare, non
aveva più l’ansia di stare sempre in giro e restava volentieri in casa.
Era diventato anche piuttosto volenteroso nello studio, riprendendo
a fare attività sportiva e a giocare a scacchi.
Si trovò subito una fidanzatina, una ragazza con cui condivideva
parecchi interessi e che fortunatamente amava stare in casa in loro
compagnia.
I litigi di un tempo, la rabbia e l’aggressività esasperate dall’uso di
stupefacenti che gli alteravano l’anima e il corpo, sembravano i
ricordi di un tempo lontanissimo; raramente c’erano degli scontri,
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ma si trattava di episodi sporadici che passavano senza lasciare
strascichi. Questo anche grazie a Fabrizio, che aveva il dono di
portare pace ovunque si trovasse.
Dopo anni di tempesta, Stella sentiva che finalmente anche per lei
era arrivata la quiete.
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