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Paolo Pedrazzini
Cinquanta più di te
Chi avrebbe mai pensato che una persona così piccola potesse viaggiare portandosi dietro una
tale quantità di roba. Sei arrivata con un bagaglio capace di bloccare una dogana per ore, e non sto
parlando di pannolini e corredino. Non appena entrata nella mia vita hai aperto il tuo baule e una
caterva di cose ha cominciato a riversarsi tutt’intorno. Un vero prolasso.
Non sono ancora riuscito a dividerle per genere, figurati a metterle in ordine. C’è sempre
qualcosa di nuovo che salta fuori e c’è sempre qualcosa di già visto che si trasforma in qualcos’altro
proprio nel momento in cui sono convinto di averlo compreso. Perché tu, nel frattempo, cresci a una
velocità impressionante, sempre sulla corsia del sorpasso, e mi lasci come un cretino a guardarti filare
via.
Io non voglio e non posso vederti sparire all’orizzonte, così mi tocca schiacciare sul pedale e
starti sempre dietro, senza soste, anche se non sono abituato a certe andature e il mio motore non è
più tanto elastico. Certe volte è divertente, altre una specie di incubo, talvolta gioia. Tutte le volte
è comunque una fatica. Forse perché, come si dice di altri con mal celato piacere, non sono più un
ragazzino. Ho un’età in cui si può cominciare a buon diritto a trastullarsi con le somme di un primo
vero bilancio o, volendo, a spaventarsi sul serio col fantasma della cessazione attività. Due esercizi comunque difficili da fare al volante. Ma la mia età rimane quella. Ho l’età che ti concede di chiamare
esperienze le cose che hai fatto perché ormai cadute in prescrizione, dandoti l’ingannevole sensazione
di possedere d’ufficio qualcosa d’interessante da raccontare. Come se quantità e qualità fossero la stessa
cosa.
Ma va così, per cui io posso permettermi di raccontare con l’aria di chi ha piena facoltà di
farlo. Una cosa che dovrebbe riuscirmi anche mentre t’inseguo.
Per questo ho deciso di provarci. Con molta calma, ma anche con la presunzione necessaria
all’ipotesi di un risultato finale che si possa chiamare senza vergogna “libro”.
Un capitolo alla volta, senza sapere ogni quanto, senza poter scommettere per quanto.
Quel tanto o quel poco che ne verrà fuori è tutto tuo, anche se adesso sai leggere soltanto le O.
Tuo padre
Uno
Quando a tua madre si ruppero le acque
Quando a tua madre si ruppero le acque, come volgarmente si usa dire, si ruppero per
davvero. Anzi, a voler essere precisi, esplosero. Se ne stava sdraiata sul divano quando
improvvisamente si udì distintamente un pop (o forse uno skiop, non ne sono sicuro) che
non proveniva dalla tivù accesa sul circo come qualche ora prima, anche se avrebbe potuto essere il rumore di un palloncino pieno d’acqua scoppiato in faccia a un clown. Tua
madre fece un salto, mentre il cuscino del divano s’inzuppava come un biscotto nel tè. Esclamò «occazzo!» e poi corse in bagno. Anch’io dissi qualcosa di simile e poi corsi a
mettermi le scarpe. Il momento di andare in ospedale era arrivato.
Che fossimo vicini all’inizio del gran finale lo si era capito da un po’. Prima di cena
t’eri messa a dar di calci e pugni con particolare violenza, piazzando micidiali serie di colpi contro qualunque parete del tuo alloggio ti capitasse a tiro. Poi giù altre botte mentre
cenavamo, tanto da costringere il tuo provato contenitore a gettare il tovagliolo come fosse
la spugna e ad andare a cercare un po’ di requie in posizione orizzontale. Ma invece della
requie trovava le prime contrazioni, da manuale per frequenza, intensità e compagnia bella. Te lo posso dire con assoluta certezza perché l’addetto al cronometraggio ero io, per la
prima volta in vita mia completamente calato nel melenso personaggio del marito zelante
formato per l’evento.
Nella scatola delle sacre reliquie si conserva il foglietto su cui annotavo diligentemente le scosse telluriche di cui tu eri l’epicentro. Eccolo qua. Incolonnati in modo via via
sempre più sbilenco, a partire dalle 21.30, i minuti e i secondi d’intervallo tra un’espressione normale e una decisamente meno sulla faccia di tua madre, con tanto di durata delle
fitte tra parentesi: 3.10 (36”), 4.16 (51”), 1.58 (41”), 2.11 (36”) e via così fino all’esplosione
di cui stavo dicendo, preceduta e agevolata da un bagno caldo rilassante come da manuale.
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L’esplosione era il segnale convenuto. Le istruzioni parlavano chiaro: andare in
ospedale solo dopo la rottura delle membrane, senza bisogno di scapicollarsi se il liquido
che ha inzuppato il divano è limpido, ma di corsa se invece si presenta giallognolo, verdognolo o di qualunque altro colorognolo. Fortunatamente, il controllo limpidezza non
rivelò problemi, per cui salimmo in macchina con una fretta adeguata alle circostanze, e
la giusta dose di adrenalina di chi ha una missione importante da compiere.
Percorrere la quindicina di chilometri che separa casa nostra dall’ospedale alle due
del mattino è ben diverso dal farlo di giorno. Magari lo sapevi, per questo decidesti di suonare l’allarme proprio quando il varesotto dorme il suo sonno più profondo, quello biologico che si pratica di notte, nel silenzio interrotto soltanto dal passaparola dei rottweiler
di ronda nei giardini delle ville. A quell’ora, in macchina si scivola via senza intoppi di
rotatoria in rotatoria, passando i semafori lampeggianti giallo semplicemente rallentando
per guardare il nulla e il nessuno in arrivo. Con nessuno davanti e nessuno di dietro. Non
ci sono pick-up di vivaisti con svolazzo di foglie secche al seguito, né plotoni di allegri
ciclisti sovrappeso e sovraetà. Nessun camion targato chissaddove alla ricerca della fabbrichetta infrattata tra le colline e nessuna vecchia panda bianca che viaggia a trenta all’ora.
La coppia d’anziani che la tiene come un gioiello adesso respira pesante nel suo letto di
noce massello firmato Il Regno del Mobile, vegliata dai sorrisi di padre pio nella sua cornice
e delle dentiere nei loro bicchieri.
È l’ora in cui gli unici occhi aperti da queste parti sono quelli piccoli e rossi degli
antifurto messi a guardia delle villette con taverna. Quindi, nei limiti delle circostanze,
viaggiamo che è un piacere: tua madre, seduta sopra un asciugamano (che non basterà a
evitare di macchiare per sempre il sedile) soffre il casino che stai facendo con ammirevole
dignità, la valigia sta di dietro e io al volante, impegnato nella guida più morbida di cui
sono capace, zigzagando dolcemente tra le buche e i tombini. In condizioni di traffico normale, questi stessi quindici chilometri di strada provinciale sono lunghi almeno il doppio.
Ricordo bene l’ultima volta in cui li abbiamo fatti noi tre insieme.
Stavamo andando in ospedale a una puntata speciale del corso pre-parto, una delle
tre che mi hanno visto tra i partecipanti seduti in cerchio sugli enormi cuscini. Stai pensando che tre volte sono troppo poche e che non mi sono certo sprecato. Hai ragione. Mi
sono limitato allo stretto indispensabile, che finiva per essere trattato solo negli ultimi
incontri del corso, quelli in cui si sarebbe affrontato il clou di tutta la faccenda, quando si
comincia a far sul serio ed è meglio per tutti gli interessati avere almeno una vaga idea di
come converrà comportarsi. Mica perché i duri cominciano a giocare solo quando il gioco
si fa duro, ma semplicemente perché non volevo fingere di condividere con le aspiranti
puerpere tutte quelle mamma-sensazioni, a noi maschi precluse d’ufficio, di cui abbondavano le prime lezioni. Una volta appurato che la tua non si sarebbe sentita una ragazza
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madre a causa della mia assenza, avevo serenamente bigiato buona parte del tutto.
Ma quella volta ci volevo essere. E allora eccoci in macchina nel primo pomeriggio,
diretti all’ospedale lungo l’interminabile sequenza di paesi dal nome che finisce in ate, al
ritmo di un paese un semaforo e di un semaforo una coda, lunga e indolente quanto basta
per rimanerci per un paio di rossi almeno.
Quando quello nel centro di Gavirate si fa finalmente verde, io e tua madre prendiamo il suo stesso colore nel vedere un gattino sbucato dal nulla correre sotto l’auto davanti
alla nostra nel preciso momento in cui questa sta partendo. Hai presente il gato che tempo
fa è entrato a pieno titolo nella compagnia di peluche con cui passi le notti? Ecco, un affare così, grande così, ma molto più espressivo e mobile del tuo. Una palletta di pelo con
due occhi fuori misura che anch’io ci passerei le notti a stringerlo. Una piccola cosa nata
da poco che non ha ancora avuto il tempo di sapere che con il verde le macchine partono,
le ruote girano e se ci stai davanti ti schiacciano e ti lasciano a zampettare nell’aria i tuoi
ultimi istanti prima di rimandarti nel posto da dove sei venuto. Senza nemmeno accorgersene. E senza che noi, spettatori impotenti sull’auto che segue, possiamo farci qualcosa, se
non gridare una sfilza di inutili no, no, no!
La morte non è mica bella, credimi. Basta che ti sfiori leggermente e ti senti aprire
un buco dentro. Tutto quello che hai intorno si svuota all’improvviso come un palloncino
gonfiato da qualcuno con l’alito pesante. Tu resti lì, quel niente che sei, a reagire per quello
che sei. Tua madre scoppiò a piangere. L’avrei fatto volentieri anch’io, ma c’era un’auto da
guidare, un ospedale da raggiungere, una lezione del corso pre-parto a cui assistere. E c’era
soprattutto una donna incinta da consolare, da allontanare il più velocemente possibile da
ogni possibile equazione sulla fragilità dei cuccioli. Rimasi in silenzio perché non sapevo
cosa dire di buono. Guidai fino al parcheggio dell’ospedale, buttando qua e là qualche sù,
dài… e incerte carezze sulla sua testa.
Nello stanzone c’erano già tutte, le future mamme stravaccate con la pancia a mongolfiera in mezzo alle gambe e il marito, chi ce l’aveva, appollaiato premurosamente al
fianco. L’ostetrica iniziò la lezione annunciando la novità del giorno: un breve momento
di rilassamento per tutti, secondo un’utilissima tecnica che certa tizia ci avrebbe illustrato.
Prese la parola una panza tra le altre, plurimamma di quelle entusiaste, felice impasto di
serene certezze new age. Questo non è il momento di spiegarti che cosa voglia dire new age:
per adesso accontentati di sapere che tuo padre si augura che nella tua vita tu ne possa fare
felicemente a meno, un po’ come per dio e le sigarette.
Ispirati dalle note di un cd di quelli che trovi nelle librerie, ordinati in un apposito espositore per un trascendentale assaggio in cuffia, con titoli che vanno da Serenity a
Chakra Music passando per InSPAration, noi mariti, quelli che c’erano, avremmo dovuto
cominciare a massaggiare ognuno la propria signora alla base del collo con movimenti
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lenti e circolari. Al lodevole scopo, come annunciato, di provocare in lei un profondo
e salutare rilassamento. Lentamente, ecco, così, bravi. Bravi che? Il collo di tua madre è
tirato come una corda di violoncello sulla quale le mie mani abbozzano goffi arpeggi
senza convinzione. Penso che potrei rendermi più utile se cominciassi a rilassarmi io, ma
l’insopportabile arpa in sottofondo me lo impedisce tassativamente. Guardo la nostra
guida spirituale: con gli occhi chiusi e il sorriso beato sta massaggiando una donna senza
partner, molto meno rilassata di lei. Torno a tua madre e al mio incerto lavoro e vedo goccioloni scivolare giù dai suoi occhi. Si alza di scatto, singhiozzando uno scusate... ed esce
dalla stanza, accompagnata dalle imperterrite note dell’arpa lagnosa.
Rimango lì quel tanto che basta per vedere la santona pregna girarsi verso di me al
colmo di un’inaspettata gioia:
«È bello, quando succede. È liberatorio, butta fuori tutta la negatività!».
La lascio a godersi il suo miracolo e raggiungo tua madre nel corridoio. Che l’estatica cretina pensasse pure quel che preferiva, tanto non avrebbe nemmeno lontanamente
sfiorato la verità. Quel pianto che non voleva smettere non era quello di una donna rilassata.
Era quello di mamma gatta per il suo bambino morto.
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Due
Ci sono luoghi dove la notte non arriva mai del tutto
Ci sono luoghi dove la notte non arriva mai del tutto. C’è sempre una luce accesa da
qualche parte e qualcuno che fa qualcosa circondato dal silenzio. Perché è a guardia di un
posto quando tutti gli altri se ne sono andati, oppure perché il lavoro che fa è di quelli
che non ammettono chiusure, dal momento che la gente, sebbene sia notte, non smette di
far del male e di farsi male, di ammazzarsi e di ammazzare, di nascere e di morire. Senza
dimenticare che al nemico piace notoriamente approfittare delle tenebre per dare l’assalto.
In questi luoghi la notte non spegne tutte le luci, è un rarefarsi di presenze in un
silenzio mai del tutto completo. Trovi una porta aperta su un atrio deserto o un campanello al cui suono qualcuno dovrebbe prima o poi reagire. Che sia un custode dalla faccia
stropicciata o un piantone disturbato nel punto più delicato delle parole crociate facilitate,
lì c’è qualcuno.
Dammi pure del cretino, ma questi posti talvolta esercitano su di me un fascino
perverso. Mi repellono e mi attraggono insieme. Mi repelle la luce tremolante dei neon
che illumina a stento le pareti verdoline segnate da impronte e strisciate nere di scarpe.
Mi repelle l’enorme macchina a gettoni del caffè che ronza nel silenzio di un androne
in compagnia del cestino dei rifiuti sbrodolato e appiccicoso. Il linoleum che si solleva
a bolle, le sedie sgangherate, gli avvisi, gli orari, le comunicazioni più disparate che si
mummificano a strati sulle porte a vetri, trattenute da pezzi di scotch secco e ingiallito. Accuso l’effetto insano di quel fisiologico squallore proprio dell’edificio pubblico,
che si manifesta con una coerenza impressionante in ogni singolo dettaglio dell’avvilente
insieme. Anche perché quando mi ci trovo non è mai per diletto. Ma se supero l’impatto
e mi rassegno definitivamente all’idea di non essere dove dovrei, ovvero nel mio letto, mi
succede di cominciare ad avvertire un’incomprensibile sensazione di adeguatezza al luogo
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e al momento, che a volte riesce persino a trasformarsi in una sottile euforia. Mi sento in
un avamposto della realtà, con tutte le rogne del caso ma anche con la pacificante consapevolezza di essere nel posto giusto al momento giusto per affrontare lo schifo che mi tocca.
È il momento in cui tutti gli altri, quelli che dormono, si stanno perdendo qualcosa.
E mai come in quella lunga e afosa notte d’estate, quando tua madre e tuo padre
varcano la porta aperta dell’ospedale e attraversano l’ingresso illuminato dal tremore dei
neon morenti sul verdolino delle pareti segnate da impronte e strisciate nere di scarpe eccetera eccetera.
L’unica luce che interrompe la penombra nel corridoio del reparto maternità proviene da una porta aperta che ha appena inghiottito un’infermiera apparsa dal nulla. Ci
infiliamo anche noi per dire ecco, ci siamo, diteci, fateci.
Nel microscopico ambulatorio, un medico che ricorda in modo impressionante il
maggiordomo di casa Addams comincia a interrogare tua madre e le scartoffie al suo seguito, una cartelletta gialla lievitata insieme a lei nel corso dei mesi, visita dopo visita, esame
dopo esame, che esattamente come tua madre fa sempre più fatica ad abbottonarsi.
Nella cartelletta gialla c’è tutto, anche le stampe delle tue ecografie tridimensionali
di ultima generazione, tecnologia avanzata e godimento puro per il ginecologo a pagamento quando accende il megaschermo davanti alla gestante, con un coup de théâtre di sicuro
effetto che finisce per agevolare in parte la digestione del costo della visita.
Le prime ti ritraggono in fase girino, e richiedono uno sforzo che non è da tutti per
riuscire a suscitare un vero moto d’affetto. Seguono quelle che tua madre ha guardato la
prima volta e poi più per evitare di procurarsi incubi cronici, come succede regolarmente
alle portatrici di forme di vita aliena in certi film di fantascienza. Difficile darle torto,
provando ad immedesimarsi e a pensare che le fotografie di quell’effetto speciale a cui
puoi contare le dita adunche sono state scattate in un set budelloso allestito dentro la tua
pancia. Infine le ultime, quelle che a guardarle non potevo crederci, dove ti si vede incredibilmente grande, nitida e già in possesso di una tua faccia, di una tua espressione, nonché
di un paio di guance di considerevoli dimensioni.
Il dottor Lurch scartabella, legge qua e là, chiede conferme e compila stancamente
con l’aria di chi non ha mai fatto altro nella sua lunga vita, anche se in realtà dev’essere
più giovane di quanto sembri. Quando finisce con le scartoffie, la sua attenzione si sposta al tuo contenitore e soprattutto alle sue movimentate intimità. Così si unisce l’utile
al dilettevole e mi si manda via, a sbrigare burocrazia in accettazione, giù al pianterreno
deserto dove, cercando bene, alla fine trovo qualcuno in grado di accettarci, se non per
quello che siamo, almeno per quello che le carte dicono di noi.
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Svariate firme distribuite qua e là tra le pagine degli incartamenti sanciscono ufficialmente che da questo momento non siamo più la coppia in dolce attesa: ora siamo una
partoriente che deve partorire. Una delle tante di ogni giorno che, come tutte, si sente a
buon diritto l’unica.
Un po’ meno unici riusciamo a sentirci invece noi, mariti, compagni, fidanzati o
comunque si vogliano chiamare i corresponsabili dell’evento in corso che padri ancora
non possono dirsi. Siamo semplici gregari improvvisati, che nella migliore delle ipotesi si
limiteranno a passare qualche borraccia al campione, incoraggiandolo a tenere duro per
la volata. Questo almeno ci chiedono i tempi moderni, che non sono più quelli in cui per
fare il proprio dovere d’imminente padre era sufficiente starsene in una sala d’attesa a fumare quantità industriali di sigarette. C’è tanto di letteratura al riguardo nelle barzellette
della Settimana Enigmistica e nei film americani degli anni cinquanta, dove, a cose fatte, il
neo-padre offre sigari a manciate per festeggiare.
Oggi non si può fare nemmeno un tiro di sigaretta, ma in compenso si partecipa
molto, volenti o nolenti, entusiasti o meno del posto in primissima fila che ci è stato riservato per assistere a tutto il parto minuto per minuto. Oggi si usa così,
malgrado sopravvivano ancora sacche di resistenza maschile dove il biglietto per il lieto
evento viene generosamente girato alla suocera o alla cognata, perché tutta la faccenda è
sempre stata cosa da donne ed è giusto che resti tale.
Nel corridoio semibuio, a qualche sedia di distanza da quella su cui sto aspettando
di veder ricomparire tua madre, un altro sta vivendo la mia stessa avventura. Quando mi
sono seduto ci siamo sentiti in dovere di biascicare un saluto vagamente complice, ma fortunatamente ci siamo fermati lì, senza che a nessuno dei due venisse in mente di dar vita
a un qualsiasi tentativo di conversazione. Se al nostro posto ci fossero state le nostre altre
due metà, queste starebbero già amabilmente conversando di emorroidi e di strane perdite.
Noi no. Siamo uomini, noi.
Non capisco se il compagno d’attesa adesso stia dormendo o se invece si sia semplicemente afflosciato su se stesso col passar del tempo, entrando in una specie di stand-by a
risparmio energetico.
Devi sapere che la grande attesa è composta a sua volta da un insieme di tante altre
attese minori, che noi gregari impariamo a consumare dove ci dicono di stare. In questo
momento io attendo che il dottor Lurch finisca di visitare tua madre, cosa stia attendendo
l’altro non so. Non so in quale delle apparentemente innumerevoli fasi che precedono il
dire - è fatta - si trovi al momento la donna che dovrà renderlo possibile. Che sia arrivato
prima di me non significa granché. La coda per partorire è per definizione una delle più
indisciplinate che si possano immaginare persino in questo paese, dove superare il prossimo è da sempre un’autentica forma d’arte.
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In ogni caso non sono più l’ultimo arrivato: la luce dell’ascensore si è aperta sul
buio, illuminando una coppia che viene ad aggiungere a questo turno di notte la sua personale attesa. Onestamente, il suo ingresso risulta ben più suggestivo di quello dei tuoi
genitori: seduta sulla carrozzella spinta da lui, una lei di molto gradevoli fattezze scivola
silenziosamente preceduta soltanto dal suo sferico ventre, che esplode nudo in tutta la sua
tensione tra la canottiera troppo corta e i pantaloni troppo bassi.
Altezzosa come sanno esserlo solo le regine mitologiche nelle parodie di Totò, fiera
della sua nuda protuberanza come un’attrice americana alla sua terza gravidanza, questa
donna è l’immagine della rivincita femminile sui tremendi scamiciati a sacco che occultavano le carni, la femminilità e le decine di chili di troppo delle gestanti d’una volta.
Lui, dal canto suo, nei pantaloni bianchi a mezzo polpaccio pieni di tasche e stringhe, la
magliettina aderente del villaggio vacanze, il marsupio e le scarpe ginniche con gli ammortizzatori, è invece la conferma che il genere maschile ha conosciuto tempi assai migliori.
Lui parcheggia la carrozzella, lei scende con affaticata grazia, guardandosi intorno
con un paio di gelidi occhi azzurri di probabile importazione. L’unica concessione che il
suo corpo ha fatto alla gravidanza è concentrata là dove non se può proprio fare a meno.
Lui le zampetta intorno premuroso, lei ha l’aria seccata di chi vorrebbe tanto trovarsi altrove.
Adesso sono certo che l’altro non sta dormendo: i suoi occhi hanno seguito la scena
tanto quanto i miei, e ora che la regina straniera ci sfila davanti mirano ad alzo zero un
culo di tutto rispetto. Esattamente come ho fatto io, te lo confesso.
In fondo, sono anch’io un maschio fecondatore.
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Tre
Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli
Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli.
Questa perfida minaccia la potrai leggere nella prima parte di un librone che da parecchi secoli è solidamente piazzato nella classifica mondiale dei best sellers. Il suo autore
è un perfetto sconosciuto che, come puoi ben vedere, nutriva un evidente risentimento
nei confronti del genere femminile. Io sono a favore della libertà di stampa, per cui mi
sta anche bene che il vendicativo scrittore abbia potuto sfogarsi trattando le donne come
cagnotti per centinaia di pagine. Il punto è che tutte queste carinerie il furbacchione le ha
messe in bocca al protagonista del libro, un supereroe locale (l’azione si svolge in medio
oriente) dall’incazzatura facile quanto micidiale, che i lettori, presi dall’entusiasmo, hanno
cominciato a ritenere reale.
Anche qui nulla da dire, ognuno è libero di credere in ciò che preferisce. Quando
però i fans più sfegatati hanno iniziato a pretendere che ogni frase del tomo, debitamente
numerata per praticità, venisse considerata legge da qualunque essere vivente sulla faccia
della terra, allora sono cominciati i problemi.
Oggi, per fortuna, quasi nessuno può più prendersi la libertà di strapparti le unghie
o altri pezzi più o meno necessari del corpo se ti permetti di sollevare qualche dubbio in
proposito, ciò nonostante sentenze come quella di cui sopra hanno lavorato così a fondo
nei secoli che ancora ne portiamo visibilmente i segni. Tanto che il legittimo desiderio di
un parto il meno doloroso possibile spesso viene ancora guardato con sospetto. C’è da rallegrarsi al pensiero che il libro non si sia ugualmente espresso in merito alle cure odontoiatriche. Fatto sta che il partorire con dolore sembra venir considerato come una solidissima
tradizione, di quelle che suona da stronzi cercare d’evitare, un po’ come succedeva una
volta per il servizio militare: si è sempre fatto così da che mondo è mondo, e che diamine,
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che sarà mai? E malgrado poche cose al mondo siano tanto soggettive come la soglia del
dolore, lo svolgimento di un parto e la scelta del primo pasticcino del vassoio, nell’anno
duemilasei, nel paese in cui viviamo, tua madre può ritenersi fortunata a potersi giovare,
per giunta gratuitamente, di una stregoneria chiamata a piacere epidurale o peridurale.
Un’anestesia parziale, in poche parole, somministrata goccia a goccia da un sondino infilato tra le vertebre lombari. Una scelta che le ostetriche non gradiscono molto. Ci vuol
poco a scoprirlo, frequentando il corso che è cosa loro. Bastano pochi incontri per veder
tracciarsi una linea che divide in due distinte fazioni chi si occuperà di far nascere la tua
progenie.
Da una parte ci sono loro, le vestali del Parto Naturale, riconoscibili per il sesso,
rigorosamente femminile, il camice giallo e la pacata gentilezza vagamente ispirata con cui
ti trattano, che ha il potere di farti sentire immediatamente inadeguato, non si sa bene se
per la tua ignoranza in materia o per la colpa di esserti occupato fino a quel momento di
cose molto più banali del rituale della nascita.
Dall’altra parte dello schieramento i medici, maggioranza maschile in camice verde,
gente di poca poesia che pare viva il parto altrui alla stregua di un qualunque altro evento
ospedaliero di routine, tanto quanto l’asportazione di un’unghia incarnita. Non a caso,
la fazione gialla accusa la verde, più o meno apertamente, di voler medicalizzare il parto e
di non vedere l’ora di poter immobilizzare la partoriente a gambe aperte, covando sotto
sotto la speranza di risolvere ogni eventuale impiccio con un bel taglio cesareo. Riguardo
al sentirsi inadeguati a contatto dei verdi, valgono anche in questo frangente i tradizionali
rapporti con i rappresentanti della categoria: è dai tempi in cui portavano tabarri e cappelloni neri e parlavano tra di loro in latino per non farsi capire che noi umani stiamo
cercando il dialogo. Talvolta si ha l’impressione d’avercela fatta, ma sono casi piuttosto
rari.
Chiedendo l’epidurale (o peridurale, a seconda dei gusti), tua madre ha compiuto un
passo significativo: ha messo un piede oltre la linea di demarcazione verso il territorio dei
verdi, un gesto che le ha precluso l’ingresso e la possibilità di partorire nella Stanza della
Cicogna, il Tempio del Parto Naturale, un luogo bello e colorato che non ha nulla d’ospedaliero, dove l’ospite può scegliere se partorire in acqua, in poltrona, per terra, seduta, in
piedi, attaccata a una liana e probabilmente anche a testa in giù, se le garba. Ma non solo.
In quella specie di miniappartamento insonorizzato, dotato pure d’impianto stereo e di televisore, la futura mamma gode della massima libertà di scelta anche per quanto riguarda
gli invitati, per cui può decidere di partorire in compagnia delle amiche del corso di pilates
come dell’intera sezione ottoni della banda comunale.
Certe scelte si pagano, anche se non pesantemente come succede nelle pagine del
librone, così in questo momento tua madre e io non ci troviamo nel magico, protettivo
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mondo della Stanza della Cicogna, bensì nell’austera e promiscua Sala Travaglio, posta esattamente di fronte, come a ribadire l’irrimediabile separazione tra i due pianeti del parto.
Il nostro non concede nulla né all’estetica né all’intimità: più scarno ancora di una
camera d’ospedale, contiene quattro lettini e un paio di paravento. Le finestre dai vetri
lattiginosi sono chiuse davanti alle tapparelle abbassate sulla notte afosa. L’unica musica
di cui disponiamo è quella ossessiva dei cardiotocografi, sensori che avvolgono le pance
come potrebbe farlo una cintura da campione del mondo di boxe intorno a un cocomero,
incessantemente impegnati a monitorare tre piccoli cuori e le contrazioni uterine delle rispettive madri, riproponendo i loro battiti amplificati in un ritmo costante di vuuu vuuu
vuuu, che invece di rassicurare con la sua regolarità angoscia come un antifurto che non
vuole smettere di suonare.
Su questa base ritmica s’inserisce di tanto in tanto qualche intervento vocale che
non migliora l’insieme: spossati lamenti o urletti improvvisi come le fitte che li hanno
causati. Siamo in buona compagnia e, se è vero che il mal comune è mezzo gaudio, possiamo stare allegri. E in effetti si può dire che lo siamo. Tua madre si sta rilassando grazie
alla pozione magica, l’ostetrica passa, guarda, controlla, sorride e sembra soddisfatta della
situazione. Sono quasi le quattro del mattino e tutto va bene.
Dagli addetti ai lavori, tua madre viene data come favorita nel toto-parto. Per cui
dovrebbe sgravarsi prima delle sue due compagne di travaglio, una ragazzona bionda dall’aria simpatica e l’algida regina arrivata in carrozzella, che è effettivamente straniera. Da
quando è entrata nella stanza non ha fatto altro che lamentarsi con il marito in una lingua
che ci è sembrata russo. Così noi l’abbiamo battezzata l’ucraina. Lui è rimasto l’anonimo
di prima, con i suoi calzoni da pinocchio pieni di stringhe e il marsupio intorno alla vita.
A un certo punto, lei s’è messa a piangere e a frignare senza sosta ripetendo qualcosa. Lui
cercava di calmarla fino a ottenere dei da…da non troppo convinti.
Finché non è arrivato un trio duemedici-un’ostetrica ed è cominciata una questione. Per quello che abbiamo potuto capire, era da un po’ che lei giocava a tira e molla con
l’epidurale (o peridurale, a seconda delle stagioni), prima chiedendola, poi rifiutandola, poi
ancora chiedendola quando i dolori quelli veri hanno cominciato a farsi sentire. La qual
cosa ha innervosito i camici, di cui il più alto in grado a un certo punto tagliava di netto la
questione dicendo adesso basta, l’anestesia non gliela si fa più e che s’arrangi così impara
a decidersi.
A dirla in parole molto povere, era evidente che l’ucraina si stava cacando sotto,
malgrado non fosse al suo primo parto.
La ragazzona invece è sola: ha pietosamente esonerato il suo compagno dal servizio
lei stessa, mandandolo a casa a dormire ufficialmente, visto che fino a quel momento era
riuscito a farlo comunque e dovunque, senza esserle di aiuto alcuno con la sua presenza
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semi-comatosa.
L’uomo in questione era il mio brillante compagno di corridoio di un paio d’ore
fa. Anzi, di due ore e mezza fa. Perché anche qui il tempo scivola via, malgrado sembri
congelato in un’attesa senza soluzione per l’assenza di novità sostanziali in grado di scandirlo. Di tanto in tanto un passaggio dell’ostetrica, un’occhiata tra le gambe, un controllo
al tracciato, una visita in bagno trascinandosi appresso il trespolo dell’anestetico e tutto
torna come prima.
Procediamo verso il gran finale in tutta tranquillità, chiacchierando per ingannare l’attesa, sempre accompagnati dalla colonna sonora di vuuu vuuu vuuu alla quale non
facciamo ormai quasi più caso. Siamo anche allegri, ci diciamo cazzate e io penso in quel
momento che per vivere quel momento non ci sia una donna al mondo con cui farlo migliore di tua madre. È una piacevole sensazione che si dilata in sincrono con il suo utero.
Mi scuserai se non ti voglio altrettanto bene, ma ti conosco ancora troppo poco.
L’alba è già arrivata da un po’, quando la bionda ragazzona mette il turbo alle sue
contrazioni e sorpassa tua madre a tutta velocità, alla faccia dei pronostici. Il suo passaggio al livello successivo anima improvvisamente la stanza: arriva un’ostetrica con un paio
d’infermiere che spostano il paravento e la spingono a bordo del suo lettino nella stanza
di tutte le stanze, la Sala Parto.
Quando mi passa accanto, cado nel banale filmico americano alzando il pollice dal
pugno stretto e sorridendole, come fa il buon allenatore di baseball commosso quando
alla fine il suo ragazzo torna a lanciare dopo una devastante sequela di sfighe. Eppure
funziona, e lei ricambia il sorriso, credo perché, al di là del gesto un po’ da coglione scelto
per esprimerli, ha capito che i miei auguri erano davvero sinceri. Con dolorosa dignità, la
donna esce dalla nostra vista e va a fare i conti con la jattura del librone, faccia a faccia,
eroicamente sola e armata soltanto della sua pozione. La guardo come potrei guardare
qualcuno che si butta prima di me da un trampolino alto trenta metri, indeciso se tenermi stretti i miei ultimi istanti prima del salto o se invidiarlo perché buttandosi prima ne
uscirà prima. È l’eterno conflitto tra il via il dente, via il dolore e il lasciatemi ancora un po’
qui col mio dolore e il mio dente. E dire che non sarò io a partorire.
Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Ma no, tutto andrà bene, tra poco toccherà a noi e tutto andrà bene.
Non è il caso di agitarsi. Il misogino scrittore non aveva previsto l’epidurale (o peridurale, a seconda dell’umore) che ancora tiene tua madre in grado di sostenere una conversazione, mentre tu ti dai da fare, ma ancora non abbastanza. Per questo l’ostetrica ha reso
la sua presenza più assidua. È sempre sorridente e rassicurante, ma si capisce che vorrebbe
qualcosa di più da voi. La dilatazione c’è, ma sembra che di questo a te non possa fregare
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di meno.
Intanto, dalla sala parto, ci raggiunge qualche strillo di donna in crescendo, poi
niente, poi lo strillo incerto di un neonato, secondo la migliore delle tradizioni. E brava la
ragazzona.
Ecco, vedi, non ci vuole poi molto. Tieni duro, panciona, che tra poco finirà così
anche per noi. Questi, sono gli esempi che ci servono, mica i lamenti incessanti dell’ucraina al di là del paravento. Hai voglia a metterli insieme ai vuuu vuuu vuuu impacchettando
il tutto in un unico sgradevole sottofondo e dimenticandoselo, quasi fosse una radio che
non si può spegnere. I lamenti continuano a ripeterci che tutta questa faccenda è semplicemente drammatica, malgrado gli sforzi che sto facendo per pensare che invece il tutto sia
naturale, spremendo dall’aggettivo il suo meglio e cercando di vedere la natura così come
si direbbe la vedano le ostetriche, buona e pacioccona come nel giardino dei Teletubbies.
Ma se davvero è così buona, non si capisce per quale motivo non sia più sollecita
nell’aiutarti ad uscire da dove ormai non puoi più stare, invece di lasciare tutto il compito
a tua madre, che adesso viene incalzata dagli inviti a spingere dell’ostetrica tanto quanto
un vogatore spronato dal timoniere. Lei ci prova, s’impegna con tutte le sue forze, ma sembra non riesca a stanarti dal tuo nascondiglio. Allora le propone di mettersi in qualunque
posizione possa sembrarle più agevole e propizia, come si fa nella Stanza della Cicogna. Ma
niente.
Quando, ad un certo punto, fa la sua comparsa un medicone con i capelli bianchi
e la faccia simpatica, tua madre è in piedi a gambe divaricate, appoggiata con le braccia al
lettino, così come usano fare con la cattedra le professoresse nei film porno.
«Come siamo messi, qui?» chiede il camice verde.
«A novanta gradi, come può ben vedere», risponde quella gran donna di tua madre.
Puoi credermi, se ti dico che senza il suo gusto per la gag io adesso non sarei qui a raccontarti questa storia.
Dopo un attimo di sbandamento, anche il medico apprezza la battuta e ricambia
con un sincero interessamento alla tua fuoriuscita. Ha tutta l’aria di voler passare a un’azione più concreta, ma l’ostetrica difende il lasciar fare e lo costringe alla ritirata a colpi
di naturale ottimismo, lo stesso con cui, poco dopo, prova a galvanizzarci:
«Dài che ci siamo quasi! si vede la testa! ancora un po’ di spinte fatte bene ed è fatta.
Guardi anche lei: vero che si vede la testa?».
Ciò che vedo tra le gambe di tua madre è ancora ben lontano dal sembrare una testa
che preme per uscire, io lo so bene, perché quella la vidi al cinema una quarantina d’anni
fa.
Una domenica pomeriggio come tante, con il mio amico Ivano, tanto per cambia13
re in cerca di una pellicola che ci regalasse la celestiale visione di qualche tetta vietata ai
minori di anni 14, cioè a noi. Superare indenni la cassa (o peggio, la cassiera) senza che ci
chiedessero i documenti e ritrovarsi con il biglietto strappato in mano davanti ai pesanti
tendoni di velluto rosso che si aprivano sul proibito dava un brivido di puro piacere.
Quella domenica, i tendoni si aprirono su Helga, un nome che evocava in noi teutoniche abbondanze di carne nuda, ma che si rivelò essere un gelido documentario d’educazione sessuale, che si concludeva con la dettagliatissima sequenza di un parto, per la prima
volta sullo schermo.
La curiosità e il disgusto ci tennero incollati davanti all’inedita visione di un organo sessuale femminile (anche se noi non lo chiamavamo così) nel pieno di quella funzione
che per ultima avremmo voluto vedere. Il nostro sogno più nascosto si presentava di fronte ai nostri occhi spalancati, per la prima volta e senza alcun ritegno, in modo abnorme,
grottesco. Una ferita pulsante che si allarga all’inverosimile, fino a mostrare una palla
sanguinolenta che si fa strada spingendo, tanto da schizzare fuori, in compagnia di liquidi
vari, come un occhio dall’orbita.
Ci fece un certo effetto, ma non mi occorse molto tempo a riconciliarmi completamente con l’oggetto della scena.
«Vero che si vede la testa?» e manca solo che l’ostetrica mi strizzi l’occhio, per evitare che io dica, pur con tutta la buona volontà, che della tua testa non ne vedo neanche
l’ombra. Sto al suo gioco, e annuisco decisamente guardando tua madre, sperando di
essere abbastanza convincente. Dalla sua faccia non riesco a capirlo, capisco solo che sta
cominciando a soffrire.
E adesso anche l’ucraina ci sorpassa. Dai lamenti è passata agli strilli, e dagli strilli
agli urli, così viene portata anche lei in sala parto, sovvertendo completamente le previsioni di qualche ora fa e lasciandoci ultimi e soli qui nel limbo della sala travaglio.
Stavolta non ho dubbi, e la guardo trasferirsi di là semplicemente invidiandola, perché mi sembra che questa storia stia cominciando ad andare un po’ troppo per le lunghe.
Gli altri bambini nascono, tu no. Ma io non posso pensare che qualcosa stia andando
storto, non voglio cominciare ad aver paura, perché la paura è incredibilmente contagiosa
e diffonde i suoi bacilli a una velocità impressionante attraverso qualunque veicolo trovi.
Adesso sta cavalcando le urla dell’ucraina, che dalla sala parto arrivano in tutta la loro
potenza. Urla così non le avevo mai sentite, nemmeno nei peggiori film splatter. Sembra
che la stiano scannando, ma piano piano, con sadica sapienza di torturatori professionisti.
Vedo ogni suo urlo riflettersi sulla faccia di tua madre e lasciarle negli occhi uno smarrimento che non c’era. Lentamente ma sicuramente comincio ad odiarla. Fatela smettere,
cazzo. Datele il colpo di grazia, per favore. Ci penso io, se volete.
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Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli.
Chissà come sarebbe contento, lo scrittore, ora che l’effetto dell’epidurale (o peridurale, chi se ne frega, l’importante è che funzioni) è praticamente svanito, non si capisce bene
se perché la sostanza è finita (versione ufficiale) o perché l’ago si è spostato, come ho colto
casualmente da un pissi pissi tra l’anestesista e il medicone dai capelli bianchi chiamati
dalla solerte ostetrica. Sarebbe per lui un vero godimento, osservare con quale dolore tua
madre non riesce a partorirti, giusta e divina punizione per aver cercato di evitare ciò che
sta scritto, per omnia saecula saeculorum.
Poi certamente riderebbe di me, mezzo maschio degenere del secolo ventesimo, preso come una femmina da faccende che un uomo vero non ha da toccare. Punito anch’io
ma in altro modo: dai miei stessi i pensieri, che si fanno pesanti di pari passo con la
concitazione dei presenti. È così, che succede. Di punto in bianco le cose precipitano, poi
ne leggiamo sui giornali il giorno dopo, quando capita agli altri. Prima che precipitino,
stanno camminando come tutte, tranquille e beatamente incoscienti. Come lungo un sentiero in cresta. Un inciampo e giù, tutto cambia. Vuoi vedere che stavolta è toccata proprio
a noi? Non alla ragazzona bionda che adesso starà già allattando, non alla stramaledetta
ucraina, che dopo uno straziante acuto ha smesso finalmente di urlare, ma a noi. Queste
cose succedono, e non sta scritto in nessun librone che tu, tua madre e io ne siamo immuni.
Ecco, la mia punizione. Farmi attraversare dalle più nere visioni senza darlo a vedere, ma rimanendo calmo, sereno, positivo come è giusto che io appaia. Nonostante davanti a noi la storica disputa tra le due fazioni sia per forza di cose entrata nel vivo, e la poca
naturalezza della situazione stia favorendo un colpo di mano da parte dei camici verdi, e
nonostante io abbia captato un brandello di frase che non mi piace per niente: …sofferenza
del feto...
L’ostetrica è alle corde, e con lei la natura pacioccona col suo bel vestitino di foglie
e fiorellini, tornata prepotentemente nei miei cupi pensieri ad essere quella di sempre, una
tipa che non guarda in faccia a nessuno, i cui scopi contemplano solo grandi numeri e
non certo casi personali. Una che, casomai le tornasse comodo per la propagazione di una
specie, sarebbe pronta ad organizzare le cose in modo che qualcuno ci lasci le penne senza
pensarci un secondo.
La presa del potere si compie definitivamente quando il medicone sentenzia:
«Insomma, questa donna non può più andare avanti così!».
Lo abbraccerei per il suo buon senso, e penso anche tua madre, se non avesse altro
a cui pensare.
«Dite al dottor Bianchi di venire subito in sala parto» ordina poi, e tutta la compagnia si mobilita per il trasferimento.
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Ci siamo, panciona mia. Eccoci tra le piastrelle, i tubi, le valvole e gli acciai e la
gente intorno che si dà da fare come in E.R., anche se lì non mi pare che capiti mai che
qualcuno si lamenti perché la ciabatta delle prese elettriche non va bene per l’ecografo e giù
conseguenti cristi.
Io che non prego, posso solo sperare. E non sai quanto sto sperando.
Guardo l’orologio: sono ormai le dieci del mattino e l’inizio di questa avventura mi
sembra lontanissimo.
Tua madre adesso è immobilizzata sul lettino. Io sto alle sue spalle, dove mi hanno
detto di stare, con le mie scarpe da ginnastica e la maglietta che puzza di sudore. Nessuno
ha pensato di darmi camice e copriscarpe, temo per non perdere neanche un minuto. Le
tengo una mano, le sussurro di stare tranquilla. Lei me la stritola, mentre butta fuori il suo
male bestia con un pianto rabbioso, incredulo:
«Aiaaaaaaa…maccazzooo!».
In quel momento entra nella sala il medico chiamato d’urgenza per un motivo che
non conosco e in ogni caso non mi rassicura affatto. Sembra il prototipo dello specialista
di successo: bell’uomo sulla cinquantina, abbronzato, dall’aria danarosa e l’espressione
arrogante. Dà l’impressione di sapere il fatto suo, e speriamo che non dia solo quella.
Si avvicina al collega e confabula brevemente con lui, mentre tua madre continua
la sua lotta rabbiosa con il dolore. Poi si mette di fianco al lettino, osserva la situazione,
mi dice senza nemmeno guardarmi di tenere forte le braccia di tua madre e infine afferra
con entrambe le mani una cinghia di cuoio fissata al lettino, fatta un po’ come quelle per
appendersi nei vecchi autobus, al di là della panciona. Irrigidisce le braccia abbronzate e
compie con una decisione impressionante l’atto di forza per cui è stato chiamato.
Mio padre faceva così con i tubetti di dentifricio quasi finiti: per non lasciarne
nemmeno un po’ all’interno, spianava il tubetto schiacciandolo col manico dello spazzolino dal fondo verso l’apertura. La stessa operazione eseguita sulla pancia di una partoriente, non con lo spazzolino ma con le braccia, per spingere il suo contenuto verso l’uscita è
chiamata Manovra di Kristeller, e ti garantisco che è molto più spettacolare.
È un attimo, che non basta nemmeno per considerare la violenza di quanto sta
accadendo. Alla seconda energica spinta, in perfetta sincronia con l’esecuzione di un’episiotomia (un sapiente colpo di forbici al povero perineo di tua madre per evitare che si laceri
più di quanto comunque farà), finalmente schizzi improvvisamente al mondo, inondando
di sangue e altro materiale chiunque si trovi sulla tua traiettoria per accoglierti, nonché le
piastrelle bianche sul muro di fronte.
Ci sei, per quanto rossa e impiastricciata di schifezze, e hai una testa, hai due braccia, due gambe e due occhi, e nessuno sembra preoccuparsi per qualche tua mancanza. E
piangi, giustamente. E piange tua madre. E piango anch’io, adesso che il groppo che tene16
vo in gola da un po’ mi è salito di colpo agli occhi, spinto fuori anche lui dalla manovra.
Concedimelo, anche se di noi tre sono il solo che non ha provato dolore. Presto o tardi,
imparerai anche tu che non si piange soltanto quando ti fa male qualcosa.
Sono le dieci e diciassette del ventisette luglio duemilasei.
Benvenuta sulla terra, Cecilia. Mi ci sono voluti solo cinquant’anni, quattro mesi,
venti giorni, un’ora e cinquantasette minuti per poterti conoscere.
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Quattro
Milano, 1949.
È una bella giornata, non più piovosa, non ancora troppo calda
Milano, 1949. È una bella giornata, non più piovosa, non ancora troppo calda.
Semplicemente una bella giornata di maggio. Un vento leggero carica l’azzurro del cielo
e pompa ottimismo nei corpi di chi è uscito vivo dalla guerra da qualche anno appena.
È lo scenario ideale per quella lontana voglia di ricominciare a vivere che troverai in un
qualsiasi libro di storia del nostro paese. Un mito semplice, struggente, mai come in questi anni malati capace di suggerire una nostalgia, se non addirittura l’insano desiderio di
poter provare a viverla per una volta, fosse anche al folle prezzo di una nuova tabula rasa.
Giselda e Gianfranco non hanno alcun motivo per sottrarsi all’umore del momento. Si sono sposati l’anno precedente, con una cerimonia magra sotto ogni punto di vista.
Se tu sfogliassi l’album fotografico di quel giorno per loro memorabile, poche pagine di
cartoncino nero separate da fogli di carta velina lavorata a rilievo, troveresti i ritratti di
una felicità quasi incredula fissati nei sorrisi in bianco e nero dei pochi presenti, un po’
impacciati nei vecchi abiti buoni ormai troppo larghi e certamente fuori moda.
Vedresti Giselda di fronte all’altare guardare il prete con aria attenta, nel suo vestito
da sposa che non è bianco di seta e tulle, ma di un colore che il grigio fotografico non
può raccontare e che io non so dirti, e ha le forme di un modesto soprabito sistemato per
l’occasione. Nessun velo né strascico, solo un bel cappellino con veletta sopra i capelli
ondulati dal ferro. Nelle mani guantate di bianco un piccolo bouquet.
Accanto a lei vedresti Gianfranco, che non sapendo bene dove mettere le mani
magre che sbucano dal paletot di una taglia di troppo, finisce per stare su un moderato
attenti, anche se sono passati già diversi anni dall’ultima volta che ha indossato la divisa
di capitano. Pochi scatti essenziali, tra i quali non può mancare il fatidico momento dello scambio delle fedi, che li vede sorridere nell’impresa, e la firma del solenne contratto,
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che invece richiede una rispettosa, concentrata serietà. Avresti finito di sfogliare il sottile
album appena dopo le tre sole fotografie riservate all’uscita dalla chiesa, in cui lo sparuto
gruppo d’invitati si lascia volentieri andare al sacrificio di qualche pugno di riso in onore
degli sposi e del rinascente benessere. Senza esagerare, però, perché la fame sofferta è un
ricordo ancora troppo vivo.
Quel che l’album non può dirti lo aggiungo io per minima completezza di cronaca,
dicendoti che alla cerimonia non seguì un né un pranzo né un rinfresco come si è abituati
a intenderlo, ma soltanto un piccolo spuntino con brindisi a casa di una zia di Giselda
(che, come tutti hanno sempre fatto, d’ora in poi chiamerò semplicemente Deda), distante
poche centinaia di metri dalla chiesa. La stessa zia che l’indomani mise a disposizione degli sposi anche la vecchia casa di campagna a Nasca, un piccolo paese dalle parti di Luino,
per una luna di miele di ben otto giorni. Il sogno di un viaggio a Parigi avrebbe aspettato
tempi migliori.
Che i due sposi siano intenzionati a mettere al mondo una prole è cosa ovvia e indubbiamente molto meno ponderata di quanto usi generalmente fare una coppia italiana
ai giorni nostri. Per questo possiamo tornare a quella bella giornata di maggio del quarantanove, giusto in tempo per ritrovare Deda al sesto mese di gravidanza. Se si tratti di
un figlio o di una figlia non le è dato saperlo, dal momento che una macchina capace di
spiare il sesso e la salute del nascituro è ancora molto lontana dal diventare realtà. A colmare questa lacuna ci pensa la scienza del popolo, attraverso le certezze di una parente, di
una vicina o di una bottegaia, pronte a sentenziare dopo una sola occhiata e senza dubbio
alcuno che in quella pancia a punta sta crescendo un maschio, che mai e poi mai potrebbe
starsene in una tonda. Oppure viceversa, a seconda della scuola di pensiero.
In cuor suo, Deda non ha preferenze, per cui può unirsi senza sforzo al desiderio
di Gianfranco, certo di voler diventare padre di una bambina. A entrambi non resta che
aspettare altri tre mesi, per verificare previsioni e speranze, dedicando ogni cura del caso
al benessere della loro futura sorpresa. Secondo le succitate esperte, Deda non solo dovrà
evitare gli strapazzi ma dovrà anche mangiare per due, perché mai come dopo una guerra
salute e abbondanza camminano a braccetto, divorando allegramente strada facendo ogni
porzione arretrata, con tanto d’interessi maturati. Ma anche la scienza popolare, malgrado
i suoi inossidabili dogmi, ha pure i suoi limiti e non può più pretendere di sostituirsi alle
visite del medico. Per Deda, Gianfranco ha voluto quanto di meglio le sue tasche possono
faticosamente permettersi: lo studio del Dottor Ramascetti, primario in ginecologia presso una rinomata clinica privata, la cui targa d’ottone brilla a pochi isolati di distanza da
casa loro. Un professorone coi fiocchi, dicono.
È proprio verso quel palazzo tanto signorile che Deda si dirige in quella mattina di
sole fresco. Cammina svelta con i piedi a papera, questa rotonda ragazza di ventiquattro
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anni che bella non si è potuta mai dire, ma che da qualche mese gode di quella luce speciale che fa brillare la pelle e lo sguardo delle donne gravide. Glielo dicono sempre più spesso,
incontrandola nel quartiere, che è diventata una bellezza. Una ragione in più per essere
contenta, che completa come una decorazione la felicità di questa sua vita recente, finalmente intenzionata ad avvicinarla al sogno mai esaudito di una famiglia vera. E siccome
le cose buone, così come le cattive, quasi mai arrivano da sole ma si spingono l’una con
l’altra, la giornata risulta ancora più bella, in quanto vigilia di una breve vacanza. Deda
ha convinto Gianfranco a prendere qualche giorno di ferie da trascorrere sul lago d’Iseo, a
casa di suoi parenti.
Anche questa volta il Dottor Ramascetti è gentile, profumato e rassicurante. La
tranquillizza riguardo alcune piccole perdite di sangue che ha accusato nei giorni precedenti. Evitare gli strapazzi è il motto anche nel suo autorevole studio. Più facile a dirsi che
a farsi, per una ragazza che mai ha potuto permettersi di restare con le mani in mano.
Dall’età di quindici anni lavora per mantenersi, versando integralmente ogni suo stipendio nelle mani di quei parenti che, a turno, hanno avuto il buon cuore di darle un letto e
un posto a tavola.
Deda pensa che quell’uomo mingherlino sia davvero un ottimo medico e che, con
buona probabilità, valga bene gli sforzi del loro portafogli. Sarebbe perfetto se per ispezionarla facesse a meno di farsi strada con quello speculum d’acciaio lucido che sembra
uno strumento di tortura e come tale puntualmente si comporta, provocandole fitte che la
lasciano a lungo dolorante. Anche questa volta. Ma che importa, tutto va bene e domani
si va in vacanza.
In taxi fino alla stazione e biglietti di prima classe per il treno. Gianfranco non è
certamente il tipo di marito incline alle effusioni o alle esternazioni del suo sentimento,
ma in quanto a premure nei confronti di sua moglie puntualmente si dimostra più che
generoso. Figuriamoci ora, date le circostanze.
«Voglio che viaggi comoda, non devi strapazzarti».
Così, il mattino seguente alla bella giornata di maggio, Deda si mette in viaggio
come una vera signora con signor marito, seduta sulla poltrona di velluto rosso imbottito con la foderina del poggiatesta in cotone quasi bianco e quasi pulito. Il massimo del
comfort disponibile, che poco può fare contro gli scossoni del treno, e niente del tutto per
ridurre la durata del viaggio, inevitabilmente eccessiva per quel centinaio di chilometri da
percorrere.
Non ne mancano ancora molti per arrivare alla stazione di Iseo, quando Deda comincia a sentirsi male. Sono attacchi di nausea, ben più forti e violenti di quelli che ogni
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donna nella sua condizione mette ragionevolmente in conto. Si accorge di una piccola
emorragia, si sente svenire. Gianfranco fa quel poco che può fare un uomo sopra un treno
in corsa a pochi minuti dalla stazione d’arrivo.
«Sta’ tranquilla, siamo quasi arrivati. È colpa del treno…vedrai che a casa ti sentirai
meglio».
Alla stazione c’è lo zio Umberto ad aspettarli, per fortuna con la sua automobile
nuova. Deda fatica a camminare per il dolore, quasi non riesce a stare in piedi. Benché
cerchi di non darlo a vedere, Gianfranco è preoccupato, anche perché sa perfettamente che
Deda non è un tipo che la mette giù dura, non lo è mai stata.
Una volta arrivati a casa, lo zio è ben contento di passare le consegne alla moglie,
perché in un simile frangente è una donna che ci vuole, e anche se la sua di figli non ne ha
potuti avere saprà certamente meglio di due uomini come fare i conti con questo genere
di cose. A ognuno il suo specifico.
La zia Carla accompagna la nipote in camera, l’aiuta a sdraiarsi sul letto, perché,
tanto per cominciare, un po’ di riposo in orizzontale non ha mai fatto male a nessuno.
Deda, supina, riapre gli occhi strizzati per le fitte sopra di sé nella penombra umida
della stanza che sa di chiuso e di canfora. Per distrarre il dolore che incalza, segue le nere
sbarre in ferro battuto della testiera, incontra la peretta della luce che pende a poca distanza
dalla sua fronte e risale con lo sguardo il filo intrecciato, fino a dove scompare nel muro.
Più in alto trova i volti severi dei poveri genitori della zia che la fissano, senza mostrare
alcuna compassione, affacciati agli oblò delle loro cornici scure, simmetricamente ai lati, e
rispettosamente più in basso, di un crocifisso altrettanto scuro e incombente. Una vacanza non dovrebbe andare così, pensa. E lei non dovrebbe sentire questo dolore, perlomeno
non ancora. Un dolore che non vuole saperne di attenuarsi, nemmeno quel tanto che basta
per poter tirare un respiro pieno, sedersi, e cominciare a ragionare. È come un’onda che
sale ogni volta più in alto e ogni volta si frange contro di lei. Finché, raggiunto il culmine
della sua forza, travolge ogni ostacolo e si riversa sul letto, inondandolo di rosso.
A casa del dottor Ricci il telefono squilla con insistenza. Il chirurgo è un amico di
lunga data degli zii di Deda e in famiglia il suo numero telefonico è da sempre considerato
a tutti gli effetti quello di un pronto intervento medico.
Quando finalmente alza il ricevitore e risponde, capisce immediatamente che anche questa volta non si tratta di una telefonata di piacere. Con il suo consueto fare brusco,
il medico distilla velocemente dal racconto concitato della zia Carla, farcito d’inutili dettagli, le poche sostanziali informazioni che lo interessano, per poi dire soltanto:
«Chiamate subito l’autolettiga. Io prendo la barca e ci vediamo in ospedale. C’è mica
tempo da perdere ».
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Per il dottor Ricci, che abita in una villa a Monte Isola, al centro del lago, mettersi al
volante del motoscafo per raggiungere al più presto l’ospedale è esattamente come per un
qualunque medico di terra prendere la macchina. Anche l’immaginetta di San Cristoforo
infilata per un angolo nel cruscotto è la medesima, su acqua come su asfalto.
Distesa sul lettino dell’ambulanza che si sta dirigendo verso l’ospedale a tutta la sua
possibile modesta velocità, Deda ha invece scelto di affidare le sue preghiere a Santa Rita.
L’aveva deciso da bambina, quando stava in collegio dalle suore, che sarebbe diventata la
sua santa preferita, quella alla quale chiedere una mano in caso di necessità. Lo aveva fatto
per questione di simpatia, dopo aver conosciuto la sua storia. Nelle sfortune e disgrazie
famigliari di cui era costellata la vita della santa, la piccola Deda aveva trovato sufficienti
analogie con le sue, e la conseguente speranza che, lassù, fosse più probabile essere ascoltati da chi le era in qualche modo affine. Pensava che lei e Santa Rita avessero di che capirsi
reciprocamente. A dir la verità, nel corso degli anni non l’aveva disturbata spesso, perché,
all’occorrenza, in suo soccorso era sempre arrivato per primo, e senza nemmeno essere
invocato, un provvidenziale ottimismo capace di farle vedere ogni cosa dal miglior punto
di vista possibile.
Questa volta però l’ottimismo non è sufficiente, e durante il viaggio che sembra
non voler finire più, come il lamento nasale della sirena sul tetto, Deda ripete dentro di sé
una cantilena: Santaritatipregononfarcimorire, Santaritatipregononfarcimorire ….
Se la santa fosse in qualche modo presente in sala parto, se avesse assistito al concitato
daffare intorno alla ragazza che, a buon diritto, l’aveva chiamata in causa, nessuno è in
grado di dirlo. Certo è che la suora che, a cose fatte, si avvicinò a Deda tenendo tra le braccia un fagottino contenente un essere incredibilmente minuscolo e inaspettatamente vivo
la ricordava non poco, e non soltanto per l’abito. Il suo sguardo rivolto con riconoscenza
al cielo sembrò a Deda identico a quello che tante volte aveva incontrato guardando il
santino.
«È una bella bambina» disse la suora. Proprio come voleva Gianfranco.
« Sia lodato il Signore ».
Tutto sembra essere andato bene, in fondo. La tensione di poche ore prima è ormai
evaporata nel silenzio della camera dove una madre spossata finalmente riposa nel letto,
mentre una piccola creatura fa del suo meglio per adeguarsi alla vita esterna con l’aiuto
dell’incubatrice. Di questo momento di ovattata sospensione approfitta il dottor Ricci,
quando chiede alla zia di Deda di seguirlo nell’ambulatorio.
«Ti faccio vedere una cosa».
Il vassoio d’acciaio posato sul tavolino non è tanto diverso dai tanti in mostra dietro il vetro del bancone di una qualunque macelleria. Ciò che manca al suo sanguinolento
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contenuto è soltanto il cartellino a spillone infilzato a dire cos’è e quanto viene al chilo.
Malgrado ciò, la zia Carla non ha difficoltà ad immaginarsi di cosa si tratti.
«Questo è il sacco» conferma il medico. Poi, proprio come farebbe un macellaio con
una cliente sollevando il pezzo di carne per mostrarlo meglio, dispiega quella strana interiora bovina per indicarne un punto preciso. È uno strappo in cui, con molta naturalezza,
infila il dito.
«E questo è un bel sette da speculum. Mi piacerebbe sapere chi è l’animale che ha
visitato tua nipote».
La bambina è davvero graziosa. Le tante, troppe settimane di permanenza nel corpo
di sua madre che le sono state violentemente sottratte non le hanno impedito di presentarsi
al mondo con l’aspetto di un qualunque neonato, se non per la pelle ancora più trasparente e le dimensioni decisamente ridotte. Non le manca nulla, apparentemente. Ma com’è
piccola.
I medici, se dicono, quando dicono, non vanno oltre un laconico bisogna aspettare.
Fuori dalla stanza della puerpera, abbozzano generici discorsi a proposito di apparecchiature che ci vorrebbero ma che ancora non ci sono, su analisi che servirebbero ma che ancora non è possibile fare. Siamo a Iseo, che non è in America.
Deda si sforza di non farsi illusioni, un compito già difficilissimo di per sé, reso
pressoché impossibile dall’incrollabile fede delle suore, che hanno eletto l’esserino a icona
del quotidiano miracolo della vita e non perdono occasione per portarlo in processione,
mostrarglielo, metterglielo tra le braccia, dirle quant’è bello e quant’è certo che la divina
provvidenza non mancherà di farlo crescere vispo e sano. Lei vorrebbe che il suo amore potesse allinearsi alla prognosi della bimba, crescere o attenuarsi in sincrono con l’andamento della sua cartella clinica, perché la paura di condannarsi a un dolore insopportabilmente
grande è già dolore. Ma le continue trasfusioni di speranza che le religiose somministrano
al suo sentimento lo invigoriscono ben più della neonata e rendono inutile ogni sua resistenza.
Che cosa provi Gianfranco non te lo so dire e nemmeno tento d’immaginarlo. Chiedendo agli uomini di rimanere sempre solidi e presenti, si rischia spesso d’essere presi in
parola e di ritrovarsi davanti a un muro, non si capisce se di sostegno o di contenimento.
A una settimana dal parto, Deda e la sua bambina lasciano l’ospedale. Ma non lo
fanno insieme. Una settimana è bastata alla madre per riprendersi, non alla figlia per sopravvivere. Sembrava non le mancasse nulla, apparentemente. Per completare una nuova
vita sei mesi sono davvero troppo pochi.
Deda e Gianfranco ripartono per Milano, carichi del loro bagaglio di silenzioso
dolore. La bambina viene battezzata con il nome di Angela, come suggerivano le suore, e
seppellita nel cimitero del paese. Una tomba poco più grande di lei, un fazzoletto di terra
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e una lapide con il putto piangente, messa lì per stracciare il cuore ai vivi. Angela è il nome
che si è guadagnata morendo, un nome che non avrebbe dovuto avere, che non avrebbe
mai sentito e che nessuno avrebbe mai più pronunciato. Se fosse sopravvissuta, si sarebbe
chiamata Laura, come la bambina che Deda darà alla luce due anni più tardi e che oggi tu
chiami zia. Se fosse sopravvissuta, probabilmente non sarei nato io a far da fratellino. E se
io non fossi nato, non avrei mai conosciuto tua madre, e tu non saresti qua.
Non chiedermi se ti troveresti comunque da qualche altra parte, perché sono la
persona meno indicata per rispondere a questo genere di domande.
Se vuoi, prova con Santa Rita, che tua nonna Deda non pregò mai più in vita
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Cinque
Per l’anagrafe non esistevi ancora,
ma già qualcuno ti aveva inserito nel suo database
Per l’anagrafe non esistevi ancora, ma già qualcuno ti aveva inserito nel suo database. Non già come responsabile d’acquisto, ma come suo formidabile movente. Precedendo
persino la nonna col mazzo di fiori per la figlia e il body per la nipote, l’indefessa fatina
del marketing aveva anticipato tutti con il suo regalo di benvenuto, facendo magicamente
apparire nella camera dell’ospedale un invitante scatolone decorato con animaletti leziosi.
Tutto per te, anche se perfettamente identico a quello del tuo compagno di stanza e di tutti
gli altri neonati freschi di giornata, compreso il bimbo dell’ucraina, la quale sembra essersi
brillantemente ripresa, a giudicare dal ritrovato incedere altezzoso con cui percorre avanti
e indietro il corridoio chiacchierando al cellulare, seguita da quel pover’uomo del marito
che le trotterella dietro con in braccio la creatura e l’espressione di un trovatello del canile.
Siccome tu hai cose molto più importanti da fare, come mangiare, dormire, defecare e provare facce assurde, e in ogni caso non saresti ancora in grado di apprezzare l’emozione che dà l’apertura di un regalo, sono io che mi accollo il lavoro e porto lo scatolone
sul letto ai piedi di tua madre, per condividere con lei la scoperta del suo contenuto, come
fosse Natale. Lo scoperchio e mi sento eccitato come un partigiano dietro le linee nemiche
che apre la cassa paracadutata dagli alleati.
Dentro c’è un po’ di tutto quanto dovrebbe servirci per cominciare a fronteggiare
l’attacco delle tue innumerevoli esigenze, siano esse reali o presunte. Una generosa collezione di campioni, che oggi ci siamo costretti a chiamare sampling, di tutti quei prodotti
dei quali, spera la fatina, non potremo più fare a meno una volta provati, e che quindi
acquisteremo in ben altri formati al più presto possibile.
Quando saremo nel supermercato e imboccheremo l’insidioso corridoio dedicato
al Tutto per l’infanzia, felici butteremo nel nostro carrello la versione gigante, tipo maionese
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formato famiglia, del grazioso tubetto di crema antiarrossamento che ora rigiro tra le dita.
Non è detto che sia la migliore e tantomeno la più conveniente in commercio, ma la cosa
non ha nessuna importanza.
Questa crema sarà per sempre la prima su cui il neonato genitore avrà posato i suoi
occhioni smarriti, per questo sempre la riconoscerà e la chiamerà semplicemente “La crema”.
Che ci piaccia o no, le regole dell’imprinting non valgono soltanto per le paperette di
Konrad Lorenz, e questo la fatina del marketing lo sa benissimo. Perciò è stata così generosa
nel riempire il tuo scatolone, che come una cornucopia continua a riversare sul letto di
tua madre tris di pannolini, confezioni assaggio di salviettine umidificate, campioncini di
sapone senza sapone e di olio speciale per il massaggio neonatale. C’è persino una scatoletta
contenente un ciuccio, il primo di una lunga serie per chi prenderà il vizio, quasi fosse il
primo pacchetto di sigarette. Del resto, tutta l’operazione è condotta secondo la più basilare regola commerciale del pusher: la prima dose è gratis, poi le cose cambiano.
Questa provvidenziale razione K del genitore si completa con un tocco di utile
sapere, rappresentato da un numero gratuito di una rivista per neo mamme già ansiose o
seriamente intenzionate a diventarlo. In copertina, a contorno dell’immagine ritrita del
solito, stolido pupone biondo ariano infagottato nell’accappatoio, gli strilli degli articoli
introducono tematiche scottanti, quali, ad esempio, “Le coliche: impariamo a riconoscerle” e
“I rimedi naturali per le ragadi da allattamento”, ma anche argomenti psicologicamente più
delicati, del tipo “Quando nonni fa rima con…vizi” e “La cameretta: retro-chic o supertrendy?”.
Come resistere alla tentazione di abbonarsi, soprattutto se l’abbonamento è scontato del 50% esclusivamente per noi, quale omaggio alla tua nascita? Per approfittare dell’irripetibile occasione sarebbe sufficiente compilare (in ogni sua parte) il modulo allegato e
acconsentire a che i nostri dati personali vengano trattati in un certo modo. Eppure, nonostante ciò, decidiamo di rinunciare a un tale privilegio, limitandoci ad intascare cremine,
pannolini e quant’altro di concretamente immediato ci è stato donato e facendo progetti
sul riciclo dello scatolone, che pare bello robusto. Ti potrà sembrare una scelta poco conveniente, ma non è così.
È giusto che tu sappia, anche se si tratta di una scoperta dolorosa, che non tutte
le persone che popolano questo pianeta avranno a cuore la tua felicità e il tuo benessere.
Anzi, a meno che tu non diventi famosa (e anche in quel caso sarà tutto da vedere), i nomi
di chi ti vorrà bene, bene che ti vada, ci staranno più che comodamente tutti quanti in una
mezza rubrica telefonica tascabile. Se ti può consolare, il numero delle persone che potranno arrivare a odiarti sarà probabilmente irrisorio, se non addirittura pari allo zero, sempre
a meno che tu non diventi famosa. Alla gran parte degli abitanti della terra, nella migliore
delle ipotesi, di te non fregherà mai nulla. Questa consapevolezza non ti deve certamente
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spingere a guardare il prossimo in cagnesco (troverai a questo scopo altri motivi ben più
validi, se ti andrà di farlo) ma ti è utile per avere un’idea sufficientemente realistica della
tua importanza su grossa scala. Come persona, s’intende.
Come consumatrice sarà tutta un’altra storia. Finché potrai disporre di quel minimo di denaro sufficiente per rientrare nella categoria, ci sarà sempre qualcuno al di fuori
della stretta cerchia degli affetti che nel suo intimo si chiederà quali possano essere i tuoi
bisogni e i tuoi desideri. E nel malaugurato caso in cui tu non ne abbia, ti aiuterà volentieri ad individuarne di ragionevolmente realizzabili.
Oggi sa che ti servono i pannolini, dopodomani supporrà che comincino a servirti
i pannoloni. Sarà la tua governante a distanza, e potrai sempre contare su di lei per sapere
come muoverti nel grande mare degli acquisti. I suoi preziosissimi suggerimenti assumeranno le più svariate forme, in ogni caso tutte riconducibili al concetto di pubblicità, una
cosa che nella famiglia in cui sei nata riveste un’importanza particolare, dal momento che
il caso ha voluto che proprio da essa tuo padre (e pure tua madre) dovesse trarre sostentamento. Sarà il caso di vedere come è potuto succedere.
Non so come la faccenda funzioni oggi, ma i liceali della mia epoca, salvo rari casi,
non avevano le idee troppo chiare su cosa avrebbero fatto dopo la maturità. Soprattutto
quelli che davano per inevitabile il passaggio all’università. Maestri dell’indecisione erano
gli umanisti del classico, alla cui enorme cultura nessuna strada poteva essere preclusa,
seguiti dai più terra terra dello scientifico e infine da noi scoppiati dell’artistico, invidiati
non solo a causa della leggenda secondo cui le nostre variopinte compagne di scuola la
davano via molto facilmente, ma anche per quell’estro che, a torto o a ragione, ci aveva
fatto prendere una direzione piuttosto precisa.
Noi, terminate le medie, eravamo perlomeno in grado di dire a me piace disegnare
e pronti ad assumerci la responsabilità di tale affermazione. Tutti gli altri, generalmente,
sapevano dire al massimo cosa non avrebbero mai voluto fare. In questa minima panoramica ho volutamente trascurato il liceo linguistico per la semplice ragione che non faceva
testo: rigorosamente privato, era frequentato da un’esigua minoranza composta da ragazze
di buona famiglia. Che queste la dessero via molto facilmente non era invece una leggenda. Una generosità purtroppo limitata solo a chi le andava a prendere all’uscita di scuola
seduto sulle due o quattro ruote più desiderabili del momento.
In ogni caso, persino noi di Brera, allegri scapigliati baciati e segnati per sempre
dall’arte, man mano che la fine del liceo si avvicinava cominciavamo a chiederci se tra gli
sbocchi naturali del ramo scolastico su cui c’eravamo arrampicati come scimmie felici ci
fosse davvero quello giusto. Tuo padre non faceva eccezione.
Nel primo paio d’anni di liceo, dopo aver scoperto che quelli che disegnavano peggio di
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me erano tanti, ma anche che erano sempre troppi quelli che lo sapevano fare meglio, mi
ero sentito divampare in corpo la sacra fiamma dell’architettura, che a furia di intricate
proiezioni ortogonali, di prospettiva cavaliera e assonometrica e altre noie assolute da
tracciare col Graphos, s’era lentamente ridotta a un lumicino traballante. Dopo essermi
crogiolato in fantasie che mi vedevano architetto affermato lavorare al tecnigrafo nel mio
luminoso e prestigioso studio, l’innamoramento era miseramente finito, raschiato via anche lui a colpi di lametta dal cartoncino Schoeller, come la china nera di una riga sbagliata.
Insieme all’amore scompariva così dal mio orizzonte anche l’unica facoltà direttamente accessibile dopo i canonici quattro anni di liceo. Erano solo quattro grazie a
un’inspiegabile sconto di pena che lasciava noi artisti ancora più ignoranti di un liceale
standard oppure, fatto ancor più grave, ci obbligava a un quinto anno integrativo serale per
colmare le nostre vergognose lacune nel caso avessimo voluto iscriverci a una qualunque
facoltà che non fosse architettura. Considerando che non mi sentivo costretto a una laurea
per la laurea e che i miei interessi verso altri studi universitari erano grossomodo inesistenti, la fine del flirt mi lasciò piuttosto spiazzato.
Che farò, dopo la maturità? mi capitava di chiedermi di tanto in tanto, magari mentre
impastavo la creta durante le silenziose ore di plastica.
Cosa mi piacerebbe fare per davvero? mi domandavo, intanto che i pollici distraevano il
cervello trasmettendogli il puro piacere del plasmare. Completamente condizionato dalla
convinzione che la mia scelta avrebbe dovuto tradursi sicuramente, facilmente e possibilmente anche velocemente in un lavoro e soprattutto in un reddito, esaminavo mentalmente ipotetiche soluzioni, senza degnare della minima considerazione quella che avevo,
nel vero senso della parola, tra le mani. Malgrado fosse l’altro sbocco naturale del liceo
artistico, non riuscivo a contemplare seriamente la possibilità di iscrivermi all’Accademia
di Belle Arti.
Non sono un figlio di papà che può farsi mantenere mentre gioca a fare lo scultore, pensavo,
liquidando con quest’ottimo argomento nuove pericolose fantasticherie di cui conoscevo
perfettamente la scenografia, avendo spesso e volentieri sbirciato dentro le antiche aule
bianche di gesso, per riempirmi gli occhi con la loro polverosa sacralità e il naso di quel
fantastico, rugginoso odore di scagliola fresca e creta bagnata.
Vola basso, che non sei mica michelagnolo, e pensa a cose più in linea coi tempi e
con l’insuperabile fascino dello stipendio, come ad esempio il design, che è già da un po’
che t’intriga, ti spinge nelle mostre e dentro la Hoepli, a sfogliare quei costosissimi cataloghi che se non fossero così grandi e grossi ne avresti già fregati un paio. Ma sì, il design
sembra davvero la risposta giusta, in questi primi settanta in cui l’Italia stupisce il mondo
con i suoi televisori e le sue lampade. E poi, diciamolo, non c’è paragone tra il divertimento di progettare un oggetto piuttosto che un “Padiglione sito all’interno di un parco cittadino
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destinato a rappresentazioni musicali, teatrali e ricreative, rispondente alle seguenti caratteristiche:…”
come recitava l’ultimo compito in classe di architettura.
Sì, studierò da designer.
La brochure del Politecnico di Design che a momento debito comparve nella casella
della posta confermava graficamente tutta l’autorevolezza e la serietà di cui l’istituto sembrava godere a detta di chiunque. Le quote d’iscrizione confermavano invece le peggiori
previsioni di spesa. L’autorevolezza e la serietà costavano un botto, decisamente troppo
per le finanze della famiglia. Anche facendo uno sforzo, come avrebbe detto e fatto volentieri mia madre, la retta annuale per frequentare il tempio del design rimaneva ampiamente fuori dalla nostra portata. E che fa chi non ha tutti quei soldi?
Chi non ha tutti quei soldi continua a inseguire la parola design e scopre nel cuore
di Milano l’insospettabile esistenza di un Istituto Europeo di Design, sicuramente meno autorevole, ma decisamente più accessibile economicamente parlando rispetto al blasonato
Politecnico. Ma non è la sola scoperta: malgrado il nome apparentemente univoco, l’istituto
in questione non propone soltanto corsi legati al design, ma allarga la sua offerta con corsi
di fotografia, grafica, architettura d’interni e persino di art direction pubblicitaria.
Pensa un po’, la pubblicità. Quella cosa simpatica che qui in Italia è venuta su un
po’ rustica a forza di Carosello (come me, del resto) ma che adesso comincia a fare sul
serio, con le agenzie vere, quelle grandi e americane come si vedono nei film, quelle che
hanno un nome speciale per ogni cosa, tipo art director.
Perché se le idee per i caroselli potevano venire a chiunque passasse di lì, dal cumenda titolare della ditta al cartellonista dell’ufficio grafico, la pubblicità moderna non
s’improvvisa, è roba da professionisti. I professionisti si chiamano creativi, e lavorano in
coppia come i carabinieri: un art director e un copywriter. Il primo è il carabiniere che sa
disegnare, il secondo è quello che sa scrivere. Il primo s’inventa cosa si vedrà, il secondo
pensa allo slogan, che non si chiama già più così. La pubblicità... sta a vedere che è proprio
questa, la mia strada. Di fantasia ne ho sempre avuta, pure troppa, magari non è così difficile trasformarla in creatività.
Ma sì, studierò da art director.
«...e il Paolo cosa fa, adesso?»
«eh... studia da art director»
«aah, l’architetto...bene…bravo»
«no l’architetto, l’art director»
«...e cosa l’è l’ardiretto?»
Quando questo scambio di battute arrivò a essere ormai la sigla di chiusura delle
loro conversazioni telefoniche, mia madre decise di rinunciare definitivamente a spiegare
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alla zia Rosetta che cosa diavolo stessi studiando.
Perché studiare studiavo, tutto sommato. Studiavo grafica, tecniche di stampa, cinema,
fotografia, rudimenti di sociologia e psicologia della comunicazione, insomma quel non
tutto ma di tutto indispensabile al bagaglio di un pubblicitario di nuova generazione.
Si facevano simulazioni di campagne per prodotti veri o inventati, lavorando in
coppie obbligatoriamente omoprofessionali, dal momento che, non esistendo ancora uno
specifico corso per copywriter, di copywriter lì non ce n’erano. Così ci si arrangiava, travestendosi a turno da copywriter come facevano le compagnie teatrali parrocchiali con le
parti da donna.
Di simulazione in simulazione, venne fuori che a me la cosa riusciva piuttosto
bene. Come apprendista art director ero nella media, come copywriter ero decisamente
promettente, anche al di fuori di una classe di art director. Così la pensava Paolin, il docente copywriter sulla quarantina che arrivava sempre in ritardo alle lezioni, ma poi ci
divertiva raccontandoci le più assurde leggende metropolitane.
«Caro mio, tu sei un copy nato» mi diceva «mica un art» e la smorfia della bocca con
cui faceva uscire quelle tre lettere la diceva lunga su dove stesse per lui l’orgoglio di razza.
«Tu devi fare il copy». La sentenza, decretata dall’autore di “Patatina Pai canta in
bocca” in persona, non solo m’inorgogliva, ma avrebbe segnato il mio futuro. In fondo,
l’italiano è sempre stato la mia seconda materia preferita.
Sì, farò il copywriter.
Poco fa mi è arrivata una e-mail di un cliente. Si riferisce al testo introduttivo di un
pieghevole che dovrà spiegare un concorso a premi destinato ai venditori di un’azienda di
salumi all’ingrosso, una di quelle innovative trovate che vanno sotto il nome di Attività
di Incentive. In poche parole, si tratta di un piccolo dépliant (da pronunciarsi all’inglese,
con l’accento sulla e) che dovrebbe spingere i venditori a vendere più prosciutti perché
così facendo avranno da guadagnarci. Non in denaro, per carità, ma in premi esclusivi
che vanno dalla settimana di vacanza per due nel villaggio turistico (in bassa stagione) al
telefonino di penultimissima generazione.
Nella sua e-mail, il cliente chiede sostanziali modifiche al testo in questione, così riassumibili: evitare di chiamare “raccolta punti” la raccolta punti perché vorrebbe che fosse
percepita più come una “raccolta premi”, anche se non potremo usare il termine “raccolta
premi” e men che meno “concorso a premi” per questioni legali.
Si rende quindi necessario individuare un naming alternativo per l’operazione capace di
veicolare in modo semplice e immediato sia il concetto di “raccolta” sia di “premio” senza
però utilizzare queste parole. Si richiede inoltre di accorciare il testo di almeno un terzo
della sua attuale lunghezza, mantenendo però inalterate le parti inerenti alla meccanica del
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“concorso”, che andranno però rese più emozionali e coinvolgenti nel tono.
È la quarta volta che modifico quel testo, assecondando i desideri schizofrenici di
un trentenne brevemente laureato in marketing & comunicazione e masterizzato in qualcos’altro di simile.
Io, invece, ho cinquantatre anni suonati, faccio il copywriter da una vita e da un po’
di tempo in qua mi faccio anche un po’ pena.
Tu non hai nemmeno la più vaga idea di quanta ampiezza di spalle occorra oggi
a un sacco di persone, per salvarle dal sedersi in un angolo e cominciare a singhiozzarsi
addosso. Non che la colpa di questo stato di cose sia attribuibile ai giovani masterizzati,
intendiamoci. Loro sono soltanto un sintomo, non la malattia, e per quanto l’idea di poterne strangolare lentamente tre o quattro sia in sé meravigliosa, sarebbe solo un blando
palliativo. Resta il fatto che vedere giudicato il proprio lavoro da un imbecille conclamato
che potrebbe anagraficamente essere tuo figlio, cosa per fortuna impossibile per il semplice fatto che ancora respira, è perlomeno deprimente.
Non ci misi molto, una volta entrato nel magico mondo della pubblicità, a scoprire
che il creativo, sia esso copy o art, è uno di quei mestieri ingrati che chiunque ritiene di
saper fare all’occorrenza senza alcuna difficoltà, ma siccome, sfortunatamente, deve già
occuparsi di faccende ben più importanti, il chiunque si vede puntualmente costretto a
delegare il compito a qualche coglione che fa soltanto quello.
Un atteggiamento curioso che di solito non si ha, per esempio, nei confronti degli
idraulici. Se così fosse, capiterebbe spesso di entrare in bagni dove i sanitari sono applicati
al soffitto, o dove il portasapone è molto più grande della vasca da bagno, semplicemente
perché al cliente piaceva di più così.
Quand’ero giovane mi ci incazzavo. Da vecchio mi ci incazzo ancora ma, in compenso, m’intristisco pure. Anche perché, grazie alla splendida parabola professionale che
sono riuscito a disegnare in tutti questi anni d’onorata carriera (hai presente quel gioco
che facciamo io e te coi palloncini lasciandoli andare dopo averli gonfiati? Ecco, una cosa
del genere, pernacchietta compresa), se da giovane potevo incazzarmi su progetti importanti, oggi, complice una crisi di proporzioni bibliche, sono costretto a farlo con quello
che passa il convento. Come, ad esempio, il testo sul concorso per i venditori di salumi
all’ingrosso alla sua quarta modifica.
«Lei non sa chi ero io!» è una frase che potrei togliermi la soddisfazione di dire a
qualcuno, nel momento in cui decidessi di sconfinare definivamente nel patetico, ma da
copy fino all’ultimo.
Perché io ero uno proprio bravo, a fare la pubblicità. Di quella che fa sorridere,
piace un po’ a tutti e la gente se la ricorda per anni. E senza mai fare ricorso all’uso della
gnocca, cosa di cui vado fiero.
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Però ero anche uno troppo stupido e orgoglioso per capire che in certi mestieri
non puoi limitarti a fare bene quello che devi fare, ma c’è tutto un corollario di comportamenti accessori a cui attenersi che accessori non sono affatto. Si va dal curioso esercizio
di prendersi terribilmente sul serio riuscendo contemporaneamente a essere sempre sorridenti all’evitare di dire in pubblico ciò che realmente si pensa, a meno che non coincida
sorprendentemente con quanto appena detto dal più alto in grado. Mostrarsi amici di tutti
è necessario per poter poi perfezionare il rapporto con qualche coltellata ben tirata, meglio se alla schiena. È poi fondamentale, nonché estremamente salutare, una volta vestiti
nel modo giusto, frequentare i posti giusti all’ora giusta per incontrare le persone giuste
bevendo la cosa giusta.
Quando tuo padre è finalmente arrivato a capire che abbracciare questa disciplina
spirituale era in realtà più importante che avere la più brillante delle idee, aveva già causato
una tale quantità di danni alla sua immagine professionale da comprometterla irrimediabilmente. E siccome certa stupidità non ha mai un’azione perfettamente localizzata ma si
spalma volentieri su tante altre cose che facciamo o non facciamo, puoi aggiungere a questo trionfo delle mie personali pierre una capacità di gestire gli aspetti economici e contrattuali, di vendersi, come si dice, pari a quella del contadino deficiente che va al mercato in
certe favole deprimenti. Come lui, io quando andavo al mercato riuscivo sempre a trovare
un onest’uomo capace di convincermi che vendergli la vacca in cambio di un uovo era il
miglior affare che potessi fare.
Il risultato di questa oculata gestione, oltre che da un certo numero di faldoni pieni
di fatture mensili da un uovo, è facilmente valutabile dalla profondità che ha raggiunto
la ruga che mi taglia verticalmente la fronte e ti sarà perfettamente chiaro il giorno in cui
scoprirai che non ho niente da lasciarti, malgrado non abbia mai giocato una sola volta a
poker in vita mia.
A questo punto, il copione vorrebbe che cominciassi a tirare la volata a una prevedibile morale, o che ti servissi un non richiesto consiglio passe-partout che un giorno
possa tornarti utile, commettendo in tal modo uno dei più classici errori del genitore,
ovvero pensare di risparmiare un’esperienza diretta ai figli semplicemente raccontando la
propria.
Adesso ti dico io come va a finire il film, così risparmi tempo e denaro.
Come se potessi pensare, confidandoti il grande rimpianto di non aver dato retta ai
miei pollici per inseguire l’illusione di un lavoro “serio” che di serio nulla ha mai avuto,
di metterti al riparo da ogni possibile analogo rimpianto. Va bene che sono stupido, ma
non fino a quel punto. Se funzionasse così, ogni nuova generazione sarebbe d’ufficio più
furba della precedente, immune dalla nascita al veleno che faceva strage tra i nonni, come
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succede ai ratti. Sarà invece molto facile che, prima o poi, mi tocchi vederti sbattere il
grugno esattamente sugli stessi spigoli dove anch’io l’ho sbattuto, senza poter far altro che
rendermi vecchio e odioso dicendoti e io cosa t’avevo detto?
Ma siccome mi piace l’idea di chiudere in bellezza, ora voglio farti un regalo prestigioso, espressamente pensato per te: conserva con cura queste pagine fino al momento in cui
vorrai intraprendere d’istinto un qualcosa che non mi convince e che per questo cercherò
di contrastare a favore di una scelta a mio giudizio più ragionata e ragionevole. Mostramele in quel momento e mettimi di fronte alla responsabilità di ciò che scrissi a proposito
delle mie scelte: potrai godere immediatamente di un’esclusiva arma nei confronti di tuo
padre, capace di farlo tacere per un po’.
Niente a che vedere con un’eredità, ma sputaci sopra.
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Sei
Nello spogliatoio deserto della piscina echeggiò un urlo
Nello spogliatoio deserto della piscina echeggiò un urlo. Proveniva dalle docce e
rimbombò tra le piastrelle appannate insieme allo scrosciare dell’acqua. Era la voce di una
piccola bambina, che subito si risolse in un pianto straziante:
«Bastaaa…bastaaaaaaa…»
Per tutta risposta, l’uomo ringhiò senza pietà
«Ti ho detto di smetterla! smettila!»
«Nooo…mifaimale…mibruciaaa…»
«Stai ferma! ferma!»
Solo pochi istanti prima, tutto era cominciato come comincia un gioco.
«Quello è il tuo pisello?» aveva chiesto allegramente la bimba entrando nella cabina
della doccia, ancora ignara della piega che avrebbero preso le cose.
A tre anni scarsi ti fidi di chiunque, figuriamoci se non ti fidi di tuo padre. Non
puoi nemmeno lontanamente sospettare che proprio il tuo papone possa farti ciò che ti sta
facendo: cercare di lavarti i capelli con il suo shampoo, quello che brucia gli occhi, solo
perché ha commesso l’imperdonabile leggerezza di dimenticare a casa il tuo stramaledettissimo no tears.
Nello stesso modo, ti risulta giustamente impensabile che qualcuno sano di mente,
entrando in quel momento nello spogliatoio e ascoltando il nostro breve litigio, possa farsi un’idea completamente diversa della situazione, dando a quelle stesse parole ben altro
significato e al mio pisello nudo, pendulo e bagnato un ruolo che mai e poi mai si sognerebbe d’avere. Un’idea talmente preoccupante da poter persino suggerire al qualcuno di
chiamare i carabinieri, perché un uomo sta molestando sessualmente una bambina. Eppure
sarebbe potuto accadere. Tanto che io, volente o nolente, mentre strillavi mi sono sorpreso
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a ipotizzare questa sgradevolissima possibilità, incerto tra il ridere per l’assurdità dell’equivoco e l’agghiacciarmi considerando il malo modo con cui questi tempi ci possono
portare a vivere anche le più innocenti situazioni. Tra queste, l’intimità tra l’adulto e il
bambino, oggi più che mai sorvegliata speciale, pregiudicata a rischio di recidiva perennemente in odore di reato.
Il reato si chiama pedofilia, ed è solo una delle tante paure con cui un genitore moderno pare debba rassegnarsi da subito a doverci fare i conti. Forse la più infida, perché
si muove sul filo dell’incerta linea di confine tra l’amore così come vogliamo che sia e il
suo oscuro fratello degenere, approfittando della nebbia che sale dalle nostre ipocrisie a
sfumarla e confonderla ancor più. Una paura schifosamente subdola, perché capace di crescere a meraviglia dove più ci pensiamo al riparo e tra le persone di cui più ci dovremmo
fidare.
Da questo punto di vista, la mia normalità ci concede il lusso di poter cancellare
senza alcuna incertezza me stesso dalla lista delle tue ipotetiche frequentazioni a rischio.
Perciò non ti devi offendere, ma solo rallegrarti, se la mia attrazione sessuale nei tuoi confronti è ancora più scarsa di quella che posso provare per il tuo amico Winnie The Pooh.
Teoricamente, la lista potrebbe comprendere indistintamente tutti gli adulti, soprattutto
ma non soltanto di sesso maschile, con cui puoi entrare in contatto. A volerci star male,
non c’è che da cominciare.
Anche perché gli orchi da cui ti dovremmo difendere (senza peraltro aver l’aria di
farlo) non sono mica riconoscibili da lontano per la stazza, i peli, le unghie, il colorito o
la voce. Non sono come quelli di cui adesso hai paura per il puro piacere di averla. Questi
si presentano esattamente come noi, talvolta anche meglio. È molto più probabile che riescano a sorprenderti con la loro gentilezza e la loro sensibilità, piuttosto che con gli artigli,
almeno all’inizio. Ecco, la prima fregatura: ti rubano la fiducia nel prossimo, una cosa che
non ha prezzo.
Un orco l’ho conosciuto anch’io, parecchi anni fa. Ma fino al momento in cui non
si rivelò tale, niente mi avrebbe potuto far pensare che lo fosse. Era un amico di un mio
amico, e una volta mi capitò di passarci insieme anche un lungo e torpido dopopranzo
natalizio. Aveva qualche anno più di noi, era sulla trentina. Faceva l’elettricista in una fabbrica del varesotto. Gli mancavano tutte le falangette di una mano, pollice escluso, perché
un giorno, mentre stava installando un dispositivo di sicurezza su un macchinario per
tagliare i blocchi di carta in una grande cartiera, qualcuno l’aveva messo in moto.
Lui raccontava il fatto come una barzelletta al bar:
Cazzo, mi vedo la lama venir giù, tiro via la mano al volo e dico al tipo cazzo ma sei scemo? Io pensavo che l’avevo tirata via in tempo, poi vedo passare la carta che sembrava quella del
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macellaio dal sangue che c’era su, ziocane…!
La mutilazione non gli impediva di guidare disinvoltamente la moto, estate e inverno, anche se tirare la frizione a fondo gli dava qualche problema. Per fortuna, la mano
spuntata come una siepe era la sinistra e lui non era mancino. Ogni tanto, soprattutto
quando faceva freddo, gli facevano male i moncherini perché finivano con un ossicino
che sembrava quello delle cosce di pollo, ricoperto solo da un po’ di pelle sempre screpolata, senza la ciccetta del polpastrello a proteggerlo. Sbatteva un po’ la mano maledicendo
quelle dita di merda e poi tornava allegro come prima.
Maurizio, questo era il suo nome, si era sposato giovanissimo con una terrona gelosa
come tutti i terroni e da questa aveva avuto due figlie, la prima delle quali aveva già tredici o
quattordici anni.
Il mio amico l’aveva trovato cercando un antennista in grado di risolvere una volta
per tutte i suoi annosi problemi di ricezione tv, ancora irrisolti malgrado svariati esperti ci
avessero provato più volte. Qualcuno, alla fine, gli aveva dato il suo numero di telefono: Questo qui i lavori li fa quando può perché ci ha il posto in fabbrica e quando vuole perché è un tipo
un po’ così. Ma stai tranquillo che nelle robe elettriche non lo frega nessuno.
Infatti non si fece fregare neanche da quell’antenna, che sistemò per sempre in
un mezzo pomeriggio. A lavoretto seguì lavoretto, poi qualche chiacchiera sulle moto,
un fermarsi a mangiare qualcosa, un ti porto io dove il televisore lo compri a molto meno. E il
mio amico s’affezionò a quel tipo così totalmente lontano da lui ma così semplicemente
simpatico.
Poi, un giorno, successe il grande casino. Quel giorno, dopo l’ennesimo litigio, sua
moglie fece i bagagli, prese le figlie e se ne andò con loro a casa della madre. Quando Maurizio scoprì la cosa non la prese bene. Lasciò passare un paio di giorni, poi, la domenica,
decise di andarle a riprendere, dopo aver avuto la bella pensata di procurarsi una pistola e
mettersela in tasca. Forse solo per fare un po’ di scena, o forse perché era sicuro che con
le buone la donna non l’avrebbe seguito. Infatti lei a casa non ci vuole proprio tornare,
nemmeno con la forza. Maurizio perde il controllo, il cognato si mette in mezzo quel
tanto che basta per prendersi una pallottola. Poi con un’altra colpisce la moglie di striscio.
A quel punto la trascina in macchina e parte, senza sapere cosa fare, senza sapere dove
andare, col cervello che gira a vuoto e la pistola tra le gambe. Guida senza meta, finché
non gli viene in mente di andare a casa del mio amico. Forse perché è ricco, forse perché
ha studiato, forse potrà aiutarlo ad uscire dal guaio in cui s’è cacciato.
Così questo passa una delle domeniche pomeriggio più complicate della sua vita,
cercando prima di medicare il braccio della donna terrorizzata, poi di convincere Maurizio ad appoggiare finalmente da qualche parte quella pistola che segue pericolosamente
il suo gesticolare mentre cammina avanti e indietro gridando, piangendo e straparlando.
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Infine a cercare di fargli capire che per quanto grossa sia la cazzata che ha fatto non è poi
così irrimediabile da non poter rimanere l’unica.
A tarda sera, Maurizio si consegna ai carabinieri chiamati dal mio amico.
Il giorno dopo, nei bar della futura padania si commenta il fatto come si può commentare la follia di un momento, con quel tanto di bonaria comprensione che sembra
spettare a chi ha perso la testa senza diventare per questo un assassino. Una settimana
dopo, quando i primi interrogatori finiscono in cronaca, la verità vera comincia a far gelare in bocca quei commenti e a dare ben altro colore alle quinte della vicenda. La moglie
era fuggita con le figlie per sottrarre la maggiore agli abusi sessuali del padre. Aveva finalmente trovato il coraggio di opporsi, forse per paura che l’incubo stesse per cominciare
anche per la figlia minore.
Maurizio, il simpatico elettricista, violentava sua figlia da anni. Dentro di lui c’era
un orco ben nascosto, come vedi.
A pensarci, tutto ciò che riguarda la nostra sfera sessuale si trova generalmente ben
nascosto, chiuso a chiave da qualche parte, anche quando ciò che si pratica nell’intimità
non esce dai binari del più stretto conformismo in materia, anche quando non c’è nulla
di cui vergognarsi. Figuriamoci quando sai con assoluta certezza che i tuoi impulsi e i tuoi
desideri sarebbero condannati a morte dal branco senza possibilità d’appello.
A pensarci, quello che ci fa sentire più indifesi è semplicemente quello che non
riusciamo a concepire, è l’azione di cui ci è proprio impossibile pensarci attori, anche
sforzandoci. Forse sta tutta lì, la differenza tra i criminali e gli orchi. Nei primi possiamo
più o meno facilmente provare ad immedesimarci. Nei panni dei secondi proprio non
riusciamo a metterci.
Così possiamo soltanto temerli senza alcuna cognizione di causa, incerti se impegnarci in un sospetto diffuso e costante o semplicemente sperare di scoprirci sufficientemente svegli e attenti al momento opportuno, caso mai si presentasse.
Vigilare sugli orchi è quindi uno dei miei tanti compiti di buon padre, anche se
onestamente non riesco a capire se questo rappresenti il prezzo da pagare per la doverosa
consapevolezza del problema o se sia invece il risultato di una psicosi collettiva non giustificata dai numeri.
Se provo a cercare tracce di orchi nella mia infanzia non trovo granché. C’erano i
culattoni (noi li chiamavamo così) che talvolta ci facevano la posta al cinema.
Devi sapere che a Milano, negli anni sessanta, era una cosa del tutto normale che la
domenica pomeriggio noi ragazzini di undici o dodici anni andassimo a vederci un film
in uno dei cinema del nostro quartiere o limitrofi senza essere accompagnati da un adulto.
Strano, vero?
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Si andava all’Augusteo, all’Aurora, al Poliziano e certe volte all’Ariosto. Il Cinema Rosa
era vicinissimo a casa mia, ma era proibito andarci perché era un cinemaccio, come diceva
mia madre. A differenza degli altri, che erano di seconda visione, il Rosa apparteneva all’infima casta di terza, che per sole trecento lire di biglietto offriva la visione di ben due pellicole rattoppate, di cui almeno una di genere scollacciato. Questo significava un intero pomeriggio di proiezione interrotta soltanto dagli intervalli e dalle rotture della pellicola. Ma
significava anche che il cinema era frequentato prevalentemente da pensionati, coppiette
smaniose e vari nullafacenti, tutta gente che, con modalità diverse, spesso e volentieri si
lasciava andare a non meglio precisate porcherie.
Io al cinema ci andavo in coppia con un amico (non necessariamente l’Ivano di
Helga), ma qualcuno ci finiva anche da solo, e allora era molto più facile che un culattone
gli si piazzasse accanto e cominciasse ad allungare le mani. La cosa si risolveva con un
cambio di posto, di solito. Mi ricordo una domenica, al Poliziano, io e Daniele salutammo
il nostro compagno di classe Schiavin seduto per i fatti suoi qualche fila di sedie dietro
di noi. Quando nell’intervallo si accesero le luci, Schiavin ricomparve seduto da tutt’altra
parte. Nel secondo tempo, durante un’interruzione per sistemare la pellicola, lo ritrovammo in fondo alla nostra destra, ma solo poco dopo lo vedemmo imboccare il corridoio per
andare a sedersi davanti a noi nelle prime file. Il lunedì mattina, a scuola, ci raccontò di
essere stato tampinato per tutta la durata del film da un culattone insolitamente insistente,
che lo seguiva ovunque, per questo era stato costretto a una migrazione continua e si era
perso le migliori sparatorie del western.
Per quello che ricordo, le avances dei culattoni venivano prese come una seccatura,
niente di più.
Alle bambine toccavano invece gli sporcaccioni, esibizionisti solitamente appostati
nelle vicinanze della scuola, pronti a mostrare i loro attributi alle piccole di passaggio. Di
donne che tra i loro ricordi annoverino almeno un episodio del genere ne ho conosciute
parecchie, quasi che l’improvvisa visione di un pene ostentato in tutta la sua faunesca oscenità facesse parte di un rituale iniziatico fondamentale per la corretta maturazione delle
femmine. I loro racconti differivano più che altro per il diverso dosaggio dei componenti
la reazione: paura, schifo e consapevolezza.
Una bambina ingenua quanto imperturbabile una volta cresciuta mi raccontò di
essersi fermata incuriosita davanti al finestrino aperto dell’auto dove era stata attirata con
una scusa dallo sporcaccione, cercando di capire per quale motivo quell’uomo agitasse tra le
mani, ficcato nella patta dei pantaloni, uno strano, grosso würstel con il buco in cima. Una
compagna più timorosa la trascinò via prima che potesse approfondire l’osservazione, ma
è probabile che il suo approccio distaccato, quasi scientifico, al fenomeno non fosse esattamente la reazione che il proprietario dello strano insaccato si augurava di provocare.
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Solo una donna non mi raccontò di sporcaccioni, ma di un incontro con un orco
vero e terribile. Ancora faticava a parlarne, malgrado fossero passati tanti anni.
Abitava in un paese dell’hinterland milanese e per andare a scuola prendeva come
scorciatoia una strada che tagliava un campo coltivato. Lì, in un mattino d’inverno, con
la nebbia ancora attaccata al terreno gelato, quella bambina con le trecce bionde e gli occhioni azzurri che sembrava uscita dalla pubblicità del Buondì, con la cartella in spalla e il
cappottino sopra il grembiule bianco col fiocco rosa fu una visione irresistibile per l’orco
che fermò la sua auto, scese, l’afferrò e la trascinò nel campo. Non credo che avrei mai
potuto sentire questo racconto dalla sua voce se quel mattino, in quel momento, qualcun
altro non avesse pensato di raggiungere la scuola elementare per quella stessa strada sterrata.
Era l’uomo che consegnava la frutta per la refezione scolastica. Vide sbucare dalla
nebbia, davanti al suo Ape traballante, prima una macchina ferma con la portiera aperta,
poi una cartella, poi una scarpina. In lontananza, nel campo, qualcosa si agitava nella
nebbia lanciando strilli.
L’angelo della frutta sollevò l’orco di dosso alla bambina come fosse stato un sacco
di mele marce prima che potesse abusare di lei, come piace scrivere ai giornalisti, ma troppo
tardi per impedirgli di lasciarle per sempre nell’anima il segno dei suoi artigli.
Fare l’amore con la donna che diventò mi lasciava addosso il sapore di una malinconia senza scampo, la stessa che aveva negli occhi anche quando rideva, e non so se fosse
un caso.
Io, per mia fortuna, un incontro con un orco non l’ebbi mai (o fu troppo breve
perché me ne potessi accorgere) e forse non ero neanche il tipo di ragazzino che piaceva
ai culattoni del cinema. Posso dire che il contatto più sgradevole con un adulto a cui mi
capitò d’essere ripetutamente costretto in quegli anni è circoscritto alle confessioni con
Padre Ettore, il frate carmelitano che ci insegnava il catechismo.
Non so per quale ragione, anziché parlarci attraverso la grata, voleva che stessimo in
piedi davanti a lui, seduto nel confessionale. Una volta entrati, chiudeva la tendina dietro
di noi e ci metteva le mani sulle spalle, bloccandoci amorevolmente in una posizione che
vedeva la sua testa e quella del confessando più o meno alla stessa altezza, a una distanza
che chiunque di noi avrebbe voluto molto meno ravvicinata.
Perché a quella distanza diventava impossibile concentrarsi nell’elencazione dei
propri peccati senza far caso all’impressionante quantità di forfora che stazionava sulle
spalle del suo saio sporco, ai capelli grigi e unti che sembrava la producessero in continuazione, ai pori che s’aprivano come crateri sul naso rosso, alle pupille acquose d’un grigio
indefinito che si perdevano in lontananza dietro le lenti degli occhiali spesse un dito.
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Era molto difficile accostarsi al divino, quando faceva sibilare l’assoluzione attraverso quelle labbra grosse e tumide, ai cui angoli la saliva si rapprendeva in schiuma bianca, accompagnata da un alito che veniva direttamente dagli inferi.
Uscire dal suo confessionale dava una meravigliosa sensazione di leggerezza e di
ritrovata libertà che nulla aveva a che vedere con il perdono dei peccati, per il quale si era
disposti a pagare qualunque importo in preghiere contanti, pur di potersene allontanare
al più presto.
Sono convinto che Padre Ettore non cercasse in questi contatti con noi bambini
nulla di più di quanto il suo cuore semplice potesse concepire. Penso che fosse soltanto
un brav’uomo decisamente brutto e parecchio sporco che un giorno aveva deciso di farsi
frate.
C’era però un altro uomo, ora che ci penso, che faceva del contatto fisico con noi
il momento sublime di un rapporto del tutto particolare. Un momento in cui piovevano
pizzicottoni ovunque e raffiche di baci che sapevano di sigaretta nazionale sulle guance
grattate dalla sua barba ispida.
Tu non lo sai, ma proprio quest’anno le cronache scolastiche hanno parlato del
ritorno per legge al maestro unico. Ora non so dirti esattamente cosa questo significherà
nei fatti, ma di una cosa sono assolutamente certo: per quanto unico potrà essere, nessun
maestro elementare lo sarà mai quanto lo fu il mio.
L’unico, indimenticabile Maestro Gino Mariani.
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Sette
Nella fotografia sono quello più in alto di tutti
Nella fotografia sono quello più in alto di tutti, in cima alla scaletta dello scivolo.
Per colpa del sole primaverile che batte sulle nostre facce e sul giardino della “Scuola
Materna Enrichetta Sesana” siamo tutti e venti accigliati. Salvo quei tre che azzardano un
sorriso, noi bambini non sembriamo molto contenti di trovarci lì, sotto lo sguardo vigile
di una suora, uniformati dal grembiulino bianco da cui sbucano le gambe nude. Anche il
taglio di capelli, corti con la frangetta, è più o meno lo stesso per tutti, a esclusione di un
bambino col ciuffo a banana e del sottoscritto, il cui padre non può tollerare la lunghezza
di capelli necessaria a una frangetta, e che per questo motivo sfoggia quella tosatura uniforme da un centimetro e mezzo scarso che lo accompagnerà per molti anni a seguire.
Delle due foto che mi ritraggono all’asilo, oltre ad essere la mia prima in assoluto
a colori, questa ha un taglio molto più informale dell’altra. Si vede soltanto la parte maschile della mia classe, distribuita su di una giostra e uno scivolo in un modo che vorrebbe
apparire casuale, ma che è evidentemente frutto di un’attenta composizione ottenuta a
forza di tu qui, tu lì, tu seduto, tu vai dietro che sei più grande, tu alzati, tu siediti e tu girati.
La suora sta nel mezzo, una macchia nera a forma di goccia che spicca sul muro
bianco, forata nel mezzo dal candore della pettorina di celluloide.
Narrano le cronache famigliari che il mio primo giorno di asilo, davanti a quella
giostra, mi bloccai senza salirci e rimasi a guardare con occhi da cane bastonato gli altri
bambini che si divertivano. Tanto che a un certo punto una suora mi chiese perché non ci
salissi anch’io.
«Perché la mia mamma non ha i soldi per pagare.» le risposi io con voce strozzata
dal pianto in canna. Se avrai figli, prima o poi anche tu scoprirai a tue spese quanta attenzione conviene prestare a quel che si dice ai bambini, perché anche l’affermazione ap41
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parentemente più insignificante ti si può improvvisamente rivoltare contro quando meno
te l’aspetti, anche a distanza di parecchio tempo, anche solo per il gusto di metterti in
imbarazzo.
Mia mamma pagò con questa pietosa scenetta degna di Oliver Twist il suo espediente preferito per evitare di rendere omaggio alla giostra del lungolago ogni volta che
le passavamo davanti, che consisteva nell’accelerare il passo dicendo non ho soldi, adesso
oppure non ho più soldi se eravamo stati in giro fino a quel momento a far compere. Va da
sé che quella dell’asilo restò l’unica giostra davanti alla quale dimostrai di avere afferrato
il concetto.
Ma veniamo alla seconda fotografia, quella in bianco e nero, più grande, ufficiale e
incredibilmente seria. Non so quanto tempo sia potuto occorrere alle suore e al fotografo
per mettere in posizione i soggetti, ma di una cosa sono sicuro: ottenere oggi lo stesso
risultato con te e i tuoi compagni di scuola dell’infanzia sarebbe possibile, forse, soltanto
grazie a un interminabile lavoro di ritocco in Photoshop. Perché oggi è semplicemente impensabile riuscire a mettere in posa per una fotografia ottantasei bambini dai tre ai cinque
anni ordinatamente disposti su cinque file a scalare, ottantasei bambini di cui ottantatre
con le braccia perfettamente conserte e lo sguardo dritto verso l’obiettivo. Il risultato
pieno è compromesso solo per colpa di una bambina seduta per terra in prima fila che
esamina la ghiaia davanti a sé, di un bambino che si gratta un orecchio e di un altro che,
inspiegabilmente, si è portato le mani agli occhi proprio al momento dello scatto, un gesto
che con tutta probabilità avrà dovuto scontare in famiglia per lungo tempo: ma è possibile?
di tutti i bambini sei l’unico che non si vede in faccia!
Sono convinto che se anche le due suore che completano simmetricamente la composizione come i due angeli ai lati della capanna del presepe non si fossero limitate a
copiarne la posizione (di tre quarti con il viso leggermente inclinato su un lato) ma ne
avessero assunto anche i super-poteri, ci scommetto che con voi non ce l’avrebbero fatta lo
stesso.
Guardaci. Certo, noi siamo i famosi figli del boom, facciamo parte di un’immensa
cucciolata partorita dall’ottimismo per la quale si sta costruendo un futuro radioso senza
guerre e senza fame, comunisti permettendo. Ma il fatto che ci stiano spensieratamente
mettendo all’ingrasso non significa che possiamo permetterci di allontanarci troppo dalla
mangiatoia della batteria. Se qualcuno ha deciso che dobbiamo stare con le braccia conserte (posizione detta anche mani in prima, non chiedermi perché) puoi giurarci che questo
qualcuno ci insegnerà a rimanerci e non necessariamente attraverso un divertentissimo e
istruttivo gioco collettivo. A te, di metterti a braccia conserte non l’ha mai chiesto nessuno: le tieni così in un unico caso e per tua sola volontà quando vuoi farci capire che hai
deciso di tenerci il muso. 42
Guardaci. Siamo molto più simili ai bambini di cento anni prima che a voi di
cinquanta dopo, e non soltanto perché tutti i maschi portano i pantaloni corti o perché
siamo molto meno variopinti di voi sia di pelle sia d’abbigliamento. E nemmeno perché
le nostre facce, se le osservi bene, ricordano molto di più quelle della gente che si manda
a crepare in guerra piuttosto che quelle di chi vorrebbe vivere in televisione.
La differenza sta nell’ordine, quell’incredibile ordine che riesce a tenere compresse ottantasei molle appena uscite di fabbrica anche soltanto per il tempo di una foto ed
è frutto di una cosa d’altri tempi che si chiamava disciplina. Per ottenerla dai bambini,
all’occorrenza non si disdegnava il ricorso a dosi misurate di violenza fisica, propinate
generalmente sottoforma di sculaccioni, scappellotti, schiccheri, bacchettate, o di semplici sbatacchiamenti di varia intensità. Quasi nessuno trovava nulla da ridire, anche perché i risultati
facevano comodo a tutti. Qualcuno esagerava, non ultimo mio padre. Andava così, allora.
Così come oggi va che per ritrovare perlomeno una vaga forma di autorità genitoriale non è più sufficiente il buon senso, ma si rende necessaria la lettura di testi pedagogici
come I no che aiutano a crescere, nel lodevole tentativo di scongiurare almeno per le ultimissime generazioni i danni devastanti provocati dalle tonnellate di sì che hanno intossicato
le ultime e le penultime. I tempi cambiano, come vedi. Questo è il motivo per cui torno a
ripeterti che sono pronto a scommettere che una foto così tu non potresti mai averla senza
ricorrere a trucchi, perché oggi solo la tecnologia può simulare la disciplina di ieri, e non
solo per quanto riguarda l’asilo.
Ciò detto, è ovvio che non avrei avuto alcun dubbio se qualcuno mi avesse chiesto
di scegliere tra una salesiana delle mie e una qualsiasi maestra delle tue, anche a prescindere dai rispettivi metodi pedagogici. Trovami un bimbo che messo di fronte a tale scelta
scarta una donna che potrebbe, magari anche solo vagamente, ricordare la mamma per
preferirle un essere nerovestito che ha la voce di una donna ma nasconde sempre i capelli e
spesso mostra i baffi, che si fa chiamare sorella ma non ha fratelli e obbedisce a una madre
che non ha mai avuto figli. Io me la ricordo bene, la differenza che c’è tra piangere contro
un gelido petto di celluloide mentre un crocefisso di metallo ti graffia la guancia e piangere
affondando la faccia nel morbido seno di una qualunque donna, figuriamoci in quello
della mamma. Me la ricordo bene perché io all’asilo piangevo molto spesso.
Mi bastava un nonnulla per rompere il sottile diaframma che teneva separato il
singulto dal respiro e stappare la disperazione che entrava automaticamente in me ogni
mattina a partire dal momento in cui oltrepassavo il cancello dell’asilo. Tutto congiurava
perché le sapienti dita del magone si serrassero sulla mia carotide schiacciando contemporaneamente la pompetta che spinge le lacrime fino agli occhi e dando l’innesco ai singhiozzi. Tutto poteva rendere improvvisamente insostenibile la tristissima condizione a cui
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ero incomprensibilmente costretto per l’eternità di interminabili giornate. Il rimprovero
di una suora, l’involontaria rottura di un gioco o, nel peggiore dei casi, la visione al di là
della finestra di un bambino libero insieme alla sua mamma: ognuna di queste cose poteva
essere fatale al mio instabile equilibrio psicologico. Allora l’asilo mi appariva in tutta la
sua crudezza per quello che era: un incubo. Nel suo piccolo, era il primo vero dolore di
dentro che provavo nella mia vita. Il malessere che riusciva a procurarmi sarebbe rimasto
per sempre lo stesso. Di fronte a certe situazioni costrittive, diverse per luogo e contesto
ma identiche per gli effetti nefasti, avrei cambiato soltanto tempi e modi di piangere.
Per fortuna, l’incubo finiva ogni giorno alle quattro del pomeriggio in punto, quando finalmente potevo ristabilire il contatto con la mamma, perno e cuore della mia esistenza di cinquenne, e tornare alla mia vita normale. Come per incanto, le mie funzioni
vitali riprendevano il loro naturale ritmo, e il silenzioso esserino triste con gli occhioni
lucidi che ero stato fino a quel momento tornava ad essere il bambino felice, vivace e parecchio loquace che ero davvero. Improvvisamente ritrovavo anche l’appetito perso nell’odore stantio di minestra, così mangiavo strada facendo la pagnottella al latte (comprata
dalla mamma) che non consumavo mai durante lo svogliato pasto, ma conservavo con
cura nel cestino, pregustandomi quello che era diventato ormai un rito della ritrovata
libertà. Ricordo perfettamente la struggente felicità di quel momento,
ed è l’unico ricordo piacevole che conservo dell’esperienza asilo. Di tutto il resto non mi
rimane nulla di buono, se non il vago ricordo di un’imperitura amicizia con la figlia del
re della moka-express.
All’asilo ho imparato a odiare l’imposizione del pisolino, il mortale silenzio che
ne seguiva e le righe di luce che filtrano dalle tapparelle abbassate, così come il sapore del
latte caldo zuccherato con la pellicina sopra. L’asilo mi ha portato a detestare per sempre il Caravaggio, da quanto mi faceva
paura la Conversione di San Paolo. Una sua riproduzione a grandezza naturale troneggiava
al centro della parete del refettorio e io, mentre mangiavo quel poco che m’andava giù, avevo tutto l’agio di spaventarmi ben bene con ogni dettaglio. Perché il santo che si chiama
come me se ne sta sdraiato con gli occhi chiusi e le braccia aperte sotto un cavallo? Cosa
fa quel vecchio barbuto che sbuca da dietro? Ma soprattutto, perché c’è tutto quel terribile
buio?
Del resto, l’asilo era pieno di cose strane e inquietanti, a cominciare dalla statua
della madonna nell’atrio, che riusciva a rimanere placida e sorridente intanto che schiacciava sotto il piede nudo un serpente, che si contorceva dal dolore con la bocca spalancata
proprio all’altezza della mia faccia, facendomi più che paura una gran pena.
Per fortuna, tu l’hai presa molto diversamente da me, l’annosa questione dell’asilo
e del distacco quotidiano che comporta. Forse perché avevi un anno appena, quando ti
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abbiamo portata al nido. Ti sei abituata subito senza problemi, lasciando un po’ delusa tua
madre, che pensava di meritarsi almeno qualche pianto.
Dovresti vederle, le mamme al loro primo giorno di asilo nido: sono loro quelle in
crisi vera, dilaniate dai sensi di colpa, straziate da quel che la pulce bastarda sussurra al
loro orecchio: Se tu fossi davvero una brava mamma non lo lasceresti qui il tuo bambino, lo sai…
I figli captano e s’adeguano immediatamente al loro sentimento, e parte il volano
del circolo vizioso. Anche l’inserimento, il sistema creato per abituarvi molto gradatamente a dosi sempre più consistenti di lontananza da mamma e casa, in realtà serve più alle
mamme che ai bambini, per abituarle molto gradatamente all’idea di tornare padrone di
se stesse per una parte del giorno senza che questo comporti l’orribile sensazione di essere
diventate improvvisamente inutili.
Sarà stata la tenerissima età o la dolcezza dell’inserimento, saranno state le sorridenti, colorate educatrici che ti coccolavano o, molto semplicemente, il tuo carattere che non
è il mio, fatto sta che nel novantanove virgola nove per cento dei casi tu sei stata lasciata
in mani altrui senza che questo abbia provocato in te una reazione diversa dal congedarci
con un ciao già un po’ distratto dal gioco. Mi chiedo cos’avrei fatto se avessi visto anche
te come me vittima dell’incubo, e sono contento che sia una domanda inutile.
Tutto sommato, molto meglio la scuola elementare dell’asilo, per quanto mi riguarda. Tanto per cominciare, le scuole erano vicine a casa, a Omegna, e non c’era più bisogno
di prendere la corriera tutte le mattine per andare a Crusinallo, la frazione dove si trovava
l’asilo.
Ora ti starai chiedendo di che razza di posti io stia parlando e che cos’abbiano a
che fare con noi. Non posso che darti ragione, e mi fa sorridere il pensiero che tu stia,
inconsapevolmente e del tutto casualmente, proseguendo una particolare tradizione della
mia famiglia, che vuole si nasca in un paesello col quale non s’abbia alcun legame storico.
Un posto per nascere dove non vivrai e che non conoscerai mai bene, ma al quale sarai per
sempre legata, non fosse altro che per tutte le volte in cui ti toccherà scrivere il suo nome
in un modulo.
A me toccò quello di Verbania Suna, autarchico ed esotico al tempo stesso. Peggio
andò cinque anni prima a tua zia, che non ha ancora digerito il fatto d’essere nata in quel
di Premosello Chiovenda. Tutto ciò a causa dei cambiamenti di sede di tuo nonno, che a
quell’epoca lavorava per la Banca Popolare di Intra. Prima a Novara, poi a Pallanza, infine a
Omegna. Ma la geografia ospedaliera non sempre segue le stesse logiche di quella bancaria,
come puoi ben vedere.
Così, anche se io non ho mai lavorato in banca e noi abitiamo a Varese, per ragioni
ospedaliere tu sei nata a Cittiglio, un paese chiamato Stì in dialetto insubrico, come dili45
gentemente riportato dal cartello bilingue all’ingresso del paese. Un’importante conquista
dei fieri amministratori indigeni, lordata dal pennello irriverente di chi ha pensato di
aggiungere, appena sotto, un ineccepibile cazzi.
Ai miei tempi in questi paeselli ci si pensava italiani, ai tuoi si rivendica l’essere un
po’ di tutto piuttosto che quello.
Adesso hai capito, grossomodo, perché in data primo ottobre 1962 tuo padre faceva il suo ingresso ufficiale nell’austero “Civico Palazzo Delle Scuole” di Omegna e non
altrove, per cominciare il suo primo anno scolastico di una lunga serie. Finiti per sempre
i tempi del grembiulino bianco, cominciavano quelli del grembiule nero, che sarebbero
durati secoli. La scuola mi appariva decisamente più onesta dell’asilo: nessuno aveva la pretesa di
spacciartela per una cosa divertente. Anzi, tutto concorreva a ricordarti che non c’era proprio niente da ridere, ma molto da studiare stando molto attenti e molto zitti. Il fatto che
fosse ubicata in via De Amicis non va preso come una semplice coincidenza: la nostra aula
non era più moderna di quella che ospitava la classe di Cuore, a cominciare dai banchi, di
quelli tutti uniti in un solo blocco di legno, digradanti, con il piano a ribaltina e il sedile
inamovibile. Una volta seduto al tuo scomodissimo posto, non ti restava che decidere se
immedesimarti in Garrone o in Franti.
Persino l’insegnante apparteneva al secolo precedente e non avrebbe di certo sfigurato nel devastante romanzo: la Maestra Maraviglia era una dolce, anziana signorina nata
e vissuta per somministrare a generazioni e generazioni di omegnesi la loro dote d’istruzione obbligatoria, cominciando ogni volta dalle asticelle fatte con pennino, cannuccia e
inchiostro. Un’istituzione. Ovviamente era stata la maestra anche di mia sorella nei cinque
anni precedenti, e il fatto che già mi conoscesse come il fratellino della Laura Pedrazzini era
per me una cosa piacevolmente rassicurante.
Le cartine geografiche appese al muro come gloriosi stendardi, non le fisiche ma le
politiche, erano forse gli unici oggetti presenti in grado di collocare quell’aula nel tempo e
non solo nello spazio. Ma solo dopo averle osservate con l’attenzione necessaria per vedere sotto la polvere una Germania divisa in due nel senso della lunghezza o una penisola
istriana dello stesso colore della Yugoslavia.
Effetti secondari di un enorme e indefinito casino successo prima che io nascessi,
ma in qualche modo ancora così presente da poter perfino arrivare ad allungare le sue
zampacce su di me, come testimonia uno strano manifesto affisso nel corridoio appena
fuori dall’aula. Al centro, un’illustrazione raffigura, in quello che sembra un prato di periferia, una bambina in compagnia di un bambino più grande con una gamba tagliata di
fresco all’altezza del ginocchio. Ha il moncherino ancora fasciato e procede faticosamente
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con due enormi stampelle. Più sotto, una fila ordinata di oggetti di varie forme, alcuni
dei quali sembrano giocattoli o penne stilografiche. Una scritta enorme, aiutata da grandi
X sugli strani aggeggi, ci intima di non toccarli mai, nel caso ci capitasse di trovarne uno,
pena il rimetterci una gamba come è successo a quel bambino o peggio ancora. Perché
sono bombe, che nemmeno troppi anni prima qualcuno ha sparso con la speranza che i
bambini di allora le raccogliessero.
Bombe, con due volte la b, quella lettera che assomiglia alla elle ma è più difficile da fare per colpa di quel gradino in più. Quando è maiuscola è diversa e la maestra
Maraviglia la sa fare col gesso senza farlo stridere grande e bella, con le due pancione e il
ricciolo.
Eccomi a scuola. Ho un sacco di cose da imparare, prima fra tutte che non sai mai
cosa t’aspetta nella vita. Può succedere di tutto, può perfino toccarti in sorte un maestro
come Gino Mariani.
Ti ho mai parlato di lui?
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Otto
Tutti a Milano, per la gioia della mamma
Tutti a Milano, per la gioia della mamma. Troppo milanese per rassegnarsi a vivere
in altro luogo, soprattutto se per altro luogo s’intende la provincialissima Omegna dei
primi sessanta, tanto presa dal fabbricare pentole, posate e pettegolezzi da non trovare il
tempo di pensare un po’ a se stessa. Così impegnata ad arricchirsi economicamente da
non riuscire a farlo in altri modi.
La mamma soffre, a Omegna. Soffre il vuoto pneumatico della vita mondana e culturale del posto, che si riduce a esprimersi, per giunta di rado, solo attraverso le serate del
Lions Club nell’elegante salone del Croce Bianca, l’albergo più prestigioso del paese, anche
perché probabilmente l’unico degno di questo nome, se non l’unico e basta.
Per me e per mia sorella è un luogo magico, anche perché teatro di un avvenimento
assolutamente incredibile, malgrado una fotografia lo documenti chiaramente: il papà in
smoking che balla un indiavolato twist con una bionda tra il divertimento dei presenti.
Proprio lui, il direttore della banca, di solito così serio e compassato.
A Omegna la mamma soffre per l’impossibilità di prendere un tram e confondersi
tra la gente che cammina veloce sotto i portici, di entrare in un negozio di casalinghi e acquistare d’impulso un rivoluzionario accessorio per la cuoca moderna che non userà mai,
di assistere a un concerto che non sia quello della banda del paese per la festa del patrono
o di vedere un film che si possa definire almeno recente, se proprio non appena uscito.
Una volta l’ho vista quasi piangere, mentre uscivamo dal negozio di alimentari,
dopo che il signor Rossani, lo stolido proprietario, le aveva candidamente confessato di
non avere la più pallida idea di cosa diavolo fosse quell’origheno che la mamma gli chiedeva. Perché a Omegna, mentre il re della moka-express attraversava il paese al volante della
sua nuovissima Rolls Royce bianca, l’origano era ancora una rara spezia esotica.
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Allora ogni tanto la mamma prende il treno, emozionata come una scolaretta, e si
concede una giornata nella sua Milano. Fa visita a qualche amica o parente, si riempie gli
occhi, le orecchie e soprattutto il cuore delle strade piene di movimento, di rumore, di
luci, di quella vita che a Omegna pare morta come tutti i pesci del lago, avvelenati dagli
scarichi delle fabbriche. Torna stanca e felice, con gli occhi che le brillano e i sacchetti
della Rinascente e dell’Upim che, insieme a tutto quello che figurati se qui si trova, contengono
sempre qualche cosina anche per me.
Tra poco la mamma non avrà più bisogno di prendere un treno per andare alla Rinascente e non avrà più motivo di piangere se per uno sfortunato caso la radio trasmette O
mia bela Madonina mentre sta stirando. Succedeva anche questo, e le sue lacrime neanche
troppo silenziose andavano a sfrigolare sul ferro caldo. Io sono ancora troppo piccolo perché qualcuno si preoccupi d’informarmi in merito e anche per arrivarci da solo, fatto sta
che non so dire se è per far smettere di piangere la mamma o per altri motivi che tra un
paio di mesi Omegna comincerà a scivolare nel nostro passato, che ci piaccia o meno.
A mia sorella Laura non piace per niente, ad esempio. Così adesso tocca a lei piangere. A differenza di me, che inizio solo ora ad allargare il mio raggio d’azione, lei nel corso
dei suoi undici anni ha già costruito a sufficienza per poter subire un crollo. Le elementari che io ho appena cominciato lei le ha già finite e ora affronta con le stesse compagne
l’avventura delle medie. La mattina entra ancora nel “Civico Palazzo Delle Scuole”, ma
dall’altro portone, quello dei grandi. Ha le sue amiche del cuore: la Donatella, la Sandra, la
Morgana e la Catia. Ha già un diario con i suoi segreti, ha un cassetto che chiude a chiave.
Il carnevale passato aveva anche un ragazzino che la tampinava seguendola ovunque, lo so
perché c’ero anch’io e mi sono divertito come non mai a scappare con lei per i vicoli. Parla
con l’inflessione del posto, e come tutti i bambini di Omegna farcisce ogni frase con l’intercalare nostrano, quel dée gutturale che fa inorridire la mamma.Mia sorella non soffre, a
Omegna. Non ne ha alcun motivo, così come nessun confronto con un luogo migliore. È
il suo mondo, sarà piccolo e provinciale, ma a undici anni sembra abbastanza grande da
poterci crescere dentro e abbastanza confortevole da non volerlo perdere.
Per quanto riguarda me, quei cinque anni di vita vissuta che mi mancano rispetto a
lei sono cinque anni in meno a potermi mancare. La mia Omegna è ancora più piccola e
ancora meno frequentata della sua. Avendo molto meno da perdere, la prospettiva dell’imminente trasferimento non mi risulta insopportabile.
Come per un gatto, è l’idea di lasciare la casa, la mia casa, l’unica a mettermi malinconia. Non mi è facile pensare di dover lasciare per sempre il mio terrazzo, terreno di gioco
e di avventura preferito, e con lui le formiche da attirare con lo zucchero e chiudere in un
barattolo per guardarle. Uno dei giochi preferiti da fare insieme a Fulvia, la mia amica e
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compagna di giochi che abita nell’appartamento accanto. Perderò anche lei, adesso che ci
penso, e questo sì che mi fa venir da piangere, anche se da quando è cominciata la scuola
Fulvia la vedo molto meno spesso di prima.
Sul terrazzo lasceremo anche il Signor Agostinetto, l’abete in vaso che ogni Natale
entra in casa per mettersi la gonna di carta crespa rossa e farsi decorare con palle di vetro
fragilissime e angeli di cioccolato rivestiti di stagnola che Laura e io abbiamo imparato a
svuotare e mangiare solo nella parte posteriore, in modo che dal davanti sembrino ancora
intatti. Per lui a Milano non ci sarà posto, perché lì non ci sarà un terrazzo.
Mi chiedo come facciano, i bambini di Milano. Chissà dove corrono, dove giocano a palla, dove si fanno male schettinando e su quale klinker disegnano con i gessetti, se
non hanno un terrazzo. Chissà dove guardano le gocce di pioggia rimbalzare a fontanella
quando c’è il temporale, e dove avranno provato l’indimenticabile ebbrezza di spiccare il
volo per la prima volta pedalando veloci senza più le rotelline, dopo che il loro papà le ha
smontate e ha dato la spinta iniziale alla bici.
La mamma dice che a Milano c’è un grande parco proprio davanti alla casa dove
abiteremo, e che giocare lì sarà molto più bello che sul terrazzo. Io le credo, ma resta il
fatto che il terrazzo era nostro, mentre il parco temo proprio di no.
Ognuno di noi adesso ha in testa la sua Milano, nel bene e nel male, a ragion veduta
o per sentito dire. Quella del papà mi è sconosciuta, come la gran parte dei suoi pensieri.
Posso ipotizzare oggi, per quel che so di lui e che mai sarà abbastanza, che Milano non gli
mancasse granché. E che la torpida vita di provincia, lontana dal rumore e dalla folla e
vicina al silenzio del verde, meglio corrispondesse al suo modo vivere defilato, in secondo
piano, cercando di non dare fastidio al prossimo ed evitando il prossimo in quanto causa
di fastidi. Ma è solo un’ipotesi.
Così, alla fine di quell’ottobre 1962 che mi ha appena visto entrare tra le fila degli
scolari, ecco che già devo cambiare scuola, città, casa. Per la gioia della mamma, preceduti
da un camion giallo con la scritta Gondrand, eccoci scendere dalla nostra millecento targata
Novara davanti al portone di piazza Sempione n°4. Il nostro appartamento si trova a pianterreno: una vera fortuna, per me che devo subito correre in bagno a vomitare.
La scuola di Milano non sembra molto diversa da quella di Omegna: anche qui
nulla tradisce il più timido tentativo di mettere a proprio agio i bambini, anzi. Una grande lapide nell’atrio commemora una lista di morti eccellenti, elencati con ordine a lettere
di bronzo su un’enorme pagina di marmo decorata da nastri e motivi floreali, parecchio
virili, di ferro battuto. Più in basso, all’interno di una fiamma di vetro lavorato, brilla una
luce perenne nelle intenzioni e tremolante nei fatti.
In un umido mattino di fine ottobre io e mia madre ci passammo davanti per la
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prima volta e, preceduti da un bidello, salimmo le scale di granito fino al primo piano,
imboccammo il corridoio dal pavimento a scacchi tirato a cera fino a una porta verdolina
segnata dalla targhetta I C.
Mi sono sempre chiesto perché il mio ingresso nella classe avesse dovuto svolgersi
in questo modo. Il peggiore, dal mio personale punto di vista. La porta dell’aula si aprì
mostrando una classe al completo, ognuno già seduto al suo collaudato posto, ognuno
con gli occhi fissi sul nuovo arrivato dalla provincia ad anno scolastico già iniziato, ad
amicizie e inimicizie già fatte, a compagnia già chiusa.
Io mi sento morire, mentre vengo pubblicamente presentato dalla maestra come il
vostro nuovo compagno che viene dal Piemonte, grossomodo come il maestro del Cuore presenta alla classe il piccolo italiano che viene da Reggio Di Calabria. In quel momento mi vergogno di me, di mia madre, di Omegna e di qualunque altra cosa possa causarmi vergogna.
Mi viene da piangere ma non devo farlo, non me lo posso permettere, davanti alla platea
in grembiule nero che mi vede come un corpo estraneo. Resisto, e quando raggiungo il
banco assegnatomi penso che il peggio, per quel giorno, dovrebbe essere passato.
A Milano i banchi sono moderni: piccoli tavolini col piano in fòrmica finto legno
e le gambe di metallo grigio, con un ripiano inferiore per riporre i libri e un gancio di
plastica al quale appendere la cartella. C’è ancora il calamaio, ma è di plastica, piccolo e
discretamente incassato nel piano del banco. Il bello è potersi sedere su di una seggiolina
che si può muovere a piacimento e non più sulla panca solidale col banco. Bisogna solo
stare attenti a non far rumore spostandola.
Il mio banco è nella fila più a sinistra, a ridosso del muro che dà sull’esterno, nella
rientranza di uno dei tre finestroni. È una buona postazione, luminosa ma riparata, né
troppo vicina alla cattedra né troppo lontana. Posso persino guardare fuori, attraverso i
vetri sporchi, una discreta porzione di cielo e un po’ di tetti, sopra i quali svetta l’antenna
della RAI di corso Sempione con la sua punta a righe bianche e rosse. Se mi sposto un pochino in avanti la perdo di vista in cambio della ciminiera in mattoni che sale dal cortile.
Mi sembra un buon posto, per ricominciare ad affrontare il mio primo anno di scuola, e
spero di poterci rimanere, di farlo mio col passare dei giorni a partire da questo così strano, così lontano da tutto quello che conosco e riconosco.
È una fortuna indispensabile alla sopravvivenza, che mi riesca impossibile avere una
percezione anche solo approssimativa del tempo che dovrò trascorrere chiuso in quell’aula
seduto su quella sedia e di tutte le stagioni che passeranno dietro i vetri sporchi lasciando
pochissimi indizi nel mio panorama.
Saranno centinaia, le mattine a venire differenti l’una dall’altra soltanto per qualche dettaglio insignificante. Per quelle poche di loro che saranno colorate da un’euforia
straordinaria (perché sta nevicando, perché domani c’è la mia festa di compleanno, perché
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oggi è un sabato che precede una domenica speciale...) ce ne saranno a frotte di grigie,
buie nel cielo e nell’anima, piene di compiti, vuote di gioia e di cose d’aspettare. Mattine
di pioggia, con il pavimento dell’atrio cosparso di segatura che si compatta sotto le suole
degli stivali di gomma in uno zoccolo che poi perdi salendo le scale e che ricorda la polpettina del pane grattugiato avanzato quando la mamma fa le cotolette. Mattine d’inverno
in cui nell’aula si tengono accese le luci, e allora sul fondo delle quattro palle di vetro opalino che pendono dal soffitto puoi vedere in trasparenza il mucchietto di mosche e farfalle
morte accumulatesi nel corso degli anni.
In mattine come quelle la tristezza mi si appiccicava addosso come fa la gomma da
masticare sui capelli. Strapparne via il grosso non è difficile, ma toglierla completamente
è quasi impossibile. A meno che non si disponga di un solvente, un benefico imprevisto
come l’arrivo di una supplente, di quelle giovani e innocue che non rimarranno mai il
tempo sufficiente per essere severe.
L’interminabile era dell’infanzia la ricordo capace di stordirmi con momenti di
perfetta gioia, ma anche di annichilirmi con vampate di malinconia assoluta. Non ho mai
capito se chi lo nega non ricordi, faccia finta, oppure abbia semplicemente avuto un’infanzia più spensierata della mia.
Per fortuna, come ti stavo dicendo, quella prima mattina di scuola milanese parlò
soltanto per se stessa e come tale la vissi e la considerai. Poi finalmente finì, lasciando il
resto della giornata alla rassicurante conferma di avere ancora una casa dove poter tornare,
per quanto priva di terrazzo.
Volente o nolente, mi abituai al nuovo tran-tran. Nel giro di poco tempo il mese
scarso trascorso nei banchi della scuola di Omegna e la vecchia Maestra Maraviglia furono
superati dal presente quotidiano e finirono nel piccolo archivio dei miei ricordi.
Ormai sono a tutti gli effetti un alunno in forza alla classe I C della Scuola Elementare Pietro Moscati di Milano. In classe mi sono fatto i miei amici e i miei nemici e la
signora maestra mi piace molto.
Il ricordo che ho di lei è quello di una rotonda mamma chioccia dal petto prosperoso su cui cascava, come del resto si conviene a una chioccia, lo jabot della candida e
profumata camicia bianca sotto il tailleur rosso. Senza età come dev’essere una mamma,
era esattamente la maestra così come un bambino l’avrebbe voluta: materna, paziente e
rassicurante. Persino il suo nome, Giannina Vignolo, suonava dolcemente.
La Maestra Vignolo mi piace anche perché io piaccio a lei. Ogni disegno che faccio
lei me lo premia con un 10, oppure con un Bravo! d’impeccabile calligrafia, se non addirittura con un Bravissimo!
Persino quella volta in cui, per l’esattezza il 25 febbraio 1963, mi produssi in un’o52
pera ambiziosa: un’infernale battaglia che non risparmiava niente e nessuno. Aerei in
fiamme (non a caso la matita rossa e la gialla erano sempre le più corte del mio astuccio),
antropomorfe fortificazioni irte di cannoni che sparano in ogni direzione, poveri fanti
all’attacco tra gli scoppi delle granate e le raffiche di traccianti delle mitragliatrici che attraversano il foglio in micidiali fuochi di sbarramento.Un quadro terrificante, certamente
ispirato da una selezione dei miei ricordi cinematografici più memorabili ed entusiasmanti, come ad esempio i bellissimi, enormi Cannoni di Navarone, che spuntavano dalla scogliera a picco sul mare per sparare alle navi sputando fumo e fiamme, prima che i nostri li
facessero saltare in aria con stupende esplosioni (che a rifarle uguali chissà quante Caran
D’Ache rosse e gialle verrebbero a costare), dopo aver falciato a mitragliate decine di soldati
tedeschi, ovvero cattivi.
Ebbene, la dolce Maestra Vignolo decise di premiare quell’ecatombe con un Bravo,
nonostante sulla parte sinistra del foglio facesse bella mostra di sé anche un pensierino,
scritto con impegno, pennino e inchiostro a grandi lettere rotonde:
A me piace disegnare le guerre perché hanno un’armonia bella
D’accordo, in quegli anni si regalavano ai bambini armi giocattolo di tutti i calibri
con la massima tranquillità e con quelle armi noi maschi giocavamo alla guerra senza
che gli adulti avessero niente da obiettare. E mi rendo anche conto che con quel Bravo la
Maestra Vignolo intendesse sicuramente giudicare l’impegno profuso più che l’asserzione
neo-futurista. Resta il fatto che, col passar del tempo, la vista di quel giudizio, scritto in
alto a destra sul foglio filigranato Raffaello_C.M. Fabriano, ha cominciato a darmi un certo
fastidio, né più né meno quello che spetta a una macchia sull’immacolata memoria della
Maestra Giannina Vignolo.
Ma forse sono io a essere troppo severo con lei. Forse, secondo la sua personalissima
scala di giudizio, quel Bravo nemmeno corredato da punto esclamativo voleva esprimere
a suo modo una certa qual freddezza, ben lontana dal calore dell’entusiastico 10 lode con
aggiunta di Ma sei proprio bravo che il mio foglio di parole in F le aveva strappato un paio
di mesi prima.
Quello di trovare parole che cominciano con una data lettera e di scriverle accompagnate da un disegnino era uno dei compiti che preferivo, visto che non mi costava grandi sforzi e comportava disegnare.
Posso immaginare che oggi una cosa del genere venga chiamata attività, forse proprio in quanto troppo poco repellente per meritarsi l’appellativo di compito. Quando un
giorno toccò alla lettera F, al sottoscritto, dopo aver elencato e debitamente illustrato un
faro, una forcina, un frate, un fiore, un fulmine, un fiasco, una fornarina, una formica e altro
ancora, venne in mente una delle mie illustrazioni preferite all’interno di un libro di mia
sorella. Il libro era roba da grandi di prima media e s’intitolava “I miti degli Dei e degli
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Eroi”. Malgrado mi diffidasse dal farlo, io glielo sottraevo spesso e volentieri per guardarlo, perché era zeppo di disegni raffiguranti personaggi assurdi e situazioni cruente che mi
attraevano tanto. C’era un tizio incatenato a una roccia che si chiamava Prometeo, al quale
ogni giorno un’aquila mangiava il fegato. C’era un mostro mezzo uomo mezzo toro che le
prendeva da un certo Teseo. C’era una tipa tremenda con i capelli fatti di serpenti vivi. E
c’era anche una bellissima illustrazione, una delle poche a colori e a tutta pagina, dedicata
a un disgraziato che precipita da una biga volante. La didascalia diceva: Fetonte cade dal
Carro del Sole. Fetonte, che guarda caso comincia con la lettera F ed è da un po’ che voglio
disegnarlo.
Non so quanti punti guadagnai presso la Maestra Vignolo in quell’occasione. Durante un colloquio confessò il suo stupore alla mamma, la quale, immagino, non oppose
troppa resistenza al lasciarle credere che noi a tavola si parlasse abitualmente di mitologia
greca.
Così andò la prima elementare. Così avrei pensato sarebbe andata la seconda. Tra
gli insegnamenti di vita erano invece previste l’instabilità delle umane cose e la provvisorietà delle conquiste raggiunte. La Maestra Vignolo lasciò Milano e, nel contempo, la
classe orfana della sua rassicurante piumosità.
La I C fu divisa in II C e II D, la sezione in cui mi ritrovai io, affidata alle cure di
una nuova maestra di cui non ricordo nemmeno il nome. Non era del nord, non parlava
come noi, forse era romana. Di certo era il primo esemplare con cui venivo a contatto
di quella particolare specie d’insegnante che quando c’è di mezzo una x, anziché ìcs dice
ìcchese. Altra cosa certa, oltre alla sua antipatia, è che nel giro di pochi mesi dall’inizio
dell’anno scolastico la sua pancia iniziò ad assumere proporzioni talmente ingombranti
da costringerla a lasciarci in balìa di chiunque possedesse uno straccio di diploma di Scuola Magistrale.
Venne a crearsi una situazione tale da spingere addirittura i nostri docilissimi genitori a farsi sentire (protestare era una parola ancora troppo grossa) dal direttore della scuola.
Sei, furono per l’esattezza gli insegnanti che si succedettero in un suggestivo carosello alla
cattedra della II D. Di tutti loro ho un ricordo piuttosto vago, eccezion fatta per il Maestro Budrago, memorabile per lo spavento che il suo cognome e le sue fattezze potevano
evocare. In realtà era una pasta d’uomo, molto più buono di quanto facesse presumere la
sua vista, ma, al di là dell’essere il secondo insegnante di tipo ìcchese con cui entravamo in
contatto, era indiscutibilmente maschio, e come tale impossibilitato a rappresentare un
surrogato di mamma. Era un maestro, niente di più lontano dalla mai abbastanza rimpianta Vignolo. Era l’inedito esemplare d’insegnante con cui avremmo dovuto fare i conti
nei tre anni seguenti, nell’incarnazione del Maestro Gino Mariani.
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Nove
Tu c’hai il Mariani? Io no, per fortuna
«Tu c’hai il Mariani? Io no, per fortuna.»
Passati solo pochi mesi dall’inizio dell’anno scolastico 1964/65, noi alunni della III
D della Scuola Elementare Pietro Moscati eravamo già considerati dai bambini delle altre
sezioni come appartenenti a un corpo speciale, ai quali era toccato in sorte trovarsi sotto
il comando di un uomo a dir poco singolare.
Dopo il viavai di insegnanti che si erano alternati durante l’anno scolastico precedente alla guida della neonata sezione D, il direttore aveva mantenuto la promessa fatta
ai nostri preoccupati genitori: la nostra classe avrebbe finalmente potuto contare su di
un maestro stabile che ci avrebbe accompagnati per i tre anni rimanenti fino all’esame di
licenza elementare, così come doveva essere e così come era sempre accaduto in tutte le altre sezioni. Un nuovo acquisto, giovane ma molto capace: Gino Mariani da Rho, maestro
elementare.
Tu mi potrai confermare che quando si è piccoli l’età di un adulto appare serenamente indefinibile, nel senso che ne esiste una sola, standard, che si applica a tutti i grandi,
con la sola eccezione di quelli veramente anziani.
Questi sono riconoscibili per i capelli bianchi, gli arti e la voce scricchiolanti, la
pelle come quella delle tartarughe e l’abitudine di farti domande senza senso, le cui risposte, se le trovi, non arrivano mai a destinazione. Assomigliano ai vecchini o nonnini delle
fiabe e come tali si possono catalogare. Tutti gli altri sono grandi e basta.
Siccome adesso non solo non sono più piccolo, ma ho un’età in cui si comincia
inevitabilmente ad essere sempre più precisi nello stimare gli anni altrui, oggi posso azzardare che quella del maestro Mariani a quei tempi doveva essere compresa all’incirca
tra i trenta e i trentacinque anni, però non credo di riuscire a spiegarti quel particolare
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fenomeno di relatività per cui la cosa non mi sembra possibile.
Pur sapendo che la sua età doveva essere quella, la mia mente di ex scolaro si rifiuta
di accettare che fosse la stessa dei tanti ragazzi che oggi vivono ancora con i genitori. A
cinquant’anni ben suonati non è ragionevole pensare che cotanta autorità potesse essere
contenuta nel corpo di un pischello sulla trentina, uno di quelli che oggi mi capita di
mettere in soggezione senza neanche avere la minima intenzione di farlo.
È un meccanismo che potrai capire soltanto invecchiando, a partire dal momento
in cui avrai gli anni sufficienti per cominciare a fare le tue prime, assolutamente inutili,
comparazioni. Arriverà il giorno in cui anche tu, ripensando per caso alla tua maestra d’asilo, scoprirai d’aver superato da un pezzo la sua presunta età di oggi, senza aver smesso di
considerarti ancora una ragazza con almeno due o tre vite davanti a sé. L’unica cosa certa,
su cui potrai sempre contare, è che al presente la tua maestra sarà sempre più vecchia di te.
Quindi, per quanto la cosa non potrà mai essere del tutto accettabile, il maestro
Mariani era un uomo sulla trentina, non troppo alto e paffutello. Non era né bello né
brutto, ma faceva il fascinoso soprattutto in virtù di una voce abbastanza importante, profonda, impostata nel timbro e curata nella dizione, quasi del tutto ripulita da inflessioni
dialettali. Quello che più colpiva nel suo look era la pettinatura: capelli neri impregnati
di brillantina, quelli ai lati della testa perfettamente spalmati all’indietro fino a incontrarsi
sulla nuca, dove formavano una crestina. Quelli di sopra, invece, impegnati in un ciuffo
rotondo in perfetto stile greaser degli anni ‘50. A differenza di loro, però, il maestro Mariani non indossava jeans e giubbotto di pelle, ma una molto più consona mise giacca e
cravatta. Una nel senso più numerico della parola.
Era sempre vestito nello stesso modo: pantaloni neri, camicia bianca, cravatta nera
col nodo sottile e giacca a quadrettini bianchi e neri Principe di Galles. La camicia, sotto la
quale s’intravvedeva in trasparenza il profilo della canottiera, era rigorosamente a mezza
manica. Lo si poteva intuire prima ancora che l’estate lo rivelasse, dal momento che il maestro Mariani aveva l’abitudine di tirarsi su le maniche della giacca fin poco sotto i gomiti,
senza mai mostrare la minima traccia di un polsino. D’inverno, un cappotto grigio topo
e una sciarpa dello stesso colore completavano il tutto.
Ti posso giurare che in tre anni non lo vidi mai vestito diversamente. Era come
Paperino, o meglio ancora, come Cucciolo e Beppe, fedele a se stesso come solo l’icona di un
vero personaggio è capace di essere.
Finiti per sempre i soffici tempi della maestra-mamma, dell’educazione dei maschi
si facevano carico i maestri maschi. Per gli altri alunni della Pietro Moscati questo significava un maestro e basta: che si chiamasse Sartori, Caleffi, Arcidiacono o Lojodice poco
cambiava, ognuno di loro aveva il suo specifico, ma ognuno di loro era più o meno un
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maestro come ce lo si può aspettare. Per noi della sezione D il destino aveva invece riservato qualcosa di diverso. E nel giro di pochi mesi era un fatto risaputo.
«Tu c’hai il Mariani? Io no, per fortuna.»
Non è facile riuscire a sintetizzare in pochi tratti che cosa rendesse diverso il maestro Gino Mariani dai suoi colleghi, a parte l’insolita pettinatura. Per capire la differenza
tra lui e loro è più semplice esaminare la differenza tra i suoi alunni e quelli degli altri,
ovvero le diverse conseguenze delle diverse didattiche a carico del sistema nervoso delle
rispettive scolaresche.
Come ti stavo dicendo, una volta prese le misure dei loro maestri, gli altri bambini
potevano grossomodo imparare che cosa aspettarsi dagli stessi, nel bene e nel male. Qualcuno era temuto per la mole di compiti a casa che sistematicamente somministrava, ma
in compenso non aveva l’abitudine d’interrogare troppo spesso. Un altro era inflessibile
sulla condotta ma di manica larga quando votava un compito. C’era chi aveva la fissazione
dell’ordine e della pulizia e chi quella del rispondere a voce alta e chiara. Ma qualunque
fossero i loro tic, i loro difetti o le loro qualità, quelli erano, quelli restavano e con quelli
dovevi imparare a fare i conti, tutti i santi giorni esclusa la domenica. Con il maestro
Mariani questo non era possibile: con lui dovevi solo imparare a convivere con l’imprevedibile e ad adeguarti alla piega che il suo umore avrebbe fatto prendere agli eventi quel
giorno. Nel bene e nel male.
Il bene poteva avere molteplici facce. Ad esempio, poteva presentarsi sotto forma
di un improvviso bisogno di rivoluzionare l’arredamento della classe, spostando i banchi
fino ad ottenere una nuova disposizione di suo gradimento, quasi sempre molto poco
convenzionale.
Per qualche tempo li volle schierati a ferro di cavallo, come si usa nelle convention
o in certi pranzi ufficiali, senza preoccuparsi di chi, avendo il banco in una delle due
file laterali, finiva con l’essere costretto a seguire la lezione con la testa girata a destra o a
sinistra. Ovviamente noi obbedivamo eseguendo le manovre col massimo entusiasmo, e
i barriti emessi dalle gambe dei banchi spinti da una parte all’altra dell’aula si levavano
così potenti da far sbucare dalla porta la faccia allarmata del bidello. L’operazione non
soltanto era divertente in sé, ma comportava anche una benefica perdita di tempo. Prima
che il nuovo assetto di banchi, sedie, suppellettili e relativi proprietari fosse ultimato e che
ognuno di noi potesse osservare compiaciuto il mondo circostante da una nuova prospettiva, la mattina si era già meravigliosamente consumata.
Era in momenti come quelli, quando ti stavi abituando all’idea di un dolce scivolare del tempo restante verso la campanella, magari accompagnato da inoffensivi esercizi di
lettura, che l’altra faccia dell’imprevedibile poteva coglierti a guardia abbassata. Il maestro
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Mariani, che fino a un attimo prima aveva scherzato, pizzicottato qua e là e fatto volare
libri da un banco all’altro in mezzo a noi schiamazzanti, d’un tratto si faceva serio, tornava alla cattedra, apriva il sussidiario e con voce gelida annunciava un numero di pagina,
seguito dall’ancor più sinistro numero di un agghiacciante problema di aritmetica, di
quelli che vogliono sapere in quanto tempo si riempie una vasca da bagno grande così se
il rubinetto eroga cosà. Aritmetica? oggi? adesso?
Sì. Aritmetica, oggi e adesso. Il tempo che ci separa dal trillo della campanella smette di scivolare, si ferma per farsi guardare e darmi agio di capire che non mi basterà per
riuscire a risolvere il problema, ma sarà più che sufficiente per costringermi a consegnarlo
nella sua vergognosa incompletezza. A meno che l’imprevedibile non volga di nuovo al
bello, come quella volta in cui toccò a Tessitore leggere il quesito.
«Problema: una bòtte di vino contiene esattamente duecent...»
«Una che?» lo interrompe il maestro Mariani.
«Una bòtte di vino...»
«Una bótte di vino, non una bòtte. Ripeti.»
«Una...bòtte di vi...»
«Si dice bótte! bótte, perdio! non bòtte! ripeti!»
Come penso avrai capito, il povero Tessitore non era del nord Italia: quasi tutte le
sue “o”, a cominciare da quella presente nel suo cognome, si portavano appresso la denominazione d’origine siciliana. Evidentemente, quel giorno, la bella dizione del maestro
Mariani era particolarmente suscettibile, e per niente disposta a lasciarsi ferire dalle “ò” di
Tessitore, il quale cominciava a sudare freddo.
«Una...una...bòtte di vino...»
A questo punto il maestro si alza di scatto, lascia la cattedra e si avvicina minacciosamente a Tessitore, in piedi di fianco al suo banco con il sussidiario che gli vibra tra le
mani.
«Una bótteee! bótteee! Lo vuoi capire sì o no che si dice bótte?! dillo!» gli urla in faccia,
concludendo la frase con un pugno sul banco.
Adesso a Tessitore cominciano a sudare anche gli occhi. Adesso anche i più bastardi, che fino a quel momento avevano ridacchiato di gusto, si sono zittiti. Nel silenzio,
persino io che lo detesto e che regolarmente finisco col farci a spintoni perché mi chiama
cicciobòmba mi auguro che riesca a uscire dall’incubo con la “o” giusta. Forza, puoi farcela,
digli bene ‘sta botte e facciamola finita con questo strazio.
«U...una...b...bòtte...»
Non ce la fa proprio.
«Ma mi prendi in giro o sei scemo? eh?»
Ora il maestro Mariani è davvero imbufalito e passa alle maniere forti, agguantan58
do il braccio di Tessitore e cominciando a scuoterlo come se volesse fargli uscire tutte le
“o” sbagliate dal corpo.
«Queste, sono le bòtte! queste!» e aggiunge uno scappellotto sul coppino allo scuotimento «Queste sono le bòtte» - altro scappellotto - «e quella è la bótte! la vuoi capire la
differenza o no?»
Niente da fare. Nonostante la sua potenza educativa, tutto quello che il maestro
riesce a far uscire da Tessitore sono le lacrime e i singhiozzi di un bambino spaventato.
Pietosa come il gong per un pugile chiuso nell’angolo, suona finalmente la campanella. Il maestro Mariani molla la presa e Tessitore si affloscia sulla sua sedia. Grazie al suo
involontario sacrificio, non siamo riusciti nemmeno a scrivere la prima riga del problema,
che il maestro ordina stizzosamente di risolvere per l’indomani, un compito che va ad
aggiungersi ai tanti già in lista.
Tu penserai, a buon diritto, che subito dopo un simile episodio il maestro Mariani
avrebbe tenuto una faccia scura e con quella ci avrebbe manovrati fino all’uscita di scuola.
Macché. Era molto più facile che, una volta pronti e intruppati, tornato improvvisamente
di buon umore, chiamasse Tessitore per chiedergli:
«Cosa si dice?»
E il poveretto: «Grazie.»
«Dammi un bacio.»
E Tessitore gli baciava la guancia ispida.
Dopodiché, chiunque avesse osservato i due percorrere teneramente abbracciati il
tragitto dall’aula al portone della scuola avrebbe certamente pensato che Tessitore fosse
l’alunno sfacciatamente prediletto dal maestro Mariani.
Quella del ringraziamento dopo la punizione era una delle tante manie
a cui, di punto in bianco, ci eravamo trovati a dover sottostare. Una novità che era arrivata
insieme ad altre, come ad esempio il dover rispondere comandi quando si veniva interpellati.
Di quello stesso pacchetto di disposizioni comportamentali faceva parte anche la
decisione di darci del lei, con tanto di appellativo Signor davanti al nome. Anche se questo
non servirà a smorzare la tua incredulità, la ricostruzione sommaria di una scena tipo ti
potrà essere d’aiuto per comprendere come si svolgevano le cose.
Immagina che il sottoscritto venga sorpreso a parlare con il compagno di banco, in
poche parole a disturbare. Un’ipotesi peraltro ben poco azzardata.
«Signor Paolo!»
«Comandi», dico io alzandomi in piedi e mettendomi sull’attenti.
«Mi porti il diario.»
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E qui viene il bello, perché le sciagurate disposizioni in vigore in quel periodo non
si limitavano al cosa dire, ma anche al come fare. Nel caso specifico, non era sufficiente prendere in mano il diario e consegnarlo al maestro come naturalmente chiunque farebbe, ma
occorreva portarlo già aperto sulla pagina che avrebbe ospitato la nota, tenuto sulle mani,
le braccia tese davanti a sé e, mi raccomando, camminando sulle punte dei piedi. Se già
questo ti sembra una follia, aspetta che ti riveli un dettaglio di non poco conto. Il diario
non andava portato sui palmi delle mani, bensì sui dorsi.
Puoi immaginare come fosse facile posizionarlo in quel modo e quante volte cadesse strada facendo, anche a causa di quell’andatura molleggiata che risultava dal camminare
in punta di piedi. Una volta depositato il diario sulla cattedra, si attendeva che il maestro
Mariani scrivesse la nota, che raramente occupava meno di un’intera pagina. Con la sua
biro rossa e la sua grafia a elettrocardiogramma, componeva un verboso e ricercato verbale
dell’accaduto, illustrando infine ai genitori gli atteggiamenti scorretti che lo avevano generato.
«Cosa si dice?»
Maledetta carogna, io stavo soltanto chiedendo in prestito il temperino e adesso tu m’hai
rovinato la giornata.
«Grazie, signor maestro.»
«Dammi un bacio.»
La cosa poteva finire con la sola estorsione del bacio sulle sue guance a grattugia che
sapevano di sigaretta oppure proseguire, una volta costretti a sedersi sulle sue gambe, con
una violenta somministrazione di pizzicotti solleticanti dalla quale si tentava vanamente
di sottrarsi. Gli piaceva molto sdrammatizzare, dopo averti punito.
Per questa sua volubilità, chi si era beccato una nota sul diario spesso provava a
farsela condonare all’uscita di scuola. Perché il tentativo potesse andare a buon fine era
necessario che nessun parente ti venisse a prendere.
Mi rendo conto che potrà sembrarti molto strano, ma in quei lontani tempi un
bambino di terza elementare, dopo un paio d’anni di tirocinio per mano alla mamma
o a chi per essa, generalmente imparava ad andare a scuola (e anche a tornare) da solo
senza finire sotto una macchina o tra le grinfie di chissà chi. Persino in città. Quelli che
venivano accompagnati in macchina erano un’esigua minoranza: magari qualcuno con il
papà medico sempre in giro (pensa un po’, allora venivano loro a casa tua, se stavi male) o
con la mamma così moderna, benestante e patentata da possedere una Cinquecento bianca
tutta sua. Problemi di parcheggio in seconda fila non ce n’erano ancora: la prima bastava
e avanzava.
L’operazione condono scattava una volta usciti in strada. Occorreva aspettare che
il maestro Mariani non avesse più nessuno intorno a salutarlo o a chiedergli qualcosa
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riguardo al figlio e s’incamminasse verso la fermata dell’autobus diretto a Rho, a poche
centinaia di metri di distanza dalla scuola. Lo si affiancava col dovuto rispetto, sfoggiando
l’espressione più contrita che si era in grado di assumere.
«Signor maestro...»
«E tu cosa ci fai, qui?»
Lo sapeva benissimo, e già godeva.
«Per favore...mi toglie la nota? non lo faccio più...»
Se tutto andava bene, dopo una breve ramanzina riassuntiva, arrivava la frase fatidi
ca: «Sù, dammi il diario.»
E il diario gli veniva dato immediatamente insieme alla biro, con la stessa sollecita apprensione con cui un fan chiede l’autografo al suo idolo. E con la stessa soddisfatta magnanimità dell’idolo che te lo concede, il maestro Mariani tracciava un’enorme X sull’enorme
nota.
«Grazie, signor maestro.»
«Dammi un bacio.»
Anche due, adesso. Bastardo.
La vita tornava leggera e la strada verso casa meritevole di una corsetta, magari strusciando di tanto in tanto la mano sulla fiancata delle macchine parcheggiate. L’appetito si
svegliava di colpo e ti chiedevi cosa poteva aver cucinato di buono la mamma.
Un giorno o l’altro avresti comunque dovuto rendere conto a casa di quella pagina
zeppa di parole rosse tutte da decifrare, con un’enorme X nel mezzo, ma era una cosa ben
diversa dal dover farla firmare.
Per fortuna, anche la mania del lei, del comandi e del portare il diario sul dorso delle
mani a un certo punto passò senza un preciso motivo, così com’era arrivata. Passò come
tante altre novità che si sarebbero dette imperiture, data l’urgenza con cui ci venivano
improvvisamente imposte, ma che nel giro di poco finivano nel dimenticatoio. Ci fu il periodo delle tovagliette plastificate finto legno sopra i banchi, che tutte le mamme dovettero
acquistare, identiche per fattura e misura, nel negozio Plastica Spugna e Gommapiuma in via
Canonica. Dopo pochi mesi, il maestro Mariani decise che andavano sostituite con una
plastica più leggera di colore azzurro, e di nuovo tutte le mamme dovettero mobilitarsi per
assecondarlo.
Sempre in tema di accessori d’arredamento, sparite le tovagliette, venne il turno dei
vasetti di fiori in plastica con cui vezzosamente tappare i buchi nei banchi che una volta
ospitavano i calamai. Poi i banchi tornarono ad essere quelli che erano sempre stati, mentre una fulminea ventata di igienismo colpiva il maestro e ovviamente noi, obbligati da
un giorno all’altro a dotarci di un sacchetto contenente dentifricio e spazzolino con cui
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lavarci i denti dopo aver fatto merenda nell’intervallo.
Dopo quella brevissima pausa, l’unico momento in tutta la mattina in cui potevamo finalmente muovere un po’ le membra o mangiare qualcosa (non c’era tempo per
ambedue le attività, così si finiva per mangiare muovendosi), si usciva dall’aula, ci si
inquadrava in fila per due dai più bassi ai più alti e si marciava al comando del maestro
fino a raggiungere l’estremità del corridoio, dove c’erano i bagni. Una volta arrivati e parcheggiati, vi si entrava a due a due, una volta semplicemente per fare pipì nei buchi delle
turche dietro le porte verdoline, ma dopo l’entrata in vigore del nuovo obbligo anche per
rimuovere dai nostri denti maleducati e per niente fluorati i residui della merenda.
A questo proposito, sappi che quando dico merenda non intendo merendina, per
il semplice motivo che allora le merendine non erano ancora una categoria merceologica
conclamata. Certo, di cose prodotte e confezionate industrialmente ce n’erano eccome:
il Buondì, il Ciocorì, l’Urrà, i pacchetti di creck (nessuno diceva crackers) e quelle terribili
brioches insacchettate che parevano fatte di spugna, ma la gran parte degli spuntini che
finivano nelle nostre cartelle e nei nostri spazi interdentali, salvo le banane provenivano
dal repertorio classico delle panetterie. Poteva essere una focaccia rotonda completamente
priva di gusto ma capace di ungerti tutti i quaderni, oppure una cremonese, strano panino
irto di punte morbido e dolce, o anche una specie di Camillino non gelato, composto da
due biscottoni con uno spesso ripieno cioccolatoso dal gusto perverso nel mezzo. Qualunque fosse l’articolo, la confezione era la stessa: un foglio di carta velina marroncina
ripiegata in due e attorcigliata agli angoli dalla rapida rotazione impressa dalle mani della
panettiera.
Ma anche il periodo dell’igiene dentale finì come tutto il resto, perché al maestro
Mariani piaceva cambiare, anche se era vestito e pettinato sempre allo stesso modo. Su di
sé, l’unica cosa in mutazione era la barba, che, anticipando di molto la moda maschile
corrente, talvolta disegnava pizzo e baffi, poi si riduceva al solo pizzetto, infine scompariva del tutto a favore di un bel paio di basette. Come vedi, con il maestro Mariani le cose
certe erano davvero poche: le sigarette, Nazionali Esportazione senza filtro (quelle col pacchetto verde con la caravella nera, le preferite di mio padre), che fumava come un turco in
classe senza che nessuno avesse niente da dire, e la sua abitudine di sputare generosamente
catarro dalla finestra che dava sul cortile, probabile conseguenza delle suddette Nazionali.
Anche i mozziconi volavano giù in cortile, ma non sempre per mano sua. Spesso e volentieri, dato l’ultimo gustoso tiro a quel poco che rimaneva della sigaretta tenuta tra l’indice
e il pollice, passava il mozzicone al sorvegliato speciale di turno (che scontava la sua pena
con il banco attaccato al fianco della cattedra) perché gli risparmiasse d’alzarsi, aprire la
finestra e buttare la sigaretta.
Una volta successe che il pluricondannato Vinciguerra, abituale inquilino di quel
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banco, approfittando della distrazione del maestro, riuscì a fare un tiro dal mozzicone un
attimo prima di gettarlo, guadagnandosi un terribile attacco di tosse ma anche la nostra
piena ammirazione.
Queste erano le sole cose immutabili, insieme alla certezza che mai saremmo andati
giù in cortile a giocare, e men che meno a fare un po’ di sport nella grande palestra attrezzata al centro del cortile stesso. In cinque anni di scuola vi entrai soltanto un paio di volte:
per la proiezione straordinaria di un film e per il saggio di prima elementare, in cui, con
la maglietta a righe bianche e rosse, il fazzoletto in testa, la benda sull’occhio e i baffi fatti
con il turacciolo bruciato, interpretai un generico pirata di fila, cantando con gli altri
Tre corsari, tre corsari, se ne van pei sette mari, i corsari sono tre e i pirati trentatrè…
Una semplice canzone per bambini, niente a che vedere con quella che un entusiasta maestro Mariani ci fece imparare e cantare in coro per buona parte di una mattina
d’inverno. S’intitolava Nessuno mi può giudicare:
Il Festival di Sanremo 1966 si era appena concluso.
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Dieci
Anche il maestro Mariani aveva una mamma
Anche il maestro Mariani aveva una mamma. Che un giorno ebbe la sciagurata
idea di morire. Ecco il motivo per cui da un paio di giorni la classe si stava concedendo
una rilassante parentesi priva di sorprese, sotto il comando di una morbida e prevedibile
supplente, perfettamente cosciente della sua provvisorietà.
Assomigliava a una delle quattro tirocinanti che, mesi prima, si erano accampate
nella nostra aula per qualche giorno, probabilmente allo scopo di imparare sul campo
come si gestisce una classe maschile di quasi trenta elementi. Per l’occasione, il maestro
Mariani non solo aveva evitato di dare dimostrazioni pratiche dell’utilità della violenza
per risolvere le problematiche didattico-disciplinari più complesse, ma si era anche dimostrato insolitamente accomodante nei nostri confronti. Evidentemente in quei giorni il
suo principale obiettivo era fare colpo sulle ragazze che squittivano alle sue battute, non
si sa se per cortesia o se perché le trovassero davvero divertenti. Comunque fosse, a noi
l’andazzo andava benissimo, perché fare il piacione col ciuffo ed essere al contempo severo
non è per niente facile, anche per Gino Mariani.
C’era un’altra occasione, di tanto in tanto, in cui si poteva osservare il nostro maestro esibire tutta la sua arte fascinatoria nei confronti dell’altro sesso: la lezione di canto.
Per noi era un avvenimento. Uscito in corridoio, anziché procedere marciando come a
ogni intervallo in direzione dei bagni, il plotone girava a sinistra, diretto all’estremità opposta dell’edificio. Era un viaggio interminabile in territorio straniero, da godersi metro dopo metro.
Si superavano una a una le aule delle altre sezioni maschili, si oltrepassava la scala dalla
quale salivano i tristi effluvi di minestra e frutta cotta della refezione fino a raggiungere e
superare il confine con il mondo sconosciuto delle femmine. L’agitazione tra le fila cresce64
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va di pari passo con l’inoltrarsi nel loro pianeta, e raggiungeva l’apice all’ingresso nell’aula
di canto, dove prendevamo posto nella metà che ci spettava, accanto alla classe femminile
con cui avremmo condiviso la lezione.
L’aula di canto era sotto la giurisdizione dell’annessa maestra, una specie di
sorridente Maga Magò dai capelli unti che amava pestare sulla tastiera del pianoforte come Jerry Lee Lewis mentre cantava con voce stridula mettendo in mostra uno
scintillante incisivo d’oro. Durante quell’ora comandava lei: il maestro Mariani e
la maestra delle bambine si limitavano a sporadici interventi di ordine pubblico tra
le fila delle rispettive greggi. Sedati i bollenti spiriti, il nostro non perdeva occasione
per fare il galante con la collega parlottando a bassa voce. Noi, invece, totalmente digiuni in fatto di relazioni con l’altro sesso e in balìa dei nostri primi, rudimentali attacchi di euforia ormonale, reagivamo all’insolito contatto nei modi più disparati.
I timidi provavano a ignorare le aliene, per poi scoppiare all’improvviso e senza
alcun motivo a ridere nervosamente, completamente vittime dell’insostenibile emozione.
I veri uomini facevano a gara per mostrare tutto il loro disgusto nei confronti di quegli
esseri di razza inferiore, con lazzi e ululati di scherno direttamente proporzionali per
sguaiataggine alla voglia nascosta, contraria e inconfessabile, di averci tanto a che fare.
I romantici, come tuo padre, azzardavano invece occhiate imbarazzate a cercare
lo sguardo di quella che ti muoveva dentro qualcosa di strano. Le occhiate si frantumavano puntualmente non appena riuscivano a incrociarlo, anche perché lo sguardo della prescelta viaggiava sempre accompagnato da quello dell’amica più sveglia e
brutta, pronta a mandare tutto in vacca con i suoi risolini e pissi pissi nell’orecchio.
Noi romantici potevamo persino arrivare a concepire la temeraria idea di
fare arrivare tra le mani della bambina dei nostri sogni un bigliettino sul quale non avevamo la più pallida idea di che cosa scrivere. Progetto su cui si poteva fantasticare per giorni, in attesa della successiva lezione di canto. Per quanto mi riguarda, non andai mai oltre l’idea, bloccato dal timore che il biglietto
finisse nelle mani sbagliate, intercettato da un compagno o, molto peggio, dal maestro.
Ma a qualunque categoria uno appartenesse, la rigida apartheid che ci veniva imposta non faceva altro, come succede per tutte le cose proibite, che elevare alla
massima potenza l’attrazione per quelle creature così diverse. Con i nostri fiocchi azzurri sempre storti o disfatti come cravatte sui grembiuli neri che puzzavano
di gesso, inchiostro e focaccia, guardavamo le aliene come lo yin guarda lo yang, inebriati da quegli odori così diversi dai nostri che emanavano i loro candidi grembiuli
col fiocco rosa. Le trecce, i fermagli, i braccialettini e gli orecchini erano un tutt’uno
con la strana e irresistibile magia sprigionata da quegli esseri. Uno più di ogni altro,
di cui tutti, senza eccezioni, eravamo segretamente innamorati: la Barbara Cremonesi.
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Capelli biondi lunghi e lisci, occhi azzurri, nasino a patata sopra a un perenne
sorrisetto di bianchi denti allineati ai lati dei due incisivi centrali da scoiattolo, sembrava
fosse stata progettata sulla base dei nostri più solidi canoni in fatto di bellezza e desiderabilità. La Barbara Cremonesi a me piaceva farla assomigliare ad Hayley Mills, la ragazzina
di cui mi ero perdutamente innamorato dopo averla vista al cinema ne “I figli del Capitano
Grant”.
Per poter conoscere l’una o l’altra avrei dato o fatto qualunque cosa. Teoricamente,
almeno da un punto di vista logistico, sarebbe stato più semplice con la Cremonesi piuttosto che con la Mills, ma solo teoricamente. Tanto per cominciare, una volta terminata la
lezione di canto, le mie possibilità di incontrarla erano pressoché nulle: l’adorabile creatura non si faceva mai vedere nei miei ristretti paraggi, e nessuno dei miei amici la conosceva
per davvero. Rimaneva soltanto il momento dell’uscita dalla scuola, e più di una volta
corsi come un pazzo al portone delle femmine per anticipare lo sbocco della sua classe. Le
poche volte in cui mi capitò di riuscirci fu soltanto per vederla salire sulla macchina del
padre. Un ingegnere, si diceva.
Ero solo uno dei tanti che la desideravano e certamente non dei più determinati.
Come invece i due che un giorno si presero a botte per lei con molta convinzione fuori dalla scuola. Scoppiò una specie di scandalo, che portò davanti al direttore non soltanto i due
contendenti, ma anche l’oggetto del contendere, ovvero lei, l’unica femmina della scuola
già in grado di provocare risse tra i maschi. Nessuno sapeva esattamente cosa il direttore
avesse detto ai tre e di quali terribili sanzioni li avesse minacciati, ma girava voce che i due
rivali fossero scoppiati in lacrime mentre lei, la Barbara Cremonesi, no. Lei probabilmente si era limitata a fissarlo con il suo solito sorrisetto, capace di andare a stuzzicare anche
nel più retto degli uomini quegli istinti che un direttore di scuola elementare non può
permettersi di immaginare nemmeno come esercizio puramente accademico.
Ma torniamo al momento in cui la mamma del maestro Mariani decise di lasciare
la vita terrena, sorprendendoci più che per la gravità dell’evento per la scoperta della sua
insospettata esistenza. La donna che nessuno di noi aveva mai visto né supposto non
avrebbe mai potuto immaginare quanto la sua dipartita avrebbe condizionato le nostre
giornate di scolari di lì a venire. Così come noi che fummo portati dalle nostre caritatevoli
mamme al suo funerale mai avremmo potuto sospettare che la faccenda non si sarebbe
esaurita in quel pomeriggio piovigginoso, inaspettatamente rivelatosi divertente.
C’era stato il viaggio fino a Rho, pigiati come acciughe eccitate sui sedili di dietro
della Seicento grigio topo di una mamma patentata troppo impegnata nella guida per badare a noi. Poi il corteo dalla casa alla chiesa, dopo che un inedito Mariani con gli occhi
gonfi dietro gli occhiali scuri ci aveva abbracciati e baciati con molta meno violenza del
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solito, per una volta ringraziandoci lui.
Camminare lentamente in mezzo alla strada senza che le macchine potessero farti
niente era una bella, strana sensazione che ti faceva sentire importante. Mentre calpestavi
zone d’asfalto sulle quali non avresti mai più potuto rimettere piede potevi guardarti intorno e vedere i vecchi fermi sul marciapiede farsi il segno della croce al tuo passaggio. Potevi in tutta tranquillità cercare di decifrare la dedica scritta in oro sul nastro della corona
appesa sul furgone mortuario, che una piega in un punto chiave rendeva incomprensibile,
oppure provare a immaginare la faccia della donna che se ne stava sdraiata nella cassa
lustra al di là del vetro. Potevi accorgerti di riuscire a mantenere un’espressione adeguata
alla circostanza senza sentirti minimamente triste. Potevi infine incrociare al momento
giusto lo sguardo contrito del compagno accanto a te per proporgli una smorfia capace
di innescare un’irrefrenabile attacco di ridarola che si cercava disperatamente di reprimere
nella pancia, ma risaliva sottoforma di incontenibili singulti pericolosamente contagiosi.
Come sempre in queste occasioni, la vita usa chiunque trovi disponibile a fare pernacchie
alla morte per andare a punto nell’eterna partita. Quel giorno trovò noi della IV D e sono
sicuro che rimase molto soddisfatta. Prova ne è che la morte pensò bene di farcela pagare.
Tutti i giorni, ma proprio tutti senza possibilità di scampo, l’attività in classe cominciava con le preghiere, che, ti ricordo, sono quelle filastrocche con cui chi crede in
un dio, oppure è costretto a fingere di crederci, prova a chiedergli favori di vario genere.
Finché la mamma del maestro Mariani era in vita, suo figlio aveva sempre considerato sufficiente iniziare la giornata recitando e facendoci recitare un Padre Nostro e un’Ave Maria,
occasionalmente accompagnati dal Credo, un’interminabile preghiera che assomiglia di
più a un verbale che a un’orazione.
Si piazzava davanti alla cattedra, al disopra della quale il crocifisso dominava il
panorama in compagnia di un ramoscello d’ulivo rinsecchito, e come un direttore d’orchestra dava l’attacco con la sua voce corposa a noi schierati in piedi dietro il banco, le
mani giunte di piatto come le tengono i pastorelli del presepe. Lui, invece, incrociava le
dita grassocce abbassando la testa.
Avemariapienadigrazia...
e noi ...ilsignorècontetuseibenedettatraledonnebenedettèilfruttodeltuoseno gesù... trascinavamo meccanicamente la nenia fino al suo amen senza farci alcuna domanda sul significato
di ciò che avevamo appena detto.
Padrenostro...
...cheseineicielisiasantificatoiltuonomevengaltuoregnosiafattalatuavolontà...
...nelloradellanostramorteamen.
Poi, il segno della croce chiudeva come un punto il discorso religioso, il maestro
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Mariani abbandonava la postura sacerdotale e si sedeva dietro la cattedra, noi rumorosamente dietro i banchi e la mattina poteva cominciare. Così era sempre andata, finché il
lutto non s’attaccò a lui come il bottone nero all’asola della sua giacca a quadretti.
Dopo la morte di sua madre, il tempo dedicato alle preghiere si moltiplicò, e il
rito mattutino cambiò completamente la sua procedura. Soltanto l’inizio rimaneva più o
meno invariato: il maestro Mariani lanciava le prime orazioni dalla sua solita posizione
di fronte a noi, ma poi, nel tempo di un’Ave Maria, si portava, camminando lentamente,
verso la parete di fondo dell’aula e lì rimaneva, alle nostre spalle e fuori dalla nostra vista.
Interminabili pause di silenzio ci lasciavano in attesa tra una preghiera e l’altra.
Esaurito faticosamente il repertorio classico, di nuovo il silenzio. Ancora più prolungato.
Troppo prolungato, perché rimanessimo tutti con lo sguardo rivolto in avanti senza cedere
alla tentazione di girarci per guardare cosa stesse facendo. Pian piano giravamo la testa
fino a inquadrarlo con la coda dell’occhio intento a stropicciarsi la faccia e gli occhi con
le mani giunte, come se stesse lavandosela. La prima volta pensammo che piangesse silenziosamente, ma nessuno di noi vide mai una lacrima. Si tormentava il viso, platealmente
concentrato in dolorosi pensieri. Bastarono pochi giorni perché girarci a guardarlo che si
lava la faccia per poi scambiarci occhiate divertite quanto rischiose diventasse parte integrante del rito.
Una volta uscito dalla trance di quel tanto necessario per ricordarsi di noi e di
dov’era, ecco la seconda parte del programma. Quella delle dediche.
«Per i nostri cari defunti: l’eterno riposo...»
...donalorosignoresplendadessilaluceperpetuariposinoinpaceamen.
«Per mia madre: l’eterno riposo...»
...donaleiosignoresplendadessalaluceperpetuariposinpaceamen.
I morti generici e la sua mamma erano fissi e immancabili, dopodiché ogni defunto
fresco era il benvenuto, in quanto permetteva di recitare un altro Requiem Aeternam in
versione tradotta.
«Per il nonno di Antonio: l’eterno riposo...»
...donaluiosignoresplendadessolaluceperpetuariposinpaceamen e buttavamo
l’occhio verso il nostro compagno, sorpresi e del tutto ignari del fatto che avesse perso un
nonno. II maestro Mariani era diventato una fonte d’informazione mortuaria estremamente aggiornata e non si lasciava scappare un decesso.
Questo solo per quanto riguarda le preghiere. Perché il suo lutto s’insinuava ovunque trovasse uno spazio favorevole, quello della poesia, ad esempio. Ci fece imparare a
memoria l’interminabile “Regalatemi un ricordo”, l’unica cosa triste scritta da Carlo Manzoni, un autore solitamente umoristico che aveva avuto la sfortuna di perdere la madre nel
momento in cui nasceva. Per favore, parlatemi di vostra madre... Bella, bellissima, niente
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da dire, ma semplicemente devastante.
...parlatemi soltanto delle cose più semplici, quelle che fa ogni madre, come rimboccarvi le
lenzuola, per esempio, e darvi l’ultimo bacio della sera...
Alla fatica di doverla imparare tutta a memoria si univa quella di riuscire a dirla senza farsi
stringere la strozza dal magone.
E questo era niente, in confronto a un’altra poesia di cui ho voluto dimenticare
l’autore e il titolo, che allo strazio del contenuto e alla lunghezza insostenibile per la nostra
svagata memoria aggiungeva un’ulteriore, sadica complicazione. Era scritta in dialetto milanese. E in dialetto milanese andava declamata, tanto per semplificarci le cose, soprattutto
a Tessitore e ai compagni privi di ü e eu nel patrimonio genetico. Mio malgrado, alcuni
frammenti sono tuttora depositati in qualche scaffale della mia memoria. L’attacco, ad
esempio. La poesia cominciava con Oh mama, sont chi in de ti... e il chi altro non era che il
cimitero, dove un uomo di setantun anni tirava le somme della sua triste esistenza parlandone con la madre ivi seppellita. Puoi immaginare lo spasso.
Raccontava dei suoi fradej che hanno avuto successo nella vita mentre lui aveva il co
pieno di sogni, e di altre gioiose riflessioni.
...Oh mamma, la mia mamma, ‘me l’è dura sentì la vida andàa vers la sua fin... non sono
sicuro che fosse la parte finale, ma sicuramente era quella che mi finiva. Che fosse o meno
l’effetto a cui mirava il maestro Mariani, quella frase riusciva a iniettare dentro di me una
dose di tristezza così potente da farmi domandare perché mai qualcuno dovesse arrivare a
scrivere delle cose così insopportabilmente dolorose.
Anche il repertorio musicale subì l’influsso nefasto dell’amor filiale, e sempre più
spesso ci trovammo a cantare Mamma, solo per te la mia canzo...nevvóla...mamma, sarai con
me tu non sa (stecca) rai...piussóla!, un agghiacciante inno alla retorica del figlio maschio
italiano, in grado di far lacrimare il più sanguinario dei mafiosi ma del tutto incomprensibile per noi che, anche solo per ragioni anagrafiche, non ci sognavamo neanche lontanamente di lasciare la nostra mamma e, di conseguenza, di tornare da lei per stringere al
cuor la testa sua bianca mentre la sua mano stanca cerca i nostri riccioli d’or. Ciò nonostante,
si finiva comunque per sentirsi in colpa nei suoi confronti, come se davvero l’avessimo
lasciata per viver lontano come il protagonista della canzone.
Ma il funereo Mariani dei Requiem Aeternam e delle lavate di faccia, delle poesie e
delle canzoni strappalacrime riusciva comunque a convivere con quello dell’idea improvvisa che continuava a sorprenderci con le sue imprevedibili trovate. Talvolta micidiali,
come la pretesa di farci prendere appunti delle sue lezioni su un apposito quadernetto,
come se fossimo dei liceali, parlando a un ritmo assolutamente insostenibile per la velocità del nostro scrivere. Nell’infausto periodo degli appunti, durante il pomeriggio si
era spesso costretti a ricorrere all’uso del telefono (che a quei tempi non si utilizzava con
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la stessa disinvoltura che puoi vedere oggi, soprattutto se eri un bambino) per disperate
consultazioni che coinvolgevano anche le mamme, allo scopo di confrontare, raccogliere
e assemblare con una minima parvenza di senso quei miseri brandelli di discorso, pieni di
buchi e di errori, che al mattino eravamo faticosamente riusciti a strappare all’eloquenza
del maestro. Pena una nota chilometrica in biro rossa sull’apposito quadernetto al primo
controllo.
Momenti particolarmente drammatici si vissero dopo una lezione esageratamente
al di là della nostra portata a cominciare dall’argomento: il pessimismo storico del Leopardi.
Quella volta le note rosse piovvero abbondanti persino sui quaderni dei secchioni.
A parziale risarcimento, un bel giorno ci capitò tra capo e collo una novità addirittura divertente: il giornalino di classe. Che in realtà erano due, e lì stava il bello della
faccenda. Il maestro Mariani divise la classe in due redazioni separate che avrebbero dato
vita a due settimanali concorrenti, da sottoporre ogni sabato mattina al suo pubblico giudizio.
Con mia grande gioia, non mi trovai nella stessa redazione di Steffenoni, il secchione ufficiale della classe, che avrebbe inevitabilmente influito sulla linea editoriale del
giornale con il peso della sua noiosa saccenza. Non a caso, la sua testata si diede un nome
ammuffito come L’Eco Della Classe, mentre la nostra fu battezzata Sprint!, modestamente
su idea del sottoscritto, che in quel periodo amava immergersi nei fumetti di Michel Vaillant, pilota di auto.
La concorrenza che si scatenò tra le due redazioni fu feroce come quella tra grandi
quotidiani americani: il conservatore L’Eco della Classe contro il liberal Sprint!. Non era
una guerra a colpi di scoop, ma di piccole ricerche, componimenti, disegni, giochi, cartine
geografiche, fotografie, figurine, illustrazioni ritagliate, il tutto assemblato a comporre un
malloppo ondulato e appiccicoso di fogli protocollo, tenuti insieme da uno spago colorato
al centro. Grazie a Steffenoni e alla sua cricca, L’Eco della Classe aveva il suo punto di forza
nella pubblicazione di puntigliose secchionerie parascolastiche, mentre Sprint! era imbattibile nei disegni, nella grafica e nei contenuti divertenti. Ognuno combatteva con le armi
di cui disponeva: io ero il migliore in disegno, e quello che veniva dopo di me era nella
mia stessa redazione.
Fare il giornalino non era un compito, perché farlo era bello. Potevo spenderci un
pomeriggio intero senza esservi costretto, provando per la prima volta in vita mia quello
che doveva provare Steffenoni davanti a un bel pacco di compiti, soprattutto di aritmetica.
Il sabato, come ti ho detto, era il giorno della presentazione. Le redazioni, in evidente fibrillazione, consegnavano l’unica copia del loro giornale tra le mani dell’unico sommo giudice, che l’avrebbe analizzata e commentata pagina dopo pagina, confrontandola
con la rivale.
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Il maestro Mariani assegnava punti parziali ai vari contenuti, creando una suspence
insostenibile nell’attesa del verdetto finale, quello che avrebbe decretato la vittoria dell’uno
o dell’altro per quella settimana. Le polemiche non mancavano, e spesso da ambo le parti
volavano accuse pesanti, come ad esempio quella del ricalco dei disegni, un odioso reato severamente proibito dal regolamento. Un’accusa che toccò anche a me subire la volta in cui
Sprint! si presentò con una fantastica copertina raffigurante un coloratissimo Fred Flintstone
a tutta pagina, destinato a far fare ai rivali la solita figuraccia.
Il punto della copertina era sempre nostro, anche perché quelle dell’Eco erano divertenti
come un calendario dei Carabinieri.
Quel Fred Flintstone, col suo bel Yabbadabbadù che gli usciva dalla bocca, mi era
venuto proprio bene. Troppo, per non suscitare l’invidia astiosa di quelli dell’Eco, che
subito mi accusarono di averlo ricalcato. Era venuto così bene che anche il maestro Mariani, dubbioso, decise per una prova pubblica: avrei dovuto disegnarne un altro uguale alla
lavagna, davanti a tutti. E così feci, ricordandomi il sistema che avevo trovato dopo tante
prove a casa: prima i capelli, poi il nasone, il segno della barba e via così, fino al bordo a
zig zag della pelliccia. Lo stridore del gesso venne coperto dalle ovazioni della mia redazione: l’opera era completa, la giustizia fatta e la vocetta fessa di Steffenoni finalmente spenta.
Vincemmo anche quel sabato.
Ma perché la scuola non poteva essere sempre così?
L’unico divertimento certo in quegli anni arrivava una domenica ogni due, il solo
giorno in cui la fatica d’alzarmi presto veniva ripagata con gli interessi. Erano le domeniche dell’uscita con i lupetti.
No, Cecilia, non si trattava di cuccioli di lupo con cui giocare: i lupetti eravamo
noi, un gruppo di bambini ancora più numeroso di una classe, vestiti tutti uguali con
un maglione e un cappellino verdi e un fazzoletto colorato al collo, i fratelli minori degli
scout.
Insieme, lasciavamo l’aria pesante di Milano per i boschi e le brughiere, giocavamo
giochi che da soli non avremmo mai potuto giocare e imparavamo un sacco di cose che a
scuola nessuno ci insegnava. Naturalmente sotto la guida di Akela, il nostro capobranco.
Io avrei voluto averlo come fratello maggiore, nel caso fosse stato impossibile averlo come
padre. Akela, grande, grosso, sempre allegro e sorridente in mezzo a un paio di orecchie
fuori misura, era il mio mito, che vuol dire molto di più del mitico che tu senti dare oggi
a qualsiasi cosa.
Alla sera di quelle domeniche tornavo a casa stanco ma felice, proprio come si chiudevano i racconti delle gite nei temi, e non era una frase fatta. Graffiato dai rovi, sporco
di erba e di terra, con la divisa che puzzava di fumo di legna e di sudore, ero pronto per il
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bagno caldo, la cena e il letto, ma mai per l’idea di ricominciare già dal giorno dopo una
nuova settimana di scuola. Stavo imparando che è la consapevolezza del lunedì a infliggerti l’atrocità della domenica finita.
Non ero l’unico lupetto, nella mia classe. Lo erano anche Daniele, il mio migliore
amico, e il già citato Steffenoni. Che quella secchia appartenesse come me al branco non mi
dispiaceva affatto, perché lì era tutt’un altro mondo, in cui le sue doti scolastiche non servivano granché, così lui, con i suoi occhiali da talpa, il fisico mingherlino e scoordinato,
e con l’antipatia congenita da primo della classe, ne usciva meravigliosamente ridimensionato.
Quindi, soprattutto i lunedì mattina seguenti alle uscite, era inevitabile che tra noi
tre della classe si parlasse di grandi giochi, di bandar-log e di jau, come adulti che commentano in ufficio le partite di calcio del giorno prima. E, ovviamente, di quanto fosse grande,
bravo e simpatico il nostro Akela.
Il maestro Mariani guardava a questa nostra appartenenza e agli entusiasmi che ne
derivavano con finta bonarietà, ma non perdeva occasione per prenderci in giro pubblicamente, per il facile divertimento di tutta la classe. Tanto per cominciare, non aveva ben digerito il fatto che noi conoscessimo a menadito Il libro della Giungla prima che lui cominciasse a leggerlo in classe, per di più apparteneva a quella vasta schiera di persone che dello scoutismo hanno una sola idea: gente un
po’ idiota con i calzoni corti che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada, magari contro
la loro volontà, come succedeva sempre nelle vignette.
Lui avrebbe senz’altro preferito che la domenica noi si andasse all’oratorio, e ce lo
faceva capire senza troppi giri di parole. Tanto che una volta decisi di provare.
Scoprii che il programma consisteva nell’assistere alla proiezione di un film devastato dai graffi (Marcellino Pane e Vino, quel giorno) divorando quantità industriali di stringhe, rotelle di liquirizia e altri articoli simili comprati a modico prezzo a un banchetto
gestito da velenose beghine.
La visione del film era obbligatoriamente preceduta da un Rosario (un’interminabile
compilation di preghiere ripetute in loop secondo un preciso schema) e seguita dal tirare
calci al pallone in un cortile polveroso, dove ragazzotti gradassi la facevano da padroni, o
dall’annoiarsi in un angolo dello stesso come capitò e me. Pensare di lasciare il branco e i
boschi per quella specie di penitenziario era inconcepibile, checché ne pensasse il maestro.
Fu il giorno in cui approfittai di un tema per decantare le meraviglie dell’essere
lupetto, ma soprattutto le innumerevoli qualità di Akela, che le cose presero una piega del
tutto imprevista.
«Mi piacerebbe proprio conoscerlo, questo Akela» disse il maestro Mariani
«perché non lo invitate un giorno qui in classe?».
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Akela in classe? Di tutti i conigli che il Maestro Mariani aveva estratto dal cappello
in anni di scuola, questo era senza alcun dubbio il più colossale.
Eccolo lì, orecchie, zampe, dentoni e tutto quanto, davanti a noi tre che ci guardiamo increduli.
Lo storico incontro fu organizzato, e finalmente arrivò il gran giorno, accompagnato per me da un’eccitazione altrettanto memorabile. A metà mattina, il bidello bussò
alla porta dell’aula e Akela fece il suo ingresso nel mormorìo della classe. Vedere il maestro
Mariani stringergli la mano e presentarsi era come assistere all’incontro tra Lancillotto e
il Tenente Masters di Rin Tin Tin o qualcosa del genere. Due mondi del tutto separati che
per un incredibile caso del destino venivano in contatto.
Tutta la piacioneria del maestro Mariani venne profusa copiosamente, travolgendo
quell’imbarazzato ragazzone di vent’anni o poco più, che si limitava a sorridere tra le sue
due grandi orecchie, diventate rosse per l’occasione.
In quel momento tutto era fuori luogo, a cominciare da un Akela vestito come non
l’avevo mai visto, timido e impacciato in una giacca che aveva l’aria di non appartenergli,
ridotto al semplice rango di Aldo Rho come un Superman tornato Clark Kent. Era fuori
luogo la viscida gentilezza del maestro Mariani, a suo agio come un pitone tra le rocce
calde della sua tana, che, dopo i convenevoli, aveva fatto sedere Akela accanto alla cattedra,
dando il via a un garbato disquisire sui valori dello scoutismo che aveva tutta l’aria di un
interrogatorio. Ero fuori luogo io, nel mio stupido grembiule nero col fiocco azzurro, che
soffrivo per Akela tra le spire di Kaa, sperando che da un momento all’altro il capobranco
aprisse le fauci e gli staccasse la testa con un morso.
Con calma, il maestro Mariani fece scivolare il discorso su noi tre, i suoi lupetti, e in
men che non si dica mi trovai in piedi accanto al mio banco, poi, non chiedermi come,
davanti alla lavagna, dove ebbe inizio l’incubo.
Malgrado mi rifiutassi di credere che il maestro Mariani avesse davvero deciso d’interrogarmi davanti ad Akela, stava succedendo esattamente questo.
Adesso è Kaa, ad avere spalancato le sue fauci su di me, e gli vedo i denti. Pensavo
fosse uno scherzo, ma non lo è: l’affabile dialogare di poco prima ha lasciato il posto a
serie, precise domande, non so dirti a che proposito e di quale materia, poiché il mio cervello è completamente impegnato a gestire un’indignazione mai provata prima d’ora.
Lo stai facendo apposta, maledetto. Era tutta una trappola.
Non so rispondere, non so ragionare, non riesco a pensare ad altro che all’umiliazione che sto provando, non ho neanche il coraggio di guardare Akela, perché ho paura
di non riuscire a trattenere quel velo che mi sta appannando gli occhi, e preferisco morire
piuttosto che dare al maestro Mariani la soddisfazione di vedermi piangere.
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La mia scena muta mi costa un cinque in non ricordo cosa, più una nota che il
maestro Mariani è ben felice di vergare con tutta calma sul mio diario, occupando interamente la pagina del giorno. Anche se non lo guardo in faccia, so che Akela e le sue grandi
orecchie vorrebbero essere altrove, forse ancora più di me. L’unico che non è mai stato meglio lì dove si trova, dietro la cattedra, è il maestro Mariani, soddisfatto di aver dimostrato
che per i lupi è meglio non entrare nel suo territorio, a meno che non vogliano finire in
una tagliola.
Da quei giorni sono passati milioni di anni, senza che mi siano serviti a farmi
un’opinione compiuta dell’uomo che dalla terza alla quinta elementare tenne la mia educazione scolastica nelle sue mani grassocce e puzzolenti di nazionali esportazione senza
filtro.
Gli riconosco meriti, come quello di avermi fatto incontrare in tenera età parole
come banale, pedissequo, farraginoso, e gentili proverbi come “Asinus asinum fricat” e “Risus
abundat in ore stultorum”. Ho digerito ogni sua follia, dalle poesie sulle mamme morte ai
pizzicotti insieme ai baci, dal fumare in classe alle scatarrate giù dalla finestra, e persino
quella di non averci mai fatto giocare in cortile.
Ma come volle umiliarmi davanti ad Akela, quello non potrò mai perdonarglielo,
neanche se stasera uscisse dalla tomba solo per chiedermi scusa.
Sotto un mio tema una volta scrisse con la sua biro rossa:
Ti raccomando, Paolo, cerca di tenere un legame fra tutti i pensieri che esponi nella composizione. Certo passare “da palo in frasca” non è giovevole alla scorrevolezza del tema, non manifesta l’ordine
delle idee, che la tua intelligenza ti procura.
Ci sto provando, brutto stronzo. Non lo vedi che ci sto provando?
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Undici
Un giorno ti tocchi un orecchio e senti qualcosa che prima non c’era
Un giorno ti tocchi un orecchio e senti qualcosa che prima non c’era. Niente di
che, una presenza quasi impalpabile proprio al centro del trago, quella lunetta di pelle e
cartilagine che sta sopra e di fronte al lobo. L’avverti soltanto se sfiori la pelle con il dito
in un senso e non nell’altro. Per questo puoi pensare di esserti sbagliato e poi ricrederti
svariate volte, a seconda della direzione in cui esplora il polpastrello, finché non decidi di
unire pollice e indice a mo’ di pinzetta e tenti di afferrare l’inafferrabile. Quando infine ci
riesci, è la certezza: ti è cresciuto un pelo nell’orecchio. Un pelo sottilissimo, corto, quasi
invisibile, ma pur sempre un pelo là dove di peli non ce n’erano mai stati.
Il giorno in cui ho scoperto di ospitare dei peli nell’anticamera dell’orecchio, o
meglio, delle orecchie, visto che la novità si manifestava in modo spietatamente simmetrico, insieme ai peli ho toccato con mano la fine ufficiale della mia giovinezza, peraltro
esageratamente protratta come si conviene a noi uomini della seconda metà del novecento,
che moriremo vestiti casual e irragionevolmente convinti che la vita ci debba per contratto
ancora un bel po’ di spensierato divertimento.
A quell’epoca mi stavo avvicinando ai quarant’anni in modo più che soddisfacente
e, cosa non da poco per un maschio, con tutti i capelli ancora al loro posto nella loro colorazione originale.
Complice una salute più che buona, quei quattro microscopici peli erano i primi ambasciatori del mio ingresso nel vivo del processo di decadimento del mio corpo.
Un’avanguardia discreta, alla quale sarebbero seguiti, col passare degli anni, effetti ben
più sfacciati, quali ad esempio il progressivo smottamento delle guance e il bisogno degli
occhiali per leggere. Per non parlare della comparsa dei primi peli bianchi sullo scroto, che,
come mi predisse in tempi non sospetti un amico più avanti con gli anni, fu una scoperta
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abbastanza scioccante.
È un fatto che peli e capelli assumono volentieri ruoli di primo piano nella rappresentazione che il nostro corpo si diverte a dare della sua storia nel tempo.
«Toh, è ora che cominci a usarlo. Così ti levi quei baffetti.» mi disse un giorno tuo
nonno consegnandomi un suo vecchio rasoio marca Wilkinson sbiancato dall’uso quotidiano insieme a una lametta nuova.
Quei baffetti, accompagnati da un’inedita e sgraziata voce da orso dei cartoni animati, erano la fiera bandiera del mio status di adolescente. Per quanto orrendi e più simili
a una muffa che a un virile ornamento, quei baffetti decretavano la mia definitiva uscita
dal rango di bambino, finalmente affrancato dalla schiavitù dei pantaloni corti, che a quei
tempi accompagnavano l’individuo maschio fin oltre la prima media.
I tuoi compagni di scuola materna, infilati nei jeans prima ancora di sapersi mettere
un dito nel naso, non conosceranno mai l’intensità con cui si può arrivare a desiderare un
paio di pantaloni che prosegua oltre le ginocchia periodicamente ricoperte di croste spesse
come soltanto la ghiaia dei parchi riesce a provocare.
I pantaloni lunghi per i bambini non erano abbastanza fini, secondo il gusto delle
mamme più attente alla moda, e denunciavano l’estrazione modesta del suo proprietario
tanto quanto quelli troppo corti. Per questo, noi bambini di buona famiglia borghese
vestivamo estate e inverno calzoncini all’inglese che terminavano al ginocchio, decorati
come fossero polsi di giacca da tre maledetti bottoni che non perdevano occasione per
incastrarsi, allentarsi e infine perdersi. Siccome l’eleganza non era tra le nostre priorità, già
dalle elementari invidiavamo i compagni meno raffinati, che con i loro informi flanelloni
a quadretti non rischiavano come noi di assomigliare alle femmine per colpa delle gambe
che uscivano dal grembiule coperte solo dai calzettoni strizzapolpacci.
Per nostra fortuna, nel giro di qualche anno quelle stesse gambe cominciarono a
ricoprirsi di una pelliccetta faunesca, diventando finalmente e definitivamente incompatibili con l’esposizione all’inglese, e da quel momento furono pietosamente occultate all’interno dei pantaloni lunghi.
Come vedi, il pelo scandisce con le sue mutazioni ogni tappa della nostra esistenza.
E a seconda di dove si trova, quando si trova e su di chi si trova, esso è amato od odiato,
desiderato o detestato, coltivato o combattuto.
In ogni caso, fa sempre quello che gli pare. Non fosse così, non vedremmo uomini calvi recuperare sulla schiena il maltolto dalla testa e anziani completamente glabri
portare in giro enormi sopracciglia a cespuglio accompagnate da ciuffi che fuoriescono
rigogliosi dalle orecchie come l’erba dai muri di sasso. Sembrerebbe quasi che il pelo tolga
da una parte per mettere dall’altra secondo un suo personale senso di equità.
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Per quanto mi riguarda, da qualche anno a questa parte il mio pelo sta conducendo curiose manovre di ritirata dalle gambe, che ormai possono vantare una pelle liscia
e perfettamente epilata, invidiabile da qualunque donna io conosca e da tutti i ciclisti
appassionati. Ma non dappertutto. Rimangono piccole zone circoscritte e simmetriche di
resistenza, presidiate da irriducibili peli radi e lunghi che invitano, per amor di decenza,
a completare artificialmente l’opera di disboscamento. Operazione del tutto normale di
questi tempi, che vedono il giovane maschio di riferimento proporsi spiumato e liscio
come le tue guance, con lo sguardo alterato dalle sopracciglia sagomate come quelle di un
travestito di classe economica. Mi domando in che modo gestirà la faccenda dei peli nelle
orecchie quando verrà il suo turno.
Gli intrusi nelle orecchie e le gambe lisce non erano nemmeno una lontana ipotesi,
quel giorno di mille anni fa in cui mi lasciai andare alla contemplazione di un capolavoro
d’arte pilifera. Era il mattino seguente la mia prima notte intera trascorsa in un letto in
compagnia di una ragazza. La mia, pensavo in quel momento a buon diritto. La luce faceva da sola quello che ogni direttore della fotografia deve avere in repertorio per illuminare
una simile circostanza, infilando le sue lame tra le fessure delle persiane fino a raggiungere
la metà del letto in cui lei dormiva beatamente a pancia in giù, fuori dalle lenzuola, coperta soltanto da una maglietta. Una volta arrivata, pur essendo radente nulla radeva, anzi:
rivelava ai miei occhi la perfetta geometria della peluria bionda che ricopriva i suoi glutei
rotondi. Leggerissima e dorata come quella che mi vedevo sulle spalle da bambino dopo
una giornata di sole in spiaggia. Forse salata anche lei.
Non so dirti per quanto tempo rimasi a guardare quella meraviglia, sempre più
convinto che appartenesse alla donna con cui avrei trascorso una lunga vita di amore assolutamente impeccabile. Posso dirti che allora credevo ancora in un dio, e lo ringraziai per
la pace nel cuore che quel culo mi donava.
«Papà, quand’è che avrò anch’io le righe come te?» mi hai chiesto qualche giorno fa
mentre ti guardavi allo specchio dopo esserti lavata la faccia. Nonostante tutti tuoi sforzi
di aggrottare la fronte, l’unico risultato che riuscivi a ottenere oltre alle smorfie era una
leggerissima increspatura della tua pelle di pesca, niente a che vedere con le pieghe da shar
pei che drappeggiano la vetusta fronte del tuo genitore.
«Guarda che quando le avrai non sarai mica contenta.»
«Invece sì, uffa.»
Sei ancora immune dalle convenzioni estetiche e dalle ipocrisie del bon ton degli
adulti, e riesci a considerare qualunque anomalia fisica esattamente per quello che è e non
per quello che rappresenta o comporta. La prima volta che vedesti mia madre dopo l’a77
sportazione della bestiaccia che s’era avvinghiata al suo settimo nervo facciale, le chiedesti:
«Nonna Deda, perché parli con la bocca storta?»
Ti bastò la semplice verità per fartene una ragione, senza che questo potesse minimamente cambiare la tua percezione di lei.
Quando i bambini fanno così, gli adulti prima si imbarazzano, poi fanno un sorrisetto di circostanza e archiviano la questione sotto la voce beata innocenza. E non si fermano a considerare che, se le parole non si usano a caso, a tale innocenza dovrà per forza
corrispondere una colpevolezza per niente beata. Dev’essere quella che paghiamo con un
patrimonio di cose non dette, di sguardi a metà e di frasi strafatte, ma che preferiamo
continuare a ritenere una conquista del nostro crescere. Perché in fondo è questo che s’ha
da fare, a quanto pare. E tu nei stai facendo una missione.
«Guarda come sono diventata grande!»
Me l’hai detto anche stamattina, alzandoti sulle punte dei piedi mentre ti aiutavo
ad abbottonare il vestito sulla schiena.
«Guarda come sono diventata piccola!» me l’ha detto invece un paio di giorni fa tua
nonna mentre l’aiutavo ad abbottonarsi il vestito sulla schiena.
Entrambe avete ragione. Mentre tu cominci ad entrare nel raggio d’azione dello
specchio del bagno, lei ha cominciato ad uscirne. Di questo passo, quando tu non avrai
più bisogno dello sgabello per lavarti la faccia, a lei comincerà a servire, sempre che sia
ancora in grado di salirci sopra.
La vita mi ha messo in condizione di osservare contemporaneamente un’alba e
un tramonto, come se mi trovassi in una stanza a guardare fuori da due finestre vicine.
Mentre una mi propone un sole che sale tra il cinguettare degli uccellini, l’altra incornicia
una palla rossa già tagliata dall’orizzonte e circondata da un buio paziente e silenzioso.
A seconda dei momenti e dell’umore, lo spettacolo mi affascina, mi turba, mi strazia. In
ogni caso mi costringe a pensieri che non sempre me la sento di frequentare.
Dal mio punto d’osservazione, che davvero non so se definire privilegiato o disgraziato, ho imparato che la differenza tra il fare e il disfare del giorno, tra l’aurora e l’imbrunire, in fondo è soltanto una questione di senso di marcia. È la conoscenza dell’attimo
precedente il presente, a darci modo di prevedere il successivo. Un’alba o un tramonto
congelati in fotografia senza la cognizione di un prima o di un dopo si assomigliano più
di quanto potresti credere. Come un bambino assomiglia a un anziano. Come tu assomigli alla nonna Deda. La sola differenza tra voi è la stessa che corre tra la parola ancora e la
parola più.
Tu non sei ancora in grado di lavarti, vestirti e prepararti ad uscire di casa in un
tempo umanamente ragionevole e senza perderti continuamente tra i rimbalzi delle tue
distrazioni. Tua nonna non più. Non sei ancora capace di chiudere certe zip un po’ dure e
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di far passare i bottoni nelle asole troppo strette. Tua nonna non più. Quando sali o scendi
le scale non puoi ancora evitare che qualcuno voglia prenderti la mano per paura che tu
possa inciampare e cadere. Tua nonna non più. Quando ti si prospetta l’idea di mangiare
un gelato non sei ancora capace di prendere la cosa con il distacco necessario per non farla
diventare lo scopo del momento. Tua nonna non più. Con te devo spiegarmi chiaramente,
senza mezze frasi o sottintesi, perché non sei ancora in grado di cogliere al volo il senso
di un discorso che non sia elementare. Con tua nonna anche, un po’ perché non lo è più
e un po’ perché ci sente sempre meno.
Io mi trovo come un cucù lì nel mezzo, anagraficamente più vicino a mia madre
che a mia figlia, e mi capita di aiutarvi entrambe e nello stesso giorno ad abbottonarvi un
vestito sulla schiena.
Molto differente è invece la pazienza che riservo all’una e all’altra, e questa cosa
non mi piace. Nonostante gli sforzi, ho molta più comprensione per il tuo non ancora che
per il suo non più, come se la stessa incompiutezza che tollero nell’alba non mi fosse accettabile al tramonto. Probabilmente per la solita maledetta questione del senso di marcia:
la prima è una promessa di luce che piace guardare, il secondo è l’anticamera del buio. Un
certo tipo di buio che non fa paura ai bambini quanto a chi ha la fronte piena di righe.
Rughe a parte, se avessi comprato il mio corpo in un centro commerciale e per
un’indagine di mercato oggi mi si chiedesse un parere sulla soddisfazione relativa all’acquisto dopo cinquant’anni di uso, tutto sommato non potrebbe che essere positivo. Non
mi posso lamentare, come si suol dire, considerando quel che si vede in circolazione in
termini di parco corpi. Ovvio che le prestazioni in generale non sono più quelle di un
tempo e che le magagne, a cominciare dai peli nelle orecchie, si stanno accumulando
come pare giusto che sia. Pur non essendomi impegnato più di tanto nella manutenzione
ed avendolo usato senza farmi troppi problemi anche in condizioni di utilizzo piuttosto
dure, il mio corpo sinora mi ha portato dove volevo andare come volevo andare. È saltata
qualche guarnizione delle ginocchia, ma niente di più.
C’è però un reclamo che mi piacerebbe sporgere presso il fabbricante, anche se la
garanzia è scaduta da tempo immemore. Come certe auto complessivamente robuste mostrano da subito un difetto che le accompagnerà per tutta la loro onesta esistenza, io sono
uscito di fabbrica con un impianto dentale di pessima qualità.
Il primo studio dentistico in cui entrai fu quello del Dottor Tartaglia, nella ridente Omegna della mia infanzia. Il fatto che me lo ricordi perfettamente malgrado allora non potessi avere più di sei anni, sta a significare che ci misi piede ben più di una volta e non solo
per accompagnare mia madre.
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Il Dottor Tartaglia era un omone gentile che riempiva in ogni sua piega un enorme
camice bianco. Tra le sue caratteristiche professionali era nota la capacità di fare tranquillamente a meno di parecchi strumenti, dal momento che prediligeva come attrezzo multiuso il suo massiccio pollice a spatola. Con quello prima mescolava agilmente l’amalgama
per le otturazioni e poi lo calcava nel buco del dente con una forza tale da rischiare di
dislocare la mandibola del paziente. Ma anche il pollice aveva i suoi limiti, e non poteva
certamente sostituire il trapano.
Nello studio del Dottor Tartaglia conobbi per la prima volta il micidiale Doriot, il
trapano con la trasmissione a corda. Se ne stava sinistramente ripiegato ad osservarti come
una mantide religiosa sinché non veniva il suo momento di entrare in scena, ovvero nella
tua bocca, dove era capace di farti vibrare fin nel più profondo del cervello.
Mentre mia madre era sotto i ferri, o meglio, sotto il pollice, io mi divertivo a
guardare i calchi in gesso delle impronte dentali, che se ne stavano ordinatamente allineati
dietro i vetri di un armadietto. Il Dottor Tartaglia assecondava bonariamente il mio interesse e un giorno mi mostrò con aria complice la dentatura completa del Maresciallo dei
Carabinieri.
Da quel momento in poi, la mia frequentazione degli studi dentistici si fece sempre
più assidua negli anni, in un crescendo rossiniano che tuttora non accenna minimamente
a placarsi e che, ne sono certo, troverà una conclusione soltanto il giorno in cui non avrò
più bisogno di una bocca.
Senza perdere inutilmente tempo, i miei denti cominciarono a cariarsi da subito
con impegno e precisione sistematica. Prima in modo superficiale e via via sempre più in
profondità.
Carie, otturazione, infiltrazione, nuova carie, nuova otturazione più grande e vai
col tango, finché l’otturazione non diventa un cuneo profondo nel molare scavato, che
un bel giorno, mentre mastichi qualcosa di duro, decide di spaccare il dente a metà fino
alla radice. Applicato ai miei denti, l’aggettivo perenni nel giro di pochi anni suonava già
come una solenne presa per il culo.
Di otturazione in otturazione, e di mal di denti in mal di denti, arrivò presto il
momento della prima corona. Il primo dente finto di un’interminabile serie, il passaggio a
uno stadio più avanzato del mio costante bisogno di cure odontoiatriche.
E mentre io mi lavavo i denti con regolarità senza che questo servisse a renderli
almeno un pochino meno vulnerabili, diversi miei amici evitavano accuratamente lo spazzolino senza per questo sapere cosa volesse dire avere una carie e continuando a mangiare
caramelle come se fossero le ultime rimaste sul pianeta.
Ho conosciuto dentisti di tutti i tipi. Giovani dinamici e anziani in odor di ritiro,
simpatici e antipatici, gentili e sgarbati. Di quelli che appoggiavano la sigaretta sul posa80
cenere tra una trapanata e l’altra e di quelli che facevano il filo all’infermiera mentre tu
sputavi sangue. Di quelli che chiacchierano mentre lavorano e di quelli che si devono concentrare. Di quelli che fanno la cronaca minuto per minuto di quel che ti stanno facendo
e di quelli che non t’informerebbero nemmeno nel momento in cui stessero per somministrarti l’eutanasia.
Ho aspettato il mio turno in sale d’aspetto d’ogni stile e rango, seduto su sedie
scricchiolanti davanti a vecchie riviste mediche farcite di foto di bocche devastate, oppure
sprofondato in eleganti poltrone di pelle nera sfogliando mensili dedicati a denaro, auto,
bella vita e addominali, mentre i pesci tropicali nell’acquario mi guardavano senza interesse.
Ho anche ceduto alle lusinghe del risparmio, affidandomi alle cure illegali di un
semplice odontotecnico, e posso dire che non è stato il peggiore a mettermi le mani in
bocca.
Ho sentito urlare al di là delle porte e se ho provato qualcosa è stata solo irritazione
per la pochezza del paziente, capace soltanto d’innervosire chi avrebbe poi dovuto occuparsi di me.
Io la paura non me la sono potuta permettere, nel senso che averla avrebbe soltanto
peggiorato una situazione già abbastanza fastidiosa di per sé. Fortunatamente, pur nella
sfortuna, ho vissuto in anni in cui l’iniezione d’anestetico era già d’uso comune. Se la sua
invenzione fosse attribuibile a una precisa persona, a lei intitolerei le più belle vie, le più
belle piazze e i più bei parchi del mondo.
Innumerevoli volte quell’ago sottile come un capello mi ha forato qua e là le gengive (ma spesso anche il palato) con un pungente cric, provocandomi automaticamente una
lacrima di dolore ma anche di riconoscenza, per diffondere dove doveva diffondere il suo
influsso benedetto. Certo, una tronculare che ti rende mezza faccia completamente morta
non è un divertimento. Nel giro di pochi minuti ti ritrovi con una narice da cocainomane, le labbra che non sanno gestire il liquido dello sciacquo e una guancia che non t’appartiene più, ma nello stesso giro di minuti il dentista di turno si trova in condizione di
poterti fare cose inimmaginabili senza rischiare di finire sotto processo per questo. Perciò
viva l’anestesia, elemento alla base di ogni buon rapporto con i miei dentisti.
Disteso sulle loro poltrone ho imparato a memoria marche e dettagli delle lampade
che mi puntavano in faccia, ho ascoltato i loro borborigmi, respirato i loro aliti di mentina, di liquirizia, di fumo e talvolta di alcol.
Rintanato nel fondo della mia testa per prendere la massima distanza dal resto del
mio corpo ho subito trapanazioni, canalizzazioni, estrazioni, cauterizzazioni e chi più ne
ha più ne metta.
Ho sentito le tenaglie afferrarmi un dente e tirare e torcere tra scricchiolii agghiac81
cianti con una forza che non penseresti possibile. Le ho anche sentite stringere troppo un
dente talmente malmesso da esplodere in mille pezzi. Di conseguenza ho visto il dentista
prendere martello e scalpello e cominciare a menare colpi da fabbro per estrarre la radice
facendo leva come un gommista.
Ho respirato l’odore dell’osso bruciato mentre me lo fresavano per inserirvi un
impianto, della carne arrostita quando entrava in azione l’elettrobisturi e mi sono riempito
la bocca con ogni tipo di pasta per impronte.
Ho visto il mio sangue risucchiato passarmi davanti agli occhi nella cannula dell’aspiratore per decine di minuti e mi sono vergognato con le infermiere per lo spettacolo
indecente a cui la mia bocca le costringeva.
Ho fatto collezioni di radiografie per ogni dente, schiacciato sotto la copertina di
piombo, con l’indice in bocca per tenere la lastrina in posizione. Mi sono sciacquato centinaia e centinaia di volte e ho sputato di tutto nel gorgo della vaschetta rotonda.
E tutto questo l’ho pagato una quantità di denaro che per la mia salute non provo
nemmeno a quantificare.
Penso che a questo punto tu abbia capito perché io e tua madre ti stiamo somministrando fluoro da prima ancora che nascessi e siamo noiosamente inflessibili riguardo la
tua igiene dentale. Non vogliamo trascurare nulla per rimediare alle magagne del patrimonio genetico che ti ho trasmesso. È per il tuo bene, come dicono sempre i genitori.
In passato c’è stato un felice momento in cui ho sperato di poter vedere prima o poi
la fine dell’emergenza e di entrare finalmente tra i felici mortali della visita di controllo
una tantum e della pulizia ogni tot. Ora non più, mi sono rassegnato all’evidenza. La mia
bocca è come la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano: come finisci di sistemarne una
parte è già ora di correre ai ripari da un’altra. E se un qualunque problema può portare a
diverse possibili conseguenze, posso stare tranquillo che tra queste sceglierà la peggiore.
L’ultima mia conquista in termini di disgrazie dentali si chiama parodontosi, volgarmente detta piorrea, e mi ha aperto nuove frontiere del malessere, nonché un nuovo fronte
di spesa. Ma soprattutto è andata a infrangere l’ultimo baluardo che, nonostante tutto,
resisteva ancora: la decenza della facciata, dei denti in pubblica esposizione, gli ultimi
rimasti ancora miei. Approfittando di un lento ma sicuro arretramento delle gengive, gli
incisivi si sono sentiti liberi di cambiare posizione: i due centrali superiori, numero 11 e
21 per gli addetti ai lavori, dopo aver trascorso cinquant’anni standosene fianco a fianco,
hanno deciso di separarsi, facendo assomigliare il mio sorriso a quello del grande Ernest
Borgnine.
Il Dott. Riccardelli, mio dentista titolare da ormai quasi vent’anni, depositario della memoria storica della mia sciagurata bocca, ha pensato che fosse necessario intervenire
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chirurgicamente per limitare i danni. Così, tempo fa, abbiamo dedicato un intero sabato
mattina a una sessione davvero speciale, durante la quale mi ha aperto come una buccia di
banana le gengive tra dente e dente per farcirle con dell’osso sintetico.
Per l’occasione, mi ero dotato di cuffie e lettore mp3, tanto per distrarmi un po’
portandomi della musica nel mio rifugio in fondo al cranio.
Dopo quasi due ore con le fauci spalancate e i crampi alla mandibola, intanto che
il cerusico tesseva a fatica un intrico di campate che arrivavano fino al palato, Devendra
Banhart cantava nelle mie orecchie Please, destroy me...please destroy me...
E io non potevo neanche ridere.
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Dodici
Scappare via sperando di seminarlo è stata una pessima idea
Scappare via sperando di seminarlo è stata una pessima idea. Ho dovuto rallentare
per attraversare via Melzi d’Eril con il rosso senza farmi mettere sotto dalle macchine, e
lui ha riguadagnato terreno. Lui e il branco di iene che vogliono godersi lo spettacolo. Le
sento correre, ridere e gridare, e mi chiedo quante ne siano rimaste ancora al seguito. Ma
non voglio girarmi, devo solo andare più veloce, anche se la tracolla della cartella mi sega
il collo e i libri mi sbattono sul fianco a ogni passo.
Anche mandarlo affanculo è stata una pessima idea, e non mi troverei in questa
situazione se non l’avessi avuta. Potrei chiedere aiuto a un passante o cercare almeno di
raggiungere un negozio di quelli dove la mamma va a far la spesa e mi conoscono. Potrei,
se solo riuscissi a pensare a qualcos’altro oltre al semplice respirare.
«T’aspetto fuori, Pedra!» aveva ringhiato un paio d’ore prima. Promessa mantenuta.
Perché Beolchi questo genere di impegni ci tiene a onorarli, soprattutto se presi con chi ha
osato ribellarsi alle sue prepotenze con un vaffanculo. Ha una reputazione da mantenere,
Beolchi. È un duro, forse il più duro tra i pluri-ripetenti, non il più forte, ma certamente
il più bastardo. E ha un pubblico che non può tradire, quello che all’uscita di scuola,
quando lui mi ha preso per un braccio e sbattuto contro il portone, ci ha subito circondati
intonando San-gue! San-gue! San-gue!
Siccome il sangue evocato doveva inevitabilmente essere il mio, pensai che la cosa
migliore da farsi fosse divincolarmi e scappare via prima che Beolchi cominciasse a farlo
comparire. Via di corsa, fuori dal cerchio.
Vi-gliac-co! Vi-gliac-co! e la fuga comincia, con un Beolchi ancora più rabbioso alle calcagna.
«Dove cazzo pensi d’andare, eh? dove cazzo vai?» mi grida.
Sto cercando di andare a casa senza prenderle, molto semplicemente. 84
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Ma oggi non è il mio giorno fortunato. Arrivato in via Cirillo, devo decidere se
finire sotto le ruote di un furgone che sta passando in quel momento o sotto le grinfie di
Beolchi che mi ha quasi raggiunto. L’istinto mi fa scegliere la seconda opzione, e spero
tanto di non dovermene pentire.
Una spinta contro il muro e già una sua mano mi stringe la gola, mentre l’altra,
quella con l’anello col teschio, è diventata un pugno che non vede l’ora di partire. La faccia di Beolchi è esageratamente vicina alla mia: vedo la sua pelle grassa e posso contargli
i punti neri che ha sul naso. Vedo i suoi denti gialli di sporco digrignati in un ghigno
vittorioso.
«Ti spacco la faccia!» e la p dell’intenzione aggiunge alla minaccia un’avanguardia
di sputo bianco che raggiunge il medesimo obiettivo. Le iene che hanno avuto il tempo
e la voglia di seguire gli eventi fino a quell’angolo di strada non aspettano altro. Io spero
che la cosa non sia troppo dolorosa, ma non faccio nulla perché non accada.
Non voglio fare a botte, non sono capace, non ho mai tirato un pugno in faccia a
nessuno, io. Invece Beolchi in queste cose ci sguazza, lui è uno di strada. Beolchi fuma,
ha le basette ed è già stato con una puttana, o almeno lo afferma senza che nessuno si
permetta di dubitarlo.
Fisicamente sono forse più forte di lui, che non è nemmeno tanto più alto di me.
Ma questo non è un gioco di quelli che si fanno alla domenica tra scout, questo è picchiarsi per fare male, prima e più del tuo avversario, è uno sport dove la cattiveria e la decisione
contano più della forza. Beolchi di cattiveria ne ha da vendere, ma il suo pugno non parte
ancora. Vuole godersi questo momento di assoluto potere con la mia carotide tra le mani.
«Ritira il vaffanculo o ti spacco la faccia, stronzo di merda!»
È una via d’uscita che non m’aspettavo, un imprevisto atto di sottomissione che
può impedire all’anello col teschio di stamparsi sulle mie labbra.
«Ritiro.»
«Cosa?»
«Ritiro!»
«Cosa?»
«Ritiro il vaffanculo!»
«E chi è che ci va affanculo?»
«Io.»
«Non ho sentito.»
«Ci vado io, affanculo.»
Con grande disappunto delle poche iene rimaste, Beolchi non ha sparso il mio
sangue. Si è accontentato della mia sottomissione, come si usa tra cani.
«Stai attento, Pedra!» sibila e finalmente mi molla. Dovrei essere contento, per que85
sto. Posso tornare a casa. Posso camminare senza fretta. Ne ho bisogno, perché ho solo
poche centinaia di metri ancora per sciogliere il groppo di paura e rabbia che mi strozza
la gola più di quanto facesse la mano di Beolchi.
Poche centinaia di metri per lasciare che le lacrime facciano quel che devono fare e se ne
vadano prima di entrare in casa, dove chiamerebbero domande che non voglio sentirmi
fare. Intanto, me ne faccio una io, sempre quella, inutile e retorica: ma perché sono finito in
questa maledetta scuola?
Alla Scuola Media Statale Luigi Einaudi c’ero finito un paio d’anni prima per una
questione di numeri civici. Qualcuno aveva deciso di far diventare la linea di mezzeria di
corso Sempione un confine per separare implacabilmente la giurisdizione di due scuole
medie: lato sinistro e numeri dispari Mameli, lato destro e numeri pari Einaudi. La stessa
regola valeva per la piazza, tagliata in due da un’invisibile filo, idealmente teso al centro
dell’Arco della Pace. Per mia sfortuna, noi abitavamo al numero 4, dalla parte sbagliata
della piazza.
I due istituti erano così diversi tra loro da far sembrare corso Sempione il confine
tra due mondi e due epoche, più che tra due zone di competenza scolastica.
La Mameli sembrava una scuola di quelle che si vedono nei film americani: di recente costruzione, a un solo piano, le aule luminose con grandi finestre che s’affacciavano
sul verde dei giardini di fronte. Era moderna e colorata, e quasi ti faceva venire voglia di
entrarci. L’Einaudi era invece il prototipo dell’edificio scolastico del primo novecento
dove non avresti mai voluto entrare. Costruito nel punto in cui le anguste via Giusti e via
Morazzone convergono per immettersi in via Canonica, aveva per forza di cose la forma
di una fetta di torta alta tre piani con la punta mozzata da un assaggio. Tanto la Mameli
appariva allegra e luminosa, tanto l’Einaudi si presentava triste e buia.
Ma, al di là dell’aspetto estetico, una differenza sostanziale segnava ancora più
profondamente la diversità tra le anime delle due scuole: la Mameli aveva classi miste,
l’Einaudi era solo, disgraziatamente, maschile.
La linea di demarcazione, insieme a corso Sempione, tagliò spietatamente in due fette anche la vecchia V D, finalmente liberatasi dal dominio del
maestro Mariani grazie al conseguimento della sospirata licenza elementare.
PROFILO DELLA PERSONALITÀ DELL’ALUNNO PAOLO PEDRAZZINI
CON RIFERIMENTO ALLA PREPARAZIONE RAGGIUNTA
ED ALLE ATTITUDINI RIVELATE AL TERMINE
DEGLI STUDI ELEMENTARI
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Rende con puntigliosa buona volontà; è intelligente, attivo, spronato il più possibile dalla madre. In pratica è all’altezza dell’esito desiderato nel profitto scolastico; ha personalità che soprattutto dimostra quando scrive, quando compone. Abbisogna però di un senso di fiducia nelle proprie forze, pure anche di sentirsi più a suo agio, più spontaneo con gli altri compagni e superiori. Portato alla lingua e al disegno.
L’Insegnante
Gino Mariani
Diversi tra i miei compagni di classe preferiti rimasero al di là del confine, e improvvisamente le poche centinaia di metri che separavano le nostre case si moltiplicarono
come se avessimo traslocato dall’altro lato della città. Non ci saremmo più incontrati,
volenti o nolenti, ogni mattina davanti al portone della scuola elementare, e per le nostre
fragili amicizie in balìa del quotidiano questo sarebbe stato determinante.
Per fortuna non avrei perso nel trasloco Daniele, diventato ormai il compagno preferito. A dare vita a una nuova 1 D ci sarebbero stati anche Dominici, Schiavin, Toletti,
Ubaldi e, purtroppo, Steffenoni.
Nell’ottobre 1967, mentre gli universitari di mezza Europa cominciavano a scalpitare dalla voglia di cambiare un bel po’ di cose, tuo padre lasciava l’astuccio per la bustina,
deponeva per sempre fiocco e grembiule e si preparava a cominciare il secondo capitolo
della sua istruzione obbligatoria.
Nessuno può più darti del bambino, quando al posto del maestro hai i professori,
che devi subito imparare a chiamare prof. Invece dei due soli libri sui quali hai studiato di
tutto per cinque anni , il Sussidiario e il Libro di Lettura, ora sei dotato di una sorprendente
quantità di tomi che hanno subito riempito un’intera mensola della tua camera e che sfogli con orgoglio annusando il profumo della carta ficcando il naso in mezzo alle pagine.
Le materie non sono più quei pezzetti di verdura di un unico minestrone che affiorano a
seconda dell’umore del maestro, ma hanno assunto una loro precisa e serissima identità
fatta di copertine austere che si aprono su pagine e pagine piene di nomi, date, schemi,
numeri tabelle, esercizi e parole, tantissime parole. Visti tutti insieme fanno paura, perché
l’idea di doverli studiare, ma anche solo di leggerli, in un anno soltanto è umanamente
inconcepibile.
Il pezzo più impressionante per peso e volume è l’Antologia della Letteratura Italiana,
seguita a ruota da quella di Epica. Anche il libro di Storia non scherza, ma sembra più amichevole perché ha tante fotografie. L’aritmetica adesso si chiama Matematica, e ha un’aria
molto più minacciosa della sorella minore. Nel suo libro non c’è nemmeno un disegnino
amichevole, tipo ceste di mele o pere, ma soltanto incomprensibili sfilze di numeri e segni
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astrusi. Da fastidio che era, promette di trasformarsi in un incubo.
C’è il libro di Osservazioni Scientifiche, il cui primo capitolo tratta con dovizia di
particolari il paramecio, protozoo della classe dei ciliati, ordine degli oligotrichi. C’è quello di
Latino, che non concede proprio nulla alla simpatia, al contrario del libro di Francese, che
invece si fa subito ben volere con i disegni che illustrano le storie di Paul et Jeanne, fratello e
sorella come potremmo essere io e Laura se vivessimo in una cittadina francese dove tutti
sono gentili, se avessimo sempre il sorriso stampato sulla faccia e se Dupont fosse il nostro
cognome.
Mi piacciono anche il libro di Educazione Musicale e quello di Applicazioni Tecniche:
il primo illustra tutti gli strumenti di una grande orchestra, e dà la gradevole sensazione
che imparare a suonarli non sia impossibile, mentre il secondo sembra poterti mettere in
grado di costruire marchingegni d’ogni tipo, compresi un periscopio, una banderuola e
un igrometro a capello.
Persino la religione pretende un tomo tutto per sé, farcito di illustrazioni in cui
ricorrono spesso angeli biondi come calciatori svedesi. Da quello atletico che blocca Abramo giusto un attimo prima che sgozzi il suo adorato figliolo a quello ritratto con aria addolorata mentre guarda impotente il ragazzino in sua custodia collezionare svariati peccati
con grande disinvoltura.
Ovviamente Gesù la fa da padrone, sia nelle situazioni più tradizionali sia comparendo ai giorni nostri come un super eroe al fianco di bisognosi moderni di vario genere.
Gli piace anche farsi ritrarre come una garanzia alle spalle di missionari, suore d’ospedale
e celebrità come Don Bosco o Papa Giovanni.
La vecchia cartella di cuoio marrone delle elementari si gonfia ogni mattina di tutto
questo sapere e riuscire a chiuderla è diventato un atto di forza. Mia sorella porta i libri
stretti in una cinghia e li tiene in braccio come fossero un neonato. Io vorrei tanto metterli
in quel tascapane dell’esercito americano che ho visto un sabato alla Fiera di Sinigaglia.
I prof della 1ª D componevano un’accolita di caratteri degna di un cast felliniano.
E ti garantisco che non sto esagerando. Salvo le tre eccezioni che si potevano definire sufficientemente normali, i nostri docenti, per l’aspetto, gli atteggiamenti e in qualche caso
persino per il cognome, più che al mondo reale sembravano appartenere a quello della caricatura grossolana. Per quanto i tre anni passati davanti alla cattedra del maestro Mariani
mi avessero abituato giocoforza a considerare la norma ciò che la norma non era, trovarsi
alle prese con un’intera compagnia di personaggi platealmente singolari fu decisamente
una sorpresa.
Le eccezioni erano rappresentate dalla professoressa di Lettere, da quella di Matematica e Scienze e da quello di Educazione Artistica. Ovvero dalla prof Aiolfi, dalla prof Celesti
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e dal prof Stradella. La prima era una donna di mezz’età, curata nel vestire e nel parlare,
gentile quanto basta e severa all’occorrenza. Truccata con cura, esagerava nell’arrossarsi le
guance, tanto da sembrare sempre accaldata. La seconda, più giovane, era sciatta e noiosa,
con uno sguardo da talpa ingigantito da lenti spesse come fondi di bottiglia, più spesse
ancora di quelle degli occhiali di Steffenoni. Era romana, e in ragione di ciò diceva ìcchese
e ipsilònne.
Del prof Stradella si diceva che fosse un ottimo pittore, qualità che in ogni caso
non faceva automaticamente di lui anche un ottimo insegnante. Dal sorriso leggermente
schifato con cui ci guardava disegnare, quando di tanto in tanto lasciava la lettura del
quotidiano aperto sulla cattedra per aggirarsi tra i banchi, si poteva facilmente evincere
che impegnarsi nell’estrazione della nostra eventuale vena artistica non rientrava tra le sue
priorità. Preferiva limitarsi a ricordarci puntualmente di portare da casa frutti e oggetti
particolari per la prossima copia dal vero, movente di terribili croste in tempera Pelikan
capaci di ondulare il foglio come un mare in tempesta.
Il fatto che le due insegnanti più importanti non presentassero caratteristiche particolarmente salienti non era però sufficiente a bilanciare il peso dato dalla stravaganza
dei colleghi delle altre materie. Quelli che, a buon diritto, potevano fregiarsi del rango di
maschere moderne del grande carnevale della Pubblica Istruzione.
Acerboni era il cognome del prof di francese. Sì, hai capito bene, ho proprio detto
francese, e capisco che ti possa risultare strano. Ma devi sapere che in quegli anni, per
quanto l’inglese fosse già da parecchio tempo la lingua più importante al mondo, il francese godeva ancora di un’allure socialmente e culturalmente aristocratica, ultimo scampolo
romantico dei suoi fasti fin de siècle, quando la crème di tutto il mondo non poteva esimersi
dal parlarlo. L’inglese era la volgare lingua del commercio ma niente di più, si poteva ancora dire con aria un po’ blasé.
Così il francese si divideva più o meno equamente con l’inglese le preferenze degli
studenti italiani, esclusi i pochi, bizzarri, che decidevano per il tedesco o addirittura lo
spagnolo.
Quindi io avevo un prof di francese e non d’inglese che si chiamava Acerboni ma
che di aristocratico non aveva nulla. Si diceva che venisse dalla Val d’Aosta, e a guardarlo
l’ipotesi sembrava plausibile, o almeno giustificava in qualche modo le scalcagnate pedule
da montagna che portava in qualunque stagione. Per quanto queste sbucassero prepotentemente da sotto i pantaloni troppo corti di un completo stazzonato, sulla cui giacca il
colletto della camicia a quadretti si spiegava ben bene a coprirne il bavero, l’abbigliamento
rappresentava soltanto la naturale confezione della persona contenuta.
Quando l’ora di francese aveva inizio, non c’era pericolo di non accorgersene. Gra89
zie a una pedata, la porta a due battenti dell’aula si spalancava rumorosamente e interamente per lasciare entrare una specie di contadino nel giorno di mercato con le braccia
ingombre di mercanzie. Erano un giradischi a valigetta, un’enorme cartella sul punto di
esplodere, un dizionario e altri libri ancora, ma una gabbia con polli vivi, formaggi e cesti
di verdure sarebbero stati più adeguati al personaggio.
«Bonjour!»
«Bonjour, Monsieur le Professeur!» rispondevamo alla simpatica faccia perennemente
allargata in un sorriso stralunato a cui mancavano diversi denti, e incorniciata da un insieme di ciuffi di capelli grigi che andavano in ogni direzione esclusa quella più consigliabile.
Una volta depositato tutto il materiale sulla cattedra, aperto e collegato il giradischi,
il prof Acerboni cominciava la lezione, che rigorosamente doveva svolgersi, non si sa perché, con la porta spalancata sul corridoio. Se l’ora di francese terminava con l’intervallo,
allora non lasciava la cattedra ma apriva la sua borsa, estraeva una schiscetta, prendeva forchetta e coltello e dopo essersi sistemato il tovagliolo sul petto cominciava a mangiare di
gusto una cotoletta o qualcosa del genere, generalmente con contorno di verdura.
L’insegnamento delle Applicazioni Tecniche era invece affidato a un uomo molto differente dal nostro stravagante docente di francese, ma non per questo meno singolare: il
prof Loguercio. Con il suo volto magro e affilato e la perfidia che sapeva usare con la stessa
perizia con cui ti mostrava l’uso della raspa o del succhiello, in realtà più che in un film
di Fellini non avrebbe sfigurato tra le pagine di un romanzo di Dickens, nei panni di uno
di quei sinistri personaggi sotto le cui grinfie finiscono regolarmente dei ragazzini disgraziati. L’unica sostanziale differenza tra la finzione e la realtà era tutta a nostro sfavore, dal
momento che il prof Loguercio non finiva per pagare in qualche modo le sue malefatte
dopo un migliaio di pagine ma continuava imperterrito a terrorizzare con gusto i suoi
alunni, anno dopo anno.
«Io non mi sognerei mai di mandare i miei figli in questa scuola» esordì alla prima
lezione, dandoci il suo benvenuto, «perché questa scuola è una scuola di delinquenti».
Era ovvio che a lui i delinquenti non facevano paura, anzi, sapeva bene come trattarli. Smise di camminare avanti e indietro lungo l’enorme laboratorio che occupava il
centro del cortile (eredità della vita precedente dell’edificio, nato per ospitare un istituto
di Avviamento Professionale) e si avvicinò lentamente ai finestroni.
«Le vedete le colonne?»
Certo che le vedevamo, le colonne: sostenevano la massiccia tettoia di cemento
che univa il laboratorio al corpo dell’edificio e permetteva di raggiungerlo senza bagnarsi
quando pioveva.
«Chi fa casino finisce là fuori, tanto per cominciare. Spalle alla colonna e guai se si
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muove.»
Un mormorio sommesso con qualche risolino in sottofondo commentò l’avviso.
«Ridete, ridete...adesso non fa ancora freddo, ma vedrete d’inverno. Perché io là
fuori vi ci mando senza il cappotto. Anche se va sottozero, vi ci mando, anche per tutta
l’ora.»
E un mormorio sommesso senza risolini in sottofondo accolse la precisazione, e il
prof Loguercio sorrise soddisfatto, scoprendo i canini e la sua straordinaria somiglianza
con Christopher Lee.
Quell’aula enorme era il suo regno, come la sala delle torture per un inquisitore.
Per tutta la durata della lezione si aggirava tra di noi, le braccia allacciate dietro la schiena,
concedendo occhiate benevole solo ai suoi strumenti, alle morse e ai banconi in legno su
cui di tanto in tanto faceva scorrere la mano in una significativa carezza.
Un giorno, mentre stavo cercando di dare una forma sufficientemente squadrata
alle pareti in compensato della casetta per uccelli che stavo costruendo, ebbi la sciagurata
idea di rispondere con un monosillabo a una domanda di Schiavin proprio nel momento
in cui il prof Loguercio passava alle mie spalle. Sentii un sibilo, poi un dolore lancinante
attraversò il mio sedere da chiappa a chiappa, e lì rimase a bruciacchiare. Mi girai con le
lacrime agli occhi e lo vidi sorridente, con in mano uno spesso filo di ferro intrecciato
come uno scudiscio.
«Fa male?»
Io non riuscii a far altro che annuire.
«Bene. Volevo solo sapere se faceva male.»
Tanto il prof Loguercio era malvagio e infido, tanto il prof Allegretti era tenero e
innocuo. Coerentemente con la parodia in cui si esibiva la realtà nella Scuola Media Einaudi, il prof Allegretti era, ovviamente, il nostro insegnante di Educazione Musicale.
L’aula in cui quel candido vecchino, inspiegabilmente non ancora pensionato, teneva le sue lezioni, si trovava nel seminterrato accanto a quella di Educazione Artistica. Un
buco che prendeva la sua pochissima luce da due finestre a bocca di lupo. Non c’era un
pianoforte, ma accanto alla cattedra era appoggiato sopra un banco un vecchio e sfiatato
armonium a valigia, alimentato da un mantice del tutto simile a quelli usati per gonfiare i
canotti, sul quale il fragile prof Allegretti, che sarebbe doveroso chiamare Maestro, pestava
con inaspettato vigore, soprattutto quando eseguiva “Sogno Viennese”, il valzer di sua composizione che noi avremmo dovuto imparare a suonare prima di ogni altra cosa.
A questo scopo, dovemmo dotarci tutti di una melodica (altresì detta claviette), una
tastierina a fiato che in mano nostra riusciva ad emettere un suono molto simile a quello
di un clacson.
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Girava voce che il prof Allegretti avesse composto in passato diverse canzoni per
lo Zecchino d’Oro. Che fosse vero o meno, è sicuro che si sarebbe trovato molto più a suo
agio a dirigere un coro di bambini piuttosto che a cercare di educare musicalmente uno
come Beolchi, che nella melodica vedeva più che altro un oggetto contundente. Mantenere
la disciplina in classe non era infatti il suo forte, e il gruppetto dei ripetenti l’aveva fiutato
dal primo incontro. Era penoso leggere l’impotenza sulla sua faccia e nel tic che gli provocava: il dito indice si infilava nel colletto liso e apprettato della camicia bianca e lo tirava
per liberare il collo magro, come se il continuo rumoreggiare tra i banchi dell’ultima fila,
insieme all’autorità gli togliesse anche il fiato.
Il trittico delle educazioni si completava con quella fisica, che aveva come teatro la
palestra dalla forma più impensabile che si possa concepire.
Era ricavata al pianterreno, nella punta mozza dell’edificio, in un locale angusto a
pianta irregolarmente trapezoidale, che rendeva impossibile ogni tentativo di organizzazione adeguata dello spazio. Vi si accedeva da un breve corridoio adibito a spogliatoio,
con qualche panca addossata ai muri e gli attaccapanni alle pareti. La prima volta che la
vidi pensai alla palestra delle elementari: regolare, luminosa, conteneva con generosa abbondanza il campo da pallacanestro. In cinque anni ci entrammo due volte, la prima per
un saggio e la seconda per un film. Lì alle medie, dove due ore alla settimana di ginnastica
erano garantite, la palestra era un pietoso monumento all’arte di arrangiarsi con quel che
c’è. E questo valeva anche per l’insegnante.
Del prof Groppuso si diceva che vantasse un onorato passato al servizio dell’Arma
con i gradi di maresciallo. Il physique du rôle corroborava la supposizione, dal momento
che immaginarsi quell’ometto rotondo con i baffi alla Peppino De Filippo nell’uniforme
nera e rossa con tanto di bandoliera bianca era veramente facilissimo. Inoltre, il suo vocabolario e le sue costruzioni sintattiche ricordavano troppo quelle di un verbale per non
suffragare ulteriormente l’ipotesi.
In ogni caso, il prof Groppuso, per età, struttura fisica, indole, nonché abbigliamento, era quanto di più lontano potesse esserci da una figura per così dire atletica. Il massimo
della sua partecipazione ginnica alla nostra attività consisteva nel battere ritmicamente
una bacchetta di legno sulla cattedra (ma a cosa serviva una cattedra in palestra?) per
scandire il ritmo della nostra corsa di riscaldamento, costretta dallo spazio a disegnare un
anello di dimensioni ridicole.
Una sola volta ci mostrò personalmente come eseguire un esercizio: si trattava della
posizione corretta da tenere in attesa del suo via alla base della pertica. L’immagine che
fotografai nella mia mente a imperitura memoria di quel momento ritrae il prof Groppuso, i suoi pantaloni tirati dalle bretelle fino a metà camicia bianca e sotto la punta della
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cravatta, la sua grossa testa lucida di calvizie e brillantina e anche i suoi baffetti nell’atto di
impettirsi fieramente, faccia in su e braccia allargate all’indietro, in una plastica, posizione
da saggio ginnico fascista. Come un eroe che, sprezzante del pericolo, offra il giovane petto alla battaglia. Dopo quel momento di rara comicità, se ne tornò alla cattedra con l’aria
di aver fatto ben più del suo dovere d’insegnante e d’atleta.
Per nostra fortuna, il genio italiano dell’arrangiarsi aveva comunque trovato il modo
di tendere di sghimbescio una rete che ci metteva in grado di giocare, di sghimbescio, a
pallavolo. Salvo sanzioni punitive a tutta la classe, la gran parte dell’ora di Educazione
Fisica trascorreva così, con il Maresciallo Groppuso compreso nel suo ruolo di arbitro inflessibile e noi a cercare di prendere i palloni evitando di sbattere il grugno contro i muri
o le pertiche.
Infine, buon ultimo alla faccia del suo nome, spetta a Don Primo chiudere questa
carrellata sul bizzarro corpo insegnante della mia prima media. Il nostro prof di Religione, l’uomo a cui spettava il pio compito di consolidare e perfezionare quanto costruito
dai frati sulle nostre anime e coscienze in cinque anni di elementari, era un prete di dimensioni fuori dal comune. Prova a immaginare un uomo di quasi due metri d’altezza
per un buon quintale e passa di peso rivestito da capo a piedi di tessuto nero, un enorme
tubo chiuso da innumerevoli bottoncini e interrotto a metà da una fascia di seta alta due
spanne. Dove il tubo terminava nella sua parte inferiore, facevano capolino le punte di un
paio di scarpe di misura straordinaria, mentre alla sua sommità era collocata una facciona
rubiconda dallo sguardo che si agitava dietro gli occhiali da vista. Vederlo imboccare il
corridoio veleggiando a grandi passi era sempre uno spettacolo impressionante. Vedevi un
concentrato fisico della potenza della Santa Romana Chiesa, quella che non ha paura di
niente e di nessuno.
Con Don Primo in cattedra, non volava una mosca: l’avrebbe immediatamente
spiaccicata tra quei badili che aveva al posto delle mani. Le stesse che, con una minima
pressione di indice e pollice, ti punzonavano il braccio con due lividi rotondi se eccedevi
in vivacità durante l’intervallo.
Don Primo dava l’impressione di annoiarsi quasi quanto noi a leggere i capitoli
del libro di Religione e a distillarne il divino insegnamento. Perciò tendeva a liquidare
velocemente l’argomento per passare alla compilazione della scheda relativa al capitolo
che trovavi in fondo al libro. Compilavi, strappavi lungo l’apposita fustella e consegnavi.
Nessun altro libro in dotazione presentava soluzioni così moderne come quello di Religione. Ed era un bene, perché per colpa delle schede quello era l’unico libro che non potevi
comprare usato o ereditare da qualcuno.
Le schede assomigliavano a quelle dei quiz per l’esame della patente, a cominciare
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dall’assortimento delle possibili risposte da barrare nel quadratino. C’era la risposta esatta,
quella palesemente fuori bersaglio, quella sbagliata ma plausibile e infine quella trabocchetto, sbagliata solo per un piccolo dettaglio. Perché i fondamenti della Religione non
conoscono variabili, proprio come il Codice della Strada.
Per farti un esempio, alla domanda 14) Chi sono gli Angeli? non avresti mai risposto
[a] Gli Angeli sono le anime dei Santi volate in Cielo e probabilmente nemmeno [c] Gli Angeli
sono spiriti benevoli, ma avresti potuto sbagliare lo stesso barrando [d] Gli Angeli sono creature
puramente spirituali, dimenticandoti che [b] Gli Angeli sono creature intelligenti e puramente
spirituali.
Sbrigata la pratica schede, cominciava il bello della lezione. Don Primo era un
grande narratore, e sapeva perfettamente come tenerci incollati alle sue labbra. I suoi racconti, che di religioso generalmente avevano soltanto l’ambientazione (il seminario, la
sacrestia, nei casi migliori una cripta o un cimitero), scivolavano quasi sempre nel thriller.
Li spacciava per rigorosamente veri, e questo accresceva il loro fascino. La sua narrazione li
gonfiava lentamente e sapientemente di suspence fino al momento in cui, al culmine della
tensione e dell’apertura di bocche del pubblico, non scattava improvvisamente il colpo di
scena, accompagnato il più delle volte da una rumorosa spinta alla cattedra che ci faceva
letteralmente saltare sulle sedie, anche quando eravamo ormai arrivati ad aspettarcela.
Non mancava una diceria anche sul suo conto, e di tutte era francamente la più
singolare: pare che Don Primo fosse intimo della famiglia Agnelli, e che l’avvocato in persona gli avesse regalato una Fiat 124, in segno d’amicizia e profonda stima. Magari per la
sua capacità di raccontare storie assurde.
O magari perché era il suo confessore.
Forse avrei dovuto approfittarne anch’io, trovando il coraggio di considerarlo tale
e di raccontargli perché, passato il primo anno suppergiù come deve passare un anno di
scuola, entrare ogni mattina in quel portone era diventato un supplizio.
Ma non andò così, perché la vergogna riesce a essere molto più forte di qualunque
ragione. Il coraggio di affrontarla io non ce l’avevo, proprio come succedeva con Beolchi.
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Tredici
Nel 1969, Brian Jones veniva trovato morto sul fondo della sua piscina
e gli Stones rimanevano in quattro
Nel 1969, Brian Jones veniva trovato morto sul fondo della sua piscina e gli Stones
rimanevano in quattro. I Beatles, invece, tenevano il loro ultimo concerto sul tetto della
Apple (intesa come la loro casa discografica, quell’altra non esisteva ancora). A Praga un
ragazzo di nome Jan Palach si dava fuoco per protesta contro l’invasione russa in Cecoslovacchia. In Francia il primo Concorde decollava da Tolosa. Nei cinema degli Stati Uniti
usciva Easy Rider. In Vietnam, ottanta soldati americani morivano nella battaglia che verrà
chiamata di Hamburger Hill. Nel frattempo, due loro compatrioti più fortunati si facevano
una passeggiata sulla Luna. O perlomeno così parve. Un certo Frank Zappa pubblicava
Hot Rats. A Bethel, nello stato di New York, si teneva quello che verrà chiamato il festival
di Woodstock. Il neo presidente americano Richard Nixon, in visita a Roma, veniva contestato dai giovani di sinistra, che poi si scontrarono duramente con quelli di destra e ci
scappò il morto. E intanto qualcuno s’inventava Arpanet, il papà di Internet.
In Italia, a novembre, nasceva tua madre. A dicembre scoppiavano quattro bombe
in meno di un’ora: la prima, a Milano, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura
in piazza Fontana, uccideva diciassette persone.
Nel 1969, io frequentavo la seconda media.
In quegli anni, la lotta di classe era cosa di tutti i giorni. La leggevi sugli striscioni dei
cortei, la sentivi gracchiare nei megafoni, la respiravi in quell’aria di rivolta che arrivava a
folate insieme all’odore di plastica bruciata dei lacrimogeni. Anch’io ero impegnato nella
lotta di classe, anche se la mia non aveva niente a che fare con le rivendicazioni di quella
operaia, che a quei tempi era una forza in grado di far paura, né con il misterioso proletariato.
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Era solo la mia personale lotta quotidiana per la sopravvivenza all’interno della
classe 2ª D.
Quando sento affermazioni del tipo gli studenti vanno motivati, equiparabili per
sagacia a sentenze come la birra è buona quando è fredda, mi chiedo se la nausea che mi
aspettava paziente ogni mattina, sei giorni su sette, sarebbe stata la stessa se i miei professori fossero stati in grado di somministrare al mio io studente anche soltanto una minima
dose, facciamo pure omeopatica, di motivazione. Forse sarebbe bastata, per forare quella
cappa che toglieva l’aria alle mie giornate schiacciandole col peso mortifero che acquista
lo studio quando è vissuto come una pena. L’unica che a suo modo ci aveva provato, la
prof Aiolfi, lasciò la scuola alla fine del primo anno. Il suo posto venne preso dalla Gargnano, la nostra nuova prof di Lettere.
Per cercare di spiegarti che tipo era, converrà prima che io spenda due parole riguardo le principali tipologie di prof femmina con cui ho avuto a che fare negli anni della mia
formazione scolastica media, inferiore prima e superiore poi.
Due erano le macro categorie a cui potevi assegnare le insegnanti di qualunque
materia volendo operare una suddivisione di massima ma comunque indicativa: le prof
Curate e le prof Sciatte. Non ricordo di aver mai avuto un’insegnante che non si potesse
immediatamente ricondurre all’uno o all’altro tipo, nessuna che potesse lasciarmi indeciso, anche solo per poco, su quale fosse la sua naturale famiglia d’appartenenza.
Le Curate, lo dice la parola stessa, erano sempre impeccabili. Generalmente di mezza età o giù di lì, veleggiavano sopra gli umani odori dell’aula avvolte nel loro profumo di
buona marca. Affrontavano i corridoi a fronte alta, con il cappotto sulle spalle, facendo
risuonare i tacchi al ritmo marziale della loro superiorità. Con la stessa profonda consapevolezza del posto che tocca a ognuno su questa terra di una nobildonna vittoriana in visita
alle colonie, ci trattavano come selvaggi più o meno volenterosi alle prese con la propria,
doverosa civilizzazione.
Con i loro tailleur, i loro gemelli di cashmere, i loro gioielli, le loro pettinature congelate nella perfezione dalla lacca, si dimostravano sempre e comunque all’altezza della
situazione, perché non c’era situazione che potesse mettere in discussione la loro altezza.
Potevano sedare sul nascere una rissa dividendo i due contendenti senza minimamente
preoccuparsi dell’agitazione che la cosa avrebbe causato ai loro fili di perle con la stessa
sorprendente energia con cui all’occorrenza giravano la lavagna, cancellavano con vigore
cose scritte da tempo immemore e infine battevano le mani per spolverarsele sollevando
nuvolette di gesso.
«Com’è sempre elegante, la professoressa Taldeitali! Sempre così in ordine…» commentava puntualmente mia madre di ritorno da un colloquio con una qualsiasi prof Curata.
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«Oggi aveva una borsetta che chissà quanto l’ha pagata. Piacerebbe anche a me, una
borsa così».
Naturalmente delle borsette, dei vestiti e dei capelli di una prof Sciatta non le poteva importare di meno, e allora il resoconto del colloquio andava dritto al sodo, ovvero al
giudizio della prof su di me e non a quello di mia madre sulle sue mises.
Tanto le prof Curate sorprendevano per l’ingualcibile eleganza con cui confezionavano accuratamente la loro autorevolezza, tanto le Sciatte sembrava facessero di tutto per
risultare esteticamente incompiute, anche nei rari tentativi di apparire eleganti. Vestivano
malamente e spesso malamente si muovevano, con quella legnosa goffaggine che in una
donna non finisce mai di sorprendere. Quasi mai truccate, se non in sporadiche occasioni
in cui denunciavano la poca dimestichezza con la materia, esibivano spesso pallori malaticci sotto i capelli bisognosi di attenzione e non di rado di shampoo. Quando erano
raffreddate, s’ingobbivano dentro vecchi cardigan, nelle cui maniche riponevano il moccichino zuppo dopo essersi soffiate rumorosamente il naso per l’ennesima volta.
Il fatto che la prof Gargnano facesse indiscutibilmente parte del tipo Sciatto e che
sostituisse la prof Aiolfi, decisamente Curata, è in sé soltanto un dettaglio. Mi serviva per
aiutarti a visualizzare una donna sui quaranta, magra, vestita un po’ come capita, con i
lunghi capelli di un marrone opaco e indefinito raccolti in una coda di cavallo troppo
giovanile per non stonare con il viso segnato pesantemente dalle rughe. Un’ottima insegnante, sostenevano in molti, di certo appassionata al suo lavoro come pochi altri se non
nessuno in quella scuola.
Purtroppo per me, anche la sua passione aveva le sue simpatie, che evidentemente
non mi contemplavano. In qualche modo per colpa della lotta di classe di cui sopra, quella
grossa, che dalle piazze aveva raggiunto perfino l’aula della 2ª D, col risultato di dar corpo
anche alla mia privata.
Per farla breve, la prof Gargnano era tanto comunista, io per niente.
La stessa topografia di quartiere che determinò la mia infausta assegnazione alla
Scuola Media Statale Luigi Einaudi torna utile per capire perché in quell’istituto si creavano situazioni che alla dorata Mameli mai si sarebbero verificate. A differenza di quella
della Mameli, che si allargava sul benessere generalmente uniforme dei quartieri intorno
alla Fiera, la giurisdizione dell’Einaudi comprendeva due mondi opposti forzatamente
adiacenti: quello di chi abitava i palazzi d’epoca di via Melzi D’Eril, di via Bertani, di
piazza Sempione e quello di chi invece affollava le case di ringhiera, in certi casi fatiscenti,
di Giordano Bruno, di via Niccolini, della stessa Paolo Sarpi, quelle che oggi ospitano i
confortevoli nidi di chi adora la Chinatown milanese, ma che a quei tempi erano soltanto
case di povera gente, lavoratrice o della ligéra che fosse.
All’Einaudi ci finivano quindi borghesi e proletari (anche nelle loro rispettive forme
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inversamente estreme alto e sotto) ritrovandosi molto democraticamente nella stessa classe
ad annusarsi con circospezione.
C’eravamo noi, ancora bambini di fuori e di dentro con i pantaloni corti fino al
giorno prima, noi educati lavati e stirati coi libri a posto e tutti i quaderni e le matite che
servono e un sacco di cose in più che nemmeno servono. E poi c’erano loro, che sembravano uomini nei gesti nella forza nelle parolacce e nella puzza di sudore e che sapevano
le cose che noi non dovevamo ancora sapere e avevano già visto quelle che più volevamo
vedere.
C’era Beolchi di cui ho già detto, con il suo fido compare Dainotto, alto due spanne di più del più alto di noi, che eccelleva nel tirare calci volanti ai banchi e a qualunque
cosa lo ispirasse. C’era Banti, che bigiò per un mese filato, tutti i giorni in bicicletta al
parco, prima che qualcuno se ne accorgesse.
C’era Tiraboschi, di cui dicevano che non avesse mai avuto un padre, ma che di
certo aveva una madre a cui prendere di nascosto il Velosolex su cui andava a zonzo tutti
pomeriggi con la sigaretta che gli pende dalle labbra. Una madre che quando la incroci
mentre aspetta di parlare con un prof non puoi fare a meno di pensare alla povera mamma di Franti, la canaglia della classe di Cuore, e di provare per lei la stessa pena anche se
Tiraboschi non era un canaglia, come probabilmente non lo era Franti.
All’Einaudi c’erano un sacco di ragazzini che, senza saperlo, ti spiegavano benissimo il perché di quel dell’obbligo che definiva la scuola che stavamo facendo, seduti accanto
a noi che non potevamo nemmeno immaginare come avrebbe potuto non esserlo.
Non era necessario essere comunisti per capire quali fossero gli studenti più bisognosi di attenzione. Ma forse era necessario esserlo per arrivare a stabilire delle differenze
di trattamento a loro favore evidenti come quelle che diventarono presto la norma per la
prof Gargnano. Quello che a me non sarebbe mai bastato per strappare una sufficienza,
scritto sul quaderno di un Beolchi o farfugliato da un Dainotto interrogato le faceva
allargare il viso in un sorriso di pura soddisfazione. Perché la prof Gargnano applicava
alla riscossione del nostro rendimento scolastico lo stesso meccanismo contributivo che
avrebbe voluto vedere applicato dal fisco: chi più ha più deve mettere. Giustamente.
Io, per mia sfortunata fortuna, avevo una famiglia che non mi faceva mancare nulla
e che soprattutto era in grado di seguirmi negli studi, anche più di quanto avrei desiderato.
Così mi toccava pagare salato. A capire perché le cose funzionassero così, da solo non ci
arrivavo, e siccome nessuno s’era preso la briga di spiegarmelo, facevo l’unica cosa che mi
restava: sentirmi vittima di un’ingiustizia. O meglio, vittima della lotta di classe che la Gargnano faceva a me e a tutti i figli di borghesi di qualunque calibro della classe, pretendendo
sempre il massimo in cambio della sua stitichezza di sufficienze.
Ma invece di provare a lisciarla, come finivano per fare tutti, feci, come spesso mi
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capita ancora di fare, la scelta peggiore: diedi il via a una guerra di logoramento, del tutto
controproducente, fatta di piccole provocazioni politiche che mi facevano sentire eroico
per qualche minuto e perseguitato per sempre. Io, che leggevo i fumetti della Collana
Eroica e Guerra d’Eroi dove i tedeschi erano degli imbecilli che sapevano dire solo Ach! e
Himmel! ogni volta che una granata dei nostri gli pioveva addosso, io avrei potuto giurare
fedeltà alle Schutzstaffeln solo per il gusto di contestare la Gargnano.
«Cosa avete letto, durante le vacanze?» e io, pronto: «Maledetti da Dio, di Sven Hassel», guardandomi bene dal dirle che mi ero comprato anche il Diario del Che e ne avevo
letto una decina di pagine per capire cosa ci fosse dentro di così forte.
Sapendo quanto avrebbe apprezzato il mio gesto, un giorno mi presentai con un
adesivo che avevo trovato in casa appiccicato bene in vista sulla cartella. Un rettangolo
bianco con la scritta azzurra Io aiuto Israele che risaliva alla guerra dei sei giorni, quella
stravinta dal generale Dayan, quello con la benda sull’occhio e due palle così. Alla faccia
degli amici feddayin della Gargnano.
La mia famiglia era conformemente conservatrice, pacatamente anticomunista e
moderatamente antifascista, come si confaceva all’epoca alla maggioranza dei borghesi.
Mio padre votava Partito Liberale, mia madre non rivelava mai chi aveva scelto se glielo
chiedevamo.
«Il voto è segreto» rispondeva immancabilmente, rivendicando il suo diritto alla
segretezza, ma si sapeva che seguiva mio padre o al massimo la DC. A me non bastava:
avrei voluto che la mia famiglia fosse stata come quella che fu di mia madre, con lo zio
che sfrecciava lungo corso di Porta Vittoria in camicia nera sulla Bugatti rossa e i camerati
della sezione che cantavano in suo onore di Maurelli gli arditi siamo…
Uno così mi sarebbe certamente stato di grande aiuto, nella mia battaglia contro le
quotidiane ingiustizie perpetrate dalla compagna professoressa.
Ora però non vorrei che tu pensassi che la sensazione di schifo e di sgomento che
cominciò a prendermi ogni mattina all’idea di andare a scuola fosse imputabile al mio
idilliaco rapporto con la prof di Lettere. Quello, al massimo, aiutò me a sentirmi ancora
più solo, lei a non cambiare idea su di me e altri a sentirsi sufficientemente impuniti per
prendersi la libertà di diventare gli autori e gli attori del mio incubo quotidiano.
Non so dirti esattamente come e quando ebbe inizio, non lo ricordo. E per quanto
riguarda il perché me lo chiedo ancora oggi. So soltanto che un giorno scattò un qualcosa
nella testa di Beolchi e soci, per noia, per gioco o semplicemente per fare del male, che
cominciò ad avvelenare la mia vita e quella del mio migliore amico. Quel giorno, io e Daniele diventammo ufficialmente due culi. O culattoni, se preferisci.
Pedrazzini che s’incula i bambini! diventò presto uno dei tormentoni preferiti dal
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popolino, buono per ogni occasione, perfetto per improvvisare cori non appena se ne
presentava l’occasione. Per Daniele, che di cognome faceva Franconi, non c’erano rime
all’altezza della mia, ma a parte questa lacuna il trattamento intensivo di battute e provocazioni somministrato a lui era identico a quello che spettava a me. Senza tregua, tutti i
giorni, anche quando meno te l’aspettavi, anche quando avevi per un attimo la sensazione
che, a fronte di altre distrazioni, la questione fosse perlomeno scivolata in secondo piano.
Niente da fare, puntualmente e prontamente veniva rimessa in moto per il divertimento
dei più.
Nessuno spunto veniva trascurato, e alcune situazioni erano diventate ormai dei
classici. Il microscopico spogliatoio dove ci cambiavamo prima dell’ora di ginnastica era
naturalmente teatro di apprezzatissime battute, quali Franconi, smettila di lumarmi l’uccello,
tanto non te lo do! oppure occhio al culo, che Pedrazzini ha le mani lunghe! e altre simili amenità.
E non bastava fare punti a pallavolo nella stessa squadra di Beolchi, nemmeno
strappargli un bella, Pedra! con una schiacciata vincente poteva cancellare il tuo status di
intoccabile. Ti avrebbe garantito una tregua, al massimo, una parentesi di normalità che si
sarebbe chiusa nel giro di pochi minuti. La normalità era invece la nostra persecuzione,
per fermare la quale nessuno dei nostri compagni, nemmeno quelli storici delle elementari, era disposto ad alzare mezzo dito, per la paura di prenderle o, peggio ancora, di finire
per rappresaglia insieme a noi sulla lista dei culattoni. Più conveniente associarsi garbatamente alle risate delle iene quando comincia il gioco al massacro, chissà mai che domani
non debba toccare a me.
Perché può toccare a tutti, dal momento che non sono più culattone degli altri. E
se io lo sono, lo è certamente anche Dominici, visto che esattamente come io ho preso in
mano il suo pisello lui ha preso in mano il mio. È successo a casa mia, dove era venuto per
fare i compiti insieme. Mia madre era uscita, e a un certo punto della noia non ricordo
nemmeno a chi dei due è venuta l’idea di toccarci i rispettivi piselli, prima infilandoci le
mani nelle mutande, poi tirandoli fuori dalla patta sbottonata per poterli anche guardare.
Quello di Dominici era più grosso e grasso del mio e assomigliava a un salamino pallido.
A parte il piacevole gusto del proibito, la cosa non si era rivelata così divertente
come ce la saremmo aspettata, neanche per i piselli, che avevano continuato imperterriti
ad assomigliare a due proboscidine indifferenti. Ripetemmo l’esperimento un altro paio
di volte, poi ci stufammo per sempre.
Io non sono un invertito, lo so. Io di fronte a certe ragazzine sento una cosa scendere
a zigzag giù per lo stomaco e infilarsi nella strada a fondo cieco che finisce in mezzo alle
gambe e diventare un pizzicorino come quando ti scappa la pipì. Io invidio più di chiunque altro al mondo chi è finito alla Mameli e che se in classe si guarda intorno invece di
quello acquoso di Beolchi può incrociare lo sguardo azzurro della Barbara Cremonesi, che
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adesso ha pure le tette.
Pedrazzini che s’incula i bambini!
Ma se fosse stato proprio Dominici a raccontare il fatto a qualcuno di sbagliato?
No, non può essere, per quale motivo avrebbe dovuto rischiare di essere lui stesso bollato
come me? Fosse così, oggi non potrebbe permettersi di sogghignare alla sua strana maniera quando piovono su di me le solite battute. E Daniele, poi? Lui non c’entra nulla, con i
pomeriggi dei piselli fuori. No, non può essere.
«Se ammettete di essere culattoni vi lasciamo stare» propose magnanimamente un
giorno Beolchi. Ci credi se ti dico che prendemmo molto seriamente in considerazione
l’offerta? L’idea di poter smettere di essere continuamente punzecchiati e derisi e insultati
ogni mattina dal lunedì al sabato compreso ci pareva così desiderabile da valere qualsiasi
prezzo, perfino una falsa confessione. Se scegliemmo, fortunatamente, di non scendere a
questi sciagurati patti fu solo perché non ci fidavamo della parola Beolchi, e non per questioni di principio che non riuscivamo neanche più a permetterci.
E allora ecco che un bel giorno entri a scuola con l’anima sotto le scarpe e lo
sguardo basso sull’odioso disegno che ripetono le piastrelle del pavimento, giri l’angolo,
imbocchi il corridoio dove chi c’è smette di parlare, ride, poi ti si fa intorno e comincia
a scandire in coro Cu-lo! Cu-lo! Cu-lo!, e tu vedi che tra questi ci sono anche i piccoli della
prima, gente che non sa neanche chi sei ma è tanto contenta di prendere parte all’evento.
E mentre cammini per raggiungere la tua aula, che non ti è mai sembrata così
lontana, sulla cui soglia il comitato promotore ti aspetta come i bravi appena studiati
aspettano Don Abbondio, l’ultima cosa che potrebbe passarti per la testa è che quel momento schifoso che stai vivendo ti lascerà in fondo qualche cosa di utile da sapere, tipo che
basta un niente per trascinare la gente in una qualsiasi porcata e ancora meno per aprire
ufficialmente la stagione della caccia al diverso. In quel momento schifoso provi solo una
sacrosanta rabbia, quella necessaria per trovare il coraggio disperato di fermarti davanti a
Beolchi per dirgli «vaffanculo» dal più profondo del tuo cuore, costi quel che costi, e ti ho
già raccontato quant’è costato.
Avremmo dovuto parlarne con qualcuno, denunciare subito le ripetute molestie subite
nell’ambito di inquietanti episodi di bullismo all’interno della scuola, come le chiamerebbero
oggi i media. Giusto, ma parlarne con chi, se già ti vergogni con te stesso per quel che va a
toccare la questione. Con i genitori? Non sono argomenti praticabili, quelli che ti scaldano
le orecchie soltanto all’idea di affrontarli. Con i professori? E con quali? Con la Gargnano,
che dati i protagonisti ridurrebbe il tutto a una ragazzata stringetevi la mano e via?
Forse potremmo aprire il nostro cuore di fanciulli a chi più dovrebbe saperci guardare
dentro. Peccato che quel ruolo spetti a Don Primo, l’ultimo sulla terra col quale vorresti
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confidarti. Con il prof Stradella, magari, che al termine dell’ora ha pensato bene di fare
dello spirito. Ricordandoci di portare oggetti per la natura morta della lezione successiva
ha guardato Daniele e gli ha detto Franconi, tu puoi portare dei finocchi e l’aula di Educazione
Artistica è esplosa in una sola, titanica risata, che portava lo Stradella al trionfo e seppelliva
noi due.
Sopravvivere, è il motto, pensando che ci sono altri pianeti dove l’incubo non riesce
a seguirti. Gli scout, ad esempio. Gli amici della Mameli, beati loro, che adesso fanno le
festicciole e ballano con le ragazze e magari una volta o l’altra invitano anche te. Sopravvivere alla seconda e poi alla terza, sopravvivere alla Scuola Media Statale Maschile Luigi
Einaudi e provare a dimenticarsela.
In qualche modo ce l’ho fatta. Ma non a dimenticarla, come vedi.
PROFILO DELLA PERSONALITÀ DELL’ALUNNO PAOLO PEDRAZZINI
CON RIFERIMENTO ALLA PREPARAZIONE, ALLE ATTITUDINI
ED ALLA FORMAZIONE RAGGIUNTA
Sviluppo fisico; intelligenza discreta con limitate attitudini analitiche. Buona la creatività, l’espressione linguistica e grafica; l’attenzione, la volontà, l’impegno molto discontinui; interessi settoriali. Difetta di metodo. Personalità con note di aggressività e irrazionalismo. Risultati di apprendimento quasi sufficienti. Può proseguire negli studi superiori. Si consiglia il liceo artistico.
Il Presidente la Commissione
(firma illeggibile)
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Quattordici
Prima o poi, anche il sesso pretende le tue attenzioni
Prima o poi, anche il sesso pretende le tue attenzioni. Se n’è restato buono per anni
senza aver niente da fare, come l’angelo custode di un bambino che vive nella bambagia.
S’è accontentato delle tue occasionali goffe esplorazioni, quasi sempre del tutto accidentali, poco o per niente diverse da quelle che avresti dedicato a un qualsiasi oggetto capitatoti
tra le mani. In qualche occasione davvero speciale ti ha fatto sentire la sua discreta presenza regalandoti il brivido di un attimo, un minuscolo campione omaggio di quel che potrà
essere un giorno il prodotto intero.
Il sesso sa aspettare il suo momento, ma viene al mondo insieme e te.
Il primo ricordo che ho della sua presenza al mio fianco risale alla notte dei tempi,
eppure si è fissato nitidamente e all’occorrenza posso ancora consultarlo per riviverne gli
highlights.
La scena si svolge nella casa di Omegna, quindi è certo che in quel momento non
posso avere più di sei anni, probabilmente anche meno. È pomeriggio e mia sorella, ovvero tua zia Laura, ha invitato delle amiche a giocare. Di solito, i loro giochi non mi coinvolgono perché sono piccolo e maschio, ma questa volta mi è stato assegnato un preciso
ruolo: quello dell’unico spettatore, nonché giudice, di una sfilata di moda.
Davanti a me è stata approntata una specie di passerella, costruita con il materiale
base di qualunque scenografia allestita in camera nostra: sedie e cuscini. Essendo l’unico
spettatore, ma soprattutto giudice, sono tenuto in grande considerazione dalle indossatrici
(così si chiamavano allora), che mi squittiscono intorno eccitate in attesa di sfilare. Si sa
che per una sfilata come si deve è necessaria una certa atmosfera, così viene abbassata la
tapparella e creata una penombra artificiale, tagliata soltanto dalla luce delle lampade dei
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comodini usate come riflettori. E si sa anche che le indossatrici si devono cambiare spesso,
per questo usano una sedia a mo’ di paravento dietro cui poterlo fare al riparo dagli sguardi del pubblico, cioè dai miei. Ma una sedia non è un paravento, e io posso vedere lo stesso
quel che c’è da vedere.
E per quanto non si tratti che di qualche scorcio di mutande o canottiere, il fatto stesso che la sua visione mi dovrebbe essere proibita comincia a darmi una strana
sensazione. Le indossatrici sfilano con completi improbabili, fanno moine, ancheggiano
platealmente, sollevano la gonna poi scappano via ridendo per ripresentarsi di nuovo in
passerella come se fosse la prima volta.
Io sento che mi piace, questo strano gioco da femmine in cui non faccio nulla se
non ridere come un cretino e provare un piacevole, inedito turbamento. Mi piacciono
come mai prima d’ora mi sono piaciute le amiche di Laura, per questo vorrei che la sfilata
e lo strano rimescolio nella pancia che mi provoca continuassero all’infinito. Per la gioia
dell’unico spettatore, nonché giudice.
Questo fu il primo incontro con un piacere che non aveva precedenti né cause apparenti, diverso dagli altri non solo nelle sensazioni, ma anche perché non riconducibile
alla soddisfazione di un bisogno o di una voglia, come il mangiare quando si ha fame, il
bere quando si ha sete, il dormire quando si ha sonno o il fare la cacca quando scappa.
Anche il bagno dei Licari una volta mi aveva dato una strana vibrazione alle budella. La signora Ada Licari era un’amica della mamma e mamma di un’amica di mia sorella. Viveva col marito e i due figli in una villa ai margini di Omegna, poco sopra la riva
del lago, che sembrava uscita da una rivista di moda di quegli anni e non assomigliava a
nessun’altra delle case che conoscevo. Era modernissima, e i suoi spazi seguivano regole
insolite, producendosi in forme irregolari e soluzioni sorprendenti. I locali erano collegati
tra loro come e dove meno te lo saresti aspettato, tre gradini sopra o magari quattro sotto,
un po’ di sghimbescio, a formare strani angoli puntuti.
La cucina aveva le piastrelle gialle e i mobili panciuti di fòrmica rossa con i profili
cromati come quelli delle auto. C’erano perfino due sgabelli imbottiti da bar sui quali mi
arrampicavo faticosamente per poi starmene appollaiato in cima, scomodo ma fiero come
un pappagallo sul suo trespolo.
Ma il pezzo forte della casa era il salone, al quale si accedeva superato l’ingresso dotato di un guardaroba segreto che non smetteva di affascinarmi e dentro cui avrei passato
volentieri le giornate.
Per entrarci bisognava far scorrere un pannello su cui era riprodotta fotograficamente in bianco e nero la venere del Botticelli a grandezza umana, in piedi nella sua conchiglia. Non appena il pannello veniva scostato rivelando il passaggio, all’interno una fila
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di luci si accendeva magicamente sopra un grande specchio che moltiplicava le pareti in
legno scuro della cabina e la fila di attaccapanni d’ottone che le attraversava. Era un angolo magico, intimo e ovattato, dove nulla di sgradevole avrebbe potuto succederti, salvo
trovarti in un buio totale nel caso avessi richiuso completamente il pannello dietro di te.
Al salone non mancava nulla per essere completamente diverso da quello di casa
nostra. Per le dimensioni, la forma, persino per i materiali di cui era fatto. La parete che
dava sull’esterno, allungandosi a punta sopra il giardino, era una sola, grande vetrata dalla
quale si poteva, allungando un po’ il collo, vedere il lago oltre gli alberi. Quella adiacente
era invece di pietre squadrate e faceva da sfondo all’angolo bar, che aveva il banco a semicerchio pieno di bottiglie come si vedeva sempre nei film americani, dove qualcuno ci
si metteva dietro chiedendo gradisci un drink? e, quale che fosse la risposta, afferrava un
bicchiere e cominciava a riempirlo con manate di ghiaccio prese da un secchiello.
C’era persino il camino, ma non di quelli normali che ti fanno pensare a Babbo
Natale o alla Befana. Questo stava al centro della stanza, dove troneggiava come un bianco
altare sacrificale, sormontato da una cappa sospesa in ferro che scendeva dal soffitto come
una gigantesca tromba nera.
Difficile annoiarsi, in una casa come quella dei Licari. Era tutta da esplorare nelle
sue affascinanti stranezze, e per esplorazione o per semplice bisogno prima o poi mi ritrovai da solo nel bagno.
Manco a dirlo, non era lungo e stretto con la finestra in fondo come il nostro, ma
luminoso e quadrato, rivestito di piastrelline di tanti colori. Tutto sommato, non era particolarmente strano, ma aveva una particolarità che fece la differenza: in un angolo c’era
la cabina della doccia.
Lo so, t’aspettavi chissà che, ma devi sapere che quella era la prima doccia che
vedevo in vita mia. Nel senso che era la prima che vedevo dal vero e non su una rivista
femminile o in un film. E probabilmente fu proprio l’automatica evocazione di quelle
immagini lì dentro, in quel luogo reale, nel profumo di saponetta Camay, ad accendere un
turbamento sconosciuto e intrigante, che si alimentava al solo pensiero delle esibizioni
di nudità femminili di cui era teatro quel luogo, delle fumose e umide trasparenze che in
altri momenti doveva proporre il vetro satinato davanti a me. Provai per un attimo a metterle a fuoco, assegnando loro le presunte fattezze della padrona di casa, ma un’improvvisa
vergogna mi incendiò subito la faccia per punizione e scappai dal bagno di corsa.
La vergogna ha sempre avuto un posto d’onore, nelle mie prime faccende di sesso.
Si può dire che per noi nati da cattolici, non importa se osservanti o inosservanti, la vergogna fosse l’ingrediente base di ogni buona maleducazione sul tema. La vergogna, figlia del
proibito e sorella del piacere più profondo, quello che dai genitali non ci passa nemmeno
se sbaglia strada, ma li comanda dai piani alti.
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La vergogna riusciva a farti sentire in colpa anche quando di colpa non potevi
oggettivamente averne alcuna. Ricordo che un sabato pomeriggio, mentre mi trovavo al
cinema Orfeo con mio padre in attesa che cominciasse Ti-Kojo e il suo pescecane, dopo la
visione de La Settimana Incom cominciò la tradizionale proiezione dei trailer, che allora si
chiamavano prossimamente.
Tra questi, a un certo punto toccò a Notti e donne proibite, una sorta di documentario
che, grazie alla scusa ipocrita di mostrarti uno spaccato dei tempi correnti, finiva col rappresentare di fatto una panoramica pruriginosa sui locali notturni e sugli spettacoli più
osé nel mondo. Perciò il suo prossimamente proponeva un montaggio serrato di sequenze
che promettevano peccaminose nudità al termine di spogliarelli di cui anch’io mi trovai
a poter ammirare qualche rapido assaggio preliminare. Intendiamoci, la modella di un
qualsiasi spot per l’intimo in onda oggi in tv, magari a ora di pranzo, mette in mostra
una quantità di nuda superficie corporea enormemente più estesa di quella esibita della
stripteseuse più scatenata di quel trailer. Eppure allora tanto bastava perché io mi sentissi
avvampare, e non trovassi il coraggio di girarmi per guardare quale espressione avesse
scelto di assumere la faccia di mio padre. E bastava anche perché qualche voce uscisse dal
borbottio crescente per rendersi chiara alle mie orecchie rosse: Vergogna! Ci sono anche dei
bambini! Sporcaccioni!
Nessuno ce l’aveva con me, evidentemente. Eppure avrei voluto scomparire dalla
faccia della terra, come se sulla mia ci fosse scritto a lettere fluorescenti nel buio del cinema
A ME QUELLA DONNA CHE SI SPOGLIAVA
MI HA FATTO FORMICOLARE LA PANCIA
E AVREI TANTO VOLUTO VEDERLA NUDA.
Ci volle un po’ perché smettessi di pensare che mio padre l’avesse capito al volo e
riuscissi a entrare finalmente nell’innocente e solare mondo di Ti-Kojo e il suo pescecane.
Parallelamente al progressivo aumento della frequenza delle piacevoli strane sensazioni, intente a stuzzicare la pancia e i suoi dintorni, anche la testa cominciava ad occuparsi della materia, logicamente da un punto di vista più razionale, oserei dire para-scientifico. Alcuni nodi venivano al pettine, e sembrava che i grandi interrogativi della portata di
ma come cavolo nascono i bambini? tendessero sorprendentemente a sovrapporsi ai temi più
scottanti, per meglio dire sporchi.
Si sapeva, soltanto perché la cosa era evidente e non certo perché qualcuno si fosse
preso la briga di informarci ufficialmente, che i bambini se ne stanno nella pancia delle
donne in stato interessante finché non nascono. Tutto il resto, sia a monte sia a valle dell’assunto, non godeva di alcuna certezza. Era un territorio buio, che le più azzardate conget106
ture e le tesi più sconvolgenti tentavano periodicamente di illuminare. A scuola, durante
l’intervallo, spesso prendevano vita accesi dibattiti tra studiosi delle più disparate scuole di
pensiero. Io, ad esempio, per un certo periodo sospettai, per fortuna solo tra me e me, che
nel concepimento di un bambino giocasse un ruolo chiave la fede nuziale, che una volta
infilata al dito innescava il misterioso processo. Ecco perché bisogna essere sposati, per avere i
bambini.
Ma era solo una delle tante teorie fantasiose destinate ad essere spazzate via dalla
crudezza animale del teorema che un giorno venne annunciato da qualcuno che aveva
almeno un fratello maggiore: devi mettere l’uccello nella cosa delle femmine.
La disgustosa ipotesi cominciò incredibilmente ad attecchire, suffragata via via da
altri sentito dire, variazioni sull’impianto base variamente credibili, ma in ogni caso raccapriccianti al solo pensiero.
Devi metterglielo nel sedere, non nella cosa. No, va messo nella cosa e ci devi fare la pipì.
Dove? Dentro, devi pisciarci dentro, per far nascere i bambini! Ma dài…non è vero. Giuro!
Gli adulti latitavano. Pronti a somministrarti certezze in ogni frangente e per ogni
circostanza della vita, di fronte al sesso diventavano evasivi e sfuggenti come anguille.
Totalmente impreparati, latitavano i genitori e latitavano gli insegnanti. Aspettavano che
tu crescessi cavandotela da solo come avevano dovuto fare loro, con il passaparola, le barzellette sporche, le mezze verità intercettate per caso in un discorso tra grandi, e per tenerti
distante avevano minato con la vergogna il terreno tutt’intorno alle cose del sesso.
Ma la sete di verità non può essere soffocata all’infinito, e la mia insistenza una sera
ottenne quel che poteva ottenere da una mamma imbarazzata quanto sbrigativa che non
smise nemmeno di preparare la cena.
«Oh insomma...» cercò di minimizzare «...il...il...membro degli uomini lo sai com’è
fatto, no?...e la natura delle donne è...è fatta un po’ come una mandorla...» e mi guardava,
poveretta, sperando che io avessi già afferrato le logiche conseguenze di tutto questo. Per
sua sfortuna, io aspettavo il seguito.
«E così...insomma... » e mia madre mimò il gesto che avevo già visto fare sfacciatamente dai bambini più grandi per ridere o per prendere in giro qualcuno, infilando
l’indice di una mano nell’anello fatto dall’altra.
Mai come in quel momento quel gesto mi sembrò tanto orribile, così com’era orribile la rivelazione che conteneva. Si faceva così, si faceva davvero così...e questo non
era nemmeno il peggio. L’impensabile, l’insostenibile era che loro l’avevano fatto così! La
mamma e il papà ci avevano concepiti facendo le cose sporche e io adesso devo fare i conti
con l’oscenità della visione che sta cercando di prendere forma nella mia testa, mentre la
parte di mente che ancora mi è fedele fa di tutto per impedirglielo.
Voglio solo scappare, e scappo nella mia camera gridando come un pazzo «Nooo!
107
che schifo! che schifooooo!»
Crac. Ecco che un altro pezzo del dorato mondo delle favole si è sbriciolato, per
sempre. Era un pezzo unico, e nulla potrà mai più ricostruirlo.
Per te ci sono buone speranze che possa essere tutto un po’ più semplice, visto che
da quando hai l’età sufficiente per nominarla sai che la cosa a forma di mandorla che hai
tra le gambe si chiama vagina, anche se per gli amici, e anche per tua mamma che ha in antipatia quella parola, continua a chiamarsi patata. Certo, vagina non è un gran bel nome,
come del resto anche pene, ma tant’è, gli aggeggi si chiamano così e non per colpa mia. E
chiamare le cose con il loro vero nome, soprattutto se ci avrai spesso a che fare, è sempre
il modo migliore di cominciare.
Riguardo la tua educazione sessuale io non ho nessuna intenzione di latitare, anche
perché, se ho ben capito come vanno le cose, ci penseranno i tuoi insegnanti a continuare
imperterriti a farlo, nel rispetto di quella solida tradizione cattolica che a tutt’oggi ama
decidere per noi come dobbiamo educarci. Le poche tue domande alle quali ho finora
risposto mi hanno già fatto stravincere il confronto a distanza con chi avrebbe dovuto
educare me, quindi sono molto rilassato. Per ora siamo arrivati al botanico semino del
papà nella pancia della mamma, ma sono pronto ad affrontare i successivi dettagli, quelli
relativi alla consegna, in assoluta tranquillità. Parlare serenamente di qualcosa prima che
diventi sporco è già un bel vantaggio, non c’è che dire.
L’unico possibile effetto collaterale indesiderato di questa naturalezza nel parlare di
sesso, potrebbe essere teoricamente rappresentato da un’eventuale riduzione del piacere di
praticarlo, che più di tanto non potrà attingere al gusto del proibito, che ha garantito per
secoli le vette più alte del cattolico godimento. Ammetto senza reticenze di essere convinto che in fatto di sesso nulla come il
proibire dia gusto al trasgredire, e niente come il coprire possa esaltare lo scoprire. Pur
non avendo vissuto le ottocentesche palpitazioni per la visione fugace di un polpaccio
femminile, mi sono sempre chiesto cosa diavolo si possano inventare di eccitante i nudisti
per recuperare in qualche modo il patrimonio emotivo integralmente perduto con la scelta
della nudità.
Un corpo umano nudo alla piena luce del sole è per me quanto di meno invitante
possa esserci. L’Ecce Tetta, che nega brutalmente alla scoperta personale la sua benefica funzione, spiattellando la cruda essenza della carne come un petto di pollo nella vaschetta,
non è altro che il suicidio dell’eccitazione, una vera barbarie erotica. Non mi sento così
oppresso dai vestiti, e men che meno da un costume da bagno, da essere disposto a barattare la libertà dagli indumenti con la libertà dai miei modesti ma intransigenti impulsi
sessuali, che apprezzano i regali solo se prima sono incartati, e ancora di più se scartarli è
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una cosa che si fa segretamente, compiacendosi al contempo della scoperta e della propria
lussuria nello scoprire. È il prezioso risarcimento che solo la vergogna è in grado di offrire
a chi è stato cresciuto con l’obbligo di obbedirle: un potente elisir del piacere, distillato
dalla più pura ipocrisia. Mi spetta di diritto, e non vorrei mai dovervi rinunciare.
Ma questo è soltanto il mio pensiero, in un campo dove il gusto personale ha ormai raggiunto una varietà di posizioni e di obiettivi (in tutti i sensi dei termini) davvero
ragguardevole, tanto che viene da pensare che il rimedio a qualunque generico calo della
libido consista nell’alzare sempre più l’asticella del livello di presunta trasgressione da raggiungere, all’occorrenza superandosi di meeting in meeting, alla ricerca della prestazione
storica.
Ultimamente, nelle pagine dei giornali trovano spazio sempre più spesso cronache
di incontri sessuali particolari, così particolari da finire in tragedia con la morte di uno dei
partecipanti. Non di vergogna, ma per soffocamento. Appesi al soffitto con l’intento di
torturare il piacere più profondo fino a costringerlo a cedere e a uscire da tutti i pori. Pare
che sia molto bello, se non è l’anima a uscire prima.
Quando sei nata, anch’io mi sono immediatamente costretto a un terribile esercizio, una sorta di ginnastica mentale molto preventiva, che al momento opportuno, secondo i miei calcoli, dovrebbe aiutarmi a limitare i tradizionali dolori lancinanti che la grande maggioranza dei padri italiani prova facendo i conti con una precisa, spietata realtà: la
mia bambina scopa o, peggio ancora, c’è un maschio che si scopa la mia bambina.
Non eri ancora uscita dall’ospedale, e io avevo già cominciato a confrontarmi con
l’idea della tua proiezione futura che fa sesso, spingendomi addirittura là dove mente paterna rischia d’impazzire: ebbene sì, la mia bambina scopa e fa sesso orale. Con un nero. No, non
sono razzista. Semplicemente ho il coraggio di guardare in faccia la versione peggiore del
fantasma che la mia cultura mi ha assegnato. Comunque sia, fino a qua ci posso arrivare.
A immaginarti appesa, imbavagliata e legata come un arrosto della domenica scusami ma
proprio non ce la faccio.
Anche tuo padre ha i suoi limiti.
109
Quindici
Forse dovrei muovermi più lentamente, o forse più velocemente
Forse dovrei muovermi più lentamente, o forse più velocemente.
Poco fa ho rallentato e per un attimo mi è sembrato che le piacesse di più, ma subito dopo mi ha afferrato il fondoschiena e ha cominciato a battere un ritmo più sostenuto,
come un fantino che spinge sul collo del cavallo in dirittura d’arrivo. Sento che un’altra goccia di sudore ha iniziato a scendermi tra i capelli verso la
fronte. Tra poco uscirà allo scoperto, imboccherà la rampa del naso come fosse un trampolino, spiccherà il volo e atterrerà da qualche parte del suo viso come ha fatto la prima.
Spero solo che non le finisca in un occhio.
Concentrati, non puoi pensare alle gocce di sudore e al suo piacere contemporaneamente.
Guardo i suoi occhi chiusi che chissà che o chissà chi stanno vedendo, la sua aria
trasognata che di tanto in tanto spegne il sorriso e sembra addolorarsi di un piacere più
intenso, e cerco ostinatamente di capire quel poco o niente che può capire un uomo di una
donna mentre fa l’amore.
Non c’è niente da capire, c’è solo da fare. Pensare non serve, lasciati andare.
Mica facile, quando si ha una missione da compiere. Una missione da niente, quella
di un maschio qualche gradino sopra il suo mero rango bestiale al momento di accoppiarsi: dimostrare con garbo di essere il migliore, in una lotta a distanza con chi mi ha
preceduto e anche con chi dovesse disgraziatamente, presto o tardi, seguirmi.
Il mio piacere viaggia in parallelo a quello che prova l’altra metà dei partecipanti all’amplesso, per questo non so quanto mi sarà concesso goderne. Brilla di riflesso, quindi è condannato a confondersi davanti a uno specchio che mi rimanda emozioni intraducibili. Se fossimo davvero speculari, saremmo entrambi in attesa del piacere dell’altro per
poter finalmente liberare il nostro, entrambi causa diretta e indiretta dell’impossibilità di
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raggiungerlo. L’empasse. A meno che uno dei due non cominci a pensare a se stesso.
Adesso ci provo. Penso a me stesso e mi accorgo che non sto sentendo ciò che dovrei. Ho i polsi indolenziti, da troppo tempo stanno resistendo all’angolo che formano le
braccia con le mani, piantate a palmi aperti nel materasso ai lati delle sue spalle. Quest’esercizio ginnico di coppia sta durando da troppo tempo, perché le mie sensazioni (forse
anche le sue, non capisco) non finiscano per logorarsi come materiale di consumo.
Più passa il tempo, scandito dall’essenziale volgarità del meccanismo che siamo diventati e
dal battito regolare di carni umide che vanno l’una contro l’altra, e più sento aumentare la
distanza tra me e il centro di tutta l’azione, isolato da una sorta di blanda anestesia locale.
Mi accorgo che non mi sto divertendo.
L’avresti mai detto che anche per un maschio il sesso non è sempre una cosa facile?
Assorbito lo choc della rivelazione ufficiale dell’umana fecondazione, la mia educazione sessuale era rientrata nei suoi consueti binari, alimentata sporadicamente da nuove
scoperte da parte del consesso degli esperti di classe e da personali ricerche bibliografiche
di carattere scientifico-filologico sui tomi di casa.
figa (fì-ga) s.f. Variante region. di fica
fica (fì-ca) (region. figa) s.f. 1. pop. Vulva
vulva (vùl-va) s.f. Il complesso degli organi genitali esterni femminili.
[Dal lat. vulva]
Cosa significa “organi genitali esterni”? ne esistono anche di interni? L’enciclopedia non precisava. E l’assenza di un’illustrazione in merito non placava la mia sete di conoscere. Qualche pagina prima potevo scoprire com’era fatto, fin nei minimi particolari e
con tanto di legenda, un voltametro di Hoffman per l’elettrolisi dell’acqua, ma vedere com’era
fatta una vulva questo no, non era possibile.
Purtroppo neanche l’arte entrava nel dettaglio, ma era comunque divertente andare
a guardare le donne nude nei dipinti. I Maestri del Colore, una colossale opera a dispense
che aveva tenuto tua nonna impegnata per un tempo interminabile nella raccolta dei fascicoli, poi dei raccoglitori e infine degli arretrati inevitabilmente sfuggiti, mi permise di
farmi un’idea dei pittori più interessanti da questo punto di vista.
Feci così conoscenza con la Maya Desnuda di Goya e le sue poppe a sventola, con
la tizia dipinta da Monet che fa pic-nic nuda insieme a due uomini vestiti e con parecchie
veneri bianche, burrose, dai fianchi immensi, la panciona e le tette piccole. Nessuna di
queste concedeva troppo al mio sguardo, e molte si coprivano con la mano quello che,
bene che andasse, si mostrava come un triangolino scuro e niente più.
Mi guardavano con un’espressione indefinita, vagamente bovina. Nessuna di loro
assomigliava neanche lontanamente alle spogliarelliste di Notti e donne proibite e nessuna
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sapeva muovermi qualcosa nel basso ventre, con una sola eccezione: un dipinto di un certo Modigliani intitolato Nudo sdraiato a braccia aperte, l’unico che sembrava appartenere a
un essere vivo e caldo, apparentemente felice di trovarsi lì ad attenderti. A braccia aperte,
appunto. Malgrado fosse molto più stilizzata di ogni altra, quella donna che non possedeva nemmeno un nome catturava i miei occhi con le curve essenziali che il suo corpo
disegnava sul letto con il colore della sua pelle abbronzata, e non con il solito incarnato
marmoreo venato di blu e di rosa. Il suo triangolino scuro non era molto diverso da quelli
delle altre, ma le cosce in mezzo a cui stava facevano la differenza: non le teneva serrate
ma soltanto accostate, e parevano pronte a schiudersi da un momento all’altro per rivelare
finalmente il loro segreto. Sembrava che dormisse ma io sapevo che faceva finta. Sorrideva
senza vergogna ed era bella come nessun’altra.
Anche le illustrazioni nel librone della Divina Commedia erano piene di donne
nude. E anche Gustave Dorè, quello che le aveva fatte, oltre a prediligere la solita donna
giunonica e culona, se n’era ben guardato dall’approfondire graficamente il discorso relativo alla vulva. Se sfogliavo spesso quel tomo era perché mi piaceva guardare i diavoloni che
svolazzavano prendendo a forconate chiunque gli venisse a tiro e gli svariati tormenti che
venivano inflitti ai dannati dell’inferno, come lo stare a bagnomaria nella cacca, prendersi
una pioggia di fiamme e altre premure del genere. Il paradiso era di una noia mortale.
Ma mentre io mi trastullavo con le mie ricerche casalinghe la scienza del sentito
dire faceva grandi progressi, e portava nuove scoperte ai congressi dell’intervallo.
Se te lo tocchi tanto quando è duro... Duro quanto? Duro duro... a un certo punto ti esce della roba e vuol dire che hai goduto. Della roba cosa? Della roba bianca che si chiama sboa. Ma che
sboa...si chiama sburra, me l’ha detto mio cugino grande!
Io ci provavo da un po’ di tempo, a toccarmelo con finalità sperimentali. Chiuso
nel bagnetto di servizio, di tanto in tanto tentavo di mettere in pratica coscienziosamente
le teorie più accreditate dal consesso scientifico. Mi aspettavo che succedesse qualcosa di
straordinario senza avere la più pallida idea di quanto sarebbe stato straordinario il qualcosa, scettico e speranzoso al tempo stesso. Sfregavo il mio pisello come fosse stato la lampada di Aladino, mica tanto convinto della possibilità di un’improvvisa apparizione del
genio, ma deciso comunque a non lasciare nulla d’intentato. Non si può dire che durante
l’operazione provassi quel che si dice un grande piacere, ma avevo una missione scientifica
da compiere. E finalmente un giorno la portai inaspettatamente a temine.
Improvvisamente, come improvvisamente puoi scoprire che il tuo corpo è capace
di vomitare e che se ha deciso di farlo lo farà malgrado te, una sensazione senza precedenti ristabilì la doverosa distanza tra le cose tentate e le cose compiute. La differenza tra il
giocare con i fiammiferi vicino alla miccia e quello che succede dopo che l’hai accesa sul
112
serio.
E come credo succeda a quello che giocava coi fiammiferi nell’attimo immediatamente precedente la sua scomposizione nello spazio, anch’io pensai stavolta l’ho fatta
davvero grossa nel momento in cui il genio della lampada fece la sua repentina comparsa
nel mio mondo e nella mia mano, accompagnato da un’onda che avrebbe dovuto essere di
piacere, ma che invece fu di puro spavento.
Col fiato grosso e gli occhi sbarrati pensai che fortunatamente ero sopravvissuto
all’esperienza, dopodiché mi pentii con tutto me stesso e giurai che non l’avrei fatto mai
più. Mai, mai e poi mai.
L’importante è finire, come cantava Mina. Non mi sono mai trovato d’accordo con
una canzone come in questo momento. E sono abbastanza convinto che anche la ragazza
che se ne sta sdraiata sotto di me come mamma l’ha fatta non possa che concordare.
Bagnati di sudore come due pugili alla fine dell’ultima ripresa, scivoliamo l’uno
sull’altra senza più alcun attrito, producendo di tanto in tanto qualche pernacchietta se le
nostre pance viscide s’incontrano in un certo modo.
Non pensare alle pernacchiette, concentrati, hai tutto quanto ti serve per provare piacere.
In effetti, la vista che mi si presenta al breve orizzonte di questo letto che non è il
mio sembra il ritratto fedele del mio desiderio esaudito. Ciò che volevo che succedesse è
successo, ciò che volevo baciare e toccare è stato baciato e toccato e ciò che volevo vedere è
qui davanti a me in tutta la sua inconcepibile concretezza, corredato di impagabili afrori.
Poco sotto la faccia barbuta di Cat Stevens, che mi fissa dal poster appeso sopra il
letto, la sua giovane fan sta concedendo le sue sode grazie al sottoscritto, che dalla vita
non chiedeva niente di meglio ma che ora quasi se ne domanda il perché. La realtà sta
superando la fantasia, e probabilmente è proprio questo il mio problema. Ho bisogno di
un po’ di fantasia.
Trascorso qualche anno dalla drammatica apparizione del genio senza essere riuscito a tener fede al mio proposito di castità per più di un paio di giorni, mi trovo ancora,
per l’ennesima volta, sul luogo del misfatto. Non c’era voluto molto, per scoprire sulla mia
pelle che il terribile pentimento che ne era seguito era sì dovuto a un sincero spavento, ma
aveva anche parecchio a che fare con quella cosa che i francesi chiamano poeticamente
petite mort, e che un motto latino riassume molto più prosaicamente in post coitum omne
animal triste est. Era una brutta sensazione, ma durava poco. E una volta passata si poteva
ricominciare, volendo anche più allegramente di prima. Magari in compagnia di una donna che ti si offrisse sfacciatamente nuda dalle pagine di un bel giornale sporco.
Dopo aver felicemente scoperto la sua esistenza, Daniele e io eravamo diventati
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appassionati lettori di Caballero, un sedicente Quattordicinale per uomini che all’inestimabile pregio del prezzo contenuto (lire 250) univa una qualità forse ancora più preziosa: le
dimensioni contenute. Mentre tutti gli altri giornali più o meno sfacciatamente dedicati
all’hobby delle donne nude avevano quelle di un tradizionale rotocalco, il pratico Caballero
non era molto più grande di un Topolino o di un Tiramolla. Questo ne rendeva molto più
semplice l’occultamento casalingo, operazione molto delicata per qualunque ragazzino
dotato di una mamma che, con la scusa di mettere in ordine, non poneva alcun limite al
suo raggio d’azione, cassetto dei segreti compreso.
Per ridurre all’osso l’ingombro del proibito, io e Daniele non solo evitavamo di
conservare il giornaletto nella sua interezza, ma operavamo al suo contenuto una selezione preliminare severissima, da cui si distillava soltanto il meglio. Per prima cosa, però, il
Caballero andava acquistato.
Una volta in possesso delle lire 250, occorreva un edicolante compiacente, uno che
non si facesse problemi a vendere giornali sporchi a un ragazzino. E non era una cosa scontata. Poteva anche succedere che nella stessa edicola dove la volta precedente era andato
tutto liscio trovassimo un tizio diverso, che al momento topico sibilava Ci hai mica l’età,
per quella roba lì.
Le edicolanti di sesso femminile andavano assolutamente evitate, non soltanto perché il fatto che fossero donne aumentava il livello di vergogna da superare, ma perché nove
volte su dieci il Caballero non te lo vendevano neanche a pregare. Quell’unica possibilità
favorevole capitava solo nel caso in cui la giornalaia era così vecchia e rintronata da non
avere neanche idea di quello che ti stava dando e si limitava ad incassare il prezzo di copertina.
Un’altra buona regola da seguire perché l’impresa andasse a buon fine era quella
di non chiedere il giornale, di non chiamarlo per nome ma semplicemente prenderlo e
posarlo davanti al giornalaio insieme ai soldi, senza dargli troppo tempo per riflettere
sulle implicazioni educative del nostro acquisto. Inoltre, non dover parlare ti evitava quei
tremori imberbi nella voce che avrebbero potuto far scattare l’allarme morale nell’animo
dell’edicolante. Ma dover prendere il Caballero con le proprie mani significava dover prima
individuare dove si trovasse tra le altre riviste: questo costringeva a prolungati sopraluoghi
che potevano insospettire l’individuo e limitava la scelta delle edicole a quelle che lo tenevano a portata di vista e di mano, escludendo invece quelle dove stava nascosto all’interno
o addirittura in mostra nelle vetrinette chiuse a chiave.
Daniele era molto più disinvolto di tuo padre, nell’affrontare la missione. Motivo
per cui molto spesso la sua quota di compartecipazione si riduceva sensibilmente, perché
lui ci metteva l’azione. Io ero ben felice di spendere qualcosa in più per evitare quello che
poteva facilmente risolversi in un bagno di vergogna.
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Una volta che l’oggetto del desiderio era nelle nostre mani, si rendeva necessario
trovare un luogo sufficientemente appartato per poter procedere alla visione del contenuto
e alla conseguente sua spartizione. Non avevamo molte possibilità, al di fuori delle panchine più isolate del parco Sempione, quindi lì finivamo, sperando non fossero occupate
da una coppia che limonava, come noi alla ricerca di un nascondiglio per non rischiare di
essere multata nel caso un vigile di passaggio l’avesse sorpresa in atteggiamenti sconvenienti.
Per allarmare un pubblico ufficiale gonfio di zelo democristiano era sufficiente che i due
si tenessero abbracciati, anche a lingue ferme.
A nostra volta dovevamo stare attenti ad eventuali sporcaccioni dalle finalità non
ben chiare, quelli che sulle stesse panchine lasciavano talvolta giornali anche più sporchi
del nostro fatti a brandelli e gettati tutt’intorno, come se la loro visione avesse scatenato
un’incontenibile rabbia.
Noi, invece, eravamo molto discreti e sistematici. Con un occhio alle pagine e un
occhio di guardia, sfogliavamo il nostro giornale una prima volta per averne un’idea
complessiva (come succede anche alle migliori testate, c’erano numeri più interessanti di
altri), dopodiché si ricominciava dall’inizio, scegliendo le pagine preferite e staccandole
con cura. Una a testa, democraticamente, fino ad accumularne entrambi una dozzina.
Il blocchetto spigoloso di pagine piegato in quattro che ci ficcavamo in tasca era il
sudato bottino finale di tutta l’operazione. Quello che, come ti dicevo, andava accuratamente occultato in un posto sicuro.
Da un po’ di tempo avevo trovato un nascondiglio perfetto, nello stesso luogo atto
alla consultazione dei sacri testi e ai conseguenti rituali: il bagno di servizio. Avevo scoperto che il linoleum che ricopriva il pavimento non era incollato e si sollevava agli angoli
con facilità, così ne scelsi uno, sotto il quale riposi il mio piccolo tesoro per uomini.
Ed eccoci tornati a quella sera in cui, dopo aver chiuso a chiave la porta, mi accingo a dare un’occhiata alla mia collezione proibita. Sollevo il linoleum e non trovo niente,
niente di niente, e il sangue mi si gela nelle vene, anche se in realtà sento improvvisamente
bollire le orecchie mentre i battiti del cuore mettono la quarta. Temo il peggio, perché al
peggio non c’è ipotesi alternativa. Esco velocemente dal bagno, come se la mia permanenza in quel microscopico luogo potesse aggravare ulteriormente la mia posizione.
«Paolo! Vieni un po’ qui!»
Ecco il destino a cui devo andare incontro. È in cucina, e ha le sembianze di una
madre inviperita e schifata contemporaneamente.
«Stai cercando queste porcherie?»
Vedere mia madre tenere davanti a sé come un topo morto per la coda il mazzetto
di pagine da cui, qua e là, faceva capolino qualche tetta prosperosa fa immediatamente
raggiungere alla mia faccia una temperatura insostenibile.
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«Ma non ti vergogni?» chiede agitandomi il topo morto sotto il naso.
In questi casi si può solo tacere e abbassare lo sguardo.
«Sono cose da vecchi sporcaccioni, queste!»
Me ne rendo conto, e mi chiedo se per caso esista anche qualcosa di adeguato a noi
ragazzini sporcaccioni.
«Ho visto una gobba nel pavimento...ma chi andava a pensare di trovare questo
schifo!»
Ecco come se n’è accorta. Avevo esagerato con lo spessore. Che imbecille. Un nascondiglio perfetto bruciato per sempre dall’ingordigia.
«Vergognati!»
Lo sto facendo già da un po’, tanto per cambiare. Sono bravissimo, io, a vergognarmi.
«E stasera senti il papà!»
Non mi facevo troppe illusioni sulla possibilità che un reato di questa gravità potesse essere sbrigato dalla giustizia ordinaria della mamma. Era roba seria, questa. Sarebbero state rogne grosse.
Rimango lì, pietosamente muto, a guardare mia madre che chiude momentaneamente il discorso strappando a metà le pagine di Caballero con gesto plateale, separando
per sempre tra loro i glutei di una bionda a cui ero molto affezionato. Penso che non la
vedrò mai più, e anche per questo mi sta venendo da piangere.
Allora, arriva o no, questa fantasia? Ricordati che hai ancora una missione da compiere.
Non saranno certamente le femmine di Caballero, a potermi aiutare a fare in modo
che il corpo della ragazza e il mio possano finalmente sciogliersi da questa specie d’incantesimo che da troppo tempo ci costringe a spingerli con forza l’uno contro l’altro come se
solo scavando nell’altro si potesse trovare la chiave della propria libertà.
Alla mia fantasia, che in questo caso sarebbe più onesto chiamare archivio, serve
evocare qualcosa di più di una ragazzotta con gli occhi esageratamente truccati e i capelli
gonfi anni ’60 che mi mostra le tette, rigorosamente solo quelle, facendo una smorfietta
sorpresa come se la cosa fosse del tutto accidentale, come se il telo di spugna che continua
a coprirle il resto fosse scivolato suo malgrado.
Perché, occorre dirlo, quello era più o meno lo stato del nostro proibito quando io
e Daniele cominciammo ad affidare alle edicole della zona Sempione il perfezionamento
della nostra educazione sessuale. Erano foto molto più castigate delle dodici che qualche
anno fa componevano il calendario di un’attuale Ministra del Governo Italiano prima che
diventasse tale.
È così, che funziona: tra i cambiamenti garantiti dal passare del tempo vi è sicura116
mente quello che periodicamente adegua il cosiddetto comune senso del pudore, una specie
di bollettino non scritto che vorrebbe fissare i limiti di cosa puoi fare in fatto di sesso e
nudità senza scandalizzare la maggioranza delle persone che ti stanno intorno. Definisce
pressappoco tutto quello che sta al di qua della linea ideale che divide la decenza dall’indecenza.
Da quando sono nato, il cambiamento è sempre andato in una sola direzione, ovvero quella di una sempre maggiore libertà dei costumi (e conseguentemente anche dai costumi) ed è ragionevole supporre, a meno che il potere non venga preso da fanatici religiosi
braghettoni, che indietro non si torni.
Questo ti può spiegare perché il primo giornale sporco che ho sfogliato conteneva
le ingenue nudità che t’ho detto, mentre nell’ultimo era impossibile evitare primissimi
piani di rapporti anali e di pirotecniche eiaculazioni. Se la decenza allarga il suo territorio,
automaticamente l’indecenza deve fare altrettanto per superare se stessa e non soccombere.
Infatti oggi non ti tocca nemmeno uscire di casa, per rimediare qualche visione: il porno è
lì nel tuo computer in tutte le sue immaginabili e inimmaginabili variazioni e ti sarà più
difficile evitarlo che trovarlo. Nel giro di un paio d’anni, forse anche prima, tua madre ed
io dovremo aggiungerlo alla lista delle cose da cui proteggerti.
Ecco, così. Vedi come ti scorrono negli occhi , se solo vuoi, le immagini che ti servono?
Già, ma preferirei che mi bastassero quelle in diretta. Quelle reali. Dovrebbe funzionare così, credo. Ma a quanto pare la realtà non è abbastanza porno per rappresentare adeguatamente se stessa, anche quando si comporta nello stesso identico modo. E a
quanto pare, l’intera faccenda non è abbastanza meccanica per risolversi da sola. Quello
che dicevano essere l’indiscusso mattatore in scena al momento debito si rivela un attore
mediocre, completamente dipendente dai sussurri del suggeritore. Nel bene e nel male.
Dicono che il sesso sia una questione di testa: cosa aspetti a usarla?
E sia. Vado a spalancare il portone che dà sulla sala principale del mio cervello e
lascio irrompere la banda al completo dei fantocci preferiti dal mio desiderio, fantasmi di
carne vera che si spingono l’un l’altro nella foga di assecondarmi, pronti a cambiare gesti
e fattezze al minimo capriccio di un solo neurone. Loro sì, in chiaro, rassicurante sincrono col mio piacere, sanno che in fondo non mi serve altro che una banale conferma, per
poter lasciare finalmente al mio corpo l’onore di concludere come mi si chiede di concludere. E allora basta poco perché tutto cambi, perché la ragazza si allontani da Cat Stevens
e dai ninnoli scemi e dalle coste dei libri di scuola coi cuoricini di biro rossa sulla mensola
di fronte a me e cominci ad assomigliare sempre più ai miei spudorati ectoplasmi.
Adesso le cose tornano e dalla fatica viene fuori un senso a cui tutto ubbidisce
quasi senza più sforzo e quasi con disperazione, fino toccare il punto di non ritorno, che
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benedetto sia, oltre il quale è tutta discesa. Giù, fino all’incredula violenza dell’ultimo
spasmo. Ho finalmente finito di fare l’amore, cosa che ha poco a che fare con quello che io
chiamo amore.
Tra pochissimi istanti vorrò essere altrove.
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Sedici
Il giretto della domenica mattina era la mia condanna
Il giretto della domenica mattina era la mia condanna. Salvo casi davvero eccezionali, ogni domenica, nell’esatto momento in cui, finita la colazione, stavo cominciando a
gustarmi una qualsiasi attività ludica da camera, ecco che puntualmente andava in scena
il solito copione. Mia madre si palesava nel vano della porta e allegramente buttava lì:
«Paolo, vai col papà a fare un giretto!»
«Nooo…il giretto no, ti prego!»
A quel punto, immancabilmente, la voce della mamma si riduceva a un sussurro
circospetto:
«Dài, lo sai che ci tiene…ci resta male, se non vai. Fai il bravo…»
Doveva parlare a bassa voce perché oltre la porta della mia camera, nell’ingresso, si
poteva già vedere mio padre che si preparava a uscire apparentemente senza far caso a noi.
Lui non proponeva, non chiedeva, non obbligava. Lui andava a fare un giretto e ci restava
male se io non lo accompagnavo. Perlomeno secondo quel che sosteneva la mamma. Quindi, immancabilmente, io non riuscivo ad evitare di unirmi a lui, e malgrado la mia faccia
sicuramente tradisse con quanta poca gioia lo facessi, mio padre non trovava mai nulla che
valesse un qualsiasi commento, dandomi ogni volta l’impressione, più che di tenere alla
mia presenza, di esserne completamente indifferente. Ma questo non cambiava le cose, e
dove non arrivava l’obbligo ci arrivavano i sensi di colpa: come potevo lasciare che quel
pover’uomo se ne andasse in giro tutto solo la domenica mattina, dopo aver sgobbato tutta la settimana per farmi crescere nel benessere? Solo un figlio senza cuore avrebbe potuto
farlo rimanendosene poi a giocare tranquillamente. E io la mia copia di Cuore nella libreria
ce l’avevo eccome, e aveva già prodotto su di me danni irreparabili.
Così, immancabilmente, lo accompagnavo, e mai verbo fu più preciso.
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119
La mia presenza non influiva minimamente sulla destinazione che si era prefisso, e
mai diventava lo spunto per fare della sua necessità di camminare facendosi venire appetito
e della mia di divertirmi un tutt’uno. Al contrario di quello che in casi analoghi succede
tra me e te quando io, per convincerti a staccarti dalla casa e dai tuoi giochi, mi costringo
a rilanciare proponendoti qualcosa di particolarmente appetibile all’interno del pacchetto
dell’uscita: il parco giochi preferito, la giostra del centro, dare il pane ai cigni, eccetera
eccetera.
Questo perché io non potrei sopportare l’idea che tu venga con me del tutto controvoglia, mossa dalla pena che provoca un padre che va a far due passi da solo la domenica mattina e da una madre che la innesca facendotelo notare. Mio padre, invece, non
si lasciava neanche sfiorare dalla tentazione di apportare una variazione, anche minima,
all’itinerario che avrebbe percorso da solo per rendermi più desiderabili quelli che di fatto
erano gli unici momenti che ci vedevano insieme.
Usciti di casa, entravamo subito nel parco Sempione al di là della piazza, in direzione del centro città. A te sembrerà strano, come del resto anche a me, ma non era previsto portarsi appresso un qualunque gioco, mai. Niente, neanche un modesto pallone,
quell’oggetto che qualunque padre italiano non disdegna mai di prendere a calci, al limite
fingendo di farlo svogliatamente. E nemmeno un frisbee, anche perché non era ancora stato
inventato. Noi avevamo da camminare, mica da giocare. E se per caso passando di fianco
all’Arena ci capitava di incappare nel Luna Park, tuo nonno considerava il fatto come
uno spiacevole contrattempo da aggirare nel più breve tempo possibile e non certo come
un’interessante opportunità di divertimento. Noi avevamo da camminare, mica da andare sull’autoscontro o sul calcinculo, o peggio ancora da farci spennare a un baracchino del
tirassegno, magari di quelli che sei fai centro ti fanno la fotografia da far vedere agli amici
dicendo guarda come spara il mio papà! lui ha fatto la guerra da capitano! come l’avevo vista di
altri papà che la guerra non l’avevano nemmeno fatta.
Bel signore, non facciamo sparare il bambino? dicevano sempre le donne del tirassegno,
protendendosi tutte tette trucco capelli e orecchini offrendo il fucile. Come mi sarebbe
piaciuto vedere un bel giorno mio padre fermarsi e imbracciarlo, anziché scivolare via
facendo no con la testa.
Ma noi avevamo da camminare, mica da divertirci. E mentre camminavamo era il
silenzio a riempire se stesso con il rumore dei nostri passi sulla ghiaia, quel silenzio che
non appartiene ai bambini e che io, da bambino che ero, pensavo fosse giusto rompere
rispondendo a tutte le domande che mio papà non mi faceva.
Sai che a scuola…sai che agli scout…sai che…? No. Tuo nonno non sapeva quasi niente
di me, se non per sentito dire, ma non dava l’impressione di preoccuparsi molto per questo. Io invece mi preoccupavo di piacergli, e così finivo per sentirmi ancora più stupido
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e imbranato di quanto pensavo di sembragli e ancora più lontano da quello che ritenevo
avrebbe voluto che io fossi. Come quella volta in montagna, di fronte alla sbarra di ferro
nel giardino della pensione con cui i bambini del posto ne facevano di tutti i colori, quando con un inaspettato interesse a un certo punto mi chiese
«Tu sei capace di tirarti su?» allora io ci provai con tutte le mie forze senza riuscirci,
e capii di averlo deluso.
Allora il silenzio tornava a dire la sua, io a pregustarmi i giochi che avrei fatto una
volta tornato a casa e mio padre ai suoi imperscrutabili pensieri, nascosti dietro il fumo
bianco delle Nazionali senza filtro.
La meta più frequentemente toccata dal giretto della domenica era senza dubbio il
museo del Castello Sforzesco, infatti allora avrei potuto descrivertelo ad occhi chiusi, sala
per sala, molto meglio dei guardiani seduti su una sedia contro il muro insieme alla loro
pancia a lottare contro un sonno micidiale al gusto di fernet, oppure incantati davanti a
una finestra a cercare nell’immutabile panorama un qualunque rimedio per la noia che li
devastava incollando le lancette dell’orologio.
A mio padre quel museo piaceva per tanti motivi, che andavano dalla gratuità
dell’ingresso alla varietà delle cose da vedere, ma soprattutto in ragione di una qualità per
lui preziosa più di ogni altra: la scarsità di pubblico. A quell’ora il museo era pressoché deserto, così il suo bisogno di distanza fisica dal prossimo e da qualunque forma di umano
assembramento (caratteristica trasmessami in eredità più o meno integralmente) trovava
un’adeguata soddisfazione.
Durante la visita potevamo sentire il rumore dei nostri passi solitari rimbalzare di
sala in sala, cambiando leggermente ritmo a seconda del gradimento che il loro contenuto
riscuoteva in noi. Molto veloce lungo le vetrine piene di ceramiche e maioliche sbrecciate
e attraverso i saloni dove gli enormi e polverosi arazzi si sostituivano alle pareti con le
loro carnose scene mitologiche, rallentava leggermente davanti alla collezione di orologi
antichi per poi tornare rapido e ininterrotto al cospetto di trittici e polittici di santi e madonne dall’aria annoiata, persi in un mondo di oro zecchino.
Il tic tac delle nostre suole si fermava una volta entrati nel salone delle armi, dove
entrambi trovavamo finalmente qualcosa che valesse la pena di guardare con sincero interesse.
Visita dopo visita, ero ormai arrivato a sapere con esattezza cosa avrei scelto per armarmi se solo qualcuno me ne avesse dato la possibilità, alla faccia di tutti i cartelli NON
TOCCARE di cui la sala era disseminata. Mi sarei messo l’armatura completa a cavallo
che sembrava quella di Lancillotto nei telefilm, rinunciando al fascino della Barbuta veneziana dorata, ma aggiungendo alla mia dotazione una bella schiavona del XVII secolo, magari
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da usare a due mani, e uno stiletto per il non si sa mai.
Le armi da fuoco non m’interessavano molto: colubrine, bombardelle, spingarde e archibugi mi ricordavano troppo l’armamentario di Paperon de’ Paperoni a difesa del suo deposito insieme ai cartelli con scritto Sciò! e Pussa via! perché potessi prenderle seriamente
in considerazione.
Arrivati al centro esatto della Sala delle Asse le nostre suole tacevano del tutto e il
solo rumore udibile se le nostre pupille fossero state in grado di produrlo sarebbe stato
quello provocato dal loro andirivieni sull’affresco leonardesco della volta a seguire l’intrico dei rami che si intrecciava sopra le nostre teste. Io pensavo che mi sarebbe piaciuto
svegliarmi tutte le mattine aprendo gli occhi su quel bosco. Anche tuo nonno in quel momento sicuramente pensava a qualcosa, ma le mie possibilità di azzeccare a che cosa sono
vicine allo zero assoluto, per cui non mi ci provo nemmeno. Sono però certo che quel
soffitto piacesse tanto ad entrambi, tanto che entrambi evitavamo di fare il primo passo
per lasciare quella sala e aspettavamo in contemplazione col naso all’insù che fosse l’altro
a cedere, cosa che succedeva solo quando il collo cominciava a far male.
Ma c’era qualcos’altro, che non ci stancavamo di guardare: la Pietà Rondanini di
Michelangelo, che nella sua incompiutezza invitava la mia fantasia a prendere lo scalpello
e a continuare l’opera sperando di non sbagliare o cambiare idea come aveva già fatto il
maestro lasciando lì quel braccio solitario per i fatti suoi. Pensavo che non dovesse essere
divertente dover lasciare una cosa così a metà solo perché ti capita di morire prima di
averla finita. Io già m’imbestialivo quando mi succedeva di non poter finire un disegno
perché sul più bello mi mancava il pastello proprio del colore che mi serviva.
Però ero anche contento che gli fosse mancato il tempo per lisciarla, la sua ultima
pietà, così da lasciarmi vedere l’intrico dei graffi lasciati dalla gradina, un racconto capace
di spiegarmi in un istante e meglio di qualunque parola la fatica la rabbia e l’amore con
cui quell’uomo faceva partorire la sua creatura alla madre pietra. Davanti alla Pietà Rondanini c’era una panca di legno, su cui faceva piacere sedersi, un po’ per la stanchezza e
un po’ per continuare a guardarla comodamente cercando di immaginarsi come sarebbe
diventata se la morte l’avesse lasciata crescere.
Dopo la visita al museo del castello, il giretto più classico prevedeva di raggiungere
piazza del Duomo, da dove una virata più o meno ampia verso Brera e Garibaldi ci avrebbe prima o poi ricondotti al parco Sempione, per chiudere l’anello del nostro itinerario
nei pressi di casa.
Occasionalmente, il giretto era comprensivo di messa. In tal caso il nostro percorso
andava inevitabilmente a toccare una chiesa del centro, più precisamente una di quelle incluse nella speciale lista stilata da quell’assurdo personaggio che era mio cugino Franco. 122
La sua lista è l’esempio più significativo a mia disposizione per spiegarti l’atteggiamento con cui una moltitudine di cattolici, tra i quali tuo nonno, osservavano i precetti
della loro religione, posizione sintetizzabile a grandi linee nella massima visto che è una
seccatura inevitabile, sbrighiamocela col minore dei danni.
In perfetta coerenza con questa filosofia, mio cugino Franco, dopo un paziente
lavoro di ricerca e analisi, domenica dopo domenica, aveva selezionato le chiese del centro
città in cui si celebravano le messe più rapide. O per meglio dire, le chiese del centro città
in cui le messe venivano officiate da sacerdoti straordinariamente veloci. Preti di quel raro
genere capace di evitare di somministrare ai propri fedeli interminabili prediche con voce
monocorde e lamentosa, che dopo essere uscita malamente dagli altoparlanti GBC fissati
alle colonne cominciava a rimbalzare da una parte all’altra delle navate, accumulando ad
ogni rimbalzo echi che la traformavano in un suono continuo, un bordone inintelligibile
dall’effetto soporifero assicurato.
La sintesi e la concisione erano invece caratteristiche di gran pregio, per chi come
mio padre e mio cugino vedeva nella messa uno spiacevole intervallo che separava la nazionale spenta un attimo prima di entrare in chiesa da quella accesa non appena usciti sul
sagrato.
Mi chiedi giustamente perché allora andassero a messa tutte le domeniche che il
relativo dio mandava in terra. La risposta è molto semplice: perché andava fatto, senza porsi troppi interrogativi, senza prendere decisioni controcorrente ma anche senza lasciarsi
condizionare da precetti e prescrizioni troppo strette. Come se per un tacito accordo con
Santa Romana Chiesa ci si sottomettesse di buon grado alla consuetudine battezzando,
comunicando, cresimando la progenie e allevandola secondo le regole base della comunità cattolica, sposandosi davanti a un prete e morendo davanti a un altro, seppellendosi
in una cassa con la croce sopra dentro una tomba a forma di croce in un cimitero pieno
di croci, tutto questo ottenendo però in cambio l’indulgenza necessaria per sorvolare
su alcune trascurabili carenze nella propria osservanza a certe regole, come l’obbligo di
fare la comunione almeno a Pasqua, di confessarsi con una certa regolarità o di mangiare
magro il venerdì. Il patto sembrava funzionare: si andava a messa ogni domenica, ci si
faceva il segno della croce passando in macchina davanti a un cimitero o incrociando un
carro funebre, noi bambini tenevamo al collo la catenina d’oro con la medaglietta della
beata vergine, attaccato al calendario in cucina c’era sempre il rametto d’ulivo pasquale e
tuo nonno raramente rinunciava a un eventuale arrosto capitatogli per caso nel piatto di
venerdì.
Quella domenica io me lo sentivo che il giretto mi avrebbe offerto dei contenuti
speciali, come direbbe oggi uno dei tuoi DVD. Persino la direzione insolita che mio pa123
dre aveva preso uscendo di casa (non verso il parco Sempione ma a destra in via Pagano)
sembrava confermare l’eccezionalità del momento. Infatti, dopo un’interminabile introduzione del silenzio più puro che due persone possano produrre camminando fianco a
fianco lungo un marciapiede, tuo nonno diede un leggero colpo di tosse e cominciò il suo
delicato discorso. Non aveva ancora terminato la prima parola e già io sapevo che quello
che stava per dirmi faceva seguito allo scandaloso ritrovamento del pacchetto di foto di
Caballero da parte di mia madre risalente a un paio di giorni prima. Al momento ero riuscito ad evitare una reazione a caldo, la peggiore possibile, ma sapevo perfettamente che
non l’avrei passata liscia e che mio padre avrebbe detto la sua e la sua non era mai roba
leggera. E va bene, forza, leviamoci il pensiero e sentiamo cosa mi tocca.
Ma lui non fece neanche un accenno né al materiale oggetto dello scandalo né all’uso al quale era destinato. Del suo discorso mi ricordo più il laconico fatalismo del modo
che i dettagli della sostanza. Via via che parlava, la mia paura di essere oggetto di sanzioni
punitive svaniva, ma lasciava il posto alla fastidiosa inquietudine che il quadro dipinto
dalle sue parole mi provocava prendendo forma.
Quello che mi disse è riassumibile in poche sentenze. Preso atto della mia più che
naturale voglia di dar retta ai miei acerbi impulsi sessuali, dovevo sapere che:
-
nel caso questi vengano soddisfatti da prostitute, il rischio di contrarre malattie è troppo elevato perché ne valga la pena
-
divertirsi invece con questo genere di cose insieme alla fidanzatina, alla compagna di classe, insomma a una ragazza di buona famiglia, non soltanto è sconveniente
dal punto di vista della buona creanza, ma comporta un altro tipo di rischio, non meno
insidioso: quello di metterla incinta. Un grosso problema, parzialmente risolvibile solo con
il matrimonio, che l’idea piaccia o meno.
Quindi? Quindi non c’era un quindi, questo era quanto. Mio padre non mi suggeriva alcuna soluzione, nessuna possibile terza via. Forse, a ripensarci ora, cercava di farmi
capire senza dirmelo che le mie pratiche solitarie erano in fondo l’unica attività sessuale
consentitami dalle circostanze, da svolgere magari con un po’ più di discrezione. In sostanza, il discorso che mi fece, certamente controvoglia, era semplicemente una fotografia
dello status quo a cui bisogna attenersi e niente di più. Come un orso padre che a un certo
punto decida di trasmettere al cucciolone ormai cresciuto tutto quanto serve sapere: siamo
orsi, mangiamo il miele, d’inverno andiamo in letargo, ci grattiamo la schiena contro gli alberi e
ogni tanto qualcuno di noi viene ucciso e diventa un tappeto. La vita è questa.
Non credo che questa fosse precisamente la sostanza del pistolotto da uomo a uomo
che certamente la mamma gli aveva sollecitato (Parlagli tu, Gianfranco...). La parola sporcaccione non era mai stata pronunciata, perché da uomo a uomo certi istinti non si liquidano
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né si mettono in discussione, al massimo si incanalano tra le paratie della decenza.
Molti anni dopo, un giorno mia madre mi raccontò che la prima reazione di mio
padre, terminato il suo racconto del fattaccio, fu quella di chiederle Ma perché hai stracciato
subito le foto? Potevi farmele vedere, prima.
Così, a causa di una gobba nel linoleum provocata dall’eccessivo spessore delle foto
di un Caballero, tuo nonno si sentì in dovere di mettermi in guardia dalle insidie del sesso,
senza sospettare minimamente che ben altra pulsione metteva più facilmente a rischio di
azioni sconsiderate il suo giovane virgulto.
Quella non era una storia che si poteva concludere nel giro di pochi minuti in compagnia generosa amica di carta.
Quella era una faccenda capace di rivoltarti come un calzino e così lasciarti. Per
ore, giorni e persino pezzi di notte. Un qualcosa che ancora sopravvive alle mode, e che
generalmente, tanto per cambiare, chiamiamo amore.
Del tipo che non si fa ma ti fa. Molto pesantemente.
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Diciassette
Vuoi venire giovedì alla mia festa? Firmato Giovanna.
Vuoi venire giovedì alla mia festa? Firmato Giovanna.
Il bigliettino tutto cuoricini, fiorellini, micini e cagnolini lasciato in portineria da una
bella signorina, consegnato a mia madre dalla Signora Giulia, la portinaia, e infine passato
dalle sue mani alle mie, accompagnato dal commento compiaciuto Però, cominci presto ad
avere delle ammiratrici… mi aveva raggiunto, e io avevo assunto il suo dolce contenuto come
un nettare, anzi, come un balsamo miracoloso, l’unico davvero capace di lenire il dolore
provocato dalle ferite che quotidianamente la frequentazione della Scuola Media Statale
Einaudi mi infliggeva.
Mi chiedo se Beolchi avrebbe cambiato la sua opinione su di me e sul mio orientamento sessuale se avesse potuto vedermi quel pomeriggio alla festa della Giovanna Di Benedetto. Mentre lui mi perseguitava in quanto sospetto culattone, io avevo i primi incontri
ravvicinati con l’altro sesso grazie ai miei fortunati amici in forza alla Mameli, che mi
avevano fatto entrare nel loro fantastico mondo fatto di classi e frequentazioni meravigliosamente miste.
Giovanna Di Benedetto non era quel che si dice una bellezza, però si capiva che le
piacevo eccome, così mi aveva invitato a una delle feste che ogni tanto organizzava, eventi
apprezzati nel giro per la relativa libertà di cui si poteva godere nell’occasione grazie a una
casa molto grande e a una madre abbastanza permissiva.
Era la mia prima festa con le ragazze. Fino a quel giorno, il bello delle feste a casa di
qualcuno stava nei vassoi ricolmi di piccoli panini al latte imbottiti di prosciutto e infilzati dagli stuzzicadenti, nella coca con le patatine, nella torta di compleanno e nei giochi
in cui ci si scatenava oltre ogni limite, finché le mamme non intervenivano, ognuna a
recuperare il suo pargolo rosso, sudato e, come dicevano loro, completamente esaltato.
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Il bello delle feste finiva lì, e moriva nei saluti che non avresti voluto dare, nello scoprire che ormai fuori s’era fatto buio e nell’improvviso, lancinante ricordo di un compito
ancora da finire per l’indomani.
Anche alla festa della Giovanna Di Benedetto c’erano i panini, la coca e le patatine,
ma chissà perché tutto questo ben di dio era improvvisamente passato in secondo piano.
Quanto ai giochi, appena dopo aver conosciuto quello insidiosissimo della bottiglia, scoprivo l’unico intorno al quale tutte le feste di chi ormai non era più un bambino necessariamente facevano perno. Si chiamava ballare, e le ragazze ne andavano matte.
I balli che si ballavano a quell’epoca erano di due tipi: gli shake, ovvero quelli veloci, in cui per l’appunto ci si agitava individualmente, e i lenti, che si ballavano in coppia
muovendosi il minimo indispensabile. Mentre i primi si risolvevano in un rito ginnico
collettivo, i secondi erano l’ideale per stabilire un contatto, il più ravvicinato possibile,
con l’altro sesso.
Nel corso della festa i due balli si alternavano in continuazione: puntualmente,
dopo qualche lento, qualcuno poco interessato alle smancerie (tendenzialmente per mancanza di materiale umano) s’impossessava del giradischi e metteva su uno shake. Ma dopo
una sequenza di shake un cuore palpitante (solitamente di ragazza) riportava l’atmosfera
al suo stato più languido con uno struggente lento. Entrambi gli interventi, e i conseguenti
cambi d’atmosfera, erano salutati da un coro di sii e noo dai rispettivi sostenitori dei due
generi.
A quei tempi non esisteva ancora una musica scientemente pensata per il ballo: le
canzoni che si ballavano erano le stesse che si ascoltavano a membra ferme. Per intenderci,
ci si ritrovava a ballare “Paint it Black” tanto quanto “Michelle” senza che nessuno avesse
qualcosa da obiettare.
Non so chi in quel memorabile pomeriggio a casa della Giovanna Di Benedetto
decise a un certo punto di calare la puntina del giradischi nei solchi consunti del 45 giri
“Rain and Tears” degli Aphrodite’s Child e men che meno a chi venne l’idea di spegnere
qualche luce. Tutto quello che so è che quando la voce di Demis Roussos, dopo qualche
schiocco vinilico cominciò a cantare tra i fruscii e le mie goffe mani si posarono per la
prima volta sui fianchi di una ragazza io mi sarei messo a piangere dalla felicità.
Improvvisamente, nulla aveva più importanza e lo scopo della mia vita mi era d’un
tratto perfettamente chiaro: rimanere in quella situazione per l’eternità, le mani piene di
quella meravigliosa sostanza di cui erano composti i fianchi di Barbara Debono (Barbara,
come la Cremonesi!), gli occhi pieni dei suoi, il naso pieno del suo profumo (il migliore
mai sentito), le orecchie piene di rain and tears are the same… e la pancia piena di una bolgia
di sensazioni mai provate prima. Nessun forno a microonde potrebbe cuocere un ragazzi127
no alla velocità con cui io mi ritrovai cotto quel giorno. Il virus dell’innamoramento mi
era entrato nel sangue e mi ero ammalato gravemente per la prima volta in vita mia. La
prima di una discreta serie.
Se paragono l’innamorarsi a una malattia non è per cinismo, credimi, ma perché
con me ha sempre funzionato così. E se ho parlato di virus dell’innamoramento e non di
virus dell’amore la ragione è molto semplice: del primo mi sono fatto un’idea abbastanza
precisa, mentre dell’altro, perennemente sballottato nel marasma delle sue innumerevoli
specie, dei generi, delle famiglie, degli ordini, delle classi, fino alle sfaccettature personali,
non ci ho ancora capito molto.
Dire “amore” è dire tutto e dire niente, ma dire “innamorato” equivale a una diagnosi abbastanza precisa. Si può amare per tutta la vita? Pare di sì, ognuno a suo modo,
dicono che di controindicazioni non ce ne siano. Si può essere innamorati tutta la vita?
Personalmente ritengo di no. Non credo che corpo e mente possano reggere a lungo in
quelle condizioni anomale di superlavoro emotivo, così come non reggerebbero a un periodo prolungato di febbre a quaranta senza friggersi fino a bruciare. Eppure no, non è
una cosa brutta. Anzi, certe volte non c’è nulla che riesca a farti sentire più vivo. Oppure
più morto. Dipende. Non ci stai capendo niente? Perfetto, sei sulla buona strada.
Così Barbara Debono fu la prima in assoluto a farmi ammalare di lei. Si trattava
di una forma abbastanza leggera, ma proprio perché ancora sconosciuta dal mio corpo i
suoi sintomi fecero a gara tra loro per scombussolarmi, lasciandomi attonito a fare i conti
con un me stesso che non avevo mai incontrato, uno che aveva un solo pensiero nella testa
e intorno a questo faceva gravitare ogni altro, e tanti se ne inventava dal nulla, purché si
dimostrassero capaci di fargli da satellite.
Il centro dell’universo era ovviamente lei, Barbara, quella stessa creatura i cui aridi
compagni di classe chissà come riuscivano a chiamare, semplicemente la Debono, senza
riconoscerle la dovuta venerazione.
Come spesso succede, chi gode di certe fortune non se ne rende nemmeno conto.
Se io avessi potuto non dico sederle accanto, ma soltanto poterla vedere tutte le mattine di
ogni giorno e dividere l’aria presente nell’aula con i suoi polmoni e non con quelli di un
Giuliano Beolchi, avrei anche potuto morire per eccesso di felicità.
Invece il mio sentimento era enormemente sproporzionato, rispetto all’esiguità del
tempo che poteva dedicare al suo oggetto. Niente come l’innamorarsi è in grado far capire
a un ragazzino quanto poco sia padrone del suo tempo e quanto ancora meno lo sia la
ragazzina con cui vorrebbe spenderlo. Ci vogliono i lunghi pomeriggi sul finire dell’anno
scolastico, perché vedersi sia qualcosa di più dell’incrociarsi. Rimanere da soli è una spe128
ranza pressoché vana: la presenza per niente discreta di almeno un’amica è conditio sine
qua non. Per il semplice motivo che a sua madre lei chiederà il permesso di uscire con l’amica, non certo con un ragazzetto mai sentito nominare, nemmeno compagno di classe,
conosciuto per caso a una festa.
Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte, cantava non a caso Gianni Morandi, e
per come andavano le cose in quegli anni poteva essere un’ottima idea.
Se tutto funzionava per il verso giusto, si finiva al parco in bicicletta, a migrare da
una panchina all’altra dopo brevi giri, con le sue amiche in Graziella che ridacchiavano
come iene per tutto il tempo oppure ti guardavano come se fossi un escremento su cui
avevano avuto la disgrazia di mettere il piede e al quale, inspiegabilmente, la loro amica del
cuore non solo aveva deciso di rivolgere la parola, ma addirittura di concedersi diventando
ufficialmente la sua ragazza. Cosa che nella pratica si traduceva nel liquefarti guardandoti
in un certo modo, fingersi arrabbiata con le amiche se ridevano troppo e imbarazzarsi
quando le chiedevi, porgendole la granita di amarena che le avevi offerto al baracchino, se
la prossima volta non si sarebbe per caso potuto fare a meno delle due iene.
Poi rideva lei, e quando Barbara Debono mi rideva davanti con i suoi mille denti
bianchi io magari non capivo esattamente qual era il motivo preciso di tanta ilarità, ma
non aveva importanza, sarei stato a guardarla ridere per ore, possibilmente da vicino, sempre più da vicino. Perché ne ero perdutamente innamorato.
Quando si è innamorati generalmente si passa la giornata a cercare una qualsiasi
relazione con l’oggetto del nostro amore. Se impraticabile per ragioni logistiche quella di
tipo diretto, occhi negli occhi, mano nella mano (e possibilmente, al momento debito,
lingua nella lingua) si ripiega via via su quanto possibile. Va bene tutto, all’occorrenza,
purché possa fungere in qualche modo da collegamento, non importa quanto improbabile
e sfilacciato, con l’Oggetto del Nostro Sentimento. Un innamorato grave può essere capace
di scambiare volentieri due chiacchiere persino con la vecchia maestra d’asilo del Soggetto
Bramato soltanto per poter restare maniacalmente in argomento e vantarsi per l’ennesima
volta del calibro e della gittata del suo sentimento con qualcuno che abbia il privilegio di
conoscerne il destinatario o la destinataria.
In mancanza di esseri umani disponibili, il malato può arrivare ad accontentarsi di
un luogo dove tornare come un assassino a respirare ciò che lì si è consumato, struggendosi dell’essere protagonista della più scontata delle scene del più scontato dei film d’amore.
La condanna (e la fortuna insieme) degli innamorati sta nel vivere, disperatamente
o felicemente, in una realtà parallela allestita da una scrittrice di romanzi rosa e arredata
con tutti i luoghi comuni disponibili al riguardo.
Questo fa sì che la loro frequentazione risulti insopportabile per chiunque non sia
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affetto dalla medesima patologia. Chi vive il tracciato poco movimentato delle emozioni
di una vita normale non può che indisporsi se coinvolto nel continuo alternarsi di picchi
e di valli che spesso scandisce l’esistenza dell’innamorato, soprattutto se impegnato in una
relazione non troppo agevole dal punto di vista logistico.
Quando sei innamorato, puoi nutrirti di stereotipi e chiederne ancora una volta
finiti. Puoi farti rapire da musiche di assoluta mediocrità solo perché sono state la colonna
sonora di momenti indimenticabili e con altrettanto trasporto adorare un orribile peluche
per il semplice motivo che è stata Lei (o Lui) a regalartelo. Un fenomeno che ha fatto, fa e
farà la fortuna di musicisti, scrittori e peluchisti dotati di un solo talento: aver capito che
l’innamorato ama anche regalare, possibilmente sorprendendo.
A Barbara Debono regalai subito il 45 giri di Jimi Hendrix All Along The Watchtower,
il mio pezzo preferito da mimare davanti allo specchio. Lei, che ascoltava preferibilmente
Sylvie Vartan, trovò quella musica un po’ strana ma forte e questo mi bastò per sentirmi
appagato.
Qualche giorno dopo mi regalò una spilla (una pin, in italiano moderno) con su
scritto Pourquoi pas?. Era contenuta in una busta rosa che mi mise in mano un attimo prima di infilarsi nel portone di casa, accompagnata da un bigliettino altrettanto rosa che ne
spiegava il senso: voleva che io la mettessi, così che nel momento in cui mi avrebbe proposto “il contrario di uno schiaffo…” io non avrei potuto rifiutarmi e la spilla avrebbe parlato
per me. Seguivano tre punti esclamativi con il pallino a cuoricino.
Devo ammettere che per un attimo, un solo brevissimo attimo, mi trovai ad osservare il quoziente intellettivo della mia amata da un punto di vista insolito, ma l’idea che in
un futuro non troppo lontano le mie labbra avrebbero potuto assaggiare le sue mi riportò
immediatamente tra i vapori più euforizzanti del mio sentimento. Aveva profumato la
busta con qualche goccia del suo profumo, e io non so quante volte ascoltai Rain and Tears
tenendoci il naso ficcato dentro.
Il contrario di uno schiaffo non arrivò mai, e la spilla finì nella scatola dei ricordi.
Bastò che Barbara Debono partisse per le vacanze perché il virus dell’innamoramento,
anziché uccidermi come mi era sembrato logico nei giorni successivi alla sua partenza,
cominciasse a indebolirsi sempre più, fino a scomparire, lasciandomi spossato e convalescente, ma guarito.
Si può dire che questo fu solo l’assaggio, delle gioie e dei dolori che la condizione
d’innamorato comporta. Perché tuo padre, anche se di primo acchito non sembrerebbe il
tipo, da questo punto di vista è di salute abbastanza cagionevole, e ha conosciuto la malattia nelle sue più diverse forme, da quelle brevi e violente a quelle dal decorso così lento
e tenace da sembrare inguaribili. Di questo secondo tipo fu il mio vero Primo Amore,
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quello che per tradizione non si scorda mai.
Quando lo incontrai avevo quasi sedici anni, e successe durante un campo invernale
scout, per l’esattezza dei Rover, lo stadio a cui evolvevi dopo parecchi anni di fedele appartenenza. Dopo aver condotto vite rigorosamente separate, lupetti da una parte e coccinelle
dall’altra prima, scout di qua e guide di là più tardi, maschi e femmine si univano finalmente in una sola attività comune come novizi Rover. Il contatto dava luogo a reazioni
piuttosto interessanti, come sempre di opposta natura. Le parti di noi ancora bambine
mal si sopportavano, mentre quelle gonfie d’ormoni si attiravano come ferro e calamita.
Eravamo pronti per l’accoppiamento, a cominciare dal senso meno animale del termine.
Lei si chiamava Elisa, e aveva due anni più di me. Prima di quel campo tra le nevi
della Val Badia, quella ragazza scura di capelli, occhi e carnagione, timida e schiva come
un gatto spaventato, era stata per me soltanto una figura di sfondo, esattamente come lei
voleva risultare. Ma il campo fu galeotto, e bastò qualche chiacchierata serale, consumata
sulle panche di legno della sala da pranzo della Gasthaus (nella cui rimessa eravamo senza
alcuna concessione al comfort scoutisticamente alloggiati) perché i nostri sguardi cominciassero a cercarci in profondità come sonde progettate per quell’unico, supremo scopo.
M’innamorai di lei in modo gravissimo, e restai in quella condizione per circa due
anni e mezzo senza che la malattia mi concedesse il minimo miglioramento. Fortunatamente, anche Elisa s’innamorò di me, così, teneramente abbracciati, ci accompagnammo
nelle febbri del più virulento dei sentimenti.
Se ti eri fatta l’idea che il sentimento dovesse essere obbligatoriamente reciproco, che
all’innamorarsi dell’uno corrispondesse automaticamente quello dell’altra, come succede
nelle fiabe non appena la principessa incontra il principe, mi dispiace, ma sono costretto
a deluderti: purtroppo non funziona in questo modo. L’innamoramento reciproco, anche
se magari di non pari intensità, va considerato una fortuna. Il mondo è costantemente
affollato di innamorati non corrisposti che soffrono come animali al macello, incapaci di
rassegnarsi all’evidenza malgrado l’evidenza li prenda quotidianamente a pesci in faccia
senza alcun riguardo. Per molti di loro questo non è un deterrente, anzi: sembra che la sofferenza in cui si crogiolano li fortifichi nella convinzione che, presto o tardi, l’oggetto del
loro sentimento si renderà conto dell’ineluttabilità di un destino comune evidentemente
scritto nelle trippe. E tanti di loro, quasi tutti di sesso maschile, possono persino diventare
pericolosi. Nel migliore dei casi soltanto per se stessi, imboccando il corridoio buio dei
disturbi mentali o addirittura dicendo addio alla propria esistenza mediante un suicidio
che vorrebbe tanto risultare educativo per i superstiti.
Le cose si complicano non poco quando invece lo sciagurato non molla l’osso e
si fa ringhioso come un cane cui provi a sottrarlo. In quel caso, il soggetto amato come
di più non si può amare vede il suo privilegio trasformarsi in un incubo senza fine, una
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persecuzione fatta di telefonate, appostamenti, minacce da non dormirci la notte.
Da quando ci siamo globalizzati chiamiamo l’insieme di queste molestie stalking, e
questo ci dà la confortante illusione di essere più preparati all’eventualità di doverle fronteggiare. Purtroppo, a qualche giovane maschio in delirio essere diventato un incubo non
basta, così la cronaca nera continua a far collezione di donne ammazzate per ragioni sentimentali con una dozzina di appassionate coltellate o con altri gesti d’incontenibile amore.
Tutto questo solo perché uno dei due ha avuto la sfortuna di non ammalarsi, oppure di guarire molto prima dell’altro. E chi non è ammalato non può rendersi conto di
come basti un niente per far sanguinare il cuore di chi ama senza essere amato. Anche una
mezza frase soltanto, innocua tra la gente immune, può diventare un coccio di vetro che
gli si pianta nel petto.
Nel corso della mia vita sentimentale ho provato anch’io, nel mio piccolo, la condizione di innamorato non ricambiato e ti assicuro che non è molto divertente.
Anch’io mi sono ritrovato a soffrire come un animale al macello per qualcuna che,
lo scoprivo sempre troppo tardi, non meritava assolutamente tutto quel dolore. Il punto è
che le uniche che davvero lo meriterebbero sono solo quelle che il dolore non te lo provocano, anzi. Quindi il discorso lascia il tempo che trova.
Anch’io ho atteso sotto la pioggia, come il cane abbandonato di uno spot melenso
(o come l’uomo abbandonato di un film melenso), di poterla finalmente vedere uscire di
casa, di seguirla con lo sguardo nel tentativo d’incrociare il suo e nella speranza di farle
provare per me se non proprio tutta la pena che mi stavo facendo io, perlomeno una buona parte.
Anch’io ho fatto telefonate senza trovare il coraggio di parlare dopo il suo - pronto
-, ho mandato mazzi di rose (ma senza mai avere abbastanza soldi per fare il botto), ho
scritto lettere illeggibili e composto canzoni inascoltabili crogiolandomi nel mio dolcissimo malessere e rendendomi sicuramente insopportabile al mio prossimo. Mi va però riconosciuto il merito di non aver mai rappresentato per le mie amate qualcosa di peggio di
una temporanea seccatura, di quelle a cui si può ancora proporre il tradizionale perché non
restiamo amici?. E me lo chiedi anche? Perché finché sarò malato niente potrebbe risultarmi
più umiliante, e non appena sarò guarito è probabile che della tua amicizia non saprò che
farmene, amore mio. Oltre che di te, talvolta più che di te, io m’innamoro perdutamente
dell’idea di esserlo.
Ma nel caso di Elisa l’innamoramento era felicemente reciproco. Seduti sulle panchine del parco consumavamo l’unico tempo che meritava di essere vissuto, ovvero quello
in cui potevamo guardarci negli occhi, parlarci, baciarci e baciarci e cominciare a sognare
un futuro completamente e incredibilmente nostro. La sera, erano telefonate sussurrate
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che avrebbero voluto essere interminabili, e che soltanto un genitore al di qua o al di là del
filo riusciva a un certo punto a interrompere. La paghi tu, la bolletta?
Non c’erano cellulari, allora. Niente sim, ricariche, profili tariffari. Il telefono era
uno e di tutti, quasi sempre in corridoio, al centro della casa e nel luogo meno appartato
della stessa. No, non c’erano neanche i cordless: eri tu a dover stare dove stava il telefono,
e non viceversa. Se per caso ce n’era un secondo non si trovava di certo in camera tua ma
in quella dei tuoi genitori: l’intimità ne guadagnava certamente, ma dovevi resistere alla
tentazione di sederti sul letto per non sciupare la liscia perfezione del copriletto, teso come
solo una mamma sa tenderlo.
Elisa e io ci amavamo che più non si può e traboccavamo dolcezza da tutti i pori. Se
qualcuno si fosse preso la briga di fotografarci in controluce davanti a un tramonto, avrebbe ottenuto uno di quei poster tardo-hippie che a quei tempi vedevi affissi nelle camere
delle ragazze, vicino ai riccioloni di Marc Bolan, alla barba di Cat Stevens e al Sopwith
Camel di Snoopy, ma soprattutto a John e Yoko altrettanto teneramente abbracciati.
Elisa e io eravamo il riferimento preferito delle ragazze più romantiche, che vedevano in noi la perfezione del sentimento più puro e la tenerezza di una coppia in cui il
ragazzo non è ancora l’uomo forte ma è ancora un ragazzo, dolcemente più giovane della
ragazza. I ragazzi, invece, m’invidiavano la ragazza più grande, secondo loro garanzia di
sesso sfrenato senza inibizioni. Io glielo lasciavo credere volentieri, malgrado la realtà fosse
abbastanza diversa.
Grazie a Elisa avevo finalmente toccato con mano parti del corpo femminile del
tutto inesplorate e, contemporaneamente, il cielo con un dito. L’esuberanza dei miei giovani ormoni rendeva possibile una magica combinazione di cui in seguito non avrei più
potuto godere: la felice convivenza tra l’innamoramento e l’eccitazione sessuale. Più tardi,
tra le due pulsioni si sarebbe scatenato un conflitto talvolta quasi insanabile, in cui la
forza del sentimento andava di pari passo con l’incapacità di completare il rapporto, sotto
ogni punto di vista. Con Elisa, invece, non sapevo ancora cosa significassero concetti
quali ansia da prestazione oppure eccesso di aspettativa. Con Elisa non dovevo dimostrare
nulla o aspettarmi qualcosa, ero semplicemente affamato di lei con tutti i miei sensi e la
mia unica preoccupazione era quella di riuscire prima o poi a trovare un luogo comodo e
compiacente per poter banchettare a sazietà.
C’era però un piccolo problema: Elisa non aveva il mio stesso appetito. Non solo
considerava la sua verginità uno status da mantenere ancora per un tempo non ben definito, ma non sembrava nemmeno interessata a trarre piacere dalle tradizionali pratiche
alternative che io le proponevo insistentemente. Però era innamorata di me, per cui finiva
col prestarsi pazientemente al darmi soddisfazione con modalità vagamente infermieristiche, mentre io cercavo di ricambiare, senza riuscirci affatto, almeno una parte dell’inedito
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piacere che mi dava, smanacciando goffamente tra le sue gambe senza alcuna cognizione
di causa.
Ogni occasione per me era buona, ma per sua fortuna non se ne presentavano molte. Il sabato o la domenica, a casa mia, quando un colpo della buona sorte faceva uscire
almeno per un po’ mia madre e mio padre senza far rientrare ancora mia sorella. Anche
un’ora soltanto poteva essere il paradiso, l’importante era non spogliarsi troppo e tenere
sempre le orecchie dritte, anche e soprattutto sul più bello.
A casa sua non andavamo mai. Per meglio dire, a casa sua non ci entrai mai, nemmeno una volta in più di due anni. Casa sua era un pianeta sconosciuto, dove una madre
severa comandava a bacchetta Elisa, i suoi due fratelli minori e probabilmente anche un
fantomatico padre di cui lei non parlava mai. Tanto la mia famiglia aveva accolto Elisa
come una figlia, tanto la sua teneva garbatamente le distanze con una determinazione che ai
miei risultava incomprensibile. Quando un giorno mia madre trovò il modo di scambiare
due chiacchiere al telefono con la madre di Elisa così, tanto per conoscersi meglio, non riuscì
granché nel suo intento per la gentile freddezza con cui si svolse la conversazione.
Ma questo non poteva bastare, per incrinare il nostro enorme sentimento. Certo,
sarebbe stato tutto più bello e facile se le nostre famiglie fossero state culo e camicia e
soprattutto se la mamma di Elisa le avesse lasciato un po’ più di libertà, almeno quella di
cui la maggior parte delle sue amiche riuscivano a godere senza problemi. O se Elisa stessa
fosse stata capace di prendersela da sola, anziché essere sempre così remissiva. Elisa non
voleva conflitti in casa, e io non volevo conflitti con Elisa. Ma non avevo dubbi: alla lunga
il nostro incommensurabile amore avrebbe sgombrato la strada da qualsiasi difficoltà e
chiunque si sarebbe convinto che nulla poteva dividerci.
Sono sicuro che fu un pensiero molto simile a questo a farsi strada nella mente della
madre di Elisa e a far sì che un giorno mi telefonasse per darmi uno strano appuntamento:
sul finire del pomeriggio di un sabato, all’Alemagna di via Orefici, crocevia ristoratore dei
sabati milanesi in centro.
Ed eccomi, vestito per bene, addirittura con la giacca di velluto blu comprata per
il matrimonio di mia sorella, cercare con lo sguardo e poi trovare quella donna magra,
minuta, sempre vestita di un’eleganza accuratamente sobria, sempre vista solo di sfuggita
accompagnando Elisa a uno dei suoi tanti, improrogabili appuntamenti con il dovere famigliare.
Eccola entrare, vedermi, sorridermi, avvicinarsi al bancone.
«Ciao, cosa prendi?»
«Buonasera, signora…una coca…grazie.»
Lei chiede un analcolico, poi comincia a parlarmi. Sceglie con cura le parole e me le
mette davanti, componendo un quadro ordinato che non lascia spazio ad interpretazioni
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di sorta. Sembra non provare alcuna emozione nel dirle, e di tanto in tanto sottolinearle
guardandomi da dietro gli occhiali con i suoi gelidi occhi chiari, tanto diversi da quelli
di Elisa. Io le sue parole quasi non le sento, ma vedo prendere corpo davanti a me, tra
il rumore di bicchieri e piattini e le chiacchiere allegre dei milanesi soddisfatti del loro
pomeriggio di spese, la mostruosa sentenza che quelle parole stanno molto pacatamente
decretando.
«Ormai è diventata una cosa esagerata, troppo ossessiva…»
La mia mano sudata stringe il bicchiere e scioglie il ghiaccio nella coca, mentre i
battiti del mio cuore continuano il galoppo preso non appena la madre di Elisa ha cominciato a parlare, sempre più veloci, rimbalzano contro le tempie e ricominciano.
«…quest’ansia di vedersi in continuazione…»
Lo dice scegliendo un salatino dalla sfilata di stuzzichini davanti a noi.
«…questo non riuscire a stare lontani…»
Ha deciso per un piccolo bretzel.
«…ha un che di morboso.»
Vorrei riuscire a interromperla, a gridarle in faccia qualcosa, una sola cosa pescata a
caso tra le mille che sbattono nella mia testa, ma dalla bocca non mi esce nulla.
«È meglio che non vi vediate più. Meglio per tutti e due.»
Ma cosa dici? Ma cosa cazzo stai dicendo? Ma chi cazzo pensi di essere, maledetta stronza?!
«Ma…ma signora…non…»
«Via…siete ancora troppo giovani, per una cosa così impegnativa. C’è tempo, per
queste cose. Adesso dovete studiare, Elisa deve studiare, senza avere altre cose per la testa…».
E mi sorride, anche, mentre io non riesco a credere a quello che ho sentito, e scuoto
la testa, come se potesse servire a svegliarmi dall’incubo.
Ma l’incubo prosegue, con me del tutto incapace di costruire una vera obiezione, di
pronunciare almeno una volta l’unica parola possibile: NO.
Poi continua con lei che chiude la conversazione e si congeda amabilmente, perché
s’è fatto tardi, e io la saluto, invece di ucciderla come vorrei. E la guardo allontanarsi con i
suoi sacchetti La Rinascente, soddisfatta di aver sbrigato anche quest’altra commissione.
Allora comincio a correre, perché se corri magari la gente non vede che piangi e
magari ti sembra anche di poter scappare in un mondo migliore di questo, dove appena
impari ad amare arriva subito qualcuno che t’insegna ad odiare.
Elisa e io cominciammo a vederci di nascosto nei pochissimi buchi lasciati dal
controllo serrato che venne messo in atto dai suoi genitori. Momenti rubati, talvolta solo
per pochi minuti, in cui i baci cominciavano ad avere il sapore della malinconia e i sogni
a perdere pezzi. Io avrei voluto che Elisa trovasse la forza di ribellarsi, lei avrebbe voluto
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che il mio amore riuscisse a comprendere perché non riusciva a farlo.
Io sognavo per noi una scena finale come quella de “Il Laureato”, dove Dustin
Hoffman libera Katharine Ross dalla famiglia (e soprattutto da una madre iena) per fuggire con lei verso un dolce futuro. Ma a quanto pare, noi non avevamo la loro grinta, o più
semplicemente non eravamo così innamorati, o non lo eravamo più abbastanza. Non so
dirti con esattezza come e quando un’Elisa senza più forze tolse la spina al nostro eterno
amore, però ricordo bene come in me si trasformò in una rabbia senza sfogo, un rancore
mai spento di cui puoi trovare ancora qualche residuo in un angolo della mia testa. Ma
forse dovrei dire del cuore.
Può succedere, quando dall’innamoramento non ti lasciano guarire da solo.
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Diciotto
«Non prende l’ascenseur? ...sù, prenda l’ascenseur!»
«Non prende l’ascenseur? ...sù, prenda l’ascenseur!»
Il tizio sul pianerottolo mi guarda dall’alto della rampa di scale che ci separa. Io
sono mezzo piano più sotto, appoggiato alla balaustra, e lo guardo a bocca aperta senza
parlare. Questo lo innervosisce.
«Allora...forza, salga su quest’ascenseur!» ribadisce un po’ più duro di prima. Vorrebbe essere minaccioso, ma non può permetterselo. Ha paura di me. Per questo adesso
ha spalancato la porta della cabina e ha fatto due passi indietro, verso l’uscio di casa sua,
come se stesse cercando di liberarsi di un cane rognoso convincendolo ad andarsene con
l’ascensore.
È un omino sui quaranta dalle spalle spioventi, porta gli occhiali e i capelli con il
riporto rado e unto compostamente appiccicato al cranio. La sua figura si completa in una
maschera moderna grazie alla giacca da camera scozzese che ne riveste la metà superiore e
alle pantofole che concludono quella inferiore. Non è facile per nessuno essere minacciosi
combinati in quel modo.
Al secondo (o terzo?) piano e mezzo c’ero arrivato di corsa qualche minuto prima
senza più fiato in corpo. Ogni tentativo di buttare aria nei polmoni era accompagnato da
un involontario rantolo asinino che complicava parecchio le cose. Avevo appoggiato sulla
balaustra il braccio buono, quello che ancora riuscivo a piegare, e su questo la fronte. Così
avevo visto scendere dalla mia testa un filo continuo di sangue che andava a disegnare una
chiazza densa perfettamente rotonda sul pavimento di graniglia tirato a cera.
Poi una porta si era aperta e il principe dei ragionieri mi era apparso.
«Prende l’ascenseur o devo chiamare qualcuno?» adesso minaccia.
Mi fa quasi pena, nella sua insistente incapacità d’imporsi. Il minuscolo borghese,
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tanto lontano e tanto vicino alla realtà che gli ha improvvisamente interrotto il tranquillo
scorrere di una domenica sera, prima di cena, probabilmente davanti al televisore. Non voglio rogne è il suo motto, la filosofia di una vita da piccolo roditore che difende la sua tana
a un metro dal buco d’ingresso. Per questo vuole che io me ne vada sull’ascenseur. Io sono
una rogna che sta sporcandogli le scale di sangue, e me ne devo andare al più presto. Non
gli interessa sapere altro, perché da altro possono arrivare soltanto altre rogne.
Senza dire nulla, salgo la rampa di scale che mi separa dall’ascensore. Lui arretra
mentre gli passo davanti guardandolo attraverso i capelli impiastricciati di sangue. Non
devo essere un bello spettacolo, infatti mi guarda con aria schifata. Entro nella cabina e
lui, con una velocità sorprendente, chiude immediatamente le antine e la porta alle mie
spalle. Schiaccio la T e torno da dov’ero venuto, chinando la testa per versare apposta un
po’ di sangue anche nell’ascenseur pulito e profumato di deodorante da cesso.
Nel cortile buio l’unica luce è proiettata dalla porta da cui sono scappato come un
gatto con i barattoli attaccati alla coda, senza nemmeno guardare se qualcuno mi stesse
inseguendo. È la porta sul retro della saletta da tè del Bar Pasticceria Grassetti, che in una
domenica d’inverno come questa si riempie di vecchie golose di cioccolata, cannoncini e
bignè.
Dentro, adesso, c’è un gran casino. Tavolini e sedie rovesciati, cocci di vetro e di
ceramica bianca, zucchero e macchie di sangue. In un angolo qualcuno sta cercando di
tranquillizzare due vecchie che blaterano senza interruzione facendosi aria con la lista dei
dolci e dessert. Qualcuno arriva con il classico bicchiere d’acqua.
Il mio ingresso è come quello d’un fantasma: parecchi non mi vedono neanche ma
chi mi vede smette di parlare e mi guarda spaventato. Tiro dritto oltre la saletta ed entro
nel caos del bar. Vedo Ezio seduto sull’unica sedia non a gambe all’aria, bianco come un
lenzuolo. Mi vede, si alza, mi chiede come sto, si chiedeva dove fossi finito. Io sto che mi
sento come se un’auto mi avesse investito, la testa mi brucia e ho dolori dappertutto. Quello che fa la differenza è il braccio che mi tengo con l’altra mano: all’altezza del gomito mi
fa un male cane e non riesco neanche ad immaginare di poterlo piegare. Per il resto tutto
bene: sono in piedi e ancora vivo. Ezio non ha neanche un graffio perché in quel momento era in bagno. Chissà dov’è finito Andrea Sarti.
Le luci blu dell’ambulanza ferma sul marciapiede vanno e vengono sulle file di
bottiglie dietro il bancone, si riflettono sugli specchi e rimbalzano dappertutto, anche sui
capelli vaporosi dell’anziana cassiera ancora seduta al suo posto, già abitualmente azzurri
per effetto del cachet.
Fuori, al di là dei vetri, gli occhi dei curiosi cercano lo spettacolo. I colli si allungano come se potessero superare il capannello di persone che staziona davanti al bancone
nascondendo alla vista l’oggetto delle loro premure.
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Per terra, supino, la testa appoggiata su un asciugamano arrotolato nel guazzetto di
sangue, c’è il tipo che stava leggendo la Gazzetta quando siamo entrati nel bar. È cosciente, si esamina con aria incredula le mani gonfie, piene di botte e graffi, tenendole rigide,
con le dita allargate come se dovesse far asciugare lo smalto sulle unghie. Qualcuno gli ha
arrotolato i pantaloni fino al ginocchio, mettendo a nudo due stinchi che sembrano una
poltiglia.
«Ma cazzo...» ripete di tanto in tanto.
Mentre lo caricano sulla barella un infermiere si accorge di me, mi fa sedere e dà
un’occhiata alla mia testa.
«Se ce la fai a camminare vieni con noi.»
Chiedo a Ezio di avvisare i miei ed esco al seguito della barella, guardato anch’io
dai curiosi che parlottano.
Pori fioeu... commenta una signora.
Prima che le porte dell’ambulanza si chiudano, un carabiniere mette dentro la testa.
«Dove li portate?»
«Fatebenefratelli.»
Era stata una domenica di quelle scure, piovigginose e inutili, senza alcun guizzo di
piacere, come piacciono al novembre milanese. Di quelle che alle due del pomeriggio già
cominciano a trascinarsi stancamente verso la malinconia dell’ora di cena, anticipandola
con il loro fatalismo. Domeniche da cui puoi cercare scampo in un cinema, rimandando i
conti a quando ne uscirai, ormai al buio, definitivamente pentito di avere sprecato la poca
luce di cui disponevi chiuso lì dentro a vedere un film che non ti è piaciuto.
Quella domenica pomeriggio 5 novembre 1973 io ed Ezio ce l’eravamo lasciata passare lentamente addosso a casa mia, mentre chiusi nella mia camera ascoltavamo dischi
mangiando del pane dei morti trovato in casa e bevendo tè.
Non era ancora finita, quando con tutta calma saliamo sul mio vespone. Era ancora
presto, per accompagnare Ezio a casa.
«Facciamo un salto al Grassetti?» propone lui.
Tuo padre non è mai stato uno da bar, a differenza di alcuni che per varie ragioni
finivano per bivaccarci. Certi s’attaccavano al flipper e a forza di cento lire dopo cento lire
ci passavano le ore. Altri, avvolti dal fumo come in un saloon, lasciavano sul tavolo verde
di una compiacente saletta ben altre cifre giocando a chiusura. Quelli da bar cominciavano
a sentirsi grandi e arrivati grazie al rito dell’aperitivo, e straparlando e sputando noccioli
d’oliva davanti alle patatine e alle arachidi diventavano sempre più affabili col passare dei
campari shakerati, dei gin tonic, dei negroni.
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Dopo cena, rieccoli al bar, a decidere insieme che film andare a vedere, per poi non
andarlo a vedere, dopo aver consultato La Notte fresca di stampa, aperta sul frigorifero dei
gelati.
Per quelli da bar, il bar era il punto di partenza e il punto di arrivo di ogni avventura.
Per quelli come tuo padre lo erano i giardini davanti al Liceo Beccaria, in qualunque stagione, appollaiati sui motorini o sulle panchine. Un po’ per spirito libero, un po’
perché nelle nostre tasche ci trovavi al massimo qualche giro di flipper e non certo di gin
tonic, un po’ perché quelli da bar erano troppo diversi da noi.
Quindi a me non capitava quasi mai di stazionare nei bar della zona, e il Grassetti
non faceva eccezione. Ma quella domenica pomeriggio di novembre non voleva mai finire,
così Ezio ed io ci entrammo, giusto per perdere quella mezz’ora di troppo.
A un tavolino accanto alla porta è seduto Andrea Sarti, anche lui visibilmente vittima di quella micidiale domenica. Lo saluto e mi siedo accanto a lui. Al tavolino a fianco
c’è uno che conosco di vista, uno più grande di noi che al Grassetti fa base fissa. Legge la
Gazzetta parlando a distanza con il barista. Ezio va in bagno.
Andrea Sarti sta iniziando a dirmi qualcosa a proposito di Paletta e della sua mania
di raccontare incredibili balle, quando vedo del movimento, fuori.
C’è gente che passa correndo davanti alle vetrine. Cappucci, fazzoletti rossi sulla
faccia, guanti. Stanno scappando? No, entrano dalle due porte.
Neanche il tempo di capire il perché e sono davanti a noi, un semicerchio di facce
incazzate e mascherate, una quindicina di braccia che alzano spranghe, chiavi inglesi, tubi
di ferro.
Neanche il tempo di dire una parola e una voce ringhia rauca:
«Morte al fascio!»
Neanche il tempo di alzarsi dalla sedia e sulla testa del tipo della Gazzetta, che dava
le spalle al branco, cala una sprangata a due mani che lo stende per terra. Sparisce tra le
gambe di quelli che gli sono subito intorno e sopra, a cercare il pezzo di corpo più adatto
da pestare con ritmo.
Nel frattempo, Andrea Sarti s’è alzato, rovesciando il tavolino e cercando di parare
con le braccia i colpi destinati alla faccia e alla testa che gli piovono addosso. Il tavolino ha
creato un varco, lui ci s’infila e corre verso la sala da tè che ha una porta che dà sul cortile.
Io provo a fare lo stesso, ma inciampo in qualcosa o in qualcuno e finisco lungo e disteso,
giusto sulla soglia della saletta.
Prima che la visuale si chiuda, vedo ad altezza pavimento il panico raggiungere
come un’onda i piedi delle vecchie sedute e scompigliare le gambe delle sedie. Poi, una
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brevissima eternità di secondi scandita dalle sprangate che mi raggiungono sulla schiena,
sulle mani e sulla testa, là dove le mani non riescono a coprirla.
Il dolore non è terribile, è un bruciore diffuso che si rinnova di continuo spostando il suo epicentro sul punto d’arrivo dell’ultimo colpo, che sembra non voler mai essere
l’ultimo davvero. Terribile è scoprirsi incapace di qualunque altra azione che non sia il
semplice resistere sperando che nel frattempo non arrivi la botta capace di spegnere la luce
e lasciarti al buio.
Arriva invece il momento in cui sento che intorno a me non ci sono più gambe e
piedi e che su di me hanno smesso di piovere botte, ma il mio corpo deve ancora al panico
la sua reazione più animale: fuggire. Allora mi alzo, attraverso la sala da tè ed esco correndo nel cortile buio, spinto da un istinto che mi dice di nascondermi prima di cominciare
a leccarmi le ferite.
Al di là del cortile c’è l’ingresso a una scala interna: lo raggiungo e faccio di corsa
due o forse tre piani, prima di fermarmi senza più fiato in corpo.
Durante il viaggio in ambulanza, il tipo della Gazzetta, che si chiama Franco Corbetta, fa il pellicciaio ed è figlio del portinaio del civico 20 di piazza 6 Febbraio, dove si
trova il Bar Pasticceria Grassetti, non ha fatto altro che smadonnare per lo stato delle sue
mani, come se il fatto di avere la testa aperta in più punti e gli stinchi spappolati non lo
riguardasse più di tanto.
«Guarda qua, cazzo…io con ‘ste mani ci devo lavorare, mica farmi le seghe…cosa gli
vado a dire io al padrone, che non posso cucire? ma porca troia…»
In effetti ha le mani conciate come se avesse fatto a pugni con un’inferriata, ma
non sembra che ci sia qualcosa di rotto. Anche le mie non sono molto meglio. Tutti e due
abbiamo sul dorso delle mani strani segni composti da una fila di righe sottili e regolari:
evidentemente qualcuno dei nostri amici aveva scelto come arma un tondino di ferro filettato.
Entrati nel pronto soccorso, uno degli infermieri che si occupano di noi
chiede a quelli dell’ambulanza:
«S’è success?»
«I hann menaa.»
«Ostia! anmò?!»
Nel caso non lo sapessi, in milanese anmò significa ancora. E il commento dell’infermiere (che poco dopo mi avrebbe rasato il cranio intorno a quella specie di stella aperta
sulla cima della mia testa come preludio alla sua cucitura) non avrebbe potuto essere più
indicativo dei tempi si vivevano allora: i cosiddetti anni della contestazione. A cominciare
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dal famoso ’68, il di cui maggio francese ormai suona perduto nel tempo storico tanto quanto le cinque giornate di Milano o il sacco di Roma.
Sebbene nella mia vita non siano state poche le volte in cui mi sono sentito dare
del sessantottino, è giusto precisare che mentre correva quell’anno io ero un dodicenne e
come tale non avrei potuto vivere da protagonista le simpatiche avventure di uno studente
universitario in vena di contestazioni.
Ma il ‘68 fu solo l’inizio, e qualche anno dopo anche quelli della mia generazione
ebbero modo di dire, ma soprattutto fare, la loro.
Cosa si contestava? Bella domanda. Mi verrebbe da dire di tutto e di più, ma mi
rendo conto che sarebbe un pochino riduttivo e che la questione merita uno sforzo maggiore. Aggiungerò almeno che in generale i giovani di quel periodo ce l’avevano con il
sistema di vita che era stato costruito da chi li aveva preceduti, più o meno su tutti i fronti:
dalla scuola alla famiglia, dal lavoro al sesso, dal modo di intendere la politica mondiale
al modo di pettinarsi. Il pacchettino di tranquille certezze fondamentali che chi usciva
dalla guerra era stato ben felice di abbracciare per il suo futuro non bastava ai figli. Il
lavoro fisso, la casa, la famiglia, il pollo alla domenica, la lavatrice, la macchina, le vacanze: il miglior materiale edile disponibile per la costruzione della felicità dei padri s’era
improvvisamente trasformato nelle sbarre della gabbia dei figli. Che ovviamente volevano
la libertà di costruirsi un futuro secondo un’idea di felicità decisamente diversa, tutti insieme, collettivamente, e non ognuno chiuso nel proprio tinello arredato con mobili in stile
svedese.
Gli ideali non mancavano, e le battaglie in cui schierarli di fronte al nemico nemmeno. Il comunismo nelle sue varie forme e soluzioni più o meno concentrate forniva in
abbondanza i primi, il capitalismo e l’imperialismo (made in USA) non lesinavano invece
sugli spunti per le seconde. E siccome la gioventù ama perdutamente gli estremi, quando
da una parte spuntano gli indiani, dall’altra puoi star certo che prima o poi salteranno
fuori i cow-boy.
In quegli anni, indiani e cow-boy si combattevano quotidianamente, e ambo le
fazioni, separatamente, combattevano contro la polizia. Talvolta succedeva anche che se le
dessero tra indiani di tribù diverse, ognuna convinta di essere molto più indiana dell’altra.
Eravamo ancora ragazzini, quando imparammo che quell’odore acre di plastica
bruciata che di sabato pomeriggio raggiungeva improvvisamente le tue narici significava
lacrimogeni. E che lacrimogeni significava scontri. E che scontri significava che da qualche parte del centro c’era qualcosa di eccitante da vedere. Allora seguivamo l’odore annusando l’aria come cani, e quando cominciava a pizzicare in gola voleva dire che eravamo
sulla strada giusta, quella che ti portava a girare l’angolo in tempo per vedere una via
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interrotta da una nuvola di fumo bianco dalla quale, improvvisamente, si materializzano
figure umane che corrono, tossiscono, gridano, ti passano davanti spostando l’aria con
una corrente palpabile di eccitata paura. Qualcuno porta gli occhiali da moto, qualcun
altro un casco bianco da cantiere, tutti hanno un fazzoletto sulla bocca e un bastone o un
tubo di ferro in mano. Si fermano per un attimo, e per un attimo si guardano intorno, poi
qualcuno grida via via via! e già sono spariti di corsa.
Poi dal fumo bianco escono altre figure, questa volta precedute da un rumore di
mandria al galoppo, per via delle suole rigide degli anfibi sull’asfalto. È la carica dei celerini. Gli inseguitori non corrono agili e veloci come gli inseguiti, appesantiti come sono
dall’equipaggiamento. Scarponi ai piedi, elmetto di metallo in testa, tascapane pieno di
lacrimogeni, camicia, cravatta, giacca e cappotto, corrono come possono in un continuo
sbattere di zavorre. Qualcuno porta pure il fucile a tracolla, perché i lacrimogeni si sparano con quello.
Il fisico e il look del poliziotto di allora era molto diverso da quello dei robocop
grandi, grossi e palestrati che puoi vedere oggi in piazza con la corazza e gli schinieri.
Eppure picchiavano duro anche loro, e la Celere di Padova s’era già fatta un curriculum di
tutto rispetto. Al loro passaggio era meglio farsi più che da parte, anche quando si vedeva
lontano un miglio che ti trovavi lì per caso. La manganellata en passant, così per gradire,
che ti mandava al pronto soccorso a farti ricucire anche allora era più facile prenderla che
evitarla.
Con i famigerati baschi neri, carabinieri carristi, invece poteva andare solo peggio.
Erano soldati a tutti gli effetti, di buona stazza, spesso e volentieri non avevano nemmeno
il manganello, che in effetti non gli serviva, dal momento che ti menavano con il calcio
del fucile. “Camerata basco nero il tuo posto è al cimitero” era una scritta che potevi leggere su
parecchi muri.
Eravamo ancora ragazzini quando lo era anche la contestazione, così siamo cresciuti
insieme, fianco a fianco, per strada, a scuola, ai concerti rock, anche a casa, appiccicata ai
capelli e ai vestiti che ai genitori non piacevano.
E come noi cambiava col passare del tempo, si faceva sgamata, e per paura di non
sembrare abbastanza dura diventava cattiva e spietata, esattamente come piaceva essere, e
non soltanto apparire, a tanti, troppi di noi.
Non più soltanto battaglie, quindi, ma agguati e imboscate, trappole e vendette. E se in piazza il morto lo faceva la polizia coi lacrimogeni sparati ad altezza uomo
o coi gipponi lanciati in corsa tirando a sorte nel mucchio, le faide tra indiani e cow-boy
avevano obiettivi con un nome e un cognome, con una casa sotto cui aspettarli, con una
faccia da devastare a colpi di chiave inglese, con un corpo in cui infilare una lama o un
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proiettile di pistola. Di tanto in tanto la nostra immortalità subiva uno piccolo smacco,
ma poi tutto riprendeva come prima, come fosse un gioco, e forse lo era davvero, visto che
morire, malgrado tutto, non era poi una cosa così facile. Si andava in moto senza casco e
senza casco si cadeva e senza casco si tornava in sella non appena possibile, se solo possibile.
Da che parte stavo io, mi chiedi. Dalla parte più scomoda, quella dei cani sciolti
che, pur disponendo di un pensiero e di passioni inevitabilmente posizionate a sinistra,
non riuscivano a schierarsi tra le fila di una fazione, di una sigla, di una bandiera, sposando simboli e frasi da scandire incazzati al solito ritmo ta-ta-tatatà, tatata-tatà! dietro lo
striscione in testa al corteo. E men che meno riuscivano a pensare di poter disporre della
cattiveria necessaria per aprire la testa a uno sconosciuto. Non godevo della pietosa immunità riservata ai tanti qualunquisti, che sfuggivano a tutto, chiusi in casa studiare, perché io
le cose magari non le cercavo, ma nemmeno le evitavo. Ci passavo in mezzo senza avere
le spalle coperte dal gruppo, come un osservatore ONU a cui tutti si sentono in diritto di
sparare senza rischiare di scatenare nulla.
Una politica che mi ha ripagato solo sul lungo termine, perché oggi io posso permettermi di guardare a quel passato senza cambiare di un metro il mio punto di vista e
senza fare i conti con la mia coscienza d’allora e di dire che sì, noi avevamo degli ideali
(e che ideali), ma facendoci scudo con quelli troppe volte finivamo per giocare alla guerra
con la stessa cieca carogneria degli ultras di oggi. Perché per fare certe cose una carogna la
devi essere, a prescindere dalla bandiera.
Così ti capitava di essere davanti all’ingresso di un liceo occupato quando sentivi degli spari poco più forti di quelli che faceva la tua pistola Jaguarmatic da bambino. Eppure
li aveva prodotti una pistola vera, la pistola di un fascio appena uscito di galera ma già in
vena di vendicarsi. E mentre, sdraiato dietro una macchina, pensavi com’era diversa dai
film la realtà, il tipo che ti stava accanto ti diceva cazzo, m’hanno beccato! facendoti vedere
il braccio forato dal modesto buco, ma pur sempre un buco, fatto da una calibro 22.
Così ti capitava che la panchina dei giardini su cui eri seduto insieme a un paio d’amici diventasse un palco di proscenio per assistere al tentativo di centrare con una molotov
il tettuccio aperto della 500 su cui due fasci erano venuti a fare i gradassi, pistola in mano
che al momento buono s’era inceppata. E per loro fortuna vedere la bottiglia spezzarsi sul
longherone del tetto aperto senza finirci dentro trasformandoli in due polli allo spiedo e
la benzina accendersi sull’asfalto solo una frazione di secondo dopo che la macchinetta
era riuscita a partire, inseguita da un’orda di barbari armati di chiavi del 36. Fiamme e
fumo che salivano al cielo mentre le mamme a passeggio nei giardini scappavano con le
loro carrozzine.
Così ti capitava di trovarti, la sera della domenica 5 novembre 1973, al pronto soc144
corso dell’ospedale Fatebenefratelli, con la testa sotto la luce di una lampada e un medico
che te la cuce senza anestesia e per tirarti su di morale ti dice che la stessa botta tre o
quattro centimetri più in basso avrebbe avuto buone probabilità di mandarti al creatore.
Se la prendevi sul coppino erano cazzi, insomma. Sarei andato al creatore per sbaglio, perché
gli errori non mancano mai in nessuna guerra e quella spedizione punitiva era stata un
errore. I fasci in quel bar non ci andavano più da un bel po’ di tempo, e tutti nel quartiere
lo sapevano. Peccato non lo sapessero anche i compagni.
Anche questo dovrò spiegarlo a mio padre, che sta venendo in macchina a prendermi. E non avrò niente di più vero e più banale da dirgli di:
«Io non c’entro niente, con ‘sta storia. È stato uno sbaglio, io non ho fatto niente,
davvero!». La stessa cosa l’ho detta poco fa al poliziotto della politica, e mi sembrava non
avesse difficoltà a credermi.
Eccolo che arriva. Non c’è nessuno che riesca a sembrare così vecchio e stanco
come un padre preoccupato.
Eppure non riuscirà ad abbracciarmi neanche stavolta. Lo so.
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Diciannove
«Ma papà! non si chiama Adalgisa! si chiama Hello Kitty!»
«Ma papà! non si chiama Adalgisa! si chiama Hello Kitty!»
E con questa asserzione che non consentiva più repliche, il mio esperimento si concludeva miseramente.
Era cominciato per gioco una sera, a un cambio di pannolino. Stavo per infilarti
in un body pulito quando tu, che cominciavi a comunicare col mondo, mi chiedesti a tuo
modo a chi apparteneva quella leziosa faccetta di gatto col fiocco in testa che ne occupava
interamente il davanti.
«Adalgisa» dissi io prontamente.
Mi era venuto così, tanto per fare il cretino, ma subito colsi l’opportunità che
casualmente mi ero procurato: quella di vedere cosa succede a buttare un sassolino in
uno degli ingranaggi della macchina più poderosa e indistruttibile che l’umanità sia mai
riuscita a costruire: quella della Moda. Incepparla anche solo per poco nella sua parte più
forte e vulnerabile al contempo, il brand, era una tentazione irresistibile.
Da quel momento, l’insulsa gattina che senza alcun merito particolare è riuscita ad
rivestire con la sua rosea presenza di tutti gli oggetti utili e inutili di un target femminile
dal mese ai cento anni non si sarebbe più chiamata Hallo Kitty, bensì Adalgisa.
Da quel momento, tutte le volte in cui, passando davanti alle vetrine, ci capitava di
incocciare in una delle innumerevoli incarnazioni di prodotto della macrocefala felina,
che fosse una bicicletta, un paio di mutande, un lip-gloss o una confezione di assorbenti, ti
allargavi in un sorriso, puntavi l’indice ed esclamavi:
«…Dalgisa!» rendendo tuo padre fiero di te e della tua libertà.
Tua madre, a cui sfuggiva il sublime significato del nostro esperimento, era invece
convinta che tutto ciò non fosse altro che un’inutile presa in giro perpetrata ai danni della
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tua credulità di bimba. Soprattutto quando un giorno, mesi dopo, tornata a casa dall’asilo,
raccontasti che una bambina ti aveva detto che la capocciona con il fiocco non si chiamava Adalgisa.
A quel punto mi vidi costretto a una concessione compromissoria: Aldalgisa, volendo, si poteva chiamare anche Hallo Kitty.
La tua libertà dall’inutile brand durò ancora un annetto, aiutata da un limitato
interesse nei confronti della felina miliardaria, alla quale, con mia grande soddisfazione,
hai sempre preferito un qualunque anonimo coniglio.
Durò finché la pressione della ruota dentata non sbriciolò il mio sassolino e il perfido ingranaggio riprese a girare perfettamente.
«Ma papà! non si chiama Adalgisa! si chiama Hello Kitty!».
Da bambino, guardando sul sussidiario le illustrazioni della sezione dedicata ad
Abiti, fogge e costumi dell’uomo nei secoli, mi ero fatto l’idea che il genere umano, anche per
quanto riguarda il suo abbigliamento, avrebbe continuato a progredire verso una maggiore
praticità, allontanandosi sempre più dalle scelte dettate dai capricci del gusto. Non a caso,
l’uomo degli anni sessanta, l’ultimo di quella scala evolutiva, sorridente nel suo sobrio
completo grigio, sembrava molto più a suo agio non solo dell’antenato settecentesco col
parruccone in testa e i pizzi che gli coprivano le mani, ma anche di quello del primo novecento, strangolato dal colletto rigido e con le ghette ai piedi.
Era un’idea abbastanza sensata, in fondo, e in quanto tale troppo ingenua. Al pari
dei film di fantascienza che ci prefiguravano vestiti con pratiche tutine identiche per tutti,
o al massimo differenti per qualche piccolo dettaglio, la mia idea non teneva conto di un
elemento fondamentale della questione: l’assoluta irrazionalità della Moda. Se così non
fosse, in questo dicembre 2012 da cui ti sto scrivendo non dovrei avere ancora intorno a
me uomini con la cravatta, l’accessorio più idiota dell’abbigliamento maschile moderno
dopo i gemelli e le giarrettiere da calzino (credo attualmente estinte, anche se con la Moda
si può mai dire). E questo è solo il primo esempio che mi viene in mente.
L’estate scorsa ha visto moltitudini di donne esibire piedi calzati in sandali apparentemente ricavati da stivali col tacco a spillo a cui fossero state asportate qua e là alcune
porzioni di pelle. Perché erano comodi? No. Perché erano belli? No. Perché erano di moda,
quindi belli di diritto, in quanto al di sopra di ogni giudizio.
Si dice che l’uomo sia un animale sociale che ha bisogno dei suoi simili. Peccato
però che per viverci in mezzo necessiti anche di mostrare loro quello che è, o che vorrebbe
essere, attraverso le cose che possiede ma soprattutto attraverso gli abiti che indossa e il
look complessivo che ne risulta.
Ecco allora entrare in scena la Moda, pronta a soddisfare questo bisogno primario
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come una mamma premurosa che ti fa trovare i vestiti per il giorno dopo già pronti sulla
sedia, sollevandoti dall’incombenza di dover decidere con la tua testa e con i tuoi gusti
cosa mettere insieme per coprirti in un modo esteticamente coerente con l’immagine che
vuoi dare di te.
A differenza della mamma, però, la Moda non è mossa dal sentimento ma da scopi
decisamente venali, per cui pretende da te qualcosa in cambio del suo avvolgente affetto:
che tu sia sempre pronto a seguirla in ogni suo cambiamento d’umore senza opporre resistenza e adeguando continuamente il tuo guardaroba ai suoi capricci. Una condanna a vita
sottoscritta col sorriso sulle labbra in cambio della rassicurante sicurezza di non sbagliare
nel modo di mostrarsi al prossimo.
La sola libertà che la Moda ti concederà sarà quella di scegliere a quale modello
aderire tra i vari disponibili in quel momento nel suo catalogo, per ognuno dei quali è prevista una studiata gamma di capi e relativi accessori, ovvero tutto il materiale necessario
per comporre il look desiderato.
Nel corso della tua vita ti sarà permesso cambiarlo tutte le volte che vorrai, l’importante è che tu ne segua diligentemente i comandamenti. Come una bambolina di carta,
hai a disposizione una grande varietà di personaggi da interpretare: a te scegliere quale,
alla Moda scegliere tutto il resto. C’è un mondo che lavora per questo e stravive di questo,
e ci sono importanti personaggi che in questo preciso momento stanno decidendo per te
come dovrai vestirti tra un anno. Mica vorrai deluderli.
In fondo chi sei tu, per fare di testa tua?
La Moda sembra esista dall’alba dei tempi, quale sintomo di una tara congenita del
genere umano. Naturale perciò che esistesse anche quando sono nato io, seppure con una
differenza non trascurabile: non era ancora una mera questione di marchi, di firme, di
brand. Infatti, da bambino desideravo un paio di jeans e basta, non un paio di Levi’s 501
o 504. Li volevo perché erano i pantaloni dei cow-boys ed erano lunghi, ma non avevo la
più pallida idea della marca che li produceva, a differenza di tuo cugino Marco, che una
ventina d’anni dopo, non ancora decenne, desiderava ardentemente una cintura El Charro
e una felpa Best Company. Erano gli anni ‘80, e i paninari milanesi erano costretti a indossare, dall’alto verso il basso, il piumino Moncler (o la giacca a vento nautica Henry Lloyd), i
jeans Armani con il risvolto arrotolato e le toppe di tessuto di Naj-Oleari, le calze a scacchi
Burlington dentro agli scarponcini Timberland (o agli stivali Frye).
Nessuno è più felice della Moda, quando nasce una nuova tribù da vestire.
A pensarci bene, la marcia delle griffes verso la conquista delle leve del potere della
Moda cominciava a palesarsi proprio negli anni in cui tuo padre cercava di destreggiarsi,
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come s’è visto non sempre con fortuna, nel mezzo della guerra tra compagni e fasci. Mentre
i primi si godevano inconsapevolmente le ultime libertà di un’esistenza ancora essenzialmente unbranded, alle colpe storiche dei secondi si aggiungeva quella di essere stati
protagonisti di una delle prime forme di totale sottomissione e dipendenza giovanile dai
marchi.
Se eri un compagno, soprattutto di una certa area, difficilmente nel tuo guardaroba poteva mancare l’eskimo, un giaccone militare povero in cotone col cappuccio, lungo
fin quasi al ginocchio, foderato con una specie di vello sintetico bianco. Nonostante il
suo nome, se gli eschimesi avessero realmente dovuto ripararsi dal freddo con quel capo
d’abbigliamento si sarebbero estinti nel giro di un paio d’inverni. L’eskimo non era assolutamente impermeabile e non teneva mai abbastanza caldo ma aveva tre grandissime
qualità: costava poco, ti faceva sentire parte di un’idea e aveva tasche capienti, perfette
per occultare la piccola refurtiva nei grandi magazzini e altre cose utili in caso di manifestazione. Grazie alla possibilità di rimuovere la fodera, trasformandolo in una specie di
leggero spolverino informe, il suo utilizzo poteva estendersi a quasi tutti i mesi dell’anno.
L’eskimo si chiamava eskimo, ma era un nome di genere, non un marchio. Nessun eskimo
aveva scritto eskimo da qualche parte e non c’era un eskimo esattamente identico all’altro.
Però tutti si chiamavano eskimo.
Il resto dell’abbigliamento era composto da jeans di ogni marca, inevitabilmente
scampanati (o a zampa, come si diceva, senza più specificare d’elefante) perché così aveva
deciso la Moda di quegli anni, infine camicie, magliette, maglioni a piacere, il tutto senza
un nome né un cognome.
Soltanto le Clarks ai piedi (ma molto più spesso le loro imitazioni nostrane) potevano incrinare l’assoluto anonimato, nel senso della griffe, dell’abbigliamento standard dei
compagni, i quali, curiosamente, dimostravano molto più attaccamento al marchio della
chiave inglese che a quello di una camicia, preferendo, non so per quale motivo, la Hazet
alle altre. Forse solo per poter scrivere sui muri Hazet 36 fascio dove sei?.
Dall’altra parte della barricata era tutta un’altra storia. L’estrazione borghese, fieramente ostentata, pretendeva un’eleganza sconosciuta al nemico proletario, sporco e trasandato come da tradizione. E questa aveva le sue regole, le sue griffes ideologiche, i suoi must,
si dovrebbe dire oggi. Generalmente ricercate, quindi costose. Il fascio, in buona sostanza,
ambiva a vestirsi con roba bella, come direbbe tua nonna Deda se ancora capisse di cosa
stiamo parlando. Camicie di quelle serie, golf di cashmere, cappotti e impermeabili di
ottima fattura. Tanto il nemico dimostrava tutto il suo disprezzo comunista nei confronti
dell’ostentazione del denaro, del lusso e dell’eleganza, tanto da questa parte si rendeva
necessario elevarla a totem con una determinazione e una devozione che anticipavano i
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tempi.
Se il piede del compagno vestiva lo scarponcino puzzone e scalcagnato, quello del
fascio esibiva mocassini con le nappine o stivaletti con la cinghietta marca Barrow’s tirati a
lucido. Decretando così il successo dell’italianissimo calzolaio che si era inventato l’inglesissima firma, con tanto di Union Jack come marchio.
Ma era nell’accessorio, che i sanbabilini si superavano: le loro orecchie furono le
prime ad essere avvolte dalle dorate stanghette elastiche dei Ray Ban da aviatore con le lenti
verdi a goccia. Ma dalle loro tasche, al momento di accendersi una sigaretta, non uscivano
gli Zippo d’ordinanza, bensì accendini che valevano un patrimonio: i più classici modelli
Dunhill o Dupont, quando non addirittura Cartier.
Anche il profumo aveva la sua importanza, come elemento distintivo: tra i compagni
non c’era tempo per certe mollezze borghesi. I fasci, invece, si avvolgevano in nubi di Pour
un Homme de Caron oppure di Eau Sauvage Dior, o, in mancanza di meglio, del più economico Brut Fabergé.
Le loro teste, all’occorrenza, venivano mantenute calde da morbide coppole, rigorosamente di marca Kangol. Viene da chiedersi cosa avrebbero pensato i giovani paladini
della razza ariana se avessero potuto immaginare che lo stesso articolo, una ventina d’anni
dopo, si sarebbe rivisto quale accessorio cult dei rapper negri, portato all’incontrario per
mostrare il canguro del marchio, ormai uscito dalla fodera dell’interno e ingranditosi
come ogni marchio che si rispetti ha fatto col passare degli anni.
Dal momento in cui ha cominciato a valere per se stesso e non più soltanto come
biglietto da visita, per quel che rappresenta e non per quel che è, il trionfo dell’apparenza
e dell’apparire ha elevato il marchio al rango di essenza dell’oggetto stesso. Milioni di terrestri hanno così cominciato ad essere felici di poter diventare spazi pubblicitari mobili
al servizio della Moda, orgogliosi manichini ricoperti di loghi da capo a piedi. Non pagati
ma parecchio paganti.
Ne puoi vedere di ogni età e condizione economica. Dalla signora bene che ostenta
occhiali da sole con le stanghette alte tre dita perché possano ospitare due enormi C incrociate, al ragazzino felice di aver speso una somma insensata per poter sfoggiare una felpa
sdrucita con su scritto ABERCROMBIE.
Dal momento che l’apparenza è tutto, il falso imperversa e invade il mercato per
chi le somme insensate non se le può permettere. E così, oltre agli originali, potrai vedere
la signora e il ragazzino anche in versione povera sfoggiare gli stessi articoli (stessi all’apparenza, s’intende).
Ma quando l’ultima Moda, vera o falsa che sia, raggiungerà finalmente le bancarelle dei mercati rionali per essere cercata e rivoltata nel mucchio dalle mani avide d’occasioni
del popolo, come minimo sarà già diventata la penultima. I sacerdoti del culto avranno
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da tempo dettato i precetti di un nuovo credo, che promette la salvezza dall’anonimato,
l’accettazione da parte del branco e l’ingresso nel regno del trendy, esattamente come tutti
quelli che l’hanno preceduto.
E si ricomincia, magari all’insegna della citazione o della rivisitazione, differente
dall’oggetto del tributo quel tanto che basta per scoraggiare chi volesse andare a ripescarlo
nell’armadio nella sua versione primigenia e tornare ad indossarlo senza paura. Da uno di
quegli armadi che le mamme di tanto in tanto riordinano riesumando cappelli, cappotti,
gonne e bluse ordinatamente riposte nei sacchetti con l’antitarme. Capi in perfetto stato,
che però non si possono più indossare senza sembrare ridicoli. Vengono guardati con una
sorta di contenuto rimpianto (vuoi per quanto erano costati, vuoi per i ricordi a loro associati) misto a divertimento, perché propongono forme, colori o dettagli che non si usano
più, scambiando l’effetto per la causa. Per uno di questi che non passa più l’esame e finisce
alla parrocchia, dieci riprendono il loro posto nell’armadio perché magari prima o poi tornano di moda.
Certo, prima o poi tutto torna, anche perché il vestirsi è un po’ come il sesso: per
quanta fantasia si possa avere, il numero delle combinazioni possibili non è così elevato e
certamente non infinito. E se escludiamo i rituali esoterici durante i quali i Creatori della
Moda vestita si divertono a umiliare giovani ambosessi sulle passerelle, facendoli sfilare
con espressione truce acconciati come fantasiosi deficienti, tutta la questione si dovrà per
forza di cose risolvere in giacche che più di due braccia non potranno avere, in pantaloni
inevitabilmente composti da un culo e da due gambe, da camicie che un buco per la testa
dovranno prevederlo. Così, il talento dei Creatori, limitato dalla noiosa ripetitività delle
forme umane, si trova costretto suo malgrado a riversare sui dettagli tutto il suo bisogno
d’esprimersi. Da vita bassa a vita alta, da lungo a corto, da aderente ad ampio, da un petto
al doppio petto, da strutturato a destrutturato e via dicendo. Lo scopo della macchina della
Moda è continuare a proporre, riproporre ma soprattutto imporre sufficienti variazioni al
precedente look, che in tal modo verrà reso immediatamente superato. O meglio, datato.
La capacità di datare è forse l’unico risvolto utile che mi sento di riconoscere alla
Moda. Se guardando un album di famiglia siamo in grado di collocare nel tempo con
buona approssimazione le fotografie che abbiamo davanti, il merito è tutto suo. Uomini,
donne, bambini, siamo tutti schedati dal look, come gli attori di un’interminabile saga
familiare. Senza la Moda non sarebbe facile essere sicuri che quella foto di gruppo in cui
tutti i ragazzi presenti portano enormi basette sotto i capelli lunghi pettinati con la riga
da una parte e vestono golfini striminziti da cui esce un colletto di camicia esagerato è
stata certamente scattata negli anni settanta. Analogamente, non potremmo assegnare con
estrema facilità agli ottanta quel ritratto di donna in cui tutto sembra fuori scala: la criniera leonina che le circonda il viso, le spalle imbottite della giacca e il diametro degli anelli
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che le adornano le orecchie. La Moda scandisce le epoche della nostra vita con i costumi
che ci impone di mettere, aiutandoci a dividerla in capitoli e a pensarla in qualche modo
più lunga di quello che è stata.
Vuoi sapere se ci si può sottrarre al suo potere? Non è una passeggiata, se si vuol
continuare a vivere una vita di quelle normali, relazionandosi con il consorzio civile. La
Moda accerchia, e fa terra bruciata di tutto ciò che non le è conforme. Ne consegue che
risulta molto più impegnativo non essere alla moda piuttosto che esserlo, senza contare
che l’ostinata ribellione alla sua schiavitù comporta il rischio di rendersi schiavi del suo
esatto contrario e della fatica che questo comporta.
Nel pieno della moda dei jeans a zampa, tuo padre voleva insistere nell’insano proposito di continuare a indossare dei jeans normali. Trovare chi ancora aveva il coraggio
di venderli era un’impresa. Quando un giorno scoprii che un magazzino puzzolente di
abiti militari usati li vendeva ancora, non potevo crederci. Erano di marca Roy Rogers, ovviamente italiani, come quelli che mi comprarono da bambino. Recentemente ho rivisto
quel marchio nella vetrina di un negozio molto cool, rilanciato nell’ambito del vintage, un
nome suggestivo che la Moda si è inventata per venderti a caro prezzo certi articoli fatti
come si facevano in passato. Personalmente, debbo ringraziare il vintage se tempo fa sono
finalmente riuscito a comprarmi dei normalissimi pantaloni da ginnastica stretti alla caviglia, dopo essere stato guardato per anni come un mentecatto da commesse e commessi
di vari fitness & sport store di fronte alla mia stravagante richiesta.
No, noi li abbiamo solo così… e via con la sfilata di pantaloni svolazzanti da allegro
coreografo. Ora quelli che cercavo li trovi anche nei grandi magazzini più economici. Mi
converrebbe farmene una scorta, prima che finisca il momento del vintage.
Sfuggire alle maglie della Moda può riuscire senza sforzo solo a chi si trova all’estremità di due condizioni opposte, ovvero a chi è davvero povero e a chi è davvero ricco. Molto difficilmente gli abiti rimediati in parrocchia rispondono ai canoni vigenti, e
questo garantisce l’immunità del povero. Il ricco, invece, se gli garba non avrà nessuna
difficoltà a pretendere ciò che crede dal suo sarto di fiducia o a fare acquisti nei vellutati
templi della Moda Classica, sempre disponibili ad accontentare chi non guarda al prezzo.
Per tutti gli altri non c’è scampo. Chi più, chi meno, volenti o nolenti, con gioia
o con rassegnazione, la Moda ci contagia tutti. E tutti finiamo per assomigliarci, a bordo
delle nostre auto tutte uguali color grigio metallizzato, ora che è inverno tutti coperti con
giacche e giacconi imbottiti di piumino rigorosamente neri, tutti pronti a mostrare quando sarà estate il nostro corpo ricoperto dai più assurdi tatuaggi. Era una cosa da marinaio
o da ergastolano, il tatuaggio, e ora decora le spalle di mamme incensurate. Il conformismo travolge i confini della trasgressione, che devono spostarsi continuamente da un’altra
parte, come i campi degli zingari.
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E giusto a proposito di zingari, ci crederesti che nei primi mesi del 1975, a Milano,
trovare in vendita un paio di orecchini da buco non era una cosa semplice? Le donne moderne, nordiche e urbane, si erano appena disfatte della tradizione un po’ barbara e contadina che forava i lobi delle bambine quasi come fosse il loro secondo battesimo. Questo
non significa che le donne non portassero gli orecchini, semplicemente mettevano quelli
con la clip o con una specie di sadico morsetto a vite, che non richiedevano fori ma in
compenso strizzavano i lobi fino farli diventare viola. E siccome la Moda è la moda, nelle
gioiellerie e nelle bigiotterie questo si vendeva. Come orecchini da buco trovavi al massimo
qualche pendente per le signore anziane.
Come faccio a saperlo? Perché nei primi mesi del 1975, a Milano, stavo cercando
di comprarne uno ad anello, dal momento che mi ero finalmente deciso a fare il grande
passo: mettermelo. Mi era sempre piaciuto vederlo alle orecchie dei filibustieri, ed era l’unica cosa che mi affascinava del supponente Corto Maltese. Ma la svolta me la fornì uno
sceneggiato francese a puntate visto in tivù. Si chiamava Capitaine Coignet e raccontava la
storia vera di un soldato che partecipò a tutte le campagne di Napoleone, fino a diventare
capitano della Guardia Imperiale, un corpo d’élite che tra i suoi segni distintivi aveva un
paio anelli d’oro alle orecchie. Di riferimenti nel presente non ne avevo e non conoscevo
nessuno, neanche di vista, che portasse l’orecchino. La cosa non era di moda, ma non
solo: era meravigliosamente trasgressiva.
Finalmente, un giorno li trovai e furono miei: una coppia di anelli d’argento (d’oro
costavano troppo), un po’ più piccoli di quelli di Capitaine Coignet. Non immaginarti gli
anellini microscopici che avrebbero spopolato anni dopo: gli orecchini di tuo padre erano
veri orecchini.
Restava il problema del buco. A differenza di oggi, dove vedi esposto persino nelle
farmacie il cartello QUI SI FORANO LE ORECCHIE, nessuno allora era organizzato per
farlo, essendo la domanda pressoché inesistente.
Ma la punta dei miei bellissimi orecchini era davvero aguzza, per cui pensai che
forse non ci sarebbe voluto molto per farle fare quello che normalmente veniva fatto, così
mi avevano detto, con uno spillone. La disinfettai con l’alcol, mi misi davanti allo specchio del bagno, la puntai al centro del lobo e cominciai a spingere. Ci volle molto meno
di quel che pensassi perché entrasse e ancora meno perché spuntasse dall’altra parte dopo
aver fatto emettere un cric all’ultima resistenza della pelle. Una goccina di sangue completò
e concluse il breve rito iniziatico: potevo chiudere il mio orecchino.
Il risultato fu così invidiabile che Daniele non resistette e nel giro di poco tempo
rilevò l’altra metà della coppia di orecchini e con l’ormai collaudato sistema fai da te “fora
e chiudi” se la mise all’orecchio sinistro.
La gente si girava a guardarci e alle ragazze piaceva il pirata che si era svegliato in
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noi. Molti rosicavano: ci voleva del coraggio, per imitarci.
Due anni dopo, al momento di partire per il servizio militare, tolsi l’orecchino e
lo misi in una scatoletta. Tornato nel mondo civile dopo il congedo scoprii che persino il
cassiere della banca portava un piccolo pallino al lobo: l’orecchino non era più trasgressione, era di moda. Così lo lasciai per sempre dove stava.
Attualmente la moda dell’orecchino maschile è trasgressiva più o meno quanto
quella del braccialettino d’oro. Superato da piercing d’ogni genere e da tatuaggi tribali a
tutto braccio, l’articolo sembrerebbe destinato all’abbandono nel giro di pochi anni.
Quasi quasi, per festeggiare i sessanta me ne rimetterò uno.
Magari un pendente, con la faccetta di Adalgisa in argento.
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Venti
Il tizio che aspetta in fondo al binario sembra il Minozzi
Il tizio che aspetta in fondo al binario sembra il Minozzi. Pare proprio lui. Ma no
che non è lui. Cosa ci fa il Minozzi a quest’ora alla stazione centrale? Eppure…
«Oé, ciao!»
È davvero il Minozzi, mio cognato.
«Ciao, Alberto! cosa ci fai, qui?»
«Ma niente, dovevo ritirare un pacco qua vicino…mi han detto che arrivavi adesso
e allora…cià che vi dò uno strappo in macchina.»
Dopo una notte passata in treno cercando di dormire nonostante il caldo puzzolente dello scompartimento chiuso e il russare asincrono di un’intera famiglia io e Daniele
non possiamo che apprezzare la sorpresa.
Sbrigativo come sempre, il Minozzi agguanta le nostre valigie e prima ancora che si
riesca a dire un ma si è già avviato a passi lunghi verso l’uscita.
Alberto Minozzi, ragazzo di mia sorella da una vita e marito da un paio d’anni. Un
mito, per me ragazzino. Alto, disinvolto, con la battuta pronta, motociclista spericolato
con un suo negozio di moto. Mi regalò un impagabile momento di gloria riflessa un giorno, all’uscita da scuola, quando si fece mezza via Cagnola in penna sulla ruota posteriore
di una bianca, neonata Guzzi V7. Davanti ai miei compagni a bocca aperta io potei dire
con nonchalance:
«Quello è il ragazzo di mia sorella.»
A tua zia Laura faceva spesso regali spettacolari, di quelli che mettevano in imbarazzo
nostra madre. Come il Natale in cui il campanello suonò, e quando andai ad aprire la
porta trovai solo una grande cesta di vimini piena di paglia da imballaggio in mezzo alla
quale un cucciolo di cocker con un fiocco rosso al collo mi guardava dal basso come solo
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un cucciolo di cocker con il fiocco rosso al collo è capace di fare.
Il Natale seguente, un altro colpo di scena.
Nel frattempo Pippo, il cockerino, era stato soppresso dopo pochi mesi dal suo
arrivo per non so che malattia congenita incurabile, straziando i cuori di tutta la famiglia
e chiudendo per sempre il capitolo sugli animali domestici perché poi quando muoiono si
soffre troppo.
Il Natale seguente, dopo lo squillo del campanello, invece di un cocker con il fiocco al collo trovammo un Ciao con il fiocco sul fanale. Il Minozzi aveva regalato a tua zia
nientemeno che il ciclomotore più in voga del momento.
Ma è matto? ripeté nostra madre non meno di quattro volte nel giro di pochi minuti. E mentre la mia annoiata sorella non sembrava particolarmente emozionata dal regalo
ricevuto, io, in preda all’esaltazione ciclomotoria, avrei invece dato un occhio perché fosse
mio e per poter compiere in quel preciso momento i quattordici anni di vita necessari per
guidarlo.
Quando finalmente li raggiunsi cominciai pian piano a prendere possesso del mezzo, che per fortuna tua zia continuava, per una ragione o per l’altra, a non utilizzare. A
differenza del povero Pippo, il Ciao era di sana e robusta costituzione, e sopportò la dura
vita da adolescente che gli feci fare.
Grazie al Minozzi e alla sua generosità un po’ da baüscia, mi ero di fatto ritrovato
proprietario di un ciclomotore senza alcuno sforzo: anche solo per questo era doveroso considerarlo un mito.
«Allora, piaciuta Parigi?»
Il Minozzi zigzaga mollemente nel traffico con la stessa disinvoltura di un tassista
a fine turno. Milano non mi è mai sembrata così piccola e grigia.
«Parecchio.» «Bellissima.»
«Sì ma Londra…Londra è il massimo, ragazzi!»
«Eh beh...» «Eh sì… »
«Ci siete mai stati?»
«Io no.» «Neanch’io.»
«Dovete andarci, a Londra, ci sono cose pa-zze-sche! Una volta sono stato in un
locale dalle parti di Carnaby Street dove il banco era il davanti di una Jaguar E e dietro a
servirti c’era una figa spaziale con la mini fin qui. Dovete andarci. Va bene qui?»
«Sì, grazie, qui va benissimo.»
Milano è davvero piccola. Siamo già davanti a casa di Daniele.
«Oh, ci sentiamo. ciao.» «Okay, ciao.»
Tra la casa di Daniele e la mia in auto ci sono un paio di minuti di corso Sempione
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che il Minozzi riduce alla metà guidando in un improvviso silenzio. Poi, entrando nella
piazza, fa una manovra che non capisco. Invece di girare subito a sinistra passando davanti all’arco, tira dritto e se lo lascia alle spalle, ferma la macchina nel piazzale che dà sul
parco e spegne il motore.
«Senti...devo dirti una cosa.»
Non ha più la faccia di quello che racconta di fighe spaziali di Londra.
«Mentre eri via tuo papà è stato molto male.»
Improvvisamente è Parigi a diventare piccola come è giusto che siano piccole le cose che non hanno più nessuna importanza.
«Male come?»
«Ha avuto un infarto.»
«Dov’è, adesso? in ospedale?»
Lascio il castello sforzesco lì dove sta, fermo nel cielo bianco, in fondo alla prospettiva di prati spelacchiati che comincia dopo il cofano della macchina, staccando gli occhi
dalla cima della torre dove mi si era incollato lo sguardo e mi giro a guardare in faccia
Alberto Minozzi, mio cognato.
Lui mi mette una mano sulla spalla.
«È morto. Fatti forza.»
L’idea del capodanno a Parigi ci frullava in testa da un po’, in quel lontano 1973.
Frullava soprattutto nella testa di Daniele, che c’era già stato per qualche giorno all’inizio
dell’estate insieme a un altro amico. Era tornato entusiasta, pieno di rullini di foto in
bianco e nero da sviluppare.
«È una figata: dobbiamo andarci a fare il capodanno» sentenziò.
E “capodanno a Parigi” divenne la parola d’ordine.
Passarono i mesi e arrivò finalmente Natale. Un paio di giorni dopo, espletati pranzi e contropranzi, eravamo pronti per la nostra avventura.
Per andare a Parigi non c’erano treni ad alta velocità affusolati come jet, ma ti ci
portava un treno come tutti gli altri, con il corridoio da un lato e gli scompartimenti
dall’altro, le luride tendine marroni marchiate FFSS e il riscaldamento con la leva da regolare tra CALDO-CHAUD-WARM e FREDDO-FROID-KALT. Partiva intorno alle dieci di
sera dalla Stazione Centrale e arrivava alla Gare de Lyon verso le otto del mattino. L’ora
ideale per riempirsi le narici addormentate con il profumo burroso dei croissant caldi.
Eccoci lì, con le nostre due valigie e le nostre due chitarre, accessorio che in quegli
anni non potevamo nemmeno immaginare di lasciare a casa, ovunque dovessimo andare. Due giovani emigranti del divertimento, che già si guardano intorno come
bambini a una fiera, nonostante la Gare de Lyon sia solo una stazione come tante. Ma ba157
sta uscirne perché gli occhi pieni di sonno si spalanchino su un’altra dimensione di città,
lungo prospettive e distanze che il nostro piccolo orizzonte di casa non prevede.
Gli odori nell’aria concorrono all’emozione insieme alle facce, quelle delle ragazze
che subito sembrano più adorabili di qualunque italiana, quelle dei neri e degli arabi che
da noi non se ne vedono.
Persino l’orecchio vuole subito la sua parte, quando passa un’auto della polizia con
la sirena bitonale come in una puntata di Belfagor.
Cazzo, siamo davvero a Parigi!
Dormivamo all’Hotel Sully, un microscopico albergo ricavato in una palazzina di
tre piani larga al massimo cinque metri, due finestre per piano, schiacciata tra le altre della
rue St.Antoine. Dormivamo e ci lavavamo. Quel buco di stanza interamente occupato da
un letto a una piazza e mezzo scarsa e da un lavandino sbrecciato era giusto una tana in
cui riposarsi prima di uscire nuovamente alla scoperta della città. Non ci serviva altro.
Macinavamo chilometri a piedi lungo gli immensi boulevard, seguendo la Senna,
nei vicoli che salgono e scendono da Montmartre, nei tunnel e sulle scale del metrò, che
avevamo subito imparato a sfruttare in lungo e in largo, disegnando ogni giorno con tutti
i colori delle sue linee un assurdo reticolo di itinerari rigorosamente improvvisati.
Noi, abituati a una rete metropolitana composta da una sola linea e una ventina di
fermate, ci buttavamo nel gioco dei cambi di destination come se non avessimo mai fatto
altro. Mischiati alla folla lungo le interminabili gallerie piastrellate, cominciavamo a pensare che l’odore di frites e Gauloises assomigliasse molto a quello della libertà.
Di giorno divoraravamo tutti i luoghi comuni del turismo parigino disponibili con
la stessa voracità con cui facevamo sparire i croque monsieur dei baracchini con cui pranzavamo. Ottenendo dagli uni e dagli altri più che altro un’impressione, come un omaggio
della nostra gioventù ai fantasmi della bohéme che ci svolazzavano intorno.
La notte, dopo una breve sosta nel nostro buco in rue St.Antoine e una sobrissima
cena al Dupont di place de la Bastille, giravamo la città per la città, lasciando che fosse lei
a decidere il programma. Aspettando una sua proposta finivamo per suonare la chitarra
seduti al gelo su di una panchina del lungo Senna o sulla gradinata del Sacré Coeur. Una
volta anche nel metró, per stare più al caldo ma anche per il gusto di cantare in italiano ai
francesi che passavano senza capire niente.
Una birra in un bistrot segnava l’ora della buonanotte e del lunghissimo rientro
senza fretta, chitarra in spalla e la Gauloise pendula al labbro, due improbabili incroci tra
Crosby, Stills e Gabin.
Era il momento in cui si finiva col parlare del programma per l’ultimo dell’anno e,
conseguentemente, del magico Club Tahitienne e delle gioie che ci avrebbe riservato.
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Come fai a non piangere quando ti dicono di punto in bianco che non vedrai mai
più tuo padre? Infatti piangi, cercando di farlo più silenziosamente che puoi, come devono fare gli uomini, che al massimo si lasciano scappare qualche rauco singhiozzo. Torni a
guardare la punta della torre del castello senza più metterla a fuoco, immagine traballante
dietro le lacrime, come le piante dietro le vetrine dei fioristi con l’acqua che scorre lungo il
vetro. Piangi tutto quel che ti riesce di piangere anche se non vorresti farlo seduto accanto
al Minozzi, di fronte al quale hai sempre sognato di poterti mostrare più figo che mai.
«Piangi adesso ma poi basta, eh…?» dice lui coprendo finalmente con le parole i
miei singhiozzi sommessi.
«Tua madre è già abbastanza a pezzi e l’ultima cosa di cui ha bisogno è di vederti
piangere. Capito?»
Il Club Tahitienne era uno dei locali più piccoli della Rue Pigalle, forse il più piccolo in assoluto. Una minuscola porta stretta tra l’ingresso purpureo di un altro night club
e le scintillanti vetrine di un sexy shop, sormontata da un esotica insegna al neon con tanto
di palme, era il suo modo molto discreto di presentarsi al mondo. Daniele l’aveva scoperto durante il suo soggiorno estivo solo perché il buttadentro era stato particolarmente
convincente con lui e il suo amico Fabrizio. M’sieur Italiens! taliani! jolies femmes, belafica a
l’interno! poco d’argento, poco! antrate, antrate…
I due erano antrati e comodamente seduti a un tavolino si erano goduti bevendo
coca e rhum l’affascinante spettacolo di una lunga serie di jolies femmes intente a prodursi in
sapienti strip tease. Il tutto a un prezzo più che ragionevole, con poco d’argento.
Sulla base di quest’esperienza, Daniele e io avevamo deciso all’unanimità di arricchire il programma della nostra settimana parigina con un evento all’altezza della situazione: il capodanno a Pigalle, al Club Tahitienne. La mezzanotte del 31 dicembre 1973 ci
avrebbe trovati lì, bicchiere in mano, a brindare all’anno nuovo. Cascasse il mondo.
Mancavano ancora un paio di giorni a quel fatidico momento, quando a Daniele
venne l’idea destinata a cambiare sostanzialmente lo scenario dei nostri festeggiamenti.
Eravamo in albergo, nella nostra microscopica camera, sdraiati sul letto a fumare
guardando il soffitto, dopo aver consumato una cena a base di baguettes spalmate di formaggi vari. Un po’ per risparmiare, un po’ perché avevamo voglia di qualcosa di diverso
dai soliti piatti economici del Dupont, comprese le immancabili frites.
Da qualche parte del soffitto, forse tra le volute fumo che salivano dalle Gauloises,
Daniele trovò la sua infelice idea.
«Perché non andiamo al Club Tahitienne?»
«Stasera? e a capodanno?»
«Anche. Stasera andiamo solo a dare un occhio, vediamo che aria tira, giusto un
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salto.»
«Oh: non facciamoci pelare.»
«Ma no, stiamo attenti.»
«Ci mettiamo la giacca?»
In previsione del nostro personalissimo veglione avevamo addirittura messo una
giacca in valigia, caso mai si fosse rivelata indispensabile per l’occasione. Rimanere fuori
dal Club Tahitienne per colpa di un dettaglio sarebbe stato imperdonabile.
«Beh…già che ce l’abbiamo…»
La minuscola porta del Club Tahitienne dà su un altrettanto minuscolo ingresso
alle cui minuscole pareti sono affisse un po’ di fotografie in bianco e nero dei numeri
che il locale propone. Il rettangolino nero che oscura il basso ventre delle artiste ritratte è
pezzo forte dell’offerta.
Oltre il metro quadrato dell’ingresso, una scala ripida e stretta sale verso un presunto minuscolo paradiso, ma il tutto è rosso su rosso come se invece si scendesse in un
minuscolo inferno.
Eccomi finalmente tra le braccia del Club Tahitienne, più prosaicamente una stanza buia e ovattata contenente un microscopico palcoscenico a un’estremità, un microscopico banco bar all’altra e neanche una decina di tavolini nel mezzo. Una musica languida
accompagna le mosse
di una spogliarellista a metà dell’opera sotto la luce bianca di un riflettore.
In un turbinio di bonsoir! e bienvenus! veniamo immediatamente circondati dai corpi, dal profumo e dalla calorosa, insistente ospitalità di due donne che per quanto la luce
ultravioletta dell’ingresso ci lascia vedere appaiono piuttosto attraenti. Quello che invece
la stessa luce rivela ed esalta in modo imbarazzante, oltre alle dentature delle nostre ospiti,
è la nevicata di forfora adagiata sulle spalle della giacca scura di Daniele.
Prenez place, chéris, prenez place...
Completamente frastornati, perdiamo completamente il controllo della situazione,
e in men che non si dica ci ritroviamo seduti a un tavolino in primissima fila, si potrebbe
dire di proscenio, in compagnia delle struscianti entraîneuses e in attesa, ça va sans dir, di una
bottiglia di champagne. Sono bastati pochi minuti per vedere fallire completamente il
proposito di una ricognizione discreta, poco impegnativa da tutti i punti vista, a cominciare da quello economico. Non siamo riusciti ad opporre la benché minima resistenza
all’azione impeccabile che ci ha immediatamente inquadrati, valutati e sistemati al posto
che ci compete: quello dei polli. Due polli di diciassette anni.
Guardo Daniele con tutto il disappunto di cui sono capace.
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Lui non trova niente di meglio da dire:
«Cazzo, dev’essere colpa della giacca, ci han presi per due con i soldi.
non dovevamo metterla.»
Quando si ha diciassette anni, oltre che polli si è molto leggeri, e straordinariamente portati a vedere il lato comico delle cose. Guardo Daniele con la sua forfora fluorescente, le due tipe appollaiate ai nostri fianchi, la tizia che sta cominciando a spogliarsi a un
niente dal nostro tavolino sulle note di un atroce bolero, e mi appare l’assurdità complessiva della situazione in tutta la sua grandezza e mi piglia un attacco di ridarola come se
invece che a un tavolino del Club Tahitienne a Pigalle fossimo ancora seduti nei banchi
della III D della Scuola Elementare Pietro Moscati.
Arriva il cameriere. Voilà! Champagne!
Adesso ridono anche le tipe, fingendo di divertirsi come non mai.
Daniele mi si avvicina all’orecchio:
«Dài che magari si scopa…» e mi dà il colpo di grazia.
Non si scopò. All’iniziale imbarazzo di trovarci in dolce compagnia di due tardone (avranno avuto trent’anni) seguì un patetico tentativo di conversazione, che presto si
esaurì per la mancanza di argomenti e per i limiti del nostro francese molto scolastico. A
un certo punto Daniele si azzardò ad appoggiare la mano sulla coscia della sua, una nera
vestita di nero, di cui rimaneva visibile solo il sorriso quando le luci sul palcoscenico si
abbassavano. Un’azione che non fu preludio di nulla, se non di un’ennesima esilarante
comunicazione al mio orecchio:
«Ha la coscia durissima…mi sa che ha la gamba di legno.»
Lo champagne, che la mia bionda si divertiva a sgasare facendo girare un affare di
legno nel bicchiere, finì molto presto, ma per fortuna trovammo la forza per dissuadere
le due signore dall’idea di ordinarne una seconda bottiglia. Non a caso nel giro di poco ci
lasciarono da soli, ma con molte scuse e molto garbo.
Ci dedicammo allora a un’osservazione più attenta degli strip che si succedevano
accanto al nostro tavolino. Niente a che vedere con gli unici altri che avevamo conosciuto
dal vivo, ovvero quelli che tradizionalmente seguivano alla proiezione pomeridiana di un
filmaccio erotico sul grande palco vuoto del Cinema Teatro Smeraldo, davanti a una magra platea di vecchi bavosi e catarrosi. Le spogliarelliste che si esibivano lì avevano visto
tempi migliori sotto ogni punto di vista e, oltretutto, non si concedevano mai completamente, e finivano la loro esibizione con i dischetti e il triangolino
sbarluccicanti a occultare i capezzoli e le pudenda.
Les Artistes del Club Tahitienne erano altra cosa. Giovani e decisamente compatibili
con il concetto di sessualmente attraente che può avere un ragazzo di diciassette anni, non
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solo si esibivano molto più disinvoltamente delle carampane sovrappeso dello Smeraldo,
ma terminavano il loro numero come mamma le aveva fatte, perlomeno nelle zone di
maggior interesse per gli spettatori. Confesso senza timore che le prime esibizioni mi
lasciarono senza fiato, soprattutto una che terminò in modo spettacolare con un ginnico
ponte rivolto a mio favore a una distanza dai miei occhi che non superava il metro e mezzo.
Ma, col passar del tempo e dei mozziconi di Gauloises che si accumulavano nel posacenere, lo spettacolo cominciò a perdere d’interesse. Definitivamente abbandonati dalle
nostre due intrattenitrici, impossibilitati a ordinare qualcos’altro perché già atterriti dal
conto che ci aspettava, stavamo scivolando in una cinica malinconia, ma ci salvammo in
tempo dedicandoci a una nuova distrazione.
Cominciammo a prestare attenzione agli sviluppi della serata di un tizio entrato
nel locale poco dopo di noi, evidentemente in grado di spendere ben più di noi. Decisamente brillo, era ormai alla terza bottiglia di champagne ordinata platealmente e condivisa (si fa per dire) con una brunetta che gli s’era appiccicata da subito e lì continuava a
stare, ridendo alle battute di lui e incassando bacini sul collo e palpate qua e là.
«Se non scopa questo non scopa nessuno.»
«Bisogna vedere se ce la fa.»
«Quanti cazzo di franchi gli peleranno, alla fine…?»
In quel momento un’improvvisa animazione servile intorno al suo tavolino introdusse l’apoteosi: dopo aver apparecchiato per due, venne portato in grande pompa un
pollo arrosto, che il tizio cominciò a divorare con gusto.
Anche in noi, s’era svegliato un certo appetito. Insieme a un certo sonno. Anche se
non potevamo crederci, erano quasi le sette del mattino. Ma non era il Club Tahitienne a
vivere di un tempo tutto suo: a macinare le ore era stata la nostra incapacità di rassegnarci
al triste epilogo della serata.
Come da previsioni, ma anche un po’ peggio, la cifra da pagare avrebbe ridotto le
nostre finanze a un livello preoccupante, sufficiente appena alla mera sopravvivenza per i
giorni di vacanza che ci restavano. Tradotta in lire, facevano circa venticinquemila lire a
testa. Nel 1973 erano una botta che saresti ricordato per sempre, come puoi ben vedere.
Fuori, una gelida alba stava svegliando Rue Pigalle. Gli spazzini scopavano il marciapiede, e i rigagnoli d’acqua scorrevano ai margini della strada portandosi via lo sporco.
Stretti nelle nostre inutili giacche c’incamminammo verso la fermata del metrò.
L’ingresso del numero 4 di piazza Sempione non ha nulla di diverso dal solito.
I quattro gradini con la passatoia rossa in cui regolarmente s’inciampa sono gli stessi, e
anche quella specie di acquasantiera sormontata da un putto di cui non s’è mai capita né
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la provenienza né tantomeno l’utilità è sempre lì al suo posto. La porta a vetri fa il solito
rumore secco, quando la metà che si spinge si scosta dall’altra. Tutto nella norma, ad eccezione della Signora Giulia. Quando mi ha visto al di là dei vetri della portineria si è messa
una mano sul viso ed è scivolata via nella stanza sul retro. In quel momento la cabina di
legno e vetro dell’ascensore cala dal primo piano e raggiunge terra con la solita, esasperante lentezza, sbloccando infine la porta di ferro con un rumore che conosco benissimo. Le
cose restano cose, e non gliene frega niente dei fatti nostri.
Dall’ascensore esce il Signor Bonomi del terzo piano. Mi vede, si ferma, si toglie il
cappello e mi porge la mano.
«Le mie condoglianze» dice in un soffio.
Quando la mamma mi apre la porta mi accorgo che nessuna delle cose che vorrei
dire troverà il modo di uscire da me, per adesso. L’abbraccio, e mi sembra diventata più
piccola e più magra. Mi accarezza la testa come quando ero bambino, e penso che era da
tanto che non lo faceva. Mi guarda con gli occhi gonfi, accenna un sorriso e mi chiede:
«È bella Parigi?»
«Gli Hare Krishna!»
«Gli Hare Krishna cosa?»
«Il festino vegetariano! non ti ricordi? sul volantino che ci avevano dato quelle due
là. Ce l’hai tu?»
«No, l’ho buttato.»
«Cazzo, dobbiamo ribeccare le due tipe!»
L’ultimo giorno dell’anno era arrivato. Daniele e io, sdraiati sul letto a fumare,
come sempre quando c’era da concentrarsi, stavamo spremendoci le meningi per trovare
una soluzione compatibile con le nostre ridicole finanze per festeggiare il capodanno parigino da qualche parte. Il piano B dopo la disfatta del Club Tahitienne. E improvvisamente
avevo avuto l’illuminazione.
Le avevamo incontrate qualche giorno prima, quando eravamo andati a vedere l’Arco di Trionfo. Due ragazze occhialute e sorridenti con il montgomery e la collana di fiori
al collo, che distribuivano volantini nella stazione del metrò. Hare Krishna, e ci avevano
messo in mano un volantino che invitava a partecipare con gioia a un Festin Végétarien gratuito la sera dell’ultimo dell’anno presso il tempio. Quel giorno eravamo ancora convinti
di trascorrerlo nel tempio di ben altra divinità e non demmo peso alla cosa. Ora che eravamo poveri, l’idea di mangiare gratis tra i devoti di Krishna assumeva un fascino diverso.
Ma dove diavolo stava, il tempio di Krishna?
«Dobbiamo tornare in Place de l’Etoile.» disse Daniele.
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La stazione del metrò di Place de L’Etoile (che da più di quarant’anni si chiama
Place Charles De Gaulle, ma tutti se ne fregano e continuano a preferire una stella a un
generale) non è propriamente come la stazione di piazzale Cadorna a Milano, prima di
tutto dal punto di vista delle dimensioni. Per trovare qualcuno che nemmeno sai se c’è
passando da una all’altra delle quattro linee che lì s’intersecano a differenti profondità,
è necessaria una discreta dose di culo. Ma noi avevamo Krishna dalla nostra, e in cima
a una lunghissima scala mobile ci apparvero i nostri due angeli in montgomery, sempre
intenti a distribuire i loro volantini.
Quelle chance! Non deve capitargli molto spesso di essere oggetto di tanto entusiasmo, e non sanno bene cosa pensare di questi due italiani così ansiosi di fare conoscenza
con Krishna. Il tempio è poco distante e le ragazze ci torneranno non appena terminato il
volantinaggio. Questione di mezz’ora, poi potremo andarci con loro.
Ci lasciamo alle spalle Place de L’Etoile e imbocchiamo Avenue Foch, una delle vie
più prestigiose di Parigi, se non la più prestigiosa in assoluto, e dopo averla percorsa per un
centinaio di metri scopriamo che Krishna abita lì, tra gli ultra-miliardari e le ambasciate,
in uno stupendo palazzo fine ottocento.
Un ascensore discretamente profumato ci deposita nell’atrio di un appartamento
enorme, completamente privo di arredamento. Pavimenti di parquet intarsiato, soffitti
altissimi decorati da stucchi e nient’altro tutt’intorno, solo tende arancioni a incorniciare
le finestre. Nell’aria, un fortissimo odore d’incenso e le note insistenti di un sitar.
C’è un silenzioso, monastico andirivieni di fedeli affaccendati e uniformati, più
che dalle vesti giallo-arancioni e dal codino sulla sommità del cranio rasato, dall’identico
estatico sorriso stampato sulla faccia.
Veniamo invitati con garbo a toglierci le scarpe e a partecipare alla funzione che sta
per iniziare in una sala adiacente, meno spoglia delle altre solo per la presenza a un’estremità di una statua variopinta della divinità circondata da fiori e di un tappeto sul quale
siede quello che parrebbe l’officiante in compagnia di un suonatore di tabla.
Eviterò di provare a trasmetterti il tedio mortale di quell’interminabile funzione,
scandita da nenie incomprensibili alle quali di tanto in tanto si rispondeva cantando come
beghine e ballando come orsi sempre lo stesso mantra:
Hare Krishna Hare Krishna,
Krishna Krishna Hare Hare,
Hare Rama Hare Rama,
Rama Rama Hare Hare…
Mentre gli adepti si estasiavano, noi e qualche altro sventurato in borghese, forse
capitato lì anche lui per fame o per caso, cominciavamo a sentirci un po’ provati dalle
circostanze. Pensai che alla fine, sotto sotto, le religioni non sono poi così diverse come
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vogliono apparire: anche i frati della parrocchia del Corpus Domini prima della minestra
servono la messa agli affamati.
Finalmente venne il momento del Festin Végétarien, come da volantino. Eccoci in
un’altra grande sala semivuota, in coda davanti a un tavolo dietro il quale due devote
sorridenti servono le pietanze. Dopo qualche minuto ci ritroviamo in mano un piatto di
plastica contenente un pot-pourri di alimenti composto da una mestolata di un pasticcio di
broccoli accanto a un impasto dolce che ricorda l’interno di una torta casereccia appena
sfornata. Due inquietanti sfere completano la composizione: una è di uvette pressate e
l’altra di burro, zucchero e pinoli.
Et voilà, le Festin Végétarien!
Portando con noi quel ben di Krishna, ci sediamo in un angolo della sala, sul pavimento, non essendo previste sedie, e con le mani, non essendo previste posate, cominciamo a mangiare il nostro cenone di capodanno. Sto consumando la cena più schifosa mai
mangiata nell’appartamento più bello in cui sono mai stato.
Mentre facciamo del nostro meglio per non lasciare i piatti del tutto intonsi, un
devoto si siede accanto a noi e in un perfetto italo-emiliano ci chiede di dove siamo. Lui è
di Modena, ma si trova al tempio parigino da ormai quattro anni, si direbbe felicemente,
a giudicare dal sorriso d’ordinanza.
Scambiate due chiacchiere sul perché della nostra presenza lì (ovviamente per una
curiosità vagamente mistica), il buon diavolo modenese comincia a somministrarci un
corso accelerato sull’Infinitamente Affascinante divinità e le regole generali del suo culto, tra
le quali quella che ci lascia più perplessi non è l’osservanza di una vita sessuale ridotta a
un solo rapporto mensile solo tra coniugi e solo per procreare, quanto l’assoluta astinenza
dal consumo di qualunque genere di droga, che non ci torna proprio guardando il sorrisetto fisso dei devoti.
A un certo punto si affronta il karma, la reincarnazione e la relativa classifica di
merito, che vede l’uomo davanti agli animali, così che una reincarnazione da uomo ad
animale va letta come una retrocessione a scopo didattico, temperata però dalla bontà di
Krishna.
«Se, per esempio, nella tua vita hai pensato soltanto a mangiare è probabile che ti
reincarnerai in un porco. Se invece t’interessava soltanto il sesso, potrai vivere una vita da
colibrì, che può avere anche cento rapporti al giorno.»
«E beato lui. » chiosa Daniele incrinando per un breve attimo il sorriso
del nostro morigerato ospite. Approfittando dell’interruzione ci inventiamo un appuntamento con degli amici che ci attendono da tempo per i festeggiamenti in strada. Un brillio
fugace negli occhi del devoto mi fa pensare per un attimo che ci verrebbe volentieri anche
lui, magari reincarnato in un qualcuno che si ubriacherà e farà un gran casino.
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Prima di accompagnarci verso l’uscita, ci regala scatole di bastoncini d’incenso e
santini raffiguranti nientemeno che il Maestro Spirituale Bhaktivedanta Swami Prabhupada, infine ci mette al collo due enormi collane di fiori freschi variopinti. È in quel preciso
momento che, guardandoci l’un l’altro e vedendo due improbabili turisti sbarcati alle
Hawaii chissà perché con i vestiti pesanti, esplodiamo in una risata liberatoria che non
riusciamo più a fermare.
Il gentile mistico emiliano non se la prende, anzi, ride anche lui perché è Krishna che
ci dà euforia.
Usciamo all’aria fredda con la nostra euforia e le collane svolazzanti.
Sono le undici e mezza, un’ora perfetta per saltare sul metrò, scendere in Pigalle, entrare
in un bistrot unto e fumoso e, dopo aver sbranato un panino coi würstel grondante crauti
e senape, brindare all’anno nuovo sbattendo i boccali di birra e scambiandoci fraterni
abbracci con un gruppo di enormi tedeschi ubriachi che ci hanno preso in simpatia per
le nostre collane di fiori.
Per fortuna il telefono squilla in continuazione, rompendo quei lunghi silenzi così
fuori luogo tra noi in cucina, così inconsueti quando a parlare è mia madre.
Per fortuna lei va a rispondere volentieri e racconta un’altra volta ancora a qualcun
altro quello che a me non ha ancora detto. L’incubo di due notti prima, quando la sua,
la mia, la nostra vita cambiava per sempre. Quando lei affrontava da sola un cuore che si
spaccava. Quando io non c’ero.
Suona il campanello. Apro la porta a un uomo grigio di mezz’età, afflitto, con il
cappello in mano. Mi porge la mano e un cognome che non mi dice nulla. Ma io non
posso conoscere tutti quelli che conosceva mio padre.
«Il figlio, immagino...»
Annuisco.
«Che perdita, suo padre...che perdita!»
Già, che perdita. Scuote la testa, sospirando, e resta così per un bel po’ mentre io
non so che cosa dire. Poi, improvvisamente, una cartelletta nera si materializza sotto il suo
braccio. Lentamente la apre davanti a me.
«Mi chiedevo se hanno già pensato a...»
Dentro la cartelletta, un catalogo illustra con ordine e dovizia di informazioni tecniche svariati modelli di casse da morto e altri accessori funebri.
È un brutto sogno da cui non riesco a svegliarmi. Resisto alla tentazione di addebitargli tutta la mia rabbia, compresa quella che sta lievitando con il senso di colpa, e mi
limito a spingerlo fuori di casa gridandogli di andarsene.
Vado in camera mia, mi butto sul letto e mi accendo una Gauloise, l’ultima di un
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pacchetto mezzo schiacciato. Sa di Parigi, ma anche un po’ di morte.
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Ventuno
«…ma guai a cadere nell’errore di pensare che Dio
sia ingiusto con i suoi figli...»
«…ma guai a cadere nell’errore di pensare che Dio sia ingiusto con i suoi figli» sta
cantilenando lamentosamente il prete «soltanto perché ha acconsentito che un uomo ancor giovane ci lasciasse improvvisamente nel dolore. Un uomo come...» sbircia velocemente il foglio «…come Gianfranco, un uomo buono e onesto che noi tutti avremmo voluto
avere accanto ancora per tanti anni a venire, come marito, come padre, come amico e
come fratello in Cristo.»
Adesso basta.
Cosa ne sai tu di lui, corvo? Nemmeno che faccia avesse.
Esco dalla cappella dell’ospedale dove un prete che non conosceva mio padre e che
nessuno di noi conosce sta recitando stancamente uno dei suoi standard di fronte a una
cassa di legno coperta di fiori e a un po’ di gente strappata alle sonnolente occupazioni
degli ultimi giorni di festa da un funerale del tutto inaspettato.
Aspetto che la farsa finisca poco distante dai quattro necrofori che fumano e parlottano in un angolo del cortile. Di tanto in tanto uno di loro apre il portone della cappella
quel tanto che basta per infilarci la testa e controllare a che punto è la funzione, per capire
se ci stia ancora un’altra sigaretta oppure no.
Quando sono uscito si sono girati a guardarmi, poi hanno ripreso a parlare a voce
più bassa, perché non sta bene farsi sentire a discutere di gol e di centravanti come se
niente fosse dai parenti del caro estinto. Soprattutto dall’orfano, quale sono diventato da
qualche giorno. Mi accendo una sigaretta anch’io, mentre il volume delle voci ritorna lentamente quello che era.
È pieno di mozziconi, per terra. Piccole puzzolenti testimonianze d’infelicità
schiacciate con forza sotto una suola, lanciate contro il muro con due dita e rimbalzate
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tra i lapilli o semplicemente lasciate cadere e consumate da un filo di fumo. Come tanti
bigliettini arrotolati con su scritto io sono ancora vivo, soffro e fumo.
Mio padre non fumerà mai più, e pochi altri pensieri mi dicono che è morto con
la stessa efficacia di questo.
Perché adesso, papà? Che cazzo è quest’idea di morire a sessant’anni, di punto in bianco,
come se ti fossi schiantato in macchina nella nebbia sull’autosole? O come se un delinquente ti avesse
sparato rapinando la banca dove lavori. Anzi no, dove lavoravi, perché da un anno eri in pensione
e questa cosa mica ti piaceva tanto, lo vedevo. Ma ti si è spaccato il cuore solo per questo?
I necrofori sono rientrati nella cappella da qualche minuto e adesso spalancano il
portone, lasciando uscire l’odore d’incenso e fiori appassiti e il rumore di passi brevi e di
sedie spostate. Tutti si fanno da parte per lasciar passare una cassa contenente mio padre.
O meglio, una cassa che dicono lo contenga. In fondo potrei anche non crederci. L’ultima
volta che ci siamo visti, una decina di giorni prima, stava benissimo e mi salutava con la
mano dal marciapiede della stazione, mentre il treno per Parigi cominciava a muoversi.
Quella cassa viene caricata sul furgone mortuario con pochi gesti consumati,
sui quali i presenti appoggiano lo sguardo, persi nei loro pensieri, finché la chiusura del
portellone non li risveglia. È il rompete le righe che ognuno in cuor suo aspettava. Qualcuno ci saluta e se ne torna alla sua vita, qualcuno invece si dà appuntamento al cimitero.
Chi non c’è mai stato chiede qual è la strada migliore per arrivare a Codogno.
Perché non mi hai dato ancora un po’ di tempo per crescere? Me lo dovevi. E se non a me, lo
dovevi a quel nuovo modo di stare insieme che stavamo appena collaudando. Ti ricordi quel giorno
in cui ti ho dato un passaggio in vespa, io a te? Tu avevi paura e mi dicevi di andare piano. Io ti
ho fatto vedere che sapevo guidare molto meglio di come si guidava una vespa ai tuoi tempi e allora
ho sentito che ti rilassavi. Come bambino non t’interessavo, lo so, ma allora perché non mi hai dato
il tempo di provarci come uomo?
“Resurrecturis”. È scritto a grandi lettere sopra l’ingresso del cimitero di Codogno.
Eppure finora, che io sappia, nessuno di quelli che sono finiti con la loro cassa sotto il pavimento della cappella è ancora risorto. Da più di un secolo nessun Pedrazzini del nostro
ramo vive in questo paesotto del lodigiano, ma la tomba che ci aspetta non si è mai mossa
da qui. A Codogno ci si viene soltanto per seppellire qualcuno o per farsi seppellire. E il
piazzale antistante il cimitero è il luogo deputato alle uniche riunioni famigliari allargate,
quelle in cui fatichi a combinare nomi e facce di parenti che non vedi da anni, di solito
dall’ultimo funerale. Dopo i mesti saluti e i baci misurati, i giovani si sorridono imbaraz168
zati in silenzio, mentre i vecchi commentano le sorprendenti trasformazioni dei discendenti. Ogni volta che ci si trova in quel piazzale c’è qualcuno in meno con cui scambiare
le solite frasi, e il non esserci di quel qualcuno è il solo motivo che ha fatto ritrovare gli
altri.
Stavolta però non si tratta della vecchia zia che non vedevo da chissà quando. Stavolta è toccata a mio padre, e io sono tra i protagonisti, nella prima fila degli aventi diritto
al dolore. Nessuno se l’aspettava, nessuno avrebbe mai pensato a lui, se avesse dovuto
esprimere una previsione sul prossimo assente da rimpiangere. Anche soltanto per ragioni
d’età chiunque avrebbe ragionevolmente puntato sul fratello di undici anni più vecchio,
con un principio di gotta e il cuore che da un po’ di tempo perde colpi. Invece mio padre
è nella cassa e lo zio Riccardo è qui accanto a me sotto il porticato davanti alla cappella,
col suo principio di gotta e il suo debole cuore, e come tutti noi adesso sta guardando un
secondo prete che non conosceva suo fratello benedire la cassa con quattro spennellate di
acqua santa.
La cappella di famiglia, che pone i Pedrazzini tra i morti abbienti del cimitero, è
ricavata nel muro perimetrale. Coerentemente con la sobrietà borghese dei committenti,
non concede nulla ai saggi di arte funeraria di cui altre fanno sfoggio e nemmeno a epitaffi, preghiere o frasi a effetto. Tutto quello che serve sapere è scritto ordinatamente a due
colonne sulla parete di fondo, come fosse un enorme foglio di carta da lettere diviso a
metà da una decorazione a foglie d’edera, custodito dietro un cancelletto in ferro battuto
in cui è traforata la scritta Requiem Aeternam. La sola concessione allo sfarzo è nell’oro
con cui si evidenziano i capilettera di nomi e cognomi, oro splendente al momento della
sepoltura e sempre più spento e scuro col passare degli anni, misurabili a colpo d’occhio
prima ancora di leggere la data.
Infatti sembra più rame che oro, quello che fa da sfondo alle due P nere del mio
omonimo, il secondo della lista, nato nel 1831 e morto nel 1903.
Sono abituato a vedermi già scritto su quella tomba dalla prima volta in cui mi è
riuscito di leggermi, e non mi fa un particolare effetto, se non un vago senso di complicità
nei confronti di quel pro-prozio mai conosciuto. Mi impressiona di più vedere scritto Paola
Pedrazzini nell’altra metà della pagina di finto marmo. È il nome della sorella maggiore di
mio padre, la zia che da sempre mi guarda da una cornice ovale dorata appesa su un muro
di casa con i miei stessi occhi scuri e tristi, gli occhi da pesce lesso dei Pedrazzini, come dice
la mamma. Nata nel 1900, morì ventisette anni dopo, di polmonite, ammalandosi dopo
essere tornata accaldata da un ballo invernale. Lasciò un vedovo a casa sua e qualche oggettino delicato tra le cose di mio padre: un minuscolo domino con le tesserine d’avorio e un
piccolo segnalibro di legno intarsiato con scritto Souvenir Aus Engelberg.
Gianfranco Pedrazzini sarà il prossimo, e l’oro che incornicerà la G e la P brillerà
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più d’ogni altro fino al prossimo funerale.
Ma lo sai che se cerco in fondo alla memoria, ma proprio in tutti i suoi cassetti, non riesco
a trovare un solo ricordo di te che mi fai giocare? Sai quelle cose stupide che fanno i papà di tanto
in tanto con i loro bambini, magari addirittura sedendosi per terra… La mia memoria è buona,
ma mi propone quei pochi classici consumati a tavola le rare volte in cui eri di buon umore, come il
mangiatore di coltelli e muovere il cuoio capelluto come fosse una parrucca. Poi, senza sforzo, ti vedo
inforcare gli occhiali per affrontare di malavoglia le istruzioni di un gioco ancora troppo complicato
per me e allora tutta la faccenda diventa terribilmente seria e il divertimento va a farsi benedire.
Non un ricordo di noi che giochiamo insieme, papà! Neanche uno me ne hai lasciato, cazzo!
Tecnicamente parlando, nella cappella di Codogno non si viene seppelliti ma tumulati, il che significa che la bara non viene calata nella nuda terra bensì deposta in sacelli
sotterranei di muratura. A questo scopo, qualche minuto fa i becchini hanno sollevato
la pesante pietra che chiude la botola e poi l’hanno spinta sul pavimento, provocando il
solo rumore che ci si può aspettare all’apertura di un sepolcro. Uno stridore lamentoso di
pietra su pietra amplificato dall’eco nel vuoto sottostante.
Una scala viene calata nel quadrato di buio che si è aperto nel pavimento e usata
da due becchini per scomparirvi dentro. Poi viene rimossa per far posto a un treppiede di
ferro al quale è appesa una carrucola. E mentre i becchini rimasti di sopra cominciano il
complicato lavoro necessario per calare la cassa a quelli di sotto, i presenti hanno agio di
assistere allo spettacolo di una bara che, dopo essere stata imbragata con una catena, viene
alzata quasi verticalmente dall’argano cigolante.
Come un armadio che durante un trasloco viene fatto passare da una finestra appena più grande di lui, la cassa può passare per la botola soltanto con una precisa angolazione. E come i trasportatori alle prese con l’armadio si scambiano incitazioni sincopate dal
fiato corto evitando di bestemmiare mentre la padrona di casa li osserva preoccupata, allo
stesso modo i becchini si sforzano di soffocare le sacrosante imprecazioni che quel lavoro
ingrato si meriterebbe solo per il rispetto dovuto a chi ancora li può sentire.
E se l’armadio può sfuggire per un attimo al controllo delle braccia, così è per la
bara, che va a sbattere pesantemente contro il bordo della botola con un botto sordo, seguito dal clangore della catena sbattuta sul legno. È un rumore cattivo, capace di strappare
il pianto anche a chi gli aveva resistito e di fare esplodere in singhiozzi tutto il contegno
che ero riuscito a tenere insieme fino a quel momento. Solo adesso mi rendo davvero conto che non rivedrò mai più mio padre e mi faccio del male chiedendomi se per caso lui
abbia trovato il tempo e la voglia di pensare che non mi avrebbe più rivisto.
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«Ma lo sai che assomigli a tuo padre in un modo impressionante?»
Me l’ha detto poco tempo fa un amico ritrovato dopo quasi trent’anni, una di quelle inconcepibili misure di tempo che invecchiando sei costretto a contemplare sempre più di
frequente quando ripensi al passato.
Lo so, che assomiglio a mio padre. Lo so anche se non me lo dicono spesso, per il
semplice motivo che quelli che lo conoscevano si sono ormai rarefatti. Non si tratta tanto
di una somiglianza fisica quanto gestuale, o forse dovrei dire posturale, e mi impressiona
molto più della fedele replica di un paio d’orecchie, di piedi o di mani. Non ho dovuto
attendere di diventare un uomo di mezza età, per accorgermene. Ancor prima di avere
vent’anni già c’erano prove fotografiche che mi fissavano nel suo stesso modo di strizzare
gli occhi per il sole, di sorridere, di tenere la sigaretta in bocca, di stare, insomma.
Hai presente quella fotografia appesa in soggiorno dove tuo nonno è in divisa, seduto davanti alla tenda? Ne ho di me con quella stessa faccia e quella stessa sigaretta che
pende dallo stesso lato della bocca.
La sua è stata scattata nel 1936 in Abissinia, quando a ventitrè anni venne chiamato
a dare il suo contributo di giovane ufficiale di complemento alla costruzione dell’Africa
Orientale Italiana, vanto dell’Impero Fascista.
Quella fotografia ha sempre fatto parte dell’album della guerra, il mio preferito dal
momento in cui sono stato in grado di aprire il cassetto delle fotografie e di sfogliare di nascosto le sue pagine di cartoncino nero. Lo preferivo agli altri perché, in mezzo ai paesaggi
brulli, agli esotismi del luogo e ai classici gruppetti di soldati ritratti in posa nel tempo
libero, una volta come squadra di calcio e un’altra come complessino musicale, c’erano
tre fotografie che ingolosivano il mio gusto per il macabro e dalle quali non riuscivo a
staccare gli occhi.
In una di queste, scura e sfocata, si vedevano tre sagome di impiccati con la benda
sugli occhi pendere dalla forca come fili a piombo. Erano ladri che rubavano negli accampamenti, mi spiegò un giorno mio padre e la giustificazione mi sembrò ragionevole.
Un’altra, più intrigante, mostrava in primo piano un cadavere nella polvere, gonfio
e pieno di mosche. Purtroppo la posizione di un braccio e la camicia sollevata fin sopra
la testa impedivano di vederne il volto. Dalla pancia rotonda, nuda e ricoperta di strane
vesciche, spuntava un qualcosa che mi pareva un coltello sottile o una punta di lancia, e
che ancora adesso non sono in grado di identificare con certezza.
La mia prediletta era però la terza, che vedeva seduti uno accanto all’altro, tra i cespugli, tre cadaveri di etiopi quasi mummificati. Di quello a sinistra entravano in campo,
in primo piano, soltanto le gambe scheletriche e i piedi, che parevano enormi. Quello al
centro, invece, stava tutto nell’inquadratura e mostrava un volto di profilo dalle fattezze
ancora quasi umane. Aveva le orbite vuote e la bocca arricciata a scoprire i denti in una
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smorfia che sembrava di profondo disprezzo. La sua testa, girata da un lato, dava la strana
sensazione che stesse parlando con il compagno accanto, magari commentando amaramente l’epilogo della loro breve vita. Il compagno, però, non sembrava in grado di dargli
retta, dal momento che, per quanto si poteva vedere, la sua testa non solo era molto più
malandata, ma nemmeno stava più al suo posto. S’intravvedeva il biancore del teschio
scivolato giù dalla colonna vertebrale che spuntava dritta dalla camicia, in bella vista, e
mi ricordava quella che rimaneva nel piatto dopo aver mangiato certe parti del pollo. Io
guardavo e registravo, e andava a finire che il cadavere di mezzo mi veniva a trovare nei
sogni per sorridermi e trasformarli in incubi.
Mi chiedevo se quei tre, che sembravano marionette abbandonate, tristi e secche
nei vestiti troppo larghi, fossero morti per colpa dei gas. Perché devi sapere che, mentre gli
storici litigavano ancora sulla veridicità o meno dell’accusa, io contemplavo fotografie di
soldati italiani bardati con cerate, guanti, stivali e maschere antigas che spruzzavano nuvole di fumo, e tuo nonno non mostrava alcuna apparente difficoltà a dirmi che loro, alpini
di un neonato reparto di aggressivi chimici, usavano abitualmente contro il nemico l’iprite
e il fosgene, gas proibiti dalle famosa Convenzione di Ginevra, un accordo tra gli stati più
civili sui modi consentiti di massacrarsi a vicenda in caso di guerra.
Dall’altra parte, aggiungeva come per bilanciare, gli sparavano addosso proiettili
dum-dum, tagliati a croce sulla punta per aprirsi come fiori nell’impatto col corpo, devastandolo nel transito e soprattutto nell’uscita. Roba inventata per la caccia grossa. Ma la
guerra è la guerra, e non c’è guerra che non approfitti volentieri di qualunque canagliata
disponibile per far strage del nemico. Questo vale anche per noi italiani brava gente, nonostante ci piaccia pensarci e presentarci come più buoni di tutti gli altri. Io credo che, più
per la storia che per l’indole, abbiamo semplicemente avuto meno occasioni di altri per
dimostrarci spietati e conosciamo molto meglio la parte del dominato che non quella del
dominatore. Ma a imparare non ci mettiamo molto, all’occorrenza. Anche noi italiani
possiamo eseguire ordini senza discutere, se è il caso, convinti di rimanere le brave persone
che pensiamo di essere. Così come fece tuo nonno in Abissinia, anche se non era un uomo
cattivo.
Non essendolo come uomo, non lo era nemmeno come padre. Ma era un padre
severo. Una definizione con cui si indicavano i padri ancora molto simili ai loro padri e
ancora molto lontani dalla figura del padre moderno, il padre colorato, come lo chiamò
Gaber in un suo straordinario pezzo.
I padri come tuo nonno non amavano i bambini o, perlomeno, non lo davano a
vedere. Non si rincretinivano facendo biribiribiri ai neonati, non se ne andavano in giro
con il pupo in braccio se non in caso di emergenza e se ne guardavano bene dal cambiare
pannolini o preparare pappe. Non era questo il ruolo che si erano dati e che pensavano di
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doversi dare, sulla scorta delle consuetudini e dell’esempio del propri ottocenteschi padri.
Rappresentavano l’Autorità, un’istituzione che non poteva scendere a patti con gli slanci
dell’affetto, se per caso ne avesse avuto la tentazione. I padri severi si aggiravano nervosi
come leoni a debita distanza dalla propria prole, e talvolta si aveva la sensazione di dovergli essere grati per il solo fatto che si trattenevano dallo sbranarti.
Di zampate però ne tiravano parecchie. E mentre i leoni della cintura non sanno
che farsene, i padri severi ce l’avevano sempre addosso ed erano molto veloci a sfilarla dai
pantaloni. Quando le circostanze lo richiedevano.
La cena, momento principe del confronto familiare, si trasformava facilmente in
quello dello scontro. Molto dipendeva dalle colpe a carico con cui mi presentavo o che
sarei andato commettere durante il suo svolgimento. Ma tanto dipendeva dall’umore con
cui tuo nonno era entrato in casa. E siccome spesso e volentieri era sulfureo, le probabilità
che si accendesse una questione erano piuttosto alte. Fai il bravo col papà, che è già così nervoso... avvertiva la mamma.
Fare il bravo, tanto per cominciare, vuol dire mangiare sempre il pane, anche quando c’è nel piatto la bistecca, magari facendo scarpetta nel freddo brodino sanguinolento.
Mangiarlo tutto e finire tutto, senza lasciare sul bordo del piatto né i pezzetti di grasso dal
sapore disgustoso né quei maledetti nervi che mastichi e mastichi fino a stancarti i denti
ma non vanno mai giù, e allora li sputi nella mano senza farti notare prima di rimetterli
nel piatto sperando che passino inosservati. Mangiare tutto è la parola d’ordine. Ma tu
non ce la fai, perché farlo ti fa schifo e commetti anche l’imprudenza di dirlo, e te ne penti
subito perché sai che la parola schifo a tavola è proibita e guai se la usi per insultare il cibo
che hai la fortuna di poter mangiare. Così la faccenda si complica, e il papà, sempre più
nero, vorrebbe che mi rimettessi in bocca quel pezzetto di grasso masticato e lo mandassi
giù, anche se tutti hanno già finito da un pezzo il secondo e stanno mangiando la frutta.
Ma io non lo faccio, non ce la faccio. E si complica ancora di più quando la mamma davanti alle mie lacrime silenziose dice basta, Gianfranco! e mi libera dal piatto portandomelo
via velocemente. La cosa fa imbufalire definitivamente mio padre.
Tu lo difendi sempre! sempre! è la frase che segna l’inizio di quel salto di qualità del
contendere in cui basta un nonnulla perché un fulmineo scappellotto raggiunga la mia nuca
mandando la mia faccia molto vicina al tavolo. Ma Gianfranco, che bisogno c’è? Poi bastano
due parole fuori posto, di quelle che troppo facilmente mi lascio scappare pentendomene
subito, perché dallo scappellotto si passi a una punizione esemplare, di quelle che fanno
scattare in piedi mio padre con le mani che stanno già armeggiando alla fibbia della cintura e che non si possono subire rimanendo seduti a tavola. Così scappo, immediatamente
inseguito. Scappo in territorio amico anche se non servirà a nulla. Corro in camera e mi
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appallottolo sul letto con le mani sulla testa, aspettando che arrivi la prima cinghiata delle
quattro o cinque che di solito mi spettano. Non è che facciano poi così male, in fondo.
Mi arrivano sulle gambe o sul sedere, al massimo sulla schiena. Mio padre tiene la cinghia
corta, e il peggio che può capitare è che, insieme a lei, mi raggiunga anche il pugno che
la tiene. Il problema non è il dolore ma la paura che provo ad avere un essere arrabbiato
sopra di me deciso a procurarmelo.
Adesso voglio raccontarti una cosa, papà. Una sera di qualche anno fa, mentre eravamo a
tavola, Cecilia s’impuntò per un capriccio di quelli tanto convinti quanto fuori luogo, quelli capaci
di “tirar fuori dalla grazia di dio”, come avrebbe detto tua moglie, anche il più pacifico dei genitori.
A un certo punto m’alzai di scatto minacciando una sculacciata, che, all’atto pratico, si sarebbe
tradotta al massimo in una sola, moderatissima pacca ad effetto psicologico, completamente assorbita dall’imbottitura del pannolino, forse la terza in tutta la sua vita. Lei si buttò in grembo alla
mamma, alzando le braccia per ripararsi da chissà quale violenza. Una reazione così spropositata
che avrebbe potuto farmi scoppiare a ridere, se non fosse stata accompagnata da uno sguardo che mi
fece male come se mi avesse graffiato dentro e che diceva semplicemente “mi fai paura”. Io, con la tua
maschera irosa appiccicata addosso, vedevo riflesso nei suoi occhi pieni di lacrime il ritratto del padre
che non avrei mai voluto essere. Quello di cui si ha paura e che con la paura allontana quell’altro,
che pure c’è, anche se ha bisogno dello spirito giusto per farsi vedere. L’altro fa la faccia da scimmia,
fa volare la carta velina delle arance fino al soffitto arrotolandola e dandole fuoco, e dice - eccocicci! - invece di eccoci quando si arriva in qualche posto. L’altro mi ha lasciato il ricordo di un solo,
minuscolo gesto di tenerezza. Ti ricordi di quando andavamo a lavarci le mani prima di cena? Una
volta finito di asciugarle, con la salvietta umida mi tamponavi delicatamente la bocca, come si fa
con il tovagliolo dopo aver bevuto. Io mettevo lì la faccia, allungando il collo, e chiudevo gli occhi
aspettando quel tocco che sapeva di pulito e mi faceva sentire a posto col mondo. Non immagini nemmeno, quanto mi sarebbe piaciuto vederlo più spesso, l’altro. Di lui ho solo una fotografia, l’unica
in cui mi tiene in braccio. Mi guarda sorridendo mentre io saluto con la mano chi scatta la foto, ma
sembra che alzi il pollice per dire “va tutto bene”. Ed è proprio così.
Più ci penso e più mi convinco che il nonno che mai conoscerai (se ti può consolare saperlo, dei quattro che compongono la dotazione standard io ne vidi una sola e non
molte volte) fosse una persona sostanzialmente infelice. E che a un certo punto della sua
esistenza, come spesso capita a chi felice non è, avesse cessato di pretendere, cercare o solamente sperare di poterlo mai essere. In gioventù mio padre giocava a tennis, schettinava
e sciava, pare anche piuttosto bene. Una fotografia di gruppo scattata su un campo da
tennis dopo una partita oggi lo qualificherebbe come un fico: muscoloso e abbronzato, in
pantaloncini bianchi e torso nudo come in una pubblicità di moda vintage. Ma a me non
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capitò mai di vederlo con una racchetta in mano o un paio di sci ai piedi.
Quando mi mise al mondo aveva quarantatre anni ed evidentemente già deciso di
essere vecchio. Certo, i quarantatre anni di un uomo nella metà dei novecentocinquanta
non sono paragonabili ai post-adolescenziali quarantatre nei duemila, nel bene come nel
male, ma tuo nonno, aiutato da un infaticabile senso del ridicolo, ci metteva tanto di suo,
per tirarsi fuori da ogni forma di spensieratezza. Come se volesse espiare chissà quale peccato. Sempre misurato, sempre contenuto, sempre serio: un bel signore che metteva in soggezione. Quel poco che so della sua storia precedente la mia nascita mi permette di azzardare
soltanto la banale ipotesi di una vita trascorsa facendo cose che non avrebbe voluto fare,
in obbedienza alla volontà di qualcun altro, che fosse un padre, un superiore militare,
forse anche una moglie. So che avrebbe voluto studiare ingegneria e che si figurava con
gli stivali infangati in cantieri all’aria aperta, magari di una diga tra le montagne, ma un
padre severo lo obbligò a tutt’altri studi che lo chiusero per sempre in uffici bancari. Forse
la sua unica ribellione fu il fermarsi davanti all’ultimo esame di Economia e Commercio,
e affrontare una vita come Rag. e non come Dott..
Forse non lo interessava diventare padre, o forse si sarebbe più volentieri accontentato di esserlo di una bambina silenziosa come mia sorella. Forse si era pentito di aver
condiviso la propria vita con una donna così esageratamente diversa da lui a cominciare
dall’ambiente natale. Lui, terzogenito di genitori già avanti negli anni in un’ordinatissima, austera famiglia della buona borghesia. Lei, nata da una coppia di giovani già separati
dopo nemmeno quattro anni di matrimonio, scheggia di una famiglia di fascisti esplosa
come un quadro futurista nel dinamismo di un ventennio che l’avrebbe completamente
distrutta. Lui minato da un pessimismo fatale, lei alimentata da un’irriducibile forza vitale. Se vale la norma che sono gli opposti ad attrarsi, i tuoi nonni paterni si incontrarono
come ferro e calamita.
Le mie sono ipotesi a buon mercato, come quelle si fanno cercando di affibbiare un
facile senso a un film che non si è capito bene per non sentirsi troppo stupidi o troppo
distratti. Torno alle cose certe, come il mio bisogno di sentirmi diverso e non soltanto una
versione aggiornata del padre e dell’uomo che fu lui e la mia infantile pretesa di essergli
simile soltanto in ciò che mi garba, come l’amore per la montagna e i luoghi solitari, come
l’onestà, la sobrietà e altri valori pressoché privi di valore al cambio corrente. Cose certe
come la convinzione che un figlio abbia diritto alla leggerezza di un padre giovane quasi
come lui, e di non essere condannato a scontare la pesantezza di un uomo già impegnato
a fare bilanci in perdita. Ma come puoi ben vedere imbrogliarsi è molto più facile di quel
che si pensi.
Auguri, papà. Se tu fossi ancora vivo, qualche giorno fa avresti compiuto cent’anni. Tu non
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lo sai, ma oggi succede abbastanza spesso. Una volta ai centenari facevano gli auguri alla radio, o
addirittura li si vedeva in televisione davanti alla torta, circondati da figli, nipoti e pronipoti pronti
a spegnere per loro quelle cento indecifrabili fiammelle. Oggi sono troppi, per fare notizia. Oggi i centenari sono solo i vecchi tra i vecchi a cui un giorno si fanno i complimenti. Ma converrebbe parlare
di centenarie, perché, come da tradizione, sono quasi sempre le femmine a sopravviverci.
La mamma non ha ancora compiuto i suoi cento, ma ha raggiunto gli ottantotto. In qualche
modo ci è arrivata, con quella sua inesauribile capacità di non pensare al peggio e un pacemaker che
pompa sangue per lei. Tu invece non avevi né il fisico né lo spirito, per fare il centenario. Non potevi
proprio. Eri troppo attaccato al tuo essere come si ha da essere, al tuo strettissimo concetto di dignitoso,
di appropriato, di giusto. Non ti ci vedo, nella saletta dove la mamma passa le sue giornate a inseguire i suoi pensieri sempre più confusi in compagnia di altri quattro esseri consumati parcheggiati con le
loro carrozzine in attesa del pasto. Certe volte mi presenta alle inservienti come suo marito: insieme
a te, anche la tua icona non è andata oltre i sessant’anni, e ormai ci sono quasi anch’io. Mentre tu,
il sei marzo scorso, non diventavi centenario, il giorno dopo io ho compiuto cinquantasette anni.
Ora posso ammettere di essere stato veramente dispettoso, a non nascere il tuo stesso giorno come
giustamente speravi e ad avere invece aspettato la mattina seguente. Sarebbe stato bello, festeggiare
insieme i compleanni. Chissà, magari le cose tra noi sarebbero andate meglio, con una partenza così.
Ma probabilmente sentivo già il bisogno di non assomigliarti troppo. A proposito: io sono riuscito a
smettere di fumare senza dover prima morire.
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Ventidue
Con fare circospetto, il tizio si porta alle labbra il pugno
chiuso intorno a una specie di penna stilografica
Con fare circospetto, il tizio si porta alle labbra il pugno chiuso intorno a una
specie di penna stilografica. Poi, magicamente, soffia dalla bocca una nuvola di fumo che
fumo non è. È un vapore aromatico (ampia scelta di essenze) che dovrebbe degnamente
sostituirlo. Infatti, l’uomo che sto osservando mentre aspetto il treno non sta fumando ma
svapando, e l’oggetto misterioso che stringe gelosamente in mano è una sigaretta elettronica,
uno di quei ritrovati tecnologici del presente che sempre più spesso mi fanno provare la
curiosa sensazione di essere improvvisamente capitato in una mediocre parodia di un cartone animato dei Pronipoti. E di essere un uomo appartenente a un passato remoto.
Quando le amiche di mia madre, invitate occasionalmente per un tè, se n’erano
andate, a me piaceva esplorare la scena finalmente deserta e silenziosa, teatro dell’evento
pomeridiano appena concluso. Qualche squisitezza dolce da saccheggiare si trovava ancora in bella mostra, prima che mia madre riordinasse la sala. Pasticcini, magari anche
cioccolatini. Lingue di gatto o baci di dama come minimo.
I cuscini del divano e delle poltrone ancora schiacciati sul davanti e sollevati dietro
(le signore non si accomodavano mai veramente, ma sedevano sempre in punta) indicavano il numero esatto delle partecipanti ancor prima di fare il conto delle tazze da tè.
Anche l’aria riassumeva a modo suo i fatti: differenti profumi pour femme ugualmente penetranti facevano a gara tra loro per prevalere e poi si mischiavano tutti con
l’odore di fumo. Un posacenere di quelli buoni conteneva diversi mozziconi sporchi di
rossetto, la stessa firma cremisi che segnava il bordo delle tazze poco distanti. Erano resti
di sigarette da donna, con il filtro, contenute in scatole piatte di cartone che si aprivano
elegantemente come un portasigarette, mostrando due file ordinate da dieci perfetti esem177
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plari dalla sezione ovale, per un più pratico stoccaggio. Avevano nomi dal suono esotico,
invitante, scritti in rilievo sul coperchio, quasi sempre in oro: Mercedes, Turmac, Muratti’s
Ariston.
Talvolta mi capitava di trovare una scatola vuota, che subito requisivo per i più disparati riutilizzi. Scatola vuota ma non del tutto, perché conteneva immancabilmente un
elegante foglietto bianco, una specie di biglietto da visita con il nome della marca in un
angolo, presente in ogni pacchetto nel caso la fumatrice avesse avuto l’urgenza di segnarsi
un appunto o un numero di telefono. Pratiche raffinatezze di cui abbiamo da tempo perso
le tracce.
In altre occasioni molto più fortunate poteva capitare che la scatola fosse stata dimenticata, e contenesse al suo interno ancora qualche sigaretta.
Chi si sarebbe mai accorto che ne mancava una?
Negli spensierati anni sessanta fumare non era ancora considerato il crimine verso
se stessi e verso gli altri che rappresenta oggi, anzi. Fumare sembrava fosse un bisogno
naturale del genere umano, soddisfatto dalla quasi totalità dei maschi e sempre più diffuso anche tra le femmine. Che il fumo nuocesse gravemente alla salute, come ci avrebbero
amabilmente ricordato una trentina d’anni dopo i funerei avvisi sui pacchetti di sigarette,
lo si sapeva già, ma era un dettaglio da noiosi menagramo, che non impediva di pensare
generalmente che una sigaretta non ha mai ammazzato nessuno e che in fondo l’importante
fosse semplicemente non esagerare o, al limite, fare uso di un bocchino dotato di filtro,
come suggeriva il medico di famiglia al termine della visita accendendosi con gusto un’altra Kent.
In piena sintonia con quello che indefessamente facevano le ciminiere delle operose
fabbriche del boom, tutti fumavano allegramente, ovunque se ne sentisse la voglia: negli
uffici pubblici, nei negozi, nei bar e nei ristoranti, negli scompartimenti dei treni e sugli
aerei, persino negli ospedali. Le dense volute di fumo che salivano lente fino a farsi illuminare dai fasci di luce bianca del proiettore erano parte integrante di qualunque spettacolo
cinematografico.
Dall’altra parte, sullo schermo, anche gli attori riempivano di fumo la pellicola,
consacrando la sigaretta quale accessorio fondamentale di una degna esistenza, simbolo
di virilità per l’uomo e di seduzione per la donna. Del tipo fatale, s’intende. Quella che
invece pensava a farsi una famiglia di solito non fumava. Come la mamma, che non riuscì
mai ad andare al di là del primo, doveroso, tentativo.
Nel tradizionale rispetto dovuto alla disparità tra i sessi, mentre era auspicabile che
un vero uomo producesse fumo come un locomotore dovunque andasse, non stava bene
che una donna fumasse per strada, dal momento che così facendo avrebbe rischiato di es178
sere scambiata per una donnaccia. In realtà le donnacce, proprio per distinguersi dalle donne
perbene, avevano dato al fumare in esterni una tale enfasi gestuale da rendere impossibile
ogni equivoco, ma il costume non ne teneva conto.
In quegli anni di totale devozione al dio tabacco una moltitudine di padri fumava
in faccia ai propri figli, fumava in macchina, fumava non appena sveglia, fumava in bagno
quando faceva la cacca, fumava prima di mangiare e dopo mangiato, fumava guardando
Carosello insieme alla prole e fumava mentre le dava il bacio della buonanotte. Chi era
contrario al fumo poteva solo subire, e aspettare tempi migliori per consumare la sua vendetta.
Non so dirti con precisione quando misi per la prima volta tra le labbra una sigaretta accesa né se si trattasse di una Turmac ovale recuperata dopo un tè delle amiche oppure di una Nazionale Esportazione sottratta a mio padre. La cosa certa è che ero ancora un
bambino e che lo feci in compagnia di una complice: tua zia. Riempirsi la bocca di fumo
e buttarlo fuori è un gioco che fa ridere ma pizzica la lingua e fa prudere il naso. Noi ci
divertiamo parecchio, più che altro a scimmiottare i gesti dei grandi e per l’emozione della
grande trasgressione che stiamo commettendo tra le pareti di casa approfittando dell’assenza di nostra madre. Cosa ci trovino di così bello i grandi per farlo in continuazione
resta un mistero.
Ricordo invece perfettamente la prima volta in cui aspirai il fumo, un paio d’anni
dopo, seduto su una panchina isolata del parco Sempione insieme all’immancabile Daniele, che a un certo punto disse:
«Ma tu non fumi davvero! Non mandi giù il fumo. Devi fare così...»
Fece un tiro da una delle due Philip Morris che aveva rubato a suo padre, aprì la
bocca e respirò. Poi cominciò a tossire. Per non essere da meno lo imitai cercando di superarlo. Presi una poderosa boccata e giù un bel respiro. La strada che quella nuvola di
fumo tracciò lungo il suo viaggio dalla sigaretta ai miei polmoni devastando qualunque
cosa incontrasse al suo passaggio finì in un attacco di tosse di quelli che ti fanno schizzare
gli occhi lacrimosi fuori dalle orbite, al termine del quale pensai che se quello era fumare
davvero, io non avrei mai più fumato, davvero. Ero troppo giovane per sapere che poche
cose al mondo sono instabili come le ferme rinunce ai propri piaceri, anche quando non
li riconosci ancora come tali.
La prima sigaretta ti fa tossire ma la seconda la sposi, disse una volta non ricordo chi.
È vero: se non ti fermi per sempre al disgusto della prima, è molto probabile che l’appuntamento con la seconda si riveli fatale, o perlomeno che sia solo l’inizio di una lunga,
assidua frequentazione. La sigaretta non ha fretta, è capace di aspettarti. Basterà un mo179
mento particolare, per tristezza o per euforia, o magari l’innamoramento per qualcuno o
qualcuna di cui adori persino l’accendino (per non parlare di quel modo che ha di soffiare
il fumo) per ripresentartela come la cosa più intrigante al mondo e fare di te uno dei suoi
tanti devoti. A quel punto sarai a pieno titolo un fumatore o una fumatrice, ovvero una
persona che a causa di un piacere (perché tale è il fumare, non raccontiamoci balle) si
complica l’esistenza da svariati punti di vista, dalla salute al portafoglio, dalla costante preoccupazione per un adeguato approvvigionamento di materiale fumogeno all’insofferenza
per i viaggi o gli spettacoli eccessivamente lunghi. Oggi più che mai, visto che dai tempi
gloriosi delle Turmac ovali le cose sono parecchio cambiate.
Grazie a (o per colpa di, a seconda di qual è la tua posizione) una legge sempre più
restrittiva nei confronti del fumo, da un po’ di anni a questa parte fumare non è più cosa
tanto agevole e l’intollerante popolo dai polmoni puliti, in passato oppresso dall’arrogante
potere catarroso, si è preso la sua bella rivincita e sta meditando di annichilire definitivamente il nemico proibendogli di accendere una sigaretta anche all’aria aperta. Perciò
fumare oggi richiede una discreta determinazione, come minimo quella necessaria ad
affrontare sigarette tanto desiderate quanto fumate malamente, magari al gelo, fuori dalla
porta di un ristorante, intorno a un posacenere stracolmo e puzzolente in compagnia di
altri tossicodipendenti. Ma è sempre meglio che niente, per un vero fumatore.
Sai cosa spaventa di più un fumatore di fronte all’idea di smettere di fumare? L’immensa tristezza di una vita futura senza fumo. La prospettiva di perdere per sempre la
compagnia della sigaretta è semplicemente agghiacciante. Prova adesso a pensare a un
futuro senza più cartoni animati: terribile, vero? L’ipotesi ti sembra a dir poco insostenibile, così come pare a chi fuma quella di vivere la propria esistenza amputata di tutti gli
innumerevoli momenti che l’accensione di un tubetto di carta riempito di tabacco rende
migliori. Un non fumatore non può capire in che modo una sigaretta possa scandire
l’esistenza quasi in ogni suo istante, enfatizzando quelli più lieti e sostenendo in quelli
più grami. Si fuma per rendere un momento più che perfetto e si fuma per sopportare il
peso di uno disperato. Si fuma per solitudine e per compagnia, perché si sta per morire e
perché si è appena evitata la morte, perché si ha mangiato bene e perché non si ha di che
mangiare, perché forse si farà l’amore e perché lo si è fatto, per concentrarsi e per distrarsi,
per far passare il tempo e per fermarlo ancora un po’. Niente come la sigaretta sottolinea
in silenzio gli splendori e le miserie della nostra vita. Niente la può degnamente sostituire, e questo la rende invincibile. Il suo piacere non è simile ad alcun altro piacere, non è
bere, non è mangiare, è il terzo elemento del gustare. Una soddisfazione che l’uomo sta
cercando disperatamente di rendere finalmente innocua, anche provando a suggere vapore
da una specie di penna stilografica.
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Ma prima di essere accusato di apologia di tabagismo sarà il caso che spenda qualche parola anche sulla faccia sporca della medaglia, quella della lingua asfaltata, del flebile
ma tenace fischiettino che di tanto in tanto suona nella tua gola nel silenzio della camera
quando respiri prima di addormentarti e che cerchi di spegnere con raschiamenti mai del
tutto risolutivi. Dei tuoi vestiti che puzzano come posacenere, dei tuoi denti coperti da
una patina marrone, esattamente come i vetri della tua auto dal lato dell’abitacolo. Della
tua pelle che invecchia prima e dei tuoi soldi che finiscono prima. Dell’umiliante ricerca
di un tabaccaio aperto la domenica o la sera tardi, e dell’ancor più umiliante attesa davanti
a una macchina distributrice in compagnia di personaggi con i quali non vorresti condividere nemmeno l’aria. E tutto questo senza nemmeno scomodare lo spauracchio di seccature fatali, tipo i polmoni pieni di un lurido ospite capace di farti secco in men che non
si dica. Fumare è un piacere, ripeto, che però a conti fatti non vale il prezzo che pretende.
E l’insostenibile tristezza di cui parlavo, quella che coglie il fumatore all’idea di un futuro
privo di sigarette, non ha in effetti ragion d’essere, una volta che sei riuscito a smettere.
Non occorre poi tanto tempo per accorgersi di non averne più bisogno e per stupirsi che
i giorni passino anche se denicotinizzati senza essere per questo peggiori di quelli fumosi.
Te lo posso dire per esperienza, fiero dei quattro anni ormai trascorsi da ex-fumatore.
La spinta necessaria me l’hai data tu e, per una volta, si può dire che almeno una
delle numerosi privazioni procurate dal diventare genitori abbia avuto un effetto decisamente positivo. Tanto per cominciare, a differenza dei padri miei che del fumo passivo
erano spensierati e infaticabili veicoli, alla tua nascita ho immediatamente peggiorato la
mia condizione di fumatore, proibendomi volontariamente di fumare tra le mura di casa.
Un gesto molto nobile che, quando arriva l’inverno o quando piove, nonostante la fortuna
di disporre di un giardino, comporta la spiacevole sensazione di sentirsi un disgraziato
provato da una vita ingrata che, rintanato nel vano della porta, aspira la sua sigaretta solitaria avidamente, non si sa se per trarne il massimo del conforto o per ridurre al minimo
l’esposizione alle intemperie.
Passati tre anni in queste condizioni, al disagio si aggiungevano i tuoi rimbrotti, del
tipo Papà, non fumare che diventi verde come Pinocchio! Fumavo poco, scomodamente, e adesso venivo anche criticato, perdipiù a causa di quell’insopportabile burattino che sarebbe
meglio si facesse gli affari suoi.
Ma più che le pietose giustificazioni a cui questo indecoroso stato di cose mi obbligava (dài Cecilia...almeno una dopopranzo... o dopocena, dopo il caffè, dopo quel che mi
serviva in quel frangente...) poté la mia simpatia per quella nobile bestia praticamente
estinta che si chiama coerenza. Con che faccia, in un futuro neanche troppo lontano, avrei
potuto tenerti lontana dalle sigarette, per la tua salute? Con la stessa faccia dei tanti genitori
ipocriti capaci di dire con trasporto, mentre buttano fumo dalle nari, io ormai ho preso il
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vizio, ma non permetto che lo prendi anche tu...?
E no, se c’è un’opportunità che l’arrivo di un figlio ti regala, insieme alla possibilità
di presentarti a lui da subito come un’irriducibile testa di cazzo, è quella di approfittarne
per chiudere i conti con tutte quelle contraddizioni e le piccinerie la cui soluzione ti sei
sempre magnanimamente procrastinata. Dovendo essere obbligatoriamente d’esempio, a
meno che tu non ci tenga ad esserlo in negativo, meglio semplificarsi le cose e cogliere
l’occasione per fare un po’ di pulizia.
Secondariamente, ma neanche poi tanto, mi sembrava conveniente per tutti fare il
possibile per cercare di durare come padre almeno un po’ più di quanto riuscì a farlo il
mio, e in cima alla lista di questo possibile c’era il diventare un ex-fumatore, perché questa
e nessun’altra è la giusta definizione.
Un ex-fumatore, se vuole continuare ad essere tale, non potrà mai permettersi di abbassare la guardia, anche se il successo dato da anni di astinenza potrà facilmente illuderlo
di essere diventato improvvisamente immune dall’assuefazione. La nicotina se ne frega
degli anni di tradimento che le hai imposto: se la rincontri nel momento giusto le bastano
cinque minuti per farti nuovamente innamorare di lei, magari questa volta per sempre.
Io ho cominciato a fumare per amore, come capita a un sacco di ragazze. Quando,
durante il famoso campo scout invernale di cui ti ho raccontato, un cupido di passaggio
in Val Badia decise di infilzarmi come un san sebastiano facendomi innamorare perdutamente di Elisa, io mi ritenevo erroneamente al sicuro, tra i fortunati che, dopo aver provato clandestinamente più volte a fumare senza trarne particolare soddisfazione, arrivavano
alla conclusione che delle sigarette potevano fare tranquillamente a meno.
Elisa invece, già diciottenne, assumeva ufficialmente anche a casa, dopo i pasti, il
fumo delle sue quattro o cinque immacolate Muratti Ambassador quotidiane. E dal momento che amavo di riflesso ogni cosa del suo essere, cominciai ad amare anche il fumo
delle sue sigarette e il sapore che le lasciavano sulla sua lingua, tanto da volermi immediatamente adeguare al suo delizioso vizio.
Così, neanche tanto lentamente e di certo sicuramente, le sigarette
entrarono a far parte della mia vita fino a rendersi indispensabili. Prima con dosi minime,
poi più consistenti, cominciava coi migliori auspici la mia lunga carriera di fumatore. Inizialmente clandestina, diventò prima semiclandestina e infine paradossalmente ufficiale
dopo la morte di mio padre. Invece di spendere una modestissima riflessione sul nesso tra
una vita passata a fumare Nazionali Esportazione senza filtro e un cuore che si rompe dopo
soli sessant’anni di funzionamento e trarne le doverose conclusioni, mi ritrovai neanche
diciottenne a raccogliere il suo puzzolente testimone, per la gioia delle tabaccherie e del
Monopolio di Stato. Ma ero troppo giovane e, di conseguenza, troppo immortale per pre182
starmi a considerazioni così banali.
Una delle cose più divertenti dell’essere diventato un giovane fumatore era trovarsi
davanti a uno scenario apparentemente infinito di nomi altisonanti o esotici, di loghi e
di stemmi araldici, di colori che andavano a rivestire pacchetti morbidi o duri, larghi o
stretti. Tutti mi si offrivano, invitanti, dalle scansie alle spalle di tabaccai compiacenti, a
cominciare dallo stesso, in corso Sempione, dove talvolta venivo mandato da mio padre
con i soldi contati e la raccomandazione Fattele dare belle morbide, eh?! Per questo prima di
pagare palpavo il pacchetto tra il pollice e l’indice come avevo visto fare a mio padre centinaia di volte cercando di capire dalla sua consistenza se il tabacco fosse fresco e umido
come si comanda o invece secco, condizione inaccettabile soprattutto per le sigarette senza
filtro.
Di fronte a tanto ben di dio la fedeltà a una marca precisa mi sembrava un’incomprensibile rinuncia alla curiosità e al piacere di mostrarsi agli altri come un eccentrico
fumatore di sigarette sconosciute ai più.
Poche furono in quel periodo le marche con cui non ebbi un incontro, e prima di
diventare, anche per questioni di portafoglio, un banalissimo consumatore di MS (ma con
la rossa Marlboro nel cuore) ne provai di ogni tipo e razza, dalle più pretenziose alle più
popolari, dalle più leggere alle più straccia polmoni. Mi facevo affascinare da nomi aristocratici come Peter Stuyvesant, Benson & Hedges, Senior Service, Astor, dalla suggestione di
pacchetti come quelli delle Camel, delle Lucky Strike, delle Chesterfield così come da ruvide
icone operaie quali le Alfa, le Sax e le Nazionali Semplici (per gli amici Napoleon Bleu) con
i loro pacchetti spartani che non concedevano nulla al superfluo, plastica protettiva compresa. Fumai terrificanti sigarette al mentolo come le Pack e le Northpole, poi le interminabili versioni king size o 100’s delle marche più famose, ma anche la loro risposta autarchica
Nazionali Lunghe.
Fumai le HB e le L&M, le Ernte 23 e le Peer, le Lido e le Bis, le Presidente e le Diana.
Fumai le francesi senza filtro più micidiali, corte e larghissime, come le francesi Celtique
e le belghe Saint Michel, sigari travestiti da sigarette, capaci di far sembrare le Gauloises e le
Gitanes cose da signorina. Fumai sigarette russe composte per tre quarti da un tubetto di
cartone e per un quarto da tabacco per essere tenute anche tra le dita di guanti bagnati di
neve. Fumai anche i Beedies, mini sigari indiani a trombetta che si compravano in Svizzera
(insieme alle Gitanes Papier Mais, arrotolate nella carta gialla). Erano fatti di foglie arrotolate di qualcosa che certamente non era tabacco, non a caso il loro fumo aveva lo stesso
odore di quello che in autunno sale dai mucchi di foglie secche accesi nei parchi dai giardinieri. Quando fumavi un Beedie potevi star sicuro che prima o poi a qualche spiritoso
sarebbe scappata la battuta ammiccante: “Ma non è che gli indiani ci mettono dentro della roba
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speciale, in quelle sigarettine lì, eh?...”.
Era stata una giornata pesante di studio serio, quella. E io mica c’ero abituato. Ma
l’esame di maturità si avvicinava, così ci avevo dato dentro, soprattutto con l’anatomia,
cercando di fissarmi nella testa in modo definitivo tutte le componenti dell’articolazione
del braccio, riprodotte nelle vetuste tavole del vetusto librone Anatomia per gli artisti (VII
edizione). Qualche giorno prima, preso da un inconsueto impeto di secchionaggine, avevo
deciso di approfondire la questione su altri testi: ero andato alla Biblioteca Sormani, e lì
avevo preso in consultazione qualche libro di anatomia non per artisti ma per medici.
Non avevo aggiunto nulla al mio sapere riguardo l’articolazione della spalla, ma in compenso ero stato catturato dall’agghiacciante visione di centinaia di fotografie nitidissime,
a colori, di corpi umani meticolosamente sezionati in ogni loro parte e in qualunque
direzione di taglio. Teste aperte di fresco come uova di pasqua nel senso della lunghezza
posate con garbo su teli verdi chirurgici, fettine di cervello tagliate sottilissime con l’affettatrice come per farne un carpaccio e altre simili amenità del tutto inutili per l’esame mi
avevano arricchito lo spirito ma anche fatto buttare una mattina intera.
Perciò avevo dovuto recuperare il tempo perso, in quell’afosa giornata di luglio, di
quelle in cui studiare è proprio l’ultima cosa che avresti voglia di fare. Soprattutto se a
rendere ancora più gradevole la situazione ci si è messo il tipico, odioso raffreddore fuori
stagione e fuori da qualunque programma, che alla cappa del caldo aggiungeva sulla mia
testa quella del rincoglionimento da febbriciattola.
Verso la fine del pomeriggio, convinto più che di saperne abbastanza di non essere
più in grado di assorbire dati e nozioni per quel giorno, decidevo di staccare e telefonare
a Rudi.
«Io son qua con Gabriele. Se vuoi passare passa.»
«Arrivo».
Appena uscito dall’ascensore sul pianerottolo, vengo accolto dall’inconfondibile
suono del Fender Rhodes di Rudi, accompagnato dall’altrettanto inconfondibile suono della chitarra mal suonata di Gabriele, che azzarda ambiziosi passaggi privi di senso. I vicini
o sono sordi oppure rassegnati.
Ci vogliono un po’ di scampanellate insistenti, per fare in modo che mi sentano e
vengano ad aprirmi.
«Mi sodo roddo le balle di sdudiare, ber oggi».
«Hai il raffreddore? bella sfiga».
Mi stravacco tra un amplificatore e una custodia per chitarra mentre i due riprendono a suonare. Dalla custodia aperta mi si offre spudoratamente in tutto il suo splendore
una Les Paul Gold Top che chiede soltanto di essere suonata. Resistere sarebbe stupido,
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quindi la prendo con il massimo rispetto e provo inutilmente a cavarci due note vagamente decenti. Improvvisiamo per una mezz’ora intorno a un giro dalle pretese jazzistiche
qualcosa di oggettivamente inascoltabile, che però sembra soddisfare parecchio Rudi e
Gabriele, che si sorridono come vecchi virtuosi in perfetta sintonia.
«Ci facciamo un tè?» propone Rudi. In cucina, dopo aver armeggiato con la teiera,
Rudi apre una scatoletta di legno, da cui preleva una piccola tavoletta ricoperta di carta
d’alluminio. La scarta, e tra le sue mani ora non c’è del cioccolato svizzero, bensì un bel
pezzo di hascisc. Non è la prima volta che mi compare davanti, maneggiato e fumato da
amici e amici degli amici. La cosa non mi scandalizza ma non mi attira. Senza pensarci
sopra più di tanto e senza un preciso motivo ho scelto la posizione dell’io non ne ho bisogno,
che generalmente accomuna quelli che non hanno la più pallida idea di che cosa siano le
droghe ma vogliono rimanere nella loro beata ignoranza.
Rudi comincia a scaldare un angolo della tavoletta, mentre Gabriele ad arrotola con
cura un biglietto del tram.
«Secondo me con due tiri di questo il raffreddore ti passa… » butta lì Rudi.
«Con due tiri di questo ti passa anche il cancro…» aggiunge Daniele.
I due si scambiano un’occhiata con gli occhi rossi e cominciano ridacchiare.
«Do grazie» faccio io «quandi ve ne siede già fumadi? »
«Miga dandi…»
«He he he he».
«Che cogliodi, che siede».
Era affascinante, seguire le mani di Rudi muoversi come se non avessero mai fatto
altro che preparare dei joint. Dopo aver prelevato un pezzettino di hascisc dalla tavoletta,
lo aveva lavorato pazientemente schiacciandolo col pollice nel palmo di una mano, poi
lo aveva mescolato con cura al tabacco e infine rollato in un’accurata composizione di tre
cartine (due e mezza, per la precisione) unite tra loro con amore e saliva. Il biglietto del
tram arrotolato per il senso della lunghezza e fasciato da un’altra cartina completava la
costruzione.
Il risultato finale era una perfetta torcia olimpica in miniatura, snella e compatta
come dio comanda. Una Signora Canna, come commentò Gabriele.
«Sicuro che non vuoi?» chiede Rudi porgendomi il pregevole manufatto «‘sto nero è
buonissimo».
E che cazzo, prima o poi le cose bisogna anche provarle, penso io. E questa sembra
proprio l’occasione giusta. Non saranno mica due tiri a cambiare qualcosa. Senza contare
che ho già la testa nel pallone per il raffreddore.
«E fammi accendere, va’...».
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Impugno la fiamma olimpica sotto lo sguardo divertito dei quattro occhietti rossi,
l’accendo e aspiro per la prima volta in vita mia una boccata di quel fumo denso che sa di
patchouli e va giù fresando la tubatura principale.
Faccio altri due o tre tiri, prima di restituirla incandescente a Rudi, facendo sforzi
disumani per non tossire come un pivello e guardandomene bene dall’esternare ciò che
ogni pivello pensa in quella circostanza sopravvalutando di molto la portata della sostanza: non mi fa niente.
La canna gira e ritorna più volte, sempre più corta e sempre più bollente, mentre
una sensazione di piacevole euforia si diffonde uniformemente nel mio corpo. Prende il
rincoglionimento da raffreddore e lo rielabora, riproponendomelo come un divertente, insolito modo di portare in giro la testa e il suo contenuto, arricchito da inedite sensazioni,
non ultimo un appetito che non avevo mai conosciuto, apparentemente insaziabile, capace di innamorarsi perdutamente degli Oro Saiwa raffermi che stiamo divorando insieme al
tè tiepido con cui ci spegniamo la gola.
Adesso anch’io faccio battute divertentissime, e rido fino a piangere con gli occhi
rossi alle battute di Rudi e Gabriele, che non mi sono mai sembrati così simpatici come in
questo momento.
Torniamo in camera a suonare ancora un po’. Adesso sì che la musica gira e le mie
mani sul manico della Les Paul sembrano quelle di uno che sa dove metterle. Più tardi
andremo a farci una pizza, e sarà la più buona che abbia mai mangiato.
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Ventitré
«Qui i casi sono due: o quello si decide ad arrivare o io crepo qui»
«Qui i casi sono due: o quello si decide ad arrivare o io crepo qui».
Arturo l’ha detto come se stesse valutando se ordinare per cena un chelow kebab o
uno shish kebab. L’ha detto con quel suo modo effemminato di trascinare svogliatamente
le parole e quella esse che spesso e volentieri assomiglia di più a una effe.
Un’analisi della situazione sorprendentemente lucida, per uno nel suo stato, espressa con tranquillo fatalismo guardando le pale del ventilatore girare piano, troppo piano
per rinfrescare quel buco di camera a tre letti, scaldato come un forno dalle lame di sole
che forzano le persiane e si stampano sulla parete opposta.
Sdraiato, nudo e immobile sul suo letto, con le lenzuola che gli appiccicano addosso, Arturo suda a goccioloni, e non soltanto per la temperatura della stanza. Ha fatto male
i suoi conti e adesso sono cazzi, come si suol dire. L’eroina che avrebbe dovuto bastargli
fino a Teheran è finita con largo anticipo, circa novecento chilometri più a est. È finita qui
a Mashhad, la città santa, dove trovarla è molto più difficile e quando l’hai trovata devi
pagarla ben più di quei quattro riyal che gli sono rimasti nelle tasche. A Teheran, dice lui,
sarebbe stato tutto diverso. A Teheran avrebbe saputo come e dove procurarsela buona e a
un buon prezzo, dopo aver ritirato in una certa banca i soldi che s’è fatto mandare dall’Italia.
Ma Mashhad non è Teheran, e Arturo adesso può solo sperare che il ragazzino che
porta il tè in questa locanda fetente sia sveglio come sembra e che quello si decida ad arrivare.
Aveva bussato poco dopo il nostro ingresso nella camera che le nostre finanze e
l’Iran Peima Hotel erano in grado di offrirci, per chiederci se volevamo del tchai. Gli avevamo detto di sì più per togliercelo di torno che per la voglia di mandare giù l’ennesimo
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bicchierino di quel nero concentrato di tannino che da quelle parti chiamano tè. Ma non
se n’era andato subito: ci aveva guardati con aria complice offrendo altri servigi, illustrati
inequivocabilmente dal piccolo indice mosso avanti indietro nel buco della O fatta con
l’altra mano.
«Faka, mister? faka?»
La proposta non interessava né me né Daniele e men che meno Arturo, il cui bisogno più urgente di femminile aveva solo il nome.
«Heroin? have you got some heroin?»
Per un paio di secondi sentimmo lavorare svelto il suo cervello dietro gli occhi furbi, poi sorrise e abbassando la voce disse quello che tutti e tre speravamo dicesse.
«Heroin? no probla. I take you!»
E sgusciò via con la sua missione da compiere, lasciando Arturo indeciso se ritenersi salvo o meno. Tornò poco dopo con il vassoio dei tè.
«No probla, no probla. Wait...I take you, I take you!»
«No probla, no probla…sì, speremm…» commentò Arturo.
Così cominciò l’attesa. Un paio d’ore passate a fumare guardando le pale girare,
prima che qualcuno bussasse alla porta.
L’uomo entrato nella stanza insieme al ragazzino è magro e nervoso. Dopo averci salutati con un cenno è andato subito alla finestra per sbirciare giù in strada, poi ha
controllato che la porta fosse chiusa a chiave, secondo il più classico repertorio di chi ha
buoni motivi per aver paura anche della propria ombra.
«Police…» sussurra sgranando gli occhi dal terrore che il solo evocarla gli provoca.
Non ha tutti i torti, considerando che in Iran per lo spaccio si può arrivare anche alla condanna a morte. Finita la ricognizione si siede davanti ad Arturo e tira fuori da una tasca
un pacchettino che il nostro amico segue con lo sguardo come farebbe un cane con un
pezzo di salsiccia.
Eccola lì, la salvezza. Arturo non creperà qui. Eccolo lì, un bel mucchietto di brown
sugar, all’apparenza dolce e innocente proprio come zucchero di canna.
Daniele e io seguiamo la contrattazione. Il tipo vorrebbe che Arturo ne comprasse
ben più di quanta gliene stia chiedendo. Non che ad Arturo la mercanzia faccia schifo,
anzi, si capisce che ci farebbe il bagno, in quello zucchero. Il problema è che non ha abbastanza soldi. L’altro gli fa pesare i rischi che ha corso per correre lì con la sua roba in tasca.
«Police…» e ribadisce il concetto passandosi in modo eloquente il pollice sulla gola.
Non gli va l’idea di rischiare così tanto per così poco, e allora alza esageratamente il prezzo
del poco e abbassa quello del tutto.
«Cazzo, ragazzi…non è che mi prestereste qualche riyal? Solo fino a Teheran, poi ve
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li ridò…»
Era ovvio, che prima o poi ci avrebbe chiesto dei soldi. Ma né io né Daniele siamo
messi molto meglio di lui. E non c’è niente che ci aspetti in una banca di Teheran: quel
poco che abbiamo in tasca ci deve bastare per tornare a Milano. Quindi non possiamo che
allargare le braccia. Ci dispiace davvero, e non solo per modo di dire.
Poi, improvvisamente, mi viene in mente una cosa.
«Io ho ancora un Caballero nello zaino.»
COME RIMEDIARE QUALCHE LIRA
(...) il sangue in Turchia lo pagano 4.000 lire e nel Pakistan a Rawalpindi o Peshawar
lo pagano 6.000 lire. Le vecchie riviste sexy valgono 600 lire e la pagina centrale 1200. (...)
(da “Andare in India” Stampalternativa, 1974.)
Era l’unico Caballero sopravvissuto alla perquisizione degli zaini alla frontiera iraniana. Gli altri tre se li stava sicuramente godendo quel panzone di doganiere che li aveva
scovati in fondo al sacco a pelo di Daniele, il quale aveva temerariamente provato a convincerlo che non era il caso di sequestrarli:
«Just for my personal use... please...» come se si fosse trattato di un farmaco salvavita.
Il doganiere l’aveva guardato con aria di compatimento, mentre con mossa studiata
lanciava le riviste in un bidone alle sue spalle.
I Caballero, ancora una volta apprezzabili per le loro dimensioni ridotte, si erano
rivelati una merce preziosa. Ma, essendo ormai pienamente ascrivibili al porno, erano un
po’ troppo hard per poterli proporre con disinvoltura come scambio, soprattutto per strada o in un mercato. Per questo motivo le occasioni di baratto alla fine erano state pochine,
tanto che ci eravamo quasi dimenticati di avere ancora con noi quel patrimonio di carni
in calore.
Ma ora, tra le quattro pareti una camera, la carta Caballero si poteva giocare senza
timore come un jolly.
«Do you like this?» e allungo la rivista al tizio.
Basta la vista della copertina, per produrre gli effetti desiderati sul pusher, che strabuzza gli occhi e comincia a sfogliare, incredulo di fronte a tanta sfacciata abbondanza di
sesso in primo piano.
«Italian girls are? are students?» chiede senza staccare gli occhi dalle pagine.
«No prostitutes?»
Sembra che per lui la differenza sia fondamentale, quindi non possiamo che assecondarlo.
«Of course! all italian students, no prostitutes!»
189
Il Caballero viene così quotato una cifra considerevole e, aggiunto ai riyal sul piatto,
permette una conclusione della contrattazione più che soddisfacente per ambo le parti.
Grazie alla nostra buona azione, Arturo avrà abbastanza eroina per raggiungere Teheran e
il tizio avrà le vogliose studentesse italiane tutte per lui.
Mentre Arturo comincia a scaldare la roba nel cucchiaino, il tizio lecca voluttuosamente le fotografie che lo ingolosiscono di più. Poi, per fortuna, la smette per concedersi
anche lui un po’ di brown sugar. Nell’armamentario che estrae dalle sue tasche non c’è una
siringa ma un pezzo di stagnola e una cannuccia di cartone.
Dopo aver messo un po’ d’eroina sulla stagnola la scalda con l’accendino da sotto
finché non diventa un magma sfrigolante che insegue abilmente con la cannuccia tenuta
in bocca, aspirando il fumo che sprigiona. Posti che vai, usanze che trovi.
Non ci vuol molto perché il tizio si ritrovi stonato per bene dai fumi. Di fronte a
lui Arturo ha appena finito di spingere a fondo corsa il pistone della sua siringa e accoglie
finalmente il sospirato flash con un sorriso beato.
Io e Daniele diamo gli ultimi tiri al nostro banalissimo spino e lasciamo i due alle
loro estasi. Andiamo fuori, a farci un giro per Mashhad, la città santa.
Prima che il nostro viaggio cominciasse a diventare qualcosa di più concreto di un
vaneggiamento tra fricchettoni, io ci avrei messo un po’, a trovare l’Afghanistan sul mappamondo. Supponevo che fosse a oriente, dalle parti dell’India, ma niente di più preciso.
In Afghanistan c’era andato Marco Aresi, da solo con il suo Galletto Guzzi, ma era
risaputo che lui non apparteneva alla razza umana bensì a una possente specie aliena indistruttibile nel fisico e nello spirito, arrivata sulla terra per fare dello scoutismo estremo
e perché noi comuni mortali potessimo sentirci delle mezze seghe.
Ci era andato e anche tornato, riportando indietro uno strano cappello a ciambella
e una serie di autoscatti in bianco e nero che lo ritraevano lungo sperdute mulattiere dalle
parti di Mazar-i-Sharif in sella al suo fido Galletto. Era successo qualche anno prima, quando io e Daniele non eravamo ancora così
sensibili alla miscela di avventura, esotismo e ottimo hascisc a poco prezzo che rendeva
irresistibile l’idea di un viaggio da quelle parti. Per una buona fetta di noi giovani di allora il momento storico faceva del viaggio in
India un obiettivo estremamente invitante, dalle molteplici attrattive. Come una sorta di
Erasmus dello spirito, muoveva verso oriente una generazione ansiosa di espandere la propria
coscienza con i più svariati mezzi, compresi quelli che alla lunga te la possono spegnere per
sempre.
È doveroso, a questo punto, spiegarti che la mia generazione non era cresciuta as190
sorbendo solamente l’adrenalina rabbiosa sprigionata dalle cariche tra il fumo dei lacrimogeni e le fiamme delle molotov, ma aveva anche assunto, a dosi non certamente modiche,
sostanze filosofiche di tutt’altra specie.
Nel fatidico 1968, mentre nelle piazze i cori scandivano a pugno alzato
Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-Tung!, i Beatles al completo si concedevano un soggiorno in un ashram indiano per seguire gli insegnamenti di un santone e dedicarsi, in
sua illuminata compagnia, alla meditazione trascendentale. Le fotografie che li ritraevano
seduti a gambe incrociate in un tripudio floreale si mescolavano sui giornali a quelle dei
contestatori che lanciavano cubetti di porfido contro la polizia. Una volta tornati a casa, il
suono magico del sitar che si erano messi in valigia divenne parte della colonna sonora di
fatti ben poco trascendentali.
Poco dopo aver sentito ringhiare in strada Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi!, poteva
capitarti di ascoltare da una radio la voce mielosa di Scott McKenzie che cantava ...if you’re
going to San Francisco be sure to wear some flowers in your hair…, una specie di inno ufficiale
degli Hippies, movimento made in U.S.A. di giovani un po’ bovini, refrattari alla guerra,
al possesso, al lavoro e agli obblighi in generale, ma piuttosto ben disposti verso il sesso,
la musica e le droghe.
Qui in Italia venivano chiamati Figli dei Fiori e oggi sono pressoché estinti: gli unici
esemplari ancora viventi potresti incontrarli, con un po’ di fortuna, in qualche mercatino
natalizio, mentre, infreddoliti, tracannano vin brulé dietro una bancarella di oggetti in
pelle fatti a mano, di foggia immutata da almeno quarant’anni.
Così crescevamo tentati dal fascino della Lotta dura senza paura da una parte e da
quello del Peace and Love dall’altra, indecisi se appendere in camera la faccia del Che o il
poster psichedelico che combinava il simbolo della pace, la mano con le dita a V, il capoccione di Jimi Hendrix, e un’enorme foglia di marijuana in una sorta di stemma araldico
dai colori fluorescenti. Quando il dubbio persisteva, si finiva per appenderli entrambi, ai
lati di Peter Fonda e Dennis Hopper comodamente sdraiati sui loro chopper.
Tutto questo succedeva a sinistra, s’intende. Chi stava dall’altra parte le cose da appendere in camera non le comprava da Fulgenzi, ma dai rigattieri nostalgici della Fiera di
Sinigaglia, o le trovava in qualche cassetto a casa dei nonni.
Ma da qualunque parte ti trovassi la voce delle sirene che ti sussurravano on the
road…on the road… ti raggiungeva comunque, alitandoti nelle orecchie a proposito di libertà, immensa parola femmina a cui non si resiste. Andava a finire che on the road a un certo
punto ti ci mettevi, come e dove potevi.
La lunga estate del 1974 aveva visto me e Daniele macinare chilometri alla ventura
non in sella a due chopper ma alla mia Vespa 125 Gran Turismo carica come un asino. Bologna, Firenze, Roma e poi il litorale tirrenico, giù fino a Salerno, dove tagliammo lo stivale
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sopra la caviglia, verso la Puglia, per poi risalire lungo l’Adriatico. Sempre su strade statali,
a una velocità massima di 90 chilometri orari, bisognosa di quasi cento metri di frenata
per ridursi a zero. Un viaggio così lungo da meritare addirittura il casco il testa. Strada facendo riuscimmo a mettere insieme una collezione di luoghi e momenti di tutto rispetto,
nel bene e nel male.
Ma l’estate seguente quello stesso stivale ci andava già stretto. La fame di on the road
ci chiedeva con insistenza qualcosa di molto più sostanzioso con cui saziarsi.
E noi pensammo di darle in pasto la strada che divide Milano da Kabul, Afghanistan.
A vederlo così, in fondo al ripido terrapieno, perfettamente perpendicolare alla
discesa, con il muso schiacciato e le ruote affondate nella terra, il pullman Mercedes della
LevanTour sembra un aereo che abbia perso le ali atterrando fuori pista. Viene da chiedersi
come diavolo abbia fatto l’autista a tenerlo dritto e in piedi quando è uscito di strada evitando che andasse giù rotolando sul fianco. Bisognerebbe chiederlo a lui, ma l’hanno appena portato via in ambulanza con una gamba a malapena ancora attaccata al ginocchio e
l’altra in condizioni non molto migliori. Prima delle ambulanze, pochi minuti dopo l’incidente, era comparso dal nulla un gruppetto di ragazzini molto interessati ai bagagli dei
passeggeri e alla radio del pullman, che nel giro di un niente scompariva magicamente nel
nulla. Dopo di loro erano arrivati i poliziotti, che tentavano di tenerli lontani frustandoli
pigramente con il cordino del fischietto o prendendoli a calci in culo. Dopo i poliziotti,
finalmente , i primi soccorsi.
A vederla così, dopo aver risalito a fatica il terrapieno, bloccata in un senso dal
camion messo di traverso e nell’altro dal gigantesco lampione che il camion ha abbattuto
dopo essere stato investito dal pullman, quella che in Italia si chiamerebbe superstrada sembra un campo di battaglia. E viene da pensare che abbiamo avuto un gran culo a cavarcela
senza neanche un morto. Comunque sia, tutto questo non è buona pubblicità per la linea
Istanbul-Tabriz della LevanTour. Mica per caso poco fa un tizio sbucato dal nulla mi ha
chiesto se avevo dell’acqua. Gli ho allungato la borraccia e lui l’ha svutotata per terra e ha
cominciato a impastare diligentemente del fango, che è andato a spalmare sopra le scritte
lungo le fiancate del pullman, prima dell’arrivo di qualche fotografo della stampa locale.
Se il pullman fosse uscito di strada qualche centinaio di metri più avanti, dove la strada
diventa ponte, non ce ne sarebbe stato alcun bisogno: ci avrebbero pensato le acque del
Bosforo a nascondere scritte e passeggeri, dopo un volo di una ventina di metri.
I feriti, autista a parte, non sono gravi. Braccia, nasi, forse anche una gamba rotta.
Sono quelli che stavano nelle prime file, che a differenza di noi in fondo al pullman, non
hanno avuto abbastanza spazio per andare a volare qualche sedile oltre il proprio, buttando giù gli schienali come tessere del domino, ma si sono schiantati in massa là dove il
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pullman finiva, ovvero contro la plancia e il parabrezza. La maggioranza di noi è scesa dal
pullman con le proprie gambe, da un paio di finestrini abbattuti frettolosamente a calci
dopo che un anonimo deficiente italiano, non appena il mezzo si è fermato ha pensato
bene di gridare cazzo prende fuoco!
Una ragazza francese di cui mi potrei innamorare in pochi secondi mi chiede piangendo se i suoi denti sono tutti a posto. Ha la bocca piena di sangue, ma i suoi adorabili
denti sono ancora tutti dove dovrebbero essere. Forse si è morsicata la lingua. Le dò un po’
d’acqua, lei si sciacqua e si calma, poi mi ringrazia con un sorriso rosa.
E pensare che nemmeno un’ora prima mi ero incazzato con l’autista in seconda
perché ci aveva incomprensibilmente fatti spostare dai posti più panoramici del pullman,
in prima fila, dove ci eravamo sistemati non appena saliti, a quelli in fondo. Il motivo
l’avrei scoperto poco dopo, quando il pullman, carico per tre quarti a partire dal fondo,
si fermava a raccogliere davanti a un’altra agenzia di viaggio i passeggeri che lo avrebbero
riempito nella parte anteriore. Per sveltire la procedura, il maledetto turco si era organizzato come un tedesco. L’idea di dover passare su quel pullman due giorni abbondanti senza
nemmeno poter guardare di tanto in tanto la strada davanti era deprimente. Nei fumi
dell’incazzatura mi isolai, rannicchiandomi contro il finestrino, e non mi ci volle molto
tempo per scivolare in un dormiveglia assecondato dal rumore del motore, ormai costante
e monotono.
Mi svegliò una frenata improvvisa, immediatamente seguita da un gridare collettivo. Cercai inutilmente di capire cosa stesse succedendo solo un secondo prima di sentire
un botto e di andare a picchiare la testa contro lo schienale davanti a me.
Va bene, siamo andati a sbattere ma non è successo niente, pensai. Non sapevo che
si trattava soltanto dell’inizio. Il pullman, che io pensavo fermo, girò su se stesso con una
lentezza esasperante rispetto alla velocità di poco prima, poi, di colpo, vidi il suo davanti
abbassarsi nel nulla, come un aereo che precipiti, scatenando un urlo ben più disperato
del primo, di quelli che senti soltanto nei film. Cominciammo a rotolare per quella che
mi sembrò un’eternità, in cui ebbi modo, se non proprio di rivedere la mia breve vita in
un attimo, di visualizzare perfettamente le bare appena scaricate da un aereo in Italia, e
di pensare a come fosse stato stupido venire a crepare proprio qui, soltanto all’inizio del
nostro viaggio, qualche giorno dopo il nostro arrivo a Istanbul.
Devo dirti che fa un certo effetto, salire su di un treno alla Stazione Centrale di
Milano e scendere da quello stesso treno alla Sirkeci Gari, per quanto in quel puzzolente
scompartimento di seconda classe tu ci abbia passato un giorno, una notte e quasi un altro
giorno ancora attraverso la Jugoslavia e la Bulgaria. Capivi di essere finalmente arrivato
quando quelli che ti chiedevano in malo modo il passaporto avevano la mezzaluna al po193
sto della falce e martello sul cappello.
Quel treno era il Direct-Orient, discendente povero e moderno del leggendario
Orient-Express. Un treno esattamente come gli altri, la cui unica diversità la leggevi sulla
targhetta in alluminio sopra il lavandino della ritirata: DELUJE PRITISKOM NA PEDAL, ovvero FUNZIONAMENTO A PEDALE in sloveno. Come faccio a ricordarmene?
Perché in seguito ebbi modo di leggerla innumerevoli volte sul muro accanto al mio letto,
dopo averla rubata svitandola con il coltellino.
In quegli anni di globalizzato non c’era proprio niente, e l’avventura cominciava
già pochi chilometri dopo Trieste, una volta passato il confine a Villa Opicina. Quel che
oggi significa semplicemente entrare in Slovenia, allora voleva dire superare la cortina di
ferro, abbandonando le certezze del mondo occidentale per entrare nel misterioso pianeta
comunista. Pochi chilometri dopo Trieste un paio di jeans del tipo che trovavi per poche
lire al mercato rionale diventava improvvisamente una merce ricercata.
Ne sapeva qualcosa lo slavo che, poco prima del confine, passò in rassegna gli
scompartimenti del vagone chiedendo a tutti, in cambio di un sorriso sdentato e qualche
sigaretta, di custodire temporaneamente nel proprio bagaglio due paia di jeans nuovi. Due
paia, cioè la quantità massima importabile pro capite in Jugoslavia. Superato il confine,
tornò a riprendersi la merce e se ne andò ringraziando.
Non appena uscì dal nostro scompartimento, un suo compatriota, muto fino a
quel momento, diventò improvvisamente loquace, cominciò a fare il simpatico e a offrirci
pacchetti campione di Parisienne da tre sigarette (lavorava in Svizzera) e generosi sorsi di
slivovica. Non ci mettemmo molto a capire il perché: si era tenuto un paio di jeans e voleva
poter contare sul nostro silenzio, se non sulla nostra complicità.
Senza poter giocare con lo smartphone né col tablet, senza mp3 nelle orecchie, senza
navigare in posti che non fossero il corridoio che separava lo scompartimento dalla ritirata, per far passare le ore c’erano soltanto le chiacchiere, il libro e le sigarette, ma tutti
e tre i materiali andavano esaurendosi. Allora guardavi fuori dal finestrino un orizzonte
immutabile di campi coltivati, guarnito di tanto in tanto da un manifesto di quelli dove
contadini e operai allineati di profilo guardano fieri e fiduciosi verso il loro sempre più luminoso avvenire. L’ipnotica monotonia del panorama chiamava l’ultima risorsa: il mezzo
sonno scomodo del viaggiatore, che non riposa ma fa girare le lancette un po’ più velocemente inseguendo i pensieri balordi che scivolano nel sogno.
Arrivati a Istanbul ci lavammo e cominciammo a respirare un poco d’oriente, a
bere tè nei bicchierini e a mangiare kebab, di ogni genere ma mai del tipo che adesso si
vende in Italia. Visitammo quel che si doveva visitare, a cominciare dal Pudding Shop di
Sultanhamet, per rendere omaggio alla mitica bacheca zeppa di messaggi lasciati da mol194
titudini di scoppiati d’ogni parte del mondo in previsione di improbabili incontri lungo
la via per l’India, e cercare tra questi, ovviamente senza successo, il messaggio di un tale
Maurizio amico di Daniele partito per il Kashmir una decina di giorni prima.
Ma eravamo troppo stupidi e troppo impazienti di metterci on the road, per considerare Istanbul qualcosa di più del vero punto di partenza, così nel giro di due o tre giorni
eravamo già sul bus che si sarebbe schiantato dopo neanche mezz’ora di viaggio.
A quelli, come tuo padre e l’immancabile suo compare Daniele, usciti indenni sia
dall’incidente che dalla tentazione di non approfondire la conoscenza con i pullman del
luogo, la dinamica LevanTour offrì prima un ottimo lahmacun (la pizza turca) consumato
sulle sedie dell’agenzia di viaggio, poi la possibilità di archiviare lo spiacevole episodio
salendo come nulla fosse su un altro pullman pronto a partire per Teheran in serata. Accettammo sia l’uno che l’altro e salimmo sul bus, dritti a occupare i posti più in fondo.
A bordo di quel pullman si formò una compagnia eterogenea ma resa solidale dalla
comune esperienza fuoristrada. Ricordo un gruppetto d’italiani dall’aria vagamente ciellina, uno di scoppiatoni pesanti francesi, una coppia australiana (lui quasi sempre ubriaco,
lei sempre annoiata), un filippino gentile dall’aria benestante e un negrone nerissimo e
sempre sudato in camicia a mezze maniche bianca con cravatta nera. Aveva con sé con una
valigetta che non mollava mai e decidemmo che era un agente della CIA.
Ma il personaggio più folcloristico era quello che battezzammo immediatamente
l’alpino: piccolo, barbuto, sembrava uno gnomo in camicia scozzese, braghe corte e scarponi da montagna (sì, hai letto bene). Veniva dal Veneto, dalle parti di Schio, in compagnia
del suo enorme zaino su cui erano fissate per bene corde e piccozza. La sua destinazione
finale era il Nepal, dove avrebbe tentato la scalata in solitaria di chissà quale ottomila, e
tutto quello che lo separava da quel momento sembrava per lui soltanto una noiosa formalità.
Queste erano le persone con cui macinammo più di duemila chilometri di strada
prevalentemente sterrata, di giorno e di notte. Quelle con cui ci sgranchivamo le gambe
nelle rarissime soste previste presso gli autogrill del caso: baracche che apparivano dal nulla in quel desertaccio terroso lungo cui la lunga strada per l’India si snodava senza fine.
Lì, dove ti chiedevi chi diavolo al mondo potesse aver scelto di vivere, le risposte viventi
erano felici di riempirti un piatto con uno di quei tanti kebab dai diversi suffissi ma dal
medesimo sapore, accompagnati da una coca calda che ti gonfiava le guance di schiuma.
L’acqua, se la trovavi, la bevevi a tuo rischio e pericolo, presa dal pozzo o da un barile con
il mestolo, come stava facendo una volta Daniele prima di vedere il pesce che nel barile
girava in tondo.
Insieme dormimmo sonni interrotti da improvvise frenate capaci di ricordarci che
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se l’avevamo scampata una volta nulla vietava che alla seconda ci potessimo lasciare le penne. Insieme arrivammo con la bava alla bocca a minacciare i due autisti di giustizia sommaria al prossimo, ennesimo spavento gratuito. Ma c’era poco da pretendere, da individui
che, per abitudine, se di notte incontrano un altro pullman o un camion si divertono a
disputargli il centro della carreggiata e abbagliandolo con tutte le luci di cui dispongono.
Un’abitudine che tendeva i nostri nervi come corde di violino e che, a seconda dell’indole,
faceva urlare insulti nella propria lingua madre o annichiliva in un fatalismo sonnacchioso. Tutti insieme superammo i confini della Turchia ed entrammo in Iran, senza che il
panorama cambiasse granché. Pure i cessi continuavano ad essere alla turca anche in Iran.
Turche alla turca, però, niente a che vedere con quelli in ceramica con lo scarico dell’acqua
tra i piedi a cui puoi pensare tu. Laggiù avevamo a disposizione un semplice buco nel pavimento di un bugigattolo di cemento da un paio di metri quadri, nel migliore dei casi dotato di un rubinetto vicino a terra, con un secchiello da riempire. La carta non era prevista,
e non pochi visitatori supplivano all’inconveniente con le mani, successivamente pulite
strofinandole contro i muri. Dover stare accucciati con le spalle strette tra due pareti così
decorate ti garantiva evacuazioni straordinariamente veloci o una definitiva stitichezza.
A ricordarci dove eravamo ci pensava l’onnipresente fotografia dello Scià di Persia
Rheza Palhavi, accompagnato dalla moglie Farah Diba e spesso anche dal figlioletto Ciro.
Quando arrivammo finalmente a Teheran, scoprimmo che i giovani iraniani erano capaci
di seguirti per ore cercando di convincerti a vendergli i tuoi jeans e quasi tutto quello che
indossavi.
How much money? How much money? era la litania che ci accompagnava ovunque
andassimo. How much money? e mi tiravano la maglietta, finché non cominciavo a incazzarmi e alzavo il braccio per minacciarli. Allora guardavano il braccio, si toccavano il
bicipite, indicavano il mio e con aria ammirata cambiavano domanda: Karate? Bruce Lee?
Karate? In effetti, a giudicare da quanto proponevano gli enormi cartelloni dipinti a mano
dei cinema, l’idolo del momento era lui, Bruce Lee, malgrado fosse già passato a miglior
vita da un paio d’anni.
A Teheran vedemmo per la prima volta in vita nostra i poliziotti con il cappello a
cinque punte come quello dei colleghi americani e le auto con le sirene che, come quelle
degli americani, facevano uòuòuòuò e non èèèèèèè come le nostre. Per la prima volta, le porte
ad apertura automatica di una banca si spalancarono davanti a noi su una meravigliosa
oasi d’aria condizionata e boccioni d’acqua gelata come quelli dei film americani. Evidentemente allo Scià piaceva far l’americano, anche se qualche dettaglio andava perfezionato:
sul marciapiede davanti a quella banca una vecchia coperta di stracci chiedeva l’elemosina
trascinandosi con le mani.
In quell’oasi cambiammo un paio dei nostri miseri Traveler’s Cheques e bevemmo
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come cammelli, senza dimenticarci di riempire le borracce. E durante il nostro breve soggiorno a Teheran, fare provvista di acqua fredda in banca con la scusa di chiedere un’informazione divenne una pratica abitudine.
How much money? How much money?
Lasciare Teheran non fu un sacrificio, tutt’altro. Per chi come noi non andava per
musei o vestigia storiche ma viveva la strada così come gli si presentava davanti quel che
s’era visto bastava.
Così la compagnia si ritrovò ancora quasi tutta intera, di nuovo su un pullman
diretto a Mashad e più avanti ancora, di nuovo a guardare il deserto dal finestrino e le carcasse ruggini dei camion a bordo strada come scheletri di dinosauri insabbiati. Di nuovo
a cercare di dormire per non vedere come sarebbe facile ammazzarsi davvero in un nuovo
incidente e a impastarsi la bocca con coche schiumose quando il pullman faceva sosta.
E finalmente arriviamo a toccare la fine dell’Iran. La strada, dritta nel nulla del deserto terroso, s’infila in un grande recinto quadrato di rete, contenente bassi prefabbricati
e tettoie per le auto. L’avamposto verso la fascia di terra di nessuno che funge da intercapedine con l’Afghanistan.
In mezzo al piazzale rovente, alla stregua di un simpatico miraggio, vedo brillare tra
i mezzi parcheggiati il rosso acceso di un bus inglese a due piani trasformato in camper
con pochi essenziali interventi, quali le tendine a quadretti ai finestrini del piano superiore. È il Magic Bus! esclama estasiato qualcuno, e ci manca poco che s’inginocchi per
adorarlo. La certezza che quello fosse davvero il mitico Magic Bus che da Londra portava in
India lungo l’Hippie Trail non l’ho mai avuta, ma ti posso assicurare che quell’improvvisa
visione di magico ne aveva parecchio.
Entrati nell’edificio principale della dogana ci mettiamo in coda davanti al bancone che lo occupa per tutta la sua lunghezza. I doganieri non hanno nessuna fretta, ma
nemmeno noi, dal momento che l’aria condizionata fa il suo dovere e i boccioni dell’acqua gelata anche. Così abbiamo tutto il tempo di ammirare gli oggetti esposti con ordine
nella vetrina dirimpetto al bancone. Non ci vuole molto a capire sia lo scopo originario
dei bizzarri reperti allineati sia quello della loro esposizione. Si tratta di una pregevole collezione dei più svariati sistemi, furbi ma evidentemente non abbastanza, con i quali non
pochi viaggiatori in uscita dall’Afghanistan hanno pensato di fare fessi i doganieri iraniani per portarsi a casa come souvenir alcune sostanze tipiche della zona. Un piccolo museo
dedicato alla dissuasione preventiva, in cui ogni opera sembra dire al visitatore guarda che
a noi non ci freghi.
C’è un grosso zaino, di quelli da globe-trotter con l’intelaiatura a barella: il tubo
di alluminio di cui è fatta è spaccato di forza, slabbrato, e lascia uscire un mucchietto di
eroina. Da una saponetta tagliata e svuotata fa invece capolino un bel tocchetto di nero. Lo
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stesso nero che esce dallo scomparto segreto di un tacco di stivale o che addirittura prova
a travestirsi da grossa caramella incartata in modo maldestro.
Per ogni reperto, un cartellino con data e quantitativo. Manca solo la condanna.
Che certamente non dev’essere stata leggera per quelli che sul camper avevano una bombola piena zeppa di eroina invece che di gas, proprio quella che adesso è lì in mostra,
sventrata dalla fiamma ossidrica. E men che meno per quello scoppiato tedesco con barba
e capelli biondi lunghi fino al culo, che ci sorride da una foto, in mezzo a due poliziotti,
di fianco alla sua moto BMW. Scattata d’ inverno, perché lui è infagottato nell’eskimo e
il parcheggio della frontiera è bianco di neve. Sotto la sella della moto, dice il cartellino,
aveva tre chili di eroina e un paio di pistole. Chissà che fine gli han fatto fare, ci si chiede.
Perché, in qualche modo, su noi giovinastri questo piccolo museo del furbetto beccato ha
fatto l’effetto che si proponeva. E adesso siamo lì a dissimulare con battute cretine la nostra preoccupazione per come riuscire a far passare qualcosina di buono al ritorno. Niente
di che, ma almeno un qualcosina.
Timbrati i passaporti, siamo pronti a ripartire. Il minibus su cui saliamo è la prima
cosa afgana che vediamo. Sembra più probabile che si disfi piuttosto che accendersi. Ma
invece parte, uscendo dalla parte opposta del recinto che ingloba la strada, lasciandosi alle
spalle l’aria condizionata, i boccioni d’acqua e i doganieri grassi e baffuti vestiti da poliziotti americani.
È il tramonto. Il pulmino viaggia nel nulla, alla ridicola velocità che il suo motore
sfiatato e il fondo stradale gli permettono. Cullato dal rumore costante e dagli scossoni,
mi abbiocco mentre il buio si fa sempre più buio.
Mi sveglio quando ogni rumore cessa: il pulmino s’è fermato, l’autista ha spento il
motore e il nero ci circonda. La faccia stampata sul vetro sporco, cerco di vedere qualcosa.
Trovo due lucine traballanti che si avvicinano. Sono due soldati. Tengono in mano una
lanterna a petrolio e in spalla hanno il fucile con la baionetta innestata, così lunga da dirla
lunga sull’età del fucile. Hanno le uniformi stinte, sdrucite, con strappi rammendati. Li
vedo bene quando cercano di guardare le nostre facce facendo scorrere le lanterne davanti
ai finestrini. Vedo che sono ben diversi dagli iraniani: niente baffoni, niente pance arroganti, niente vociare prepotente. Sono magri, affilati e silenziosi.
Adesso ci vedo un po’ meglio. Quel tanto che basta per scoprire che il pulmino si è
fermato davanti ad una sbarra abbassata sulla strada, aggirabile a destra o a sinistra senza
alcuna difficoltà, dal momento che tutto ciò che sta a destra o sinistra della strada è esattamente identico alla strada.
I soldati alzano la sbarra e il pulmino riprende a camminare, fino a raggiungere il
posto di frontiera afgano. Finalmente un po’ di verde intorno a casotti bianchi di calce.
Niente elettricità: solo candele e lanterne a illuminare le nostre facce un po’ ebeti che pre198
gustano qualcosa da mangiare e da dormire nella locanda piena di fumo. Dopo giorni e
giorni di How much money? ci sembra impossibile che nessuno voglia comprarci qualcosa.
Mangiamo a lume di candela, soddisfatti di esserci. Poi, tra la terra del giardino e le
brande per dormire io e Daniele scegliamo la prima. Mi allontano nel buio per fare pipì
da qualche parte, ma proprio nel bel mezzo dell’impagabile soddisfazione del bisogno
sento un ka-klak alle mie spalle. Proviene dall’otturatore del fucile di un soldato sbucato
dalla notte per ricordarmi che mi stavo allontanando troppo. Tornato sotto scorta nel giardino, mi infilo nel sacco a pelo per scoprire che mi trovo sotto il cielo più bello che abbia
mai visto. Lucidato dal vento che muove le foglie degli alberi, è un foglio d’inchiostro blu
nero riempito di stelle d’ogni dimensione. Esagerato come il fondale di un presepe, non
ha posto da offrire a una sola stella in più. Forse per questo ne vedi cadere una quantità
impensabile. Dopo neanche mezz’ora che lo guardo non mi restano più desideri da usare.
Sul primo non ho avuto dubbi e l’ho dedicato a lei, che quando tornerò da questo viaggio
si scuserà di certo per avermi mollato.
Così siamo in Afghanistan, finalmente. Così, non appena raggiunta la prima città,
Herat, siamo entrati in una bottega e abbiamo comprato un tocco di nero secondo le stesse
modalità, e più o meno al medesimo prezzo, con cui in Italia puoi comprare una fetta da
formaggio in una privativa di paese. Il negoziante ha tagliato dalla forma un pezzo, l’ha
pesato su una bilancia di assoluta imprecisione, l’ha messo in un cartoccio e ce l’ha dato.
A casa, i pezzetti caduti per terra durante l’operazione te li vendono a cinque carte l’uno.
Qui non ci si china nemmeno a raccoglierli.
Ora possiamo rilassarci, e scoprire che l’Afghanistan è molto diverso dall’Iran e
dalla Turchia, che alla povertà qui s’accompagna una fierezza sconosciuta, che gli afghani
hanno tanti tipi diversi di facce e che sui loro letti di legno e cuoio intrecciato si dorme
benissimo.
Viaggiamo a un altro ritmo, finalmente. Qui non c’è l’ansia di assomigliare all’occidente, oltre alla mancanza di mezzi per farlo. La velocità dei bus, corti e rotondi come le
nostre vecchie corriere, ci lascia tutto il tempo di guardare quel che ci circonda in un modo
diverso da prima. Come ricompensa, sull’orizzonte deserto vediamo crescere antiche fortezze che sembrano fatte di sabbia, e godiamo di silenziosi tramonti quando ci si ferma
perché qualcuno deve pregare nel nulla rivolto verso la Mecca . Dopo Herat, Kandahar.
Dopo Kandahar, Kabul, adagiata sul fondo di un catino di montagne. Siamo arrivati.
Prendiamo una camera all’Hotel Faryab che, come specifica l’insegna, è anche Restaurant with Music, Camping and Parking. La music è fornita da un radiolone su cui gira a
ciclo continuo una cassetta consunta di Santana, il camping è un fazzoletto di prato secco
su cui, volendo, è possibile piantare una tenda e il parking è un angolo di cortile attual199
mente occupato da un camion militare tedesco sul quale dormono, allineati sul cassone
sotto il telo grigioverde, sei o sette nibelunghi strafatti. Il restaurant è meglio evitarlo. In
sostanza, l’Hotel Faryab fa abbastanza schifo, ma costa pochissimo ed è a uno sputo dalla
Chicken Street, la via delle botteghe e dei locali più frequentati.
A Kabul cambiammo pelle: venduti i nostri stracci occidentali (molto meno ricercati che in Iran e in Turchia) per freschi abiti locali e buttate le mefitiche scarpe ginniche
per un paio di ariosi sandali, cominciammo a imporci un pigro ritmo di vita stanziale. Di
giorno scoprivamo le notevoli bruttezze di Kabul, la sera tiravamo tardi nei ristorantini
mangiando allietati da musici locali. Di tanto in tanto capitava di incontrare qualcuno
della Compagnia Dell’Incidente, ormai dispersa dopo l’ingresso in Afghanistan: ci si rivedeva come tra compagni d’arme, scambiandosi notizie su altri membri del gruppo. Venimmo a sapere, ad esempio, che il Filippino era da giorni chiuso nella sua stanza d’albergo
(mica il Faryab, lui aveva soldi), più precisamente seduto sul cesso, in preda a una feroce
dissenteria, forse la terribile kabulite che dicono stenda prima o poi tutti i nuovi arrivati.
Qualche sera dopo, mentre stavo gustandomi l’ennesimo piatto catalogabile sotto
la voce kebab sorseggiando tè alla menta, improvvisamente tutto cominciò a risultarmi
fastidioso, a cominciare dai roboanti racconti del Greco, una specie di versione reale di
Polifemo dotata di entrambi gli occhi, che avevamo conosciuto in durante una sosta nel
deserto. Un tipo abbastanza losco, che viaggiava su un Bulli Volkswagen con la pubblicità
di una marca di saponette greche dipinta sulle fiancate, particolare singolare anche perché
il Greco puzzava sempre come un cinghiale. Gli piaceva parlare con noi perché sapeva abbastanza bene l’italiano e ci teneva a dimostrarlo. Quella sera non so cosa diavolo stesse
raccontandoci, ma il suo gesticolare cominciò a darmi la nausea.
Anche la musica sembrava far di tutto per rendersi fastidiosa, e i duetti ripetuti tra
dhamboura e robab suonavano ossessivi, opprimenti. Improvvisamente, quel che avevo nel
piatto mi faceva schifo. D’accordo, avevamo fumato parecchio, ma non era quello. Ho bisogno di un po’ d’aria, si finisce per dire in questi casi. L’aria che trovai fuori, nel tragitto tra la Chicken Street e il mio letto, non bastò
a cambiare le cose. Quella notte vomitai tredici volte (di cui una davanti alla porta del
bagno, la volta in cui lo trovai irrimediabilmente occupato) e per quasi altrettante volte
dovetti accucciarmi sulla turca. La kabulite mi aveva dato il benvenuto in Afghanistan.
Il giorno dopo toccò a Daniele, anche se in forma meno violenta della mia. Nel giro di un paio di giorni eravamo diventati due stracci. Grazie al passaparola
tra la Compagnia Dell’Incidente, al nostro capezzale si palesarono due suoi membri, due
giovani medici spagnoli freschi di specializzazione in ginecologia, che ci imbottirono
di Bimixin e ci diedero poche ma certe indicazioni sul da farsi, prima fra tutte : no agua,
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intesa come quella corrente che avevamo bevuto spensieratamente sinora. Per dissetarci, ci
restavano soltanto le coche e le pepsi calde, al limite le Canada Dry.
Una specie di santone bergamasco, residente a Kabul da cinque anni, ci somministrò invece due bicchieroni di argilla, che indubbiamente cementarono quel che dovevano.
Nonostante i tempi di recupero di un diciannovenne siano straordinari,
la kabulite fulminante ci tolse buona parte della sicurezza in noi stessi che avevamo avuto
fino a quel momento. Per la prima volta in tutto il viaggio, il sentirsi straniero in terra straniera cominciava a mostrarci la sua faccia buia.
Decidemmo così di rinunciare all’idea di dare un ulteriore tocco d’avventura al
nostro ritorno proseguendo in Pakistan fino a Karachi, nel cui porto pensavamo romanticamente di trovare un imbarco (magari come mozzi a pelar patate, come succede nelle
storie di Paperino) su qualche nave che prima o poi avesse fatto scalo in Italia.
Ti dirò che non ho mai saputo se rimpiangere quel progetto o ringraziare la kabulite
per averlo dissolto nel buco di una turca.
Cominciammo così a pensare al nostro ritorno molto prima di quanto previsto, e
non appena ci sentimmo in grado di ricominciare a passare le nostre giornate su un pullman, salutammo Kabul e l’Hotel Faryab, con la sua music, il camping e il parking.
Fu alla partenza del bus diretto a ovest, che incontrammo per la prima volta Arturo
Sangiani. Stava litigando con l’autista, che non voleva accettare il suo biglietto o qualcosa
del genere. Lo insultava in un misto di inglese e dialetto varesotto, agitandogli sotto gli
occhi prima il biglietto e, successivamente, un coltellino a serramanico trovato dopo aver
rovistato per un po’ in una delle sue valigie da vecchio dottore.
Và ca g’ho chi ul cultel…!
Per fortuna gli afghani non lo presero troppo sul serio e, per evitare storie, gliela
diedero vinta. Lui si calmò, si sedette su un letto, di quelli che le bettole afgane mettevano
sui marciapiedi come panchine per i clienti, e con tutto comodo si fece una pera, sotto lo
sguardo assente di un poliziotto che sorseggiava il suo tè.
Durante l’interminabile viaggio che seguì a quell’alba c’innamorammo di questo
singolare personaggio che non sembrava appartenere alla realtà. Pulitissimo, ordinato,
impeccabile nei suoi completi bianchi immacolati, era quanto di apparentemente più lontano dalla consueta immagine del tossico.
Eppure era un eroinomane di trentasei anni, gli ultimi due o tre passati in India,
dopo aver lasciato l’Italia e il suo lavoro di aiuto-regista. Stava tornando in Italia per una
questione famigliare e per raccattare un po’ di soldi per ritornarsene da dove era venuto.
Cominciammo a dividere con lui la vita comune del viaggio: lui approfittava di noi
per la logistica e per il trasporto del suo bagaglio negli spostamenti, noi lo obbligavamo a
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raccontarci aneddoti assurdi e pettegolezzi del mondo del cinema e, di tanto in tanto, gli
scroccavamo qualche tiro dagli spinelli che riusciva a rollare con una mano sola anche tra
gli scossoni del pullman, farciti della sostanza più pregiata che abbia mai avuto il piacere
di assaggiare: un fumo nepalese riserva specialissima, al cui confronto il miglior afgano era
robetta.
Arturo non provava alcuna soggezione nei confronti degli autoctoni in genere,
anzi, li detestava apertamente: durante il primo giorno di viaggio, sulla corriera strapiena
partita da Kabul reagiva agli sputi verdi di betel che a suo dire finivano troppo vicini ai
suoi piedi con lanci di mozziconi accesi. Curiosamente, per sua fortuna andava sempre a
finire che nessuno reagiva. Può darsi che lo credessero semplicemente pazzo.
Sul bus, se non litigava con qualcuno e se era riuscito in qualche modo a farsi, dormiva. L’unica fotografia che ho di lui, scattata a sua insaputa, lo ritrae addormentato con
il mozzicone dello spinello spento tra le labbra e il ciuffo biondo e sottile caduto sul viso.
Memorabile la notte in cui, già in Iran, nel buio del pullman, cercò di farsi la sua
pera senza dare nell’occhio. Accese la sua piccola torcia elettrica, se la mise in bocca e cominciò a prelevare il necessario dalla borsettina che teneva sempre con sé. Ma non appena
iniziò i preparativi, l’aiuto-autista lasciò il suo posto e lo raggiunse, mentre lui ributtava
tutto nella borsa, per dirgli qualcosa di incomprensibile. Una volta che il tizio fu tornato
al suo posto, Arturo ricominciò da capo. E nuovamente il tizio ritornò da lui a dirgli chissà che. Dopo la terza ripetizione della stessa scena, Arturo, incazzato nero, decise di lasciar
perdere.
Circa un’ora dopo, il pullman si fermò per una sosta. Una volta scesi, vedemmo i
due autisti fare segno ad Arturo di seguirli. Lui scomparve con loro all’interno della bettola e non lo vedemmo per un po’. Quando riapparve era in pace con se stesso e con il
mondo. Più tardi, nella camera d’albergo ci raccontò com’era andata la faccenda. L’autista
vedeva i suoi tentativi nello specchio retrovisore, e mandava il compare a dirgli di aspettare la sosta che avremmo fatto di lì a poco, durante la quale lui avrebbe potuto fare quel
che doveva con molto più agio.
E così fece, in una compiacente stanza al primo piano, in compagnia dell’autista,
che si dedicò anima e corpo a un narghilè traboccante hascisc. A me e a Daniele fece molto piacere sapere averlo saputo dopo, che al volante del nostro pullman lanciato nel buio
c’era un autista strafatto.
Quella stessa sera, un Arturo molto in forma ci intrattenne prima di dormire esibendo su di sé una serie di stupende collane composte da granate e altre enormi pietre
dure che teneva nascoste nel fondo di una delle borse. Non ricordo bene se volesse portarle
in Italia per venderle o per regalarle a qualcuno.
Ci separammo da lui alla stazione degli autobus di Teheran: noi avremmo prosegui202
to subito per la Turchia, lui doveva ritirare i famosi soldi e poteva prendersela più comoda.
Approfittò di noi ancora una volta per farsi portare le borse, ma salutandoci ci regalò un
pezzetto del preziosissimo nepalese. Non lo vidi ne sentii mai più. Però un giorno lessi il
suo nome alla fine di un vecchio film. Aiuto regista: Arturo Sangiani.
La lunga strada verso casa ci regalò ancora parecchi momenti degni di essere vissuti.
Appena entrati in Turchia deviammo verso nord e raggiungemmo il Mar Nero a Trabzon
(o Trebisonda). Da lì rientrammo via mare a Istanbul dopo tre giorni di nave trascorsi in
güverte, nutrendoci di formaggio di capra e nocciole comprate prima d’imbarcarci. Dopo
tutte le ore passate sui pullman, sonnecchiare al sole su una scialuppa di salvataggio era
ugualmente noioso ma molto più rilassante.
Arrivare di notte a imboccare il Bosforo, guardandolo stringere lentamente la nave
ai lati come un imbuto e cominciare a vedere le prime luci sulle rive accompagnarti sempre più fitte e vicine fino ai ponti di Istanbul fu un momento che mi piacerebbe potessi
vivere un giorno anche tu. Magari con un po’ più di comfort, questo sì.
L’Italia ci accolse dopo un viaggio in treno che pareva non dovesse più finire, senza posto a sedere, senza cibo, con poche sigarette, sdraiati davanti alla porta di un cesso
incessantemente frequentato, soprattutto da una vecchia, grassa slava vestita di nero che
avremmo volentieri buttato giù dal treno in corsa.
Ci accolse con un carabiniere spiritoso che, dopo aver guardato i passaporti, disse
la battuta del caso: Ve la siete fatta la fumatina, eh?...
Ci accolse anche con il pacchetto di MS che corsi a comprare scendendo dal treno
a Trieste: dopo aver fumato per un mese come turchi, come iraniani e come afghani le
sigarette di casa avevano un sapore semplicemente squisito.
L’ultimo mezzo di trasporto che toccò al nostro viaggio fu il tram 29. La gente ci
guardava come si potevano guardare nel 1975, a Milano, due afgani sporchi salire su un
tram della circonvallazione. Ma la dose di on the road che avevamo assunto ci rendeva immuni da qualunque sguardo.
E poi Daniele e io stavamo entrambi pensando ad altro: che la via Procaccini non
era mai stata così piccola.
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Ventiquattro
Il momento più bello era quando anche l’ultimo tecnico sgattaiolava via
e tutte le luci si spegnevano
Il momento più bello era quando anche l’ultimo tecnico sgattaiolava via e tutte le
luci si spegnevano. Certe volte riuscivi a intravvedere le sagome prendere posto, infilarsi
dietro una selva di piatti e tamburi o mettersi una chitarra a tracolla, e magari anche a cogliere quel cenno da cui tutto prendeva vita. All’improvviso i riflettori facevano esplodere
luce e colore sul palco nello stesso momento in cui il suono, incredibilmente forte, pieno,
avresti potuto dire solido, s’impossessava delle tue orecchie e della tua pancia, provocandoti un brivido di puro piacere. E loro erano lì per davvero, proprio in quel momento,
vivi, vicini, con i loro vestiti balordi e i capelli lunghi come li avresti voluti anche tu. Cazzo, erano proprio loro! Erano lì a suonare per te e tu eri semplicemente felice. Non sai cosa darei, oggi, per poter provare ancora quella stessa sensazione, quell’impagabile emozione di trovarmi nel miglior posto al mondo in cui potersi trovare in quel
preciso momento. Nonostante abbia un’età che mi consentirebbe di collezionarne parecchi, i rimpianti che provo per le cose della gioventù non sono ancora molti, per mia fortuna. Ma questo pezzo del giovane che ero mi manca tantissimo, e da quando mi manca
io mi sento molto più povero.
Io e la musica siamo da svariati decenni una coppia di quelle che fanno una tremenda fatica a ritrovare la passione di un tempo, quando si rotolava sul letto divorandosi
senza mai sfamarsi. Da anni ormai, per rivivere qualcosa che appena ricordi le emozioni
che ci regalavamo siamo costretti a malinconici viaggi nel passato, perché il presente è un
luogo desolato.
Di tanto in tanto lei ci prova, ad eccitarmi. Sa dove toccarmi ma questo non è sufficiente: io sono sempre più esigente e lei non ha più l’energia e la fantasia di un tempo.
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Come succede a chiunque, siamo cambiati. E come succede in ogni coppia nelle stesse
condizioni uno dei due accusa l’altro di essere cambiato in peggio, di essere diventato un
altro. In questo caso l’accusatore sono io e so quel che dico. Ne ho le prove.
Chissà se qualcuno vissuto durante il massimo splendore del Rinascimento avrà
mai avuto modo di rendersi conto di essere stato in qualche modo un privilegiato. Chissà
se qualcuno, cresciuto tra i Leonardi, i Raffaelli, i Michelangeli e compagnia bella, una
volta davanti alle opere dei loro mediocri figli e nipoti avrà pensato di aver già visto qualcosa di migliore e si sarà sorpreso per i gusti facili del presente. Vai a saperlo. Certo è che
so di aver vissuto in prima fila, insieme ai miei giovani e fortunati coetanei, uno dei periodi
più floridi e generosi di cui la musica leggera abbia mai goduto e con cui abbia fatto godere
l’umanità. Mi sono imposto di scrivere uno dei per un’ipocrita forma di tolleranza, ma
la verità vera è che penso che quello sia stato semplicemente il periodo.
Quando mi capita di esternare questa opinione mi sento spesso ribattere che ognuno di noi s’innamora perdutamente della musica che ha fatto da soundtrack alla sua gioventù, qualunque sia stato il calibro degli autori. È vero, ma è altrettanto vero che l’amore,
per quanto cieco possa essere, alla lunga dovrebbe concedere alla sua vittima quell’onestà
di giudizio sufficiente per riconoscere se il proprio personale cupido l’abbia trafitta per
qualcuno di veramente speciale o no.
Il cupido musicale di tuo padre e dei suoi coetanei aveva soltanto l’imbarazzo della scelta
in una folta schiera di bersagli straordinari. Ti auguro di tutto cuore di poter dire lo stesso
tra una trentina d’anni. Ma senza mentire a te stessa, mi raccomando.
Il primo concerto della mia vita fu pomeridiano e completamente gratuito: due
condizioni a dir poco ideali per uno studente delle medie. Non ricordo in che modo venni
a conoscenza dell’evento, come si usa dire oggi per qualunque fatto non esattamente quotidiano che coinvolga almeno una ventina di persone. So solo che la notizia che i Canned
Heat avrebbero suonato gratuitamente al Teatro Nazionale mi raggiunse in tempo utile.
Chi fossero esattamente i Canned Heat non ero in grado di dirlo, avendoli solo sentiti
nominare e neanche troppe volte. Pensavo che il loro nome avesse a che vedere con il presidente Kennedy, anche se a orecchio sembrava avanzare una misteriosa “t”. Avevano suonato a Woodstock, una referenza più che sufficiente per approfondire la loro conoscenza.
Prova a indovinare con chi mi ritrovai quel pomeriggio in piazza Piemonte, davanti
al Teatro Nazionale. Con l’immancabile Daniele, è ovvio. Ci unimmo alla fiumana che
premeva all’ingresso e malgrado fossimo due pirlini circondati da ragazzoni ci riuscì persino di arraffare un paio dei poster che venivano distribuiti in numero insufficiente alla
calca come i sacchetti di riso ai profughi affamati. Una volta riversati in sala ci accapar205
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rammo due buoni posti, e guardandoci intorno soddisfatti cominciammo a pregustarci
ciò che le nostre giovani budella non conoscevano ancora.
Lascio la cronaca dettagliata di quel concerto alla storia periferica del blues rock, ma
voglio dirti che quando sul palco, insieme alle spie rosse degli amplificatori Marshall, si
accese un sound poderoso che nulla aveva a che vedere con il gracchiare fesso del mangiadischi di casa, tuo padre scoprì improvvisamente l’esistenza di una musica suonata capace di
drizzarti i peli sulle braccia, non solo per il suo volume inaudito.
Per la prima volta in vita mia potevo vedere i suoni uscire dai rispettivi strumenti
prima di mischiarsi tra loro. Potevo vedere chi faceva cosa e come lo faceva davanti alle
oleose proiezioni psichedeliche che si muovevano sullo sfondo: agitando la testa in continuazione, andando avanti e indietro sul palco oppure restandosene immobile con gli
occhi chiusi. Potevo scoprire che in quella magia persino un orso da almeno un quintale e
mezzo di peso, tale Bob Hite detto per l’appunto “The Bear”, tutto pancia, barba e capelli
come una versione giovanile di babbo natale, può sembrarti lieve e affascinante più di una
ballerina, anche se ogni tanto, quando si china troppo, dai pantaloni fa capolino la riga
delle sue enormi chiappe. La sua voce roca squassa l’aria e la sua armonica la strazia. E
tutto questo lo senti non soltanto con le orecchie.
Il giorno seguente cominciai a raccogliere le lire necessarie per comprarmi il mio
primo 33, altresì detto long-playing, lp per gli habitué, padellone per gli spiritosi. L’unico
modo in cui non ci saremmo mai sognati di chiamarlo è vinile, come invece si usa adesso.
Conteneva la bellezza di undici pezzi dei Canned Heat e s’intitolava Hallelujah, e mi piace
pensare che non fosse per caso.
In quei tempi remoti l’acquisto di un lp segnava un netto salto di qualità del tuo
status di consumatore di musica. Mentre un 45 giri lo compravi d’impulso, per quella canzone e magari poi più, un 33 giri comportava un acquisto ben più ragionato, non solo per
questioni prettamente economiche. Di un 33 non poteva piacerti soltanto una canzone:
in tal caso non solo avresti buttato via i tuoi soldi pagandone inutilmente una decina, ma
ti saresti pure complicato la vita obbligandoti a sollevare ogni volta il pick-up (che allora
non era un automezzo) per riascoltare l’unico pezzo che t’interessava. Per l’ascolto singolo
ripetuto era molto più comodo ricacciare per l’ennesima volta il piccolo 45 nella fessura
del mangiadischi. Ma i mangiadischi, per quanto ingordi, non avevano una bocca abbastanza larga da accogliere anche un 33, per cui il salto di qualità di cui parlavo coinvolgeva
anche il mezzo riproduttore. A meno che in casa non fosse ancora in funzione una vetusta fonovaligia, per ascoltare un lp ti occorreva un giradischi vero e proprio, possibilmente
stereofonico, ovvero dotato di quella recente trovata tecnologica che ti faceva sentire i suoni
non più completamente mescolati insieme da un solo altoparlante ma sorprendentemente
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divisi tra due. Proprio come se stessero suonando lì, diceva qualcuno.
Per ragionare a dovere sull’acquisto di un 33 si andava in centro a chiudersi dentro
le cabine insonorizzate de La Voce del Padrone, di Ricordi o delle Messaggerie Musicali.
Dopo aver scartabellato a lungo nei raccoglitori, si selezionavano due, al massimo tre lp (di
più le commesse non te ne concedevano) e si incominciava a bivaccare in una delle cabine
del negozio.
Erano poco più grandi di quelle telefoniche, ma dentro ci si doveva stare in due per
potersi scambiare occhiate significative nei passaggi migliori o peggiori. Si schiattava dal
caldo e mancava l’aria, ma ne valeva la pena: si disponeva gratuitamente di un giradischi
stereo di tutto rispetto che si poteva spingere a un volume ben più elevato di quello tollerato
a casa dai genitori. In virtù di queste ed altre doti, le cabine erano mete apprezzate nelle
bigiate liceali, soprattutto in caso di pioggia.
Ben presto gli lp diventarono un accessorio fondamentale della nostra vita di liceali.
Ce li portavamo a scuola sottobraccio per prestarceli o scambiarceli per sempre, per far
colpo sulle ragazze o anche solo per darci un tono. Non dovrei dirtelo, ma imparammo
anche a rubarli dove la logistica poteva consentirlo e dovunque si potesse cogliere l’attimo
fuggente di una commessa distratta e approfittarne senza esitazioni. Di nasconderli non
c’era modo, troppo grandi. Per quanto azzardata, la tecnica più efficace per trafugarli era
una sola: una volta che li avevi selezionati e radunati nel raccoglitore te li mettevi rapidamente sotto il braccio e, come se niente fosse, ti avviavi sfacciatamente verso l’uscita. Davanti alle porte non c’erano ancora i sensori, ma mentre percorrevi a passi lesti i metri che
ti separavano dal marciapiede sentivi le pulsazioni accelerare fin nelle orecchie. Qualcuno
tra i più sgamati occasionalmente li rubava anche su commissione, aggiungendo al brivido
dell’azione un guadagno di solito pari alla metà del prezzo intero.
Ai 45 giri rimanevano fedeli più facilmente le ragazze, pronte a innamorarsi della
prima hit di passaggio e a comprarla subito nel reparto dischi della Standa, dopo averla
ascoltata nelle apposite cornette messe a disposizione della gentile clientela per un assaggio.
Se non era la Standa, era il negozietto di dischi vicino a casa: in ogni quartiere ne trovavi
almeno uno, certe volte era lo stesso che vendeva materiale elettrico e piccoli elettrodomestici. In mezzo ai tostapane, ai ferri da stiro e alle radioline c’erano sempre un paio
di raccoglitori in cui potevi trovare, allineate in ordine alfabetico, le canzoni di maggior
successo del momento, a cominciare da quelle italiane.
Le ragazze amavano i 45 anche perché erano insostituibili nelle feste, e nessuno
amava le feste più delle ragazze. Nelle feste si doveva ballare, mica ascoltare. E per ballare
era necessario saltare in continuazione da un successo all’altro, per di più alternando, già
te lo dissi, pezzi lenti a pezzi veloci. E non esisteva al mondo un 33 capace di assolvere a
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questa funzione fondamentale. Tra i vari compiti di chi organizzava la festa c’era quello di
rastrellare una quantità di 45 giri sufficiente ad alimentarla senza dover esagerare con le ripetizioni. Se consideri che a ogni disco corrispondevano due canzoni e che parecchi lati b
non venivano nemmeno considerati, puoi immaginarti quanto potesse essere voluminosa
la massa di musica solida necessaria e quanto facilmente si sparpagliasse ovunque durante
la festa a furia di essere smanacciata da tutti i presenti, sempre in cerca di quella canzone
che non si trova.
Era un continuo togli e metti, e per questo i giradischi tecnologicamente più avanzati (per dirla con la lingua di oggi) si erano dotati di un accessorio teoricamente molto
utile: una sorta di caricatore in grado di permettere la riproduzione automatica di quattro
o cinque 45 in sequenza. Si trattava di un cilindro da fissare come centro del piatto sul
quale venivano impilati i dischi che sarebbero poi stati fatti scendere uno alla volta grazie alla pressione di un braccio metallico. Teoricamente. Il più delle volte l’aggeggio non
funzionava per molto. Bene che andasse, terminato l’ascolto di un disco il successivo non
riusciva a scendere, per cui il pick-up tornava nuovamente a posarsi sul precedente. Nei
casi peggiori, invece, un disco non completamente sceso sopra gli altri innescava una reazione a catena che si concludeva con una sonora galoppata della puntina non nei solchi
del disco ma direttamente sulla gomma del piatto. Capisci perché il geniale dispositivo
non riscuoteva un grande successo e il togli e metti manuale rimaneva l’unico sistema
affidabile.
Esisteva poi un terzo tipo di supporto musicale, quello di più recente invenzione:
l’audiocassetta, che tutti chiamavamo musicassetta. Un nastrino inscatolato registrabile che
nel giro di qualche anno sarebbe diventato indispensabile per duplicare i dischi altrui
e per sentire la musica in macchina. Ma comprare un album appena uscito sotto quella
forma anziché in 33 giri era una scelta discutibile: se i dischi, a furia di ascoltarli, aggiungevano alla musica un sottofondo di cric e crac (click, pop e crakle per i collezionisti di
oggi), le cassette le assicuravano invece un fruscio costante (hiss) capace di soffocare anche
più brillante dei pezzi. E poi vuoi mettere come ti godevi fotografie e testi nei 30 x 30
centimetri della copertina di un 33 rispetto alla sua versione miniaturizzata in foglietto
che trovavi nel guscio di plastica della cassetta? La sua illeggibile miseria anticipava quella
che avremmo dovuto accettare in seguito e per sempre con l’avvento del compact disc, che
chiudeva per sempre il discorso dei cric, dei crac e fruscii vari ma anche quello del piacere
di guardare, leggere e toccare il disco mentre lo ascolti.
Il concerto dei Canned Heat segnò l’inizio di una stagione così generosa da permetterci di essere vergognosamente selettivi. Dall’imbarazzo della scelta ne uscivi elegantemente rinunciando senza grossi problemi alle esibizioni di quelli che non erano proprio
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ai vertici del tuo gradimento. Potevi permetterti di snobbare concerti che oggi, stante la desolazione del panorama musicale attuale, verrebbero preannunciati come l’evento musicale
dell’anno già dal precedente, rigorosamente sold out dopo i primi due minuti dall’apertura
della prevendita online dei biglietti a prezzi scandalosi. Tu non hai avuto ancora modo di
rendertene conto, ma in questi anni l’esumazione di gruppi e musicisti di quell’epoca sembrerebbe diventata un buon affare. Scarseggiando la qualità del prodotto fresco, si guarda
al surgelato. Talvolta anche all’affumicato. Invece allora era tutto molto più semplice. Non
eri costretto ad aspettare come un deficiente davanti al computer che una biglietteria virtuale si aprisse davanti a un’orda virtuale capace di calpestarti come neanche nel peggior
reale prima ancora che tu possa accennare a un clic. Potevi decidere di comprarti il biglietto per il primo concerto italiano dei (ebbene sì, lo si considerava un gruppo) Santana
anche soltanto qualche giorno prima. Ma potevi anche aspettare che aprisse la biglietteria
la sera stessa del concerto. Nel caso i biglietti fossero stati esauriti, ti rimaneva la speranza
abbastanza concreta di sfondare in compagnia di qualcuno nella tua stessa condizione, perché la parola d’ordine era Musica gratis!, e si trattava di quella dal vivo, mica di fregare le
canzoni dalla rete. Anche senza cattiveria, l’unione faceva la forza, e la forza, dai e dai, fa
spostare chiunque e aprire ogni porta. Basta che tutto succeda in fretta, basta che nasca e
finisca lì, prima che la polizia decida di occuparsene con la sua consueta grazia. In tal caso
poteva finire in battaglia, soprattutto se il concerto si teneva al Vigorelli. Prova a chiedere
ai Led Zeppelin, se ti capita.
Il Velodromo Vigorelli era, per l’appunto, un velodromo, ovvero un posto appositamente costruito durante il fascismo per le corse in bicicletta su pista, uno sport di cui
immagino non sospetti nemmeno l’esistenza ma che una volta richiamava un discreto
pubblico, soprattutto durante la “Sei Giorni”, una kermesse, come la definivano i cinegiornali, durante la quale le gare si succedevano per quasi una settimana filata. C’era persino
il ristorante, in cui mangiare mentre i ciclisti sfrecciavano in pista. Oggi ci fanno le partite
di football americano.
Dopo aver occasionalmente ospitato, nel 1965, l’unico concerto dei Beatles in Italia, il Vigorelli degli anni settanta diventò, insieme al più piccolo Palalido, lo scenario dei
concerti estivi di maggior richiamo. Immagina un piccolo stadio con il prato al centro,
circondato da una pista ovale di legno con le curve paraboliche, a sua volta circondata dalle tribune coperte da una tettoia. Il palco, molto più piccolo di quelle portaerei sulle quali
amano perdersi le rock star di oggi, veniva montato a un’estremità del prato, che per il
resto rimaneva a disposizione del pubblico insieme alle tribune, usate soltanto dai vecchi
che volevano sedersi comodi o da chi voleva limonare e strofinarsi in assoluta tranquillità.
Al Vigorelli c’era posto per tutti e per tutti i modi di godersi lo spettacolo. Via via
che ci si allontanava dal palco, il coinvolgimento nella musica assumeva forme più rilas209
sate. Dove il diradarsi dei corpi lo permetteva, si formavano gruppetti di gente seduta in
circolo nell’erba intenta a produrre e consumare grandi e succulenti cannoni, il cui fumo
denso e profumato s’alzava in pesanti volute come se dovesse comunicare qualcosa all’esterno. Forse alla Celere ancora schierata da qualche parte là fuori. Dove il prato finiva
cominciava il parquet della pista, che a qualcuno, aiutato dai fumi di cui sopra, immancabilmente ispirava un irresistibile gioco: prendere la rincorsa e cercare di risalire la curva
parabolica nel suo punto più ripido, fino a riuscire ad agganciarsi con le dita alla rete che
la separava dalle tribune. Qualcuno ce la faceva, qualcuno perdeva lo slancio a metà strada
e scivolava giù come una pelle d’orso, ma continuava a riprovarci divertentosi come un
pazzo.
Ne vidi un bel po’ di concerti, al Vigorelli. Da Joe Cocker a Santana, da Emerson,
Lake & Palmer al più grande di tutti, Frank Zappa. In una sera di luglio del 1971, convinto
da non mi ricordo più chi, ci andai a sentire i Grand Funk Railroad. Un paio d’ore di
puro hard rock a una quindicina di metri dal palco a svariate decine di migliaia di watt
sottoposero i miei timpani a un trattamento dal quale credo non si siano mai ripresi del
tutto. Mi fischiarono le orecchie per almeno tutto il giorno seguente, e quindi anche durante la ripetizione di matematica prevista nel pomeriggio. Alla mia già scarsa comprensione della materia si aggiunse quella delle parole che l’insegnante sussurrava al di là di
una parete di ovatta. Prima che mi pensasse cretino del tutto decisi di confessarle il mio
handicap e fortunatamente la prese bene.
Che proponesse hard rock, country rock, glam rock, pop rock, prog rock, acid rock o blues
rock, l’offerta era così generosa da permettere a chiunque di scegliersi agevolmente la propria confessione, la propria parrocchia e, all’interno di questa, anche il sacerdote preferito.
Si creavano schieramenti capaci di fronteggiarsi per tutto l’anno scolastico con discussioni
accese quanto inutili, alimentate dalle classifiche di Melody Maker, che giudicavano i
nostri idoli strumento per strumento. Io, come tutti, mi trovai a snobbare per pura faziosità gruppi che avrei riscoperto e apprezzato solo partire da una quindicina d’anni dopo,
in piena carestia. Come altri tristi reduci, mi sorprendevo a comprare in versione cd nice
price quegli stessi album che avrei fatto ingoiare al mio compagno di banco, e ascoltandoli
pensavo però...
In quei tempi di vacche grasse mi lasciai conquistare dai lirismi accademici del progressive, e tra i vari gruppi d’oltremanica che lo suonavano elessi i Van Der Graaf Generator
a miei numi. Il mio amore per loro venne ricambiato in un concerto che mi rimase nel
cuore, e non soltanto perché avevo accanto Elisa. Si tenne al Cinema Teatro Massimo, un
cinema rionale del Ticinese, uno spazio insufficiente pieno all’inverosimile. Molti infatti
non riuscirono ad entrare e fuori si scatenò la tradizionale battaglia con la polizia. Di
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tanto in tanto, dalle uscite di sicurezza che davano sull’esterno filtravano folate di gas
lacrimogeno che aggiungevano pathos a un’atmosfera già pregna. Daniele, in piena fase
reporter, riuscì a scattare un po’ di foto. Ne conservo gelosamente una di Peter Hammill
appoggiato all’asta del microfono in compagnia dei suoi balordissimi pantaloni.
La musica era una componente fondamentale della nostra vita. Musica ascoltata ma
anche suonata. Ovunque ti girassi c’era qualcuno con una chitarra con qualcun altro che
lo stava a sentire o che cantava o che gli rovinava tutto accompagnandolo con dei bongos
fuori tempo o tutte queste cose insieme. Formare un gruppo era essenziale, e non ci voleva
molto. Il difficile, una volta formato, era trovare un posto per suonare in santa pace, ovvero fare un grande casino senza che qualcuno protestasse dopo pochi minuti. Un’utopia.
Anche nella cantina più remota, non appena la batteria cominciava a pestare e il basso
muoveva il pavimento, potevi stare certo che di lì a poco qualcuno si sarebbe palesato per
porre la fatidica domanda ma siete matti?.
Rispetto a noi cittadini, per una volta erano più avvantaggiati quelli che abitavano
fuori Milano, perché riuscivano quasi sempre a rimediare senza troppe difficoltà uno
stanzone polveroso nei meandri di quelle enormi cascine isolate nel mezzo dei campi. Lì,
al massimo, a lamentarsi era qualche mucca. D’inverno, senza riscaldamento e con la nebbia che premeva contro i vetri sottili delle finestre, si gelava. Ma in compenso l’atmosfera
severamente nordica faceva molto copertina, e questo era parecchio gratificante.
Rudi certe domeniche riusciva a impossessarsi della merceria dei suoi genitori e a
trasformarla in sala prove per il suo gruppo, i Joint. La batteria occupava quasi tutto il
negozio, gli altri suonavano appollaiati sul bancone o tra le scatole di bottoni, ma il tutto
era molto suggestivo e qualche dopo avrebbe fatto molto video.
Mi capitava di suonare abbastanza spesso con Rudi, a casa sua, ma non facevo parte
dei Joint, per un motivo molto semplice: io “sapevo” suonare il flauto dolce (avrei venduto
la mia famiglia per un flauto traverso) e l’armonica a bocca, strumenti entrambi bisognosi
di un microfono personale per potersi far sentire quando gli altri sono elettrici, ma i soldi
per un microfono mio (più amplificatore) non ce li avevo. Così ero per forza di cose limitato alle jam (quanto ci piaceva questa parolina!) acustiche, oggi si direbbe all’unplugged.
Un giorno Daniele si comprò dei bongos di buona fattura, così nacque il duo Socotra, nome trovato puntando il dito a caso sull’atlante. Rigorosamente quanto obbligatoriamente acustici, i Socotra anticiparono del tutto casualmente certe interminabili lagne
di stampo etnico che ci avrebbero straziato anni dopo. Il fatto che Daniele non possedesse
il minimo senso del ritmo condannò il duo a una fine prematura quanto doverosa.
A quel punto decisi che era venuto il momento di cominciare a imparare a strimpellare la chitarra. Riuscii a farmi regalare per il mio compleanno una Eko Fiesta, la più
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economica sul mercato, e cominciai a trorturarmi i polpastrelli con il mi minore e il la del
giro iniziale di Venus degli Shocking Blue, che perlomeno non richiedeva barrè.
Oggi dispongo a mio piacere di un’intera orchestra sinfonica, di pianoforti di ogni
genere, di sintetizzatori vintage, di chitarre, batterie, organi, bongos, congas, marimbe, e
anche di un container pieno di strumenti etnici di ogni parte del mondo, sitar, tambura
e tabla compresi. Posso passare dalla strumentazione di Rick Wakeman a quella degli IntiIllimani in meno di un paio di minuti. Ho decine di amplificatori delle migliori marche
e centinaia d’effetti a mia completa disposizione. Tutto questo è dentro il mio computer, e
posso suonarlo quando voglio grazie a una tastiera midi che tua madre mi regalò qualche
compleanno fa. Non mi serve nemmeno una stanza dove poter fare casino, perché nelle
cuffie mi sparo tutto il casino che voglio anche mentre tu stai dormendo.
La fantascienza è arrivata con i suoi prodigi, peccato però che non abbia nessuno
con cui condividerla, nemmeno un amico senza il minimo senso del ritmo.
Mentre nei velodromi, nei palazzetti e nei teatri il meglio del rock in tutti i suoi
suffissi o desinenze dava tutto se stesso al suo irrequieto pubblico, senza merchandising
ufficiale o ufficioso ma anche senza che nessuno si sognasse di guardarti nella borsa o
d’impedirti di fumare qualunque sostanza, la musica entrava nei licei, prendeva possesso
dell’aula magna e organizzava concerti collettivi per i gruppi di quella e d’altre scuole
sulla piazza. Dalle cantine tappezzate di polistirolo e dalle cascine sperdute arrivava di
tutto, e su quei palchi salivano personaggi increduli d’avere finalmente un pubblico da
spettinare con una pasticciata Smoke On The Water o da coinvolgere emotivamente in
un’interminabile Knockin’ On Heaven’s Door, cantata con aria ispirata dalla vergine del
primo banco. L’importante era suonare, a prescindere da tutto, a cominciare dai microfoni che fischiano e dagli amplificatori che ronzano. Ssà…ssà…prova…ssà.
La musica era politica e la politica era musica, che a sua volta era anche sesso e droga e persino amore. Non c’era attimo della nostra vita in cui, potendo, non sottolineasse
il presente con i colori fluorescenti di un evidenziatore. Era l’esaltatore di sapidità dell’esistenza che avevamo nel piatto. Se credessi in un dio, lo pregherei perché anche tu ne possa
godere altrettanto pienamente.
Da ragazzino ci fu un periodo in cui sistemai sul portapacchi del Ciao il mangiacassette, legandolo stretto con gli elastici fatti con le camere d’aria, per poter ascoltare la
musica andando in motorino. Quando nella cassetta girava Born To Be Wild il Ciao e il
Vespino di Daniele che avevo accanto si trasformavano in due chopper diretti verso l’orizzonte infinito di corso Sempione.
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Oggi, nel mio telefono, posso mettere tutta la musica che voglio e ascoltarla dove voglio
grazie a un paio di cuffie leggere e pieghevoli, senza nemmeno un fruscio. Continuo a
cambiarla, sempre alla ricerca di un’emozione che non sia l’ennesimo duplicato di se stessa. Talvolta mi addentro nel jazz, piluccando qua e là senza riuscire a saziarmi del tutto.
Talvolta mi sembra di aver capito che solo le scale di Bach possano ancora condurmi in
qualche luogo sconosciuto. I musicisti di cui vedrei volentieri un concerto se li conto non
arrivano ad occupare le dita di una mano, ma anche da loro temo di venire deluso o semplicemente annoiato.
Se fossi un software, potrei dire di me che mi manca un componente, quel piccolo
ma fondamentale plug-in che consente al programma di leggere la musica anche con il cuore o con la pancia e non soltanto con la testa. Una volta ce l’avevo, forse l’ho perso con gli
aggiornamenti che la vita ti suggerisce periodicamente di fare.
Così, privi del rovente desiderio,
gli uomini qui però vagamente ricordano com’era bello,
ma non riescono da soli a risvegliarlo,
e se incontrano qualcuno il quale può per qualche istante
risuscitare nei loro midolli il brivido, l’orgasmo, la mania
che lassù li riduceva come pazzi
gli sono grati.
(Dino Buzzati)
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Ventiquattro e mezzo
Il Magenta non è posto dove stare in acido
Il Magenta non è posto dove stare in acido. Troppo caldo, troppo fumo, troppa
gente che grida, troppa puzza di grasso di pancetta colato sulla piastra rovente dai panini
special, troppo juke-box che ripete sempre Hurricane con la voce di Dylan e il violino che
continuano e continuano e continuano come fosse sempre la prima strofa.
Troppe cose che si agitano in troppo poco spazio, per me. Ma Alice ha voluto che
l’accompagnassi qui per incontrare non so bene chi, e adesso è sparita.
«Ti va mezzo trip?» mi aveva sussurrato una mezz’ora prima ai giardini, e io avevo
detto di sì. Un dopocena alterato non era previsto, ma le ho detto di sì. Aveva nel borsellino indiano uno di quei quadratini di carta assorbente: l’ha tagliato in diagonale e ce ne
siamo mangiati mezzo a testa. Poi ha voluto venire qua a vedere chi c’è, e ad aspettare qui
che l’acido ci salisse.
Adesso la vedo, è là nella saletta dove una volta c’era il biliardo, in braccio a un
tossico di buona famiglia che le accarezza la testa come fosse il suo cane mentre parla con
altri stronzi della sua risma. Alice piace molto a quel tipo di gente. È ancora una ragazzina, di quelle che non vedono l’ora di buttarsi nella prima stronzata trasgressiva che le
proponga un bell’esemplare di maschietto alfa maledetto con le vene sforacchiate. La lira
in tasca non le manca, e questo la rende perfetta per finire dritta in pasto ai lupi.
Quando ho preso la mia metà del trip non ho pensato nemmeno per un minuto
di poter condividere con Alice anche la serata, la conosco troppo bene. Così intercetto il
suo sguardo giusto per farle segno che sto per andarmene, anche se non so ancora dove.
Invece lei si alza e mi raggiunge, seguita dagli occhi dello stronzo che da lei passano a me,
per guardarmi da sopra un sorrisetto che mi piacerebbe potergli spegnere a schiaffi.
«Cazzo, ma a te è salito?» mi chiede. Ecco perché s’è presa la briga d’alzarsi.
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«Comincia adesso.»
«A me non sta facendo un cazzo, è un pacco!» Come se fosse colpa mia.
«Abbi fede… comunque adesso io vado. Tu rimani?»
Non so nemmeno perché glielo domando.
«Sì, c’è della gente.»
«Ci vediamo.»
«Ciao.»
«Ciao.»
Finalmente esco da quella betoniera per l’impasto umano che è il Magenta, togliendomi di dosso un’oppressione fisica che cominciava a farsi insopportabile. Anche le
orecchie ringraziano. Respiro l’umido che sa di asfalto bagnato. Pioviggina, sembrerebbe.
Forse però a me soltanto, visto che fuori c’è gente che parla, beve e sghignazza come se
niente fosse. L’acido sta salendo sì, lo sento nella schiena che comincia innervosirsi. Tutti
tagliati con le anfe, dicono gli esperti. Non appena sono uscito m’è sembrato che tutti, ma
proprio tutti, questi qui fuori abbiano smesso di parlare e si siano girati a guardarmi pensando guarda questo com’è fatto. So che non è vero, per questo so che l’acido sta salendo. E
casomai mi fosse servita una conferma, ecco che reagisco al clang improvviso dello scambio al passaggio del 19 con esagerato spavento, neanche fosse esploso un petardo. Adesso
sì che qualcuno s’è davvero girato a guardarmi, come fossi un cretino. Ma io stavo già
osservando il tram passare sferragliando, imponente, colorato, luminoso, che prima di
scomparire in via Carducci disegnava una breve scia arancione.
Ora pioviggina davvero, stanno rientrando tutti. È uno spruzzare fine fine che non
sembra nemmeno venire dall’alto, uno schermo ideale per riflettere le luci della strada,
delle macchine che attraversano l’incrocio lasciando il segno del loro passaggio come proiettili traccianti.
E dove cazzo vado, adesso? Non è certo il primo acido che viene a casa con me, e
probabilmente non sarà nemmeno l’ultimo.
Ne era già passato di tempo, dal mio primo incontro con l’LSD (dietilamide dell’acido lisergico). Come altre scoperte nel campo delle droghe, anche quella la dovevo a
Rudi. Di lui mi sono sempre fidato, che si trattasse di scegliere il posto dove piantare la
tenda ai tempi degli scout o di giudicare un tocchetto di fumo da comprare. Il suo modo
tranquillo, shanti, di affrontare le cose me le faceva apparire semplici e possibili. Come
bere una tazza di tè in cui sia stato sciolto un acido.
Capitò in una sera di dicembre, durante le vacanze di Natale. Lui aveva questi ottimi
trip già collaudati, io avevo la casa libera perché mia madre se n’era andata a passare il suo
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primo capodanno da vedova giustamente via da Milano, a casa di un‘amica. Perfetto.
Arrivò a casa mia in compagnia di altri due tizi mai visti. Un tizio e una tizia, per
l’esattezza. Rita e Mario, detto giustamente Marietto a causa della suo minimo peso e ingombro. Sembravano simpatici.
Spariamo qualche cazzata per prenderci le misure, e le misure tornano,
poi il tè che Rudi mi ha chiesto di preparare è pronto. Lui ci mette quel che ci deve mettere e mescola ben bene. Rudi ha già collaudato, conosce la potenza e quindi la dose. Fatta
la divisione, ognuno beve la sua tazza di tè migliorato, come lo chiamerebbe Alex DeLarge. Quell’acqua calda rossiccia e zuccherata, bevuta di notte in cucina, stavolta non l’ha
preparata la mamma per sistemarti lo stomaco dopo che hai vomitato, ma è soltanto il
tiepido veicolo di un sentire che ancora non conosco e che aspetto curioso. Chi ci vedesse
potrebbe pensare a quanto sono bravi questi quattro giovani che in una casa senza genitori
bevono tè seduti intorno a un tavolo invece di ubriacarsi e far casino.
La pioggerellina mi punge gli occhi e la faccia, mentre mi faccio portare dalla vespa
sul pavé viscido di via Vincenzo Monti. Anche se li tengo stretti come due fessure i riflessi
delle luci sulla strada lucida d’acqua sono esageratamente luminosi, come le strade di notte
nei film americani anche quando non piove. L’importante è tenere la rotta in mezzo ai
binari del tram senza finirci a pattinare sopra. Lucchetto e catena ballano nel portaoggetti
sotto il mio sedere ad ogni pietra sconnessa. Il rumore del motore è sempre uguale, monotono. Non capisco a che velocità sto andando, se sono troppo veloce o troppo lento.
È più probabile la seconda ipotesi, dal momento che la via Monti sembra non voler mai
finire e mi pare che sia passata un’eternità da quando stavo parlando con Alice davanti
al Magenta. Dò gas e la ruota slitta per un attimo sul pavé. Ma il rumore del motore non
cambia minimamente. Milano è un tapis-roulant che sta cominciando a incepparsi sotto
le ruote della mia vespa.
Chissà che ore sono. Bisognerebbe guardare un orologio, a volerlo davvero sapere.
Ma non è detto che un orologio sia sempre affidabile. È molto più probabile che il tempo
si sia preso una pausa, fermandosi completamente tra le quattro pareti della mia camera.
Siamo seduti in circolo, Rudi, Rita, Mario e io. Stiamo molto bene, insieme. Così
bene che basta uno sguardo per capirsi, e un sorriso complice per rendere inutile la fine
di un complicato discorso. Rita e Mario li ho conosciuti soltanto stasera, e mi chiedo chi
li abbia tenuti lontani da me fino ad ora, chi diavolo abbia potuto nascondermi per tutti
questi anni un fratello e una sorella.
…Said the straight man to the late man: where have you been? I’ve been here and I’ve been
there and I’ve been in between…
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Siamo seduti in circolo sulla moquette marrone, illuminati da una luce soffusa che
non violenta le nostre pupille da gatto, ma le lascia libere di giocare con quel che abbiamo
intorno. Sul piatto girano musiche tranquille come noi a un volume insolitamente basso.
Nessuno sente il bisogno di alzarlo: c’è il rischio che possa incrinare la bolla in cui parliamo a bassa voce o tocchiamo appena le corde della chitarra cercando di seguire la musica.
Rudi di tanto in tanto rolla canne sottili, la sete si spegne con il tè, la fame non esiste. La
sensazione di aver finalmente capito il senso di tutto quanto è dolcissima e impressionante. Rido, e i miei fratelli ridono con me.
Finalmente la vespa ha raggiunto l’ultimo pezzo di via Monti, e finalmente il pavé
ha lasciato posto all’asfalto. Ma quanto tempo c’è voluto. La pioggia gelida mi ha anestetizzato la faccia con migliaia di piccoli aghi e il rumore monotono del motore sembra essere diventato il rumore del mondo. Comincio a temere che non possa più smettere senza
che tutto abbia fine. E invece dovrà farlo per forza, sono stufo di guidare da ore travestite
da minuti sul dorso viscido di questo nastro. Un’auto mi sorpassa a una velocità che i miei
sensi non concepiscono, e di lei restano soltanto le scie rosse delle luci posteriori, fissate
sulla mia pellicola come nelle foto delle metropoli di notte. Forse è così che si fa, forse
bisogna soltanto andare molto più veloci del nastro. Accelero e sembra che funzioni, ma
dopo aver svoltato in via Nievo il nastro torna a impormi la sua velocità, ovvero la sua
insopportabile lentezza. La pioggia è diventata più fitta e punge come se fosse anche più
appuntita. Ma ormai ci sono. Quasi.
Dalla finestra della mia camera comincia a entrare un po’ di luce. La notte sta
finendo, e il giorno ci trova più o meno nelle stesse condizioni di svariate ore prima, da
ogni punto di vista. Certo, adesso gli occhi bruciano un po’ e lo stomaco sta lentamente
tornando alla sua vita, ma siamo ancora quelli capaci di trovare e guardare uno spettacolo
anche sopra una parete bianca, magari meno pirotecnico di qualche ora prima, ma pur
sempre uno spettacolo. Osserviamo da dietro i vetri della finestra una livida alba invernale
svegliare la piazza e cominciare a muovere il suo quotidiano. È un pianeta che potrebbe
rivelarsi ostile, ma vogliamo esplorarlo. Decidiamo di lasciare la bolla della mia stanza e
di uscire là fuori.
Fa un freddo che non ci aspettavamo, quello bello umido, milanese, ch’el te entra in
di oss. Mario si avvolge nella sua sciarpona a righe colorate, lanciandosela intorno al collo.
Guardo la scia arcobaleno che disegna nel suo girare rallentato e vorrei chiedergli di farlo
ancora. L’acido ci sta scendendo, ma è ancora abbastanza in alto.
Camminiamo senza una meta precisa, cercando di ricomporre la nostra bolla. Ma
fuori è molto più difficile, la gente ci guarda male, le vecchie guardano male Mario e Rita
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che camminano abbracciati e di tanto in tanto si fermano per lasciarsi andare a profondissimi baci. Sembriamo animali usciti dal bosco per curiosare tra gli uomini. Affascinati da
quel che si muove intorno a noi, ogni tanto sobbalziamo per un rumore improvviso o per
qualcosa di inaspettato. Il mondo fuori dalla tana è pieno di insidie. Per fortuna che c’è
Rudi, che non si lascia impressionare facilmente. Sembra che nulla possa togliergli dalla
faccia quel sorrisetto divertito dalle buffe vicende del mondo e dei suoi bizzarri abitanti.
Per il mio primo viaggio non potevo trovare una guida migliore.
Vediamo un bar aperto, e la visione suggerisce il desiderio di un cappuccino caldo
e rassicurante. Entriamo, mentre il barista sta ancora sistemando sedie e tavolini. Mario si
blocca, evidentemente perplesso, e gli chiede gentilmente:
«Scusi, ma questo bar sta aprendo o chiudendo?»
L’ultima curva. Pareva impossibile ma l’ho raggiunta. Girato quell’angolo vedrò finalmente l’insegna del garage di via Filelfo. Sclak, scalo la marcia, imbocco la via e la vedo
brillare più avanti nello schermo di acqua nebulizzata. Sclak, salgo di marcia e mi avvicino
ancora fino a che…sclak , eccomi tornato indietro, di nuovo a scalare marcia all’imbocco
della curva in un inconcepibile rewind. Non è possibile, ecco il garage là avanti, basta dare
gas e… sclak, qualcosa mi riporta di scatto al punto di partenza, nel momento in cui rallento per curvare. Cazzo, non va bene, non va per un cazzo bene!
Faccio la curva un’altra volta, quindi un’altra volta sono qui, prigioniero di un déjà
vu di qualche minuto e un’altra volta dò gas a manetta con la mano gelata dalla pioggia
e ‘sta cazzo di vespa si muove, perché è doveroso che si muova, e va avanti fino a dove era
già arrivata, fino al punto in cui… sclak, viene riportata dov’era. Cazzocazzocazzo, questo
è un incubo, questa è la famosa paranoia, che alla fine è riuscita a beccarmi. Ho perso il
controllo, e non mi era mai successo. Mai, nemmeno quando, dopo il dolcissimo battesimo di quella notte, di ottimi trip del tipo collaudato da Rudi me ne feci una scorta, e
cominciai a prendere l’abitudine di goderne disinvoltamente insieme a Daniele. Non persi
il controllo quando con lui decisi di salire sulla cima della Montagnetta di San Siro per la
via più breve, ovvero per la diretta tangente, lanciando la vespa su una pendenza che tuttora non capisco come abbia potuto vincere. Ci arrivammo in impennata con i piedi per
terra, io aggrappato al manubrio e Daniele aggrappato a me ma ci arrivammo. Per fumare
una sigaretta guardando le luci di Milano accendersi al tramonto, perché quella era l’idea.
Non lo persi neanche la volta in cui, nella penombra della mia stanza, mi si gelò il
sangue nel vedere una diceria prendere forma davanti ai miei occhi: con certi acidi ti vedi lo
scheletro della mano e vai subito in paranoia. Cazzo, è vero. Improvvisamente vedevo comparire sulle mie mani un abbozzo d’intelaiatura, più che uno scheletro sembrava l’anima in fil
di ferro di un pupazzo di panno lenci. Ma continuai continuare a contare su quella parte
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di cervello ancora consapevole di essere a mezzo servizio, chiedendole tutta la razionalità
di cui poteva disporre per arrivare a capire che altro non era che il diaframma dei miei occhi, bloccato sulla sua massima apertura, ad amplificare le minime ombre delle vene e dei
tendini della mano create dalla luce radente e a trasformarle in uno scheletro con l’aiuto
della mia stessa paura di vederlo. Capito il trucco, passai un tempo indefinito a giocare
con lo scheletro della mia mano, così come un’altra volta giocai, sdraiato sul letto, con
i passi pesanti dei vicini di sopra, che affondavano nel mio soffitto gommoso lasciando
orme ovunque. Sempre sapendo che la realtà doveva per forza essere un’altra.
Ma stavolta ho perso il controllo. Stavolta è diverso, non so a cosa aggrapparmi
mentre mi trovo ancora una volta a rifare quello che ho già fatto: la curva, vedere il garage,
cambiare marcia e dare gas, ormai in attesa di essere rispedito indietro. E se mi fermassi
prima del punto di ritorno? Cosa succederebbe?
Fatta la curva, mi fermo dopo una decina di metri. Salgo sul marciapiede e tiro la
vespa sul cavalletto. Qui ci sono arrivato, cazzo. La curva è là dietro, l’ho passata. Il garage
è sempre là avanti, a un centinaio di metri, dietro la nuvola di pioggia nebulizzata, e non
si muove. Il punto chiuso sta più o meno nel mezzo. Adesso ci vado a piedi, voglio vedere
che cazzo mi succede. Raggiungerlo è una fatica immane, eppure i miei piedi si muovono
velocemente. Il nastro scorre lentissimo sotto di loro, ma almeno non mi ributta indietro.
Forse posso farcela. Torno alla vespa, risalgo, l’accendo e parto piano, cercando di pensare
che i miei piedi andavano più lenti ancora. Chi va piano va sano e va lontano. Sta a vedere
che è stato scritto da qualcuno in acido. Vado piano ma vado avanti.
Quando infine raggiungo la rampa del garage bacerei il custode notturno che legge
la gazzetta nel suo gabbiotto. Lasciare la vespa è come togliermi il peso di averla in spalla.
Ma non è certo finita. Ora dovrò mettere un piede davanti all’altro fino a casa, e
la casa non è vicina. Penso a quanto sia assurdo usare ancora quel garage, mentre esco di
nuovo in strada a inzupparmi ancora di microscopiche gocce. Lasciare la vespa fuori la
notte e non trovarla più al mattino sarebbe stato quasi automatico, soprattutto quand’era
nuova. Garage vicini a casa non ce n’erano, così decisi di scegliere lo stesso in cui Elisa
metteva il suo motorino. Vicino a casa sua, vicino a lei. Di quella decina di minuti di buon
passo che lo separava da casa mia non me ne importava niente, allora. Più tardi, dopo che
Elisa mi lasciò, tenere la vespa in quel garage mi dava la preziosa possibilità di incontrarla
per caso. Così gli rimasi fedele, come a lei, malgrado la distanza cominciasse a pesarmi.
Una distanza che stasera si moltiplica all’infinito, lungo un percorso scandito da
trabocchetti temporali, elastici di dejà vu, allontanamenti repentini delle cose seguiti dalla
sensazione desolante di aver già fatto quegli stessi metri, di aver già atteso il verde a quel
semaforo, di averlo già attraversato dopo che quella stessa macchina mi sfrecciava davanti
con le gomme che battevano rullando il pavé e i binari incrociandoli in velocità.
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Stringo i denti e mi dò obiettivi vicini e possibili. Un palo, una vetrina, una cabina
del telefono, un’auto parcheggiata. Quando li raggiungo li tocco per farli miei, per segnare
una tappa delle innumerevoli che dovranno scandire l’intero percorso. Cerco di non dare
retta alla parte di me che mi dice che quel palo l’ho già toccato prima e vado avanti, puntando all’obiettivo seguente. Come un pollicino stravolto mi affido alle briciole di realtà
che trovo sulla strada di casa. E alla fine la raggiungo.
Mia madre dorme, per fortuna. Entro in camera mia e mi butto sul letto. Per la
prima volta ho tempo e modo di pensare ad Alice e al suo mezzo trip che non le saliva.
Succede, facendo a metà le carte assorbenti su cui la goccia non è caduta nel mezzo. A chi
troppo, a chi niente. Magari anche questo è stato scritto da uno in acido.
Ovviamente, di dormire non se ne parla. Mi metto le cuffie senza aver nemmeno
la forza di cambiare il disco sul piatto. Accendo il giradischi e una sigaretta e subito scivolo nelle braccia dei King Crimson, che con il primo pezzo mi cullano, con il secondo
mi scuotono e con il terzo mi fanno prigioniero. Quel pezzo non mi piace, quasi sempre
lo salto perché mi mette angoscia. Figuriamoci ora. Eppure non riesco a fuggirgli, non
riesco nemmeno ad abbassare il volume micidiale che ho nelle orecchie. Forse non è un
caso, che si chiami The Devil’s Triangle. È un pezzo ipnotico, interminabile, che cresce
ossessivamente su se stesso, sono archi di mellotron che si trascinano in minore sul rullare
continuo di un tamburo da guerra, è ansia pura, sempre più forte, che improvvisamente
viene risucchiata nel silenzio per un attimo, giusto un attimo, prima di esplodere in un
pieno. È paranoia.
Mi strappo le cuffie dalla testa e le lancio sul pavimento, come se finalmente fossi
riuscito a liberarmi di una bestia che mi stava mordendo le orecchie. Seduto sul letto, nel
silenzio improvviso, sento il mio cuore battere a un ritmo pericoloso, lo stesso del mio respiro. Resto così per un po’, immobile, poi spengo il giradischi. Ho una sola cosa da fare,
adesso. Aspettare di uscire da questo brutto trip. Per non entrarci mai più.
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Venticinque
La spiaggia fiancheggia il mare, la strada la spiaggia, la ferrovia la strada
La spiaggia fiancheggia il mare, la strada la spiaggia, la ferrovia la strada. Oltre la
massicciata un muro umido di roccia e rampicanti passa veloce dietro i finestrini. Lo
scompartimento è dalla parte giusta, a sinistra, così io posso guardare questo mare bastardo, non più estivo e non ancora invernale. Il mare di mezza stagione, occupato dai
vecchi a mezza pensione. Sulla spiaggia solo cabine biancoazzurre e nessun un segno di
vita, come in un quadro di De Chirico o nelle tavole dei rebus. Bagni Nettuno, Stella Maris,
Oscar, Miramare, Tigullio. Quello che c’era da chiudere è stato chiuso, quello che c’era da
sgonfiare è stato sgonfiato, quello che c’era da mettere al riparo adesso sta chiuso da qualche parte dietro un lucchetto insieme al divertimento, nell’odore di pesce marcio, gomma
e nafta.
Mare a sinistra, terra a destra, il finestrino mi propone sempre lo stesso paesaggio.
Solo il succedersi dei cartelli testimonia il movimento del treno: Noli, Varigotti, Finale,
Borgio Verezzi…
L’ultimo cartello diceva Loano, ma l’ultima galleria era identica a tutte le altre e anche questo rettilineo che corre accanto alla strada è uguale ai precedenti. Quello che invece
segna d’un tratto una differenza, una rottura nel pigro ripetersi dei minuti, è l’improvviso
frenare del treno fuori da una qualunque stazione.
Lo stridore delle ruote accompagna anche l’ultimo centimetro di corsa. Il mare si è
fermato, la strada si è fermata, il treno si è fermato senza un motivo apparente e nell’improvviso silenzio ci si chiede come mai. Qualcosa cattura la mia attenzione nel fotogramma incorniciato dal finestrino: sul bordo della strada c’è un furgone fermo, con la portiera
aperta. Accanto al furgone, un uomo in canottiera si sbraccia, cammina veloce avanti e
indietro, guarda sotto la nostra carrozza, si mette le mani nei capelli, grida parole che non
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afferro. Altre macchine accostano, altre persone scendono, guardano, e una volta scoperto
verso cosa l’uomo punta l’indice, le loro facce assumono la sua stessa espressione di orrore.
Prima di aver abbassato il finestrino dando volume al loro vociare, abbiamo tutti capito
che qualcuno è finito sotto il treno. Più precisamente proprio sotto lo scompartimento
in cui mi trovo, diventato improvvisamente un palco reale sopra una scena nascosta, al
centro di tutte le attenzioni.
Qualcuno si alza e va a vedere. Ci va anche il prete dalla faccia molle che si è svegliato quando il treno ha smesso di cullarlo, chissà se spinto dal suo ruolo mistico o dalla
sua umana curiosità. Torna poco dopo, buttando lì un - pover’uomo - di circostanza. Ora
tutte le voci del treno masticano un solo argomento, e ognuna lo rigurgita come preferisce.
C’è chi non smette di fare domande, chi ha una risposta per tutto, chi ha già visto una
cosa del genere, chi prova gusto a descrivere con dovizia di orrendi dettagli quel che c’è
sotto la nostra carrozza, non più un chi ma solamente un cosa che, con tutto il rispetto,
impedisce al treno di ripartire e a noi di arrivare dove dovremmo.
Piano piano, con tutto il rispetto, nei discorsi il morto in quanto tale si allontana
per far posto alla sua incidenza sugli impegni dei vivi. Ecco allora le previsioni sul tempo
che dovremo passare qui, quelle pessimiste e quelle no, ecco gli ho sentito dire dal capotreno, dai carabinieri, dai vigili del fuoco, da non si sa chi, rimbalzare da uno scompartimento all’altro contraddicendosi vicendevolmente.
Con tutto il rispetto, la vita continua. Con tutte le sue grandi miserie e tutte le sue
misere grandezze. Continua anche per me e per quelli che come me hanno un appuntamento con un camion grigioverde che non ammette ritardi davanti alla stazione di Diano
Marina.
C’era una volta il servizio militare, che della favola non aveva un bel niente. C’era
una volta un momento nella vita di ogni ragazzo pronto per essere promosso uomo che
segnava una tappa fondamentale nella sua esistenza programmata. Si chiamava leva, ed
era una sorta d’iniziazione guerriera a cui ogni maschio degno di questo nome, quindi
abile, era tenuto a sottostare fieramente. Non esiste più da anni, ed è una fortuna che i
ragazzi d’oggi possono apprezzare soltanto in minima parte, la sola consentita a chi non
proverà mai sulla sua pelle quel che ha scampato. Ai miei tempi, invece, si era costretti a
regalare dodici mesi della propria vita all’Esercito Italiano, che diventavano diciotto nello
sfortunato caso in cui a volerti fosse stata la Marina Militare. Le generazioni precedenti la
mia avevano pagato un prezzo ancora più salato: quindici mesi al primo e la bellezza di
ventiquattro alla seconda.
Per uno di sana e robusta costituzione tutto ciò era inevitabile, a meno che non avesse
la possibilità di corrompere la persona giusta, millantare malattie importanti o attivare
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una qualsiasi gabola in grado di far sì che il militare si dimenticasse di te il più presto
possibile. Fantomatici colonnelli compiacenti, marescialli col timbro giusto nel cassetto,
ufficiali medici dalla diagnosi incontestabile erano le divinità più ricorrenti di un olimpo
dal potere assoluto, a cui molti genitori benestanti dotati di un senso patrio più modesto
del senso pratico offrivano robusti sacrifici in denaro. Ma quando il proprio destino è
nelle mani di dèi capricciosi e imprevedibili, nulla va dato per certo. Così, per qualcuno
che in cambio dei suoi sacrifici riceveva da loro la grazia piena senza uscire per un solo
giorno dalla sua solita vita, altri cominciavano un percorso a tappe obbligate attraverso i
gironi dell’ospedale militare, una via crucis che avrebbe dovuto concludersi felicemente
nel giro di un paio di mesi al massimo con la conquista di un congedo illimitato assoluto,
ma che talvolta, per imperscrutabili complicazioni burocratiche o per semplice sfortuna,
si trasformava in un incubo kafkiano capace anche di durare quanto l’intera leva.
Chi invece non aveva i mezzi o i giusti agganci all’interno dell’olimpo doveva rassegnarsi a un fato che, presto o tardi, gli avrebbe recapitato la famigerata cartolina rosa con
cui le Forze Armate gli davano un improrogabile appuntamento, il giorno tale nel luogo
tale.
Come avrai già capito, tuo padre apparteneva a questa maggioranza di giovani idonei più o meno serenamente rassegnati al loro destino.
Lo sapevamo da quando eravamo bambini, che un giorno sarebbe toccata anche
a noi. La prima volta in cui vidi passare per le strade di Omegna gruppetti di ragazzi
alticci e festanti con il fazzoletto tricolore intorno al collo mi spiegarono che si trattava
di coscritti, cioè di quelli che sarebbero andati a soldato. A loro si dovevano le sole scritte a
vernice che potevi vedere a quei tempi sui muri dei paesi e che recitavano W LA CLASSE
1943…44…45…, in un continuo aggiornare a colpi di pennello l’annata dei diciottenni del
momento, che era sempre DI FERRO. La gente li guardava con benevolenza, anche quando fischiavano dietro le ragazze, e davano l’impressione che andare a militare fosse una
cosa molto divertente.
Dopo il tuo diciottesimo compleanno le FF.AA. cominciavano a interessarsi a te.
Come fa la strega di certe favole, che torna a prendersi la giovinetta incoscientemente promessale da neonata, il Ministero della Difesa si palesava per rivendicare i suoi diritti su di
te. E per cominciare a farti capire come stavano le cose, ti pretendeva al distretto militare
dal mattino alla sera per i famosi tre giorni, dedicati a visitarti e esaminarti con molto comodo ma soprattutto a darti un assaggio significativo di una delle attività principali del
soldato italiano: aspettare qualcosa in fila. Curiosamente, la fila era interamente composta
da tizi che avevano esattamente la tua stessa età, al massimo un paio di giorni in più o in
meno di te. Dopo i tre giorni, a meno che tu non fossi proprio uno scarto di produzione o
non riuscissi a farle credere di esserlo, la strega ti aveva in pugno. Essendo però abituata ad
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aspettare, ti concedeva la possibilità di rinviare il momento di trasferirti a casa sua, sempre
che ne avessi ottimi e soprattutto dimostrabili motivi, generalmente di studio.
Purtroppo, anche nei confronti dello studio, le FF.AA. erano di gusti molto tradizionali: quello stesso IED che oggi compare regolarmente negli speranzosi curriculum di
tanti aspiranti comunicatori non era ancora stato riconosciuto da chi di dovere, quindi
non ancora considerato meritevole della concessione del rinvio. Non tanto per un giudizio di merito quanto per onorare il tradizionale ritardo che le istituzioni di questo paese
amano mantenere nei confronti della vita vera. Così, per poter ottenere i rinvii che mi
consentissero di concludere la mia avventura triennale all’Istituto Europeo di Design, mi era
toccato dimostrare studi più seri, iscrivendomi ad Architettura prima e all’Accademia poi.
Una volta in possesso del mio inutile diploma in Art Direction, avevo avvisato le FF.AA. di
essere pronto a consegnarmi a loro e a entrare nell’interminabile lista di coloro che aspettavano la famigerata cartolina precetto.
Quando finalmente arrivò fui quasi contento, tanto ero stufo di aspettarla e di non
sapere dove mi avrebbero mandato per il CAR (Centro Addestramento Reclute), primo
capitolo di tutta la faccenda. E quando lessi che mi sarei dovuto presentare entro e non oltre le ore 24 del giorno 11 ottobre 1977 presso la caserma B.Camandone a Diano Castello
(Imperia) mi sentii quasi fortunato. Niente profondo nord-est né profondo sud: Liguria,
posto di mare e vacanze. Cosa volevo di più, dalla vita?
Alla stazione di Diano Marina ci arrivo con uno dei pullman che si erano materializzati accanto alla ferrovia per raccogliere i viaggiatori del treno ancora immobile sopra i
resti dell’uomo. Ne avevano approfittato quelli non troppo lontani dalla loro destinazione
e quelli che, come me, erano attesi da gente poco comprensiva. Ero sceso dal treno passando attraverso i curiosi, gli utili e gli inutili, e una volta seduto sul pullman avevo visto dal
finestrino il controcampo dell’inquadratura precedente. Prima che le porte si chiudessero
e tutto ricominciasse a muoversi, non ero riuscito ad evitare di buttare uno sguardo sotto
la carrozza, quel tanto che bastava per imprimermi indelebilmente nella testa l’immagine
di un fagotto di carne e sangue strizzato in quel che restava di una camicia bianca. La mia
carrozza era più o meno a metà del treno, e più o meno mezzo treno gli era passato sopra.
Scendo dal pullman e salgo con gli altri sul cassone del camion. Gli autisti (anzi, gli autieri) ci guardano con annoiata commiserazione: vivono in quel mondo a sé in cui stiamo
per entrare, ma di cui ancora non facciamo parte. In questo momento, noi del 10° scaglione 1977 siamo solo le nuove larve dell’ultima covata deposta da un’infaticabile bestiaccia
chiamata naja.
Il camion parte, lascia la stazione e si dirige verso l’interno. Nel giro di pochi minuti arriviamo alla caserma, che non differisce da una qualunque altra caserma italiana se
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non per le due grandi palme a guardia all’ingresso, un tocco esotico concesso al trovarsi
pur sempre in riviera. Una volta dentro, andiamo ad aggiungerci a una massa informe di
altri come noi, radunati come profughi, seduti per terra nel cortile di uno dei tanti blocchi
a ferro di cavallo che circondano il grande piazzale, in attesa di sbrigare le prime faccende
burocratiche di una lunga serie. Poi, come profughi, abbondantemente sfamati in mensa
a mestolate di pasta scotta e suole di scarpa alla pizzaiola e pane e frutta e se vuoi pure
formaggio a colmare ogni scomparto del vassoio d’acciaio. Ci viene assegnata una branda
con relativo armadietto e brevemente spiegato come va fatto il cubo, uno dei fondamentali
della vita in caserma. Viene chiamato così il modo di riordinare la propria branda quando
non è in uso, piegando a metà il materasso e impacchettandolo rigidamente nella coperta
d’ordinanza insieme alle lenzuola piegate, che dovranno sporgere dalla coperta di due
dita all’incirca per la larghezza del materasso. Impariamo che in caserma non esistono
letti fatti o disfatti: le brande o sono occupate da qualcuno autorizzato a dormirci o sono
occupate dal cubo. Dopo aver preso possesso di branda e armadietto godiamo persino della nostra prima libera uscita. Dal portone cominciano a uscire gruppetti apparentemente
già affiatati, ancora senza divisa ma già calati nella parte assegnata. Ridono, scherzano, si
spingono, berciano di figa, insomma fanno già i soldati in libera uscita come se non avessero mai fatto altro. Il loro servizio militare è incominciato da poche ore e già ne hanno
assunto il lessico, dandosi a vicenda della spina. Probabilmente è così che converrebbe fare,
penso guardandoli dal marciapiede opposto, diretto come loro verso il mare alla ricerca di
non si sa bene cosa, da solo.
Che tuo padre non sia portato a mischiarsi facilmente con il prossimo lo avrai capito da tempo. Volente o nolente, per me le cose andavano così anche allora. Anche quando
ero un giovane lupo, ero un lupo solitario, sempre un po’ discosto dal branco e dalle sue
gerarchie. Chi però mi avesse visto quella sera bighellonare senza meta sul lungomare più
che a un lupo avrebbe pensato a un cane randagio alla ricerca di un odore familiare che
non trova. Così s’accuccia guardando il mare e annusando l’unica cosa che c’è d’annusare:
il mare.
Io e il mare ci conoscemmo nella remota estate del 1958. E quella fu, con ogni probabilità, la prima e l’ultima volta in cui ci siamo frequentati in tutta serenità. Sulla spiaggia di Jesolo, forte dei miei due anni e quattro mesi di vita, con il costume tirato sopra la
pancetta da putto, perennemente impanato con sabbia umida, mi godevo tutto quel che
c’era da godere, avventurandomi spesso e volentieri lontano dall’ombrellone di famiglia.
Scattate le ricerche, venivo puntualmente ritrovato a cavalcioni della pancia arrostita di
qualche turista tedesco nel bel mezzo di un’animata conversazione bilingue, oppure al
bar dei bagni davanti al frigorifero dei gelati, mentre cercavo, con una disinvoltura che
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non mi sarebbe mai più appartenuta, di ottenere gratuitamente un ghiacciolo arcobaleno
o un mottarello. A quella vacanza al mare, in cui le mie sole possibili preoccupazioni consistevano nel non mettere il piede sopra una medusa arenata sulla battigia e nel restare
attaccato come un koala alla mamma quando mi pucciava nell’acqua, ne seguirono altre
simili, finché non cominciò il tempo delle estati in montagna, in cui m’innamorai per
sempre di quello che su una spiaggia non avrei mai trovato, forse perché la montagna in
questione non era una montagna qualsiasi. Era la Val Gardena, che mi entrò nel sangue
al primo incontro con tutti i suoi odori, colori e sapori e lì ci rimase per sempre. L’amore
incondizionato per quei luoghi resta probabilmente l’unico sentimento che nella mia vita
sono riuscito a condividere pienamente con mio padre, il solo capace di farci sentire complici. Il mare divenne presto un estraneo, come succede a un parente che scompaia dalla
piccola vita di un bambino dopo pochi anni dalla sua nascita, un ricordo affidato soltanto
alle cartoline di amici e parenti che puntualmente ogni estate arrivavano a casa portando
i Saluti da spiagge piene d’ombrelloni colorati e bagnate da un’acqua incredibilmente blu.
Piero Focaccia cantava “per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare…” ma io stavo
benissimo in montagna.
A trasformare il semplice estraneo in un estraneo odioso ci riuscirono involontariamente i miei l’estate in cui, prima della vera vacanza a Ortisei, con l’amorevole intento
di risparmiare a me e a mia sorella la calura milanese di luglio, ci mandarono per qualche
settimana nella casa estiva dell’Istituto San Celso a Igea Marina, una versione più agiata e
confortevole della famigerata colonia. Mentre tua zia, già ragazzina, se la cavò egregiamente
riuscendo persino a divertirsi, tuo padre, felice di essere strappato da casa (e dalla mamma)
come può esserlo un gatto di nove anni, piombò immediatamente in una profonda malinconia e cominciò a contare i giorni che lo separavano dal ritorno già dal primo minuto di
permanenza. E non c’è come contarli perché non passino mai.
Ho buone ragioni per credere che quel nuovo incontro ravvicinato con il mare, attraverso i ritmi, le regole e le compagnie che mi venivano imposte, guastò in modo pressoché irrimediabile il mio rapporto con lui. Da quel momento in poi, con modalità diverse a
seconda dell’età, al mare io cominciai a sentirmi un estraneo, tagliato regolarmente fuori
da tutta quell’esibita abbondanza di divertimento, attrazioni e tentazioni d’ogni genere.
Escluso d’ufficio da quella vita leggera in cui gli altri si tuffano con un’invidiabile naturalezza. Sulla cima di una montagna mi guardo intorno con il cuore pieno di pace, seduto
davanti al mare mi sciolgo in un languore bastardo e comincio a vedere tutto ciò che mi
manca mostrarmi il culo da lontano, sulla linea di quell’orizzonte perfettamente piatto.
Tutto cominciò lì, a Igea Marina, nelle interminabili giornate ognuna uguale all’altra che cominciavano davanti a una tazza di tè con troppo limone in cui gli Oswego si
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scioglievano in pappa alla prima immersione e poi si trascinavano con insopportabile
lentezza nella piccola e disadorna fetta di spiaggia dell’istituto e nell’adiacente campetto
da basket di cemento bollente invaso dalla sabbia.
A te, bambina degli anni duemila a cui i tempi non consentono di conoscere la
noia, sembrerà impensabile che nessuno si prendesse la briga di animare le nostre giornate
con i giochi collettivi, con i laboratori creativi, con le attività ludico-educative, con i corsi propedeutici ai più disparati sport di cui le tue sembrano non poter assolutamente fare a meno.
Noi, bambini degli anni sessanta, sulla spiaggia di Igea Marina, eravamo semplicemente
controllati, sempre trattenuti e mai intrattenuti. Ci rosolavamo le schiene al sole consumando il tempo con le piste per le biglie e i vulcani di sabbia, qualche calcio al pallone e
qualche tiro di bocce. Nella perenne attesa di un bagno in mare che non arrivava mai. Per
fare il bagno occorreva aver digerito, e per digerire occorrevano almeno tre ore, anche per
una tazza di tè con pappa di Oswego. Era il momento più atteso della giornata, quello che
dava finalmente un senso a tutta quell’acqua verdastra che ci stava davanti da mane a sera,
tentatrice come gli spiedini di uva caramellata e il cocco fresco cocco bello che vendevano gli
ambulanti. Ma era un momento che durava niente.
Il moscone del bagnino era il confine invalicabile del nostro fazzoletto di mare: lui
lo difendeva a una dozzina di metri dalla battigia remando in piedi e minacciando colpi
di remo a chiunque avesse solo provato ad avvicinarsi troppo. Sui lati, invece, facevano la
guardia le signorine, che puntualmente rabbrividivano per l’acqua fredda in cui s’immergevano fino alla vita e non di più. In mezzo c’eravamo noi, a sguazzare tra gli schizzi come
tonni nella rete, concentrando in quella misera mezz’oretta da bagnanti che ci veniva concessa tutto quello che da bagnanti avremmo voluto fare per la giornata intera. Le capriole,
i combattimenti a cavallo, i tuffi sott’acqua per passare tra le gambe aperte del compagno,
le gare di resistenza con la testa sotto e i proibiti lanci di manate di sabbia fangosa dragata
dal fondo. Chi aveva la maschera s’immergeva in quel metro scarso d’acqua torbida sperando di vedere una conchiglia da raccogliere, di catturare un pesce o addirittura un cavalluccio marino come quelli mummificati che vendevano i negozi di souvenir sul lungomare. Finché il bagnino non fischiava e tutto finiva. Allora uscivamo dall’acqua, e del mare
ci restavano soltanto la bocca salata e il bruciore agli occhi. Si tornava alla sabbia asciutta
e bollente, dove i piedi affondano come nel deserto, e di fare il bagno non se ne sarebbe
parlato fino al mattino dopo. Sempre che sulla spiaggia continuasse a pendere mollemente
la bandiera bianca del mare innocuo. Se invece sbatteva nel vento la famigerata bandiera
rossa era già qualcosa potersene stare in spiaggia a guardare i cavalloni rovesciarsi sulla riva,
invidiando i ragazzi liberi e temerari che li sfidavano ridendo. In giornate come quelle le
signorine si stringevano nei loro prendisole e guardavano il cielo sperando che una nuvola
cominciasse a sciogliersi picchiettando di scuro la sabbia e rendendo finalmente obbliga227
toria la ritirata verso l’istituto.
Dopo pranzo, la costrizione più penosa: il riposino. Una sospensione obbligata
dell’esistenza, da consumarsi in assoluto silenzio, sdraiati in penombra sul letto anche
se di dormire non se ne sentiva alcun bisogno, a guardare la luce che preme tra le fessure
delle tapparelle per disegnare righe sbilenche sul soffitto. Durante il riposino il tempo non
scorreva più, come se anche lui si fosse sdraiato sul letto, paralizzato dalla noia. Eppure
fuori la vita continuava, un po’ rallentata ma continuava: passavano le auto, passavano
persone sciabattando, e di tanto in tanto il campanello di un triciclo a noleggio raggiungeva la stanza e le mie orecchie concentrate sul nulla. Il coprifuoco del dopopranzo non
valeva per tutti, e questo lo rendeva, se possibile, ancora più odioso.
Quando finalmente la casa estiva si risvegliava, iniziava il nostro pomeriggio, differente dal mattino soltanto per la posizione del sole sul piatto orizzonte dell’adriatico. La
sera ci trovava cotti dal sole, pronti per la doccia e la cena nel grande salone. In rare occasioni, dopocena ci portavano in una sala giochi poco distante, dove potevamo spendere
poco tempo e qualche moneta sparando all’orso, giocando al basket con i tasti numerati,
al flipper e a tutti gli altri giochi non ancora elettronici in voga allora. Una volta ci portarono persino al cinema all’aperto, a vedere Boeing Boeing con Jerry Lewis.
Ma la norma era andare a letto presto, nell’esatto momento in cui per gli altri cominciava il divertimento. Io, come ogni altro bambino che soffriva di nostalgia, ci andavo
stemperando la malinconia della sera nella consolazione di un altro giorno passato per
sempre. Mi addormentavo mentre nel dancing all’aperto poco lontano il complesso cominciava a suonare. Non so dirti perché, ma quando il cantante attaccava Il mondo di Jimmy
Fontana non riuscivo a fare a meno di cominciare a piangere pensando a casa.
Sul lungomare di Diano Marina, la sera dell’undici ottobre millenovecentosettantasette, non c’è anima viva. Dall’altra parte della strada passano gruppi di reclute in cerca di
una pizzeria a buon mercato. Non so per quanto tempo ancora riuscirò a starmene seduto
su questa panchina a guardare il mare nero, solo per dare un minimo senso alla mia prima
libera uscita. Ho visto poco più in là una cabina del telefono e penso che tra non molto la
userò per chiamare Elena con la manciata di gettoni che mi pesa nella tasca. Ancora una
sigaretta, però. Mentre la fumo vedo arrivare in lontananza
la prima persona sola che ho incontrato da quando sono uscito dalla caserma.
Un tipo basso e magrolino, che passando sotto la luce di un lampione prende le sembianze di quello che avevo di fronte un paio d’ore prima in mensa.
Ci salutiamo con un cenno. Si siede sulla panchina e subito guarda il mare davanti
a sé, come uno che entra al cinema a spettacolo iniziato.
Poi si gira verso di me: «Ti va una canna?»
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«Magari» dico io, così comincia a rollare, alzando di tanto in tanto lo sguardo per
vedere se arriva qualcuno. Ha un sacchetto gonfio d’erba che farebbe gola a molti, me
compreso, da cui attinge generosamente.
Fumiamo in silenzio. L’erba attacca in gola ma ha un buon sapore.
Qualche parola, qualche sorriso complice. Ci raccontiamo poco, come se sapessimo già abbastanza l’uno dell’altro. Lui è di Ferrara, e l’unica cosa di cui è certo è che non
intende farsi dodici mesi in caserma. E nemmeno la metà. Dice che si farà riformare in
qualche modo, perché non è possibile farsi un anno di militare, non esiste proprio. Mentre
parla, l’erba comincia a fare il suo dovere, anche troppo, decisamente troppo. Comincia
a diventare un sogno che non mi piace, trovarmi su una panchina di Diano Marina in
compagnia di un tizio che parla di infermerie e ospedali militari. Nel sogno, comincio
a provare il peso di un’ansia crescente all’idea di dover tornare in quella caserma per la
prima di innumerevoli notti. Vorrei chiamare Elena per parlare un po’, ma non ne sono
capace. Stai andando in para, mi direbbe sogghignando Daniele, se il sogno prevedesse la
sua presenza. Sì, sto proprio andando in para. Ma invece di fuggire dal quello che la scatena, sento il bisogno di andargli incontro, perché so che nessuna fuga mi potrebbe salvare.
Mi alzo di scatto.
«Devo andare in caserma» dico al tizio senza neanche aspettare una sua risposta. E
mi metto a camminare veloce, portato dai piedi, che sanno dove andare molto meglio di
me.
Adesso nel sogno entro in un portone illuminato a giorno, dove un uomo in divisa
con la pistola al fianco e una fascia azzurra di traverso sul petto mi guarda senza vedermi.
Poi cerco tra gli edifici tutti uguali, allineati in un enorme piazzale, quello dove mi sembra
di essere già stato. C’è un corridoio illuminato da un neon morente, il fondo al quale
un ragazzo in tuta mimetica siede a un piccolo banco di scuola. Sta leggendo un fumetto
pornografico, e quando gli passo davanti non alza nemmeno la testa. Oltre il corridoio c’è
uno stanzone in penombra, dove lo spazio è scandito simmetricamente da letti a castello
di ferro e armadietti di ferro. La puzza mi prende alla gola. Trovo quello che penso siano
il mio letto e il mio armadietto e mi spoglio in un silenzio sistematicamente interrotto dal
cigolare delle reti, dai colpi di tosse, dalle scorregge. Nel sogno mi stupisco nello scoprimi
capace di trasformare il cubo in un giaciglio decente senza troppe difficoltà. Riesco persino
a trovare il bagno e fare quello che devo fare in una turca senza porta. Sul muro davanti a
me, leggo una frase scritta ordinatamente:
La naja è come il cesso:
prima o poi tutti ci vanno
prima o poi tutti ci escono
e solo gli stronzi ci rimangono.
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Ventisei
Dalla finestra aperta sul cortile entra volando un borsello
Dalla finestra aperta sul cortile entra volando un borsello. La sua parabola radente
termina sul tavolo di Bettoli spazzando nell’atterraggio una mezza dozzina di pennarelli.
«Ma li mort…» Bettoli si blocca a metà, improvvisamente irrigidito, perché nel vano
della finestra è comparsa una mano guantata di nero, seguita da un braccio e poi da un altro, finché l’intera figura, per la verità abbastanza modesta, del comandante della caserma
Tenente Colonnello Calvisano non termina la sua breve arrampicata al seguito del borsello e dal davanzale spicca un salto atterrando ginnicamente sul pavimento dell’ufficio.
«At…tenti!» ordina il più lesto di noi a riprendersi dalla sorpresa.
Bettoli si porta la mano alla fronte nel saluto, dimenticandosi che senza cappello
in testa non si deve fare, poi se ne ricorda e la riporta sul fianco a una velocità esagerata,
come se volesse nasconderla in tasca.
Ma Calvisano non ci fa caso.
«Riposo, ragazzi, riposo» ci concede senza alzare lo sguardo da quel che c’è sui nostri tavoli da disegno: osserva tutto camminando lentamente come se stesse visitando una
mostra. Poi si ferma, ci guarda, e con voce stentorea proclama:
«Il bello, quand’è bello…è bello! Buon lavoro, ragazzi!» e se ne va rapidamente, questa volta passando dalla porta.
Sono trascorse un paio di settimane, dal mio arrivo alla caserma Camandone in
quel di Diano Castello. E da un paio di settimane, ogni mattina, dopo l’alzabandiera
nel piazzale, accompagnato da una tromba discografica che fruscia e barrisce in modo
straziante dagli altoparlanti, quando chiamano il mio nome all’appello faccio presente al
caporale istruttore che mi aspettano all’Ufficio Tecnico. Lui, ogni mattina, annuisce con
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un sorrisetto dal significato evidente: bella la vita da imboscato eh?. La stessa cosa la pensano
anche i miei compagni di plotone, guardandomi lasciare il mio posto in riga con un misto di invidia e di disprezzo. Loro passeranno la giornata imparando a marciare, a tenere
il fucile come va tenuto e altri fondamentali del buon soldato, io invece lavorando. Una
cosa però la imparo anch’io insieme a loro: l’inno dei carristi, che entra nell’ufficio dalla
finestra aperta sul mite ottobre rivierasco con tutte le sue virili stonature.
Son d’acciaio i cingoli possenti,
son d’acciaio come i nostri cuor
che conoscon tutti gli ardimenti
e non san cos’è il timor.
Cosa importa se il nemico è forte?
suppliremo colla volontà,
il carrista sa sfidar la morte
e paura mai non ha.
Nella lotta ci guidano gli eroi
e i risorti che veglian su di noi
Siam carristi (qui battono il passo mai all’unisono)
tempra d’eroi,
ferrea mole ferreo cuore!
Nonostante di carristi in senso stretto non ce ne siano in realtà molti in circolazione, facciamo tutti parte di una brigata meccanizzata e, a eccezione dei bersaglieri, portiamo
tutti il basco nero, quindi siamo tenuti a cantare in coro la nostra natura metallica. Io
appartengo, nel senso più pieno della parola, al corpo delle Trasmissioni, con l’incarico di
marconista conduttore: non so cosa significhi esattamente, ma di certo non ha nulla a che
fare con la mia quotidiana presenza all’Ufficio Tecnico. Se ogni mattina lascio l’addestramento ai miei compagni, attraverso il piazzale ed entro nella palazzina comando, è solo
perché il caporal maggiore Mazzoleni ha avuto modo di scoprire che studi ho fatto e, in
ragione di questi, mi ha immediatamente requisito per i suoi scopi.
Architetto nella vita civile, Mazzoleni è un bergamasco rosso di baffi e di capelli
dalla risata contagiosa. Grazie al suo titolo e alla sua furbizia un po’ contadina è riuscito
a ritagliarsi uno spazio confortevole all’interno della caserma in qualità di responsabile
dell’Ufficio Tecnico, il cui scopo è far fronte alle più svariate necessità d’ordine per così
dire artistico, davanti alle quali l’animo militare si trova generalmente piuttosto impacciato. Nel momento in cui sono arrivato io, l’ufficio era alle prese con un compito straordinario: preparare una serie di quadri informativi da affiggere nella nuova sala d’accoglienza
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in via d’ultimazione, nonché realizzare enormi pannelli in legno raffiguranti gli stemmi
dei battaglioni di destinazione con cui decorare la facciata di una palazzina antistante il
piazzale. Il tutto doveva essere tassativamente pronto per il prossimo giuramento, ovvero
quello del mio scaglione, e il tenente colonnello Calvisano non avrebbe tollerato ritardi
nella messa in scena del suo show.
Per questa missione speciale, Mazzoleni aveva avuto il permesso di rastrellare tra
i nuovi arrivati qualcuno che, a naso, avrebbe potuto rendersi utile con una matita o un
pennello in mano. Così aveva reclutato il bersagliere Bettoli, sedicente artista romano,
l’artigliere Gallo, geometra di Alba, e il sottoscritto.
Vaglielo a spiegare ai miei compagni di plotone, in questo momento stravaccati
sotto un tiepido sole a smontare e rimontare i fucili ridendo tra loro come bambini con
un nuovo giocattolo, che io non posso staccarmi da questo tavolo perché devo finire di
disegnare un carrista che fa il saluto come va fatto. Braccio a novanta gradi allineato alla
spalla, gomito a quarantacinque gradi e polso dritto, dorso della mano leggermente ruotato in avanti con il dito indice all’altezza del sopracciglio destro, quasi a contatto del basco.
Una volta terminato il COME SI SALUTA, dovrò occuparmi di COME SI INDOSSA
IL BASCO e di COME SI INDOSSA IL FEZ, informazione che dovrebbe contribuire a
ridurre il numero di neo-bersaglieri che indegnamente lo portano senza piegarlo, come
farebbe un nano da giardino.
Qualche giorno fa ho finito un pannello che è stato molto apprezzato dai superiori
per via dello suo slogan e dai miei compagni per l’ilarità che inevitabilmente suscita: HAI
UN PROBLEMA? PARLANE CON IL TUO CAPITANO. Quello che ho disegnato io
non assomiglia per niente ai capitani che vedo in giro: ha un’espressione così umana che
mi fa venire voglia di prendere per buono lo slogan e di andare dal mio per dirgli:
«Signor capitano, ho un problema: io qui sto proprio di merda».
Già dalla prima alba (di trecentosessantacinque) in cui avevo aperto gli occhi sulle
maglie della rete soprastante, mentre la luce cominciava a entrare dai finestroni e poco
prima che un sergente cominciasse a ringhiare sveglia in piedi cazzo sveglia! dando calci con
gli anfibi alle gambe dei letti, mi ero reso conto che l’intera faccenda sarebbe stata molto
più dura di quanto avessi previsto. Il sostanziale difetto del mio preventivo di massima
era stato quello di prendere in considerazione, della vita militare, soltanto i problemi d’ordine pratico. Mi ero preparato a mangiare ancora peggio e a dormire ancora meno, a fare
guardie e marce forzate, a venire strapazzato quotidianamente dai latrati di un sergente
carogna come quelli dei film. Avevo messo in conto il peggio, senza sapere che il peggio
non sarebbe stato qualcosa da dover fare ma qualcosa da dover sentire. Era come se entrando in quella caserma fossi stato costretto a togliermi di dosso, insieme agli abiti borghesi,
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tutto quello che faceva di me ciò che ero stato fino a quel momento. Una volta privato di
Elena, degli amici, di una mia stanza e di una città che facesse da scenario alla mia piccola
vita con le sue piccole cose e le sue piccole abitudini, scoprivo di essere niente, soltanto
un’anima debole, incapace di trovare un qualsiasi modo di respirare senza boccheggiare
nell’atmosfera del pianeta su cui ero precipitato. Scoprirlo non era affatto piacevole, perché non è piacevole qualunque considerazione che abbia il sapore di una sconfitta. Com’è
possibile? Non sono cresciuto nella bambagia, io. Ne ho fatte di ogni con gli scout, io. Ho mangiato
di tutto e dormito ovunque, io. Sono stato persino in Afghanistan, io.
Eppure adesso sono di nuovo il bambino di Igea Marina, io.
Non piango più a letto quando si spengono le luci, ma talvolta approfitto della doccia per
mescolare le lacrime con l’acqua.
Mi sento come uno di sana e robusta costituzione che improvvisamente si scopra
del tutto indifeso nei confronti di un virus dei più banali, di quelli che la gente normale
affronta con filosofia e qualche pastiglia, senza prendersela troppo. Guardo quelli sani
chiedendomi come facciano a rimanere tali, apparentemente immuni dai vapori che si
respirano in questa palude dove l’individuo sprofonda nella melma e soltanto i corpi
galleggiano. Corpi che hanno solo bisogno di mangiare, cacare, dormire e possibilmente
fare andare il proprio uccello, se non con una donna almeno con la mano. Corpi capaci
di sintonizzarsi tra loro al suono di una risata grassa, di una barzelletta sconcia, di una
bestemmia greve. Il tempo di un’annusata e già si sono uniti in branchi rumorosi, e dai
branchi dei più vecchi imparano e fanno proprie le regole non scritte della vita in palude,
il suo gergo, i suoi riti tribali.
Non riesco a stare con loro ma non riesco nemmeno a sentirmi vicino a quelli che
non hanno la minima intenzione di provare a guarire e non aspettano altro che esaltare il
loro malessere per usarlo come un lasciapassare per la libertà. Costi quel che costi, anche
fosse la marchiatura a fuoco di tossicodipendente o di disturbato mentale. A quelli va bene
tutto, pur di andarsene dall’esercito. Gli va bene anche passare giorni, settimane, mesi in
un ospedale militare per reggere fino in fondo la parte, sciabattando per i corridoi con
indosso il pigiama color cacchetta d’ordinanza, fumando una sigaretta dietro l’altra e
mandando affanculo le suore.
Io non sono abbastanza disperato o abbastanza coraggioso, per prendere quella
strada. Ho troppa paura di poter peggiorare ancor di più la mia situazione, per accollarmi
i rischi della ribellione. Dopo aver scoperto la mia vulnerabilità non voglio rischiare di
scoprirne anche il suo estremo. Così faccio quel che mi chiedono di fare gli alieni che
comandano questo mondo, attaccandomi alla salvifica certezza che un giorno dovranno
lasciarmi andare. Ma in questo mondo anche le certezze perdono i loro contorni, sfumano
e, nel cupo malessere che mi ha preso, appaiono fragili come la mia esistenza nelle mani
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di altri. Ho un buon esempio per farti capire cosa intendo dire.
Un paio di giorni dopo l’arrivo in caserma ci veniva comunicata la nostra destinazione finale, ovvero il luogo dove avremmo trascorso gli undici mesi seguenti all’addestramento. Al termine di un’interminabile coda che dopo aver disegnato l’intero perimetro di
un cortile s’infilava in un portone, percorreva un corridoio, attraversava uno stanzone e
infine ti lasciava davanti a una fila di scrivanie, uno svogliato furiere consultava un enorme registro e ti consegnava una nuova cartolina, questa volta azzurrina, sulla quale era
segnato a biro il tuo prossimo destino. Sulla mia, guardata solo dopo essermi seduto in un
angolo appartato del piazzale, trattenendo il fiato come se si fosse trattato del responso di
un esame medico, leggevo: TR GOITO – MILANO.
Qualunque cosa potesse significare TR GOITO, dopo il C.A.R. sarei andato a Milano, senza nessuna raccomandazione e senza aver pagato nessuno. Milano era una delle
possibili destinazioni della Divisione Centauro, ma chi se lo sarebbe aspettato un colpo di
culo di tale portata? Che fosse per caso o perché qualcuno aveva tenuto conto della mia
domanda di avvicinamento (causa madre vedova) fatta nel momento stesso in cui avevo
rinunciato al rinvio, mi avrebbero mandato a Milano.
Giustamente tu penserai che dopo questa buonissima nuova tuo padre riuscì, se
non a rasserenarsi, almeno a vedere un po’ meno nero intorno a sé, come avrebbe fatto qualunque persona sufficientemente dotata di buon senso. Invece no. Allegata a una
prospettiva così incredibilmente rosea c’era la paura che non potesse realizzarsi davvero,
perché in ogni incubo che si rispetti le belle promesse servono solo a nascondere altre
trappole. Così trasformai la fortuna in una nuova preoccupazione, e il troppo bello per essere
vero in un insidioso pensiero costante. Come il Soldato Nencini della canzone di Jannacci,
mostravo a chiunque di più scafato mi capitasse a tiro quel pezzo di cartoncino, sperando
che potesse leggervi una certezza e non una possibilità.
Quando per mia sfortuna incappavo in qualcuno con un conto in sospeso (tz…a me
dicevano che sarei dovuto andare a Vercelli, invece sono ancora qui a fare l’istruttore…) ricadevo a
corpo morto nel guano dei pensieri più cupi.
Elena ne faceva le spese. Alle sue lettere (perché allora si scrivevano ancora lettere, all’occorrenza) dal lontanissimo pianeta della vita normale rispondevo riversandole
puntualmente addosso tutte le angosce di cui ero capace. E nelle telefonate la musica non
cambiava. Mi attaccavo alla sua voce allegra e alle cronache del suo piccolo quotidiano
per sentirmi ancora vivo, come fa un alpinista con la corda mentre pendola nel vuoto
dopo essere volato. Sapere che c’era ancora una vita, là fuori, era confortante, ma tanto
quanto era deprimente non poterla più vivere. Quei pochi minuti di telefonata, scanditi
dall’inesorabile caduta delle manciate di gettoni telefonici di cui mi riempivo le tasche, erano
la mia dose quotidiana di ricostituente mentale, medicina indispensabile per poter tirare
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avanti. Una volta attaccato il ricevitore mi sentivo più solo che mai, ma almeno sapevo che
il pianeta da cui provenivo era ancora come l’avevo lasciato tanto tempo prima. Elena lo
custodiva per me, e io avevo bisogno di lei.
Ci eravamo conosciuti circa un anno e mezzo prima, al bar dell’Istituto Europeo di
Design. Lei frequentava il corso di grafica, un mondo fatto di chine, compassi e tiralinee
dal quale ogni tanto usciva per bersi un caffè e fumarsi una sigaretta insieme a qualche
suo compagno. Io l’avevo notata per quell’effetto d’insieme che nella mia testa ha sempre
segnato la differenza tra una bella ragazza e una ragazza con cui mi sarebbe piaciuto stare.
Perché non sono mai riuscito a considerare le singole frazioni di un bel culo, di un bel
paio di occhi oppure di tette come se fossero un intero. Questo non vuol dire che l’aspetto
esteriore per me non avesse importanza, ma soltanto che alla resa dei conti, per bello e
appetibile che fosse, non poteva presentarsi da solo, senza quel corredo di testa e di modi
necessario a conquistarmi. Elena ce l’aveva, per questo l’avevo notata. Non aveva paura di
ridere e di dire qualunque cosa le passasse per la testa con una voce che mi piaceva. Se per
un attimo potevi pensare che s’atteggiasse a far la figa, in quello immediatamente successivo scoprivi che la cosa non era come sembrava. Poteva girare lo zucchero nella tazzina
con gesti da gran dama così come rovesciarla in un improvviso attacco di goffaggine. Ne
risultava una presenza originale, capace di suscitare tenerezza e irritazione insieme, che in
ogni caso dava l’impressione di stare al mondo volentieri e col sorriso sulla bocca.
Un giorno decisi di dirle a bruciapelo - ti amo - e che mi sarebbe piaciuto accompagnarla ovunque avesse dovuto andare una volta uscita di lì. Invece di guardarmi come
un deficiente lei accettò allegramente l’assunto e la proposta. Le regalai una rosa e cominciammo a conoscerci. Qualche tempo dopo, sul finire di una domenica di giugno, sufficientemente alticci, ci baciammo per la prima volta secondo i più vergognosi stereotipi del
romanticismo da cartolina: sotto una loggia del Palazzo della Ragione a Bergamo alta, con
tanto di tramonto rosa e volo di colombi sullo sfondo. Da quel momento cominciammo
a considerarci insieme.
Con Elena era tutto insolitamente facile, e quasi non me ne capacitavo, dopo aver
conosciuto solo storie d’amore svariatamente sofferte, in un modo o nell’altro sempre
condite da sangue, sudore e lacrime. Eravamo la dimostrazione pratica di una teoria d’ottimismo elementare: quando due ragazzi si piacciono, e nessuno si mette di mezzo, generalmente la cosa ha buone possibilità di funzionare. E quando la cosa funziona ci si diverte
a parlare, a mangiare, a bere, a fumare e persino a fare sesso in allegria, scambiandosi i
propri umori senza remore o riserve. Ci divertivamo senza complicazioni, complice una
strana affinità in grado di farsene un baffo della diversità dei nostri caratteri.
Per questo, dopo quasi un anno e mezzo da quel - ti amo - sparato alla cieca, Elena
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non solo era ancora la mia ragazza, ma riusciva addirittura a continuare a esserlo, sopportando con leggerezza ammirevole tutto il peso indiretto del mio malessere. La separazione
forzata causa servizio militare era una delle prove più classiche di resistenza a cui i giovani
amori dovevano sottoporsi: spesso la lontananza finiva per rivelarsi fatale, soprattutto nei
confronti di quelli già traballanti. Nel momento in cui io sparavo il - ti amo - di cui sopra
il ragazzo di Elena si trovava da qualche parte del nord-est, chiuso in una puzzolente caserma.
I PRECETTI DEL BERSAGLIERE
1 - Spirito di corpo fino al fanatismo
2 - Fiducia in sé stessi fino alla presunzione
3 - Cameratismo fino al sacrificio
4 - Ginnastica di ogni genere fino alla frenesia
5 - Prontezza fino alla spavalderia
6 - Iniziativa fino alla disobbedienza
7 - Spirito offensivo fino alla Vittoria
8 – Allegria fino alla vecchiezza
9 – Amor di Patria fino alla morte
10 – Passione dell’Onore fino al Martirio
La mattina del 10 novembre 1977, a bordo di un treno speciale in partenza dalla
stazione di Diano Marina che sembrava una tradotta della grande guerra, mi convinsi finalmente che la mia paura di non essere trasferito a Milano era infondata. Dopo soltanto
un mese di C.A.R. (durato almeno il triplo sul mio personale calendario) sarei tornato
a Milano per scontare gli undici restanti. Avrei potuto fidarmi di quel biglietto grigio e
limitarmi a far passare il tempo in attesa di quel giorno, ma per poterlo fare avrei dovuto
essere uno di quelli normali, invece di appartenere a quella razza disgraziata che lì dentro ci
muore, come minimo nello spirito. Qualcuno, e non erano poi così pochi, finiva per farlo
completamente, approfittando di un turno di guardia per spararsi in bocca col proprio
Garand.
Nelle carrozze si respirava, oltre alla puzza di giovani maschi mal lavati, un’atmosfera euforica da gita scolastica, alimentata da scherzi pesanti, urla e schiamazzi, sospesa
di tanto in tanto dal passaggio di un sottufficiale dall’aria schifata che minacciava punizioni come un bidello. Alla fine di un interminabile viaggio dall’itinerario singolarmente
contorto, in funzione delle diverse destinazioni di noi spine, il treno terminò finalmente
la sua corsa alla stazione di Porta Garibaldi a Milano. Era una sera di novembre grigia e
schifosa, fredda com’è normale che sia il novembre lontano dalla riviera dei fiori, eppure
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quando scesi dal treno e annusai la puzza di casa mi sentii molto meglio.
Dopo un quarto d’ora di scossoni, seduto insieme agli altri sul cassone di un CM,
scoprii l’esistenza di una caserma a me del tutto sconosciuta dalle parti di Niguarda. Intitolata a Mameli, esattamente come la scuola media che sognavo di frequentare un po’
di anni prima, ospitava quel TR GOITO su cui mi ero lambiccato per un mese. Il TR
indicava la compagnia di Trasmissioni, una minoranza di baschi neri nella marea di fez del
glorioso 18° Battaglione Bersaglieri, mentre “Goito” era il nome della Brigata Meccanizzata di cui il tutto faceva parte, in omaggio a una battaglia della Guerra d’Indipendenza
vinta dai futuri italiani perché gli austriaci sbagliarono clamorosamente strategia.
Non appena il portone metallico si spalancò sull’enorme piazzale contornato simmetricamente dalle costruzioni a ferro di cavallo per poi richiudersi dietro il camion,
compresi che insieme al portone si era richiusa ermeticamente la cupola che avvolge ogni
caserma, tagliandola fuori dal mondo esterno e sigillandola nel proprio, ovunque identico
e immutabile. Il fuori non ha alcuna influenza sul dentro e i due mondi condividono
soltanto le condizioni atmosferiche. Milano era fuori, e io ero dentro.
Cominciarono così gli undici dodicesimi di servizio militare ancora da scontare,
e in questa mia nuova, invidiabile condizione, riuscii abilmente a trovare un adeguato
aggiornamento per il mio malessere. Trovarmi in una gabbia a poca distanza da casa mi
faceva agitare nervosamente come una tigre del circo. Il fine di ogni giornata era lo stesso:
consumarla in attesa della libera uscita, prolungabile di un’ora con un permessino dalle 23
alle 24.
Ogni sera tornavo per qualche ora alla normalità, vedevo Elena, vedevo gli amici,
riassaporavo la mia vita di prima finché, prima che arrivasse la mezzanotte, dovevo scappare come fossi cenerentola sul più bello del ballo. Oltrepassato l’ufficiale di picchetto e
nuovamente inglobato nella cupola, attraversavo il cortile nella nebbia, diretto verso la
luce tremolante sopra l’ingresso della palazzina del mio reparto. Dentro mi aspettava la
mia branda, immersa nella penombra e nel tanfo prodotto copiosamente dai commilitoni dormienti. Una volta passato il contrappello, la giornata si poteva considerare conclusa
e cancellabile dalla propria stecca. La mia era un cartoncino tascabile, dove i mesi erano
semplici file di O battute a macchina. Ogni O era un giorno da riempire di rosso con sofferto piacere una volta trascorso per sempre. Ogni O durava un’eternità ed era solo una di
tantissime, tutte uguali come la giornata che rappresentavano.
Lo so, cosa stai pensando. Ti chiedi cosa potessi volere di più. Per quanto potesse
essere insopportabile la vita che facevo in caserma, stavo a Milano, a pochi minuti di macchina da casa mia. Cosa avrebbero dovuto dire tutti quelli distanti centinaia di chilometri
da casa, quelli a cui per vedere gli amici e la ragazza non bastava nemmeno un quarantotto,
ma dovevano aspettare una licenza?
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È una domanda legittima e molto ragionevole, alla quale non so darti risposta.
Posso dirti soltanto che tra quelli ne ho visti tanti prendere il servizio militare come una
divertente seccatura, se non addirittura come un’avventura che valeva la pena di vivere.
Oggi li puoi trovare persino nei gruppi di Facebook, quelli che ricordano con affetto e nostalgia quei trecentosessantacinque giorni da soldato. Sono gli stessi che hanno continuato
per anni, dopo il congedo, a organizzare rumorose rimpatriate celebrative in pizzeria, felici
di rivivere in gruppo l’atmosfera dei bei tempi riesumando aneddoti su fughe, gavettoni e
ufficiali stronzi. Sono quelli che ricordo tornare ubriachi dalla cena dei congedanti e non
trovare niente di meglio da fare che sbrandare qualche spina nel sonno solo per il gusto di
gridargli in faccia - È FINITAAA! -.
Viene da pensare che fossero più sani, più forti, più “uomini” di me, posso capire.
Io sono convinto, e non solo per convenienza, che invece fossero semplicemente diversi da
me di quel tanto che bastava per non vivere quella realtà come un incubo, e questo faceva
la differenza. Come già ti ho detto, tra quelli che alla sfortuna di trovarsi in una caserma
lontana anni luce da casa univano quella di sentirsi persi in quel mondo, magari ben aiutati dalle angherie dei nonni, non pochi finirono per farla finita senza aspettare il congedo.
Ma anche l’anno più lungo della mia vita in qualche modo trascorreva, colorando
di rosso le O con una lentezza esasperante. L’inverno non voleva mai passare, esattamente
come le ore di guardia notturna al deposito mezzi dove, infagottato in tutti gli indumenti di cui disponevo, guardavo la vita sopra di me dentro le finestre illuminate della casa
popolare accanto alla caserma, che la sovrastava senza alcun rispetto. A poche decine di
metri dalla gente che cenava, guardava la tv e poi andava a letto, io vegliavo (Altolà! Chi
va là?) sul sonno di una ventina di camion e di altrettanti blindati con relativo carburante
cercando di non congelarmi come loro, fumando nascostamente e pensando alle meravigliose quattro ore di sonno con gli anfibi ai piedi che mi aspettavano alla fine del turno.
E al mattino mi sarebbe toccato andare a lavorare come al solito.
Il mio impiego all’Ufficio Tecnico della caserma Camandone in quel di Diano
Castello aveva evidentemente creato un precedente indelebile nella mia carriera militare,
quindi, non appena arrivato a Milano, venni prontamente assegnato all’ufficio (la cui sigla
mi sfugge) che si occupava di disegni, produceva fotocopie, eliocopie e ciclostilati, gestiva
la cartografia e provvedeva alle più disparate necessità su supporto cartaceo. L’ufficio,
all’interno della palazzina comando, era una stanza talmente ingombra di attrezzature e
materiali da costringere noi tre addetti a muoverci come in un carro armato. Ed eravamo
letteralmente chiusi in gabbia: una pesante inferriata che arrivava fino al soffitto impediva
l’accesso a chiunque non avesse almeno una stella e una torre sulle spalline. Perciò, chi si
rivolgeva a noi per una qualunque richiesta lo doveva fare attraverso le sbarre. A fine giornata la chiave andava riconsegnata all’interno di una bolgetta di cuoio, a sua volta chiusa
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da un lucchetto a combinazione, perché l’ufficio era considerato Area Riservata, in quanto
nelle nostre mani passavano anche documenti classificati R (riservato), RR (riservatissimo)
o addirittura S (segreto) e SS (segretissimo). A dir la verità, mi capitò solo una volta di aver
a che fare con un documento SS. Fu quando si palesò alla gabbia un carabiniere che mi
chiese di fotocopiare, immediatamente e davanti a lui (di solito ci lasciavano le scartoffie
e ripassavano a prenderle poi), un malloppo di fogli sui quali, ovviamente, allungai gli occhi il più possibile. Si trattava delle deposizioni dei protagonisti di un fattaccio successo in
caserma una domenica pomeriggio d’estate, quando due ufficiali di firma pensarono bene
di malmenare un soldato nello spogliatoio del loro campo da tennis, un noto lavativo che
si era rifiutato di ramazzare il piazzale sotto il sole a picco.
I documenti R e RR erano invece abbastanza frequenti, e avevo modo di leggerli
comodamente prima che passassero a ritirarne le copie. Erano quasi sempre denunce per
diserzione fatte dall’esercito nei confronti dei suoi stessi involontari appartenenti. Gente
che a un certo punto, magari dopo una licenza, decideva di non farsi più vedere. Ma c’erano anche quelli che approfittavano della licenza per commettere un furto o una rapina,
finendo poi per doverne scontare le conseguenze sia come civili che come militari.
Talvolta mi capitava tra le mani un verbale riguardante un suicidio, riuscito o tentato che fosse. Uno di questi ultimi me lo ricordo ancora. In una caserma della divisione,
sul retro di una camerata, trovarono un soldato in posizione distesa e in stato apparentemente
confusionale che presentava ferite da taglio a entrambi i polsi. Accanto al corpo veniva rivenuta
una lametta da barba… Dopo essere stato medicato, l’aspirante suicida veniva interrogato e,
alla richiesta di spiegazioni sui motivi del suo gesto…adduceva problemi di carattere personale
riconducibili alla sua situazione famigliare disagiata. Nel giro di poche altre righe, la rapida
conclusione: …non ritenendo sufficientemente valide le giustificazioni addotte, DENUNCIA presso il Tribunale Militare di….. il Geniere………per procurate lesioni allo scopo di sottrarsi permanentemente al servizio di leva obbligatoria…eccetera eccetera.
Eravamo di loro proprietà, nel caso uno se lo fosse dimenticato.
I complicati meccanismi dell’ufficio e i segreti delle sue vetuste attrezzature venivano tramandati dal responsabile in carica, un caporalmaggiore quasi in odore di congedo,
al nuovo arrivato, che un giorno avrebbe preso il suo posto. Tra le varie faccende, imparai
a ciclostilare con una macchina che aveva l’inchiostrazione automatica fuori uso, spalmando a mo’ di dentifricio la giusta quantità d’inchiostro sul rullo e sulle mie mani, da
quel momento in poi perennemente nerastre. Imparai anche che all’ultimo arrivato spetta
la gran parte del lavoro, soprattutto di quello più antipatico.
Lì dentro le giornate si trascinavano scandite dal viavai di scritturali che consegnavano e ritiravano, dalle visite di sottufficiali che pretendevano fotocopie personali di ogni
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genere (una volta dovetti fotocopiare l’intero “Natale in casa Cupiello”) e da quelle, fortunatamente più rare, di qualche ufficiale superiore del comando che, stufo di starsene
seduto dietro la sua scrivania, non trovava niente di meglio da fare che venire a vedere che
cazzo combinano ‘sti paraculi d’imboscati.
Quando questi personaggi con il petto pieno di nastrini e la pancia che premeva
dietro i bottoni dorati dovevano giocare alla guerra, l’ufficio veniva messo sotto pressione,
perché al quotidiano lavoro di routine si aggiungeva la preparazione di tutto materiale necessario all’esercitazione del momento. Dovevamo così produrre enormi pannelli sui quali venivano rifilate e giuntate con la massima precisione tutte le cartine in scala 1:50.000
necessarie a comporne una che comprendesse l’intera area delle operazioni e, successivamente, riempirla con quell’intrico di frecce, controfrecce e simboli di unità che disegnava
il piano strategico della battaglia tra il cosiddetto partito blu, ovvero noi, i buoni, e il partito
arancione (chissà per quale forma di pudore non onestamente rosso come il nemico comunista che palesemente rappresentava).
Il lavoro più impegnativo era però un altro: illustrare in dettaglio tutte le fasi dell’esercitazione mediante una quantità esagerata di lastrine. Così venivano chiamate le slides di
acetato trasparente da proiettare durante le loro presentazioni strategiche. Quello che oggi
verrebbe fatto con uno dei tanti software creati all’uopo a noi toccava farlo manualmente,
lastrina dopo lastrina, disegnando a fatica sull’acetato con la china fuggevole di vecchi rapidograph matasse di curve altimetriche, frecce blu e arancioni, microscopici simboli d’ogni
genere. Non solo: per abbellire il tutto, i grandi condottieri che avevamo l’onore di servire
pretendevano qua e là un tocco più artistico, tipo una sagoma di bersagliere all’attacco con
tanto di piume svolazzanti sull’elmetto o un M113 eroicamente lanciato dai suoi cingoli
verso le linee nemiche.
Dopo innumerevoli modifiche in corso d’opera (frecce che cambiavano continuamente direzione, reggimenti di fanti che si trasformavano in carristi e paracadutisti paracadutati a destra anziché a sinistra) il materiale era finalmente pronto per essere visionato
e proiettato in anteprima dai sommi ufficiali del comando, che avevano l’abitudine di dedicarsi a questa incombenza dopo aver tranquillamente cenato, in orario di libera uscita. Mentre loro, nella sala convegno, esaminavano ogni dettaglio dei geniali piani di
battaglia che avevano concertato, noi dovevamo rimanere a disposizione, più che per far
fronte ad ulteriori modifiche, per restaurare le lastrine dopo che i loro pollici, afferrandole
ovunque fuorché sulla cornice di cartoncino, avevano sfigurato un bersagliere, fatto scempio di una collina o sbavato l’attacco frontale del nemico.
Queste sono da sistemare, e te ne buttavano cinque o sei sul tavolo. L’operazione non
sarebbe stata neanche troppo complicata, se solo il grasso della pelle non avesse reso l’acetato del tutto refrattario alla china. Occorreva ripulire ogni zona bombardata dalle loro
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dita con l’alcol e cercare di riprendere le linee senza che si notasse troppo. In certi casi, la
devastazione era tale da rendere necessario un totale rifacimento.
Una sera, l’insostenibile idea di rinunciare alla libera uscita per restare a disposizione del loro war game mi suggerì una scappatoia: presi il taglierino e mi tagliai un polpastrello quel tanto che bastava a produrre il sangue sufficiente a macchiare per bene un
fazzoletto e alla messa in scena di un incidente sul lavoro. Nel loro gergo, mi procurai lesioni
volontarie allo scopo di sottrarmi temporaneamente al servizio. Venni autorizzato ad andare in
infermeria, ma mi misi un cerotto e uscii dal loro pianeta.
Passò l’inverno e arrivò la primavera, segno dell’avvicinarsi della metà del mio anno
di leva, agognato inizio della cosiddetta discesa.
Il 16 marzo del 1978 aveva tutta l’aria di un giorno perfettamente uguale agli altri,
finché la porta dell’ufficio non si spalancò mostrandoci di colpo, davanti all’inferriata,
il Tenente Colonnello Montano con una faccia che non gli avevamo mai visto. Andò di
corsa alla radio (uno dei due privilegi del nostro impiego, l’altro era l’esenzione dalla corsa
reggimentale del venerdì mattina, durante la quale ogni sfaccendato reperibile doveva intrupparsi dietro la fanfara e farsi due o tre giri del piazzale correndo al ritmo dei suoi pezzi
più classici) e si mise a smanettare con la sintonia. Si fermò intercettando la voce di uno
speaker che parlava di un fatto appena accaduto: il rapimento dell’onorevole Aldo Moro
da parte delle Brigate Rosse. Arrivò anche il Tenente Colonnello Scognamiglio, seguito
dal Maggiore Blasetti e dal Capitano Iodice. Il capannello chino sulla nostra radio, che
fino a pochi minuti prima diffondeva la voce di Kate Bush in Wuthering Heights, ascoltava
in silenzio gli ultimi aggiornamenti sull’agguato scambiandosi occhiate furenti. Montano parlò per tutti sibilando - bastardi! -, dopodiché il quartetto girò i tacchi e se ne andò
com’era venuto: velocemente e senza degnarci di mezzo sguardo.
Dentro di me, e soltanto lì, in quel momento brindai all’azione sciagurata dei terroristi, perché in quel momento tutto ciò che poteva danneggiare un qualunque ingranaggio
di quel potere che mi teneva prigioniero da mesi in un circo dominato da arroganti pagliacci aveva la mia approvazione. Così io, che non avevo nemmeno il coraggio di sgarrare
di mezzo metro dalla linea di un comportamento militarmente esemplare per la paura
di veder restringersi lo spazio della mia gabbia, non potevo che ammirare in segreto chi
aveva la sfrontatezza di non aver paura di niente e di nessuno. Quello che avevano fatto
mandava in bestia i pagliacci, quindi era ben fatto.
Loro non rimasero a guardare, e i giorni seguenti furono segnati da un’insolita
animazione. Sulle facce di tanti ufficiali, che improvvisamente cominciarono a vestire la
mimetica senza un preciso motivo, leggevi un pensiero comune mal trattenuto: se fosse per
noi sapremmo cosa fare. Per fortuna si limitarono a fare solo quel che gli era permesso, e non
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quel che avrebbero saputo. I servizi di guardia vennero rinforzati, e di fronte al portone di
ferro dell’ingresso venne costruito un muretto di sacchi di sabbia a protezione di una mitragliatrice pesante. I vecchi M113 si fecero vedere e sentire nel piazzale molto più spesso
di prima e chi era in attesa della firma su una licenza dovette rassegnarsi a saperla bloccata
su una scrivania in fureria. La caserma Mameli si preparava al peggio come Fort Apache,
ma riusciva ad assomigliare di più alla Fortezza Bastiani.
Nel frattempo ero stato nominato caporale, e questo comportava, a fronte di una
diaria di 550 lire contro le 500 del soldato semplice, l’incarico di capoposto durante i turni
di guardia. Non dovevo più passare le ore guardando nelle finestre delle case vicine ma
organizzare i cambi di chi lo faceva, caricare e scaricare i fucili, e altre importanti responsabilità come, al mattino, portare il drappello di guardie all’alzabandiera inquadrato e a
passo di marcia: ‘nò dué, ‘nò dué…squadraaa…alt! Aaa…tntì! Riip…só!
Nessun esercito, né messicano né tartaro venne mai all’assalto della nostra caserma. Aldo Moro venne ucciso, le guardie rimasero rinforzate, gli ufficiali tornarono ai
loro consueti ritmi e le giornate a ripetersi, identiche e lunghe. Mi feci un paio di amici
frequentabili anche fuori da quelle mura, e questo mi aiutò a tenere duro. Diventato caporalmaggiore (altro scatto di 50 lire sulla diaria) una sera mi toccò comandare una ronda in
giro per Milano, con appesa al cinturone una pistola con la quale non avevo mai sparato
un colpo e del cui funzionamento avevo un’idea basata solo sulle scene dei film.
Essendo la ronda composta da un terzetto, obbligai i due amici a farmi da vallette.
Dopo un breve giro alla stazione di Porta Garibaldi, utile solo a spaventare qualche soldato
sceso dal treno senza cappello o con la giacca sbottonata, andammo a casa mia, lasciammo
lì cinturoni e pistole, tirammo fuori i pantaloni dagli anfibi e una volta assunto l’aspetto
di tre soldati e basta, andammo a mangiarci una pizza in compagnia di Elena.
Venne l’estate, e nelle lunghe domeniche vedevi gli ufficiali superiori arrivare al
loro circolo con la famiglia al completo per mangiarsi un gelato a buon mercato serviti e
riveriti come mai al di fuori di quelle mura. Guardavo i loro figli e provavo una gran pena.
Era la prima estate della mia vita che desideravo veder passare più veloce di un
autunno piovoso, perché per la prima volta in vita mia era proprio l’autunno che volevo
vedere arrivare in fretta. E alla fine arrivò, dopo altre guardie, dopo altri innumerevoli
ordini del giorno ciclostilati, dopo aver preso la patente per i camion (ecco cosa significava
marconista conduttore), dopo aver sentito ogni mese le grida dei congedanti ubriachi di ritorno dalla cena, dopo che anche il mio compagno di branda (un bolognese che non si lavava
mai ma si profumava sempre e continuava a far girare una cassetta di Donna Summer) se
ne fu andato, dopo aver trascorso con Elena i dieci giorni della licenza ordinaria che mi
ero conservato per l’estate, dopo aver avuto il tempo necessario a odiare ogni centimetro
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quadrato di quel posto e buona parte dei suoi occupanti, l’autunno arrivò. E un giorno
scoprii che avrei avuto il sacrosanto diritto di passare davanti a una qualunque spina dicendole bacia la stecca! oppure devi morire!, perché ormai ero una vecchia, e la vecchia, si sa, è
stanca.
Il 3 ottobre 1978 uscii per l’ultima volta dal portone della caserma, con una settimana di abbuono sull’anno intero. Sul quadernino che dal primo giorno avevo riempito
di sfoghi e deliri scrissi un ultima cosa:
Come spiegare quello che provo?
Sto per uscire, per non tornare. Spero.
Un senso di vuoto, anche.
Piove.
Dio, che bello andarsene!!
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Ventisette
Il testone nero di Loren non sporge dalla porta del box,
e questo è molto strano.
Il testone nero di Loren non sporge dalla porta del box, e questo è molto strano. Di solito lo trovi sempre lì, dopo che ti ha sentito arrivare, curioso e affamato di
carote e carezze.
Elena ha preparato il baccalà alla vicentina e Alfredo Lidi si è fermato a cena da noi.
Al momento di tornarsene a casa non poteva certamente salire in macchina e andarsene
così, senza aver prima salutato i suoi cavalli.
Accendo la luce del box: Loren è sdraiato, umido di sudore. Gira la testa verso di
noi per salutarci con uno sbuffo stanco e poi torna a guardarsi il fianco.
«È una colica merdosa, questa…» ringhia il Lidi.
«C’è dell’antispastico nell’armadietto. Preparo la siringa?» dico io.
Lui mi guarda come se dovesse spiegare qualcosa a un bambino.
«Alla sua età, il Loren meno porcherie prende e meglio è. Dobbiamo farlo camminare.»
Fare alzare un cavallo che non ne ha la minima voglia non è semplice neanche se il
cavallo si chiama Loren e chi cerca di farlo alzare è la sua metà umana da sempre. Come
farebbe chiunque di noi in preda alle sue fitte, Loren vorrebbe restarsene a letto, alla ricerca della posizione meno dolorosa. Ce lo dice chiaramente con un paio di nitriti potenti
che rimbombano nel box.
Ma il Lidi non molla:
«Su, Loren, su, fa ‘l bravo, dio fa!»
Così, a forza di pacche sul manto sudato, di parole gentili e d’imprecazioni sussurrate, Loren decide di dar retta al suo fratello bipede e si solleva faticosamente, puntellandosi sugli zoccoli a zampe larghe. Usciamo dal box, attraversiamo il porticato diretti al
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paddock. Due uomini, una donna e un cavallo che a vederlo camminare così ti si stringe
il cuore.
«Deve muoversi, deve muoversi per farla...» è il mantra del Lidi.
Tirato per quella stessa lunghina che ogni mattina anticipa allungando il passo,
felice di andare a sgranchirsi, Loren si trascina per amore e nient’altro, gli zoccoli pesanti,
la testa bassa, girata a cercare di sorprendere la bestia invisibile che gli morde il ventre. E
per amore il Lidi non può aver pietà, e non smette di incitarlo a girare in tondo, gli sventola la frusta sopra il posteriore perché non si fermi, gli parla nella lingua che solo loro
capiscono.
«Özz! Loren! Özz!»
Deve gridare, perché in questa meravigliosa notte di primavera si è alzato un vento
che muove gli alberi ai margini del bosco e fa cantare le cime come onde marine. Un’anima poetica potrebbe pensare che anche gli alberi dicano in coro Özz! Loren! Özz! mentre si
affacciano sul recinto, piegati dalle raffiche, sotto un cielo stellato tirato a lucido.
Elena e io, appoggiati alla staccionata, possiamo solo guardare quell’uomo singolare coi capelli bianchi fare da perno allo stentato girare del suo cavallo, come in un carillon
a fine carica.
Eppure adesso sembra che Loren cammini un po’ più spedito e un po’ più convinto, tanto che il Lidi azzarda:
«Trött! Loren! Trött!»
Con uno sbuffo nervoso, Loren gli risponde non chiedermelo, non ce la faccio,
guarda, e dimostra la sua buona volontà aumentando il ritmo del passo.
«Trött! Loren! Trött! Trött!»
Il Lidi non cede, e ancora gli mostra la frusta allungando il braccio.
Non l’ha mai usata, quella frusta. A Loren basta saperla vicina per aumentare la
distanza tra sé e quel fastidio nella coda dell’occhio. È un gioco che gli ho visto fare tante
volte, e la volta che ci ho provato io Loren si è limitato a guardarmi con aria di compatimento.
«Trööött!»
E alla fine, ancora una volta, il cuore generoso di Loren segue il comando. Con un
improvviso scatto del posteriore la macchina di muscoli cambia marcia e prende faticosamente il ritmo di un trotto lento.
«Bravo Loren, dai! Trött!»
Sì, adesso Loren trotta, non leggero come al solito ma trotta, con la criniera che gli
frusta gli occhi, buttata di qua e di là dalle folate di vento. E dopo aver girato intorno al
suo piccolo fratello umano non so quante volte, d’un tratto solleva la coda e comincia a
scaricarsi, disegnando al suo passaggio un cerchio di fatte che accogliamo come fossero
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oro.
Loren è salvo.
Elena e io saltiamo e gridiamo come due cretini, mentre il Lidi smolla finalmente
la faccia in un sorriso da orecchio a orecchio. Adesso Loren trotta come sa, corto, incappucciato, col petto gonfio e la zampa svelta.
Quando si ferma lo abbracciamo, e sembra quasi che lui ne capisca il motivo. In
quel momento non so se tutte quelle stelle stiano a guardare o facciano altro, ma so che
stanno benissimo dove sono. Esattamente come me, che quando mi trovo a vivere in un
telefilm di Lassie posso solo pensare di aver fatto la scelta giusta, e sentirmi davvero felice.
Finito il servizio militare e il breve periodo di oziosa convalescenza che mi ero concesso dopo il congedo, dedicato a riassaporare tutti i piaceri della moderata libertà di una
vita civile in entrambi i sensi, era arrivato il momento di trovarmi un lavoro.
Come già ti dissi, all’Istituto Europeo di Design avevo scoperto di avere più chances come copy che come art, quindi cominciai il tradizionale giro delle agenzie, che a quei
tempi, a differenza di oggi, non era una cosa necessariamente deprimente.
Su prezioso suggerimento di un’addetta ai lavori, ritagliai un po’ di annunci pubblicitari dai giornali e trasformai le loro headline senza stravolgerne il benefit. Con questo
portfolio di esercizi scolastici mi presentai dai copywriter più blasonati del momento, veri
idoli per ogni apprendista pubblicitario. Non era neanche così difficile farsi ricevere, e
trovarsi a percorrere lunghi corridoi di parquet scricchiolante all’interno di lussuosi palazzi della vecchia Milano preceduti da una segretaria di gradevoli fattezze. Sui corridoi si
affacciavano stanze occupate al centro da due scrivanie bianche accostate, una ingombra
di blocchi da disegno, giornali, fogli di caratteri Letraset, pennarelli Pantone e Magic Marker.
Sull’altra, decisamente più ordinata, troneggiava una macchina da scrivere.
Seduti a queste scrivanie non vedevi nessuno in giacca e cravatta, ma due personaggi variopinti che parevano trovarsi lì per caso, stravaccati sulle poltroncine a parlare,
fumare e sfogliare riviste. L’idea di passare la giornata così in cambio di uno stipendio
non era affatto sgradevole.
Gli emeriti copywriter erano abbastanza diversi tra loro, ma generalmente accomunati dall’evidente piacere nel presentare, loro a me, i propri successi. Alcuni ti mettevano
immediatamente a tuo agio, come fratelloni un po’ ingrigiti ma ancora ragazzi, altri non
scucivano un sorriso nemmeno a pagarlo, e sembravano professori di quelli che non te
ne perdonano una. Quasi tutti apprezzavano le mie headline rivisitate, in particolar modo
quella dell’emmental Lindenberger, trasformata da “Dolce dolce Lindenberger” in “Lindenberger. Tanta dolcezza tra un buco e l’altro”. Ma questo non era sufficiente a farmi guadagnare
una scrivania bianca davanti alla quale stravaccarmi.
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“In questo momento non stiamo cercando, purtroppo” era la sentenza ricorrente con cui si
concludevano i colloqui. Qualcuno la mitigava con un “magari più avanti, fatti sentire” chissà se solo per gentilezza o per vera possibilità. A quei tempi non si parlava ancora di stage
e l’opportunità di far lavorare come schiavi i giovani per qualche mese in cambio di un
tozzo di pane raffermo come succede oggi non era ancora stata presa in considerazione.
Chi entrava in agenzia, dopo un periodo di prova, poteva ancora ragionevolmente ambire
a un’assunzione degna di questo nome. Come in una bottega, si cominciava da assistente
sbrigando i lavori più umili, ma si imparava quello che del mestiere avevano da insegnarti
i maestri.
In buona sostanza, tutti si mostravano piuttosto incoraggianti, esortandomi a insistere nei miei pellegrinaggi. Tutti tolto una, che cominciò a farmi sistematicamente a
pezzi man mano che il colloquio procedeva. Gonna di pelle nera, trucco pesante, non era
una brutta donna, anzi. Ma il suo modo vistoso e volgare di presentarsi al mondo la faceva sembrare la titolare di una profumeria, più che della direzione creativa di una grande
agenzia. Nemmeno la headline dell’emmental riuscì a incrinarle l’espressione di disgusto
che accompagnava ogni suo commento a quel che le dicevo o le mostravo. La trovò banale,
come probabilmente tutta la mia persona. Mise fine al nostro breve colloquio con un consiglio spassionato: lasciar perdere, smettere prima ancora di cominciare. Perché non avevo
la stoffa. Avrei potuto credere che lo dicesse davvero per il mio bene, se solo fosse riuscita
a togliersi per un attimo dalla bocca quel sorrisetto compiaciuto.
Il fatto che quella fosse stata la sola stroncatura incassata fino a quel momento non
mi evitò di uscire dal suo ufficio e dal tronfio palazzo d’epoca che lo ospitava con la coda
tra le gambe come un cane preso a calci. Mi chiedevo come avessi fatto a darle, in così
poco tempo e con così poche pezze d’appoggio, un’impressione di me talmente disastrosa
da giustificare il suo accanimento. Lo scoprii del tutto casualmente poco tempo dopo,
quando venni a sapere che la mia fustigatrice aveva recentemente avuto un pubblico battibecco con Paolin, il mio insegnante di copywriting che avevo commesso l’errore di nominarle, in una di quelle tipiche liti da cortile della pubblicità che anni dopo avrei imparato
a conoscere molto bene. Alla creativa-profumiera in gonna di pelle non era parso vero di
potersi trovare nel piatto un pupillo del nemico, uno che ne decanta con entusiasmo le
doti d’insegnante nonché di copy. E senza pensarci su due volte se l’era mangiato di gusto.
“Magari più avanti” continuava a non succedere niente, così nel frattempo un cugino di mia madre mise sul piatto un’opportunità interessante, anche se con la pubblicità non c’entrava un bel niente. Un suo carissimo amico, capo redattore del più famoso
mensile italiano dedicato all’automobile, era pronto a mettermi alla prova come possibile
apprendista giornalista. Considerando che le auto mi interessavano poco o niente la cosa
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mi lasciava abbastanza perplesso.
“Si tratta sempre di scrivere…” semplificava la mamma, che poi aggiungeva con il suo
consueto ottimismo “cosa ti costa provare? magari scopri che ti piace”.
Come ogni madre che si rispetti, non prendeva minimamente in considerazione
l’eventualità che non ne fossi capace. Io sì, invece, ma l’idea di poter finalmente mettermi
in tasca qualche lira finì per essere più forte della mia perplessità.
La sede dell’Editoriale che faceva capo alla famosa rivista si era da poco trasferita dal
centro di Milano ai dintorni di Rozzano, e vista da fuori sembrava anch’essa una delle tante fabbrichette che la circondavano. Ci andai per il colloquio un mattino di fine settembre,
questa volta armato dei miei racconti meno strampalati anziché delle solite headline sperimentali. Non mi chiesero espressamente del mio rapporto personale con l’automobile,
ma mi diedero una macchina da scrivere, una stanza e un’ora di tempo per improvvisare
qualcosa sul tema, una sorta di esame scritto per capire
come me la cavavo.
Non possedendo cognizioni tecniche specifiche, azzardai una dissertazione sulla
deprecabile perdita d’espressività da parte delle automobili delle ultime generazioni rispetto a quelle della mia infanzia. Sostenevo che era diventato sempre più difficile vedere in
circolazione automobili che possedessero una faccia, come invece succedeva abitualmente
negli anni sessanta. Citavo la Renault Dauphine come ottimo esempio di auto bonaria,
l’inconfondibile espressione da pesce predatore della Citroën DS, il sorriso largo e un po’
imbarazzato della Fiat 1100 e paragonavo il tutto alla fissità dello sguardo da crotalo della
neonata Ritmo.
Terminato e consegnato il mio compito in classe, la vice capo redattore, che, per
combinazione, aveva modi e sembianze di una professoressa, lo lesse con molto interesse.
Osservando riga dopo riga la sua, di espressione, mi resi conto di averla spiazzata a sufficienza.
«Che fantasia…» buttò lì alla fine, senza riuscire a farlo sembrare un complimento.
«Una domanda, però: che cos’è un crotalo?»
In ogni caso passai l’esame, e il primo ottobre del millenovecentosettantanove venni assunto in prova. Dal giorno del mio congedo era incredibilmente già trascorso un
anno, bruciato nella libertà e nella disoccupazione a una velocità supersonica rispetto al
precedente.
Ora, per la seconda volta nella mia vita, provavo l’ebbrezza di timbrare il cartellino
tutti santi giorni. La prima, avevo sedici anni: finita la scuola, insieme all’immancabile
Daniele, passavo i pomeriggi lavorando come retrocassa al supermercato Unes di piazza
Damiano Chiesa con l’obiettivo di guadagnare i soldi necessari per comprarmi una nuova
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chitarra, nientemeno che una Eko Ranger 12 corde elettrificata.
Il compito di noi retrocassa, infime figure professionali estinte da molto tempo, era
quello di stare accanto alle cassiere (che a quei tempi ante codice a barre dovevano battere ogni prezzo dopo averlo letto) per insacchettare la spesa dei clienti. Se eri fortunato,
qualche signora automunita ti chiedeva di portarle i sacchetti fino alla macchina e allora
ci scappava la mancia. Quando i clienti erano pochi, venivamo mandati nel sotterraneo a
compattare in balle i cartoni vuoti con una pericolosa pressa idraulica che di mance non
ne dava.
Da retrocassa ad aspirante giornalista automobilistico il salto di qualità era notevole,
ma la soggezione che provavo ogni mattina infilando il cartellino nella fessura sotto l’orologio era la stessa.
Per raggiungere il mio nuovo posto di lavoro in quel di Rozzano dovevo prendere
due tram, e una volta arrivato al capolinea del secondo mi aspettava (si fa per dire) un autobus extraurbano, che dopo una decina di minuti apriva le sue porte esattamente davanti
all’Editoriale. In certe mattine grigie e nebbiose, quando l’autobus ripartiva rivelandomi il
cancello dall’altra parte della strada mi sentivo un po’come la Vincenzina davanti alla fabbrica di Jannacci. Al di là di quel cancello c’era un complesso di edifici a un solo piano: il
principale ospitava le redazioni, un altro la mensa, poi c’era l’officina e, fiore all’occhiello,
un piccolo museo dell’automobile.
Dividevo un ufficio-bunker (aveva le finestre a feritoia troppo in alto per poter
guardare fuori) con un giovane di buona famiglia e di belle speranze che sapeva tutto di
auto e che ambiva, più che a scriverne, a fotografarle. Così oltre al dovere gli lasciavano
fare anche il piacere come fotografo in seconda. Era abbastanza simpatico, lavorava lì da
un paio d’anni e sembrava proprio che gli piacesse.
Subito mi diedero da sbrigare un po’ di lavori da poco, come sistemare in un italiano decente le traduzioni brutali degli articoletti estrapolati dai giornali automobilistici
stranieri o inventarmi lettere credibili in cui lettori inesistenti ponevano casualmente le
questioni a cui il giornale voleva dare una risposta. Siccome a questi lettori dovevo dare
un’identità, mi divertivo a far firmare le lettere con nomi e cognomi di amici, ai quali
avrei chiesto alla prima occasione come mai avessero sentito il bisogno di scrivere al giornale per domandargli come risolvere il problema dell’appannamento dei vetri, oppure
ogni quanto far controllare la convergenza.
Pensavo che quello sarebbe stato il mio compito per chissà quanto tempo, perciò mi
stupii quando invece, pochi giorni dopo, mi affidarono un vero e proprio articolo di quelli corposi: vita, morte, miracoli e manutenzione della batteria. Era un argomento stagionale di grande importanza, da affrontare prima dei grandi freddi. Confesso che quando il
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numero uscì in edicola, con il mio nome tra i collaboratori e l’articolo “Arriva l’inverno,
difendiamo le batterie” firmato P.P. e la mia mano che reggeva un densimetro immortalata in
una foto scattata dal mio compagno di ufficio, una certa soddisfazione la provai.
Sembrava semplice, fare il giornalista. E sembrava semplice assuefarsi alla routine
di quel mondo singolare chiuso da una recinzione, controllato all’ingresso da una guardiola, isolato dalla città. Come una caserma, pensai, cominciando a sospettare che l’anno
di militare trascorso in fondo non fosse stato altro che un’educativa rappresentazione
allegorica del mondo del lavoro, dipinta a tinte esageratamente forti, affollata di maschere
grottesche, ma più che veritiera nella sostanza.
Non era difficile vedere i personaggi con cui avevo a che fare, i ruoli che interpretavano e le dinamiche con cui interagivano, come versioni ammorbidite e ripulite degli
stessi caratteri, degli stessi gradini di una scala gerarchica dove al merito non sembrava mai
corrispondere la posizione.
Non mancava nessuno, né tra le fila degli ufficiali superiori, distanti e distratti da
compiti supremi, né tra i sottufficiali dalla battuta facile, che a ora di pranzo s’incamminavano pigramente a gruppetti verso la mensa parlando di figa. La differenza maggiore tra
loro e le allegorie in divisa stava nella convinzione con cui vivevano il proprio ruolo, la
propria missione. In un anno di caserma non avevo mai visto un militare di firma votato
all’esercito come loro lo erano all’automobile in tutte le sue forme. Poter vedere, toccare,
annusare, guidare in anteprima un nuovo modello di macchina, anche la più popolare
delle utilitarie, era per loro pura gioia. A loro le auto non piacevano, semplicemente le
amavano. Anche per questo motivo, non soltanto per un calcolo economico e di tempo,
non me la sarei mai sentita di andare al lavoro con la mia lurida 500 di seconda mano.
Non avrei mai potuto affrontare lo sguardo di un archivista, un vero caso clinico, che tutti
i giorni arrivava mezz’ora prima per avere il tempo di asciugare ben bene con la pelle di
daino la sua 127 dall’umidità della nebbia quand’era inverno e di ripulirla dai moscerini
nella bella stagione.
Frequentarli non mi aveva cambiato: per quanto avessi potuto apprezzare l’odore di cuoio e cera per mobili che avvolgeva l’abitacolo della Bentley
del venerato padrone, la sera in cui il mio compagno di bunker mi ci aveva fatto sedere di soppiatto, e nonostante mi sembrasse stupenda un’enorme Isotta Fraschini modello Paperon De’ Paperoni che di tanto in tanto veniva rumorosamente mossa dal museo, per me le auto erano e rimanevano soltanto dei mezzi trasporto.
Più o meno belli da vedere, divertenti da guidare, utili da avere, ma soltanto mezzi
di trasporto. Ovviamente l’avevano capito, e credo proprio che fu per questo e non per la
mia sintassi che verso la fine dei due mesi di prova mi dissero con rammarico che non mi
ritenevano adatto a quel posto. Gli dissi che lo pensavo anch’io, senza dubbio alcuno.
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E così ricominciai a chiamare i grandi copywriter per sapere se durante i due mesi
che avevo passato sul pianeta auto il “magari più avanti” si fosse trasformato in qualcosa
di un po’ più promettente. Fu in quel periodo che cominciai a frequentare Mario, il personaggio che avrebbe dato una decisa svolta alla mia vita, e non solamente dal punto di
vista professionale.
Mario, che quasi tutti chiamavano per cognome il Natalini, lo conoscevo di vista
dai tempi del liceo, come amico di amici. Data la sua non comune stazza da armadio a
due ante non era facile dimenticarselo o confonderlo con qualcun altro. Lo incontrai un
giorno ai giardini del Beccaria, ancora crocevia obbligatorio per tanti di noi del Sempione,
mentre faceva pascolare l’Armanda, la sua inseparabile compagna pelosa raccolta in un
canile, e cominciammo a parlare del più e del meno.
Io e Mario avevamo in comune un po’ di cose, oltre all’anno di nascita e a una
sorella maggiore sposata. Anche lui aveva perso il padre per colpa di un infarto qualche
anno prima. Io però una mamma ce l’avevo ancora, mentre la sua era morta sotto una
slavina mentre stava sciando quando lui era molto piccolo. Ma la vera differenza tra noi
due era data dalla considerevole quantità di soldi di cui si era trovato a disporre a poco più
di vent’anni d’età.
Suo padre era stato un tipico rappresentante della categoria dei cumenda degli anni
sessanta, personaggi che si erano fatti dal niente, forti della loro tenacia e di un periodo
storico ideale per le loro idee imprenditoriali. Nel primo dopoguerra girava in bicicletta
la campagna emiliana insieme al padre, con la macchina da cucire e le pezze di stoffa sul
portapacchi. Andavano di cascina in cascina e là dove qualcuno aveva bisogno di un abito
nuovo si fermavano per il tempo necessario a farlo.
Una ventina d’anni dopo era proprietario di un’azienda tessile, miliardario quando
già i milionari erano nababbi.
Gli anni settanta non furono certo i sessanta e l’azienda finì poi per fallire, ma
questo non impedì a Mario di ritrovarsi ad essere un orfano molto ricco. Eppure, contrariamente a quello che avrebbero fatto molti altri ventenni nella sua condizione, Mario non
esibiva il suo denaro facendo il figo, e questa era una delle cose che più apprezzavo di lui.
Davanti al Bar Nievo non parcheggiava una spider ultima serie, ma una Opel famigliare
(il termine station wagon e il suo annesso fascino dovevano ancora arrivare) comprata
pensando alla comodità dell’Armanda.
E da quella macchina non scendeva sistemandosi la camicia oxford nei pantaloni
di Bardelli e dandosi un contegno, ma dondolando sui suoi piedoni piatti, vestito come
avrei potuto esserlo io, con la maglietta sudata fuori dai jeans e le scarpe da ginnastica.
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Questo suo understatement non bastava però a dissuadere una pletora di sciacalli a
tentare di approfittarsi di lui, mostrandosi untuosamente amici solo per scroccare una
domenica nella sua villa in campagna, dove accanto alla piscina coperta si poteva giocare
a biliardo o per farsi prestare a tempo indeterminato l’Hercules, l’Honda 500 o la Volkswagen Pescaccia che dormivano nel suo garage.
Qualcuno mirava più in alto, proponendogli di mettere un po’ di grana in qualche
affare balordo, o peggio, su un cavallo che non poteva perdere la tal corsa. Lui andava a
simpatie, sempre generoso ma tutt’altro che stupido, si faceva fregare solo quando e da chi
gli garbava.
Per quanto riguardava me, penso che si accorgesse della mia naturale propensione a
stare tra i pochi che lo frequentavano per amicizia e non tra i molti che lo cercavano per
interesse, e probabilmente gli piacevo anche per questo. Dopo esserci annusati nei lunghi
pomeriggi liberi, riconoscendoci come orsi, diventammo un’abitudine reciproca. La vita
nello zoo milanese cominciava ad andare stretta a tutti e due, e tutti e due, con le doverose
differenze d’ampiezza, sognavamo qualcosa di diverso. Io non sapevo di preciso cosa, lui
un allevamento di cavalli.
Un giorno lo incontrai poche ore dopo aver finalmente ricevuto la prima, inaspettata offerta di lavoro come junior copywriter. Un’agenzia satellite della leggendaria Young
& Rubicam, specializzata nel below the line (ovvero in tutto ciò che i creativi di serie A schifavano, come volantini, promozioni e cose del genere) era pronta a prendermi tra le sue
autorevoli braccia.
Avrei dovuto esserne contento, anche solo per il fatto che si trattava comunque di
pubblicità e non di automobili, ma mi sorpresi a non esserlo affatto. A una prima, istintiva felicità per essere stato considerato, era subito seguito un senso di sconforto di fronte
alla strada che avevo davanti, che in quel momento mi appariva in salita e tutt’altro che
invitante.
«Quanto ti danno?» chiese Mario dopo che gliene parlai.
«Centomila come rimborso spese, per cominciare.»
«E dopo?»
«Dopo non so.»
«Dai, perché non vieni con me a lavorare con i cavalli?»
E io non riuscii a trovare un buon perché.
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