L`osservazione e la pratica psicoanalitica negli stati primitivi
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L`osservazione e la pratica psicoanalitica negli stati primitivi
Questo libro, autoprodotto nel mese di novembre 2015, raccoglie gli interventi presentati alla giornata di studio su "L'osservazione e la pratica psicoanalitica negli stati primitivi della mente: il contributo di Maria Peluso" tenutasi a Napoli, il 22 novembre 2014. Il libro è realizzato per sola consultazione privata. È consentita la copia per uso personale. E' consentito utilizzare parti del contenuto o l'intero libro a condizione di citarne la fonte: "L'osservazione psicoanalitica e gli stati primitivi della mente. Il contributo di Maria Peluso", a cura di Giuseppe Palladino, 2015. Progetto a cura di Giuseppe Palladino. Grafica e Impaginazione di Ornella della Monica Codice ISBN: 978-88-941437-0-6 INDICE Prefazione Contributo di Giovanna Maria Mazzoncini (Presidente dell’A.I.P.P.I.) Contributo di Grazia Mineo (Direttore della Scuola di Specializzazione dell’A.I.P.P.I.) Stati primitivi della mente. Note dagli scritti di Maria Peluso di Lorenzo Iannotta(Segretario Scientifico dell’A.I.P.P.I.) L’insegnamento di Maria Peluso: note introduttive di Carmela Guerriera (Segretaria dell’A.I.P.P.I. Napoli) Per una biografia psicoanalitica di Giuseppe Palladino (Coordinatore della sede di Napoli della Scuola di Specializzazione dell’A.I.P.P.I.) Le convergenze del pensiero di Bion con alcuni aspetti della psicoanalisi argentina: la lettura di Maria Peluso, di Giuliana Milana (già Presidente e Direttore della Scuola di Specializzazione dell’A.I.P.P.I.) Travaglio psichico e fuochi del pensare: (s)oggetti, osservazione, cesura di Antonio Vitolo (già Presidente A.I.P.A.,analista didatta junghiano) Clinica, Teoria e Tecnica nel modello di cura psicoanalitica: il contributo di Maria Peluso, di Floriana Vecchione e Elisa Zullo (socie A.I.P.P.I.) Rigore e duttilità: un equilibrio complesso, nel metodo e nella tecnica. La testimonianza di Maria Peluso nella clinica e nella didattica di Maria Antonietta Lucariello (socia didatta A.I.P.P.I.) Maria Peluso :"L'identificazione proiettiva e il contenimento quali punti nodali nell'affiancamento del lavoro con i genitori a quello con il paziente bambino" Ringraziamenti Note ai contributi Prefazione Questa pubblicazione contiene le relazioni presentate nel corso della Giornata di Studio, tenutasi a Napoli il 22 novembre 2014, che l’ Associazione A.I.P.P.I. ha dedicato al lavoro clinico e teorico di Maria Peluso, una delle socie fondatrici nonché docente e didatta della Scuola di Specializzazione dell’Associazione. I contributi in essa contenuti vengono pubblicati nella forma originariamente adottata dai diversi autori per conservare intatto lo spirito col quale sono stati presentati. Attraverso i diversi scritti dei colleghi e dell’ultimo lavoro di Maria Peluso (anch’esso qui pubblicato), confidiamo di riuscire a testimoniare validamente la qualità del suo lavoro e l’influenza che la nostra collega ha esercitato nel nostro gruppo professionale con le sue spiccate doti personali e con la linea di ricerca da lei aperta attraverso i suoi studi approfonditi e la sua vasta esperienza clinica e didattica. Intervento di Giovanna Maria Mazzoncini Questo testo è una testimonianza di un percorso di studio, di sistematizzazione e di messa a punto di concetti psicoanalitici e di collegamenti teorici di vari autori che Maria Peluso ha costruito durante la sua vita. Esso rappresenta un lascito importante per chi, specie studente, voglia percorrere e approfondire quegli autori che, vicini al pensiero kleiniano e bioniano, hanno sviluppato maggiormente la ricerca intorno ai primordi della vita psichica e alla nascita del pensiero. Esso è anche un patrimonio per tutta l’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia dell’Adolescenza e della Famiglia e rappresenta un tratto biografico dell’associazione stessa, della quale Maria Peluso è stata fondatrice, partecipe sempre attiva e didatta generosa. La sua vita si è svolta in gran parte a Napoli e il suo tratto partenopeo di spontaneità, di ironia e di riservatezza, affiancava le sue grandi doti di osservazione e partecipazione attenta ed intelligente. Gli ultimi anni passati a Roma l’hanno vista sofferente per la sua salute ma sempre interessata alla vita associativa e il suo legame con Napoli è rimasto così forte che alla sua morte i suoi familiari hanno istituito una Borsa di Studio per gli allievi napoletani. Maria Peluso, da come possiamo leggere in questa raccolta di scritti realizzata con grande gratitudine dai soci napoletani, era profonda conoscitrice di quegli autori inglesi che hanno seguito lo sviluppo del pensiero bioniano. In tal modo, ha contribuito a mantenere vivo il rapporto tra l’Associazione e la Tavistock Clinic di Londra. Tra questi autori, per citarne solo alcuni, ricordiamo quegli psicoanalisti che per molti anni hanno continuato ad insegnare agli allievi dell’A.I.P.P.I., da Donald Meltzer a Martha Harris a Margareth Rustin a Isca Wittemberg ad Anna Alvarez. Nei suoi lavori, molti dei quali pubblicati sulla rivista Richard & Piggle, non solo si coglie la sua grande esperienza clinica e la sua passione per il lavoro psicoanalitico, ma anche un bisogno di rigorosa documentazione e riferimenti teorici puntuali, proprio di chi ha anche in mente il lavoro didattico e la responsabilità delle nuove generazioni. Altra caratteristica peculiare di Maria Peluso era la curiosità scientifica verso il nuovo, o comunque quello che non era già risaputo. I suoi lavori su un autore argentino, J. Bleger, non molto conosciuto in Italia, hanno permesso a molti soci di accostarsi all’area a lei cara, quale quella dei primordi della vita mentale e dei suoi funzionamenti primari. Questa raccolta di contributi, non solo è una testimonianza corale di riconoscenza verso Maria Peluso, ma un patrimonio di tutta l’Associazione a garanzia di una continuità rivolta al futuro dove le generazioni più giovani possano trovare la semina della passione e del rigore scientifico necessario al nostro lavoro psicoterapeutico. A nome di tutta l’Associazione che rappresento ora come Presidente spero che questo libro abbia un riconoscimento anche al di fuori dell’ambito associativo, dove il ricordo della nostra collega, amica e fondatrice, è vivo e che esso realizzi la speranza che ogni buona esperienza prolifichi e non si perda. Intervento di Grazia Mineo (Direttore della Scuola di Specializzazione dell’A.I.P.P.I.) 1 Abbiamo scelto per questa giornata un logo che appare coerente con l’argomento di cui discuteremo (l’osservazione e la pratica psicoanalitica negli stati primitivi della mente) e con la persona che vogliamo ricordare, Maria Peluso. E’ una immagine estremamente stilizzata, l’idea sembra essere quella della matrioska che già si può assumere a simbolo del succedersi delle generazioni e di come l’una faccia da contenitore alla successiva. Questa è una matrioska ridotta a tre personaggi; la figura più grande è solo una testa con un grande corpo-mantello ovoidale, aperto in basso, che contiene al suo interno una figura più piccola, simile a se stessa: un corpo-mantello che però si chiude completamente a proteggere, in una specie di amaca-culla, un bambinello anch’esso ovoidale. C’è un’altra differenza fra le due figure più grandi: in quella interna il mantello parte dal capo, in quella esterna dalle spalle. Quella esterna è una figura maschile e quella interna femminile? La forma ovoidale suggerisce l’idea della protezione e del nutrimento di cui la vita (anche mentale) ha bisogno per nascere. Ho fatto una immediata associazione con un celebre dipinto di Leonardo in cui appaiono Sant'Anna, San Giovannino e la Madonna col Bambino. Ricordo il cartone in cui la Madonna è in grembo a Sant'Anna, sua madre, che a sua volta tiene in grembo il Bambinello che gioca con San Giovannino: nel dipinto invece il Bambino é sceso dal grembo della Madre e questa, sempre in grembo alla propria madre, sembra accennare un gesto per trattenerlo. L’idea che il dipinto e il logo sembrano suggerire è che un piccolo per crescere bene ha bisogno di una doppia protezione: del pensiero della madre che accoglie il figlio e un pensiero esterno che li accolga tutti e due nel loro rapporto. Le associazioni con il nostro lavoro possono essere diverse e le più disparate. Qui mi limiterò a quelle che sono più pertinenti agli argomenti della giornata. Mi sembra facile associare l’immagine del logo alla nostra esperienza della osservazione madre-bambino in cui cerchiamo di osservare, di contenere nella nostra mente, di capire le emozioni che passano dal piccolo bimbo alla mamma e dalla mamma ritornano contenute e significanti, che trasportano conoscenza al bambino avvolto nel suo manto. Ed anche nella nostra esperienza di docenti e di supervisori noi rappresentiamo il contenitore esterno che accoglie le ansie, le preoccupazioni, le inadeguatezze del giovane apprendista terapeuta restituendogliele filtrate da connessioni e significati. Penso che tutto questo abbia fatto Maria e molti qui presenti ne hanno fatto esperienza e lo possono testimoniare. Vorrei aggiungere però che questa accoglienza e questo ascolto per essere significanti è necessario siano aperti alla conoscenza (il mantello aperto), curiosi di nuovi orizzonti, desiderosi di cercare conferme o disconferme, di affrontare in qualche modo l’ignoto, di fare confronti e accendere nuove luci: alludo qui allo studiare, all’approfondire, al rielaborare, al ripresentare ma anche al poter fare nuove conoscenze di proposizioni teoriche contigue e arricchenti, pur rimanendo agganciati saldamente a quelli che sono gli “irrinunciabili” concetti a cui ci ispiriamo. Penso che questo sia un aspetto molto importante della nostra professione: uno di quelli che ci aiutano a mantenere empatia per la sofferenza del paziente, dandoci l’entusiasmo e il piacere della scoperta. Penso che anche questo abbia fatto Maria. Lo testimoniano i suoi scritti, l’averci fatto conoscere Blegér e la scuola sudamericana. Solo dopo aver scritto questi pensieri ho scoperto con emozione che il logo scelto è una piccola scultura che Maria teneva in casa sul suo tavolo. Stati primitivi della mente. Note dagli scritti di Maria Peluso di Lorenzo Iannotta Le concettualizzazioni sugli “stati primitivi della mente”, uno dei capisaldi dei riferimenti psicoanalitici di Maria Peluso, fanno riferimento agli esordi della vita mentale e ai livelli più primitivi del funzionamento della mente, al periodo cosiddetto pre-edipico o, seguendo la concezione kleiniana, agli stati anteriori alla comparsa della posizione schizo-paranoide. In questo breve contributo cercherò di ripercorrere queste teorizzazioni attraverso gli scritti di M. Peluso, necessariamente rimandando alle sue pubblicazioni per un approfondimento. Anticipo che l’impressione che ne ho ricavato è stata di un insieme coeso di teorie che rendono il tema chiaro e utilizzabile nella clinica. Sappiamo che le modalità che vengono usate per descrivere aspetti complessi della teoria psicoanalitica sono decisive per aprire o, al contrario, per chiudere - il desiderio di conoscere davvero, possono o meno incoraggiare a percorrere sentieri in cui altri si sono avventurati prima di noi, possono o meno permettere di appropriarsi degli strumenti necessari a proseguire nel cammino della comprensione. Nel 1897 Tolstoj scriveva: “Secondo il solito, quanto più il concetto veicolato da una parola è nebuloso e confuso, tanto più la parola stessa è adoperata con tanta maggiore sicumera fingendo che il senso è troppo semplice e troppo chiaro, tanto che non vale la pena di determinarlo meglio”. Non così nelle pubblicazioni di M. Peluso che si sono succedute su questi temi tanto che si può ritenere, sempre con Tolstoj, che il suo puntuale studio e le sue scelte permettono di utilizzare questi concetti in forma “intellegibile e accessibile a tutti”: “Ciò che è in gioco nell’arte è esattamente questo: rendere intellegibile e accessibile a tutti ciò che potrebbe risultare inintelligibile e inaccessibile in una forma intellettuale”. La concettualizzazione di Peluso deriva dalla composizione di un dialogo tra Autori diversi: M. Klein, Bion, Bleger, Meltzer, Harris, Bick e, più in generale, il pensiero postkleiniano inglese, quello argentino e, in parte, quello francese. La sintesi conseguente non è la summa delle parti ma un approccio che valorizza la comprensione degli stati primitivi della mente nella clinica psicoanalitica. Scrive: “Le teorizzazioni sui processi primari di scissione (Klein, 1946; 1957), come pure sulla concezione della bipartizione ab initio della personalità in una parte psicotica ed una non psicotica (Bion, 1957; Bleger, 1967), hanno permesso e favorito la ricerca e l’indagine psicoanalitica verso i livelli più primitivi dello sviluppo della mente e delle loro dinamiche. Da questi livelli si snoda, fin dalla sua preistoria, la vita mentale nella sua doppia matrice individuale e gruppale. Le patologie più gravi oggi appaiono infatti potersi radicare nella indifferenziazione originaria sé - madreambiente – sistema proto-mentale (Bion, 1961), posizione glischro-carica (Bleger, 1962), processo originario (Aulagnier, 1975) – fino ad avvicinarsi e ad alimentarsi con la ricerca e le ipotesi sulla trans-generazionalità (Kaës 1993).” (Peluso, 2013, pag 67). In base a considerazioni di questo tipo Peluso tratta il processo della diagnosi psicoanalitica e dell’assessment in tre scritti che prendono in attenta valutazione, rispettivamente, il contributo di Bion (2009), quello di Bleger (2010) e i rispettivi concetti di “cesura” e “clivaggio” (2013). Peluso sottolinea in questi scritti come la diagnosi psicoanalitica è molto più che un “compito preliminare alla presa in carico psicoterapeutica di un paziente. Essa è una funzione conoscitiva, che perdura e si va approfondendo nel corso dell’intera relazione transferale” (2009, pag. 24). Questa è una precisa presa di posizione perché porta a considerare la relazione transferale e la sua interpretazione come il fulcro che permette allo psicoterapeuta di avvicinare la storia del paziente nei suoi aspetti più primitivi. Seguendo questo orientamento teorico-clinico l’uso del transfert, coniugato con l’uso della differenziazione bioniana tra “parte psicotica della personalità” e “parte non psicotica”, permette di tener conto dello stato proto-mentale, stato in cui si confondono la mente e il corpo, l’individuo e il gruppo e le rispettive modalità di funzionamento. Spiega Peluso: «Lo stato proto-mentale – deputato al “sentire” – è separato dalla vita mentale – improntata alla differenziazione e al pensare – da una “cesura”, la quale costituisce, però, anche la connessione tra i suddetti territori della mente. In questo stato iniziale, tuttavia, la parte psicotica e quella non psicotica della personalità coesistono parallelamente come strutture predisponenti organizzazioni e modi di funzionare distinti della mente. Orbene, è proprio da questa premessa – la compresenza iniziale delle due parti della personalità – che può derivare l’affermazione sia che esista ab initio «un certo tipo di pensiero» […] sia che nello psicotico i problemi da risolvere riguardano sempre e la parte psicotica e quella non psicotica (Bion, 1957, p. 91).» (Peluso, 2009, pagg. 21-22). Si tratta dunque di prendere in considerazione determinati aspetti dell’angoscia a cui corrispondono specifici meccanismi di difesa e specifiche modalità di rapporto con l’oggetto. Negli scritti di Peluso l’interesse di Bion per lo sviluppo arcaico della mente viene coniugato con l’interesse convergente dello psicoanalista argentino José Bleger: «In Bleger troviamo punti di contatto e confronti, oltre che con la Klein, con Fairbairn, con la Bick, con Meltzer e con Rosenfeld e, soprattutto, con le tematiche teoriche e cliniche sviluppate da Bion. Con quest’ultimo Bleger condivide il fondamentale interesse per la ricerca intorno allo sviluppo arcaico della mente e alla pre-disposizione di questa verso la relazione e il pensiero; interesse per il quale, nel suo sistema concettuale, si integrano fra loro – come in Bion – le ricerche sullo sviluppo precoce, sul funzionamento della personalità psicotica e sul funzionamento dei gruppi.» (Peluso, 2010a, pag. 64). Peluso individua nel “nucleo agglutinato” teorizzato da Bleger l’equivalente del “sistema proto-mentale” teorizzato da Bion: «In Bleger, con l’espressione “clivaggio della parte psicotica” si intende l’isolamento del nucleo agglutinato da parte dell’Io, cioè l’isolamento della parte indifferenziata Io-oggetto la quale precede la divisione schizoide, a partire dalla quale l’oggetto proiettato, prima parziale e successivamente intero, comincia ad essere progressivamente discriminato nelle sue componenti. Con l’espressione “separazione della parte psicotica”, invece, si indicano processi separativi più evoluti – cioè più discriminativi e meno rigidi – che connotano un Io più forte e integrato e un oggetto meno indifferenziato e invasivo.» (Peluso 2010a, pag. 67). Un confronto tra due Autori che conduce allo scritto sulla “cesura” (Bion) e sul “clivaggio” (Bleger) in cui l’interesse è rivolto ai momenti di passaggio da uno stato della mente all’altro, dall’osservazione dei livelli più primitivi della mente a quelli più evoluti: “In questi punti di transito sembrano instaurarsi e operare delle “cesure” per proteggere l’Io e le sue funzioni dall’invasione di contenuti allaganti, portatori di ansie molto gravi – catastrofiche, confusionali – appartenenti a stati molto arcaici e indifferenziati dello sviluppo, espressi dai livelli psicotici di funzionamento. Sono cesure che separano, ma anche connettono questi diversi territori della mente, il legame tra i quali è fondamentale possa essere mantenuto e/o riguadagnato in un trattamento psicoanalitico (Bion 1977a; 1977b; Bleger 1962; 1964b; 1967), attraverso l’instaurarsi di processi di discriminazione prima e di integrazione poi da parte del paziente. La riconnessione di tale legame può permettere all’Io di acquisire forza e – nel corso della relazione psicoanalitica, attraverso il contenimento e l’interpretazione dell’analista – di riparare le proprie carenze o mancanze pregresse e di deporre le difese limitanti e/o disfunzionali utilizzate precedentemente.” (Peluso, 2013, pag. 68). È questa una indicazione operativa per includere nel lavoro psicoterapeutico anche ciò che resta a livello pre-verbale, pre-simbolico, tutto ciò che resta fuori anche dal circuito pulsionale ed oggettuale. Più che un lavoro sugli aspetti scissi, che in ogni caso prima erano uniti e poi sono stati allontanati e tagliati fuori, qui l’accento è sul “non integrato”, sugli aspetti meno maturi. Sappiamo che la mancanza di integrazione, che è radicata nei momenti più precoci dello sviluppo, quando si organizza come difesa può manifestarsi in ogni momento della vita dell’individuo minando il funzionamento della struttura di personalità al punto che i livelli più evoluti possono essere colonizzati dai livelli più primitivi. È allora fondamentale prendere in considerazione questi livelli sia nella valutazione che nella successiva psicoterapia. In modo condensato tutta l’importanza che Peluso riserva al tener conto degli stati primitivi della mente si rileva in una relazione presentata al Convegno Aippi del 2006, in cui scrive: “Nell’esperienza psicoanalitica, il punto di radicamento delle patologie più gravi - tali da disturbare pesantemente la relazione, lo sviluppo, il pensiero - appare quello dei momenti iniziali del rapporto con la madre, tanto iniziali da collocarsi ancor prima della nascita, in una fase di indifferenziazione quale quella gestazionale-fetale.” (Peluso, 2010b). Poche righe che illustrano chiaramente elementi clinici e teorici fondamentali per la comprensione dei livelli di funzionamento mentale più precoce e dei pazienti gravi, degli “stati primitivi della mente”, in quanto vengono messe in evidenza le aree del disturbo compromesse (relazione, sviluppo e pensiero), il contesto temporale da tener presente (momenti iniziali del rapporto con la madre), una concezione teorica precisa, quella della continuità tra la vita fetale e neonatale che richiama la famosa e solo accennata concezione di Freud sulla continuità: “Tra la vita intrauterina e la prima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci credere la impressionante cesura dell’atto della nascita” (Freud, 1925, p. 286). Queste indicazioni di lavoro risultano particolarmente utili nella pratica clinica perché è esperienza comune incontrare situazioni in cui sono prevalenti livelli di disorganizzazione come quelli fin qui descritti o in cui l’attenzione a considerare queste stratificazioni può portare ad evidenziare configurazioni psichiche che resterebbero incistate e non considerate se non si tenesse conto di questi livelli arcaici. Concludo queste brevi considerazioni ricorrendo ancora ad una citazione da un testo di M. Peluso: «Se il fine di un trattamento psicoanalitico è di ripristinare uno sviluppo del carattere e della personalità di un individuo, di permettergli di riorganizzarsi il sistema delle sue difese dalla sofferenza psichica e quello delle sue relazioni d’oggetto, che tale sviluppo hanno difficoltato o impedito, appare subito chiaro che solo attraverso il ripetersi delle sue relazioni primarie danneggiate/danneggianti - con nuovi esiti nel transfert con l’analista - può riavviarsi la loro riparazione e la crescita mentale» (Peluso, 2014, pag. 97). Bibliografia Freud S. (1925), Inibizione, sintomo e angoscia. OSF: 11. Torino, Boringhieri, 1979. Peluso M. (2009), La differenziazione tra personalità psicotica e non psicotica in Bion quale fondamento della clinica: la funzione diagnostica. Richard e Piggle, 17, 1: 7-25. Peluso M. (2010), La consultazione psicoanalitica alla luce dei criteri di diagnosi e di cura di Josè Bleger, in Richard e Piggle, 18,1:62-81 Peluso M. (2010b), Livelli embrionali della relazione madre-bambino. Andrea: difficoltà di apprendimento e retroterra arcaico. Quaderni di psicoterapia infantile, 59, Roma: Borla Peluso M. (2011), Introduzione al sistema teorico di José Bleger: una riflessione sull’intreccio tra clinica, teoria e tecnica. Richard e Piggle, 19, 4 Peluso M. (2013), La «cesura» e il «clivaggio» quali indici di valutazione nella prassi psicoanalitica. in Richard e Piggle, 21, 1 Peluso M., L’osservazione del bambino quale esperienza di apprendimento del metodo psicoanalitico, Richard e Piggle 22, 1, 2014 Tolstoj Lev (1897), Che cos’è l’arte? Trad. it. Donzelli editore, 2010 L’insegnamento di Maria Peluso: note introduttive di Carmela Guerriera Gli organizzatori della giornata dedicata a Maria Peluso, miei colleghi, hanno pensato che per esprimere in diversi modi l’apprezzamento e la gratitudine per ciò che ella ci ha trasmesso, comunicato e voluto condividere con noi, il modo migliore fosse di ripercorrere le sue esplorazioni psicoanalitiche, oggetto dei suoi scritti e delle sue lezioni e supervisioni, fatte per gli allievi della nostra Scuola di specializzazione, ma anche il modo originale, vivace e stimolante con cui ci parlava dei suoi studi e potenziava in noi la passione per la psicoanalisi. Altri relatori parleranno nello specifico della sua concezione della psicoanalisi alla luce dei grandi pensatori, con una spiccata preferenza per la psicoanalisi argentina, rappresentata da J. Bleger, coniugata e in linea di estensione con il pensiero della Klein, di Bion e di quanti in loro si sono riconosciuti e ne hanno seguito le orme. Altri ancora la ricorderanno come collega, come una dei fondatori dell’A.I.P.P.I., come didatta. Io la vorrei ricordare innanzitutto nel suo manifestare un forte senso di appartenenza all’A.I.P.P.I. e per la sua particolare vicinanza affettiva a noi soci della sede napoletana alla quale afferiva. Credo di poter dire che per noi ella è stata ciò che viene definito in psicoanalisi di gruppo un Genius loci che… “ha il compito di animare o rianimare l’identità del gruppo, promuovendo nei suoi membri il senso di appartenenza e collegando il progresso del gruppo alla sua base affettiva” e ancora “…preservare l’identità del gruppo pone quest’ultimo al riparo dalla necessità di fare ricorso all’idea di un nemico o a una rigida delimitazione tra interno ed esterno” (C. Neri, 2004, p.70). Cosicché, aggiungo io, la vita del gruppo venga vissuta dai suoi membri come distinta e non contrapposta a ciò che ciascuno è, vive e desidera in quanto soggetto al di fuori del gruppo. Ciò è riferito al piccolo gruppo a funzione analitica, pertanto, a mio parere applicabile anche al nostro gruppo associativo psicoanalitico; conveniamo, con Bion, che il pensiero è una funzione della personalità, per cui consideriamo che, per noi formati alla psicoanalisi, sia il pensiero psicoanalitico una funzione della nostra personalità. Maria ci ha sempre incoraggiati a studiare, a lavorare in senso psicoanalitico, a pensare anche ad una psicoanalisi non confinata negli studi privati, e io sono certa, quindi, che sarebbe stata molto contenta di vedere come siamo alla fine riusciti a far nascere un Centro clinico dell’A.I.P.P.I. di Napoli, come luogo delle varie forme di clinica psicoanalitica, ma anche di quella psicoanalisi operativa che raggiunge operatori e gruppi in diversi modi impegnati in relazioni di aiuto o soggetti che esperiscono come insostenibili gli effetti di una crisi nel corso della loro vita; un centro clinico che vuole essere riferimento e sostegno alla formazione degli allievi e luogo di ricerca attiva. L’insegnamento di Maria Peluso è andato nella direzione di non saturare la domanda di un sapere psicoanalitico, con teorie e clinica preformate ma di mantenere sempre uno spirito osservativo e aperto e di allargare l'area di applicazione della psicoanalisi. Cercheremo di proseguire su questa strada, verso cui ella stessa ci ha indirizzato. Un ricordo personale: le ultime volte che ci siamo sentite, alcuni mesi dopo la mia assunzione dell’incarico di Segretario della sede napoletana dell’A.I.P.P.I., mi ha incoraggiata ad impegnarmi con fiducia nel gruppo, a non temere né il confronto né il conflitto e fare di questo, anche dei momenti e delle aree di conflitto gruppale, che sono connaturati alla vita di un’associazione, una risorsa e di credere in ciò che pensiamo e possiamo creare insieme. Ho avuto l’onore di essere accompagnata nel mio training dalla supervisione di Maria Peluso, e il caso da lei supervisionato divenne il caso con il quale conclusi il mio training qualificandomi; un’analisi durata nove anni ed una supervisione prolungata, che, per volere di entrambe, è andata ben oltre il tempo richiesto dalla Scuola. Inizialmente, da giovane allieva, il rigore e il puntuale richiamare l’attenzione sulle possibili derive delle reazione controtransferali, lo spingere ad individuare il transfert, ad interpretarlo, era molto faticoso e quindi sviluppavo molte resistenze. Una supervisione generosa, la sua, ma anche serrata direi, contro la quale spesso avrei voluto ribellarmi, ma che poi alla fine ci ha trovate a emozionarci insieme per degli esiti anche insperati e provo gratitudine per questa che non è stata solo una supervisione, bensì un incontro umano sempre molto proficuo; più passavano gli anni e più diventata indispensabile per me riferirmi a quella esperienza con gli altri pazienti e spesso confrontarmi con lei anche su quanto accadeva nella nostra Associazione, un’occasione per me di ritrovare una parola chiarificatrice. La ricordo per l’attenzione che ha sempre avuto alla persona nella sua interezza; invitava ad essere presenti e attendibili, a capire l’importanza e la responsabilità del prendersi cura di qualcuno e di resistere, di non scoraggiarsi di fronte all’incomprensibile e alla forza delle angosce più primitive del paziente. Tra le cose importanti che Maria Peluso mi ha trasmesso c'è il porre attenzione sempre a ciò che va al di là di quanto la persona sofferente dice e fa o non dice e non fa: che si tratti di un bambino, di un adolescente o di un adulto, c’è stato e continua a esserci in lui un bambino molto piccolo, infante, che chiede la parola, che chiede una riparazione o una possibilità di riparare, che in prima persona e in un allora mai diventato storia perché irrappresentabile, non ha potuto fare, per la quale i suoi oggetti non l’hanno soccorso, nella sua relazione primaria; pensare sempre a questo, che c’è una domanda di aiuto che assume le forme più diverse e di ricordare sempre che ogni soggetto è il soggetto del gruppo, è il soggetto che si costituisce nell’intersoggettività diremmo oggi; guardare allo psichismo della persona in relazione a quello familiare (pensiamo alla concezioni di Bleger cui tanto si è rivolta Maria Peluso), gruppale, ed ascoltare quanto di più arcaico appartiene al paziente e contemporaneamente contattare le parti più integrate, più differenziate anche, quelle più nevrotiche potremmo dire; lavorare nella direzione del legame, sostenere gli aspetti vitali affinché dei legami spezzati possano essere ricostituiti, dei legami di pensiero, emozionali, e laddove essi abbiano subito una cesura o un clivaggio, interrogarli, come ci invitano Bion e Bleger; far sì che il paziente si senta sostenuto, contenuto, attraverso una funzione che sia anche differenziante e simbolizzante. Di tutto ciò io sono grata a Maria Peluso. Per una biografia psicoanalitica di Giuseppe Palladino Come Coordinatore della sede di Napoli della Scuola di Specializzazione dell'A.I.P.P.I., mi ero proposto di descrivere il contributo dato da Maria Peluso alla Scuola. Ho realizzato poi che, in riferimento al nostro rapporto di amicizia e di colleganza pluridecennale, non potevo esimermi dal fornire alcune informazioni che avrebbero potuto contribuire ad una descrizione del suo lavoro e delle caratteristiche personali che lo hanno informato e contraddistinto. Per scrivere questa breve nota ho potuto utilizzare, oltre ai miei ricordi personali e alla lettura di diversi scritti di Maria, brani dell'intervista che in due riprese ella mi concesse tra l'estate del 2012 e quella del 2013 per una sua pubblicazione sul sito internet dell'A.I.P.P.I., mai avvenuta a causa del suo mancato completamento. Mi sembra opportuno cominciare da quanto lei mi disse all'inizio della nostra ultima intervista: «Ciò che mi interessa molto in questo momento è il procedere della clinica in connessione con la teoria e vedere come certe teorie procedono e si chiariscono, appaiono nei pensatori successivi ma sono contenute nei pensatori precedenti, come davvero i pensieri si spostino, si evidenzino nel passaggio da una mente all'altra, da un tempo all'altro». Lo stesso concetto Maria lo aveva espresso anche in un altro momento dell'intervista riferendosi a se stessa: «Sono convinta che c'è un programma interno nella vita di ognuno che si chiarisce a mano a mano che prende forma. Nel mio caso, l’interesse per la conoscenza psicoanalitica è nato sulla spinta dell'analisi personale. Le cose che accadono hanno un retroterra molto antico e poi si combinano. In qualche modo hai seguito una via ma non ad un livello consapevole: essa si chiarisce col tempo attraverso quello che avviene dopo. Queste cose appaiono dapprima distaccate e non integrate fino a quando ad un certo punto si realizza un'integrazione». Il processo descritto appare simile a quello dell’analisi, ma anche a quello dello sviluppo della conoscenza scientifica che si realizza attraverso il concorso dell’apporto di più pensatori. Vediamo dunque, attraverso le sue parole, a quale oggetto del funzionamento psichico ella rivolse il suo interesse. In base ad esse potremo comprendere i successivi sviluppi del suo pensiero e della sua elaborazione teorica. «Fin dagli inizi della mia vita professionale, in ospedale psichiatrico e nel lavoro clinico con il primo bambino che ho avuto in trattamento, ho provato interesse per l’”innesto” della mente nel corpo. Ritengo che l'interesse della mente possa nascere e approfondirsi occupandosi del bambino piccolo e dei livelli molto arcaici del suo funzionamento mentale, che poi sono quelli che si ritrovano quando ci si occupa del disagio psichico e della malattia mentale». Sottolineo che nel momento in cui mi parlava, Maria era già gravemente ammalata ma, come si vede, continuava a provare un profondo interesse per la conoscenza e, aggiungo, per metterla a disposizione degli altri, in particolare dei futuri professionisti. «Penso che sia molto utile aiutare i giovani a vedere questi passaggi, come i pensieri si precisino ed appaiano più chiaramente nel passaggio da una mente all'altra. Ma, sottolineo, erano già apparsi. Noi possiamo scoprire una realtà che era già quella, da sempre. E io credo che la psicoanalisi sia un campo apertissimo con tutto quello che ha a che fare con la mente, con il suo procedere, con tutti i legami che ci sono con il cervello, con il corpo: l'aspetto somatico della personalità. Si tratta di elementi già dati, prima ancora della nascita della psicoanalisi come evento storico» E poi ancora: «la conoscenza è la cura di base di tutto, della vita umana, dell'umanità. Nel senso della scoperta dei suoi confini, della sua composizione. Credo che la psicoanalisi sia una via fondamentale di scoperta dell'uomo e della sua mente. Mondo interno, mondo esterno attraverso la relazione dell'uomo con l'uomo. Lo sviluppo di una mente, ancor prima della nascita, all'interno di una relazione madre-figlio comincia in un modo assolutamente non consapevole. Una inconsapevolezza iniziale che continua dentro di noi. La relazione è il paradigma su cui poi si svolge tutto quanto». Sublimazione intellettuale della sua passione per l'essere in relazione, comprendendo questo interesse primariamente la conoscenza di sé. Il motto che Maria amava citare: «Non si può fare il calzolaio con le scarpe rotte» trova a questo proposito la sua più semplice ed efficace spiegazione. Desidero ora riportare alcuni dati storici relativi al percorso professionale di Maria di cui sono stato testimone fin dalle origini, avendola conosciuta a metà degli anni '70. Ero allora studente di Psicologia e cominciai a partecipare come tirocinante volontario all'attività istituzionale di Pantaleone (“Gianni” per gli amici) D'Ostuni, psicoanalista e psicologo di ruolo in servizio presso l'Osservazione B dell'ospedale psichiatrico provinciale “Leonardo Bianchi”. Maria vi svolgeva allora le funzioni di assistente psicologa volontaria, ma il rapporto professionale tra lei e D'Ostuni appariva pienamente paritetico sul piano professionale. Poco dopo il mio arrivo si aggiunse al nostro piccolo gruppo un’altra tirocinante, Serenella Adamo, anch'ella studentessa di Psicologia. Venne così a formarsi un'equipe di lavoro che, grazie allo spirito del tempo e alle capacità politiche di Gianni D'Ostuni, riuscì a implementare il primo consultorio territoriale di Salute Mentale a Napoli e, molto probabilmente, in tutto il Sud Italia. Il mio ricordo dell'ospedale psichiatrico è stato risvegliato nella sua concretezza da Maria allorquando, intervistandola, mi ha ricordato l'atmosfera di reclusione e l'odore intenso di urina e di dolore che vi si respirava. Il suo atteggiamento nei confronti dei ricoverati era di profondo rispetto della loro condizione e di contestuale acuto interesse nei confronti del funzionamento mentale patologico. Grazie alla sua naturale propensione clinica avviò in quel periodo una psicoterapia di un giovane ricoverato, gravemente anoressico, che proseguì fino alla sua morte, avvenuta poco dopo a causa del suo grave deperimento organico. «Mi fece un'enorme impressione quando lo trovai contenuto all’ospedale S. Gennaro dove ero andata a trovarlo. Stavo facendo esperienza di elementi profondamente psicotici, dove predominava la confusione mente/corpo. Il corpo sembrava prendere tutta la scena, anche materialmente. Un corpo disfatto, con una mente che aveva difficoltà ad apparire come tale. Retrospettivamente si può dire che il mio paziente si esprimeva attraverso il corpo. E' stata un'esperienza molto intensa emotivamente, l'ospedale psichiatrico. Ricordo l'odore: livelli pesantemente corporei. Si trattava di una comunicazione non facilmente accoglibile. Ricordo che mi bloccava, facevo fatica a tollerare e a riconoscere. Non potevo fare altro che tollerare, sia perché non avevo nessuno strumento, sia perché sono quei livelli che ti paralizzano. Cominciavo ad avere esperienza del dover tollerare, dello starci, del guardare, ascoltare, odorare: dei livelli di risposta che investivano il mio corpo, i miei sensi. Solo in seguito ad altre esperienze questi elementi hanno potuto essere tradotti, resi comprensibili e comunicabili in una relazione». In quel periodo Maria aveva cominciato anche il lavoro professionale privato incoraggiata dal suo analista che, nella fase conclusiva della sua analisi personale, le aveva inviato, per una psicoterapia, un bambino di 10 anni affetto da epilessia. Chiese ed ottenne una supervisione da Francesco Corrao, lo psicoanalista siciliano che aveva introdotto in quel periodo in Italia il pensiero e l'opera di Bion e che era stato Presidente della SPI. Ricordo, per inciso, che a Corrao si deve la formulazione della Funzione Gamma, l'equivalente, al livello del funzionamento gruppale, della Funzione Alfa elaborata da Bion in relazione al funzionamento psichico individuale. La teoria protomentale di Bion funse da corrimano per Maria e per Corrao per lavorare sul caso del bambino epilettico. Corrao chiese a Maria di poter utilizzare alcuni disegni del suo paziente per una sua relazione ad un Convegno. Come si vede l’incontro con Corrao fu particolarmente fecondo in quanto in esso confluirono tutti i temi ai quali Maria avrebbe dedicato il suo lavoro: il funzionamento primitivo della mente; il rapporto corpo/mente; la mente gruppale. Fu Corrao a suggerire a Maria di frequentare i seminari che Gianna Polacco Williams stava tenendo in quel periodo presso l’Istituto di NPI dell’Università degli Studi di Roma. Nel frattempo Maria prendeva parte ai seminari su Bion e sulla psicoanalisi di gruppo che si svolgevano a Roma presso il Centro di Ricerche sui Gruppi “Il Pollaiolo” al quale partecipavano psicoanalisti come lo stesso Corrao, Claudio Neri, Andrea Seganti, Antonello Correale ed altri, nonché eminenti studiosi e ricercatori come Alessandro Figà Talamanca (matematico), Marcello Cini (fisico), Salvatore Di Palma, magistrato e compagno di vita di Maria. Quando Gianna Polacco Williams istituì a Roma il primo Corso Clinico Modello Tavistock, Maria ne entrò a far parte insieme ad altri colleghi come Giuliana Milana, Diomira Petrelli, Susanna Messeca, Susanna Majello, Maurizio Pontecorvo, Simonetta Adamo. Desidero a questo punto fare un breve accenno al milieu culturale e professionale della Napoli di quegli anni. L’Istituto di Psicologia, allora diretto dal Prof. Gustavo Iacono era un importante centro di cultura psicologica ed era frequentato da studiosi afferenti a diversi orientamenti scientifici. La psicoanalisi vi era fortemente rappresentata ed aveva come suo rappresentante di spicco la Prof.ssa Anna Maria Galdo, tutt’ora membro onorario dell’A.I.P.P.I. Un altro polo culturale e scientifico era l'Istituto di Psichiatria del Policlinico di Napoli, allora diretto dal Prof. Franco Rinaldi. Anche presso tale istituzione la psicoanalisi aveva diversi rappresentanti, a partire dal Prof. Antonio D'Errico. Era il periodo post-sessantottino in cui nella società italiana si discuteva dell'abbattimento dell'istituzione manicomiale sotto la spinta della corrente antipsichiatrica che aveva in Franco Basaglia il suo principale esponente al livello nazionale. Guelfo Margherita, primario del “Leonardo Bianchi”, nonché psicoanalista, in quella fase funse da trait d'union tra ospedale e policlinico universitario. Nel ricordo di Maria, fu lui che portò a Napoli alcuni esponenti della psicoanalisi argentina: in primo luogo Santarcangelo, che con una serie di seminari introdusse il modello del Gruppo Operativo elaborato da Enrique Pichon-Riviere, quindi Ernesto Caesar Liendo, esperto in psicoanalisi della coppia e della famiglia, infine Roberto Losso e sua moglie Ana Packciarz che illustrarono la tecnica dello psicodramma psicoanalitico. Solo anni dopo Maria incontrò il pensiero e l’opera di José Bleger, anch’egli psicoanalista argentino allievo di Pichon-Riviere, al cui studio ha dedicato molto del suo tempo in parallelo ai suoi studi principalmente rivolti alle opere della Klein, di Bion e di Meltzer. Tornando alla storia di quel periodo, devo aggiungere il contributo che Maria ha dato nella progettazione e nella realizzazione del Consultorio di Salute Mentale “Stella”. Esso fu istituito in prosecuzione della collaborazione che come gruppo proveniente dall’ospedale psichiatrico avevamo stabilito con la Scuola Media Statale “Giovanni Lombardi”, situata in uno dei quartieri storici della città di Napoli: la Sanità. Presso quella Scuola Gianni D’Ostuni e Maria Peluso progettarono e condussero una serie di gruppi di formazione per insegnanti volti alla sensibilizzazione alle dinamiche psicologiche nella relazione di insegnamento. Uno dei gruppi fu dedicato all’analisi del funzionamento del Consiglio di Classe. Il progetto durò diversi anni e fu accompagnato da diverse pubblicazioni fra le quali “La dinamica del terzo escluso nella fantasmatica dell’osservazione nei gruppi”, pubblicato sui Quaderni di Psicoterapia Infantile editi da Borla. Di tale lavoro sono anch’io uno degli autori avendo preso parte all’esperienza dei gruppi di formazione in qualità di osservatore non partecipante. Questo lavoro, che trattava della funzione fantasmatica dell’osservatore precorreva, a ben vedere, la teoria di Bleger del ruolo del depositario nel funzionamento dei gruppi. Come detto prima, “certe teorie procedono e si chiariscono, appaiono nei pensatori successivi”. L’attività di Maria era instancabile, nello stesso periodo avviò una collaborazione durata ben 25 anni con la Cattedra di NPI dell’Università degli Studi di Torino, allora Diretta dalla Prof.ssa Livia Di Cagno. Successivamente, negli anni ’90, alcuni colleghi neuropsichiatri infantili e psicologi di Cosenza contattarono Maria per realizzare presso quella città una serie di gruppi di formazione e di attività di supervisione. Anche in questo caso i rapporti di collaborazione durarono a lungo, in pratica fino alla conclusione della sua vita. Non mi resta che accennare al contributo che Maria ha dato alla sede di Napoli in relazione all’istituzione ed al funzionamento della Scuola di Specializzazione dell’A.I.P.P.I. Fu lei a suggerire a Giuliana Milana, allora Direttore della Scuola - Luisa Tirelli in quel periodo era il Presidente dell’A.I.P.P.I. – di affidarmi l’incarico di procedere a tutti gli adempimenti amministrativi e successivamente organizzativi che ne hanno reso possibile l’autorizzazione ministeriale e quindi il funzionamento. Costante è stato il suo sostegno nel corso del tempo, come pure il suo contributo didattico e teorico: Maria ha molto investito sulla Scuola a Napoli ritenendo necessaria la presenza e lo sviluppo nel Sud dell’Italia di una professione come la nostra. La sua concezione della professione è stata rivolta sia all’applicazione rigorosa del setting psicoanalitico duale, sia alla realizzazione della psicoanalisi impegnata socialmente, come dimostra l’impegno profuso nel lavoro con i gruppi e nell’insegnamento. Come suo amico e collega posso affermare che il suo principale interesse è stato la trasmissione del sapere psicoanalitico alle nuove generazioni di colleghi e che ciò coincide con il suo amore per la psicoanalisi che l’ha accompagnata ed impegnata fino alla fine della sua vita. Le convergenze del pensiero di Bion con alcuni aspetti della psicoanalisi argentina: la lettura di Maria Peluso di Giuliana Milana Maria Peluso è stata una psicoanalista e una docente; una brava psicoanalista e una brava docente. I suoi scritti riflettono il doppio campo della sua esperienza; ho preferito concentrarmi sul secondo perché è nell’ambito della sua attività di docente che ho avuto con Maria un contatto diretto più intenso e significativo, fatto di lunghe chiacchierate al telefono, discussioni anche accese tra noi, nelle quali traspariva la passione, la sua attenzione nel trasmettere il pensiero degli autori nel modo più fedele ed efficace possibile. Nell’ insegnamento la sua attenzione era centrata sulla fedeltà al testo: proprio questo fa si che, ad una prima lettura, la sua produzione può apparire come una accurata presentazione del pensiero dell’autore. In realtà Maria Peluso fa molto di più: ella accosta idee di diversi autori sullo stesso argomento e, nel mettere in luce divergenze apparenti, o differenze sostanziali, fa un lavoro di smontaggio e rimontaggio che apre al lettore prospettive diverse e nuove, e mette in luce aspetti che altrimenti sarebbero rimasti in ombra. La forma nella quale ha organizzato i suoi scritti non la vede quasi mai comparire in prima persona con un “io penso …” “io ritengo che ...”. Il suo stile la riflette fedelmente: Maria era una persona molto discreta, quasi schiva; tuttavia, in ogni occasione, la sua presenza c’era e alle persone più attente non passava mai inosservata. Più che fare una panoramica dei suoi scritti, ho preferito scegliere alcuni aspetti di essi che ritengo peculiari e che, mi sembra, racchiudano una parte del pensiero di Maria che vorrei rimanesse vivo e presente tra noi. Ho scelto di concentrarmi sull’accostamento del pensiero di Bion, che racchiude in sé alcuni capisaldi delle teorizzazioni di Melanie Klein, ad alcuni concetti della scuola psicoanalitica argentina. Ho fatto questa scelta anche perché Maria Peluso ha avuto una parte importante e decisiva nel farci conoscere il pensiero dei maggiori autori della Società Psicoanalitica Argentina attivi tra gli anni ’50 e i primi anni ’70; infatti, sia nelle lezioni sia nella produzione scientifica ella si riferiva a loro spesso e in via privilegiata. Personalmente ho conosciuto gli scritti di Blèger e di Pichon-Riviere grazie a Maria e mi sono tanto appassionata al loro universo teorico ed umano, da prendere l’iniziativa di andare a Venezia per conoscere due psicoanalisti argentini allievi di questi autori, Mauro Rossetti ed Elena Petrilli, i quali, in seguito all’instaurazione della dittatura militare in Argentina, si sono stabiliti in Italia. E’ stato un incontro molto felice, tanto che un anno dopo nel 2008, in effetti il mio primo contatto aveva questo scopo sia pure in una fase embrionale, organizzammo una giornata a Roma inserita nel programma scientifico dell’A.I.P.P.I. sul pensiero di Bleger. Qualche anno dopo, nel 2011, nel numero 4 della rivista Richard e Piggle, fu dedicato un focus allo stesso argomento contenente, peraltro, gli apporti di Rossetti e Petrilli ed il saggio di Maria Peluso dal titolo: “Introduzione al sistema teorico di Josè Blèger: una riflessione su l’intreccio tra clinica, teoria e tecnica”. Maria aveva conosciuto a Napoli il dottor Santarcangelo, uno dei primi psicoanalisti argentini venuti in Italia e aveva poi frequentato i seminari tenuti da Roberto Losso e da sua moglie Ana Packciarz Losso,sul pensiero di Bleger. Mi è parso che l’accostamento, evidenziato da Maria, tra autori della scuola inglese kleiniana, in particolare Bion, e gli autori argentini, sia particolarmente interessante sia relativamente a ciò che hanno in comune, che a ciò che li distingue. Nella Scuola argentina di quegli anni, l’impianto concettuale è sostanzialmente quello kleiniano, con particolare riferimento a Bion; tuttavia, la trasposizione degli stessi concetti nella clinica e nella tecnica, apre nuove prospettive: gli orizzonti si allargano, e i concetti base, lucidi e astratti nella loro formulazione inglese, pilastri di una grande costruzione, in Argentina sembrano materializzarsi, prendere corpo, umanizzarsi. A differenza della scuola inglese, che ha come principale interlocutore la comunità scientifica, ed é primariamente interessata a definire concetti e teorie, preoccupata, soprattutto, di stabilire confini ed evitare fraintendimenti e contaminazioni (vedi ad esempio le Discussioni Controverse), gli scritti degli autori argentini sono, invece, innervati dalla passione civile, dagli intenti sociali, dalla speranza e dal desiderio di fare arrivare a strati sempre più ampi della popolazione il potere curativo della psicoanalisi. Il pensiero corre al quinto Congresso Internazionale della Società di Psicoanalisi del 1918 a BudaPest, quando, in un momento di grande euforia per la speranza di poter finalmente attuare una più estesa giustizia sociale, alla vigilia della caduta degli Imperi Centrali, Freud auspica l’estensione dello strumento psicoanalitico a larghi strati della popolazione. Egli prevede lucidamente che la psicoanalisi, così come lui l’aveva configurata, non avrebbe potuto trovare un largo campo di applicazione e, pertanto, ipotizza un intervento che dovrà legare “il puro oro dell’analisi con il bronzo della suggestione diretta”. A differenza di Freud, Pichon Riviere e Bleger, quando scrivono le loro dispense per gli studenti della Università di Buenos Aires e di Rosario negli anni ’60, hanno già sperimentato modalità di lavoro innovative nel portare la psicoanalisi in territori nuovi e sconosciuti. Sono proprie queste esperienze che hanno permesso loro di creare una disciplina del tutto originale e nuova, la “psicoanalisi operativa”, un campo che Maria Peluso prediligeva e che ha praticato, come testimoniano le sue numerose pubblicazioni in merito. I temi che emergono dagli accostamenti tra la scuola Klainiana e la scuola argentina, e che ritroviamo negli scritti di Maria Peluso, sono molteplici; tra questi ne ho scelti due che mi sono parsi particolarmente significativi. Il primo si riferisce alla formazione precoce della mente, che avviene inizialmente in una fase pre e peri-natale, che Bion chiama “protomentale” e Bleger “gliscrocharica”. Per entrambi si tratta sia di una fase genetica, che di una modalità di funzionamento; per i due autori, infatti, la mente non si forma in un vuoto (fase narcisistica), ma attraverso il contatto con altre menti: la “reverie” materna in Bion, la simbiosi primitiva in Bleger; la struttura del “legame” come proto-apprendimento in Pichon Riviere. Il forte punto di contatto tra questi tre autori risulta, quindi, l’indifferenziato iniziale tra il mentale e il corporeo. Tuttavia, nei loro scritti, Bleger e Pichon Riviere risalgono alle primissime radici appartenenti ad una fase molto più iniziale: essi si rifanno non tanto ad una situazione duale, quale può essere quella della madre quando restituisce, attraverso la propria rèverie, il prodotto elaborato delle identificazioni proiettive del piccolo, quanto ad un primo “contatto-immersione” del feto prima, e del neonato poi, nel gruppo familiare, che raggiunge il nuovo nato attraverso il corpo materno. Ritroveremo i riflessi di queste differenze nella clinica e nella terapia; per Pichon- Riviere e per Bleger, a differenza di Bion, la cura del malato mentale si realizza prevalentemente, se non esclusivamente, attraverso il gruppo familiare, con la presenza o meno del membro patologico considerato, dalla scuola argentina, il “portavoce” del disagio criptico del gruppo familiare stesso. Tuttavia, l’aspetto più significativo, innovativo e importante, sta nella configurazione dell’inizio del funzionamento mentale. Quel primo “contatto-immersione” del feto prima, e poi del neonato nel gruppo familiare, sancisce la precedenza della presenza di un funzionamento gruppale della mente a cui seguirà solo in una fase successiva quello individuale. Bion, dopo le sue prime esperienze di lavoro con i gruppi all’ospedale di Northfield e poi alla Tavistock, ha dedicato il resto della sua vita professionale alla cura psicoanalitica individuale; di contro, i colleghi della Scuola Argentina hanno dedicato una buona parte del loro lavoro alle esperienze con i gruppi, in particolare nella forma messa a punto teoricamente e tecnicamente da Pichon-Riviere prima e da Bleger poi, della “psicoanalisi operativa” di cui parlerò più avanti. Ma, al di là della pratica con i gruppi, ciò che accomuna fortemente Bion agli autori argentini, è la convinzione che l’inizio della mente individuale abbia origine da un inconscio gruppale, costituendo così la matrice di quella realtà che può essere vista sempre e solo attraverso una “visione binoculare, in modo da correlare sempre le due prospettive sullo stesso oggetto” (Bion): l’individuo visto come unità distinta e l’individuo visto come parte intrinseca di un gruppo; la realtà intrapsichica e la realtà interpsichica. Si tratta di un concetto che annuncia un mutamento epocale: mutamento che non è ancora completamente compreso, nè usato in tutte le sue potenzialità; infatti, il postulato, enunciato per la prima volta da Kurt Lewin, è che lo studio dell’uomo è sempre e comunque lo studio dell’ “uomo in situazione” e che, solo in tale prospettiva, l’individuo può essere visto e conosciuto. Nel saggio “Introduzione al sistema teorico di Josè Bleger: una riflessione sull’intreccio tra clinica, teoria e tecnica”, Maria Peluso scrive: “Entrambi i presupposti di Bleger, l’indifferenziazione primitiva individuo-gruppo e quella mente - corpo, sono comuni pure a Bion, anche se mi pare che il primo sottolinea prevalentemente l’aspetto strutturale e genetico-evolutivo dello stadio/stato arcaico della mente - rappresentato dalla posizione “glischro-carica” -, mentre il secondo fa prevalere l’aspetto funzionale di esso, sebbene non manchi anche in Bion un richiamo alla dimensione strutturale, segnalata, del resto, dalla stessa denominazione di “sistema protomentale”.” Dunque, è evidente per gli autori che le primitive comunicazioni del nuovo essere, nelle fasi arcaiche della vita, avvengano tramite identificazioni proiettive; ed è su questo concetto cardine, proposto e messo a punto dalla Klein, che confrontiamo, ancora una volta, il pensiero delle due scuole. Melanine Klein individua l’identificazione proiettiva come un mezzo primitivo e inconscio che l’individuo ha di liberarsi di sensazioni e vissuti particolarmente penosi e insopportabili, avvertendoli poi come provenienti dall’esterno e appartenenti all’altro. Bion va oltre e vede questo passaggio come un mezzo che l’essere più primitivo usa non solo per liberasi, ma anche per far conoscere all’altro, se questi sarà in grado di decifrare il messaggio, qualcosa di sé e del suo stato; in altre parole viene così a effettuarsi una prima rudimentale forma di comunicazione. La Klein è interessata unicamente alla operazione del soggetto trasmittente, Bion considera anche la risposta che il soggetto può o non può ricevere dal polo che ha ricevuto il messaggio. Pichon-Riviere e Bleger suo allievo, fanno una operazione ulteriore: si interessano, in modo particolare, alla qualità del polo ricevente, che chiamano “depositario”; il soggetto da cui parte la proiezione è il “depositante” e “depositato” è, invece, il contenuto della identificazione proiettiva stessa. Tralascio le molte possibilità e problemi che si presentano nell’intreccio tra depositario, depositante e depositato; diciamo però che il “depositario” assume un grande significato, tanto da permettere l’avvio delle capacità discriminatorie del depositante, o da determinarne il blocco, o ancora provocare la rottura degli argini che dovrebbero tenere immobile e non attiva la parte psicotica “clivata”, “depositata”, provocando gravi scompensi e crisi francamente psicotiche. In questo quadro teorico, il “depositario” assume una importanza centrale nel bene e nel male, tanto che lo stesso dispositivo della cura analitica nella parte del setting, che nella scuola Argentina viene chiamato inquadramento, funge, a certe condizioni, da “depositario”; “depositario” necessario e positivo, o “depositario” immobilizzante e negativo. E’ evidente che il “depositario” svolge una ruolo essenziale per quella parte della personalità arcaica, indifferenziata, nel suo lungo processo di “desimbiotizzazione”, processo che non si esaurirà mai completamente. Bleger parla di una buona e di una cattiva simbiosi, tanto da vedere il processo psicoanalitico come un processo desimbiotizzante. Il concetto di “depositario” e le sue funzioni avvia una riflessione sulle molteplici finalità che possono avere le istituzioni e i gruppi nel loro ruolo di “depositari”: essi, infatti, possono favorire lo sviluppo dell’individuo, rassicurato che le sua parte psicotica resta lì saldamente immobilizzata, oppure, sia i gruppi, e ancor più le istituzioni, possono fungere da depositari così immobili e totalizzanti da costituire, per il soggetto, vere e proprie “identità” sostitutive e vicarianti. Il tema del “depositario” si presta bene a fare da concetto-ponte per passare al secondo argomento scelto: la presentazione del costrutto teorico-tecnico della “psicoanalisi operativa”. E’ con emozione che mi accingo a parlare con voi della “psicoanalisi operativa”, un campo di intervento che Maria Peluso ha sempre considerato della massima importanza; ella lo ha applicato, come abbiamo visto da diversi suoi scritti, e avrebbe voluto che fosse praticata anche dai soci e allievi della nostra scuola. Secondo la definizione di Bleger, “la psicoanalisi operativa non è una psicoanalisi nuova e diversa; è una strategia volta all’utilizzazione delle conoscenze psicoanalitiche”. Essa è parte integrante del programma di “igiene mentale”, come allora si chiamava, che si prefiggeva di coinvolgere, raggiungendole, il maggior numero di persone nella fruizione della psicoanalisi. E, ancora, leggiamo nella prefazione dell’unico libro di Pichon Riviere tradotto in italiano, “Il Processo Gruppale”, che “l’obiettivo centrale dei “Gruppi Operativi” è “imparare a pensare”, unico baluardo nei confronti del nemico centrale che è lo “Stereotipo””. Già a partire da queste prime definizioni possiamo notare come la psicoanalisi operativa sia intimamente agganciata al lavoro con i gruppi. Con l’introduzione della psicoanalisi operativa, Pichon Riviere ha, di fatto, prodotto una frattura nel modo di rappresentare la situazione gruppale. Infatti, benché lo stesso Freud avesse dichiarato, in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, che ogni psicologia non può che essere sociale, nel mondo psicoanalitico, sia al livello tecnico che concettuale, si è continuato sostanzialmente ad utilizzare il modello duale. Nelle terapie di gruppo, infatti, avevamo il gruppo ed il suo terapeuta; si sostituiva il terapeuta con il Leader e l’individuo con il gruppo, ma la dinamica rimaneva sostanzialmente duale. Pichon Riviere produce un cambiamento sostanziale nel modo di vedere la situazione gruppale: al gruppo e al suo leader aggiunge un terzo polo, il compito. I vertici sono ora tre, e in tal modo divengono una struttura; inevitabilmente si influenzano a vicenda, ciascuno di loro risente della presenza e degli scopi dinamici degli altri due: il leader potrà cambiare con il mutamento del compito, il gruppo sarà influenzato dal cambiamento del leader e potrà contribuire allo spostamento del compito stesso, e così via. L’introduzione di un terzo elemento, il compito, dinamizza la situazione che passa da un rapporto bipersonale ad una struttura triangolare (sullo sfondo il grande movimento filosofico dello strutturalismo che tanto ha influenzato l’epistemologia, la sociologia, la psicologia, e qui vediamo anche la psicoanalisi del ventesimo secolo) I concetti cardine sono i seguenti: “L’adattamento attivo alla realtà e l’apprendimento sono indissolubilmente legati. Il soggetto sano, nella misura in cui apprende, trasforma l’oggetto stesso e modifica anche se stesso, entrando in un intergioco dialettico con il mondo in cui la sintesi, che risolve una situazione dialettica, si trasforma nel punto di inizio, o tesi, di un’antinomia che dovrà, a sua volta, essere risolta in questo continuo movimento a spirale. Mentre si compie tale percorso, la rete di comunicazione è costantemente riaggiustata e solo così è possibile rielaborare un pensiero capace di dialogo e di modificazione.” (Pichon Riviere: “Il Processo Gruppale”, pag. 222-223) Mi è sembrato importante, in questa occasione, aver potuto riproporre, sia pure per grandi linee, all’attenzione dei miei colleghi il modello della psicoanalisi operativa, un ambito di lavoro che stava molto a cuore a Maria, un tipo di intervento che dovrebbe essere ripreso, o forse preso, e sarebbe auspicabile che alcuni tra i colleghi dell’A.I.P.P.I. sentissero il desiderio e avessero il coraggio di sperimentarlo. Un modello questo che, con il supporto di un gruppo di riferimento preparato in tal senso, possa dare ai partecipanti l’opportunità di formarsi adeguatamente. Travaglio psichico e fuochi del pensare: (s)oggetti, osservazione, cesura di Antonio Vitolo Nel ritrovarci raccolti in cordoglio, invio un sentito grazie a Pino Palladino e Nietta Lucariello, amicizie quarantennali, sorte tramite o prima di Maria e che mi hanno portato qui, per e con l'A.I.P.P.I., in continuità con Maria, presente nel nostro cuore e nella nostra mente. Parlare di analisti post mortem è peculiare elaborazione, che implica il superamento di un singolare Capo di Buona Speranza, per dirla con le parole del poeta Andrea Zanzotto, che mancò per un soffio il Nobel negli anni Novanta. 2 Sia subito chiaro che, fatto salvo un esempio, non produrrò citazione alcuna di scritti di Maria, che pure ho conosciuti e stimo. E ciò per due ragioni: non ho mai citato in miei scritti Maria, in sua vita. Né mi interessa in questa occasione, e nella sala del Vasari, intingere in una citazione il flusso del ricordo di Maria intesa quale analista che scriveva e per iscritto descriveva. Mi preme significare e attestare chi mi sia apparsa Maria, di poco maggiore di me in età, conosciuta nel 1977 tramite Nadia, mia moglie, didatta Aipa, che intraprese la strada dell'analisi personale, della formazione e del lavoro analitico prima di me, che, avendo rinunciato in alveo familiare borghese ad un futuro di farmacista, notaio e poi professore universitario di Letteratura latina dopo la laurea con lode con Francesco Arnaldi - e avendo declinato l'invito di via accademica anche per la Letteratura italiana, via Vittorio Russo, e per la Storia dell'arte, via Valerio Mariani - approdai per perdita di senso e vicissitudini sentimentali all'analisi all'età di 25 anni. Ho vivo il ricordo della conoscenza: a viale Augusto, nel febbraio 1977, nella stanza di mio figlio Andrea, che non aveva ancora 1 anno. Eravamo un quaternio e Maria sorrideva ad Andrea mostrando un intenso sguardo materno. La figura e la postura s'impressero allora e rimangono ad oggi, dopo quasi 40 anni, immutati: un corpo da matrona, un timbro vocale intenso per sonorità, un'eleganza avvolgente, donna di lane, tanto curiosa, quanto profonda. Una di due, non lasciava immaginare una stabile consistenza d'un padre, quale terzo. Sino all'incontro successivo, sempre con Nadia, di Maria appresi una divertente tranche de vie, tramite un racconto di Nadia rétour de Rome dai corsi della Tavistock Clinic, con Donald Meltzer, Martha Harris, Margaret Rustin, Gianna Polacco, Beta Copley, alla fine d'un importante seminario Maria e Nadia tornavano da un ristorante sino a quella sera ignoto al consueto albergo sull'Aventino. Nadia a un certo punto aveva detto a Maria: “Ci siam perdute. Io ero convinta nel seguirti, ma ora so che neppure tu conoscevi la strada!” Maria, in risposta: “Ero io che seguivo te!” Ero a distanza attratto dalla bellezza della loro esperienza. Nadia, che aveva poco più di 30 anni, era già inoltrata nel training junghiano dell'Aipa, ma praticava con passione ed estensione cultural/clinica di vasto respiro sociale nel GIFFAS connesso con l'Italsider, negli anni della giunta Valenzi, un itinerario culminato poi nella fondazione, 35 anni fa, del training infantile nell'Aipa, un vero ossimoro, se si consideri la storica distanza tra lo junghismo e persino la Spi, da una parte, e il filone Klein, Bick, Isaacs. Accanto a Balconi, Ferrara Mori, Del Carlo Giannini, Corti, Novelletto, Lussana, Gaddini, Galdo, Maffei, Maria, Nadia e una decina di donne italiane, oltre la base dell'analisi personale iniziavano un sentiero di prassi clinica con genitori e bambini, a cui l'intelligenza di pochi psicoanalisti, tra cui ricordo Hautmann, Fachinelli, Giannakoulas, Novelletto, Nissim Momigliano, faceva da sponda determinante, in taluni casi luminosa. La storia dell'analisi poggia sull'essenza indubitabile d'un lavoro meraviglioso eppur duro, avvincente eppur terribile, la cui forma formans s'impone anzitutto e oltretutto come un travaglio, che trova un corrispondenza eminente nella realtà del Traumarbeit, il “lavoro del sogno” teorizzato da Freud. Il divenire travaglio analitico è ciò che trasforma la dignità dell'autocoscienza nell'acquisizione della funzione analitica. Il soggetto che sceglie, obbedendo a una pulsione irremovibile, di fronteggiare nella stanza la normalità, la nevrosi, le psicosi schizofreniche e autistiche nella cura, assume con misurata gestione dell'interiorità la modulazione consonante, anche dinanzi a un transfert negativo, del travaglio analitico, riconosciuto come una necessità e una potenzialità dotate di intrinseca dimensione trasformativa. I giovani, in particolare le donne, potrebbero forse con qualche sussulto vitale, in epoca di pseudolegg regolatrice dell'esercizio della psicoterapia e di scuolette e università ridotte a razzìa talora perversa, riconoscere in tale nominazione del travaglio un ritorno aperto al futuro d'un antico concetto ricolmo di persistente dignità, la vocazione, il Beruf, la chiamata della cultura protestante. Un greve Zeitgeist ha addensato in 40 anni di storia europea durante la dittatura nazifascista l'espulsione dal lavoro della donne insegnanti di filosofia, degli ebrei che non avessero giurato nelle università, di Ulrike Meinhof e ogni comunista teorico della lotta armata: lo stato di diritto si difende come può, se mai, come da noi nel 1989, espungendo la psicoanalisi dalla legiferazione e dalla nominazione: paradossale riconversione d'un orrido principio, die Arbeit macht frei, insegna d'ingresso ai Lager, che suggellava, oltre il lavoro massacrante dei gulag, la gasificazione dei Lager. Maria, che pure non oltrepassò mai il limite d'avvento ad una coscienza socialista e che in certa misura s'attestava donna in cerca di libertà soggettiva, con umori anticonformisti e schietto amore dell'affrancamento, coltivò sempre, a mio avviso, un gusto sapido della conoscenza, di stampo esistenzialista, e un'educazione sentimentale intrisa della memoria affettuosa della tradizione e d'un sognante affacciarsi al nuovo, al bello. Tra i suoi legami ho potuto conoscere personalità d'artisti, così come di cultori e rappresentanti istituzionali della legge e dell'ordine militare. Non mi sento al riguardo di affermare che Maria amasse entrambe le polarità allo stesso modo. Propendo piuttosto a indicare una sospensione, un oscillare a cui nell'oscura profondità corrispondeva un nucleo non dispiegato, attrattore della pulsione di morte più che d'eros. S'affaccia qui alla memoria il ricordo d'un frammento di vita di forte travaglio. Domenica 23 novembre 1980 Nadia e io avevamo invitato Maria a casa nostra per un tè. Un invito a Napoli, e per noi, inusitato, calibrato sulla Tavistock di Maria e Nadia, sui tè di casa Jung a Küsnacht per A. Einstein, eccentrico rispetto alla sacra abitudine del caffè Kimbo oro, Italmoka, Passalacqua, se mai macinato per napoletana. Il pomeriggio si annunciava strano: la notte, di ritorno da una cena a “La Misenetta” di Bacoli, con pesce e musica al piano, con amici, avevamo osservato l'anidride solforosa fuoriuscire copiosa dagli interstizi dei marciapiedi e pervadere l'aria; nel cortile dello stabile di viale Augusto, volteggiando insoliti sciami di uccelli, cani e gatti s'inarcavano inspiegabilmente nervosi o prendevano a sfregare il dorso sull'erba delle aiuole. Maria arrivò con una matassa di lana e i ferri per lavorarla. Un antitravaglio arcaico e presente, controcorrente in anni di nuova coscienza e autocoscienza femminile. Nadia ebbe quella sera un presentimento che scoprii, anni dopo, essere stato di Goethe per il terremoto di Messina del 1783. Con percezione tutta femminile, dal tinello ove preparava il tè, mi chiamò in disparte, dicendomi di prendere in braccio Andrea e portarmi accanto alla colonna di cemento armato del salotto, perché stava arrivando un fortissimo terremoto. Poi si unì a noi tutti in silenzio. Dopo 5 lunghissimi minuti si scatenò il minuto e mezzo delle due scosse, una ondulatoria, l'altra sussultoria, che produssero tante vittime, segnando gli ultimi 20 anni del secolo. Quando ritenemmo poter scendere a piedi dal quinto piano, in una scena eduardiana, uscimmo sulle scale, io in testa, col bimbo in braccio e l'occhio al libro di E. Neumann, Die Große Mutter, uscito a mia cura da Astrolabio, Maria con il filo snodatosi per 1 metro, Nadia. Un trio con Animus, Anima e puer, per dirla con Jung, un insieme umano perturbato, ma incline alla vita. Per almeno due ore Maria rimase con noi, né saprei dir con certezza come Maria, in una Napoli quasi impercorribile, abbia raggiunto il Vomero. Pensammo a Francesco, figlio di Maria, oggi figura di rango del ramo tributario nell'identità legale. E scegliemmo un silenzio assoluto per meditare, raccolti, in strada, tra una scossa e la replica, in una Napoli che realizzava una millenaria dote: la piena coincidenza del mondo interno col mondo esterno, l'annullamento per catastrofica contrazione, della soglia che instaura la vivibilità dell'esistenza quotidiana, la fine della latenza, l'affermarsi d'una mesta visibilità. Per alcuni quel serpeggiare della quasi-morte, d'un addio senza vera dipartita, fu un'ennesima occasione di violenza o ruberìa, per altri fu un incoercibile ritrovarsi nel mondo, per un'anglista che alle 19.30 stava facendo l'amore col suo partner, chiedendosi, nell'assommarsi delle scosse, come mai non avesse mai goduto come in quel momento di estremo dinamismo, per constatar poi come 10 minuti dopo la sopravvivenza coincidesse con l'esser nuda in pelliccia nei vicoli del centro storico, per un vecchio che era accanto a me, a viale Augusto, fu un alto gesto di fermezza: la mano posta dinanzi all'obiettivo della telecamera d'una giornalista del TG2, che da viale Marconi, sede della RAI di Napoli, aveva raggiunto viale Augusto e aveva scelto quel vecchio, esordendo con la più consistente oscenità: “Può dirci che cosa ha provato?” A ciò l'uomo, con qualche lacrima e quel gesto di autentico pudore: “Pe'ppiacere, mo' no!”. Per mio figlio di 4 anni e mezzo quel serpeggiare della quasi morte si condensò in due frasi: raggiunta la strada in braccio a me: “Siamo arrivati primi nella corsa a scender dal quinto piano” e “io lo sapevo che il palazzo avrebbe tenuto. E' fatto di una buona colla”. Per Maria, infine, la salvezza fu un composto assumersi una strana solitudine: moglie divorziata, madre che viveva sola, psicoterapeuta nella pausa domenicale, ritrovarsi viva fu un ennesimo disorientamento spaziale e, insieme, una prova di contenimento, parola-chiave kleiniana e bioniana, declinata tra Partenope, Pulcinella, Virgilio, San Gennaro, Masaniello, Totò, Eduardo, lontano parente di mio padre, in forma lunare, per meglio dire stralunata. I Vitolo, nocerini prima che salernitani, forse provenienti da Thessalonikì o Ioannina, ingegneri o medici Raffaele Vitolo, medico internista, ebreo, fu assistente dello psichiatra rovigino Marco Levi Bianchini, 1875-1961, e cofondatore della prima Società Italiana di Psicoanalisi, costituita nel 1925 a Teramo, con il consenso di Sigmund Freud - eran cugini dei De Filippo, a cui apparteneva la madre di Eduardo, Titina e Peppino, legatasi a Scarpetta. Perciò forse in loro la stralunata misura della vita come tragedia sembrò dover essere assunta in professioni borghesi più che sulla scena teatrale. Di tale componente Maria era una genuina estimatrice. Fu amica di uno dei fratelli Isotta, immersi in un destino di musica e arte, amava il cinema. Possedeva un innato buon gusto, una spiccata predilezione per i colori, per le stoffe d'ogni stagione, in particolare per gli indumenti peruviani di via Giulia a Roma, per la manifattura. Amava vestirsi, e vestire un corpo femminile e via via opimo, con tessuti eleganti, soprattutto lini e lane multicolori. Del pari amava oggetti esteticamente connotati di valenza domestica, in particolare mobili di legno e oggetti d'arredo in peltro: un'inclinazione che sentivo affine alla mia, ma al tempo stesso indice di una torsione nordica, scandinava, alternativa al gusto mediterraneo. Per me Maria tendeva a saturare l'ambiente di casa, protesa a ordinare in un'impossibile solidità un fermento emotivo, quasi focoso, degli abissi. L'ago dell'equilibrio dominava, per fortuna, nel primato della stanza di lavoro analitico, quella personale, al di là delle esperienze didattiche e seminariali di Napoli, Torino, Cosenza, e della stessa identità associativa. Nella casa di Maria lo spazio abitativo personale additava il tentativo di riconoscere all'affettività un rango privilegiato, entro il quale, a mio avviso, il posto elettivo era una meta via via differita in un futuro dal sapore antico. Allo stesso modo Maria, che amava la buona cucina, intrecciava origine e traguardo e finiva col desiderare i cibi di buon ristorante o raffinata pizzeria a quelli, che pur ben maneggiava, fatti in casa (debbo a lei aver conosciuto Gorizia e Acunzo). Di assoluto stampo infantile, nel senso più elevato della parola, era poi il suo amore del cioccolato. Maria avrebbe potuto essere sponsa di Gay Odin. E in tale ambito io usavo paragonare alle controversie della Società Britannica di Psicoanalisi tra Anna Freud e Melanie Klein la contesa tra lei e il figlio Francesco sulla superiorità di Gay Odin o Lindt. Una così spiccata sensibilità orientata al gusto valeva anche per il salato. E ne ho prova nell'esistenza. Una sera, nel 1978 forse, Maria, Nadia e io andavamo al N.O. (Nuovo Operativo), locale cinematografico d'essai di Russo e Santaniello, luogo di culto, per un film di Rainer Werner Fassbinder, posto ai gradoni di Chiaia, che si preferiva raggiungere salendo a piedi da via Chiaia piuttosto che scendendo da corso Vittorio Emanuele. Napoli di Lucio Amelio, Mario e Luciano Guida, Fabio Donato, Mimmo Jodice, Mimmo Palladino, Riccardo Dalisi, che aveva già perso Fabio Incoronato, uscito drammaticamente dalla visibilità, dalla comunità, dalla vita, come prima Caccioppoli. Napoli di Prisco, Rea, Pomilio, che tutti conobbi, Compagnone, La Capria, ospitava l'inimitabile arte e la Bildung di Roberto de Simone, Mario Martone e Fabrizia Ramondino, amica di Nadia. Il T.I.N., il Teatro Instabile “dava” Tango glaciale e Falso movimento. Una sera, erano le 21, si andava all'ultimo spettacolo, che si teneva nella grande sala del N.O., in cui si formava una leggera sospensione di fumo di sigarette. In prossimità del locale fummo inebriati dall'odore di fritto di “paste cresciute”, lieviti senza companatico, insalati. Ci guardammo, ridevamo contenti dell'apparire di una commestibile volgarità sul nostro percorso di cinefili amanti dell'avanguardia. Entrai, uscendo con un cuoppo nzivato pieno di fritturine che dopo qualche anno avremmo col senno di poi escluso dal nostro mangiare. Arrivammo a cinema con la bocca a malapena nettata dai segni della gioiosa, trasgressiva, sublimazione/formazione sostitutiva. D'altra parte ricordo con piacere che per un Natale Maria mi donò un oggetto in ceramica di Ernesto Bowinkel, figura storica, e amica, di piazza dei Martiri Napoli, discendente da un ceppo austroolandese giunto a Capri e Napoli alla fine dell'800. In quel tempietto del gusto mediterraneo e mitteleuropeo Maria scelse per me un Pulcinella, il cui corpo, come una sirena maschilizzata, terminava in un lungo, rosso pistillo, il peperoncino simbolo d'Eros, compagno dicotomico di Thanatos. Maria abbracciava anche quest'aspetto, destinato a restare una promessa che l'età ancor giovane sembrava serrare nella corolla dell'illusione e che la stanza di lavoro ben compensava attraverso il costante confronto con il proprio e altrui dolore dell'esistere, il travaglio analitico, appunto, un nodo che, a ben guardare, non lasciava tempo libero, al di là di quanto il sociologo De Masi (con cui condivisi presentazioni alla Dehoniana di via de Pretis e poi in diretta a Radio 1, unitamente a Clara Gallini e Simona Argentieri) affermava, prospettando un avvento di tempo libero in età telematica, senza aggiungere astuzia massonica?- che quel tempo liberato sarebbe stato privo di effettiva libertà di vivere. Sin qui ho argomentato intorno al nesso tra travaglio analitico e approdo all'esercizio della professione analitica, che implica una lunga analisi personale, supervisioni individuali e partecipazione ben esposta a gruppi di controllo dei casi, seminari pluriennali di teoria della tecnica, assiduo allenamento alla conoscenza storica e teoretica della costituzione degli strumenti dell'analizzare. E così ho voluto sostenere la genesi esistenziale della vocazione che motiva il soggetto a divenire analista: uno dei meriti di Maria mi pare sia consistito propriamente, muovendo da una città tormentata, creativa, ma anche distruttiva e omertosa, come Napoli, nell'approdare, dopo un' analisi personale che non le forniva poteri esteriori derivanti da riconosciuta filiazione o cooptazione, sulla base di studi in prima istanza umanistici, ad un filone che, per ironia della storia delle idee, risultava minoritario nel contesto psicoanalitico internazionale e nella stessa SPI. Luce e ombra distintive dell'anelito ad un vertice di assoluta fecondità clinica, l'osservazione assunse man mano il ruolo d'un fiore all'occhiello nella strutturazione del curriculum vitae et operum di Maria, che acquisì in pensiero e opera una risorsa capace d'innovare il corredo psicoanalitico dell'analisi personale. Chi scrive deve molta della quarantennale stratificazione della prassi analitica e didattica a Paolo Aite e PierAndrea Lussana, ma anche all'osservazione della relazione madre-bambino da 0 a 2 anni, condotta in Napoli dal novembre 1980 ( R. nacque subito dopo il terremoto prima ricordato ), condivisa in gruppo con G. Maffei e altri, supervisionata da G. Polacco e poi da S. Hunziker Maiello (Nadia e Maria avevano maturato l'osservazione “baby” e “young child” con D. Meltzer, M. Harris etc.). Al travaglio analitico e alla professione d'analista s'aggiungeva un contenuto metamorfico, scaturito, al di là di Bowlby, dalla ripresa del magistero kleiniano effettuata da Esther Bick con la codifica, nel 1948, del metodo osservativo (cui fece da storico pendant, nel 1962, lo studio sulla pelle quale soglia di confine tra mondo interno e mondo esterno). Ciò, al di qua dell'estensione ulteriore di A. Piontelli intorno all'osservazione in età fetale, costituiva un patrimonio basilare per il lavoro con bambini, adolescenti, famiglie, coppie. Responsabilmente consapevole del travaglio analitico, Maria convogliava, dunque, l'identità analitica in un'area di prassi e teoria caratterizzata dalla preminenza dell'integrazione soggettiva di una dinamica evolutiva colta sin nell'aurora prenatale. È ora possibile rischiarare i primi quattro passaggi additati all'inizio in una davvero pensabile forma di concatenazione e amplificare un preciso transito, riguardante, a partire dal travaglio, soggetto/ oggetto, pensare/ fuoco, osservazione. La psicoanalisi e la psicologia analitica si diramano, dalla fonte medicopsichiatrica intrisa di eccellente spirito umanistico, da una radice di alta soggettività, tanto alta quanto scindibile. 1919, S. Freud: das Unheimliche, il perturbante, sorge dal non poter dominare la nostra abissale intimità (heim ).Tuttavia la coscienza europea, greca prima ancor che germanica nella cultura, greca nella generosità postbellica della Grecia verso il debito dello sfacelo nazista - stridente con il miserabile economicismo antiellenico della Germania riunificata - può dirsi davvero moderna e contemporanea allorché ammette la crisi e il decentramento del soggetto. Il soggetto, affermava I. Matte Blanco, comprende la parzialità degli oggetti. Logica e semantica, soprattutto attraverso i pronomi, attestano il gioco dell'identità, dell'identificazione, la dinamica della scissione e della reintegrazione. Al confine della metapsicologia con la metafisica ciò implica il primato inalterabile dell'Uno. Entro la psicologia del profondo ( Tiefenpsychologie ), che unifica psicoanalisi e psicologia analitica e trascende la deriva sedicente neocognitivista e neocomportamentista, farsa imparagonabile col cognitivismo e comportamentismo classici, il Novecento lascia registrare un'evoluzione unidirezionale assai interessante: la tensione, simile allo sviluppo della fisica quantistica, alla psiche infantile e neonatale. Come le vicissitudini dell'oggetto interno rispetto al soggetto, così le aree dei processi primari sono accostate nella ricerca analitica attraverso metafore euristiche storicamente rilevanti: dopo il Kernkomplex, il complesso nucleare, edipico di Freud, bipolarità senex-puer di Jung, la deintegrazione/reintegrazione e lo statu nascendi di Klein, l'oggetto transizionale di Winnicott, la basic fault e l'amore primario di M. Balint, l'oggetto a di Lacan, la funzione alfa di W. R. Bion costellano il primato della psiche infantile. In pari misura gli studi sull'imitazione di E. Gaddini sull'imitazione, Frances Tustin sull'autismo infantile, e M. Fordham sull'affinità tra archetipo e teoria kleiniana degli inizi della vita psichica, valgono a confermare la fecondità dell'intensificazione della ricerca nell'area infantile. Da analista junghiano, da analista e uomo che riconosce il ruolo pionieristico di Freud, ma anche la luminosa ideazione postfreudiana da Jung a Meltzer*, sottolineo il fatto che Freud formulò il concetto di complesso nucleare tra il 1908 e il 1910, cioè entro il sodalizio con Jung ( 1906-1913 ) e rammento en passant che il 17-IX-1911 Jung scrisse a Freud, che aveva esposto nella lettera precedente pensieri di alta stima per il nesso mito-psiche inconscia, della propria ferma convinzione della valenza psicogenetica della vita fetale intrauterina. Tale tracciato dell'ultracentenario sapere psicoanalitico, che nel convegno SPI su “Generi e generazioni”, Roma, 2005 - i cui atti furono editi da Franco Angeli nel 2006, a cura di P. Cupelloni - definii come riconducibile nella mia prospettiva a “Jung e il travaglio postfreudiano”, mostra in tutta evidenza l'iscrizione del sapere analitico in un flusso euristico e clinico simile alla via verso il piccolo (fotoni, muoni, quark...) e le nanotecnologie in fisica e nelle scienze naturali. La gnosi considerava, d'altra parte, il nulla e le entità più piccole come coincidenti col pleroma e il sapere ebraico e greco riconobbero, ricordava E. Bernhard, l'ebreo berlinese analizzato da S. Rado e Jung, poi fondatore della psicologia analitica in Italia, tale germe nell'entelechia. Per vocazione epistemofilica Maria,che si sarebbe aperta, entro il rapporto di conoscenza anche a M.L von Franz, inanellava l'intero percorso culturale e analitico attraverso il prisma riflettente del mondo kleiniano, bioniano e meltzeriano. Uno slancio della mente, una genuina opzione della vitalità del sapere, nel saldo ancoraggio alla stanza d'analisi. Il fremito culturale denotava un appoggio all'esattezza, il desiderio di crescita lasciava trasparire, come in ogni analista dell'infanzia che si rispetti, un avido rapporto con l'età primaria, una capacità di immersione ludica, ma, nel contempo, l'esercizio dell'osservare. Si usa dire, e di recente lo ha ribadito autorevolmente in un tour italiano R. Hinshelwood con il quale unitamente a Nietta Lucariello ho avuto, per gentile invito di P. Russo e dell'Aipa, il piacere e l'onore d'un diretto scambio a Napoli, villa Doria, il 30 settembre del 2014, che il “focus” analitico regge la presenza e l'identità dell'analista in seduta. Questa metafora risulta davvero avvincente per il suo riferimento alla condizione dell'essere umano sulla terra, prima ancora che dell'analista dinanzi al paziente. In realtà l'adozione del tema metaforico del “focus” comporta il preliminare riconoscimento, in statuto di cultura umanistica e scientifica unificata, di una correlazione tra il soggetto e la sfera terrestre. Una correlazione che Keplero e Quasimodo, prima di G. Bachelard, ben rappresentano (oltre la legge di gravitazione universale, per il poeta, nella raccolta Acqua e terra, 1930, il trittico di versi “Ognuno è solo sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”). Un'estensione copernicana della metafora del “focus”, meditata alla luce dell'insigne matematico John D. Barrow e da Frank J. Tipler (1986), sembra invero indurre a postulare la concentrazione pensabile per l'analista al lavoro come connessa alla collocazione dello stesso in un'orbita ellittica, che è bifocale. Aggiungo al riguardo che la griglia dei dinamismi di identificazione, la riflessione, la rifrazione, influenti più di quanto si ammetta rispetto al nesso soggetto-oggetti concerne, a mio avviso, sia la diade analista/paziente, nella centralità del transfert/controtransfert, sia l'assetto dell'analista nel corso dell'osservazione. Di tali implicazioni Maria, ispirata da Bion e Meltzer, era ben consapevole, ben oltre il quadro epistemologico. La sua premura clinica era tesa ad illuminare ed elaborare la dimensione analitica, la dimensione didattica e in generale formativa, la specificità e la trasformabilità delle parti psicotiche del soggetto. E' in tale ambito che vedrei la sua tensione a sviluppare la comprensione e l'uso teorico-clinico di Bion e Bléger. Della cesura e della realtà psichica “glischrocarica” Maria seppe, accanto all'osservazione, additare la preminenza entro il vasto corredo analitico storicamente fruibile. Un simile apprendere dall'esperienza mi sembra corrispondere alla metafora da me prima indicata della bifocalità, che in primo luogo può oggettivamente fornire una risorsa epistemica capace di legittimare abbastanza saldamente la singolarità intinta di buona, lieve depressione, dell'analista al lavoro. Maria, come la maggioranza degli onesti analisti al lavoro - sia qui permessa una qualificazione etica, che non vuol essere moralistica, ma vorrebbe piuttosto nominare nel campo del presente discorso, una tacita regola etica, che lascia sentire la fondamentale coincidenza del buono, del vero e del bello, come dice J.P. Changeux, entro la soggettività del setting - Maria, dunque, ricucì come sapeva e poteva, non senza avidità e intensa curiosità, ma certamente senza concessioni alla psicosi o al narcisismo, una propria misura di esercizio della tecnica, che è pur sempre arte di privilegiati artigiani. Con l'opzione dell'area infantile e il maturato patrimonio dell'osservazione, in concreto con l'abilità di lavorare con piccoli gravemente sofferenti e genitori portatori di condizioni altamente problematiche, Maria si distinse nel lavoro privato tanto quanto nella mansione didattica associativa e universitaria, affrontando, tra luce e immancabile ombra, la condizione bifocale a cui accennavo: è infatti mia convinzione che l'analista sia in costante, ma necessariamente oscillante rapporto con il paziente nella posizione orbitale ellittica menzionata riguardo al sistema copernicano e al principio antropico. Perielio e afelio segnano il divenire dell'analista nel setting. Per l'analista dell'infanzia e dell'adolescenza, sento dover aggiungere, a patto di non isterilirsi in un'unilaterale specialità che escluda, oltre genitori e coppie, gli adulti come singoli, il Sole, quale indice terzo, sinolo di inconscio e coscienza, sembra offrire una particolare esperienza, che mantiene perielio ed afelio sempre vivi: quella peculiare estensione del rapporto con la psiche inconscia palpita, primordiale e già matura (nell'idioma partenopeo i piccoli che intuiscono a fondo vengono denominati vicchiarielli, attribuzione contigua all'archetipo senex-puer proposto da Jung ), nello sguardo dell'analista che sia anche osservatore, che, lungi dall'essere illuso da una pura precocità, trae dalla vicinanza ai primordi una composta stima del nessomesistenziale – ineludibile - tra statu nascendi, dolore, inventiva. Così assume evidenza il cammino di Maria, che da studi liberali, esenti dal metronomo delle personalità “carrieriste”, tra cui, ahinoi, sono annoverabili alcune professioniste partenopee, persino alcune colleghe in sala, commemoranti, ma non, credo, immemori del conflitto con Maria viva, giunse al modello e alla metapsicologia estesa di Meltzer, dagli anni di Carlo Brutti, Rita Parlani, Francesco Scotti, attraverso il sodalizio accademico torinese con Livia Di Cagno, sino alla soglia della terza età, complessa sul piano intimo e lavorativo. Nel 1992 il mio rapporto con Maria ebbe una svolta culturale imprevista, che oggi mi permette una visione caleidoscopica degli ultimi vent'anni dell'esistenza di Maria. Uscì da Bollati Boringhieri Psiche e materia di M. L. von Franz, da me tradotto e curato in italiano, con mia introduzione. Libro di notevole spessore, assunto da me per fermo invito di Luigi Aurigemma, prova di misurata disciplina e confronto con la metapsicologia estesa in ambito junghiano, ma non solo junghiano. Dopo 15 anni di mia collaborazione con la casa torinese nel 1977 avevo assunto sotto la direzione di Carotenuto, Trevi, Aurigemma, poi del solo Aurigemma, la cura della collana 'Biblioteca Boringhieri C. G. Jung', con cure e introduzione dei testi e con la traduzione de Il concetto di inconscio collettivo, dall' inglese, con l'assistenza di Nadia Neri, e Sul rinascere, dal tedesco. Nel 1990 pubblicai, dopo 17 anni di ricerche, Un esilio impossibile. Neumann tra Freud e Jung, Borla. Il ritorno ad una cura d'opera altrui, prova già esperita con La Grande Madre di Erich Neumann, Astrolabio, 1980, fu per me un tributo all'ignorata via junghiana all'inconscio, che per alcuni versi, poteva rammentare le vicissitudini di M. Klein in ambito postfreudiano. Psiche e materia riscosse l'attenzione di scienziati (fisici e biologi, Latmiral, Sasso, Drago, Calissano, donde la presentazione all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, a Radio3, l'accoglienza nelle pagine di cultura di alcuni quotidiani nazionali ) e molto ben accolto da Emilio Servadio, a cui Simona Argentieri, “persona grata”, di raffinata e versatile cultura, e disinteressata - “annafreudiana” - mi aveva invitato ad inviare l'opera. Maria trovò stimolante un'angolazione clinica del testo, da me argomentata nell'introduzione: il legame tra la sincronicità, definita da Jung “principio di nessi acausali”, e l'interpretazione, storico nodo trasformativo nell'ideazione analitica. Mi invitò allora a tenere con lei un gruppo nella sua abitazione di via de Nardis, con Dino Riccio, noto psicoanalista partenopeo, Salvatore La Palma, autorevole magistrato, Francesco Villa, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta A.I.P.P.I., ben noto anche per le perizie forensi. Nel tempo affluirono, poi, Titta Parisio e Pino Palladino, figure ben conosciute (ho ricordato l'antica consuetudine con il segretario scientifico che ha introdotto la presente giornata ). Maria apprezzava, inoltre, l'identità storica di M. Fordham, eminente junghiano, che mi onoro aver conosciuto a Roma nel 1978, allievo di Jung, molto vicino alla Tavistock, a Bion e Meltzer, autore di un'originale proposta di accostamento tra l'archetipo e la deintegrazione-reintegrazione nella psiche infantile. Nel 1994 il gruppo originario giunse, per opportuna iniziativa di Dino, ad affrontare alcune pagine di Cogitations di W.R. Bion, postumo capolavoro di epistemologia analitica. Il gruppo si riuniva il venerdì sera alle 21, per raccogliere Salvatore e me (comunque presente 3 giorni a Napoli), ma anche per un influsso del caso che annodava Venere, una salvezza di aspetti cannibalici - v. Robinson Crusoe - una memoria sacrificale di Cristo, un valore astrale propizio alla Bilancia (di stimolo oppositivo al Sole in Ariete di Maria, generalmente buono per la collaborazione con l'Ariete Francesco e lo Scorpione mio e di Dino). La parte finale del ricordo di Maria Peluso è legata all'esperienza di rapporto in vita, come sempre quasi indicibile, e alla mia lettura dell'ultimo scritto di Maria, “La cesura e il clivaggio...” in "Richard e Piggle", 2013, 21 ( 1 ), pp. 65-83. Il tema trattato appartiene di diritto alla tradizione psicoanalitica più elevata e risale alla congiunzione originaria tra psichiatria dinamica e psicoanalisi. Oltre Laplanche e Pontalis, mi preme qui richiamare J. P. Assoun, Dictionnaire des oeuvres psychanalytiques, PUF, Paris, 2009, p. 264-266, che riconduce doverosamente al lemma in Inibizione, sintomo, angoscia, di S. Freud, cap. VII e alla ripresa bioniana ne La cesura, in cui confluiscono, nel 1975, i Seminari brasiliani, 1975. Ciò matura, ulteriormente, nei Seminari italiani, 1983 e 1985, Borla e Cortina. Segnalo, peraltro, l'assenza del lemma nel nuovissimo e importante Dizionario freudiano di Claude Le Guen, PUF, Paris, 2008, ed.it. a cura di A. Luchetti, Borla, 2014. L'attenzione bioniana mira alla nascita e alla morte, sottolineando l'unicità della venuta al mondo, un'esperienza solo un pò più pensabile della morte, poiché il riflettere sulla nascita implica comunque una posizione di presenza e durata nel versante della vita. Non si può peraltro ignorare che la metrica e la musica connotino, prima ancora della psicoanalisi, lo statuto epistemico della cesura, che comprende la nozione di intervallo e di pausa. E mi permetto qui di rinviare chi legge al mio “La sinopia e la pausa”, in Alchimie della formazione, a cura di A. Sassone, G. Cerbo, D. Palliccia, Vivarium, Bergamo, 2005, in cui ho trattato il concetto di pausa entro un'area di confine tra l'analisi e la supervisione, rammentando anche il prezioso contributo di Gillo Dorfles, L'intervallo perduto, Einaudi,Torino, 1980 Enuncio qui un esametro, da me reinventato come calco dell'esametro virgiliano che apre l'Eneide nell'elaborazione conclusiva, in una duplice versione a dominanza spondaica: “Mariamque cano mulieremque quae multa cognovit” “Mariamque cano mulieremque quae puerum aluit.” La conoscenza di Omega (K versus O) e la relazione col bambino interno vennero da Maria focalizzati alla luce di Bléger con uno sguardo elettivo allo spartiacque tra nevrosi e psicosi. Il merito eminente dello studio di Maria, alla quale avevo chiesto un articolo per la mia rivista telematica con stampa di cartaceo a richiesta, consiste nell'aver esplorato la radicale appartenenza del tema della cesura all'asse del transfert e del controtransfert. Ogni altra declinazione del cosiddetto clivaggio, fatta salva l'iniziale e poché che istituisce un possibile processo psicoanalitico entro i cardini della griglia bioniana, impegna l'analista ad un discorso insieme analitico e metapsicologico. In dettaglio l'abduzione di Ch. S. Peirce e la lacuna intesa come “non detto” che incuba il dire, indagata da Nicola Gardini nell'omonimo saggio, Einaudi, 2014. La mancanza, così come il differimento, hanno come indice fondamentale un cedimento. E il “lapsus” è il principe dei cedimenti. Nel saggio sulla cesura Maria - e qui ne invoco perdono - commette un “lapsus”. Nel citare in nota la Gradiva di Freud, il noto studio sul testo di Jensen, segnalato a Freud da Jung, Maria scrive: “Sono esempi di pscoanalisi applicata gli studi di Freud sulla Gravida su Michelangelo, sul caso Schreber, etc.” (v. Richard e Piggle, 201, 211, p75). “Gravida” in luogo di “Gradiva”. Così il suo lascito è compiuto e il nostro, il mio ricordo si anima nel riconoscimento della madre più che dell'incedere dell'Anima. E ancor più si anima nel gioco dell'oscillazione tra femminilità e maternità, tra contemplazione e azione, tra Marta e Maria di Betania cui Gesù rende visita ( Luca, 10, 38-42 ). Sono grato a Bice Vitolo, docente di filosofia, Papa Francesco, Maria e Nietta Lucariello per tale sublime transito. Clinica, Teoria e Tecnica nel modello di cura psicoanalitico: il contributo di Maria Peluso di Floriana Vecchione e Elisa Zullo Premessa Con questo lavoro intendiamo mettere in rilievo alcuni contenuti dell’esperienza clinica/teorica fatta da ciascuna di noi con Maria Peluso, sia nel corso delle supervisioni sostenute durante il training di specializzazione sia successivamente. Ci riferiamo, in particolare, a quanto abbiamo potuto osservare in lei circa la profonda coerenza interna tra conoscenza teorica, ciò che andava apprendendo di sé e degli altri e lavoro psicoanalitico, ovvero la stretta connessione tra sviluppo psichico, sue concettualizzazione teoriche e clinica della sofferenza psichica. Tralasciamo, invece, di raccontare dell’esperienza umana ed affettiva che pure è stata fondamentale nella trasmissione e nell’apprendimento del suo sapere e di come affinità di idee e l’interesse condiviso per lo sviluppo dei processi mentali e della pratica psicoanalitica, nel tempo, ha rafforzato il nostro legame. Chi l’ha conosciuta sa bene come Maria utilizzasse nel lavoro clinico pochi autori di riferimento: Klein, Bion, Meltzer, Bleger sono sempre presenti nei suoi scritti così come lo erano nelle sue riflessioni durante le supervisioni. Essi costituiscono come amava dire, “un saldo corrimano”, una guida utile, anche se non del tutto esaustiva, per inquadrare le diverse situazioni cliniche, ma anche per riflettere sulla propria esperienza di vita. Fin dagli inizi della sua attività di psicoanalista, Maria ha sempre mostrato viva curiosità ed interesse per questi autori e, in particolare, per le loro ipotesi teoriche sugli stati primitivi della mente e sul concetto di gruppalità interna. Ad essi ha dedicato uno studio costante ed approfondito che ha orientato il suo pensiero verso una ipotesi di modello integrato 3 del funzionamento mentale, dalle sue primissime manifestazioni strettamente intrecciate con il corporeo, al suo sviluppo successivo. Ciò è quanto abbiamo potuto comprendere attraverso le riflessioni emerse nel corso delle supervisioni e lo studio dei suoi numerosi lavori, in particolare quelli degli ultimi anni. La sua vasta e profonda padronanza delle teorie e dei concetti psicoanalitici unita alla chiarezza espositiva, ci ha aiutato a rintracciare, tra l’altro, la connessione tra teoria e clinica, ovvero a riconoscere la teoria nella clinica e ad utilizzare nel lavoro clinico il modello teorico. Il saldo legame ai suoi autori di riferimento, tuttavia, non ha impedito a Maria, sempre spinta da grande curiosità e dall’amore per la ricerca e la conoscenza, di approfondire lo studio dei più importanti psicoanalisti del panorama inglese, argentino e francese, utilizzandone quei concetti teorici che ben si integrano nel corpus delle teorie sulla mente primitiva (es. concetto di pittogramma di Piera Aulagnier), senza, tuttavia, cedere al facile fascino di posizioni concettuali sincretiche e suggestive, non coerenti con il suo modello di riferimento nel quale la clinica è in stretto rapporto con la teoria e la tecnica. Nella storia della psicoanalisi, il rapporto tra teoria e clinica ovvero tra teoria e tecnica non sempre è stato coerente, con un polo strettamente connesso all’altro, tant’è che negli anni ‘70, George S. Klein (1976), appartenente al gruppo di David Rapaport, parlava esplicitamente dell’esistenza di “due teorie psicoanalitiche” quella clinica e quella metapsicologica, così distanti tra loro al punto che una delle due, la metapsicologica doveva essere secondo lui abbandonata del tutto. Di fatto la psicoanalisi è una teoria metapsicologica, una prassi terapeutica e un metodo di indagine sul funzionamento della mente normale e patologica. Questi tre livelli sono legati da una circolarità intrinseca: dalla esperienza clinica nasce una idea a partire dalla quale si costruisce la teoria e il metodo specifico. Freud, proprio partendo dall’osservazione dei fenomeni isterici presenti in alcune pazienti, ha potuto formulare le sue prime ipotesi teoriche che poi ha modificato ed integrato man mano che l’esperienza lavorativa lo metteva in contatto con nuove manifestazioni cliniche. Dopo di lui la teoria si è andata ulteriormente modificando ed arricchendo, in un processo che è tuttora in via di evoluzione. Le maggiori spinte all’innovazione teorica, però, sono venute dalla sperimentazione clinica con quadri ritenuti “al confine” della patologia tradizionale, ovvero delle formazioni nevrotiche e, pertanto, con situazioni cliniche spesso considerate non adatte alla psicoanalisi. Così, applicando il metodo di indagine psicoanalitico al trattamento dei bambini, Melanie Klein ha formulato ipotesi teoriche originali da cui sono scaturite nuove scoperte che hanno contribuito ad arricchire l’intero bagaglio della psicoanalisi; pensiamo ad esempio al solo concetto di identificazione proiettiva. Il lavoro di Maria, così come lei lo intendeva e lo conduceva, era sempre aperto ad accogliere il nuovo. «Sappiamo ancora molto poco sulla nascita e lo sviluppo della mente» ci ripeteva, comunicandoci il mistero ed il fascino dello psichico ancora tutto da esplorare e da conoscere, motivandoci alla ricerca attraverso un’applicazione corretta e rigorosa del metodo psicoanalitico unito ad una attenta capacità osservativa. Prima di addentrarci nel merito del contributo di Maria alla psicoanalisi, ci sembra utile presentarla a chi non l’ha conosciuta ricordando alcuni passaggi del suo iter formativo/ professionale a testimonianza della sua profonda passione per la psicoanalisi. Maria ha iniziato la sua attività professionale negli anni ‘70 come volontaria nella maggiore istituzione psichiatrica napoletana; questa esperienza l’ha messa in contatto, fin da subito, con patologie molto gravi e le ha dato l’ opportunità di conoscere alcuni esponenti della scuola argentina rifugiati in Italia 4 che le fecero conoscere le teorie di Pichon Riviére e di Bleger. Questi, spinti da un forte impegno civile in una Argentina sofferente a causa della guerra in atto, avevano avviato filoni di ricerca comprendenti, tra gli altri, la relazione tra psicanalisi e psicologia sociale, nell’ottica della prevenzione e della promozione della salute. Bleger, di formazione sostanzialmente kleiniana/bioniana 5, in particolare, sviluppando alcune ipotesi di Pichon Riviére, aveva fatto confluire in un unico articolato sistema, al contempo «il “sociale”, il “somatico” ed il “mentale”» ( Bleger 1971). Tali ambiti sociali ed istituzionali sono rintracciabili, del resto, anche nella tradizione Tavistock introdotta a Roma da Gianna Polacco, alla quale negli stessi anni ‘70 Maria comincia ad avvicinarsi. Particolarmente interessata ad una visione complessa della mente, in cui gruppalità e individualità si intrecciano alla dimensione istituzionale, fin dagli inizi, ella avvia terapie psicoanalitiche individuali intensive e, nell'ambito istituzionale, dapprima a Napoli e poi a Torino, incomincia il lavoro psicoanaliticamente orientato ai gruppi di operatori, quali infermieri e medici. Il concetto di cura le è molto caro, cura della sofferenza mentale, ma anche della sofferenza psichica legata alle gravi patologie organiche che rimandano a quelle organizzazioni protomentali e di indifferenziazione mente-corpo di cui ci parlano Bion e Bleger. L'osservazione psicoanalitica del neonato, nell'ambito del corso osservativo secondo il modello Tavistock, che inizia nel 1976, l'avvicina alla dimensione primitiva della mente così come emerge nella relazione duale madre-bambino e le fornisce uno strumento di esplorazione e di comprensione delle dinamiche relazionali precoci. Come ella ha scritto poi, «la relazione psicoanalitica, […] proprio attraverso il transfert e la sua interpretazione potrà consentirci di intuire la storia del paziente anche nei suoi aspetti più arcaici, proto-mentali, nei quali si confondono la mente e il corpo, l'individuo e il gruppo e le rispettive modalità di funzionamento. Nell'esperienza psicoanalitica il punto di radicamento delle patologie più gravi appare proprio quello dell'inizio della relazione con la madre - già fin dai momenti originari, prenatali - che è anche la rappresentante, nella relazione con il figlio, del proprio ambiente familiare e sociale, per molti aspetti indifferenziati da sé» (Peluso, 2012b). Il contributo clinico, teorico e tecnico che Maria ha dato al pensiero psicoanalitico è ampio e difficilmente sintetizzabile. Abbiamo perciò scelto di fermare sinteticamente la nostra attenzione su tre argomenti fondamentali del suo insegnamento e ai quali lei stessa dava grande rilievo: il setting, la consultazione ed il processo, evidenziando quegli elementi teorici e tecnici del “corrimano”necessario al lavoro psicoanalitico. Il setting Sul setting si è molto detto e scritto; qui vogliamo rifarci a quel concetto e modello di setting utilizzato da Maria, che nasce dall’incontro del pensiero di Meltzer con quello di Bleger. Meltzer ne “Il processo psicoanalitico”, pubblicato a Londra nel 1967 6, parla della necessità di instaurare una “situazione analitica” (setting) tale da rendere minime le interferenze esterne sullo sviluppo e sull’elaborazione del transfert. Egli afferma che: «il segreto è la stabilità e la chiave della stabilità è la semplicità» 7. La situazione analitica, alla quale, col massimo rigore, deve presiedere l’analista col proprio stile, è quella situazione di stabilità in cui, soltanto, può svolgersi il processo psicoanalitico; di essa fanno parte accordi stabili sul luogo/studio, i giorni, gli orari, l’onorario; ad essa è, pertanto, anche collegata la modulazione8 dell’ansia, resa possibile proprio dalla ripetizione costante di una esperienza in cui i «processi di transfert non si scontrano con una attività controtransferale dell’analista», ma si imbattono «in una attività analitica e, cioè nella ricerca della verità» (Meltzer, 1967)9. Sempre nel 1967 viene pubblicato a Buenos Aires 10 uno dei più importanti articoli di Bleger, Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico, (Bleger 1967) a cui Maria dava grande rilievo per le idee originali esposte dall’autore circa la funzione di “depositario” attribuita al setting. Bleger, riferendosi alla relazione terapeutica tra analista e paziente, parla di situazione psicoanalitica nella quale distingue il processo che, come egli afferma, «studiamo, analizziamo, interpretiamo», dal non processo, il setting, che definisce inquadramento psicoanalitico e che identifica come «un insieme di costanti, nell’ambito delle quali avviene il processo stesso». Tali costanti sono rappresentate, per Bleger, dal ruolo dell’analista, dai fattori relativi allo spazio/ambiente, dal tempo e da alcuni aspetti di tecnica come ad esempio: «la fissazione ed il mantenimento degli orari, l’onorario, le interruzioni concordate etc.». Fin qui Bleger non si discosta sostanzialmente da Meltzer, ma poi, prendendo spunto dall’esperienza di lavoro con pazienti psicotici ed ipotizzando un inquadramento “ideale”, incomincia ad occuparsi in modo originale del significato psicoanalitico dell’inquadramento e della sua specifica funzione 11. Egli sostiene che l’inquadramento, di cui, come abbiamo già detto, fa parte anche il ruolo assunto dall’analista per le sue caratteristiche di costanza di norme ed attitudini, è un’istituzione (così come lo è il gruppo familiare) e, in quanto tale, diventa parte della personalità del paziente contribuendo allo sviluppo della sua identità (Io). Esso «funziona come i limiti dello schema corporeo» 12: finché lo psicoanalista lo mantiene invariato nei suoi aspetti di stabilità, costanza e ripetitività, sembra non esistere o non viene preso in considerazione; al contrario esso si manifesta nel momento in cui si rompe o rischia di rompersi. L’attenzione di Bleger si concentra, in modo assolutamente innovativo, su questa parte dell’inquadramento che definisce silente (muto) e che assume una funzione estremamente rilevante: in essa, di fatto, il paziente deposita il “mondo fantasma”, il non-io quale organizzazione strutturale più primitiva ed indifferenziata della personalità, in sostanza la parte psicotica della personalità, che, immobilizzata, realizza la richiesta inconscia di simbiosi portata dal paziente stesso consentendo lo sviluppo dell’Io. L’analista, viceversa, diventa il depositario delle proiezioni del paziente e può lavorare su di esse senza colludere con la sua richiesta di simbiosi. Nell’ambito dell’inquadramento, un aspetto tecnico centrale è costituito dal clivaggio13 tra l’analista e ciò che viene depositato in lui, ovvero tra il ruolo che l’analista assume e quello del depositato che invece gioca. Precisa Bleger «Fra l’io ed il non-io o fra la parte nevrotica e psicotica della personalità, non si produce una dissociazione, ma un clivaggio, nel significato che ho attribuito a questo termine in uno studio precedente» (Bleger, 1964a) Questa concezione dell’inquadramento/setting quale depositario degli aspetti psicotici, é parte integrante del modello clinico, teorico e tecnico di Maria; ella lo utilizzava in modo rigoroso sia nella consultazione che nel trattamento analitico di pazienti bambini ed adulti, che perlopiù proponeva a frequenza intensiva, consapevole che ogni analisi non può, in nessun caso, prescindere dal lavoro sulla parte psicotica della personalità. Pertanto, in ambito clinico aveva consolidato una prassi che prevedeva interruzioni minime; di fatto ella lavorava anche durante i giorni festivi infrasettimanali e limitava le vacanze estive rigorosamente al mese di agosto e prima settimana di settembre. Per comprendere appieno il senso di tale scelta, onerosa per molti aspetti, riportiamo una citazione da Bleger: «L’inquadramento del paziente corrisponde alla sua fusione più primitiva col corpo della madre e l’inquadramento dell’analista deve servire a ristabilire la simbiosi originaria, ma con il preciso scopo di modificarla. Il fatto che l’inquadramento si rompa, o venga mantenuto in una condizione ideale o normale, è un problema tecnico e teorico, ma quello che esclude qualunque possibilità di un trattamento in profondità è la rottura dell’inquadramento provocata o accettata dallo stesso analista. […] L’organizzazione psicologica più primitiva può essere analizzata solo nell’ambito dell’inquadramento dell’analista», che non deve essere, quindi, «né ambiguo, né mutevole, né alterato» (Bleger, 1967) La consultazione come trattamento diagnostico Nel definire il modello di cura in un trattamento psicoanalitico, Maria scrive: esso «è costituito dalla esplorazione dei fenomeni psicologici che nella relazione analista–paziente emergono e si sviluppano fin dal suo esordio14» (Peluso, 2012a) Al primo contatto e ai colloqui iniziali Maria attribuiva una grande importanza non solo per le finalità diagnostiche e propedeutiche all’avvio di un trattamento, ma soprattutto per il valore esperienziale e di apprendimento che possono avere, quale occasione di conoscenza di aspetti di sé per la persona che ne fa richiesta, ma anche per l’analista. E’ ancora viva nella nostra mente la particolare attenzione che, nel corso delle supervisioni, Maria dedicava alla consultazione ed il richiamo costante ad essa durante il trattamento analitico per valutare, retrospettivamente, le ipotesi diagnostiche iniziali alla luce del materiale che emergeva. Era sua convinzione, infatti, che «Il primo colloquio è sempre una esperienza molto importante per i partecipanti, nell’attualità della relazione analista-paziente come nelle riflessioni retrospettive su di esso». (Peluso, 2012a) Sul primo colloquio e sulle sue finalità, molto è stato scritto. Bleger se ne è occupato in particolare negli articoli Il colloquio psicologico e Criteri di diagnosi, nei quali agli aspetti tecnici che egli definisce con estrema precisione, si accompagnano riflessioni teoriche e considerazioni cliniche15. Nel modello di consultazione psicoanalitica così come lo concepisce Maria, le questioni tecniche, teoriche e cliniche vengono affrontate in modo originale attraverso la confluenza di apporti provenienti da diversi autori e diversi ambiti. Integrando le concettualizzazioni teoriche espresse da Bion (1961,1970) e da Bleger, (1964,1971), con il modello di assesment utilizzato dalla Tavistock per la diagnosi psicoanalitica infantile, Maria mette a punto una prassi da lei definita “trattamento diagnostico”. Diversamente da Bleger che proponeva un unico colloquio, sul protocollo del quale egli lavorava a lungo, anche giorni e, preferibilmente, in un piccolo gruppo di supervisione, il modello di consultazione utilizzato da Maria è costituito da più colloqui e si avvicina al modello di trattamento breve introdotto da Isca Wittemberg nelle consultazioni per gli studenti universitari. Ciò che, tuttavia, distingue il “trattamento diagnostico” dal “trattamento breve” è l’uso del transfert: nel primo, infatti, esso è utilizzato solo come strumento tecnico di osservazione e comprensione di quanto avviene nell’attualità, nell’hic et nunc, della relazione paziente-analista. Il modello proposto da Maria, inoltre, tiene conto di quanto concettualizzato da Meltzer circa le fasi del processo psicoanalitico. Maria scrive: «Una diagnosi con le modalità descritte si sviluppa attraverso momenti distinti: il primo colloquio, quelli intermedi, la conclusione. Ed elementi da tenere presenti nel corso di tutta la relazione diagnostica, sono la “temporaneità”, cioè la “separazione”, e il “compito» (Peluso, 2010). Un setting costituito da tre, quattro incontri, è per lei utile non solo per giungere precocemente ad una diagnosi iniziale sulla struttura, sul funzionamento della personalità e sul livello di integrazione dell’Io, ma anche «per favorire la possibilità di un contatto della persona con se stessa e con il suo mondo interno e sollecitare una riflessione, attraverso l’esplorazione delle proprie modalità relazionali con l’oggetto interno ed esterno, sulle proprie angosce e sulle difese attive in quel momento» (Peluso, 2010). Come scrive Bleger: «Il colloquio diagnostico agendo come un fattore normativo o di apprendimento è, sempre, in qualche modo anche terapeutico»(Bleger 1964b). In questa ottica, fondamentale diventa, quindi, l’inquadramento o setting che, con la sua stabilità, costanza16 e ripetitività, sebbene nel breve tempo/spazio della consultazione 17, delinea, fin dall’inizio, quella “situazione” in cui, possiamo dire, la persona si presenta; talvolta esso può rappresentare per il soggetto anche «l’unica possibilità che egli ha di parlare di se stesso con qualcuno che non lo giudichi, ma lo comprenda»(Bleger 1964°). Riportandosi ai criteri diagnostici individuati da Bion e Bleger, ed in particolare alla necessità, per giungere ad una diagnosi funzionale, di valutare il grado di discriminazione tra la parte psicotica della personalità e quella non psicotica, nonché il clivaggio tra le due, Maria presta grande attenzione alla “storia di vita“ raccontata dal paziente e particolarmente al livello di discriminazione sé/gruppo (gruppo familiare, di lavoro etc.) da lui raggiunto, nonché alla reazione controtransferale dell’analista nel corso della narrazione. Non si tratta di una raccolta anamnestica, ma di una osservazione attenta a quegli eventi di vita che hanno comportato una interruzione/caesura18, alla loro ricomposizione ed al loro ripetersi. Sia che si tratti di pazienti adulti, bambini o adolescenti, le riflessioni su tali aspetti diventano parte integrante del lavoro diagnostico. Ella scrive poi: «La professione di psicoanalisti infantili, fin dalla nostra formazione, ci mette di fronte alle relazioni interne ed esterne del bambino con i genitori nell’ambito del gruppo familiare, gruppo che cominciamo a frequentare e a riconoscere, anche nelle sue dinamiche intersoggettive e gruppali, fin dal tempo della nostra prima Infant Observation. Da questo momento – e sempre più nel nostro iter formativo e poi nel nostro lavoro – possiamo avere esperienza di “vincoli” e modalità di comunicazione particolarmente intensi e profondi, attraverso il riconoscimento e l’elaborazione dei transfert colti nelle relazioni con noi e delle nostre risposte contro-transferali, che cominciamo ad esperire già durante la pratica osservativa e la riflessione su di essa nei seminari dei nostri corsi di formazione» (Peluso, 2012b). Il processo psicoanalitico Abbiamo parlato dell’inquadramento o setting come di quell’insieme di costanti, il non processo, nell’ambito del quale, soltanto, può svilupparsi il processo in una relazione che possiamo definire in termini bioniani di contenitore /contenuto. Secondo Bleger quando il setting viene disturbato o si rompe, diventa esso stesso processo e in quanto tale va interpretato e non modificato. D’altra parte il setting stesso, quale inquadramento silente, necessita in ogni trattamento di essere trasformato in oggetto di analisi onde evitare che diventi una “assuefazione” che, se non analizzata, può formare la base organizzativa della personalità, favorendo più che lo sviluppo dell’Io, la costituzione di un Io adattato. Sappiamo che il processo psicoanalitico si configura, essenzialmente, come la relazione tra analista e paziente caratterizzata dallo sviluppo del transfert, dalla dinamica transfert/controtransfert e dall’alleanza terapeutica. Richiamandosi all’articolo di Klimoysky (1982) sul concetto di processo psicoanalitico 19, Etchegoyen lo definisce «[…] un divenire temporale di elementi concatenati i quali tendono ad uno stato finale con l’intervento dell’analista. […] tali eventi si pongono in relazione fra loro in base a fenomeni di regressione e di progressione, […] lo stato a cui tendono è la guarigione, […] l’intervento dell’analista consiste fondamentalmente in un atto interpretativo» (Etchegoyen, 1986). Ci sembra importante, a questo punto, soffermarci brevemente sulle due posizioni teoriche che, a nostro avviso, appaiono quelle più significative per comprendere la natura del processo analitico. La prima di esse, diffusa soprattutto tra gli Psicologi dell’Io, vede il processo come un prodotto artificiale delle condizioni del setting. Secondo questi autori, le condizioni limitanti e frustranti del setting inducono nel paziente, in modo attivo e deliberato, uno stato di regressione, condizione necessaria per il costituirsi della nevrosi di transfert, oggetto dell’analisi, allo scopo di riportare il paziente all’origine delle carenze dello sviluppo per poi riprendere da lì un cammino emotivo più sano verso la guarigione. Tale teoria di setting e di regressione risalirebbe, secondo questi autori, allo stesso Freud il quale, affrontando la questione nella “Lezione 22” dell’Introduzione alla psicoanalisi (Freud 1915-1917), attribuisce allo stato di privazione uditiva e visiva, propria del setting classico, la messa in moto del processo regressivo e della nevrosi di transfert, indispensabile per il procedimento analitico. Compito essenziale dell’analista è, allora, quello di modulare e regolare la regressione. Tra gli autori post-kleiniani, Winnicott ha poi ripreso ed approfondito il tema della regressione. Egli, distinguendo tra pazienti con differenti gradi di sviluppo, ritiene che con soggetti a funzionamento preedipico, ovvero a struttura psicotica, sia necessario, inizialmente e per tutto il tempo richiesto, un setting modificato. Tale setting sarebbe caratterizzato da assenza di interpretazione e dalla presenza di aspetti permissivi e gratificanti, allo scopo di consentire, attraverso l’esperienza di “sostegno” e contenimento delle angosce infantili, quel processo di regressione indispensabile per riavviare lo sviluppo affettivo primario interrotto e per sanarne le ferite. Alle carenze della madre/ambiente, Winnicott oppone, quindi, una nuova esperienza di holding; la regressione riporta il paziente ad uno stato di dipendenza infantile e consente un’esperienza di narcisismo primario a partire dal quale il vero Sé può esprimersi e riprendere il suo naturale sviluppo. Secondo Winnicott, tale regressione, a differenza di quella terapeutica concettualizzata dagli Psicologi dell’Io, è temporale, profonda e fa parte del processo di guarigione20. La seconda posizione teorica, concettualizzata dalla scuola kleiniana, indica, rispetto alla dinamica del processo psicoanalitico ed allo sviluppo della mente, il loro punto di avvio nell’angoscia di separazione e nell’identificazione proiettiva come difesa da essa. Di fatto, la teoria kleiniana ponendo la relazione oggettuale in primo piano e fin dagli inizi dello sviluppo, sostiene che il processo psicoanalitico si attiva a partire dalla ritmica esperienza di contatto e separazione. Meltzer, in particolare, si è occupato del processo psicoanalitico come «prodotto naturale della struttura della mente e del suo grado di funzionamento, rivelato nel e dal transfert e controtransfert» (Meltzer,1967). Nel suo scritto La terminazione dell’analisi Maria, riportandosi a Meltzer, afferma: «E’ la realizzazione dei processi di transfert che, una volta avvenuta, permette all’analista di essere testimone, per così dire, del passato del paziente e di osservare anche i particolari durante lo svolgimento della mente o delle fasi del processo analitico» (Peluso, 2011) Meltzer, sulla base di un lavoro durato sei anni, articolato in seminari, lezioni e collaborazione nel lavoro clinico e nella ricerca, nel 1967 in quello che Maria riteneva un testo fondamentale, ci mostra un’articolazione del processo «composto da cinque fasi distinte tra loro negli aspetti clinici, teorici e tecnici, la cui sola regola è la loro continuità genetica: infatti l’ordine in cui le fasi si presentano è fisso e non è possibile che alcuna di esse sia saltata, mentre può accadere che la durata del loro processo di sviluppo sia varia e/o che si interrompa ad un certo punto del trattamento 21» (Meltzer, 1967) Rinviando al testo dell’autore per l’approfondimento delle singole fasi, intendiamo qui soffermarci su alcuni aspetti e concetti espressi da Meltzer ai quali Maria dava particolare rilevanza nel lavoro clinico: 1) la ciclicità del processo nelle sue quattro unità ricorrenti: la seduta, la settimana, un segmento di analisi, l’anno di analisi. L’attenzione puntuale alla ciclicità delle manifestazioni del transfert, come ella sosteneva citando Meltzer, consente all’analista di essere puntualmente presente sulla scena psichica proposta dal paziente e nel luogo preciso del processo. 2) l’universalità del processo psicoanalitico, inteso come prodotto naturale della struttura e del funzionamento della mente, sia nell’analisi dei bambini che degli adulti. Come ricorda Maria, Meltzer ritiene che sia utile poter seguire il processo nella sua “forma più pura” così come si manifesta nell’analisi dei bambini in quanto i bambini presentano livelli della mente scarsamente differenziati. «Tuttavia» egli dice, «se i lettori che non hanno questo genere di esperienza sapranno perseverare fini al capitolo sesto, troveranno l’intero quadro riportato in relazione con quanto avviene nello studio dell’analista con gli adulti. In realtà ogni analista osserva costantemente il bambino o, più precisamente, le partibambine dei suoi pazienti adulti, nei sogni così come nell’acting-out e nell’acting-in del transfert» (Meltzer, 1967) 3) l’individuazione e l’evoluzione delle scissioni del Sé sia orizzontali (livelli di età), sia verticali (anatomiche e funzionali) 4) il processo inteso come prodotto naturale della struttura e del funzionamento della mente che, nel corso dell’attività psicoanalitica, è orientato, attraverso una progressiva discriminazione dei livelli arcaici proto mentali, verso una buona scissione nell’ambito della posizione schizoparanoide e, successivamente, alla integrazione propria della posizione depressiva. Di fatto, come sosteneva Maria integrando la teoria di Meltzer con la tecnica proposta da Bleger, il lavoro dell’analista, durante tutto il processo, consiste nella paziente e puntuale discriminazione degli elementi indiscriminati - nucleo agglutinato/parte psicotica della personalità - portati dal paziente. 5) il processo psicoanalitico come analisi tesa a realizzare un’organizzazione di fondo della personalità piuttosto che a risolvere un particolare carattere o sintomo psicologico. Vogliamo concludere ricordando ed affidando a chi leggerà questo scritto pensieri di speranza che Maria nutriva e ci comunicava, non solo per le sorti di ciascun paziente, ma anche per quelle di ciascun uomo, nella convinzione di un cammino progressivo dell’umanità tutta verso una maggiore capacità di integrazione e conoscenza di sé: Ella, riprendendo Meltzer, scrive « […] esiste sempre […] un livello maggiormente maturo della mente che, a causa della sua identificazione introiettiva con oggetti interni adulti, può ragionevolmente essere indicato come “parte adulta”.[…] La speranza dell’analista è che questa “parte adulta” guadagni sempre maggiore controllo sull’organo della coscienza […] non soltanto in ordine ad una maggiore collaborazione con l’analista ma nell’eventualità di uno sviluppo di capacità di autoanalisi» (Peluso, 2011). Bibliografia Bion W. R. 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Quel piccolo moto della testa si verificava quando qualcosa non andava nel verso giusto, quando le era chiara l’opacità della visione, o un deficit di empatia, o quando notava l’effetto riduttivo delle interpretazioni “di scuola”. In tali situazioni di lavoro clinico quello che agli allievi poteva sembrare, sul momento, un rigore eccessivo del maestro nei confronti dell’errore dell’allievo, non era altro che la manifestazione della fiducia nel metodo di lavoro psicoanalitico, rigoroso, e senza sconti, se vuole ottenere dei risultati, a partire dal modello kleiniano. Se invece l’errore tecnico, (pur sempre errore!), si delineava all’interno di una relazione contenitore/contenuto, sia nelle mente del paziente sia in quella del terapeuta come un esito di un fenomeno di identificazione proiettiva o di movimenti controtransferali inavvertiti, quel piccolo movimento non c’era, e la leggerezza del suo tocco, nella comunicazione verbale e non verbale, produceva un immediato effetto di chiarezza e uno straordinario senso di sollievo. La chiarezza era il frutto di una capacità di trasmissione dei contenuti teorici e contestualmente il frutto della capacità di contenimento del supervisore che com-prendeva l’allievo, il suo paziente, la loro relazione. Il sollievo proveniva da questo e diveniva il motore che dava l’energia per portare avanti il trattamento. Sarebbe troppo azzardato dire che in tali occasioni Maria poteva cogliere un fenomeno estremamente complesso, la cesura/clivaggio di cui si è occupata soprattutto nei suoi ultimi lavori? Mi sia consentito di dire di no. Il rigore teorico e metodologico di Maria Peluso, della cui necessità era convinta fautrice, non la portava a escludere il rischio che potesse talvolta divenire rigidità, così come non ha mai frenato la curiosità verso nuovi spazi di esplorazione psicoanalitica. In questa dialettica tra rigore e curiosità/flessibilità verso nuove e più profonde aperture alle ipotesi psicoanalitiche sugli stati primitivi della mente possiamo vedere un segno peculiare del suo modo di intendere il lavoro clinico e forse una delle ragioni profonde del suo interesse per due autori di cui ha diffuso la conoscenza, Bion e Bleger. Maria Peluso come didatta non si è mai sottratta alla supervisione delle patologie più gravi, assumendosi la responsabilità di guidare l’allievo nelle turbolenze più catastrofiche. Era sostenuta dalla fiducia nelle capacità che possono derivare all’allievo dall’esperienza dell’osservazione dei primissimi rapporti madre bambino, e dall’elaborazione nei seminari di supervisione, delle aspettative e fantasie inerenti la relazione della madre e della coppia parentale con il nascituro. Perciò quando proposi a Maria di scrivere un volumetto sull’osservazione ne fu entusiasta ed è stata un’esperienza bellissima, durata più di sei anni, (tanto ci abbiamo messo per far uscire il libro), convinte com’eravamo dell’utilità di una riflessione sul soggetto osservatore assunto come una delle variabili del campo. In quegli anni c’era sempre qualcosa di urgente da fare per l’associazione o per la nascente scuola di specializzazione a Napoli, e a malincuore il nostro lavoro di studio, di discussione, di sosta condivisa piacevolmente davanti a un caffè, doveva essere messo in pausa, per essere ripreso più in là. E ne abbiamo scritti di documenti! Perché per lei la scuola e l’associazione e il futuro della psicoanalisi erano “cose di cuore”, nel senso che le stavano molto a cuore. E proprio per questo ha profuso energie perché si potesse strutturare la scuola nella sede di Napoli, sostenendo quanti di noi potevano attraversare momenti di scoraggiamento nel portare a termine questo impegno. I suoi seminari di Infant Observation, i seminari clinici e le supervisioni erano l’occasione per approfondire le ipotesi della ricerca psicoanalitica sui livelli primitivi della mente. Senza mai smettere di essere una psicoanalista kleiniana, Maria era impegnata nella clinica e nella didattica nell’esplorazione di quei territori della psiche da cui si snoda, fin dalla sua preistoria, la vita mentale, nella sua doppia matrice individuale e gruppale. Proprio questo interesse l’ha portata a far conoscere le nuove frontiere della psicoanalisi, al di là di Bion, che sembrava in certi anni essere l’unico depositario, dopo la Klein, dell’orizzonte teorico della ortodossia kleiniana. Penso alla scuola argentina, Bleger, ma non solo, e dalla Francia, P. Aulagnier, R. Kaës. Cito da uno degli ultimi lavori La «cesura» e il «clivaggio» quali indici di valutazione nella prassi psicoanalitica, “clinica” e “operativa”: “Le patologie più gravi oggi appaiono, infatti, potersi radicare nella indifferenziazione originaria sé-madre-ambiente - sistema protomentale (Bion 1961), posizione glischro-carica (Bleger 1962), processo (Aulagnier 1975) – fino ad avvicinarsi e ad alimentarsi con la ricerca e le ipotesi sulla trans-generazionalità (Kaës 1993).Ciò a sua volta pone in rilievo, nella clinica come nella speculazione teorica, l’interesse per le zone e i momenti di passaggio da uno stato all’altro della mente e dai livelli e dalle modalità primarie di funzionamento a quelle più evolute” (Peluso, 2013, p.65). Non era d’accordo sul fatto che un caso grave non potesse essere inviato agli allievi più giovani; era molto decisa invece nel sostenere una supervisione lunga, anche oltre il limite necessario per il training, convinta che solo dall’esperienza di apprendimento insieme con un’altra mente potessero venire durature acquisizioni di identità professionale. Rigore dunque e flessibilità/curiosità/apertura alla ricerca teorico-clinica sui livelli arcaici del funzionamento mentale compresenti nella psiche accanto a livelli più evoluti. Curiosità di quel vasto movimento di pensiero che fa capo alla scuola argentina e a Bleger. Da quest’autore Maria aveva tratto l’ipotesi che «l’individuo non nasce come un ente isolato che si pone gradualmente in relazione con gli altri, ma si trovi immerso, al momento della nascita, in un’interrelazione massiva globale, in un’organizzazione sincretica. In altre parole, non sono gli individui a formare i gruppi, ma, al contrario, sono i gruppi che formano gli individui, e, a volte, le persone.» (Bleger, 1966, p. 134). Era questa compresenza che interessava Maria Peluso, e che, talvolta nel lavoro di supervisione, di fronte all’ingenua sicurezza dell’allievo che tutto andasse al meglio, le faceva dire sorridendo, “Sì, ma…” Voglio dire che era presente nella sua mente non solo la complessità della realtà psichica, ma anche l’attenzione alle zone di passaggio da uno stato all’altro della mente. Un tratto distintivo della sua didattica era insistere sull’importanza - cito parole sue dal succitato articolo - “l’importanza di indagare i punti di transito nei quali si evidenzi una cesura – si sia essa instaurata o si sia rotta - con il suo corredo di difese, funzionali e/o disfunzionali alla capacità di tollerare la pena del cambiamento e della separazione” (Peluso, 2013 p.68). Maria non aveva fretta e non dava fretta, era convinta che il tempo avrebbe chiarito le cose, a condizione che si potesse far uso della visione binoculare, seguendo Bion, e dell’insight nel cogliere i derivati dell’attività fantasmatica, seguendo la Klein. Com'è noto, nell'approccio kleiniano le fantasie inconsce rappresentano un elemento fondamentale sia della teoria sia dell’applicazione clinica. Ma è non affatto facile accettare l’idea della fantasia inconscia come qualcosa di mentale presente nel neonato. Quando gli allievi fanno l’esperienza dell'Infant Observation, vivono anche momenti di perplessità, talvolta di paura, di fronte allo squarcio di conoscenza che il seminario di supervisione offre sull’intreccio tra fantasie inconsce, costituzione biologica ed esperienze corporee del neonato, in rapporto agli oggetti primari. L’interesse prevalente di Maria Peluso, come didatta e docente dei corsi di Infant Observation, si fondava sull’interesse a trasmettere agli allievi la sensibilità clinica per intuire il ruolo della fantasia inconscia nel rapporto analista-paziente. Tale ruolo s’intreccia con il processo transferale, nel senso che quanto è trasferito non è solo una replica del passato,secondo la concezione comunemente accettata e diffusa nella comunità psicoanalitica, ma è una fantasia attuale, attiva inconsciamente. Recentemente ho avuto l’onore di fare da discussant, invitata dai colleghi analisti junghiani, insieme ad Antonio Vitolo, ad un seminario tenuto a Napoli da R. Hinshelwood. Non ho bisogno di ricordare l’importanza dei suoi scritti per la comunità psicoanalitica e kleiniana in particolare. R.Hinshelwwod è un illustre kleiniano; è ancora oggi convinto fautore di quanto sosteneva nel lontano 1993 e cioè che «le fantasie inconsce, che danno significato alle esperienze adulte del paziente sono generate da esperienze con figure importanti nell’infanzia, e che, cosa ancora più rilevante, che un elemento distintivo nella psicoanalisi kleiniana sia il rilievo dato al fatto che le fantasie inconsce rappresentino nell’hic et nunc della seduta “la materia dell’esperienza attiva attualmente”»( Hinshelwood, 1993, p.241). Questo è un elemento che in qualche modo segna una linea di demarcazione tra le associazioni psicoanalitiche, ed ha suscitato un grande dibattito, soprattutto quando il lavoro con i pazienti schizofrenici (non solo della Klein, ma penso a Rosenfeld, la Segal, e soprattutto Bion) portò a mettere in primo piano il fenomeno dell’identificazione proiettiva e a lasciare sullo sfondo le interpretazioni sugli oggetti parziali. Basta leggere alcune sedute dal caso Richard per rendersi conto di quanto ampia sia la differenza con le modalità dell’esplorazione psicoanalitica kleiniana più recente che si avvale del grande contributo di Bion. Potremmo dire senza esagerare che il modello kleiniano si è complessizzato approfondendo i livelli primitivi della mente, e non hanno avuto ragione coloro che prevedevano fosse finito in un “vicolo cieco scientifico”, soprattutto dopo che sempre più spesso vediamo nuovi tipi di pazienti e nuove forme di psicopatologia e di disagio psichico. Dice ancora Hinshelwood: «Malgrado i profondi cambiamenti nella pratica kleiniana e i problemi irrisolti che ancora rimangono, vi è stata una sorprendente continuità nei principi fondamentali della tecnica che sono sempre rimasti attuali» (Hinshelwood p.248). Questi principi sono naturalmente il processo, il transfert come situazione totale, il livello infantile del funzionamento mentale, e la pulsione di morte. Appunto sul modello infantile del funzionamento mentale, Maria Peluso ha scritto le sue pagine più belle e dense negli ultimi anni, approfondendo il concetto di caesura in Bion e il concetto di clivaggio in Bleger. Di questi autori Maria instancabilmente faceva notare vicinanze teoriche, pur nelle differenze di terminologia, nella convinzione che nella seduta fosse fondamentale cogliere i passaggi da uno stato all’altro della mente i punti di transito. Cito Maria: «In questi punti di transito sembrano instaurarsi e operare delle “cesure” per proteggere l’Io e le sue funzioni dall’invasione di contenuti allaganti, portatori di ansie molto gravi – catastrofiche, confusionali – appartenenti a stati molto arcaici e indifferenziati dello sviluppo, espressi dai livelli psicotici di funzionamento. Sono cesure che separano, ma anche connettono questi diversi territori della mente, il legame tra i quali è fondamentale possa essere mantenuto e/o riguadagnato in un trattamento psicoanalitico (Bion 1977 a; 1977 b; Bleger 1962; 1964 b; 1967), attraverso l’instaurarsi di processi di discriminazione prima e di integrazione poi da parte del paziente. La ri-connessione di tale legame può permettere all’Io di acquisire forza e – nel corso della relazione psicoanalitica, attraverso il contenimento e l’interpretazione dell’analista – di riparare le proprie carenze o mancanze pregresse e di deporre le difese limitanti e/o disfunzionali utilizzate precedentemente.» La “cesura” può essere rappresentata come un’interruzione, ma anche come una sorta di struttura, una membrana divisoria elastica fra diversi stati mentali, come, per esempio, possiamo “immaginare” «la barriera di contatto», costituita da elementi alfa, fra conscio e inconscio. Tale barriera di contatto permette la distinzione fra lo stato di sonno e di veglia (Bion 1962b, p. 45) e l’integrazione con parti di sé e funzioni dell’Io – che altrimenti rimarrebbero scisse e proiettate –, attraverso il lavoro del e sul sogno, utilizzando la funzione alfa nella relazione contenitore/contenuto ♀♂. O ancora, possiamo pensare alla “cesura” secondo il suggerimento di Bion in A proposito di una citazione tratta da Freud: “Picasso dipinse un quadro su un pezzo di vetro in maniera che potesse essere visto da entrambi i lati: Suggerisco che si possa dire la stessa cosa della cesura [….. ]” (Bion,1977b,p.225). Ma la cesura può essere altresì rappresentata dal proliferare di una barriera rigida - immaginabile come lo “scherma beta”, costituito da elementi beta- che non permetterebbe, finché sussiste, alcuna ulteriore trasformazione e integrazione. (Peluso, 2013,pp. 65-66). Vediamo qui la ragione fondamentale dell’importanza che Maria Peluso ha sempre attribuito al primo o ai primi colloqui con i genitori: rigorosa da questo punto di vista la sua richiesta di protocolli dettagliati allo scopo di cogliere i punti di transito della storia di vita raccontata e la risposta controtransferale del terapeuta che ascolta la narrazione. Nella relazione che mi chiese di leggere in sua vece (già non era nel pieno delle sue forze) al Convegno dell’A.I.P.P.I. del 2012, poi pubblicata nel volume a cura di G. Milana Processo analitico e dinamiche familiari in psicoanalisi infantile, Maria scriveva: “Questo primo incontro con il probabile futuro terapeuta del proprio figlio rappresenta infatti per la coppia genitoriale un momento critico, di possibile «turbolenza emotiva», non solo per le difficoltà che attraversa il bambino, ma anche per le ri-emersioni – in ciascuno di essi come individui, come componenti la coppia e come genitori, nonché nella loro inizianda relazione transferale con il terapeuta – di oggetti interni e parti di sé infantili, dolenti e indesiderate. Scrive Bion in Turbolenza emotiva: «I problemi connessi col prendere una decisione sono rimessi in moto sotto forma di turbolenza emotiva come causa di questa oppure come un suo precipitato. Nelle occasioni in cui la turbolenza emotiva è intensa la cosa è drammatica […]. Si elaborano decisioni nella comunità, nella famiglia, nel gruppo, nell’individuo; coloro che hanno una propensione psicoanalitica sono votati a pensare e a discutere.» (Bion, 1977b, p. 216)… Nell’incontro con i genitori, infatti, cominciano fin da subito ad apparire il grado di evoluzione del gruppo familiare e del suo funzionamento, il grado di differenziazione e di cooperazione presente fra i membri del gruppo, il grado di invischia mento e di partecipazione tra loro” (Peluso, 2014, p.104). Mi conforta ricordare Maria in occasione di un altro convegno A.I.P.P.I., quello tenuto a Napoli nel 2011, sul tema Quale aiuto per quale paziente? Processi valutativi nel trattamento psicoanalitico, dall’assessment alla conclusione. In quelle dense giornate di un luminoso ottobre abbiamo potuto ascoltarla mentre leggeva la sua relazione, poi pubblicata per i tipi di F. Angeli nel volume Il senso e la misura. Processi valutativi nella presa in carico e nella cura psichica in una prospettiva psicoanalitica (a cura di Carmela Guerriera). In questo lavoro lo stesso tema della cesura e del clivaggio veniva declinato dal punto di vista della relazione terapeuta-paziente: “Nel corso di questi punti di passaggio – prototipo di essi la nascita, come ogni evento separativo importante, lutti o cambiamenti significativi –, si manifestano ansie e turbolenze emotive che richiedono l’accoglimento ed il riconoscimento in una relazione che le contenga e ne inizi l’elaborazione: una relazione cioè che permetta all’analista, in ascolto della persona che chieda aiuto in uno dei “punti di passaggio” della sua vita, di dare attenzione alle sue modalità e ai suoi tempi di cesura /clivaggio, per poter comprendere, anche nell’attualità di un’intensa turbolenza psichica, quali sono, fra le modalità tecniche possibili, quelle più adeguate per superare gli ostacoli e ristabilire una continuità interna tra una scansione e l’altra della mente, come tra patologia e sanità” (Peluso, 2013, p.80). … “Potremo scoprire il ripetersi significativo e perdurante di momenti di rottura e di “turbolenza emotiva” risalenti a eventi anche molto precoci e tali da facilitare l’agire piuttosto che il pensare. A volte, infatti, tali eventi, non riconosciuti tempestivamente, determinano agiti dirompenti anche nella stessa relazione terapeutica, tanto da poterla spingere al blocco di un’impasse o ad un’interruzione prematura.” … “Beninteso, quel che interessa della “storia di vita” di un soggetto non coincide con l’anamnesi – una raccolta di dati, di accadimenti esterni della sua vita – ma di questi ultimi è significativo il peso emotivo, rivelato innanzitutto dalle modalità stesse della loro comunicazione e dalle associazioni che le accompagnano. Queste rappresentano la riattualizzazione nel transfert dei sentimenti e degli atteggiamenti inconsci costituitisi nel corso dello sviluppo e delle relazioni interne – ma anche esterne ed interpersonali – particolarmente con il gruppo familiare; così come è fondamentale nell’ascolto il riconoscimento e l’elaborazione da parte del terapeuta del proprio contro-transfert” (pp.7677). Dal primo o dai primi incontri con i genitori Maria poteva cogliere e far cogliere, alla luce della sua esperienza, il primo attuarsi di movimenti introiettivi e proiettivi, le diverse manifestazioni di mobilità o stagnazione attraverso l’attenzione ai punti di transito. Ricordiamo le parole di Bion in una citazione riportata anche da Maria: «Dunque…? Indagate la cesura; non l’analista, non l’analizzando; non l’inconscio, non il conscio; non la sanità, non l’insanità. Ma la cesura, il legame, la sinapsi, il contro-transfert, l’umore transitivo-intransitivo» (Bion, 1977a,p. 99).» Vorrei concludere, con quello che mi sembra un prezioso lascito del suo modo di essere psicoanalista che è anche un valido suggerimento alle generazioni più giovani, per quell’avventura rischiosa e affascinante che è il viaggio della psicoanalisi: «In questo processo, primo e fondamentale livello di intervento, appare il raggiungimento della relazione contenitore/contenuto ♀♂ che permette, attraverso l’identificazione proiettiva realistica, l’avvio della comunicazione, della funzione alfa e del pensiero (Bion 1962a, 1962b; Meltzer 1967)» (p.80). Ed è quest’attenzione alla mobilità del processo, supportata da un rilevante spessore teorico e dalla riflessione retrospettiva, sia relativa a una seduta, a una settimana, a un anno di analisi, o all’intero corso di un trattamento, sia anche relativa ad un unico colloquio, l’eredità più grande che Maria Peluso ci ha lasciato come esempio e testimonianza e che speriamo di raccogliere e trasmettere. Bibliografia Bion W. R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971 Bion W. R. (1962), Una teoria del pensiero, in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma 1970 Bion W. R. (1962 b), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972 Bion W. R. (1963), Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma 1973 Bion W. R. (1977a), Discussioni con W. R. Bion, Loescher, Torino 1984 Bion W. R. (1977b), Turbolenza emotiva, in Seminari clinici, Raffaello Cortina Editore, Milano 1989 Bion W. R. (1977a). Caesura. In: Cambiamento catastrofico. 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Da questo momento – e sempre più nel nostro iter formativo e poi nel nostro lavoro – possiamo avere esperienza di “vincoli”22 e modalità di comunicazione particolarmente intensi e profondi, attraverso il riconoscimento e l’elaborazione dei transfert colti nelle relazioni con noi e delle nostre risposte contro-transferali, che cominciamo ad esperire già durante la pratica osservativa e la riflessione su di essa nei seminari dei nostri corsi di formazione. La relazione psicoanalitica infatti, proprio attraverso il transfert e la sua interpretazione, potrà consentirci di “intuire” la storia del paziente anche nei suoi aspetti più arcaici, protomentali, nei quali si confondono la mente e il corpo, l’individuo e il gruppo e le rispettive modalità di funzionamento. Nell’esperienza psicoanalitica il punto di radicamento delle patologie più gravi appare proprio quello dell’inizio della relazione con la madre, la quale – già fin dai momenti originari, pre-natali – è anche la rappresentante nella relazione con il figlio del proprio ambiente familiare e sociale, per molti aspetti indifferenziato da sé. Già nei primi incontri con i genitori, che vengono a parlarci di un figlio bambino o giovane adolescente, entriamo in contatto con storie di vita complesse. In esse si intersecano e si confondono la dimensione individuale e quella gruppale, il mondo interno e il mondo esterno, elementi relazionali inter-generazionali e trans-generazionali, e l’agglutinarsi tra loro di tali dimensioni è proprio del livello proto-mentale di funzionamento. Scrive Meltzer commentando Bion: «il livello proto-mentale è quello a cui gli avvenimenti fisici e psicologici non sono differenziati, a cui i componenti emotivi sono fusi e costituiscono una fase iniziale di fenomeni psicologici osservabili. Questo è collegato saldamente al concetto di Freud sul narcisismo primario in quanto livello a cui la relazione oggettuale e l’identificazione sono indifferenziate e a cui l’Io è ancora un Io corporeo. Ma è anche qualche cosa di diverso, perché Bion si accosta ai gruppi con l’assunto che l’uomo è un animale gregario e che la sua mentalità più primitiva è interessata in maniera soverchiante alla sua condizione di membro di gruppi [corsivo mio]» (Meltzer, 1977-1978, pag. 17). Tuttavia, i fenomeni di gruppo cui si riferisce Bion (1961) non sono tout court quelli riguardanti la famiglia come erede della tribù primitiva all’interno della quale centrali sono le angosce inerenti al conflitto edipico (Freud), ma sono, da una parte, i fenomeni dei gruppi in assunti di base – gruppo di dipendenza (abD); gruppo di attacco e fuga (abF); gruppo di accoppiamento (abA) – come difese dalle angosce psicotiche e, dall’altra, i fenomeni del gruppo di lavoro (gruppo W). Nel suo funzionamento, il gruppo familiare partecipa, per un verso, delle caratteristiche del gruppo in assunti di base (gruppo AB), compreso quello in abA relativo alla difesa dalle angosce edipiche – sia pure nei suoi prodromi arcaici, cioè oggetto combinato e fasi pre-genitali confuse insieme – e, per altro verso, al gruppo di lavoro (gruppo W), costituito, nell’esperienza del bambino, da una coppia di genitori «che, ad esempio, si sono messi insieme allo scopo di allevare bambini» (Meltzer, 1977-1978, pag. 20). Relazione e significato del lavoro con i genitori e con la famiglia rispetto al lavoro analitico con il bambino. Al centro della prospettiva – intra-psichica ed inter-soggettiva, individuale e gruppale dell’assunto bioniano «che l’uomo è un animale gregario e che la sua mentalità più primitiva è interessata in maniera soverchiante alla sua condizione di membro di gruppi» (Meltzer, 1977-1978, pag. 17) –, un posto particolare occupano, come prima e fondamentale difesa della mente dalle angosce primitive e profonde, i processi dell’identificazione proiettiva, così presenti ed operanti tanto nelle modalità arcaiche di funzionamento e di comunicazione dell’individuo quanto nelle dinamiche primarie di un gruppo indifferenziato (Peluso, 2000, 2010). L’attenzione verso questi livelli ha aperto alla psicoanalisi sia nuovi spazi di esplorazione, di conoscenza e di teorizzazione, sia nuove possibilità di esperienze e di applicazioni psicoterapeutiche e sociali dei concetti psicoanalitici. Nell’ambito di tali esperienze, vorrei ora fare alcune considerazioni sul lavoro clinico con i pazienti bambini e adolescenti e sulla pratica dell’affiancamento a tale lavoro di modalità diverse di contenimento e di cura indirizzate ai genitori e alla famiglia. Innanzitutto, mi pare utile riflettere su quale sia il genere di supporto e di facilitazione, rispetto al trattamento psicoterapeutico del bambino, che può derivare da un contemporaneo lavoro con i genitori: ha esso a che fare con la possibilità di conoscere meglio il paziente attraverso una migliore informazione sul suo ambiente e sul funzionamento del suo gruppo di appartenenza? Ha esso a che fare con l’opportunità di “saperne di più” circa la realtà esterna della sua vita e della sua famiglia? Se il fine di un trattamento psicoanalitico è di ripristinare uno sviluppo del carattere e della personalità di un individuo, di permettergli di riorganizzare il sistema delle sue difese dalla sofferenza psichica e quello delle sue relazioni con l’oggetto, che tale sviluppo hanno difficoltato o impedito, appare subito chiaro che solo attraverso il ripetersi delle sue relazioni primarie danneggiate/danneggianti – con nuovi esiti nel transfert con l’analista – può riavviarsi la loro riparazione e la crescita mentale. Mi pare che, da questo punto di vista, possiamo comprendere la risposta di Bion ad uno dei partecipanti ai suoi gruppi di discussione di New Jork nel 1977, il quale gli chiedeva se lavorasse con le famiglie: «Preferisco che non oltrepassino la soglia del mio studio. Naturalmente non posso garantire di riuscire a tenerle fuori mentalmente. Penso che sto analizzando il paziente; quello che gli sta facendo la sua famiglia non lo so e non ci posso fare niente. […] Dal momento in cui il paziente esce dal mio campo visivo e uditivo il valore dell’esperienza decade rapidamente. Le prove che mi arrivano per sentito dire valgono molto poco per me. […] per me queste cose non sono molto di più che un rumore senza senso» (Bion, 1977a, pagg. 90-91). Nella citazione ora riportata la chiave per comprendere il rifiuto di Bion al lavoro con la famiglia del paziente mi pare possa incentrarsi proprio sulla probabile idea sottesa alla domanda del suo interlocutore, cioè che una informazione esterna alla relazione transferale sia di per sé idonea a migliorare il contatto, la conoscenza e la comunicazione tra analista e paziente e favorire in tal modo il processo analitico. Anche Meltzer scrive: «È dato per scontato che ogni metodo che non focalizza l’indagine sul transfert è semplicemente privo di qualsiasi rapporto con la psicoanalisi [corsivo mio]» (Meltzer, 1967, pag. 22). Tuttavia, penso vi siano delle situazioni specifiche che possono farci ritenere il contatto con la famiglia – e con i genitori in specie – un supporto utile, spesso indispensabile, per lo stesso avvio del trattamento analitico e non un’interferenza indebita nello sviluppo della relazione di transfert. Mi riferisco essenzialmente a quei pazienti che hanno, come caratteristica peculiare, una dipendenza estrema dalle figure parentali di riferimento, tanto da non poter raggiungere il grado minimo di autonomia indispensabile all’inizio ed alla realizzazione di un trattamento psicoanalitico. Tale può essere la situazione dei pazienti bambini, o anche di pazienti comunque fortemente disturbati o regrediti, o anche il caso di un paziente inserito in un gruppo familiare particolarmente indifferenziato e primitivo, nel quale predominino le identificazioni proiettive incrociate tra i suoi membri, cioè vincoli relazionali fortemente limitanti il pensiero, il contatto con la realtà e la funzione gruppo W. In tali casi gravi, il lavoro con i genitori – o a volte con l’intera famiglia – potrebbe dover essere addirittura propedeutico al lavoro con il membro indicato come paziente dalla coppia genitoriale, purché anch’esso possa essere condotto utilizzando metodologie e tecniche non difformi – o disconfermabili – dai concetti psicoanalitici di base (fra i quali i processi transferali, i processi proiettivi e introiettivi e il raggiungimento dell’alternarsi di tali ultimi processi nella relazione e nel lavoro analitici, necessario per la loro stessa prosecuzione). Il lavoro con la famiglia si propone subito come notevolmente complesso. Esso reca con sé molti interrogativi, sia teorici che pratici, circa le sue finalità ed i suoi metodi di cura rispetto a quelli propri della psicoanalisi clinica individuale. Infatti, il trattamento congiunto di bambino e genitori, nelle sue diverse possibili modalità di conduzione – pur essendo sorto certamente nell’alveo della psicoanalisi clinica ed essendo ormai anche praticato abitualmente da alcuni decenni nell’ambito delle varie scuole 23 –, non mi pare abbia ancora trovato una sua vera e propria sistematizzazione. Il raggiungimento di questa, infatti, richiede ancora a mio avviso – nell’oscillazione e nel confronto tra ipotesi teoriche ed esperienze pratiche – ulteriori riflessioni che ci possano permettere di raggiungere, con opportune e funzionali distinzioni, elementi di sufficiente integrazione tra psicoanalisi clinica e psicoanalisi applicata anche nell’ambito del lavoro con la famiglia. Una questione di base appare innanzitutto la seguente: se il lavoro con i genitori è un lavoro “psicoanalitico” – «dato […] che ogni metodo che non focalizza l’indagine sul transfert è semplicemente privo di qualsiasi rapporto con la psicoanalisi» (Meltzer, 1967, pag. 22) –, esso non può che realizzarsi attraverso l’analisi delle funzioni inconsce del transfert e del contro-transfert. Sorge allora immediatamente la domanda: ciò significa che i genitori sono da considerarsi anch’essi “pazienti” 24? La risposta a tale quesito, tuttavia, mi pare non possa prescindere dal significato che attribuiamo alla “cura” e alle sue modalità di realizzazione in psicoanalisi; ma ritornerò su tale argomento più avanti. Ora vorrei richiamare ed esporre, tra i concetti psicoanalitici cui mi riferirò come base e supporto per le mie riflessioni e proposte, quello dell’identificazione proiettiva. Alcune citazioni L’identificazione proiettiva nella relazione analitica da una parte coincide con la stessa possibilità del realizzarsi del transfert e dall’altra è legata strettamente con la funzione del contenimento. Scrive infatti Grotstein: «Ci si potrebbe interrogare su quando il transfert non è un’identificazione proiettiva. Mai! Secondo me, è il comune denominatore sotteso in tutti i transfert, che lo si consideri come spostamento di investimenti libidici su un oggetto passato – ormai interpretabile come identificazione proiettiva delle rappresentazioni o costruzioni mentali attuali di oggetti passati nell’immagine dell’analista – oppure come tutti gli altri aspetti del Sé proiettati negli oggetti “qui ed ora”.» (Grotstein, 2009, pag. 299). Di seguito riporto alcune citazioni tratte da Bion sull’identificazione proiettiva e, insieme, sulla funzione di contenimento e di avvio dello sviluppo della mente attraverso la capacità di rêverie della madre. Prima citazione (Apprendere dall’esperienza, Capitolo XII, sulla rêverie): «In origine, l’attività nota come “pensiero” era un processo che serviva a liberare la psiche dall’accumularsi degli stimoli, secondo un meccanismo che Melanie Klein ha chiamato identificazione proiettiva. […] questa teoria afferma che esiste una fantasia onnipotente la quale fa credere che sia possibile distaccare via alcune parti di personalità, indesiderate sul momento, anche se apprezzate in altre occasioni, e riporle dentro un oggetto. […] Sin dall’inizio della vita, il paziente ha con la realtà il contatto che gli basta per comportarsi in modo da suscitare nella madre la presenza di quelle sensazioni che egli non intende avere o che comunque desidera che la madre abbia» (Bion, 1962, pag. 65). E, nello stesso capitolo: «Un bambino capace di tollerare la frustrazione può permettersi di avere un senso di realtà. Se la sua intolleranza della frustrazione supera un certo limite, entrano in opera meccanismi onnipotenti, in ispecie quello dell’identificazione proiettiva. […] L’efficacia di tale operazione dipende però dall’esistenza, nella madre, di capacità di rêverie: un suo difetto incide negativamente sulla capacità del bambino di sopportare la frustrazione; […] (In tutto il passo ho presupposto che l’identificazione proiettiva sia una varietà primitiva di quanto più tardi viene definito capacità di pensare) [corsivi miei]» (pagg. 74-75). Seconda citazione (Gli elementi della psicoanalisi, Capitolo IX): «Il meccanismo dell’identificazione proiettiva mette il bambino in grado di affrontare l’emozione primitiva e contribuisce così allo sviluppo dei pensieri. […] Sembrerebbe esistere una connessione tra Ps↔D e ♀♂ […]. Il meccanismo (operation) Ps↔D è responsabile del manifestarsi della connessione tra “pensieri” già creati da ♀♂. Ma in realtà sembra quasi che Ps↔D sia altrettanto generatore di pensieri quanto lo è ♀♂ [corsivo mio]» (Bion, 1963, pag. 51). I processi dell’identificazione proiettiva e il lavoro su di essi appaiono di grande rilievo in tutte le fasi25 del processo psicoanalitico delineate da Meltzer e particolarmente nelle fasi iniziali – «la realizzazione del transfert» e «le confusioni geografiche» –. In tali fasi, il paziente comincia a fare ripetutamente esperienza «del fatto che vi è una situazione, un luogo, dove la manifestazione dei suoi processi di transfert non si scontra con un’attività contro-trans-ferale, ma si imbatte solo in un’attività analitica, e cioè nella ricerca della verità.» (Meltzer, 1967, pag. 19)26. Sono l’esperienza e le ansie della separazione – che prorompono nel transfert alla fine della prima settimana di analisi – a mettere in moto modalità di relazione precoci emergenti dalle profondità dell’inconscio del paziente. Sono angosce così profonde e intense da spingere quest’ultimo ad annullarle onnipotentemente, utilizzando intensi e ripetuti processi di identificazione proiettiva, tendenti alla con-fusione con l’oggetto proiettato sull’analista. Sono molti i motivi specifici che si accompagnano, secondo Meltzer, alla tendenza all’identificazione proiettiva “eccessiva” – «intolleranza alla separazione, controllo onnipotente, invidia, gelosia, mancanza di fiducia, eccessiva ansia persecutoria» (Meltzer, 1967, pagg. 46-47) –, ma essa, più profondamente, è connessa al fallimento primario di un’identificazione proiettiva realistica e comunicativa con la madre, mancante – o non sufficientemente dotata – di rêverie, con il conseguente mancato – o danneggiato – sviluppo nel figlio della funzione alfa e del pensiero (Bion, 1962a, pag. 176 e passim). Come già Bion, anche Meltzer mette in chiaro e ribadisce che il problema di base dell’identificazione proiettiva come difesa onnipotente «è quello del dolore psichico e dell’esigenza di poter disporre nel mondo esterno di un oggetto che sia in grado di contenere le proiezioni; in altri termini un oggetto […] chiamato “seno-gabinetto”. […] oggetto parziale della relazione, […] valutato e […] necessario, ma non […] amato.» (Meltzer, 1967, pag. 55). Mi sembrano inoltre rilevanti alcune affermazioni di Meltzer, a conclusione del capitolo de Il processo psicoanalitico su «le confusioni geografiche»: «[…] la risoluzione di questa strutturazione di relazione oggettuale rappresenta il confine tra la malattia mentale (psicosi) e la salute mentale […] 27. È una fase dell’analisi che può durare per anni con pazienti molto disturbati e […] non può essere risolta molto soddisfacentemente nei casi in cui una insufficiente capacità di sostegno ambientale rende le interruzioni dell’analisi intollerabili e ciò sia nei bambini che negli adulti. […] Il paziente che non riesce ad affrontare questa fase avrà un crollo psichico […] oppure abbandonerà l’analisi prima o dopo una vacanza [corsivo mio]» (Meltzer, 1967, pagg. 5758). Meltzer, in Claustrum, riprenderà ancora la tesi dello sviluppo del processo analitico come «storia naturale determinata dalla struttura dell’apparato mentale a livelli profondamente inconsci» e si occuperà di nuovo – negli stessi termini de Il processo psicoanalitico – in particolare delle «confusioni geografiche» e della strutturazione nel transfert del senogabinetto (Meltzer, 1992, pag. 40). Ed è forse quest’ultima, per il paziente, la prima possibile esperienza di un oggetto capace, nella relazione, di accogliere la sofferenza e il dolore anche dei livelli più primitivi, soma-psicotici: esperienza basilare per ogni successiva possibilità di crescita e di sviluppo mentale. Un punto fondamentale su cui si soffermerà Meltzer in Claustrum, confermando l’importanza e il valore fondante del processo analitico nella fase delle «confusioni geografiche», è la centralità del contenimento fra le funzioni dell’analista. Così egli scrive: «[…] vorrei accennare a uno spostamento di accento [rispetto a quanto dichiarato ne Il processo psicoanalitico]. Ritengo adesso che il contenuto dell’interpretazione abbia poco effetto durante questa fase dell’analisi […]. Poiché il comportamento del paziente […] mostra con tanta evidenza la sua natura di acting out nel transfert […] il comportamento dell’analista, verbale o di altro tipo, produce l’effetto di un’azione nel controtransfert piuttosto che di una comunicazione. Perciò, tutti quei fattori che determinano la “temperatura” nella stanza analitica, quello che ho chiamato la gestione della temperatura e della distanza del rapporto, sembrerebbero supplire a quelle che vengono descritte come funzioni del “seno-gabinetto”, costituite dall’interesse, dalla pazienza, dalla tolleranza e dai tentativi di comprensione da parte dell’analista – in una parola, il contenimento [corsivi miei]» (Meltzer, 1992, pag. 44). Nell’opera di Meltzer, l’attenzione al contenimento, quale fattore di base per l’avvio e per lo svolgimento del processo psicoanalitico, si realizza naturalmente nel setting cui presiede l’analista, ma l’esigenza di contenimento, significativa e da considerare, emerge non solo come elemento transferale profondamente infantile, ma anche, nel contro-transfert dell’analista, come preoccupazione per l’ambiente portato fin dall’inizio nel suo studio dai genitori e dal paziente e per la sua idoneità o meno di fornire «sostegno ambientale» (Meltzer, 1967, pag. 57), sostegno che, in certi casi, è necessario per l’avvio stesso del lavoro con il bambino nonché per la sua continuazione. Mi riferisco ancora all’affermazione di Meltzer sulla “refrattarietà” all’analisi che si costituisce «quando [nella vita familiare] un bambino ed un adulto stabiliscono nella vita reale una collaborazione stabile nell’actingout, [e] allora insorge quella folie à deux che è così refrattaria all’analisi.» (Meltzer, 1967, pag. 36). Ciò si realizza in genere con un adulto psicotico, molto spesso la madre, in una situazione di base certamente carente rispetto ad un ambiente familiare idoneo a sostenere il trattamento psicoanalitico del bambino, situazione che resterebbe tale senza un contemporaneo aiuto per l’ambiente familiare. Natura e modalità del lavoro con la coppia genitoriale Il momento dell’incontro iniziale con i genitori, precedente quello con il bambino nell’assessment, costituisce già un’occasione molto significativa ed illuminante, non solo e non tanto per la presa in carico del paziente ma, soprattutto – anche ad una rilettura retrospettiva –, per lo svolgersi dell’intero successivo trattamento e, conseguentemente, per l’opportunità, fin dal momento della “restituzione” ai genitori, di proporre l’eventuale affiancamento del lavoro con essi a quello con il bambino. Questo primo incontro con il probabile futuro terapeuta del proprio figlio rappresenta infatti per la coppia genitoriale un momento critico, di possibile «turbolenza emotiva», non solo per le difficoltà che attraversa il bambino, ma anche per le ri-emersioni – in ciascuno di essi come individui, come componenti la coppia e come genitori, nonché nella loro inizianda relazione transferale con il terapeuta – di oggetti interni e parti di sé infantili, dolenti e indesiderate. Scrive Bion in Turbolenza emotiva: «Può avvenire una crescita qualsiasi senza che ci sia repressione dello stato nascente? […] I problemi connessi col prendere una decisione sono rimessi in moto sotto forma di turbolenza emotiva come causa di questa oppure come un suo precipitato. Nelle occasioni in cui la turbolenza emotiva è intensa la cosa è drammatica […]. Si elaborano decisioni nella comunità, nella famiglia, nel gruppo, nell’individuo; coloro che hanno una propensione psicoanalitica sono votati a pensare e a discutere.» (Bion, 1977b, pag. 216). Dalle modalità di comportamento e di comunicazione della coppia emergono presto indicazioni sul tipo delle relazioni non solo intersoggettive tra loro e con il bambino reale, ma anche con i propri oggetti interni, spesso anche molto danneggiati/danneggianti e molto persecutori (si pensi, ad esempio, alle non rare famiglie nelle quali aleggiano fantasmi, anche trans-generazionali, di follia e di morte); nell’incontro con i genitori, infatti, cominciano fin da subito ad apparire il grado di evoluzione del gruppo familiare e del suo funzionamento, il grado di differenziazione e di cooperazione presente fra i membri del gruppo, il grado di invischiamento e di partecipazione tra loro. Bleger, in Psicoigiene e Psicologia istituzionale, contrappone, nel gruppo familiare, la “partecipazione” all’“interazione” tra i suoi membri. In ogni famiglia sono compresenti e si alternano entrambi i sistemi. La sanità di una famiglia è legata all’ampiezza dello spazio in essa esistente per i processi di discriminazione, di differenziazione e di individuazione dei suoi componenti (Bleger, 1966, pagg. 125 e segg.). Di fatto, tali processi sono connessi con la maturità della coppia genitoriale e con la capacità di contenimento che essa può sviluppare. A tal riguardo, Meltzer e la Harris, in Configurazioni familiari ed educabilità culturale, alla fine degli anni Settanta, scrivono: «Abbiamo considerato la vita familiare come un’organizzazione più o meno stabile di tre tipi generali: a) la famiglia vera e propria (famiglia di coppia); b) la banda narcisistica; c) il gruppo di assunto di base (AB).» (Meltzer, 1986, pag. 171) Come sempre, in un momento di possibile cambiamento per la coppia e per il gruppo familiare, con il disequilibrio che si crea, nei genitori emergono ansie e proprie parti bambine anche molto arcaiche e mai contenute, spesso proiettate e confuse con il piccolo paziente designato, ormai forse non più in grado di assorbire, come ricettacolo – silenzioso e inerte, o aggressivo ed espulsivo – le parti dolorose e incontenibili degli altri membri della famiglia. Questo ipotetico quadro è certamente il modello di una situazione particolarmente grave – e tuttavia abbastanza frequente nell’esperienza di ogni psicoanalista infantile –, tale da sollecitare, oltre alla presa in carico ed alla cura del piccolo paziente, un aiuto ai suoi genitori che possa contenerne la pena e il disagio e possa permettere loro di cominciare a “ritirarli” dal figlio e di riconoscerli come parti di sé, permettendo in tal modo lo svilupparsi di due processi distinti di conoscenza e di sviluppo – per se stessi e per il bambino – in una relazione psicoterapeutica. Secondo la mia esperienza, dunque, mi pare importante comprendere, per quanto possibile precocemente, anche la gravità del disagio – il livello della scarsa individuazione e della scarsa capacità di cooperazione nella coppia genitoriale –, e proporre perciò, prima ancora dell’inizio dell’assessment con il bambino, qualche incontro esplorativo con i genitori. Così, alla fine dell’assessment, al momento dell’incontro di restituzione, diventa possibile parlare con i genitori, da una parte, delle modalità del lavoro proponibile per il bambino e, dall’altra, dell’eventuale opportunità – o necessità – che questo si accompagni con un aiuto psicologico per loro stessi. Tale aiuto è finalizzato essenzialmente a dar loro la possibilità di esplorare la propria relazione e la propria funzione in quanto coppia genitoriale, di acquisire maggiore consapevolezza di sé e conseguentemente una maggiore individuazione e autonomia. In tal modo, in un momento presumibilmente particolare, delicato e impegnativo della loro vita – quale può essere appunto quello nel quale hanno sentito la necessità di dover chiedere ad un estraneo un aiuto a prendersi cura di un figlio in difficoltà –, proprio questo momento di “turbolenza emotiva” può essere un’occasione di crescita per loro, per tutto il gruppo familiare e per gli individui che lo compongono. Credo che, come psicoanalisti, non possiamo non farci carico appieno di questo aspetto, rischiando altrimenti, in definitiva, di occuparci soltanto, o prevalentemente, del sintomo, rappresentato dal piccolo paziente “portato”, e non anche del groviglio emotivo più profondo e vasto, anch’esso “portato” da coloro che sono venuti innanzitutto a chiederci aiuto per sé, anche se non del tutto consapevolmente. Tuttavia, a questo punto, dobbiamo accennare ad alcune questioni di base emergenti da una pratica di lavoro con i genitori, la cui impostazione tenda ad affidarsi alle linee concettuali che ho cercato di chiarire fin qui, cioè all’analisi del transfert e del controtransfert e all’adozione di una modalità di comunicazione/interpretazione, da parte dello psicoterapeuta analista, che utilizzi una tecnica adeguata all’accoglimento ed al contenimento delle identificazioni proiettive dei suoi interlocutori. Tali identificazioni, essendo all’inizio prevalentemente evacuative e non comunicative, necessitano di un accoglimento particolarmente connotato dalla “pazienza” e, allo stesso tempo – mi pare –, di una “funzione ausiliaria” di elaborazione connessa all’analisi del contro-transfert, tale da permettere nel corso della relazione la trasformazione di quelle identificazioni in pensieri comunicabili. Pazienza e funzione ausiliaria sono, peraltro, comunemente riconoscibili come predominanti nelle prime fasi del processo psicoanalitico in ogni trattamento psicoterapeutico, così come appare chiaramente teorizzato da vari autori, fra i quali qui mi riferisco specificamente a Meltzer (1967, 1986, 1992) e a Bleger (1964, 1966, 1967a, 1967b, 1972). La prima delle questioni alla quale occorre rispondere mi pare dunque proprio la seguente: i genitori sono allora da considerare anch’essi pazienti? Il lavoro con essi, che si accompagna con quello con un bambino in trattamento psicoanalitico, è una psicoterapia? Preliminarmente, mi pare possa essere di grande aiuto per affrontare tale questione, da una parte, la distinzione fatta da Bleger tra “psicoanalisi clinica” e “psicoanalisi operativa” (Bleger, 1966) e, dall’altra, quanto egli scrive sul tipo della cura e degli obiettivi propri della psicoanalisi (Bleger, 1972). Per quanto riguarda la distinzione tra “psicoanalisi clinica” e “psicoanalisi operativa”, Bleger, in Psicoigiene e psicologia istituzionale (1966), nell’intento di estendere l’applicazione dell’indagine e delle teorie psicoanalitiche al sociale, teorizza appunto tale distinzione: la “psicoanalisi clinica”, individuale, con un suo proprio sistema teorico-tecnico, è metodo di indagine dei fenomeni psicologici – e specificamente di quelli inconsci – attraverso l’analisi del transfert; la “psicoanalisi operativa” – variante della “psicoanalisi applicata” – è da utilizzarsi nelle normali crisi dello sviluppo e della vita quotidiana – quali, per esempio, la crisi adolescenziale o senile, particolari eventi, lutti o anche cambiamenti importanti e destabilizzanti della vita – (pagg. 143 e segg.). E tuttavia, tali situazioni di crisi sono pur sempre connotabili come occasioni di rotture catastrofiche, nelle quali possono istituirsi, nella mente delle persone, difese dalla pena psichica disfunzionali – come un’identificazione proiettiva “eccessiva”, onnipotente e impedente lo sviluppo e la relazione – e, al contempo, sono anche le stesse occasioni che, in vari modi, spesso possono condurre – forse a volte non del tutto consapevolmente – alla scelta di una cura della sofferenza mentale che sia insieme occasione di scoperta di sé e di crescita. Infatti, i genitori che vengono a chiederci aiuto, in modo evidente ed esplicito per un piccolo figlio, spesso sono sostanzialmente i portatori di una ri-emersione in loro di antiche esperienze di una pena mentale o proto-mentale fino a quel momento non elaborata, che attende, attraverso la ricerca di un oggetto contenente – prima esterno e poi interno – l’occasione, fondamentale in qualsivoglia procedimento che abbia a che fare con la psicoanalisi, di potersi esprimere e di essere accolta. Così può riavviarsi, innanzitutto, la relazione ♀♂ e la funzione alfa, cioè il contenimento da parte dell’analista di contenuti mentali intollerabili e non elaborati (Bion 1977b, 1992; Bleger 1972). Ciò a sua volta, permettendo nei componenti della coppia l’inaugurazione o il ripristino dell’alternanza tra proiezione e introiezione ed il realizzarsi di insight, sia pure intermittenti e limitati, su se stessi e sulla relazione tra loro e con il figlio, favorisce, attraverso momenti di integrazione, il loro accesso ad una maggiore individuazione. A questo punto, secondo la mia esperienza, vi è anche la possibilità di un cambiamento nell’assetto del trattamento combinato genitori-bambino con un unico terapeuta. Infatti, nulla vieta che per i genitori il lavoro su se stessi possa continuare, in un altro assetto e con un altro psicoterapeuta, in coppia o individualmente, secondo una loro scelta più consapevole, maturata generalmente proprio all’interno del lavoro psicoterapeutico precedente. Credo, infatti, tanto che, in alcuni casi di grande indifferenziazione e immaturità del gruppo familiare, sia una necessità che inizialmente sia lo stesso terapeuta ad occuparsi di genitori e bambino, quanto che questo assetto possa avere per i genitori la struttura di una psicoterapia a termine, cioè una delle modalità di psicoterapia psicoanalitica incluse da Bleger nella “psicoanalisi operativa”. La psicoanalisi operativa, infatti, condivide con la psicoanalisi clinica e con la psicoanalisi applicata l’interesse centrale per la dimensione inconscia, ma si avvale dell’indagine e della comprensione di quanto avviene nell’individuo, nella coppia, o nel gruppo, al fine di favorire la possibilità di una modifica della situazione portata, di disagio psicologico, soggettivo e intersoggettivo. Attraverso l’osservazione delle situazioni e il riconoscimento delle dinamiche, anche inconsce, questo tipo di intervento (“operazione”) si realizza attraverso l’interpretazione delle relazioni e della comunicazione e la possibilità di favorire la riflessione e l’apprendimento dall’esperienza nelle persone in difficoltà. All’interno della situazione psicoterapeutica, l’atteggiamento dell’analista e le sue verbalizzazioni mi pare possano avere innanzitutto la connotazione dell’osservazione e dell’attenzione paziente, cioè del contenimento, peraltro affidato ad un setting rigoroso, stabile e preciso, le cui condizioni saranno fissate al momento del contratto iniziale. Per quanto riguarda poi la specificità della cura e degli obiettivi propri della psicoanalisi – che si tratti di un trattamento rientrante appieno nella “psicoanalisi clinica”, individuale e intensiva, ovvero nella “psicoanalisi operativa”, tesa alla comprensione di quanto avviene, anche nella dimensione inconscia, nell’individuo, nella coppia o nel gruppo per favorirne l’individuazione –, tale specificità della psicoanalisi non cambia. Infatti, la “cura” psicoanalitica avviene sempre attraverso il raggiungimento della consapevolezza delle proprie dinamiche intra-soggettive e inter-soggettive, sia interne che inter-personali. Bleger, in Criteri di cura e obiettivi della psicoanalisi (1972, pubblicato postumo), afferma che la psicoanalisi, pur essendo stata fin dall’inizio un procedimento terapeutico – una “cura”, come «modifica in senso favorevole di sofferenze e/o organizzazioni patologiche» –, lo è in un senso molto più ampio di quello tradizionale, essendo molto vicina ad un procedimento di apprendimento e di cambiamento che avviene sulla base dell’esperienza nella relazione transferale, «una modifica della personalità sulla base dell’esperienza» (pagg. 299-300). La psicoanalisi infatti, essendo un procedimento di ricerca – di esplorazione e di conoscenza del mondo interno e dei processi inconsci –, può permettere lo sviluppo di nuove forme di intervento nella “cura” del disagio mentale, come pure applicazioni orientate alla prevenzione ed al sociale (Bleger, 1966). Caratteristica di ogni relazione psicoanalitica è che fra i suoi attori – l’analista ed il suo oggetto, individuo, coppia o gruppo – intercorre il “legame K” (Bion, 1962b), attraverso i vari modi della comunicazione/interpretazione, con i quali sarà incoraggiata innanzitutto la comprensione e la conoscenza emotiva di sé e delle dinamiche che si sviluppano nel setting (Peluso, 2011). Dunque, a questo punto, al quesito posto prima – se il lavoro con la coppia genitoriale, che si accompagna al trattamento del figlio e utilizza gli stessi concetti psicoanalitici di base di tale trattamento, sia una psicoterapia – a me pare possa essere data risposta affermativa. Tuttavia, come ho già accennato precedentemente (si veda la nota 24), occorre tenere presenti alcune differenze tecniche riguardanti sia il setting – la relazione terapeutica è con la coppia, la posizione è vis-à-vis, le sedute hanno una frequenza e una durata specifiche –, sia la modalità della comunicazione/interpretazione: questa, in prevalenza, non sarebbe riferita esplicitamente al transfert infantile con l’analista, e la sua “direzione” rispetto a quest’ultimo sarebbe molto meno “centripeta” che in una psicoanalisi e resterebbe molto di più – come spesso accade in una psicoterapia “improntata alla psicoanalisi”– sulla situazione e sugli oggetti presentati dalla coppia genitoriale. A tal proposito, mi pare utile ricordare ancora Grotstein, il quale si è occupato abbastanza estesamente della differenziazione tra “psicoanalisi” e “psicoterapia” ne Il modello kleiniano-bioniano. Egli scrive: «La psicoanalisi è effettivamente lo studio esclusivo delle strutture psichiche dell’analizzando, ma nel corso della conduzione dell’analisi [l’analista] è obbligato a condurre di quando in quando una psicoterapia del tutto legittima, perché l’analizzando crede nella realtà degli oggetti che presenta e ne è seriamente ed emotivamente coinvolto. L’analista deve prestare attento ascolto a quanto l’analizzando sembra provare coscientemente e osservare attentamente questi affetti, indagarli e commentarli. Poi […] potrebbe terminare la psicoterapia […] e iniziare l’analisi dicendo: “… ma al tempo stesso e su un altro livello, credo che sua madre […] potrebbe anche essere un modo per parlare dei suoi sentimenti rispetto alla madre-me”» (Grotstein, 2009, pagg. 26-27). Grotstein in tal modo, a mio avviso, supporta, seppure indirettamente, l’idea di una sostanziale continuità fra le varie forme di psicoanalisi – psicoterapia psicoanalitica e psicoanalisi (Grotstein, 2009); “psicoanalisi applicata”, “psicoanalisi operativa” e “psicoanalisi clinica” (Bleger, 1966) –, continuità che a me pare possa aprire sempre di più alla possibilità di un’estensione e di un’applicazione dei concetti psicoanalitici anche al sociale. Inoltre, mi pare che proprio la possibilità di concepire una sostanziale continuità e progressione anche nelle variazioni della tecnica interpretativa – progressione che peraltro può essere colta, a ben vedere, pure in ogni trattamento individuale 28 – ci possa permettere, in particolare, di guardare al lavoro congiunto di bambino e genitori, da una parte, come un trattamento specifico – benché necessitante ancora di ricerca e di sistematizzazione sul piano clinico, teorico e tecnico – e dall’altra, per la coppia, come la fase iniziale di un possibile ulteriore lavoro psicoanalitico quale «studio esclusivo delle strutture psichiche dell’analizzando» (Grotstein, 2009, pagg. 26-27), cui i genitori che lo desiderino possano giungere in una fase successiva e più evoluta del loro sviluppo. Comunque, a mio avviso, tale fase iniziale congiunta, laddove è richiesta dalla particolare situazione di inserimento gruppale del paziente bambino e dall’insufficiente individuazione ed evoluzione del suo gruppo familiare, non può essere evitata. Anzi, ritengo che essa debba essere precocemente oggetto di attenzione, accoglimento ed elaborazione affinché, in alcuni casi, la stessa possibilità dello svilupparsi e del compiersi della crescita mentale del bambino nella relazione esterna e interna con l’oggetto non sia intralciata o impedita. Bibliografia Bion W. R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971. Bion W. R. (1962a), Una teoria del pensiero, in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma 1970. Bion W. R. (1962b), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972. Bion W. R. (1963), Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma 1973. Bion W. R. (1977a), Discussioni con W. R. Bion, Loescher, Torino 1984. Bion W. R. 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Ringraziamenti A Salvatore Di Palma e a Francesco Giuliani, per l’istituzione della Borsa di Studio in favore degli allievi della Scuola di Specializzazione della sede di Napoli Ai D.ri Massimo Carpignano e Pia Mazza che, in rappresentanza dei rispettivi gruppi di lavoro, hanno descritto nel corso della Giornata di Studio le esperienze professionali svolte con Maria Peluso a Torino e a Cosenza Alla Casa Editrice Franco Angeli, che ci ha concesso l'autorizzazione a pubblicare il lavoro di Maria Peluso dal titolo: "L'identificazione proiettiva e il contenimento quali punti nodali nell'affiancamento del lavoro con i genitori a quello con il paziente bambino", tratto dal libro "Processo Analitico e Dinamiche Familiari”, a cura di Giuliana Lisa Milana, Milano, 2014 1 Alla Prof.ssa Mineo è successivamente subentrata, come Direttore della Scuola, la Prof.ssa Bianca Micanzi Ravagli Sono onorato di averlo conosciuto e di aver trascorso per suo invito a Pieve di Soligo il mio 40° compleanno; il tutto nasceva dal mio interesse per la sua poesia radicata nell'idioma, il petèl, e da un'istintiva familiarità, che Zanzotto mi rivelò basata sul mio aver inventato per mio figlio neonato, suo omonimo, una cantilena, bu gu pteeeee... Gli avevo dedicato l'articolo “Miti e oggetti della frustrazione” in “Rivista di psicologia analitica”, 2, 1985, 15 anni prima che componessi e pubblicassi il mio libro di poesie L'aurora del lupo, Manni (2000 ), evocare dopo la scomparsa la persona di analisti è penetrare nel paradosso zanzottiano d'un “ricchissimo” nihil. 3 Il termine modello, così come lo utilizziamo nel nostro lavoro, non appartiene a Maria giacchè lei non operava utilizzando modelli, ma elaborando e facendo proprie intuizioni e posizioni concettuali di autori diversi. Tale termine viene qui utilizzato per evidenziare, retrospettivamente, il carattere sempre più organizzato e sistematico assunto dalle sue riflessioni negli ultimi anni. 4 L’Associazione psicoanalitica argentina era nata nel 1942 intorno a psicoanalisti formatisi in Europa; ad essi si aggiunse Pichon Riviere, anche lui di origine europea e una seconda generazione di psicoanalisti molto vicina alla scuola inglese kleiniana e post kleiniana. A Pichon Riviere si deve la tecnica del “gruppo operativo”. 5 Bleger affianca, infatti, alla psicoanalisi individuale, la psicoanalisi applicata che riconduce allo stesso Freud, ed una sua variante che definisce psicoanalisi operativa, che, applicata a individui nelle fasi critiche dello sviluppo, a gruppi e ad istituzioni, soprattutto scolastiche e sanitarie, si fonda, come le altre due, sulla centralità della dimensione inconscia e si avvale della interpretazione come “dell’interpretazione delle relazioni e della comunicazione”. 6 In Italia il testo di Meltzer è stato pubblicato da Armando Editore nel 1971 7 Meltzer: Il processo psicoanalitico Armando Editore 1971 8 Meltzer distingue la “modulazione” dell’ansia dalla “modificazione” attribuendo a quest’ultima la funzione di aspetto interpretativo del lavoro psicoanalitico. 9 Meltzer: Il processo psicoanalitico Armando Editore 1971 10 Simbiosi ed Ambiguità veniva pubblicato in Italia dalla Casa editrice Lauretana nel 1992 11 In Bleger Simbiosi e ambiguità Casa editrice Lauretana nel 1992 12 (ibidem p. 273) 13 Clivaggio è il termine utilizzato da Bleger per designare la separazione di parti diverse della personalità oltre a due conformazioni che hanno una struttura diversa o un diverso livello di organizzazione (maturità e immaturità). La separazione può essere stabile, rigida, mobile o incompleta. In base alle caratteristiche ed alle vicissitudini del clivaggio, sarà possibile diagnosticare una serie di comportamenti normali o patologici e dedurre indici per la prognosi ed il tipo di terapia. 14 Con il termine esordio ella intendeva il momento in cui il paziente fa richiesta di un incontro con l'analista e le modalità di tale richiesta. 15 Nel lavoro La consultazione psicoanalitica alla luce dei criteri di diagnosi e di cura di Josè Bleger, Maria aveva riproposto proprio questi concetti di Bleger. Anche Etchegoyen (1986) se ne è occupato e, nei due capitoli de I fondamenti della tecnica psicoanalitica,dedica all’argomento, solleva questioni teoriche relative alla tecnica del colloquio contribuendo ad approfondire sia il significato e le finalità del colloquio come strumento diagnostico in psicoanalisi, sia la tecnica. Quest’ultima, come egli sottolinea, al pari degli obiettivi può ugualmente definire e qualificare un colloquio, cosicché «un colloquio è psicoanalitico quando è condotto con metodi psicoanalitici da uno psicoanalista» 16 Data dal tempo, luogo e atteggiamento dell’analista 17 Bleger distingueva il termine consultazione, intesa come richiesta di assistenza tecnica o professionale, da colloquio: «consultazione non è sinonimo di colloquio, giacchè quest’ultimo è soltanto uno dei procedimenti con cui il tecnico o l’operatore, psicologo o medico, può rispondere alla consultazione» 18 Il termine caesura viene utilizzato da Bion nel suo significato di <scissione non-patologica>. Egli utilizza tale termine per indicare la separazione tra due stati mentali, ma anche il loro punto di contatto. Per un maggiore approfondimento cfr. Bion (1977) Caesura, in Cambiamento catastrofico.Trad. it. Torino: Loescher, 1981 19 In una definizione più ampia e generale, il processo psicoanalitico viene definito in funzione del trascorrere del tempo in una successione cronologica per cui ad un dato tempo corrisponde una data configurazione. In una seconda accezione il processo si muove verso un obiettivo finale, raggiunto il quale, termina. Una terza accezione ci riporta alla teoria delle posizioni di Melanie Klein che suppone una “evoluzione processuale dalla posizione schizo paranoide alla posizione depressiva”, ed infine, una quarta accezione vede il processo come una “successione di eventi con le loro connessioni casuali, più le azioni con cui il terapeuta interviene in certi momenti affinché la sequenza sia quella e non un’altra” (cfr. nota pag.601 Etchegoyen 1986) 20 La regressione qui avanzata è quella della regressione facente parte di un processo di guarigione. Si tratta in realtà di un fenomeno normale che si può molto bene studiare nella persona sana. 21 Freud nel 1913, paragonando il trattamento analitico al gioco degli scacchi, individuò tre fasi: l’apertura e la fase conclusiva che, caratterizzate da “meccanismi specifici” possono prestarsi ad una sistematizzazione, ed una fase intermedia caratterizzata da variabili e fluttuazioni dovute alla specifica struttura di personalità del paziente. (Freud 1913) 22 «Vincolo» è un termine utilizzato da Josè Bleger nei suoi scritti sulla simbiosi a preferenza dell’espressione “relazione”. “Relazione oggettuale” si riferisce all’Io ed all’oggetto interno che, pur legato all’oggetto esterno, non ne è il doppio o la copia; il termine «vincolo» invece si riferisce all’oggetto della relazione interpersonale ed all’Io e, insieme, all’oggetto esterno ed a quello interno: il “vincolo” simbiotico infatti include, oltre alla relazione oggettuale, anche la relazione interpersonale, caratterizzata nella simbiosi dalle identificazioni proiettive incrociate (Bleger, 1967). 23 Il trattamento congiunto di pazienti in età evolutiva e dei loro genitori, nell’ambito delle varie scuole psicoanalitiche che hanno sviluppato tale tipo di lavoro, può essere condotto con modalità tecniche diverse sotto vari profili. 2 Mi riferisco alla Scuola post-kleiniana inglese (si veda l’ampio sviluppo del lavoro con la famiglia e con la coppia genitoriale portato avanti dalla Tavistock); alla Scuola americana (sviluppatasi negli anni Sessanta attraverso alcuni autori, fra i quali Böszörmény-Nagy e Searls, interessati prevalentemente ai pazienti schizofrenici); alla Scuola francese (che, prese le mosse dalle ricerche di Anzieu e poi di Kaës sui gruppi, ha oggi focalizzato la ricerca specificamente sul gruppo familiare e sulla coppia con Eiguer, con Ruffiot e molti altri); alla Scuola argentina (basti pensare al vasto filone di ricerca sull’estensione della psicoanalisi al sociale, iniziato da Pichon-Riviére ed al quale hanno partecipato, fra molti altri, Bleger, Grinberg, Rodrigué, Marie Langer, mentre, da allora ad oggi, molti degli psicoanalisti infantili argentini – alcuni dei quali emigrato negli anni Settanta dello scorso secolo in Spagna, in Italia, in Gran Bretagna ed in Francia – hanno continuato a svolgere tale lavoro in questi Paesi). 24 A tale quesito si accompagnano abitualmente molti altri interrogativi, nonché alcune particolarità nella conduzione del lavoro psicoterapeutico, interrogativi ai quali in questa sede non potremo che accennare. Ad esempio: 1. sarà lo stesso terapeuta ad occuparsi di bambino e genitori? Al tempo della mia formazione e dell’inizio della mia professione (anni Settanta), era abituale che, contemporaneamente al lavoro terapeutico con il bambino, i genitori – per i quali si riteneva utile un aiuto e un sostegno nella loro funzione genitoriale – fossero da subito affidati ad un diverso terapeuta; abitualmente si parlava infatti, per la coppia di genitori, di un “lavoro di sostegno” non meglio specificato e – sebbene si ritenesse preferibile che anche il terapeuta dei genitori fosse di “indirizzo psicoanalitico” per ragioni di uniformità teorico-tecnica – tale uniformità non era ritenuta una condizione indispensabile, tanto che, nei primi tempi, ad occuparsi dei genitori erano stati non soltanto psicoanalisti/psicoterapeuti infantili ma anche assistenti sociali particolarmente esperti nel campo della famiglia; 2. le modalità tecniche della comunicazione/interpretazione nel lavoro con i genitori saranno le stesse utilizzate nel trattamento psicoterapeutico del paziente bambino? Per quanto riguarda in particolare l’utilizzazione del transfert infantile e/o la sua interpretazione – come avviene negli incontri finalizzati alla diagnosi e nelle sedute psicoterapeutiche dei trattamenti brevi o a termine o anche negli incontri di counselling –, la direzione che assume l’interpretazione è, per così dire, molto meno centripeta rispetto alla coppia analitica e molto meno centrata sul transfert infantile precoce: infatti questo, anche se è riconosciuto e considerato dall’analista, in genere non è chiaramente esplicitato e le interpretazioni vertono prevalentemente sulle situazioni attuali portate; 3. 25 26 27 28 vi sono differenze, anche spazio-temporali, nel setting proposto per il lavoro con i genitori rispetto a quello del trattamento del figlio? Intanto, vi sono differenze di luogo e di durata: per un piccolo o giovanissimo paziente, il luogo è la stanza o l’angolo di gioco, e la posizione pur varia di terapeuta e paziente è prevalentemente vis-àvis; per un paziente adolescente, in genere il luogo è quello dello studio per adulti e la posizione può anche essere già quella distesa con l’analista alle spalle; per i genitori, il luogo della seduta sarà quello dello studio per adulti e la posizione vis-à-vis; quanto alla frequenza delle sedute, generalmente per il piccolo o giovane paziente questa può raggiungere, in un trattamento intensivo, le quattro sedute settimanali e la loro durata è di cinquanta minuti, mentre per i genitori in coppia la frequenza è generalmente di una seduta settimanale (a volte anche quindicinale), ma la durata ritengo debba essere molto maggiore (penso infatti sia opportuno offrire ai genitori un’ora e mezza di tempo). Inoltre, va da sé che, nel lavoro con una coppia (così come nei casi in cui il trattamento sia esteso all’intera famiglia del paziente), a dover essere analizzate ed interpretate sono le dinamiche e le comunicazioni, non degli individui che compongono la coppia come singoli, ma degli individui come componenti della coppia nella relazione tra loro e con il terapeuta. Infatti, a partire dalle scoperte e dalle teorizzazioni di Bion sui gruppi (Bion, 1961), il lavoro psicoanalitico non è stato mai più analisi individuale in gruppo, ma analisi del gruppo e delle sue dinamiche, e tale assunto è fondamentalmente insito in tutta la ricerca e la clinica attuali sui gruppi, sulla coppia e sulla famiglia. La tesi centrale de Il processo psicoanalitico è che «questo processo ha una sua propria storia naturale, determinata dalla struttura dell’apparato mentale ai suoi livelli inconsci più profondi». Esso si svolge attraverso cinque fasi – «la realizzazione del transfert», «le confusioni geografiche», «le confusioni zonali», «alle soglie della posizione depressiva», «lo svezzamento» –; «è un processo ciclico e le fasi […] possono fino a un certo punto essere osservate in ogni seduta, in ogni settimana, in ogni segmento di analisi, in ogni anno di analisi, e cioè in ognuna delle quattro unità cicliche.» (Meltzer, 1967, pagg. 45-46). Ciò significa che l’analista “non influirà” sul paziente attraverso procedimenti quali il “sostegno”, la “suggestione”, la “persuasione” ma, nel corso della relazione transferale, gli permetterà di raggiungere un maggiore contatto con se stesso e una maggiore consapevolezza di sé, attraverso il contenimento delle sue proiezioni e delle sue ansie e l’interpretazione delle sue parti infantili, profonde e inconsce. La parte omessa nel testo è la seguente: « […] così come la risoluzione degli ostacoli che si oppongono alla relazione di dipendenza introiettiva con il seno consente di valicare il confine tra l’instabilità mentale e la stabilità mentale, e così come il superamento del complesso edipico conduce dalla immaturità alla maturità.». Questa considerazione, ovviamente, meriterebbe ben più ampio spazio di riflessione e di trattazione sulla progressione e sulle modalità delle fasi del processo psicoanalitico. Qui può soltanto rammentarsi che tali fasi hanno durata diversa nei vari casi, susseguendosi regolarmente nel corso di ogni trattamento, come «in ognuna delle quattro dimensioni del processo psicoanalitico»; tuttavia, «non è concepibile che una delle fasi venga saltata, poiché ogni fase è in assoluta dipendenza metapsicologica dalla sufficiente elaborazione di quella precedente [corsivo mio]» (Meltzer, 1967, pag. 74 e, passim, pagg. 45-71).