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Pubblicazione edita con il sostegno di
Comune di Corinaldo
Patrocinio di
Unitre di Corinaldo
PAOLA POLVERARI
TESTIMONI
DI PIETRA
le epigrafi di Corinaldo
dall’Evo antico al secolo XVII
volume I
Comune di Corinaldo
2005
Si ringraziano
per l’autorizzazione alla riproduzione delle immagini:
Amministrazione comunale di Corinaldo
Associazioni “Pro loco” e “Pozzo della Polenta”
ASUR - Zona Territoriale n. 4
Curia Vescovile di Senigallia - Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici
I cittadini di Corinaldo in possesso delle epigrafi
Poste Italiane;
per la generosa collaborazione e per i competenti suggerimenti che hanno favorito
la definizione di gran parte della ricerca:
Simona Antolini, Ettore Baldetti, Massimo Battistini, Andrea Baroncioni,
Marinella Bonvini Mazzanti, Manlio Brunetti, Giuliano Chelotti, Dario Cingolani,
Rodolfo Coccioni, Stanislao De Angelis Corvi, Eros Gregorini, Giuseppe Lepore,
Mario Luni, Giorgio Mangani, Ettore Montesi, Terenzio Montesi, Renzo Paci,
Giuseppina Piana Marcheselli, Francesca Pongetti, Padre Bernardino Pulcinelli,
Maria Grazia Sassi, Graziano Secchiaroli, Flavio e Gabriela Solazzi, Giuliano Vichi,
Virginio Villani;
per la loro disponibilità e collaborazione, i concittadini:
Paolo Angeletti Agnoletti, Esterina e Anna Baci, Giancarlo Balducci - Via della Murata,
Giancarlo Balducci - Via S. Pietro, Luigi Bartera, Paola Bartolini, Pierluigi Basili,
Alberto Battistini, Romolo Bettini, Alfonso Bizzarri, M. Teresa Bolognini, Laura Bucci,
Luisa e Domizia Carafòli, Anna Maria Cesarini, Lucio Ciceroni,
Fabio - Chiara - Jacopo - Donato - Gabriele Ciceroni, Mario Frati, Antonietta Gregorini, Martina Hoffmeister, Raffaella e Ilde Lattanzi, A. Maria Marcolini, Mariella Marinelli Rossi, Mons.
Umberto Mattioli, Ferdinando e Stefania Mencucci, Quintiliano Mencucci,
don Franco Morico, Famiglia Muggenthaler, Gilberto - M. Grazia - Anna Paolini,
Girolamo Patrignani, Leonardo Peserico, Aldo e Igino Rocchetti, Sandrina Rocchegiani,
Romualda Rocconi, Giuseppe Rossi, Marta Santolini, Romano Sbarbati, Roberto Spallacci,
Vittorio Venturoli Orlandi Romaldi, Ettore Vieri;
e inoltre Fernando De Iasi, Assessore alla Cultura del Comune di Corinaldo
Paolo Pirani Dirigente dell’Ufficio Cultura.
© by Comune di Corinaldo - Paola Polverari
Riproduzioni fotografiche: Studio L’Immagine di Antonio Moroni - Corinaldo
Stampa: Tecnostampa - Ostra Vetere AN - 2005
Presentazioni
è stato detto e riaffermato, da parte di studiosi, politici, storici e comuni
cittadini dotati di un minimo di buon senso, che non c’è un futuro se non c’è
un passato.
Ovvero, il futuro si costruisce in forza del passato, magari contraddittorio,
non necessariamente condiviso ma mai rifiutato aprioristicamente o misconosciuto o negato solo per il fatto che è passato, dunque archiviato come pratica
chiusa.
Nella quotidianità si sostiene (e si consiglia) che occorre evitare la palude
del passato per non rimanerne invischiati e immobili come i fossili, animali
e vegetali, nell’ambra o in altra sostanza organica che li conserva inalterati in
eterno.
In realtà, è il giusto equilibrio tra le parti che può garantire la dialettica
necessaria a porre nella dovuta prospettiva il passato e il futuro: mediazione
di un presente che trattiene la memoria storica di ciò che si è e che è stato fatto
mentre si appresta ad affrontare le sfide e le necessità del contingente e del
domani.
Quando poi la memoria del passato è impressa in epigrafi, lapidi, cippi,
statue e monumenti che accompagnano da sempre la nostra esistenza ma che,
per distrazione o abitudine, perfino ignoriamo, il lavoro di reperire, censire e
descrivere quei manufatti, nella forma e nel contenuto, assume lo spessore di
un’impresa di grande valore scientifico, storico e umano.
Questo e non solo è il merito ascrivibile alla presente pubblicazione, frutto
di uno studio profondo, di una passione inveterata, di una capacità acclarata
dell’Autrice, alla quale va la nostra gratitudine e il nostro apprezzamento.
La gratitudine per avere offerto un ulteriore punto di vista all’indagine storico – storiografica su Corinaldo ed il suo territorio; l’apprezzamento per la
quantità e qualità dei materiali prodotti, anche iconografici, che fanno del libro
“Testimoni di pietra” un bagaglio conoscitivo articolato e palpitante.
Un’indagine accurata, minuziosa, certosina.
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Testimoni di Pietra
Non cediamo alla tentazione di pensare che queste “pietre” siano anonime,
immobili, inespressive testimonianze di un tempo che su di esse è trascorso,
levigandole e scolorendole forse un poco. è vero, su quelle “pietre” il tempo è
volato, accarezzandole o ghermendole a seconda degli eventi storici alternatisi
nei secoli; ma su quelle “pietre” fatti, persone e cose hanno lasciato un segno,
talvolta un monito, sempre una testimonianza.
Ecco perché è stato importante, fortunatamente inevitabile, nominare e
numerare quei “testimoni”; recuperarli alla percezione degli anziani (o dei
distratti) ed alla conoscenza dei più giovani.
Discrete ma persistenti, fidate sentinelle dei destini della turrita Cori­naldo,
e del suo territorio, nel corso del tempo.
Corinaldo, 13 ottobre 2005
Livio Scattolini
Sindaco
presentazioni
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La presente pubblicazione ha origini lontane, da un lato nella passione per
l’archeologia dell’autrice, Paola Polverari, coltivata con cura già dagli anni
dell’Università a Milano, che è maturata e si è approfondita nel tempo; dall’altro
nella sua attività professionale di insegnante, nella quale hanno trovato uno
spazio privilegiato i percorsi di didattica laboratoriale di storia locale. La ricerca
più sistematica prende avvio già dall’anno scolastico 1994-1995, in occasione
del 50° anniversario della liberazione, nell’ambito di un progetto che aveva il
significativo titolo di un noto libro di archeologia: “Le pietre parlano”. Il lavoro
di raccolta e di studio è proseguito negli anni successivi con eccellenti risultati
educativi e didattici, perché i giovani alunni di scuola media, coinvolti direttamente in un’attività di ricerca, si sono sentiti protagonisti di una ricostruzione
storica concreta e sicuramente più coinvolgente rispetto ad uno studio condotto
in maniera monotona su un libro di testo.
Paola Polverari ha poi proseguito la sua indagine negli ultimi anni mettendo a punto il materiale che era venuta via via raccogliendo ed effettuando
le necessarie verifiche secondo i canoni di ricerca nel settore archeologico ed
epigrafico: un lavoro portato avanti da sola, ma anche denso di coralità, perché
lo studio sempre più puntuale e l’approfondimento, da sempre caratterizzanti
la sua attività, hanno richiesto contatti e collegamenti sui versanti più ampi,
dai cattedratici delle discipline specifiche ai cultori di storia locale, dagli ultimi
eredi delle famiglie storiche corinaldesi agli abitanti delle contrade, dagli anziani a quanti altri potessero fornire anche solo testimonianze orali o semplici
indizi utili alla sua ricerca.
Il contributo che emerge da questo lavoro, restituisce, per la parte più antica fino al secolo XVII, una storia di Corinaldo da un’angolazione inusuale,
quasi ardita per la esiguità del materiale disponibile; ma sulle testimonianze
raccolte, che poi sono più numerose di quanto si possa pensare, si struttura
per la competenza e l’abilità dell’autrice un percorso storico di rilievo, che
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Testimoni di Pietra
collega con frequenza passato e presente a sottolineare la continuità della vita
sociale della comunità.
Nel libro le tracce vive lasciate sulla pietra diventano quasi una filigrana per
un racconto storico sicuro, preciso e avvincente. Le epigrafi sono presentate con
completezza e con tutti gli elementi utili per lo studioso del settore, ma nello
stesso tempo con una forma comunicativa che coinvolge e appassiona tutti
quelli che hanno a cuore la scoperta del passato di Corinaldo e dell’identità
della propria tradizione storica. Lo studio infatti non si ferma alle epigrafi, ma
si sposta su diverticoli quasi naturalmente ad esse conseguenti, che si aprono a
ventaglio sui personaggi storici che hanno dato lustro alla città, sulle famiglie
importanti che hanno retto nei secoli le sorti della collettività, sulla nobiltà
con gli emblemi e i simboli ad essa connessi, sulla struttura urbana e le forme
architettoniche dei palazzi signorili, sulle numerose chiese nelle quali si sono
espressi nei secoli un forte sentimento religioso e una diffusa pietà popolare,
sull’ospedale e sul monte di pietà che mitigavano le condizioni delle classi
sociali più povere, sulle campane…, in un tentativo egregiamente riuscito di
rendere chiaro ed intelligibile il visibile parlare delle pietre.
La lettura del percorso di ricerca suscita sensazioni simili a quelle che si
provano allo sfogliare di un vecchio album di fotografie di famiglia, quando
riaffiorano i ricordi, si definiscono vicende che il tempo aveva sfocato, si gioisce
per un evento lieto, si è pervasi di mestizia per le difficoltà incontrate.
Ritengo che questo studio su Corinaldo sia tra i più originali per la prospettiva, tra i più accurati per l’acribia della ricerca e tra i più accattivanti anche per
lo spessore del linguaggio che rende piacevole la lettura; ha inoltre il merito
di tramandare sulla carta la memoria incisa sulla pietra: sì, perché i denti delle
scavatrici e l’incuria degli uomini sono più voraci del tempo che pure divora
i suoi figli, come il mitico Crono.
Come appassionato di ricerca storica esprimo sentimenti di stima e di riconoscenza a Paola Polverari per questo contributo che restituisce tante puntuali
memorie dei secoli passati, con l’invito a continuare il lavoro intrapreso, con
lo stesso stile, anche per il periodo successivo, fino ai giorni nostri.
Corinaldo, 30 luglio 2005
Dario Cingolani
Dirigente dell’Istituto Comprensivo di Corinaldo
presentazioni
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nota dell’autore
è perduto per la storia tutto ciò che non viene tra­
mandato ad altri e della storia l’uomo è protagonista
solamente in quanto abbia memoria del passato e se
ne avvalga per trasmettere ciò che ha saputo a chi
verrà dopo di lui.
Mostra Documentaria Internazionale
“Cristoforo Colombo il Genovese”, 1992
Ad accarezzare le pietre si comincia da bambini: quando la piccola mano
segue il fine piumaggio delle oche di marmo alla fontana o i segni rigidi di
un alfabeto ancora incomprensibile, il tatto stabilisce un rapporto sensoriale
con l’uomo antico che su quella pietra si è affaticato perché nel tempo racconti
una storia. Si accende la curiosità, si intreccia un colloquio.
Verranno poi gli studi a stabilire una dotta distanza tra la materia del
documento epigrafico e la sua interpretazione storica; resta, istintivo, il gusto di inseguire con la mano la voluta, di assecondare le pieghe della veste
marmorea.
Si può “andar per pietre” per il gusto estetico dell’osservazione, ma non
può mancare un legame di interesse verso la storia di chi le ha volute proprio
lì. Specie se le pietre raccontano le vicende del tuo paese, se si dispongono
lungo il tragitto quotidiano. Gli oggetti e i monumenti assumono un valore
speciale nel loro contesto, nella loro geografia, nella memoria e nella tradizione del luogo in cui sono stati concepiti. Se poi è stata incisa la compatta
pietra e forgiato il tenace metallo per testimoniare quella storia, raccomandare
quel volto, celebrare quel giorno e quell’anno, la memoria da tramandare si
impone sulle altre e più prepotentemente attraversa il tempo.
è dei testimoni di pietra e di metallo che questo opuscolo presenta la
raccolta.
Con limiti precisi: solo manufatti presenti entro il territorio comunale di
Corinaldo; solo documenti per i quali è stato volutamente usato un materiale
duraturo; solo “testimoni” ancora presenti e tangibili, con esclusione di altri
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Testimoni di Pietra
ormai dispersi e solamente citati da fonti scritte od orali.
E con modesta ambizione: entrare nella storia senza affogare nel mare
dei documenti, sorreggendoci un po’ pavidamente ai solidi scogli dei pochi
materiali prescelti per definire il percorso.
Del resto non si può trascinare in alto mare il gruppo di ragazzi che ti
segue - un po’ condotto a forza e un po’ incuriosito - in un percorso didattico
vòlto alla conoscenza storica del proprio paese. La testimonianza delle pietre
è stata scelta dalla solita prof., a preferenza dei documenti di archivio, perché
di più facile ed immediato accesso per gli alunni di una classe della scuola
media, coinvolti nel progetto “La scuola adotta un monumento”: i nostri
monumenti erano singole pietre, poste lì però a vero monumentum, cioè a
ricordo e ad ammaestramento.
Il paese non ne è ricco, né la documentazione raccolta presenta particolari
valori artistici ed estetici; nell’attuale cultura dell’immagine appariscente, le
nostre lapidi si porgono pallide e appartate negli atri o lungo i muri della
città, e attendono il passante con la pazienza della loro immobile staticità:
raramente figurate, talvolta sbiadite o collocate troppo in alto, cercano lo
sguardo di chi a sua volta le ricerca, e solo così intrecciano il loro colloquio
con noi e si dispongono a scandire la storia locale, ordito indissolubile nella
trama della cosiddetta “grande storia”.
Di via in via, di palazzo in palazzo, il cercar pietre parlanti ha preso la
mano, ha suscitato sempre maggior curiosità, fino a destare l’interesse delle
famiglie dei ragazzi, di altri concittadini, delle Associazioni e infine della
stessa Amministrazione comunale, che ha sollecitato la pubblicazione dei
risultati dell’indagine.
Il progetto rappresentava un percorso insolito nel panorama della ricerca
storica su Corinaldo, affrontata dagli studiosi locali attraverso le carte degli
archivi e pubblicata negli ultimi decenni per ampi squarci monografici: al
mosaico delineato aggiungiamo il nostro modesto tassello, con l’unico scopo
di additare agli specialisti un “deposito” finora tralasciato dalle ricerche e
quasi totalmente inedito, che potrà essere approfondito con maggior competenza.
L’ampio arco cronologico lungo il quale si dispongono i documenti che
pubblichiamo, richiede infatti conoscenze specifiche dei singoli momenti
storici, della cultura che li sottende, delle caratteristiche epigrafiche del periodo, patrimonio culturale che a noi fa certo difetto: è quindi con notevole
apprensione che presentiamo al pubblico il nostro lavoro, uscendo dall’area
limitata e protetta della ricerca scolastica.
le pietre antiche
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Non è mancato invero il lungo impegno nel leggere le pubblicazioni
reperibili su Corinaldo, per confrontarle e raccordarle, nel ricercare la documentazione archivistica attinente a singole epigrafi, nel consultare persone
informate ed esperte: per il resto, abbiamo fatto tesoro del lavoro di ricerca
operato dagli studiosi precedenti, che chiaramente indichiamo in bibliografia
ed ai quali rimandiamo il lettore.
Confidiamo del tutto nella comprensione, se non degli studiosi, almeno
dei concittadini, ai quali è dedicato l’opuscolo, frutto della loro collaborazione
disponibile, delle loro segnalazioni e indicazioni, del loro incoraggiamento
a procedere.
Restituiamo con gratitudine a ciascuno di essi, spesso passante frettoloso, la
voce delle singole pietre ed il loro corale racconto, come un richiamo costante
al nostro proprio passato, alla nostra civiltà di appartenenza. Proprio ad uso
dei concittadini, abbiamo cercato di inserire la presentazione dei documenti
in un testo espositivo in cui il passato si intreccia con il presente, i personaggi
antichi dialogano con i contemporanei, la ricostruzione del contesto sociale dei
secoli trascorsi si affianca allo stato delle cose della realtà contemporanea.
Ai Corinaldesi, ai miei alunni e a tutto il mondo della scuola che ha stimolato e sostenuto con attiva collaborazione il primo nucleo dell’indagine, e
continua ad aderire a progetti di ricerca innovativi, dedico il mio lavoro.
Agli appassionati studiosi e ricercatori della storia locale, ai tanti specialisti
delle varie discipline che mi hanno generosamente aiutata ed assistita con la
loro competenza, la mia stima e la più sentita gratitudine.
All’Amministrazione comunale di Corinaldo, alla Fondazione Cassa di
Risparmio di Jesi, all’ASA Azienda Servizi Ambientali, che hanno consentito
con il loro contributo la pubblicazione del lavoro, esprimo viva riconoscenza
e insieme l’auspicio di poter offrire in altro tempo il completamento della
rassegna delle epigrafi, ora arrestatasi al secolo XVII, fino ai documenti
contemporanei.
Paola Polverari
TESTIMONI
DI PIETRA
le epigrafi di Corinaldo
dall’Evo antico al secolo XVII
Avvertenze
In corsivo la trascrizione delle epigrafi nelle didascalie delle foto; in parentesi
tonde lo scioglimento delle abbreviazioni, in parentesi quadre le integrazioni.
In maiuscoletto, nel testo, la traduzione delle iscrizioni latine e la trascrizione
di quelle italiane.
Le indicazioni cronologiche “anni Sessanta”… “anni Settanta”… sono riferite
al secolo XX.
La documentazione fotografica, fatta eccezione per alcune immagine di cui si
forniscono i dati, è stata interamente realizzata negli anni 2004-2005.
In Appendice I, i criteri di trascrizione dell’epigrafe nell’ex Palazzo Ottaviani.
In Appendice II l’elenco dei Sindaci, dei Pievani e degli Arcipreti di Corinaldo,
per un miglior inquadramento cronologico dei dati esposti nel testo.
Capitolo I
le pietre antiche
Cineribus orta…
Non sfuggirà, al passeggero che si accinga a varcare le porte della città murata di Corinaldo, il solenne stemma (fig. 1) che le sovrasta.
Come un antico araldo, preposto alla cerimonia di annuncio, esso esibisce le chiavi incrociate, simbolo del rango di città, e un’iscrizione latina:
Cineribus orta combusta revixi.
è da questa pietra che prende avvio il racconto delle vicende di Corinaldo,
le cui tappe principali sono state fissate dai cittadini delle varie epoche storiche su strutture di pietra e metallo, perché fossero durevoli nel tempo: le
percepiamo come l’ossatura scheletrica e resistente del lento accrescimento
civile, un robusto fossile che guida il ricercatore – non si parla certo nel
nostro caso di uno storico – alla lettura delle epoche del suo esistere.
Ci sono pietre mute e pietre parlanti, come questa con la quale la città si
presenta: Nata dalle ceneri, dopo essere stata distrutta dal fuoco,
son tornata a vivere.
Ma per quanto parlante, lo stemma non concede che un sibillino distillato della propria essenza: occorrerà porre domande di senso per forzarne il
linguaggio e comprenderlo meglio. Per buona sorte, al lapidario eloquio del
nostro primo testimone di pietra fanno da corteo più loquaci ancelle, modestamente vestite di pelli conciate e di stracci di lana: le carte appunto. Da esse
possiamo trarre ulteriori notizie consolidate e già note, ma anche altre meno
conosciute, ricercate per l’occasione.
Gli stemmi araldici (tre sulle porte della cinta muraria: Porta di Sotto,
Porta San Giovanni, Porta Nuova ed uno sopra il portale d’ingresso del
Pa­lazzo comunale) sono stati voluti dall’Amministrazione comunale per
nobilitare l’arredo urbano. Del progetto fu incaricato l’architetto Antonio
Dominici che consegnò il modello in creta, derivato dai disegni cartacei, alla
ditta Guerrino Roberti di Fano, perché ne ricavasse i getti in cemento, ad imi-
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Testimoni di Pietra
1 – Stemma della città di Corinaldo;
getti in cemento, ad imitazione della
pietra arenaria, a Porta Nuova, Porta di
Sotto, Porta San Giovanni, Loggiato del
Palazzo comunale; leggenda: Cineribus
orta combusta revixi
Stemma blasonato di rosso al monte d’oro
di sei colli, ristretto, sormontato da due
chiavi decussate ed addossate, una d’oro
in banda, l’altra d’argento in sbarra, questa
attraversante, legate d’azzurro, sormonta­
to dalla turrita d’oro.
2 – Getto in cemento con lo stemma di Corinaldo privo del motto, nell’area del
Monumento ai Caduti in Viale degli Eroi, proveniente da un precedente monumento
già eretto in Piazza Il Terreno.
le pietre antiche
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tazione della pietra arenaria, più
costosa e friabile1. Molti cittadini
ricordano la posa in opera degli
stemmi, avvenuta nel 1974, ma
assai pochi sono a conoscenza della
nascita della scritta, assente in altri
esemplari (fig. 2), ma ormai tanto
nota e ripetuta da non suscitare
più alcuna curiosità sulla sua origine, se non negli ostinati inquisitori
delle pietre.
è una delibera del Consiglio
co­munale di Corinaldo che dà vita
3 – Timbro di ferro con la leggenda
Com­munitatis Corinalti; proprietà prial motto: nel maggio 1894 il sindaco
vata.
Pompeo Perozzi propose, ottenendo dodici voti favorevoli ed uno
contrario, di “togliere dallo stemma di Corinaldo la leggenda Communitas Civitatis Corinalti (fig. 3) che non ha
nessun significato e che potrebbe essere comune a tutti i paesi e di apporvi
un motto che esprima l’origine e la storia di Corinaldo come Cineribus orta
combusta revixi, perché Corinaldo ebbe origine dalla distruzione di Suasa nel
406 e fu nel 1360 arsa e distrutta da Galeotto Malatesta”2.
Citare in uno stemma le origini di un centro urbano come risalenti ad
una fondazione di epoca romana è sentito come fonte di prestigio fin dal­
l’Umanesimo: a sostegno di questa ideologia erano chiamati dalla classe
dirigente gli eruditi del tempo. Nel nostro caso l’efficacia del motto, ristretto
in due emistichi di sei sillabe ciascuno e della stessa scansione ritmica, ci ha
fatto pensare che si trattasse della ripresa di antichi versi latini, sicuramente
riferiti alla famosa fenice, l’uccello che morendo rinasceva dalle proprie ceneri; ma una ricerca affidata ad esperti di letteratura latina non ha permesso di
trovare la presenza di tali parole in nessun testo noto. Do­vremmo pensare
dunque che il motto sia stato coniato da qualche illustre retore del tempo,
nativo di Corinaldo o attivo all’interno della città, che ci offre l’occasione per
una rapida memoria degli intellettuali corinaldesi di fine Ottocento: Sergio
Stefanini (1866–1935), direttore didattico e “dotto” del paese; il conte e sindaco Pompeo Perozzi (1835-1908), interessato e aperto ad ogni rinnovamento
tecnologico e culturale; l’archivista Efrem Rossi (1861-1913), cultore della
storia locale che vedeva emergere dai documenti di archivio a lui affidati.
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Testimoni di Pietra
O ancor meglio Francesco Turris, nato a Corinaldo nel 1824, insegnante
e scrittore, costretto a riparare a Firenze per i suoi atteggiamenti liberali e
anticlericali nel 1859, ma sempre legato sentimentalmente ed epistolarmente a Corinaldo: buon conoscitore del latino, che insegnò a lungo nel Regio
Ginnasio di Firenze, scrisse anche da lontano epicedi per la morte di noti
personaggi di Corinaldo e, proprio nel 1894, alcuni versi “Per la festa dell’acqua”, per l’inaugurazione dell’acquedotto corinaldese voluto fortemente da
Perozzi: forse fu il sindaco medesimo a sollecitare da lui, in quello stesso
anno, il nuovo motto per la città3.
Ora la pietra parla più apertamente delle ceneri da cui si dichiara nata: il
motto fa riferimento alle ceneri di Suasa, la città romana edificata nella media
valle del vicino fiume Cesano, arsa e distrutta dall’empio Alarico, dalla quale
fuggendo, gli scampati determinarono di riedificarla sulla selva dei colli vicini4.
Le ceneri si ravvivano: le fa riaccendere la dotta penna del più conosciuto
storico di Corinaldo, Fra Vincenzo Maria Cimarelli, Maestro domenicano,
qui nato nel 1585, e rinato alla conoscenza dei contemporanei grazie anche
al Con­vegno di studi indetto nel 1985, IV centenario della nascita, dall’Am­
ministra­zione comunale di Corinaldo e agli Atti pubblicati5.
Giovinetto affascinato dalla mitologia e dai resti delle antiche civiltà,
Ni­colò (questo il nome di battesimo di Cimarelli) risaliva attraverso i poderi
paterni fino all’antica Suasa, curioso di conoscerne i misteri. Avrebbe tentato
di decifrarli da adulto, consegnando le indagini ad alcuni capitoli della sua
storia sullo Stato di Urbino, dove soggiornò dal 1619 al 1629 come teologo
di corte.
Il libro terzo delle Istorie, dedicato a Corinaldo, è comunemente ritenuto
il testo base per ricostruire le vicende del territorio, dall’antichità agli anni
contemporanei a Cimarelli, ed è termine di riscontro per ogni nuova acquisizione storica6.
Anche noi ci faremo accompagnare dalle parole del nostro autore, che
esporremo in corsivo nel testo, per non ricorrere a continue citazioni in
nota.
Al nome dello storico è stato opportunamente intitolato il “Premio
Vincenzo Maria Cimarelli”, riservato a saggi di storia locale, istituito sotto
l’egida del Comune di Corinaldo e dell’Università degli Studi di Urbino
nel 1986 (ultima edizione 1996), che ha costituito un rilancio del nome di
Cimarelli; a lui è stata parimenti intitolata la sezione dell’Università delle tre
età (Unitre) di Corinaldo.
le pietre antiche
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4 – Epigrafe di marmo 60X65x3
dedicata a Vincenzo Maria
Cimarelli, alla parete dell’abitazione di Via Cima­relli, n. 48.
L’11 novembre 1585 / da antica
e nobile famiglia corinaldese /
in questa casa / nacque / Fra
Vincenzo Maria Cimarelli / sto­
rico insigne / del Ducato d’Ur­
bino
Amante e ricercatore delle pietre antiche, ha meritato di essere ricordato
lui stesso da una lapide dedicatoria (fig. 4) che l’Amministrazione comunale,
alla fine degli anni Settanta, ha fatto apporre sulla parete della sua casa natale, al numero 48 di quella via dorsale del tessuto urbano medioevale che ha
sempre mantenuto il nome di Via Cimarelli: L’11 novembre 1585, da antica
famiglia corinaldese, in questa casa nacque fra Vincenzo Maria
Cimarelli, storico insigne del Ducato di Urbino. L’epigrafe moderna
colloquia con una più antica, visibile nell’imponente portale a bugnato alla
sua destra (fig. 5/6) : sui conci di volta, la scritta in lettere capitali afferma, in
latino, Cimarelli abitò qui ai suoi tempi.
Se all’iscrizione si può credere con certezza, più problematica è invece
l’attribuzione alla famiglia Cimarelli dello stemma (fig. 5) che compare sul
concio di chiave del portale, comunemente attribuito ad essa anche negli
opuscoli illustrativi su Corinaldo.
Nell’esporre la storia della propria famiglia attraverso i suoi più illustri ed
antichi rappresentanti, Vincenzo Cimarelli risale fino al trisavolo Cimarello
di Gualtiero Mausulio, morto nel 1519 dopo essersi fatto stimare per le sue
virtù guerriere e le sue capacità di governo; ma non afferma mai che la famiglia appartenesse al ceto nobiliare. è invece il già nominato Sergio Stefanini
che in una “Storia di Corinaldo”, dattiloscritta nel 1930 e presente fino a
pochi anni fa nella Biblioteca comunale (ma ora introvabile), attribuisce ai
Cimarelli uno stemma che “innalza in campo azzurro sopra i tre monti un
braccio che impugna una clava”7.
Non ci è stato possibile chiarire da quale disegno egli abbia potuto desu-
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Testimoni di Pietra
5 /6 – Portale di Via Cimarelli, n. 48; nel riquadro, stemma attribuibile alla famiglia
Cimarelli; in alto, stemma non attribuito. Sui conci di volta: a sinistra Cimarell; a
destra Habit. Temp.
le pietre antiche
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7 – Stemma nell’inferriata sopra il portale di via Cimarelli, n. 32: è riconoscibile la
scacchiera bianca e rossa della nobile famiglia Romaldi, imparentata con la famiglia
Cesarini.
mere i colori dello stemma, non visibili naturalmente nella pietra, del resto
ormai corrosa e di difficile lettura; pare piuttosto di riconoscere, più che una
clava, un ramoscello con due fiori, una “cima”, che potrebbe essere rapportata al nome “Cimarelli”. Possiamo pensare ad un rifacimento più moderno
dello stemma, in onore dello storico, nel momento stesso in cui si è voluto far
memoria di Cimarelli nei conci di volta; si può anche pensare che lo stemma
sia appartenuto ad una famiglia precedente, della cui casa siano entrati in
possesso i Cimarelli.
A meno che Stefanini abbia fatto confusione con un altro stemma, oggi
collocato al di sopra del concio di chiave, che presenta chiaramente un braccio che impugna un’arma. Fino alla metà degli anni Novanta il manufatto
era esposto nell’atrio interno del palazzo, ma l’ultima proprietaria Nivea
Torelli non sa dire a quale famiglia nobile esso potesse appartenere; durante
la ristrutturazione realizzata dagli attuali proprietari, le famiglie Bolo­gnini
Morbidelli, lo stemma è stato nuovamente esposto alla vista dei cittadini,
come poteva esserlo stato ai tempi di Stefanini, e come potrebbe dimostrare
la presenza di un alloggiamento e di un gancio precedenti, proprio sopra il
portale: di qui la possibilità di un equivoco.
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Testimoni di Pietra
8 – Conci di volta iscritti nel portale di pietra di Via Cimarelli, n. 6; a sinistra: Andreas,
a destra: Albus / I(uris) V(triusque) D(octor)
le pietre antiche
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9 – Frammento di iscrizione su lastra di calcare 15x78x6, riusata in contesto edilizio
come davanzale della finestra al primo piano, in Via Cimarelli n. 6; lettere capitali
6x3; il contesto dell’iscrizione, probabilmente rinascimentale, non è ricostruibile.
dleet.vita isrentii ma /XXXXI etd […] X august
Lungo la signorile via si esibiscono altri segnacoli di pietra e metallo,
voluti dagli antichi proprietari per dar nobile rilievo alla propria residenza:
lo stemma della famiglia Cesarini Romaldi (fig. 7), ormai oscurato dalla ruggine del tempo, al n. 32; il nome e la professione di un giurista, dottore di
diritto civile ed ecclesiastico, Andrea Albi, impresso sui conci di volta della
porta di casa, al n. 6 (fig. 8).
Proprio al primo piano di questo palazzetto, in corrispondenza del portale, nessun ricercatore di lapidi, per quanto attento, potrebbe notarne una,
che invano emette una debole voce di richiamo verso i passanti con la sua
iscrizione mutila (fig. 9). Utilizzata come davanzale di una finestra, e pertanto illeggibile dalla strada, si nota tra gli altri davanzali soltanto per il bordo
irregolare, risultato dalla frattura dell’antica lapide8. è ignoto da quale luogo
e contesto provenga, in quale periodo storico sia stata lì collocata: forse l’avrà
voluta nella sua casa, come cimelio storico, il dotto Andrea Albi, la cui famiglia apparteneva ai cittadini principali di Corinaldo, che Cimarelli ricorda per i
generosi lasciti alla chiesa di San Pietro. L’iscrizione, sottoposta all’esame di
epigrafisti dell’Università di Macerata e di Urbino, è quasi incomprensibile
per la brevità del testo e le mutilazioni: riportiamo nella didascalia della fig. 9
24
Testimoni di Pietra
la semplice trascrizione delle lettere visibili. Difficile la datazione anche per
gli esperti: forse rinascimentale, per i caratteri capitali ripresi in quell’epoca
dalla romanità, forse del tardo periodo imperiale.
è comunque tra le più antiche epigrafi presenti all’interno della cerchia
muraria e offre l’occasione per porci altre domande: resta ancora qualcosa tra
noi delle ceneri di Suasa?
Suasae ruinis...
Se ogni lettore di Cimarelli – ed ogni storico moderno – è facilmente convinto
dello stretto legame tra la città di Suasa e i molti centri collinari, tra i quali
l’altura di Corinaldo, che furono occupati come nuova residenza, una volta
lasciato il fondovalle in seguito alle invasioni barbariche e all’abbandono
dell’asse stradale antico, non altrettanto facile è trovare oggi tra pietre mute
ed iscritte le testimonianze di tale legame.
Una pietra c’è, invero, che si impone con prepotenza ad emblema della
continuità storica tra le due città: è una colonna di marmo che sorregge l’acquasantiera (figg. 10-11-12) del Santuario dell’Incancellata, innalzato verso
la metà del Cinquecento alle pendici nord orientali del paese, oggi Viale
dell’Incancellata, in onore di un’immagine miracolosa della Madonna: la
presentazione più completa della chiesa, anche se ormai datata, si deve al
concittadino Domenico Clemente Sforza 9.
Il manufatto, a nostro parere assai interessante, è stato trascurato nelle
recenti pubblicazioni su Corinaldo, e la sua immagine è assente dagli opuscoli illustrativi della città. L’attenzione verso di esso è stata sollecitata da
una segnalazione presente in uno dei primissimi studi, pubblicati negli anni
Cin­quanta su Suasa e sulle emergenze archeologiche della valle del Cesano,
ad opera di Gello Giorgi, pioniere di tali ricerche10. è infatti l’unica pietra
presente nel territorio corinaldese che porta chiaramente impresso il nome
di Suasa e ne dichiara, in latino, la lenta fine: Sono fatta con le rovine di
Suasa, corrosa dai denti del tempo.
Il messaggio è particolarmente significativo per la nostra ricerca, giacché
l’iscrizione vuol stabilire un rapporto tra due luoghi e due epoche; per noi
moderni ha soprattutto valore storico, ma nell’ideologia del tempo essa rappresenta un legame simbolico di intonazione morale, attinente al trionfo del
cristianesimo sulla religione pagana, tema assai caro a Cimarelli: la colonna
innalzata in onore di divinità nella romana Suasa, si sottomette a sostenere in
questo luogo l’acqua di vita eterna elargita dal Dio cristiano: il suo simbolo,
le pietre antiche
25
11 – Acquasantiera dell’Incancellata:
particolare della colonna con iscrizione e data.
12 – Acquasantiera dell’Incancellata,
riproduzione grafica dello scudo con
la croce, dell’iscrizione e della data
sottostante 1635.
10 – Chiesa dell’Incancellata, colonna di
bardiglio su base quadrangolare, rastremata verso l’alto e iscritta, a sostegno di
un’acquasantiera di marmo pentelico; alt.
totale 108; colonna alt. 62, circonferenza
massima 68; tazza alt. 30, diametro 53. Al
centro della colonna, entro cornice rettangolare incisa 8x14, iscrizione: Suasae
ruinis / aevi dentibus / vitiatae; sopra la
cornice è incisa una croce patente, racchiusa entro uno scudo 13x13; sotto la
cornice la data 1635.
26
Testimoni di Pietra
una croce, è rappresentato enfaticamente entro uno stemma sopra la scritta.
Chiara la data incisa: 1635.
Essa ci riporta agli anni di trasformazione dell’“Incancellata”, come
venne chiamato l’edificio di culto, dopo che la cella con la sacra immagine fu
isolata dall’aula per mezzo di una cancellata di ferro. L’immagine di Maria,
dipinta nella prima metà del Cinquecento da un artista ignoto, notevole per
la precisione del disegno, la ricchezza dei colori caldi e sfumati, l’efficacia nel
trasmettere lo sguardo mesto ma intimamente benevolo di Maria, era stata
dapprima racchiusa entro un’edicola, poi ampliata in forma di cappellina ed
aggregata alla Compagnia del Gonfalone; in seguito, come afferma Cimarelli,
a cominciare dal 1625, da picciola fabbrica viene rafforzata e ampliata come si
vede al presente, utilizzando materiale nuovo e trasportandola più a monte,
nella località allora chiamata “Pozzo antico”, per evitare i frequenti allagamenti. Proprio il 26 novembre 1627, il Consiglio comunale di Corinaldo stabilisce di donare “per ornamento dell’altare o altro che fosse necessario” alla
chiesa dell’Incancellata “quelle pietre che la nostra Comunità ha comprato
dallo Rettore della Santissima Madonna del Piano”11. Il Rettore dell’antica
chiesa vicina al Cesano, era allora uno dei maestri dai quali Cimarelli stesso
aveva imparato “li primi erudimenti delle scienze”, don Andrea Veronica:
grazie al recupero della fisionomia del personaggio, recentemente operato
dallo storico Dario Cingolani, all’antico maestro l’Amministrazione comunale ha voluto intitolare, all’apertura dell’anno scolastico 1985-86, la Scuola
Materna del capoluogo, inaugurata in quell’anno in Viale Dante n. 1712.
Andrea Veronica (Corinaldo 1568-1659) aveva dunque deciso di vendere
le pietre e le colonne antiche, oggi possiamo dire con certezza di origine
romana, giacenti intorno alla sua chiesa: più sensibile ai valori dell’ antichità,
la Comunità corinaldese decide di acquistare il materiale e di collocarne parte
in luogo conveniente davanti al Palazzo di governo - precedente all’attuale
ma eretto nello stesso luogo - parte per abbellire l’Incancellata: pochi anni
separano l’acquisto delle pietre dalla data incisa sul supporto dell’acquasantiera 1635; a questo si aggiunga la data del 1638, anno in cui Cimarelli registra
che da Madonna del Piano con sommo rammarico mio, e d’ogn’altra intelligente
persona in quella Contrada…, la maggior parte delle dette colonne sono state da quei
cimiteri levate, e trasportate in Corinalto.
Le coincidenze archivistiche, cronologiche ed epigrafiche sembrano dunque inequivocabilmente confermare la provenienza di pietre antiche dall’area
di Madonna del Piano, e vorremmo dire sicuramente anche della piccola
colonna di reimpiego giunta fino a noi, testimone della romana Suasa.
le pietre antiche
27
13 – Chiesa dell’Incancellata, epigrafe di arenaria definita da cornice quadrangolare
70x70, sopra il fregio del portale d’ingresso. D(eo) O(ptimo) M(aximo) / Mariae Deiparae
/de Incancellata / templum hoc / Confalonis / Corinalti Societas / [opibus] piorum collectis
/ perf[ecit]. Nella l.8 è riconoscibile parte di un numerale: M […]
Virgo incancellis...
Nella chiesa dell’Incancellata, altri testimoni di pietra confermano le notizie
esposte da Cimarelli sulle trasformazioni dell’edificio: sopra il fregio del
portale d’ingresso, entro una cornice quadrangolare, è inserita un’epigrafe dedicatoria (fig. 13) della chiesa: In onore di Dio ottimo massimo, di
Maria madre di Dio dell’Incancellata, la Società del Gonfalone
di Corinaldo a spese dei devoti ha portato a termine questo tempio
nel Mille ...
La scritta non risulta completamente leggibile a causa di un malaccorto
restauro che ha coperto con un velo indelebile di cemento varie lettere, facilmente ricostruibili, e proprio la data, del tutto illeggibile.
Solo poche sbiadite parole mantengono oggi in vita, sulla costanza della
pietra, il ricordo della Venerabile Compagnia del Gonfalone di Corinaldo,
istituzione laicale di grande prestigio, potente per ricchezze spirituali e religiose ma anche per mezzi economici ed influenza sociale.
Tutto l’archivio cartaceo, conservato nelle numerose chiese di proprietà
della Confraternita, è stato sottovalutato e in gran parte disperso dopo che
la Confraternita fu “trasformata”, nel 1912. I pochi relitti presenti nell’Archivio storico comunale sono stati pubblicati da Carlo Giacomini che, con un
28
Testimoni di Pietra
grande gioco di pazienza da lui stesso dichiarato, si è impegnato negli anni
Novanta al riordino delle carte dell’archivio di Corinaldo13. Al Libro delle
notizie della Confraternita del Gonfalone, dal 1595 al 1816, si uniscono carteggi,
verbali ed atti diversi che testimoniano l’attività dell’istituzione fino al 1939 e
permettono all’archivista di ricostruire la storia della Confraternita.
Resta tra le memorie cittadine anche il volume degli Statuti dell’Arcicon­
fraternita, datato 1735, contenente una “breve narrazione dell’origine e dei
progressi” del sodalizio, presentato in un recente studio di Francesca Pon­
getti che tocca anche il patrimonio librario di alcune famiglie di Corinaldo14.
Non a caso il volume apparteneva a Francesco Arcangielo della nobile famiglia Ciani, cha avrà molto probabilmente fatto parte dei nobili Signori Confrati
di cui parla Cimarelli, se dobbiamo dedurre con la Pongetti, dal possesso di
certi libri, l’adesione di un personaggio alle coordinate culturali di un’epoca.
Del radicale cambiamento di tali coordinate culturali, iniziato nel secolo
dei lumi e protrattosi per tutto l’Ottocento, sono chiaro segno le pressioni
del Commissario prefettizio presentate al Consiglio comunale di Corinaldo
appunto negli anni 1911 e 1912: il 22 marzo 1912 il Commissario pretese,
do­po un veemente discorso contro l’inutilità dell’istituzione, divenuta a
suo dire un covo di interessi economici, che i beni della Confraternita del
Gonfalone fossero trasformati e convertiti a pubblico beneficio, secondo la
nuova Legge sulle Opere Pie dell’Italia unitaria, conseguente alla soppressione degli ordini religiosi.
Alcuni Consiglieri avevano tentato, in precedenti sedute, di difendere il
valore sociale del patrimonio dell’antica istituzione; prevalse tuttavia infine
l’atteggiamento favorevole al Commissario e si votò a strettissima maggioranza la concentrazione dei capitali della Confraternita nella “Congregazione
di Carità”, finalizzando le rendite al mantenimento dei ricoverati dell’Ospi­
zio dei cronici dell’Ente Ricovero di Mendicità Umberto I15.
Anche nella nostra comunità lo Stato laicista riuscì a distruggere “in larga
misura il monumentale impalcato eretto dalla convinta e costante millenaria
applicazione del principio solidaristico cristiano esplicitato dall’intero movimento confraternitale”: parole dello storico Alberto Fiorani.
Nell’approfondito studio sulle Confraternite nella Diocesi di Senigallia,
lo studioso ha riportato opportunamente alla ribalta le vicende di questa
realtà religiosa e sociale che si era mantenuta vitale nel tempo, fin dalle sue
origini nel tredicesimo secolo16. Fiorani lamenta che la storiografia corrente
ha sistematicamente tralasciato la trattazione del movimento confraternitale,
le pietre antiche
29
e che anche nel Seicento e nel Settecento, quando le Confraternite avevano
il loro massimo rigoglio, gli autori contemporanei ne trattano appena. Noi
Corinaldesi invece dobbiamo essere grati ancora una volta a Cimarelli che
si sofferma ampiamente sulle numerose Confraternite dei suoi tempi (sulle
quali non possiamo qui dilungarci, mancando riguardo ad esse ogni riferimento epigrafico), e in modo particolare su quella del Gonfalone: una “società entro la società”, aperta a tutti, uomini e donne, anche appartenenti ai ceti
più modesti; tra gli Uffiziali preposti al buon andamento della Confraternita,
dovevano infatti essere eletti, con un preciso e complicato rituale, “quattro
Priori, due dei quali dovranno essere del ceto dei Cittadini, uno di quello
degli Artisti ed uno del ceto dei Contadini”: tanto prescrivono gli Statuti
della Confraternita del Gonfalone di Corinaldo del 1787, rinnovati per volere
del vescovo di Senigallia, cardinale Bernardino Honorati 17.
La prefazione agli Statuti suddetti ricorda che in Corinaldo si trovava
già eretta fin dall’inizio del secolo XVI una Confraternita sotto l’invocazione di Santa Maria detta del Mercato e quindi sotto quella della Santissima
An­nunziata, ma i confratelli pensarono opportunamente di chiedere l’aggregazione all’Archi­confraternita del Gonfalone di Roma: essa per uso antico
era solita aggregare sia membri singoli sia interi sodalizi di città lontane da
Roma; trasmetteva ai nuovi adepti le indulgenze speciali ricevute fin dal
1267 da papa Clemente IV, sotto le regole dettate da San Bonaventura da
Ba­gnorea, e insieme gli impegni di solidarietà e di beneficenza, come il riscatto dei prigionieri catturati dai pirati turchi.
L’aggregazione, se comportava una certa sottomissione alla Società
romana, aumentava tuttavia il prestigio della confraternita locale, grazie
all’importanza sociale, religiosa ed anche politica che i confratelli di Roma si
erano guadagnata nei secoli. Proprio il titolo di Gonfalone derivò alla Società,
prima chiamata dei “Raccomandati di Madonna Santa Maria”, dal fatto che
i Raccomandati romani si schierarono sotto uno stesso gonfalone, la loro
bandiera confraternale, per ripristinare il governo papale quando, nel 1351,
Luca Savelli si era impadronito del potere in Campidoglio, esautorando
il vicario papale. Tanta era l’autorevolezza morale ed organizzativa della
Compagnia.
Per l’importanza dell’unione con Roma, la data della “Patente di aggregazione” di Corinaldo è più volte ripetuta negli Statuti del 1787, e si fissa ai 5
Agosto 1581 (e non al 1586, come afferma lo Sforza nell’opuscolo citato).
Evidentemente rinvigoriti da quest’innesto, i confratelli corinaldesi moltiplicarono la loro attività e la devozione: Cimarelli afferma che nel 1586 furono
30
Testimoni di Pietra
scelti dal Vescovo di Senigallia per dedicarsi alla cura del­l’In­can­cellata, farvi
officiare una Messa ogni sabato, provvederla di tutte le cose necessarie.
A partire dal 1625, come si è detto, la Società ampliò e trasformò la chiesa,
erigendo anche nuovi fabbricati per l’accoglienza dei pellegrini.
Di tale benemerita opera volle preservare il ricordo sulla lapide d’ingresso sopra presentata, che tuttavia ci impedirebbe oggi di conoscere l’anno,
illeggibile, del completamento dei lavori: indica però l’anno 1690 la tabella
esplicativa fatta apporre dall’Amministrazione comunale sulla parete esterna di questa chiesa (e di tutti i principali monumenti cittadini), a partire dal
1995. Esiste infatti, negli Inventarii dal 1775 al 1825 dell’Archivio vescovile di
Senigallia, una descrizione dei beni della Confraternita, dalla consultazione
della quale lo storico corinaldese Eros Gregorini ha potuto verificare la data
“in cui fu ingrandita la medesima chiesa con fabbricarvi sagrestia e casa, a
ciò la chiesa fosse custodita di giorno e di notte e rinnovata quindi la detta
chiesa circa il 1690 nello stato in cui al presente ritrovasi”18: ancora una volta
i testimoni di pietra e di carta si integrano, per confermare un dato storico.
Ai nostri giorni i pochi documenti superstiti, già sparsi negli armadi di
varie chiese, sono custoditi da Ettore Vieri, segretario della rinnovata Con­
fraternita del Gonfalone e priore della Confraternita dell’Addolorata e Santo
Spirito, dei quali è riconosciuta anche attualmente la personalità giuridica.
A Corinaldo infatti, nonostante l’esproprio dei beni immobiliari e terrieri,
nonostante le campagne di controllo e di scoraggiamento seguite anche al
Concordato tra Stato e Chiesa del 1929, sono rimaste sempre in vita almeno
tre Confraternite, delle otto erette dal 1430 al 1788: Gonfalone, Santo Spirito e
SS. Sacramento. I verbali delle adunanze e i registri di cassa da noi consultati
presso Vieri lo confermano.
Nel 1984 è avvenuto a Corinaldo, come anche in altre parrocchie della
Diocesi, un recupero di visibilità delle antiche confraternite: esse sono oggi
composte da circa quaranta membri in totale, uomini e donne, e partecipano
alle processioni di tutto l’anno liturgico; si è provveduto al rinnovo delle uniformi che utilizzano i colori delle antiche istituzioni, presenti in un mantello
invece che nel sacco e nella mozzetta. Si è perduto invece l’uso dello “scudetto”, un cartone ovale portato sul petto, nel quale era effigiato il simbolo
delle confraternite. La croce di color bianco e rosso in campo turchino, che
campeggiava nel gonfalone (fig. 14), è rimasta visibile oggi soltanto in uno
stucco sul soffitto dell’Incancellata, sopra l’altare, e nello stendardo riposto
in una sacrestia della chiesa parrocchiale.
Prima di raggiungere l’immagine della Madonna chiusa dai cancelli,
gli antichi costruttori della chiesa hanno voluto creare quasi un percorso
le pietre antiche
31
14 – Chiesa dell’Incancellata, la croce di color bianco e rosso in campo turchino,
emblema della Confraternita del Gonfalone, affrescato al soffitto della cella.
spirituale, rivolgendosi con sollecitazioni ed inviti in lingua latina al devoto
visitatore: nel fregio (fig. 15) del portale, l’iscrizione esorta il viandante ad
entrare con fiducia nel luogo sacro: Entra, tu che leggi, mira attentamente colei che è la vita del mondo, prega con fervore, la Vergine
beata ti darà un segno delle sue benevoli grazie.
Altre due scritte sovrastano le porte laterali della chiesa, ancora invitando
alla confidenza nella Madonna; sopra la porta di sinistra (fig. 16) sono ormai
illeggibili molte lettere, ma possiamo dare qui la lettura che ne fece lo Sforza:
La Vergine che guarda dalla cancellata libera le anime dalla
colpa, conduce in cielo i peccatori; sopra la porta di destra (fig. 17) si
distinguono chiaramente le parole: Fermati viandante, innalza qui le
tue preghiere, la Vergine e Santa Madre pregata da un cuore sincero ti inonderà di una rugiada divina.
L’espressione poetica fa riferimento all’acqua di un piccolo ruscello che
scorreva davanti al Santuario, poi raccolta in un pozzo e usata per ottenere
guarigioni da molti mali e perfino dalla lebbra.
E in verità molti poteri sono stati attribuiti all’intercessione della Vergine:
scomparsi purtroppo gli innumerevoli ex voto appesi alle pareti, preziosi ed
asportabili, c’è soltanto una pietra che resiste al suo posto, murata com’è alla
32
Testimoni di Pietra
15 – Chiesa dell’Incancellata, iscrizione nel fregio sopra il portale d’ingresso.
Ingredere o lector / mundi bene respice vitam / funde preces / Virgo signa beata dabit
le pietre antiche
33
16 – Chiesa dell’Incancellata, iscrizione nel fregio di arenaria gravemente sfaldato
sovrastante il portale d’ ingresso di sinistra.
[Virgo incancellis quae prospicit / almas cancell]at culpa / [duc]it ad astra reos
34
Testimoni di Pietra
17 – Chiesa dell’Incancellata, iscrizione nel fregio di arenaria sovrastante il portale
d’ ingresso di destra.
Siste viator / effunde hic preces / nam puro ex corde rogata / Virgo et Sancta Parens / rore
divino ditat
18 – Chiesa dell’Incancellata, epigrafe di arenaria 60x90 definita da cornice con
mo­danature, murata nella parete interna, sopra l’entrata laterale destra.
Aram hanc divo Cajetano dicatam / caelestis irae pacandae / Philippus presbiter corinal­
tensis / ex antiqua et nobili Fontinorum familia / superstes / erigendam et ornandam
disposuit / anno ab orbe redempto / MDCLXXXXI
le pietre antiche
35
parete interna destra della chiesa, un’epigrafe in latino (fig. 18) di invocazione
e di dedica: Il sacerdote corinaldese Filippo, superstite dell’antica e
nobile famiglia Fontini, dispose nel suo testamento che fosse eretto
ed ornato questo altare dedicato a San Gaetano, per placare l’ira
celeste, nell’anno della redenzione 1691.
L’altare, evidentemente posto sotto lo iuspatronato della famiglia Fontini,
è collocato sulla parete destra, all’esterno della cella, ed è arricchito da una
pala d’altare con “il Santo che tiene in mano il Redentore bambino”, elencata
tra gli arredi della chiesa negli inventari già ricordati; dalla scheda descrittiva
di Donato Mori apposta di recente all’altare, sappiamo oggi che la tela ad
olio è opera attribuita al pittore fermano Ubaldo Ricci (1669-1732).
Abbiamo cercato di far parlare la lapide più diffusamente, sollecitati dal
termine “superstite” e dal timoroso intento di “placare l’ira celeste”.
La famiglia Fonti, in seguito divenuta Fontini, nominata da Cimarelli tra
le più antiche, è presente a Corinaldo nella persona del luogotenente di Carlo
d’Angiò, Giacomo Fonti di Mineo, che nel 1294 sposò la figlia di un ricco
patrizio corinaldese; lo stemma, una fonte zampillante, è rappresentato sotto
il ritratto (fig. 19), esposto nella Sala Grande del Palazzo comunale, di due
giovani fratelli della famiglia, Pandolfo e Livio, insigniti del titolo di cavalieri
dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Illustri membri della famiglia si segnalarono come capitani al servizio
di vari Ducati italiani nel corso del Cinquecento e del Seicento, anche se la
pratica delle armi non sembra aver arricchito molto la famiglia che, nel 1617,
risultava possedere pochi ettari di proprietà, suddivisi tra vari eredi; partecipano al governo cittadino fin dalla prima metà del Seicento ma l’ultimo
esponente, Cristofaro, cessa di comparire negli elenchi dei Consiglieri nel
167519. Pochi anni separano questa data dal testamento del 1691 e dunque
veramente Filippo può apparire come l’ultimo rappresentante del casato.
Varie famiglie si estinguono a Corinaldo nel corso del Seicento, secolo
nel quale gli eventi negativi si presentano con frequenza e con intensità, specialmente nei primi decenni: uno studio di Carlo Giacomini sulle epidemie,
carestie e povertà diffuse nei territori di Ancona, Jesi e Corinaldo, attesta per
il nostro paese un vero collasso demografico nel biennio 1621-1622, quando
ad un anno di carestia si aggiunge l’influentia maligna del tifo petecchiale
che determina la morte di un decimo dei consiglieri e della quinta parte degli
abitanti, e questi de’ più ricchi20. Negli Annali di Senigallia di Giovanni Monti
Guar­­­nieri, a partire dall’anno 1650 si sottolinea più volte che la Fiera franca
di Senigallia non fu autorizzata per motivi di prudenza sanitaria, dato il faci-
36
Testimoni di Pietra
19 – Sala Grande
del Palazzo
comunale,
stemma della
nobile famiglia
Fontini sotto
il ritratto dei
fratelli Pandolfo
e Livio, cavalieri
dei Santi
Maurizio e
Lazzaro, datato
1577.
le diffondersi della peste 21.
Appare pertanto comprensibile il desiderio di Fontini di placare l’ira di
Dio attraverso l’intercessione di San Gaetano da Thiene (1480-1547), che nella
sua vita si era dedicato agli infermi più abbandonati; i suoi chierici furono
molto apprezzati durante la carestia e la peste del 1528-29, una sua nobile
discepola fondò a Napoli l’“Ospizio degli incurabili”; in alcune raffigurazioni viene presentato con un cartiglio che, uscendo dalla bocca, recita Placare
Domine, parole che si accordano con quelle della nostra epigrafe. Aggiun­
giamo la circostanza che Gaetano da Thiene era stato proclamato San­to
poichi anni prima, nel 1671; notiamo infine che l’erezione dell’altare è stata
disposta da Fontini proprio in occasione del completamento dei lavori della
le pietre antiche
37
20 – Chiesa del­
l’Incancellata, epigrafe di arenaria
70x50 murata all’interno della sacrestia,
nella parete di
fondo.
Priores Soc(ietatis)
Confal(onis) pro
tempore curent ut
sin / gulis hebdoma­
dis in per / petuum
celebretur i(n) hoc
/ templo die Lunae
et Mer / curii una
Missa pro salute /
D(omini) Galeotti
Arcang(eli) de cas / a
Montenovo ac totius
/ ipsius familiae utque
iide(m) / pro eodem
fieri mandent / prima
do(mini)ca octob(ris)
offi / cium quindecim
Missar(um) / sic(ut)
n(unc) ordinatur
in inst(rumento)
num(ero) […]
/ donat(ionis)
per Io(hannem)
Christophor(um) /
Bevilaquam rogat(o)
die / 5 Iulii 1629
chiesa, avvenuto nel 1690, come si è visto.
Era tanta la volontà di essere continuamente soccorsi dalla protezione
divina particolarmente presente nella chiesa dell’Incancellata, che non si
esitava a spendere una buona somma per far scolpire sulla pietra i diritti alle
Messe e ai suffragi voluti dagli offerenti, anche dei paesi vicini.
Lo testimonia un’epigrafe (fig. 20) che sopravvive, sconosciuta ai più,
murata a circa due metri di altezza dal pavimento, nella parete di fondo
dell’attuale sacrestia. L’iscrizione in corretto latino, con lettere di accurata
fattura, tanto impone: I Priori in carica della Società del Gonfalone
si prendano cura che ogni settimana per sempre si celebri in questo
38
Testimoni di Pietra
tempio, di lunedì e di mercoledì, una Messa per la salvezza dell’anima del signor Galeotto Arcangeli di Montenovo e di tutta la sua
famiglia e gli stessi comandino che a favore del medesimo sia fatto
celebrare, la prima domenica di ottobre, un ufficio di quindici
Messe, come viene ora ordinato nell’atto di donazione numero […]
rogato da Giovanni Cristoforo Bevilacqua il giorno 5 luglio 1629.
Se è scomparsa la memoria del meticoloso committente, riconosciamo
nel nome del notaio fissato sulla pietra, il personaggio che compare in altri
documenti cartacei, emersi dall’archivio comunale in occasione degli studi
sul pittore Claudio Ridolfi, di cui si parlerà in seguito: è proprio il notaio
Giovanni Cristoforo Bevilacqua che nel gennaio 1635 roga l’atto di acquisto
di una casa da parte di Ridolfi, in contrada Terreno22; è lo stesso notaio che
sottoscrive un importante documento concernente il quadro che raffigura
l’Orazione di Gesù nell’Orto , nel settembre 1643, a un anno circa dalla morte
del pittore23.
L’epigrafe è la testimone superstite dei molti altri testamenti e donazioni
a favore della Società del Gonfalone, che le avevano procurato il possesso
di beni fondiari ed edilizi, nonché di ben quattro chiese, ora demolite: Santa
Maria di Piazza, Madonna degli orti o di San Biagio, chiesa dell’Annunziata,
Santa Maria del Mercato.
Nel corso del primo Novecento il santuario venne piuttosto trascurato,
ma lapidi moderne ricordano il rinnovarsi dell’antichissima venerazione alla
Madonna del latte, invocata col titolo di “Regina della pace”, dopo la seconda guerra mondiale. I reduci e le loro famiglie, riuniti in un’Associazione,
operarono il ripristino della chiesa dopo il crollo del tetto del 1939 e l’abbellirono con nuovi decori24. Nell’altare alla sinistra della cella, in precedenza
dedicato alla Madonna di Loreto la cui antica statua è stata oggi trasferita in
una nicchia della stessa parete, si stabiliscono nuove devozioni: prima ad un
Crocifisso riportato da alcuni reduci nella chiesa patria, dopo che li aveva
seguiti e protetti in guerra e in prigionia; poi a Santa Maria Goretti.
Dopo la santificazione della virtuosa fanciulla, celebrata nel 1950, si volle
infatti ricordare in questa chiesa l’affetto e la devozione di “Marietta” per la
Vergine Incancellata, secondo quanto affermava la madre Assunta: una lapide di marmo (fig. 21) affissa alla parete interna sinistra, sopra la porta laterale, ricorda: Questo altare della martire corinaldese Santa Maria
Goretti, devota di questo santuario, fu dedicato il 15 agosto 1950 da
Sua Eccellenza Mosignor Umberto Ravetta vescovo di Senigallia e
le pietre antiche
39
21 – Chiesa dell’Incancellata, epigrafe di travertino 50x100 affissa alla parete interna
sinistra, sopra l’ingresso laterale.
Questo altare della martire corinaldese / Santa Maria Goretti / devota di questo Santuario /
fu dedicato il XV VIII MCML / da S. E. Mons. Umberto Ravetta / Vescovo di Senigallia e Conte
/ presenti / Assunta ed Ersilia Goretti / mamma e sorella della Santa / autorità e popolo.
conte, presenti Assunta ed Ersilia Goretti mamma e sorella della
Santa, autorità e popolo.
Più in basso, alla sinistra dell’altare, una lastra di marmo più piccola (fig.
22) sottolinea: La prima Messa in questo altare venne celebrata dal
Cappellano della Marina militare don Giuseppe Filipponi di Ascoli
Piceno . La pala del nuovo altare, dipinta nel 1950 dal pittore corinaldese
Mirco Mariani, rappresenta appunto Maria Goretti mentre prega davanti alla
Madonna dell’Incancellata.
Ancora del 1950 è la lapide (fig. 23) affissa ad altezza d’uomo su una lesena della parete destra della chiesa, che ricorda l’incoronazione della Vergine
con un diadema d’oro, sotto il pontificato di Pio XII: Questa miracolosa
immagine venne incoronata dal CapitolO Vaticano il 14 agosto
1950.
Di nuovo un lungo periodo di chiusura è stato inflitto alla chiesa in seguito al terremoto del 1997: dichiarata inagibile e chiusa dal marzo 1998, solo
nel gennaio 2003 è stato possibile riaprirla al culto, grazie all’interessamento
dell’Arciprete parroco Mons. Umberto Mattioli e ai volonterosi e devoti
abitanti della contrada. Secondo un’antichissima costumanza, gli abitanti
di ogni “contrada” (Corinaldo non ha frazioni) eleggono i loro deputati,
40
Testimoni di Pietra
22 – Chiesa dell’Incan­
cellata, epigrafe di
marmo 40x20 affissa
ad altezza d’uomo alla
parete interna sinistra,
vicino all’altare di S.
Maria Goretti.
La prima Messa / in que­
sto altare / venne celebra­
ta / dal Capp. della Marina
/ Militare D. Giuseppe /
Filipponi di Ascoli P.
23 – Chiesa dell’Incan­
cellata, epigrafe di
marmo 40x20 affissa ad
altezza d’uomo nella
parete interna destra.
Questa miracolosa /
immagine / venne /
incoronata dal Capitolo /
Va­ticano / XIV VIII MCML
responsabili della chiesa che caratterizza la località: all’Incancellata i nuovi
eletti si sono assunti con grande dedizione l’impegno della custodia, come
preteso dalla Soprintendenza ai Monumenti che ha curato i restauri, pur
sempre sotto la responsabilità della Confraternita del Gonfalone, proprietaria della chiesa; tuttavia molti oggetti ed arredi registrati nell’elenco redatto
da Stanislao De Angelis Corvi interessato alle memorie della chiesa, nel 1980
e consegnato per opportuna memoria ai deputati di allora, risultano attualmente mancanti.
Ricordiamo che una riproduzione dell’immagine della venerata Madonna
del latte è stata consegnata da una delegazione della nostra Parrocchia,
nell’ottobre 1997, al Passionista Padre Giovanni Alberti del Santuario di
Santa Maria Goretti a Nettuno, in partenza per la Terra Santa, perché la collocasse, insieme con altre immagini dello stesso soggetto provenienti da varie
località del mondo, nella cappella della “Madonna del latte”, a Betlemme.
L’immagine sacra, portata così lontano, vigila premurosa, all’insaputa di
tanti Corinaldesi, anche da uno dei punti più alti della città, la torre del cam-
le pietre antiche
41
24 – Palazzo comunale, campana di bronzo della torre ci­vica
con le immagini del
Crocefisso, di Sant’
An­­na, di Maria San­
tis­sima del­l’Incan­cel­
lata e lo stemma della
città; nel riquadro è
visibile il Crocefisso.
panile civico: lì la campana (fig. 24) che invita (o invitava) democraticamente
i cittadini ad accorrere alle riunioni del Consiglio comunale, porta raffigurate
nel bronzo le immagini del Crocifisso, di Sant’Anna e di Maria Santis­sima
dell’Incancellata, insieme con lo stemma della città: consegniamo ai concittadini anche questa immagine inedita, di difficile lettura per l’inaccessibilità
del luogo, ma che documenta l’antico legame della città con i santi patroni25.
Abbiamo raccolto con simpatia e ammirazione le confidenze del campanaro
comunale Ferdinando Mencucci ormai in pensione, l’ultimo ad avventurarsi
senza tema sul campanile: era lui a far risuonare le campane nelle precise
circostanze imposte dalla tradizione, Sant’Anna, Corpus Domini, S. Maria
Goretti, ed anche in occasione di pericolosi temporali, per allontanare la
grandine.
Repertae in agro Corinaltensium columnae & tabulae marmoreae…
Ci allontaniamo dall’Incancellata, pervasi dalle tante suggestioni evocate in
quel ricco contenitore di memorie cittadine, mentre riflettiamo su altre possibili vestigia di Suasa, sottratte ai denti del tempo, conservate ancor oggi nel
territorio comunale di Corinaldo.
Che ne è stato delle altre pietre e colonne acquistate dalla Comunità per
ornamento dell’Incancellata e del Palazzo pubblico? Esistevano fino ai tempi
più recenti due colonne adagiate davanti alla facciata della chiesa, ed oggi
scomparse (in qualche giardino?): lo testimoniano nel suo scritto lo Sforza e il
42
Testimoni di Pietra
vivo ricordo di concittadini viventi. Non vediamo più lungo la parete esterna
sinistra della chiesa di Sant’An­na il frammento di colonna antica, pure da noi
fotografato pochi anni or sono.
Reperti antichi abbelliscono il suggestivo parco della villa di campagna
dei conti Cesarini, situata a un paio di chilometri dal paese, in contrada
Montale: l’arredo del parco esibisce ancor oggi, benché in un triste abbandono, tre colonne di granito rosa allineate, che rappresentavano gli alberi di una
nave, ricostruita immaginosamente come spina divisoria del viale di accesso
alla villa (fig. 25), mentre frammenti architettonici di varie tipologie (fig. 26)
sono adagiati ai margini delle aiuole26.
Pur in mancanza di una documentazione scritta che attesti la provenienza
da Suasa di tali manufatti, non sembra troppo fantasioso pensare al trasporto nel giardino della villa di materiale antico, come si è usato fare per tutto
il Settecento e l’Ottocento da parte dei proprietari terrieri della zona, per
abbellire e nobilitare le loro residenze. Tutto il fiabesco arredo del parco, con
le statue, le nicchie, lo stemma, gli stucchi, è preda, in questi ultimi anni, di
ladri e di vandali che invano si tenta di arrestare.
Alcuni manufatti sottratti appunto alla villa ed in seguito recuperati, sono
attualmente in deposito nella “Sala del Costume e delle tradizioni popolari”,
allestita nel centro storico: si tratta di due capitelli corinzi (figg. 27 e 28) in
ottimo stato di conservazione, di provenienza ignota ma attribuibili ad epoca
rinascimentale e di una lastra di pietra, sulla quale è rappresentato uno stemma (fig. 79, cap. II) con elementi figurativi che richiamano a grande nobiltà.
Oltre alle colonne, Cimarelli (e prima di lui altri autori che egli cita nelle
Istorie) afferma che esistevano nel territorio di Corinaldo tabulae marmoreae,
cioè lapidi di marmo, contenenti iscrizioni latine: le descrive, le trascrive, e
dietro di lui vanno altri storici moderni che, sulla sua parola, ribadiscono
piuttosto affrettatamente (e certo senza aver operato una ricognizione personale) la presenza a Corinaldo di epigrafi romane27. In realtà ne restano
po­chissime, se la nostra ricerca, per quanto accurata, non verrà smentita (e
ce lo auguriamo) da altre indicazioni.
Fedeli al nostro proposito, presentiamo pertanto solo i reperti romani visti
con i nostri occhi, trascurando le altre segnalazioni.
Un fortunato incontro avvenuto nel 1997 con una laureanda dell’Uni­
versità degli Studi di Macerata, e un’amichevole collaborazione, ci permettono oggi di dare voce definitiva alle iscrizioni romane ancora presenti sul
territorio: la ricerca già avviata nella nostra Scuola media, ha permesso alla
le pietre antiche
43
25 – Colonne antiche erette lungo il viale di accesso di Villa Cesarini, in Via del
Montale: tre di granito rosa con fusto liscio e imoscopo, diam. 40, di cui due alte 180
ed una 120; una di calcare, diam.40, alta 190.
26 – Spigolo sinistro di elemento architettonico a dentelli e modanature, 35x135x45,
lungo il viale di accesso alla Villa Cesarini.
44
Testimoni di Pietra
27/28 – Due capitelli corinzi provenienti da Villa Cesarini, depositati nella “Sala del costume e delle
tradizioni popolari” in Largo XVII
settembre 1860; alt. 35, base superiore 45x45, base inferiore diam.
25, privi di foro per l’innesto; tre
facce presentano due giri di foglie
d’acanto sormontate da due volute che sorreggono l’abaco, al centro fiore d’abaco ed elici; la faccia
posteriore è solo sbozzata.
studiosa Si­mona Antolini di
en­trare in contatto con i reperti
da noi identificati, che sono
stati ap­profon­ditamente stu­­
diati e presentati nell’ambito
della sua tesi di lau­rea e successivamente in riviste archeologiche specializzate28. Ri­mandiamo, per gli
studi precedenti, alla bibliografia ivi citata, e non esitiamo a servirci di tale
recentissima pubblicazione per presentare con sicurezza il volto svelato delle
nostre pietre antiche.
Domino nostro imperatori maxentio...
Domino nostro imperatori constantino...
La più nota di esse è la colonna di età romana imperiale (fig. 29), identificata
nei pressi della chiesa di Madonna del Piano di Corinaldo, costruita o almeno
utilizzata come cippo miliare: sul percorso della strada lungo la quale era
collocato sussistono varie incertezze da parte degli studiosi che hanno ripetutamente esaminato il reperto, registrato nel Corpus Inscriptionum Latinarum
da Eugenio Bor­mann29.
Negli studi più recenti le ipotesi si restringono a due, che cerchiamo di
sintetizzare sulle indicazioni di Gianfranco Paci presentate in un recente con-
le pietre antiche
45
vegno a Corinaldo del 200130: se
il miliario è stato da sempre
collocato all’altezza della chiesa
di Ma­donna del Piano, dove è
stato segnalato per primo da
Cima­relli (anche se da lui male
interpretato), è presumibile
che in­dicasse un punto della
strada che collegava la conca
di Sas­soferrato (Sentinum) alla
colonia marittima di Senigallia
(Sena Gallica); il percorso si snodava sul crinale spartiacque tra
la vallata del torrente Ne­vola,
tributario del Cesano, e quella
del torrente Fenella, affluente
di sinistra del Misa, scendendo infine attraverso il terrazzo
fluviale di Suasa fino al mare;
la strada era preesistente alla
Flaminia stessa, aperta nel 220
a. C., e ricalcava un percor29 – Area del Monumento ai Caduti, in
so preromano. Sembra questa
Viale degli Eroi: cippo miliare in pietra
l’ipotesi più verosimile: infatti
calcarea a fusto cilindrico, alt.110, diam.
è l’esistenza di una strada anti50, recante tre iscrizioni ed un numerale;
ca documentata a determinasulla sommità si conserva un anello di
ferro piombato entro una cavità; il cippo è
re l’attribuzione di un miliario
attualmente collocato all’interno della chiee non viceversa. è inoltre da
sa di Madonna del Piano (Archivio Mario
considerare che in età tardoCa­rafòli, per g.c. della moglie Luisa).
antica la funzione delle colonne
come pietre viarie sembra quasi
scom­parire a favore di una funzione propagandistica (come è
del nostro cippo), che avrebbe meno senso lungo strade secondarie.
è però vero che la forma dei miliari ne fa un materiale particolarmente
adatto al riuso, specialmente come colonne delle chiese e delle cripte: il cippo
dunque potrebbe essere stato trasportato da altro luogo, come materiale di
spoglio, e collocato in posizione votiva davanti alla chiesa in periodo alto-
46
Testimoni di Pietra
medievale, uso non raro ai tempi; potrebbe allora provenire da qualche altra
strada importante, dal tratto della strada Sentinum – Sena Gallica che percorreva invece la valle del Misa o dalla strada Helvillum (Fossato di Vico) –
Ancona che percorreva la valle dell’Esino; si tratta comunque dei tre percorsi
principali, tutti collegati alla Flaminia, della viabilità antica su cui gravitava
Suasa. Sul cippo è inciso infatti con marcatura profonda, nella parte inferiore,
il numero romano CLXXXIIII (184), che indica la distanza in miglia dal punto
di origine della strada.
Esso presenta, oltre al numerale, tre iscrizioni inneggianti una a Mas­
senzio e due a Costantino, che risultano deteriorate per l’esposizione
all’aperto, corrose e in cattivo stato di conservazione; l’impaginazione è
poco curata e l’incisione dei caratteri frettolosa, con difformità di altezza e
di inclinazione delle lettere. Per di più le iscrizioni A e C hanno subito un
intervento moderno che ne ha snaturato alcune parti, rendendole ancora più
incomprensibili al lettore sprovveduto: per questo ci affidiamo all’esperta
indagine di Antolini.
Su di un lato (iscrizione A) è incisa una dedica Al Nostro signore
Im­peratore Cesare Marco Aurelio Valerio Massenzio, pio, felice,
invitto ed eterno Augusto, che sovrasta il numerale CLXXXIIII.
Sul lato opposto, al centro, (iscrizione B) la dedica è rivolta Al nostro
signore Imperatore Valerio Costantino, pio, felice, invitto Augusto,
figlio del divo Costante. Sopra l’iscrizione B (iscrizione C) di nuovo una
dedica All’ Imperatore cesare Flavio Valerio Costantino, pio, felice,
invitto Augusto (fig. 30).
L’iscrizione più antica è costituita dalla dedica a Massenzio (A), erasa, di
cui si riconoscono a malapena due lettere; contemporanea è l’indicazione del
numerale sottostante, CLXXXIV.
Massenzio era il rivale di Costantino per la conquista del primato sull’impero, ma fu da questi sconfitto definitivamente nei pressi del Ponte Milvio,
alle porte di Roma. La vittoria, secondo la tradizione, fu ottenuta grazie ad
una visione di Costantino: visitato in sogno, nella notte precedente la battaglia, dal Dio cristiano al quale si era già convertita sua madre Elena, fece
apporre sui vessilli del proprio esercito il segnacolo apparso nel sogno, il
monogramma di Cristo, ottenendone la protezione e divenendo per la storia
Costantino il Grande.
Massenzio, al contrario, dopo la morte subì, anche se non ufficialmente, la
damnatio memoriae, cioè la cancellazione del suo nome e del suo ricordo dalle
iscrizioni31; il miliario fu pertanto girato e sul lato opposto fu scritto il testo B,
le pietre antiche
47
30 – Cippo miliare nell’atrio di Madonna del Piano: trascrizione delle iscrizioni A-B-C
operata da S. Antolini (da Supplementa Italica, 18, Roma 2000, pag. 55). Datazione: A:
inizio del 307–28 ottobre 312; B - C: 28 ottobre 312–3 luglio 324.
in onore del vincitore Costantino, in posizione centrata.
Sulla base del riutilizzo e dei titoli attribuiti a Costantino, le iscrizioni B
e C si datano tra il 28 ottobre 312 ed il 3 luglio 324; l’iscrizione C però, che
ri­pete stranamente lo stesso testo di B, potrebbe essere stata apposta successivamente, in occasione forse del decennale del regno di Costantino, il 25
luglio 315.
Un cippo che appare come speculare al nostro è stato ritrovato lungo il
tratto umbro della Flaminia32: anche in quello, su un lato è stata scritta e poi
erasa la dedica a Massenzio e sul lato opposto incisa la dedica a Costantino;
ma notiamo con paesana soddisfazione che é proprio il cippo di Corinaldo
ad essere stato scelto da Mario Luni dell’Università di Urbino come rappresentante della tipologia, per comparire nella documentazione fotografica
del recente e benemerito volume di presentazione dell’archeologia nelle
Marche33.
48
Testimoni di Pietra
Del nostro cippo potremmo dire che ha mantenuto nel tempo una sorta
di proprietà da masso erratico: il Radke lo fa provenire da Ostra antica34; fu
osservato però da Cimarelli, a metà del Seicento, in prossimità del Cesano,
fuor della porta principale della chiesa di Madonna del Piano (e non, come
interpreta l’epigrafista Eugenio Bormann, fuor della porta principale di
Corinaldo); trasportato nel centro storico di Corinaldo, si ignora da chi e
quando, fu collocato in vari luoghi all’aperto del paese: il Bormann lo vide
“al corso, dirimpetto all’estremità del palazzo municipale”; è stato fotografato all’inizio di Viale degli Eroi negli anni Settanta (fig. 29), ma in seguito fu
riposto nel chiostro dell’ex convento degli Agostiniani, in Via del Corso; lì è
stato studiato negli ultimi decenni, anche per le indicazioni sulla collocazione
fornite negli anni Cinquanta a Gello Giorgi dal sindaco di Corinaldo35.
Finché, nell’estate del 2004, è di nuovo rotolato nella sua valle di origine:
l’Amministrazione comunale di Corinaldo lo ha infatti ricoverato all’interno
della chiesa di Madonna del Piano, nella contrada omonima, sul terrazzo di
fondovalle prospiciente il Cesano, ai piedi dell’altura su cui sorge il paese.
Seguiamolo in questo suo ritorno.
Sancta maria que dicitur in portuno
La scelta del luogo non è certo casuale. Negli ultimi anni il sito di Madonna
del Piano è oggetto di uno studio sempre più approfondito, che continua
a fornire conferme tangibili alle intuizioni dello storico Mons. Alberto Pol­
verari: egli per primo colse l’identità dell’attuale chiesa di Madonna del
Piano con l’antico monasterium di Sancta maria que dicitur in portuno, sul
fiume Cesano, nel territorio di Corinaldo, la cui presenza aveva visto attestata da documenti di Fonte Avellana36.
In un documento del 1224 è infatti attestato un cambiamento nella denominazione della chiesa, che viene ora indicata come “ecclesia Sancte Marie de
Plano”, titolo che oggi conserva. Già negli anni 1227-29, in un censimento
di tutte le proprietà avellanesi chiamate “obbedienze”, la chiesa è registrata
alle dipendenze del Monastero di S. Croce di Fonte Avellana: la curtis di
Ma­donna del Piano rappresenterà uno dei più apprezzati possedimenti sia
per la produttività, frutto dell’equa amministrazione fondiaria, sottratta dai
monaci alle dure regole della servitù della gleba, sia per l’apporto pastorale
e l’elevazione morale e religiosa della popolazione, dovuti alla costante presenza sul luogo di monaci, cappellani, conversi, oblati e famuli.
I secoli seguenti segnano le fasi di declino dell’abbazia, probabilmente
le pietre antiche
49
in concomitanza con quella di fonte Avellana (devoluta dal 1392 agli Abati
Commendatari, ben lontani dallo spirito avellanita), tanto che non sono più
attestate le visite pastorali. Forse in seguito alla gestione poco trasparente
degli Abati, nel 1569 papa Pio V soppresse la Congregazione Avellanita,
aggregandola a quella di Camaldoli; Gregorio XIII nel 1578 ne assegnò le
rendite al Collegio Germanico Ungarico dei Gesuiti, che le utilizzò per i suoi
fini di educazione dei seminaristi tedeschi; la chiesa fu da esso restaurata
nell’attuale forma di cappella rurale, priva di particolari valori architettonici, nel corso del Settecento37. Ma sono proprio alcuni testimoni di pietra
ad indicare al visitatore l’antica e nobile origine dell’edificio: inglobate nella
muratura della parete destra, tre colonne su basamento, una delle quali di
granito grigio (figg. 31-32-33), sormontate due da capitelli dorici ed una da
capitello corinzio asiano, sorreggono ancor oggi le campate della navata di
una chiesa evidentemente molto più grande ed antica.
Nell’atrio d’ingresso, lungo la parete di destra, si notano altri tre frammenti di colonne di granito grigio (fig. 34) ed una porzione di fregio, sormontato da un’iscrizione di casato, certamente più recente; interessanti due
piccoli reliquiari (fig. 35) di pietra, di cui uno completo di copertura, attribuibili a manifattura bizantina, contenenti ancora parti di scheletro, trovati
nel tessuto murario della parete perimetrale sinistra della chiesa, durante
moderni lavori di restauro.
Testimoni da sempre muti perché non iscritti, le pietre hanno oggi acquisito voce grazie alle campagne di scavo iniziate nel 2001 dal Dipartimento
di Archeologia dell’Università degli Studi di Bologna, in accordo con il
Comune di Corinaldo, la Diocesi di Senigallia e la Soprintendenza per i Beni
Ar­cheologici delle Marche, che già nel 1970 aveva messo in luce le colonne
della navata e le rispettive fondazioni, ora visibili attraverso grate di ferro38.
L’interesse per la storia del sito si è riacceso di recente, in concomitanza con le campagne di scavo nell’area dell’antica Suasa, oggi nel territorio
comunale di Castelleone di Suasa, iniziate dal Dipartimento di Archeologia
del­l’Università di Bologna nel 1987, e proseguite fino ad oggi con sempre
nuove ed anche inaspettate scoperte39.
Nell’ambito del progetto di valorizzazione del Parco archeologico “Città
romana di Suasa”, e della media valle del Cesano, perseguito con il supporto
dell’omonimo Consorzio, il Dipartimento di Archeologia ha iniziato sistematici scavi anche nel territorio comunale di Corinaldo, nel sito di Santa Maria
in Portuno40. Oggi si ritiene che il sito rappresenti un’importante testimonian-
50
Testimoni di Pietra
31/32/33 – Madonna del Piano, tre colonne, di cui una di granito, su basamento, a
sostegno delle arcate dell’antico impianto medievale, inglobate nella parete destra,
due con capitello dorico ed una con capitello corinzio asiano, quest’ultimo risalente
alla metà del V - inizi del VI sec. d. C.
za del sorgere della civiltà cristiana, nel momento di transizione tra la fine
di Suasa e l’inizio dello sfruttamento del territorio da parte delle comunità
monastiche.
La denominazione stessa della località, in Portuno, può esser messa in
relazione con la divinità romana Portunus, etimologicamente legata a portus e
quindi ad attività fluviali, tra le quali l’attraversamento dei corsi d’acqua41. A
questa divinità (e non alla dea Venere, come afferma Cimarelli) poteva es­sere
le pietre antiche
51
34 – Cippo miliare, colonne antiche ed altri reperti nell’atrio d’ingresso della chiesa
Madonna del Piano.
stata innalzata qualche struttura architettonica che avrebbe favorito una
frequentazione stabile del luogo, legata al traghettamento del vicino fiume
Cesano: può farlo ipotizzare la presenza sia nella chiesa sia nelle vicinanze
dei già descritti frammenti architettonici romani o tardo romani, anche se
non si può escludere che siano stati trasportati da altro luogo.
Non si tratta certamente del tanto marmo romano descritto da Cimarelli
come presente intorno alla chiesa: ma potrebbe averlo divorato, insieme
con i denti del tempo, proprio il fuoco di una “calcara”, la fornace che produceva calce riutilizzando materiali antichi; una ne è stata trovata, durante
gli scavi, al di sotto della cripta della chiesa: era stata obliterata al momento
della costruzione del pavimento della prima chiesa cristiana, eretta tra la fine
dell’VIII e l’inizio del IX secolo, con murature di età romana utilizzate come
fondazioni. La presenza delle fornaci - un’altra è stata individuata nell’attua-
52
Testimoni di Pietra
35 – Madonna del Piano, due reliquiari a cassa litica, privi di elementi figurativi, uno
mancante della lastra di copertura, attribuibili a manifattura bizantina.
le magazzino adiacente alla cripta - fa supporre che sul luogo fosse presente
un deposito di materiale antico, marmi e calcare, adatto per essere bruciato
ad alte temperature e ridotto in calce.
Proprio nel tempo che dagli Impressori il presente Capitolo si poneva al Torchio,
succede a noi come a Cimarelli che si debba aggiungere un’ultima importante notizia, riguardante altri ritrovamenti di materiale romano nelle vicinanze
di Madonna del Piano: durante lo scavo di composto ghiaioso in una cava
vicina al sito e vicinissima all’alveo del fiume Cesano, sono state individuate
almeno ottanta tombe attribuite al II secolo d. C., alcune contenenti i modesti
corredi di deposizione intatti42. All’interesse per la scoperta in se stessa si
aggiungono ulteriori elementi di ricerca sugli insediamenti antichi situati
lungo l’asse viario della Valle del Cesano, ad est di Suasa: se fino ad ora il
materiale romano di maggior rilievo artistico presente a Madonna del Piano
poteva essere attribuito allo spoglio di Suasa, si avanza adesso l’ipotesi che
possa provenire da qualche vicus o pagus più vicino alla chiesa, al quale poteva essere annessa l’area tombale appena ritrovata. Dunque le prospettive di
le pietre antiche
53
36 – Madonna del Piano, saggio di scavo per l’individuazione dell’accesso alla cripta
della chiesa: architrave di pietra grigia con decorazione a dente di lupo, sottostante
alla pavimentazione della chiesa; fase edilizia alto-medievale (da Archeologia medie­
vale, XXX, 2003, pag.356, fig. 17).
documentare la presenza della popolazione romana sul territorio corinaldese
aumentano di anno in anno e giustificano pienamente le campagne di scavo
iniziate nella zona per la lungimiranza della Soprintendenza archeologica
delle Marche e dell’Università di Bologna.
La ricognizione archeologica nel sito di Madonna del Piano è iniziata
nell’estate 2001: essa ha permesso di redigere una sequenza cronologica della
vita del monumento, suddivisa in vari periodi caratterizzati da distruzioni
e ricostruzioni dell’edificio, attestati dallo studio del materiale costruttivo,
ce­ramico e numismatico rinvenuto durante l’analisi stratigrafica delle strutture e degli alzati della chiesa da parte dell’équipe di archeologi43 .
Noi li ripercorriamo attraverso la testimonianza di alcune pietre caratteristiche di ogni fase.
Dopo il periodo di frequentazione romana già presentato, tre elementi
architettonici riportano all’Alto medioevo: un architrave di pietra grigia, probabilmente calcarea (fig. 36), emerso nel saggio di scavo effettuato all’interno
54
Testimoni di Pietra
37 – Madonna del Pia­
no, frammento architettonico di pietra grigia a dente di lupo del
contrafforte esterno alla
cripta; fase edilizia altomedievale (da Archeo­
logia medievale, XXX,
2003, pag. 357).
38 – Madonna del Piano,
porzione di tran­senna
di finestra in calcare,
databile alla metà del
IX secolo, rinvenuta
nel saggio di scavo all’
interno del magazzino
adiacente all’abside (da
Archeo­logia medievale
XXX, 2003, p. 356, fig.
16).
della chiesa, nel punto di passaggio tra il vano centrale della cripta e il vano
sottostante la navata sinistra, decorato sulla faccia frontale con un motivo
geometrico “a dente di lupo”.
Un frammento architettonico (fig. 37) di pietra grigia, reimpiegato nell’angolo del contrafforte esterno all’abside, anch’esso decorato con un motivo a
dente di lupo, forse una mensola o un piccolo capitello cubico.
Una transenna da finestra (fig. 38), in calcare di colore ambrato, in tre
frammenti ricomponibili che ne restituiscono la parte sommitale e curvilinea,
ospitata in un’apertura che doveva svilupparsi nel senso dell’altezza piuttosto che della larghezza.
Le pietre sono uniche testimoni dell’impianto altomedievale (secondo
periodo, secoli VIII-IX), reso noto solo grazie agli scavi, perché distrutto da
un poderoso incendio le cui ceneri, lasciate sul posto durante le successive
le pietre antiche
55
39 – Madonna del Piano, parete nord edificata con tecniche costruttive tipicamente
medievali e utilizzo di materiale antico nel tessuto murario.
fasi edilizie, sigillano tutte le strutture precedenti.
Le arcate sostenute dalle già descritte colonne antiche (figg. 31-32-33)
ancora visibili, si riferiscono al terzo periodo, collocabile nei secoli successivi
al X: la chiesa si presenta ora con tre navate, l’aula basilicale è scandita da sei
campate, con alternanza di colonne di reimpiego e di pilastri; il presbiterio
è rialzato sopra la cripta. L’impianto della chiesa, ormai ben ricostruibile
attraverso l’indagine archeologica, conferma la prosperità dell’abbazia in
questi secoli, in pieno accordo con le carte di Fonte Avellana che riportano
per l’epoca donazioni di terreni, ville, mansi, mulini.
Un drastico restauro nella prima metà del secolo XIV (quarto periodo,
Basso Medioevo) modifica la planimetria della chiesa: crollate le navate
laterali, l’edificio viene ristretto ad una sola navata, conclusa dall’abside pentagonale già esistente e tuttora mantenuta. Se mancano frammenti architettonici tipici dell’epoca, testimoni ne sono una decorazione interna ad affresco
ed il materiale e le tecniche costruttive della parete nord (fig. 39), tipicamente
medievali.
56
40 – Portale di arenaria di Madonna del Piano.
Testimoni di Pietra
le pietre antiche
57
Segue un periodo di evidente decadenza dell’abbazia, testimoniato dalla scomparsa delle
visite pastorali e dalla sostituzione di un rettore al posto
dell’abate: ma una storia più
articolata potrebbe riemergere
attraverso lo studio di nuove
carte di Fonte Avel­lana, finora
pubblicate solo fino al 1325.
Estesi lavori di restauro alterano definitivamente l’aspetto
originario della struttura nel
corso del Cinquecento, fino
alle modifiche apportate (quinto periodo, secolo XVIII), con
in­terventi nella facciata, nel
portale e nella torre campanaria, dal Collegio GermanicoUnga­rico dei padri Gesuiti,
divenuti proprietari della chiesa e delle sue entrate, come si
è già detto, in seguito alla sop41 – Madonna del Piano, particolare del
pressione della Con­gregazione
portale: dal basso, mascherone a volto
umano; frammento dello stemma del
Avella­nita.
Collegio Germanico Ungarico: monogramDue testimoni di pietra conma latino del nome di Gesù IHS intrecfermano le proprietà del Col­
ciato con l’iniziale di M(aria); stemma del
legio Germanico: sul bel portale
vescovo di Senigallia Umberto Ravetta
di arenaria della chiesa (fig. 40)
(1938-1965).
su cui resiste ancora lo stemma del vescovo di Senigallia,
Um­berto Ravetta (1938-1965),
so­pra un mascherone di pietra a volto umano, presente anche in altri portali
del centro storico, permane un frammento di stemma (fig. 41) con il monogramma latino del nome di Gesù e l’iniziale del nome di Maria. Lo si può
confrontare con lo stemma completo del Collegio Germanico, riprodotto
nello studio su tale istituzione operato da Nazzareno Gianfranceschi nell’ambito della sua storia di Monterado44.
58
Testimoni di Pietra
42 – Monogramma
CVG del C (ollegio)
V(ngarico) G(ermanico)
in una formella di
pietra murata nella
parete esterna, lato
nord, dell’abitazione
di Via Madonna del
Piano, n. 45.
E ancora, non lontano dalla chiesa, al n. 45 di via Madonna del Piano,
nella parete esterna di un’abitazione privata è murata una pietra (fig. 42) il
cui colore grigio ben si distingue tra il rosso dei laterizi: in essa è inciso il
monogramma CVG, lettere iniziali di C(ollegio)V(ngarico) G(ermanico).
Ricordiamo che nelle carte dell’archivio comunale ricorrono spesso controversie tra la Comunità corinaldese e i ministri del Collegio Germanico
Ungarico, per conflitti di vario genere.
Se finora i risultati delle indagini archeologiche sul sito di Madonna del
Piano erano accessibili solo ai lettori di riviste specializzate, oggi gli accordi
tra gli Enti promotori degli scavi e la liberalità di uno sponsor hanno dato
vita ad un percorso espositivo dedicato a tutti i visitatori, costituito da pannelli esplicativi, collocati fuori e dentro la chiesa, che accompagnano alla
conoscenza della storia del luogo: in un locale interno è stato infine inaugurato un Antiquarium che offre, insieme con saggi del materiale reperito
sul luogo, una ricostruzione del paesaggio antico e delle attività produttive
realizzate nel corso dei secoli nell’area indagata45.
Sono state dunque ricreate e ampiamente documentate le fasi edificatorie
della chiesa: nessuna pietra però ci parla della vita che si è svolta, lungo i
secoli, all’interno del monastero, della chiesa, dell’hospitale; delle novità sociali ed economiche indotte dalla signorìa rurale dei monaci, divenuta “signorìa
dei poveri”; tantomeno della spiritualità, dei rapporti con l’Ab­bazia madre di
le pietre antiche
59
43 – Sagrato di Madonna
del Piano, epigrafe di
marmo affissa ad un
basamento quadrangolare in laterizio, sormontato da una croce di ferro.
SS. Missioni / 18-25 apri­
le 1945. / La contrada /
Madonna del Piano / per la
protezione / ottenuta dalla
B.V. del / Buon Conforto /
nel periodo bellico
Fonte Avellana e soprattutto con la popolazione di Corinaldo.
Parlano però le carte di Fonte Avellana, che esulano dal nostro studio: non
per se stesse parlerebbero, a causa della supposta aridità della loro natura
giuridica, ma per la sagacia dello studioso che penetra nel loro linguaggio, sa coglierne le connotazioni, sa ricostruire la ricca vita che le sottende.
Quest’opera ha compiuto lo storico Manlio Brunetti, sorretto dalla liberalità
di Don Giuseppe Bartera, nativo della contrada di Madonna del Piano: invitiamo dunque il lettore alla conoscenza della storia sommersa di Madonna del
Piano e dell’esperimento di “cristianesimo sociale” lì prodottosi, narrati con
appassionata partecipazione nella monografia di Brunetti a ciò dedicata46.
Della secolare devozione alla “Madonna del buon conforto”, venerata
nella chiesa, restano nella sacrestia numerosi ex voto su tavolette di legno, in
gran parte ottocenteschi, presentati tra i documenti della religiosità popolare
60
Testimoni di Pietra
delle valli del Misa e dell’Esino, in un apposito studio di Sergio Anselmi 47.
Ma non manca anche per il nostro secolo un voto alla Madonna per grazia
ricevuta: sul sagrato della chiesa un’epigrafe di marmo (fig. 43) affissa ad
un piccolo basamento di laterizi, sormontato da una croce di ferro, ricorda
la protezione di Maria in una data drammatica per la storia italiana contemporanea, la definitiva liberazione del territorio italiano dalle truppe di occupazione tedesche: SS. Missioni 18–25 aprile 1945. La contrada Madonna
del Piano per la protezione ottenuta dalla Beata Vergine del Buon
Conforto nel periodo bellico.
In tempi di furti di arredi sacri, meglio ancorare la testimonianza devota
alla solidità della pietra.
have Saturnina
In questo storico contenitore di testimonianze millenarie è stato dunque
riportato il cippo romano, ora ricongiunto alle pietre antiche consorelle.
Ad esse meriterebbe di essere associato un altro e assai notevole manufatto romano, fortunosamente salvato dalla dispersione proprio grazie
all’oblìo che lo avvolge anche attualmente: è collocato nel cuore del centro
storico, nascosto nelle viscere della città, in una cantina del palazzo gentilizio
Mazzoleni che si affaccia sulla piazza principale del paese, Il Terreno.
Nel corso della presente ricerca, e proprio grazie ad essa, la sua presenza
ci è stata segnalata dalla proprietaria del palazzo, Ea Lenci Ciani Paolini, che
aveva ricoverato all’ interno il manufatto per proteggerlo da danni e mutilazioni durante lavori di pavimentazione della piazza48.
Da molti decenni infatti, il piccolo monumento funebre (figg. 44 e 45)
giaceva all’aperto, a fianco del portale (fig. 46), e lì lo aveva visto l’eminente
studioso ed epigrafista Eugenio Bormann nel 1894, forse in occasione di una
visita nel nostro territorio49.
Nella scheda descrittiva, egli afferma che il monumento era stato portato
a Corinaldo pochi anni prima, provenendo dalle rive del Cesano50; sappiamo
che nella frazione Borghetto di Castelleone di Suasa, situata proprio sulle
due rive del Cesano, sono stati rinvenuti resti murari e diversi blocchi di
pietra, tra i quali “un’epigrafe funebre in pietra d’Istria”51; si può pensare ad
un’area suburbana, occupata da tombe monumentali romane, dalla quale è
facile ipotizzare che sia stato prelevato e trasportato a Corinaldo il nostro
monumento.
Il manufatto, studiato per la prima volta da Simona Antolini in maniera
le pietre antiche
61
44/45 – Piazza Il Terreno n. 4, interno di Palazzo Mazzoleni: ara funeraria romana
di marmo d’Istria a corpo parallelepipedo: 118 x 60 sul coronamento, 48 sul dado, 64
sullo zoccolo x 58 sul coronamento.
D(is) M(anibus). / Have Saturnina. / T. Hoenius / Pardus / coniugi / bene mer(enti)
approfondita, è assai ben conservato e presenta solo una frattura sull’angolo
inferiore sinistro della fronte, talune sbrecciature e tracce di corrosione sulla
superficie scrittoria52. Le specchiature laterali sono occupate da due oggetti
connessi al rituale funerario, un urceus e una patera, con i quali venivano
versati cibo e bevande rituali agli spiriti dei defunti; il retro è solo spianato;
una cavità presente sulla sommità, al centro, serviva per poter fissare con il
piombo un coronamento ora disperso.
è l’unico esemplare presente in tutto il territorio di Corinaldo e di
Castelleone di Suasa: appartiene alla tipologia delle basi di marmo a corpo
parallelepipedo, diffusa nell’officina lapidaria di Urbino soprattutto nel II
secolo d. C.: l’onomastica trinominale, l’invocazione agli dei Mani abbreviata
e la paleografia orientano infatti verso la prima metà del II secolo.
L’ara rappresenta l’omaggio imperituro alla memoria di una sposa, resasi
62
Testimoni di Pietra
benemerita in vita verso il marito: dopo la consacrazione Agli dei Mani,
gli spiriti della defunta, l’uomo saluta tristemente la moglie e le dedica il
monumento con il il messaggio, impresso nella specchiatura centrale: Addio
Saturnina. Tito Enio Pardo alla benemerita sposa.
Possiamo conoscere qualcosa del personaggio che ha commissionato il
monumento attraverso il nome gentilizio Hoenius, noto solo a Roma e nella
Regio VI (una delle regioni in cui l’Italia era stata divisa da Augusto), che
comprendeva anche il nostro territorio: ci viene incontro l’approfondimento
operato da Rosetta Bernardelli Calavalle sulla gens Hoenia, in uno studio
dedicato alle iscrizioni romane del Museo civico di Fano, nel quale viene
citata anche l’epigrafe di Corinaldo53.
La presenza nel museo di Fano di una stele con iscrizione sepolcrale
dedicata a Hoenius Severus permette alla studiosa una ricognizione sulla diffusione del nome e dello status della famiglia, della quale un esponente, forse
padre di Severus, fu console. La famiglia aveva probabilmente delle proprietà
terriere a Fanum Fortunae, l’attuale Fano, ed è pensabile che famiglie imparentate potessero occupare terreni anche nel Suasano. A Suasa è stata trovata
un’altra epigrafe dedicata a Lucio Enio Gemino, morto a venti anni54.
La gens Hoenia doveva appartenere al ceto medio, di probabile estrazione
libertina, come fa pensare il cognome di origine greca, e poteva permettersi
spese di rappresentanza, come potrebbe testimoniare la buona qualità del
manufatto, che Bormann definisce di marmo pregiato.
Considerata l’eccezionalità del rinvenimento e la singolarità della tipologia nell’area suasana, riterremmo doveroso restituire alla cittadinanza e agli
studiosi la vista di un reperto tanto insolito.
Il liberto Panfilo
Di un altro personaggio romano resta tra noi il ricordo, inciso su un’epigrafe
mutila (fig. 47) che ce ne tramanda il nome: Publio Acuzio Panfilo [liberto
di Publio].
Ci ha guidati a conoscerlo un’alunna, incuriosita dal nome latino e coinvolta nella ricerca scolastica sui monumenti di pietra: in realtà il documento
era già noto agli studiosi del Dipartimento di Archeologia di Bologna, che lo
avevano registrato, pur con alcune imprecisioni, in occasione della ricognizione archeologica delle valli del Misa, del Nevola e del Cesano 55. La nostra
segnalazione a Simona Antolini ha permesso un ulteriore esame del reperto,
che ci consente ora di descriverlo più accuratamente56.
le pietre antiche
63
46 – Nel particolare, l’ara funeraria romana già collocata alla sinistra del portale di
Palazzo Mazzoleni, in Piazza Il Terreno, riprodotta in una cartolina illustrata spedita
nel 1905.
47 – Epigrafe mutila reimpiegata come materiale edilizio sul muro esterno dell’ex
villa Sandreani: due blocchi di arenaria di cui il primo, anepigrafe, sbrecciato in alto
a sinistra, il secondo scheggiato in alto a destra e spezzato in due secondo una linea
di frattura di andamento verticale;19+51 x 39 x ?; età augustea.
P. Acutius [P. l.] / Pamphilus
64
Testimoni di Pietra
48 – Residenza di campagna della nobile famiglia corinaldese Sandreani, oggi proprietà Rocchetti, in contrada Sant’Isidoro, Strada del Perino: all’angolo sinistro del
prospetto principale è inserita un’epigrafe mutila di epoca romana.
Le pietre iscritte sono state utilizzate come materiale edilizio nella muratura di una villa di campagna dei nobili corinaldesi Sandreani, nella contrada
Sant’Isidoro, e sono visibili nello spigolo sinistro del prospetto principale
(fig. 48). La villa è stata venduta dall’ultimo erede, Sandro Sandreani residente a Cantiano, ai fratelli Aldo e Igino Rocchetti di Corinaldo agli inizi degli
anni Settanta; il restauro dell’edificio, attuato dai nuovi proprietari, ha reso
meglio leggibile l’iscrizione.
Il reperto è costituito da due lastre di arenaria iscritte ma di grana diversa,
e da una lastra priva di iscrizione, che appartenevano a due blocchi distinti,
probabilmente pertinenti ad un monumento funerario “a dado”, costituito
da blocchi di pietra accostati o da lastre di rivestimento di un nucleo cementizio. è ignoto da quale luogo provengano e in quali circostanze siano stati
trovati e riutilizzati; è significativo però che la costruzione in cui sono inserite
le pietre si trovi vicino all’area dell’antico municipio di Suasa, da dove provengono altri reperti romani. La scritta di ottima fattura, le lettere di modulo
quasi quadrato e la tipologia monumentale permettono di datare il manufatto all’età dell’imperatore Augusto.
le pietre antiche
65
Il nomen del personaggio, Acutius, è presente in altre iscrizioni a Pesaro e a
Cluentensis vicus (località riconoscibile sul sito collinare poi occupato dall’abitato medievale di Civitanova Alta) nel Piceno57.
Ci ha incuriositi la presenza di questo stesso nome, appena modificato,
in un documento redatto in pieno medioevo: all’atto di vendita di cinque
salme di grano, necessarie per pagare al Marchese il sussidio dovutogli
dall’antica chiesa di San Michele di Collurbano in Corinaldo, nel 1341, sono
presenti due personaggi, Cuti(us) Romanelle ed Andrea(s) Actuti(us), il primo
dei quali rinnova l’antico nome della nostra epigrafe58. Benché non possa
trattarsi della persistenza del nome romano, dal momento che la popolazione
antica fu completamente dispersa nei secoli successivi alle invasioni barbariche, notiamo il collegamento onomastico legato ad un appellativo desunto
probabilmente nel Medioevo, come in antico, dalla forma del capo piuttosto
appuntito: più esplicito è il cognome “Testaguzza”, mentre per gli “Aguzzi”
si può pensare anche ad una foggia del cappello.
La permanenza di una famiglia in una stessa curtis per due, tre o anche
cinque o sei generazioni - se venivano rinnovati i contratti di enfiteusi –
determinava anche la permanenza dei nomi in una stessa area. Avanziamo
dunque la semplice ipotesi che le famiglie “Aguzzi”, tuttora diffuse nella
media valle del Cesano e in particolare nei comuni di Castelleone di Suasa e
di Corinaldo, mantengano nel loro cognome una particolarità legata agli avi
del Medioevo.
Altre notizie sul defunto romano ci provengono dal cognomen di origine
greca, Pamphilus: esso permette di ipotizzare, nella prima linea di scrittura,
la presenza di altre due lettere P(ubli) l(ibertus), cioè liberto di Publio, che
renderebbero la scritta più simmetrica e giustificano, nella seconda linea, la
posizione centrata del nome Pamphilus. Dunque Panfilo era stato uno schiavo, liberato da Publio con la procedura della manumissio, l’affrancamento: da
quel momento egli era entrato nel nuovo stato di liberto ed aveva assunto il
prenome, Publius, ed il nome, Acutius, del suo ex padrone mentre il suo nome
di schiavo, Pamphilus, diveniva il cognomen.
I liberti giocavano un ruolo importante nella vita delle città e svolgevano
anche professioni di rilievo come medici, architetti, musicisti, grammatici;
spesso si arricchivano e potevano permettersi un ricco apparato funebre. Il
tipo di monumento a dado da cui è evidentemente tratta la lastra di Panfilo
era infatti caratteristico di un ceto sociale formato per lo più da magistrati
locali e da liberti che, dedicandosi al commercio e ad altre attività, ne traeva-
66
Testimoni di Pietra
no la possibilità di un’elevazione economica e sociale.
Amor di patria (e testimonianza epigrafica) ci spinge a ricordare come
questo stesso nome, Panfilo, ricco dell’alone di benignità conferito dall’etimologia greca del nome, “l’amico di tutti”, sia caro al popolo di Corinaldo
perché portato da uno dei cristiani che per Cristo, ed in testimonianza della
veridica fede, li 21 di settembre, come nel Romano Martirologio si legge, acerba morte
sofferse.
Non sono invero molte le conoscenze che abbiamo intorno a San Pan­
filo, da non confondersi con San Panfilo martire a Cesarea nel 307: nulla di
documentato sulla sua vita e sul suo martirio, tranne l’identificazione del
suo sepolcro in un cimitero della Via Salaria Vecchia da parte di Enrico
Josi, secondo le indicazioni fornite dagli Itinerari del VII secolo. è inserito al
21 settembre nel Martirologio Romano, dove è passato dal Martirologio di
Usuar­do attraverso il Martirologio di Gellone 59.
Cimarelli riferisce che il corpo del santo, per particolare interessamento
del corinaldese Francesco Brunori, fu inviato da papa Urbano VIII, nel 1639,
ai Corinaldesi, che riposero le reliquie nella chiesa di San Pietro Apostolo e
lo accolsero con tanta gratitudine da volerlo dichiarare patrono e protettore
della città, insieme con Sant’Anna.
In seguito da quella chiesa, andata distrutta alla fine dell’Ottocento,
l’urna venne trasferita sotto la mensa dell’altare della nuova chiesa del cimitero, Santa Maria delle Grazie: in occasione della ricostruzione del cimitero,
attuata nel 1870, era stato lì collocato anche l’affresco di una Madonna col
Bam­bino, già venerata in una cappella costruita dopo la metà del Seicento
proprio davanti all’ingresso dell’attuale cimitero, nell’area ora occupata da
un monumento alla memoria dei Caduti della Prima guerra mondiale. I due
culti contemporanei ma spazialmente separati nel Seicento, vennero pertanto
riuniti in un unico luogo sacro nell’Ottocento.
Oggi sono proprio e solo le due iscrizioni dedicatorie in latino (fig. 49)
che affiancano il vetro dell’urna, a far memoria degli antichi eventi: alla
Vergine, a cui è dedicato il tempio e A Panfilo a cui è dedicato l’altare; al centro, sopra il vetro, corre la scritta a dio padre di tutti, alla
vergine madre di tutti.
Le reliquie di San Panfilo tuttavia non sono più riposte sotto questo altare: forse per timore di una profanazione, in un luogo isolato come il cimitero,
forse per ravvivare un culto ormai assopito, a cavallo degli anni Cinquanta
(i nostri informatori non sono stati più precisi), l’urna fu trasportata dalla
chiesa del cimitero a quella di Sant’Agostino – oggi Santuario di Santa
le pietre antiche
67
49 – Cimitero di Corinaldo, chiesa di Santa Maria delle Grazie, iscrizioni affiancanti
l’urna reliquiaria collocata sotto la mensa dell’altare; a sinistra: Virgini / cuius / est
/ templum; a destra: Pamphilo / cuius / est / ara; al centro: Deo omnium patri / Virgini
omnium matri
Maria Goretti – e deposta sotto il secondo altare di sinistra. Se ne interessò la
Con­fra­ter­nita del Gonfalone, sollecitata dal priore Antonio (Toto) Ciceroni,
che aveva anche ideato il progetto di una cripta. I concittadini Mario Frati,
Quintiliano Men­cucci, Giuseppe Rossi, che ci hanno fornito la testimonianza
orale, ricordano la processione con la quale fu effettuato il trasferimento;
molti altri Cori­naldesi confermano di aver pregato davanti al nuovo altare di
S. Panfilo, del quale noi stessi abbiamo trovato una bustina di reliquie in casa
Ciceroni. L’urna è stata tolta tuttavia anche da questo altare, in occasione dei
restauri della chiesa negli anni Ottanta, ed è attualmente custodita entro un
armadio della sacrestia, dove ce l’ha mostrata il rettore del Santuario don
Franco Moricoli, su indicazione del parroco mons. Umberto Mattioli. L’urna
di vetro e metallo non presenta oggi alcuna indicazione scritta che ne attesti
il contenuto, ma è sigillata con tre bolli di ceralacca sui quali è impresso lo
stemma del vescovo di Senigallia Umberto Ravetta, che probabilmente fece
operare una ricognizione negli anni del trasferimento.
Anche per questa fragile memoria, e per le molte altre reliquie contenute
confusamente entro lo stesso armadio della sacrestia, sollecitiamo una collo-
68
Testimoni di Pietra
cazione più degna.
Il devoto di bronzo
L’offerta eroica di se stesso fatta dal buon Panfilo a Dio, è diventata con il
cristianesimo la cruenta e mistica sublimazione di un altro simile atto di
offerta che i pagani (non sembri irrispettoso il raffronto) rivolgevano alle
loro divinità.
In Etruria come in Grecia e nel Lazio, le forme del culto prevedevano
offerte di oggetti votivi: atto di religiosità con il quale il dedicante si privava
di un bene personale destinandolo alla divinità. In seguito, ai beni d’uso si
sostituiscono o si accompagnano rappresentazioni miniaturizzate delle offerte, e immagini ridotte di figure umane di bronzo.
Nel caso di santuari urbani, i fedeli si rappresentano con un aspetto particolare, quello del “devoto” che offre se stesso alla divinità: è l’immagine
del Kouros di ascendenza greca, il giovane nudo in cui si incarna l’ideale di
perfezione. Immagine astratta di modello eroico, la figura definisce uno stato
sociale, quello dei liberi, e una condizione specifica legata all’età.
In questa tipologia si inserisce la statuetta di bronzo (figg. 50 e 51) rinvenuta nel 1922 in contrada Sant’Apollonia di Corinaldo, nel campo dei fratelli
Lorenzo e Sante Paolini, durante lavori di aratura60.
Le affermazioni di Cimarelli nei piani del suddetto Cesano… per ogni luogo
dagli aratori sovente si trovano statuette di bronzo, sono confermate dall’archeologa Delia Lollini: nella guida al Museo Archeologico Nazionale delle Mar­
che di Ancona, ella afferma che per tutto il V secolo a. C. depositi votivi di
bronzetti a figura umana compaiono nel territorio marchigiano e che singole
statuette di bronzo, sia di officine etrusche sia di produzione locale, sono
state occasionalmente trovate a Pergola, a Corinaldo e in altre località.
A Corinaldo la statuetta non c’è più: si trova ora esposta in una vetrina
del Museo di Ancona, insieme con gli altri giovinetti bronzei ritrovati nella
regione61. Lì è stata collocata dopo un avventuroso viaggio: un antiquario di
Bologna l’aveva acquistata dallo scopritore, ma se l’era vista sequestrare per
essere consegnata alla Soprintendenza per i Beni archeologici delle Marche,
che l’ha infine fatta collocare nel Museo archeologico.
Il giovane è nudo, con le gambe divaricate di cui la sinistra sopravanza
la destra; i capelli corti a zazzera formano una banda di riccioli sulla fronte
e una frangia sulla nuca; il volto presenta occhi grandi, con iride incisa, naso
diritto, bocca ben segnata, mento sporgente; il collo, piccolo, si innesta su un
corpo dall’anatomia robusta, con spalle marcate, segno a V per indicare le cla­
le pietre antiche
50 – Kouros da Corinaldo, posizione laterale.
69
51 – Ancona, Museo Archeologico Nazionale
delle Marche, inventario n. 4865: Kouros da
Corinaldo, bronzetto alto cm 24, datato al
500-480 a. C.
70
Testimoni di Pietra
vicole, gambe ben tornite. Le mani e i piedi appaiono eccessivamente gran­di;
le braccia sono distese verticalmente in basso ed esprimono forse il gesto di
preghiera rivolta alle divinità del mondo sotterraneo: così viene accuratamente descritto da Mauro Cristofani nel suo studio sui bronzi degli Etruschi.
è la testimonianza di valore artistico più antica ritrovata a Corinaldo: la
sua produzione è collocata negli anni 500-480 a. C., ad opera di un’officina
etrusca settentrionale, e sembra unire i caratteri stilistici migliori della serie
fabbricata a Populonia con quelli di fabbrica aretina. I due perni infissi sotto i
piedi fanno pensare che il bronzetto fosse collocato su un supporto di pietra,
come era in uso nei santuari: in tal modo la figura del devoto si presentava
individualmente alla divinità, messa in rilievo dalla base62.
Nel ritrovamento di Corinaldo manca ogni riferimento ad una zona sacra,
ad un contesto monumentale preciso, ma forse una base per la statuetta
poteva esistere. Abbiamo raccolto la testimonianza diretta del nipote dello
scopritore, Ciro Paolini, presente da ragazzo al rinvenimento e deceduto
nel 1998: egli affermava che la terra che circondava il bronzetto era di natura spugnosa, simile ad uno scoglio, diversa da quella del campo; dunque
potrebbe trattarsi dei resti di una base costruita con materiale non metallico,
in seguito degradato, fino a dare l’impressione di una ”terra ribollita”.
L’uso di consegnare alla divinità la raffigurazione di una parte del corpo,
per grazia ricevuta o per ottenere protezione, si è mantenuto anche con il
sopravvento del cristianesimo: ne abbiamo una testimonianza locale nelle
raffigurazioni miniaturizzate di metallo di parti del corpo umano, conservate
in alcune teche nella Chiesa dell’Incancellata (fig. 52), come in altri numerosi
santuari di tutta la cristianità.
Della presenza degli Etruschi nel nostro territorio non si hanno altre
testimonianze materiali, ma pare opportuno ricordare che reperti etruschi
frammisti a reperti gallici sono stati rinvenuti nel sito di Montedoro di
Senigallia. è stata trovata anche un’anfora etrusca negli scavi operati presso
Villa Bianchi, nei dintorni di Scapezzano di Senigallia63.
ville e casali romani nella campagna
Non sono mancati nel territorio di Corinaldo ritrovamenti di oggetti anche
più antichi del bronzetto etrusco ma certo privi di valore artistico equivalente: pietre e ceramica risalenti alle popolazioni picene e addirittura preistoriche, che ci parlano degli antichissimi insediamenti umani nelle nostre valli e
le pietre antiche
71
52 – Rappresen­ta­
zioni miniaturizzate di metallo, raffiguranti il corpo
umano o parti di
esso: ex voto raccolti entro cornice
nella sacrestia della
Chiesa dell’Incan­
cellata.
nelle alture di collina64.
La recente tesi di laurea sulla carta archeologica della media valle del
Cesano, presentata da Silvia Sangiorgi all’Università di Bologna, offre nelle
schede sul territorio corinaldese, i risultati di una capillare ricognizione che
ha permesso ai ricercatori di censire numerosissime aree con presenza di
materiale romano sporadico: al laterizio - tegole, coppi, mattoni - si unisco­
no ceramica comune o a vernice nera, ceramica picena, manufatti di pietra,
nuclei di selce, tessere di mosaico e frammenti di intonaco dipinto, sparsi su
aree vaste anche centinaia di metri65. I reperti segnalano la presenza di abitati
romani diffusi in tutte le attuali contrade di Corinaldo, luoghi da molti anni
frequentati e depredati da raccoglitori di oggetti e di monete antiche, messi
in luce dalle arature.
Segnaliamo qui in modo particolare un manufatto che arricchisce le nostre
testimonianze di pietra: in contrada Le Ville, in Via Qualandro n. 3, a circa
duecento metri ad est del Fosso della Valle, è stata esaminata un’area molto
estesa di frammenti laterizi e ceramici che fanno ipotizzare la presenza di
una villa o fattoria, con necropoli di età romana; in passato sono state trovate
72
Testimoni di Pietra
53 – Contrada Ville, Via Qualandro,
n.3: frammento di cippo in pietra
calcarea alt. 36, diam. 25, privo di
iscrizioni; superficie laterale in parte
levigata e in parte sbozzata.
nell’area monete di età imperiale risalenti ai secoli I a. C. e I-II d. C.
Tra i reperti è stata individuata la parte sommitale di un probabile cippo
con grappa di bronzo: grazie alla disponibilità dei proprietari, la famiglia di
Goffredo Luzietti, abbiamo potuto fotografarlo (fig. 53) per completare la
nostra indagine.
Nella maggior parte dei casi invece, i materiali emersi dagli scavi non
sono visibili al pubblico: alcuni esemplare sono conservati in collezioni
private, la grande maggioranza è riposta nei depositi della Soprintendenza
archeologica delle Marche.
Forse in un tempo futuro, quando si riuscisse a realizzare un lapidarium
nella nostra città, anche quelle pietre, uscite dalle loro attuali custodie e
mostrate al pubblico, potranno parlarci del nostro più lontano passato.
le pietre antiche
73
Note
01 Le fasi di ideazione e di costruzione dello stemma sono documentate nel carteggio
conservato dai figli di Antonio Dominici (Corinaldo, 1896-1980), Giorgio e Licia, nell’archivio di Via del Fosso n. 13. Dominici è stato il progettista di numerosi altri monumenti
cittadini dei quali sarà data ulteriore notizia.
02 Archivio Comunale di Corinaldo, Registro delle deliberazioni del Consiglio Comunale,
anno 1894, Deliberazione n. 33 del Consiglio Comunale di Corinaldo del 26 maggio
1894.
03 Le notizie su Francesco Turris (Corinaldo 1824 - Firenze ?) cortesemente indicate
dal concittadino e storico Dario Cingolani, sono tratte da “Le Marche”, 2, 1902, rubrica
Bio-bibliografia marchigiana, pagg. 225-241.
04 Vedi V. M. CIMARELLI, Istorie dello Stato di Urbino dà Senoni detta Umbria Senonia e
dè lor gran fatti in Italia, delle città e luoghi che in essa al presente si trovano, di quelle che distrutte
già furono famose et di Corinaldo che dalle ceneri di Suasa hebbe l’origine, Brescia 1642, libro III,
pag. 1. Una ristampa del testo in copia fotomeccanica è stata effettuata dall’editore Forni
di Bologna nel 1967.
05 Vedi in particolare D. CINGOLANI, Vita ed opera di un tardo umanista in Atti
del Convegno di studi su Vincenzo Maria Cimarelli da Corinaldo (1585-1662), Centro
Culturale Comunale, Corinaldo 1988, pagg. 9-45.
06 Vedi E. GREGORINI, Corinaldo nel terzo libro delle Istorie dello Stato di Urbino in Atti
del Convegno..., cit., pag. 67. Una “nota storica” su Corinaldo, desunta da Fabio Ciceroni
dagli scritti di Cimarelli e corredata delle foto di Mario Carafòli, è stata pubblicata nel 1978
a cura dell’Associazione Turistica Pro Corinaldo con il titolo Giro delle mura.
07 L’attribuzione dello Stefanini è riportata in A. MENCUCCI, Senigallia e la sua Diocesi.
Storia, Fede, Arte, II, Editrice Fortuna, Fano 1994, pag. 938.
08 La fotografia dell’epigrafe, cortesemente segnalataci dal concittadino e storico locale
Eros Gregorini, è stata sottoposta all’esame dell’epigrafista prof. Gianfranco Paci, dell’università di Macerata, e del prof. Mario Luni dell’Università di Urbino.
09 Ampie notizie sulla storia della chiesa “Incancellata”, sugli arredi e le iscrizioni
sono state pubblicate da D. C. SFORZA (Corinaldo 1884-1972) nella Guida storico artistica
di Corinaldo, Corinaldo 1949, e ripresentate in MENCUCCI, Senigallia e la sua Diocesi..., cit.,
pagg. 1267-1275.
10 Vedi G. GIORGI, Suasa Senonum, Parma 1951, pag. 127.
11 Vedi E. GREGORINI, Santa Maria in Portuno, poi del Piano in Senigallia e la sua
Diocesi..., cit., III, pagg 751-753; e inoltre Archivio Comunale di Corinaldo, Riformanze 1627,
ff. 148r, 149r.
12 Vedi CINGOLANI, Vita ed opera... cit., pag. 15.
13 Vedi C. GIACOMINI, L’Archivio del Comune di Corinaldo. Antico Regime e Aggregati,
Fondi storici nelle biblioteche marchigiane, 6, Regione Marche, Centro Beni Culturali,
1998, pagg. 669-711.
14 Vedi F. PONGETTI, La “Marca” e le famiglie nobili e notabili di Corinaldo, Futura, Seni­
gallia 2004, pagg. 244 -245.
15 Archivio Comunale di Corinaldo, Registro delle deliberazioni del Consiglio Comunale,
ad annum.
16 Vedi A. FIORANI, Storia delle confraternite nella Diocesi di Senigallia, in Senigallia e la
sua Diocesi..., cit., III, pagg. 885-973.
17 Vedi Statuti della Ven. Confraternita del Confalone della città di Corinaldo, presso
74
Testimoni di Pietra
Domenico Lazzarini, Sinigaglia 1787, pag. 4.
18 Archivio Vescovile di Senigallia, Inventari dal 1775 al 1825; alle carte 235r fino a 237r,
descrizione dei beni della Compagnia del Gonfalone di Corinaldo, redatta il 29.12.1783;
la citazione, resa possibile grazie alla cortese indicazione di Eros Gregorini, compare al f.
236v.
19 Vedi PONGETTI, La “Marca”..., cit., pag. 185. La presenza dei nobili corinaldesi nel
Consiglio è registrata nel ms. 1756 dell’Archivio Comunale di Corinaldo, Famiglie nobili
di Corinaldo, di mano di Giuseppe Maggi, del quale ci serviamo anche per le successive
citazioni
20 Vedi C. GIACOMINI, Archivi e memoria storica. Segni della vita artistica e civile di
Claudio Ridolfi a Corinaldo, in Claudio Ridolfi. Un pittore veneto nelle Marche del Seicento, Atti
del Convegno di Corinaldo, 24 settembre 1994, a cura di C. Costanzi, F. Mariano, M.
Massa, Edizioni Quattroventi, Urbino 1997, pag. 49.
21 Vedi G. MONTI GUARNIERI, Annali di Senigallia, Società Amici Arte e Cultura,
Senigallia 1961, pag. 141.
22 Vedi Regesti a cura di E. Gregorini, in Claudio Ridolfi. Un pittore veneto nelle Marche del
Seicento a cura di C. Costanzi e M. Massa, il lavoro editoriale, Ancona 1994, pag. 206.
23 Vedi M. BALDELLI, L’Orazione di Gesù nell’orto dipinta da Claudio Ridolfi, “avuta e
ricevuta” da Girolamo Cervasi di Pergola, in Claudio Ridolfi, Atti del convegno…, cit., pag.
168.
24 Vedi “Foglia d’olivo”, numero speciale a cura dell’Associazione Mariana Amici Del
Santuario dell’Incancellata, anno IV, n. 6, 14 agosto 1949.
25 La campana è descritta dallo Sforza in Senigallia e la sua Diocesi…, cit., pag.1269;
viene indicato co­me artefice del manufatto Hieronimus Sanctonus Fanensis.
26 La costruzione della villa, di proprietà della famiglia Spadoni, risale ai primi
dell’Ottocento, con ampiamenti successivi. La residenza fu acquistata in seguito dalla
famiglia Cesarini e definitivamente abbandonata dopo la morte senza eredi dell’ultimo
rappresentante della casata, Ippolito Cesarini (1894 -1989). La villa e il parco sono stati
assegnati con lascito testamentario del conte Giacomo Cesarini Romaldi agli attuali Istituti
Riuniti di Beneficenza; vedi anche a pag. 97 del cap. II.
27 Notizie sulle epigrafi romane scomparse da Corinaldo in GIORGI, Suasa…, cit.,
2° ed. 1981, pag. 122; S.VAGNINI COCCI, Il municipio di Suasa Senonum in Castelleone di
Suasa. Vicende storiche, I, a cura di A. Polverari, Castelleone di Suasa 1984, pagg. 71-86;
A. POLVERARI, Iscrizioni latine in Cimarelli in Atti del Convegno…, cit., pagg. 88-98;
Archeologia delle valli marchigiane Misa, Nevola e Cesano a cura di P. L. Dall’aglio, S. De
Maria, A. Mariotti, Associazione intercomunale Valli Misa e Nevola, Electa Editori
Umbri, Perugia 1991, pag. 56, scheda 5/1b.
28 Vedi S. ANTOLINI in “Supplementa Italica”, nuova serie, 18, Unione Accademica
Na­zionale, Ed. Quasar, Roma 2000, pagg. 317-394; della stessa Le iscrizioni romane di Suasa,
tesi di laurea in Epigrafia Latina, relatore prof. Gianfranco Paci, Università degli studi di
Macerata, a. a.1997-1998.
29 CIL, XI 6631.
30 Recenti approfondimenti sulla viabilità romana nella valle del Cesano in Archeologia
delle valli…, cit., pag. 19; “Supplementa Italica”, cit., p. 328; M. VERGARI, Corinaldo (AN)
in “Picus”, 19, 1999, pagg. 367-372; G. PACI, Cippi milliari e viabilità romana nella Valle del
Cesano in L’Appennino in età romana e nel primo medioevo, Atti del Convegno di Corinaldo,
28-30 giugno 2001, “Studi e Scavi”, nuova serie, 6, pagg. 47-55; S. SANGIORGI, La carta
archeologica della media valle del fiume Cesano come strumento di tutela e valorizzazione territo­
le pietre antiche
75
riale, tesi di laurea in Topografia Antica, relatore prof. Pier Luigi Dall’Aglio, Università di
Bologna, a. a. 2002-2003.
31 Sembra essere sfuggito alla damnatio un cippo miliare cilindrico di granito, identificato nel cortile esterno del Palazzo Malatestiano di Fano, dedicato all’imperatore Cesare
Marco Aurelio Valerio Massenzio Augusto, in cui il nome risulta consunto e deteriorato
ma non eraso appositamente; vedi R. BERNARDELLI CALAVALLE, Le iscrizioni romane
del Museo Civico di Fano, Fano 1983, pag. 180.
32 CIL, XI 6635.
33 Vedi M. LUNI, Archeologia nelle Marche, Banca delle Marche, Nardini editore,
Firenze 2003, pag. 111.
34 Vedi G. RADKE, Viae publicae Romanae (trad. ital. di I. Sigismondi dell’art. in R. E.,
suppl. XIII, 1971), Bologna 1981, pagg. 193-196.
35 Il sindaco Dino Poeta indicò nel 1953 la collocazione del cippo a Gello Giorgi, che
riporta l’episodio in Suasa…, cit., ed. 1981, pag. 173.
36 Vedi A. POLVERARI, L’abbazia di Santa Maria in Portuno unita all’eremo di Fonte
Avellana in Atti del VI Convegno del Centro di Studi Avellaniti, Fonte Avellana, 30-31
agosto-1 settembre 1982, pagg. 259-265. La ricca produzione storica dello studioso, insieme con la sua biblioteca personale, è stata donata alla Biblioteca comunale di Senigallia,
dove una sala di lettura è stata intitolata al nome di Alberto Polverari (Monteporzio
1912–Senigallia 1991).
37 La ricostruzione storica delle fasi di vita dell’edificio, basata su fonti archivistiche,
si deve a E. GREGORINI, Studio delle pievi e delle chiese medioevali di Corinaldo, in Senigallia
e la sua Diocesi…, cit., pagg. 831–874; dello stesso, Santa Maria in Portuno poi santa Maria del
Piano, in “La nostra valle”, suppl. al n. 154, febbraio 1992, pagg. 13-16.
38 Vedi Archeologia delle valli..., cit., pag. 57, scheda 5/3.
39 Vedi Archeologia delle valli…, cit., pagg. 99-140; P. CAMPAGNOLI - M. DESTRO - E.
GIORGI, La città romana di Suasa, in Scoprire. Scavi del dipartimento di archeologia, Catalogo
della Mostra, Bologna, San Giovanni in Monte, 18 maggio-18 giugno 2004, a cura di M.T.
Guaitoli - N. Marchetti - D. Scagliarini, pagg. 87-95.
40 Il “Consorzio Città romana di Suasa” è stato istituito nel luglio 1994 come trasformazione del “Consorzio per la gestione del parco archeologico di Suasa”, costituito nel
luglio 1990. Ha sede nel comune di Castelleone di Suasa ed è costituito tra le province di
Pesaro e di Ancona ed i comuni di Arcevia, Castelleone di Suasa, Corinaldo, Mondavio,
San Lorenzo in Campo, tra Serra de’ Conti, Pergola, Ostra Vetere (i due ultimi receduti dal
consorzio rispettivamente il 9 sett. e il 30 nov. 2004), per la valorizzazione e la gestione dei
beni archeologici, storici, artistici, culturali e scientifici di Suasa e dei territori degli Enti
aderenti al consorzio.
41 Una ricostruzione a mo’ di favola delle trasformazioni subite dal sito a partire
dall’età romana fino alle positive sperimentazioni agricole dei monaci avellaniti, è stata
tracciata da M. BRUNETTI, Il ritorno del dio Portuno, in Sulle sponde del Cesano a cura di M.
Giar­dini, Edizione Amici della Foce del Cesano, Senigallia 2003, pagg. 27-45.
42 La notizia del ritrovamento è comparsa nell’ articolo Scoperte ottanta tombe di epoca
romana in “Corriere Adriatico” del 30 giugno 2005, pag. 22.
43 Vedi G. LEPORE - A. BARONCIONI - T. CASCI CECCACCI - G. GIANNOTTI - E.
RAVAIOLI - R. VILLICICH, Ricerche e scavi nel sito di Santa Maria in Portuno presso Corinaldo
(An): relazione preliminare degli anni 2001-2002, in “Archeologia Medievale”, XXX, 2003,
pagg. 345-365; G. LEPORE, Edifici di culto cristiano nella Valle del Cesano (Pesaro-Ancona). La
documentazione storica e archeologica tra tardo antico e medioevo, in“Studi e scavi”, 14, Bologna-
76
Testimoni di Pietra
Imola 2000; G. LEPORE, Corinaldo (An): Scavi nella cripta della chiesa della Madonna del Piano,
in “Ocnus” 9-10, 2001-2002, pagg. 283-286; G. LEPORE, Area archeologica di S. Maria in
Portuno. Relazione di scavo, Campagna di scavo 24 giugno-20 luglio 2002, Dipartimento
di Archeologia, Università degli Studi di Bologna; A. BARONCIONI, Archeologia dell’ar­
chitettura nella Valle del Cesano: la chiesa di Santa Maria in Portuno a Corinaldo (An), tesi di
laurea in Archeologia, relatore prof. A. Augenti, Università di Bologna, a. a. 2001-2002; A.
BARONCIONI, La chiesa altomedievale di Corinaldo (An) in Scoprire…, cit., pagg. 101-104.
44 Vedi N. GIANFRANCESCHI, Monterado. Storia di un paese, Banca Popolare di
Ancona, Monterado 1994, pag. 24.
45 L’inaugurazione dell’Antiquarium e del percorso espositivo completo è avvenuta il
20 luglio 2005.
46 M. BRUNETTI, Madonna del Piano (dalle Carte di Fonte Avellana), Edizione 2002,
Corinaldo.
47 Le 17 tavolette votive di Madonna del Piano , fotografate da Mario Carafòli, compaiono alle pagine 181-213 del volume Religiosità popolare e vita quotidiana. Le tavolette votive del
territorio jesino-senigalliese, a cura di S. ANSELMI, Cassa di Risparmio di Jesi 1980.
48 La gentile collaborazione di Ea Lenci Ciani Paolini ha permesso la riscoperta del
monumento, da noi segnalato alla Soprintendenza Archeologica delle Marche ed all’allora
sindaco di Corinaldo Luciano Antonietti, per una debita valorizzazione. La sopravvenuta
morte della signora Ea nel l998 ha interrotto le trattative che ci auguriamo possano essere
presto riprese.
49 Vedi A. ANSELMI, La visita del prof. Bormann in Arcevia, in “Nuova rivista misena”,
7, 5, 1893, pag. 78.
50 CIL, XI 6183.
51 Vedi Archeologia delle valli…, cit., pag. 55, scheda 4/1.
52 Vedi ANTOLINI, in “Supplementa italica”, cit., pag. 351.
53 Vedi BERNARDELLI CALAVALLE, Le iscrizioni…, cit., pag. 118.
54 CIL, XI 6182 a, ora non più reperibile.
55 Vedi Archeologia delle valli..., cit., pag. 56, scheda 5/2.
56 Vedi ANTOLINI, in “Supplementa italica”, cit., pag. 366.
57 Vedi rispettivamente CIL, XI 6392 e CIL, IX 5805.
58 Vedi GREGORINI, Studio delle pievi…, cit., pag. 856.
59 Vedi Bibliotheca Sanctorum, Città Nuova Editrice, Roma 1968, X, pag. 93.
60 Il toponimo Sant’Apollonia è riferito in maniera imprecisa nell’articolo di Vergari
Corinaldo…, cit., p. 367, ed in Archeologia delle valli..., cit., pag. 57 scheda 5/7.
61 Museo Archeologico Nazionale delle Marche di Ancona, inventario n. 4865.
62 Sul bronzetto di Corinaldo vedi M. CRISTOFANI, I bronzi degli Etruschi, Istituto geografico De Agostini, Novara 1985, pag. 145 e pagg. 266-280; G. MORETTI, “Notizie degli
scavi”, 1924, pagg. 34–44; GIORGI, Suasa..., cit., ed. 1953, pag. 87; Archeologia delle valli…,
cit., pag. 57, scheda 5/7.
63 Vedi A. POLVERARI, Senigallia nella storia. Evo antico, Edizioni 2 G, Senigallia
1979, pag. 50.
64 Vedi G. DAMIANI, Genesi del territorio e preistoria, in Castelleone di Suasa..., cit., pagg.
24-34.
65 Vedi SANGIORGI, La carta archeologica…, cit., Schede di ricognizione, pagg. 91-324.
Il cippo di Via Qualandro è registrato nella scheda n. 785, pag. 312.
Capitolo II
Entro il rosso cerchio delle mura
In monte Collinalti…
In castro Curinalti…
Benvenuti a Corinaldo. “antico colore del tempo”. Nel Borgo di
Sotto, al centro dell’aiuola spartitraffico di Piazza Sant’Anna, un’epigrafe
(fig. 1) apposta nel 2004 dall’Amministrazione co­mu­nale, con questa scritta
avverte il visitatore di essere giunto ad una città capace di offrire, tra le sue
mura ambrate, le suggestioni di una storia ancor viva1. Sarà di aiuto all’ospite nella sua visita anche la toponomastica cittadina rinnovata nel 1977, dopo
i lavori di un’apposita commissione, con la denominazione di nuove vie
a servizio dei mo­derni quartieri e con la modifica della denominazione
di altre2: le tabelle viarie ricordano i nomi, i tempi e le caratteristiche dei
personaggi principali che hanno determinato la storia della città, le strade
utilizzate per le attività artigianali medievali, i luoghi legati ad avvenimenti
straordinari locali o nazionali.
Curiosamente, l’epigrafe di benvenuto è l’unico manufatto di pietra che
porta iscritto il toponimo “Corinaldo”: per il resto, il nome del paese è presente solo in tabelle di metallo e manca anche nello stemma cittadino. Gli
stemmi e i simboli che circondano la scritta inseriscono Corinaldo nella realtà
amministrativa di cui fa parte – la Provincia di Ancona – e illustrano i riconoscimenti ottenuti per aver ben conservato il suo patrimonio architettonico
e civile. è venuto dunque il tempo di interessarci dell’origine della struttura
urbana e del suo nome, servendoci ancora una volta di una pietra iscritta.
Dopo l’esame delle nobili rovine di Suasa sopravvissute in Corinaldo,
affrontiamo l’oscuro periodo della dispersione delle popolazioni sul territorio, fuori dall’area protetta delle città romane distrutte o in mano ai nuovi
popoli barbarici.
Il fenomeno è visto da Cimarelli come ristretto in un brevissimo periodo:
arsa Suasa nel 409 d. C., i fuggitivi già l’anno del parto della Vergine 411 diede­
78
Testimoni di Pietra
ro principio a fabbricare una Città formata con regole e disegno d’Architettura …
Vollero anche che con altro nome si appellasse: giacché dalla bassa Suasa erano
corsi su un colle, la chiamarono Corinaldo, quasi curre in altum.
La fortuna popolare di questa espressione, ancor oggi diffusa, è stata
naturalmente ridimensionata dai moderni studi storici, che tracciano un
quadro molto diverso dell’origine del toponimo. Solo oggi infatti, grazie alle
indagini sulla storia locale, approfondita in modo capillare specialmente dai
saggi di Virginio Villani, possiamo renderci conto dei processi di trasformazione e dei fenomeni insediativi che hanno dato vita all’attuale assetto
territoriale delle valli del Cesano e del Nevola3.
I primi nuclei abitativi che hanno costituito elemento di aggregazione
della popolazione, a scopo difensivo, economico, politico, erano caratterizzati in origine da una semplice palizzata che circondava una torre o, nei casi
più evoluti, da un borgo difeso da una cinta muraria. Nel secolo XI, nell’attuale provincia di Ancona, prende avvio il processo dell’incastellamento che
promuove la ripresa sociale e l’organizzazione politica delle popolazioni,
dislocate prima in insediamenti sparsi, in grandi fattorie o in modesti villaggi. è il momento della rinascita demografica in Occidente, legata alla stabilizzazione delle popolazioni che durante i due secoli precedenti l’avevano
sconvolto con disastrose incursioni, ed alla Renovatio Imperii di Ottone I.
Sono i “signori” laici, spesso in collaborazione con le comunità monastiche, a
dare inizio all’accentramento abitativo. Il fenomeno è di durata relativamente bre­ve a causa dell’eccessiva vicinanza dei molti insediamenti (castellum,
ca­stel­lare, castrum, roca, pogium) e del rapido avvicendarsi delle famiglie al
potere.
Dalla fine del secolo XII prevale la nuova istituzione del “comune” che
distrugge molti insediamenti signorili concorrenti, costruisce ampi castelli
circondati da più valide muraglie, riorganizza il territorio, lo amministra
e lo difende. Nelle nostre colline, il castrum si erge isolato in mezzo alle
campagne e si distanzia notevolmente dai simili insediamenti circostanti.
Le città murate segnano visivamente il territorio ancora oggi, nonostante le
propaggini dei nuovi quartieri che si snodano e si fondono lungo le strade di
collegamento, nei fondovalle, nelle zone industriali.
è in questo lungo processo che matura la scelta dei nostri avi di racchiudersi tra strutture difensive: già nel 1186 le carte di Fonte Avellana registrano
beni dell’abbazia dislocati in monte Collinalti e in castro et in curte Collinalti. A
distanza di quaranta, cinquanta anni il nome del luogo presenta una diversa
grafìa: in castro Curinalti…, communis Curinalti…, comune castri Corinalti 4.
Entro il rosso cerchio delle mura
79
1 – Lapide composta da due tipi di marmo intersecati, nell’aiuola spartitraffico di
Piazza Sant’Anna; agli angoli superiori destro e sinistro, gli stemmi della Provincia
di Ancona e della città di Corinaldo; all’angolo in basso a sinistra il logo “I Borghi
più belli d’Italia” e il logo “Bandiera arancione - Touring Club”
Benvenuti / a / Corinaldo. / “Antico colore del tempo”
Dunque il toponimo non si correla al verbo curre e nemmeno al più poetico termine cuore - cor in altum - come piacque idealizzare argutamente ai
corinaldesi Domenico Clemente Sforza e Mario Carafòli, cultori delle memorie locali, bensì ai vocaboli colle o curia o curtis: curia Inaldi, colle di Inaldo, colle
di Aldo designano l’insediamento di altura, il villaggio, e il territorio annesso,
di proprietà di una sola famiglia dominante, la cui organizzazione interna è
stata diffusa dai Longobardi.
Anche la chiesa di “San Cristoforo di Alduccio”, fondata nel corso del
Tre­cento, e il “castello di Monte Aldano”, documentato nel territorio di
Co­rinaldo fin dal 1186 e in seguito scomparsi, presentano nella radice ald un
elemento non estraneo al toponimo Corinaldo5.
Gli studi di Alberto Polverari e di Ettore Baldetti sui toponimi medievali
nelle valli del Misa e del Cesano, rivelano il passaggio di proprietà delle
terre dai romani ai nuovi conquistatori: Aldo o Inaldo sono nomi di origine
longobarda (ald ha il significato di “vecchio”, “sapiente”) e attestano non il
semplice transito di milizie al seguito dei re longobardi nei secoli VII e VIII
d.C., ma stanziamenti veri e propri di quelle popolazioni, unite ai loro mer-
80
Testimoni di Pietra
cenari bulgari dei quali parimenti sussistono toponimi6.
La denominazione longobarda del nostro colle è perdurata nei secoli,
anche dopo la sconfitta dei Longobardi ad opera dei Franchi nel 774, che
certo non causò il totale annientamento di quel popolo. Non ci aspettiamo
di reperire testimonianze epigrafiche di queste fasi di insediamento sul
nostro colle, anche se Cimarelli dà grande rilevo a tre pietre contenenti
iscrizioni gotiche che, fino agli inizi del Seicento, facevano base alle Piramidi
della Cappella gotica dell’altar maggiore di Santa Maria del Mercato. Le iscrizioni
avrebbero testimoniato l’erezione di quella chiesa ad opera del goto Scriba,
principe di Corinaldo, con materiale romano proveniente dalle rovine del
tempio della dea Bona: si precisa anche la data, l’Anno della nostra salute 504.
Non dovremmo soffermarci su queste pietre, dal momento che non esistono più a Corinaldo, ma la data così remota ci impone qualche riflessione:
si è già chiarito che non poteva esistere nel VI secolo d. C. una città vera e
propria, con chiese erette architettonicamente da munifici principi barbarici;
ma potremmo trarre segnale dalle pietre gotiche di Cimarelli per comprendere come la conversione dei condottieri goti e poi longobardi, abbia favorito
la diffusione del Cristianesimo sul territorio. Lo storico tende a concentrare
in pochi decenni fenomeni che in realtà hanno avuto un’evoluzione di secoli:
dalla lenta evangelizzazione delle campagne, sempre restie alle novità, all’organizzazione ecclesiale basata sulla “Pieve”, centro religioso e nello stesso
tempo amministrativo del territorio rurale, corre molto tempo.
Per avere un quadro documentato del radicamento delle istituzioni religiose nel nostro territorio, dobbiamo poi salire almeno all’anno Mille. Del
fenomeno ha fornito un esame dettagliato, attraverso documenti d’archivio,
Eros Gregorini, e ad esso rimandiamo naturalmente il lettore: a noi spetta
rilevare, del lungo percorso, le poche testimonianze epigrafiche tuttora reperibili, soprattutto nelle edicole sacre sparse nella campagna, che conservano
memoria dei primi culti cristiani.
Proprio negli ultimi anni è stata eretta un’edicola sacra, all’incrocio tra la
Strada di San Vito e la Strada di San Bartolo, sulla dorsale collinare compresa tra la Strada di San Benedetto e Via Lepri: la denominazione delle strade
conserva il ricordo di due luoghi di culto già presenti nel sec. XI, destinati
ad aumentare nel vasto territorio comunale. Alla fine del Duecento erano
ben diciassette le chiese di Corinaldo, e saliranno a venticinque nel corso
del secolo XIV. Non si pensi a chiese monumentali, ma a edifici di piccole
dimensioni costruiti in muratura, utilizzando mattoni, pietre e materiale di
Entro il rosso cerchio delle mura
81
2 – Lapide di marmo affissa all’edicola
sacra dedicata a San Vito, in prossimità
dell’omonima chiesa distrutta, all’incrocio tra Strada San Bartolo e Strada San
Vito.
Nei pressi di questo sito / sorgeva / fin dal
secolo XIII / la chiesa “de Arutio” / detta poi
di San Vito / diruta nella seconda me­tà / del
secolo XX / Con questa sacra edicola / i fede­
li della Parrocchia di / Co­rinaldo / ne fanno
memoria / li 3 novembre 2002
recupero, pertanto soggetti a facile deperimento. è questa la sorte toccata
anche a San Vito De’ Arutio: la chiesa possedeva terre ed entrate cospicue,
tanto da versare decime assai notevoli alla fine del Duecento, e proprio per la
sua autonomia economica poté sopravvivere più a lungo di altre. L’edificio,
benché fatiscente, era ancora ben noto alla generazione precedente la nostra,
ma è stato del tutto abbattuto nel 1998 per la sua impraticabilità: lo ricorda
l’iscrizione della lapide affissa alla base dell’edicola (fig. 2) che racchiude la
piccola statua di San Vito, giovane martire cristiano del IV secolo, consegnato dal padre stesso al tribunale romano per non aver voluto abiurare: Nei
pressi di questo sito sorgeva fin dal secolo XIII la chiesa “de Arutio”
detta poi di San Vito, diruta nella seconda metà del secolo XX.
San Vito, commemorato nel martirologio romano il 15 giugno, è rappresentato come un giovinetto in abiti da antico romano, affiancato da un
cane: l’iconografia si ispira alle leggende ed alle attribuzioni sedimentate in
una passio composta probabilmente nel VII secolo e arricchita nel corso del
82
Testimoni di Pietra
Me­dio­evo, quando San Vito fu annoverato tra i quattordici Santi Ausiliatori,
invocati per i loro attributi di guarigione e di tutela7; San Vito viene invocato
come protettore dalle convulsioni – il “ballo di San Vito” dal quale avrebbe
liberato il figlio di Diocleziano – e dalla rabbia provocata dal morso dei cani:
di qui la sua venerazione tra il popolo, spesso afflitto da tali mali e poco propenso alla critica storica, che elimina tutto l’alone dalla leggenda e conferma
solo la veridicità del martirio. Liberato dagli angeli in varie occasioni, dopo
essere stato imprigionato e torturato, col consenso del suo stesso padre, perché rinnegasse Cristo, fu infine giustiziato presso il fiume Sele. Tutta l’Ita­lia è
costellata da chiese e località che portano il suo nome: anche nel nostro territorio il culto per San Vito era diffuso, come dimostra un’altra chiesa dedicata
al Santo, ora in territorio di Ostra Vetere, di cui si dirà più oltre. Quanto alla
determinazione de Arutio, ricordiamo che esisteva anche, nella stessa area
collinare, la chiesa di San Pietro de Arutio o de Rutio, documentata alla fine del
Duecento8: in entrambe compare l’antroponimo di origine romana Ruti(us),
che attesta la sopravvivenza dei nomi di famiglia italici commisti a quelli
delle genti longobarde.
Tutto il territorio comunale di Corinaldo è costellato di edicole sacre alle
quali, di recente, è stata dedicata nuova attenzione, con conseguente recupero. Se ne sono interessati, in particolare, le maestre e gli alunni di quinta
classe della Scuola elementare di Corinaldo, che hanno pubblicato la loro
ricerca, utile per integrare il presente studio (fig. 3): le quindici “figurette”
identificate segnano ancora oggi il territorio con l’impronta del sacro che
l’aveva pervaso in antico, mano a mano che si diffondeva il Cristianesimo a
sostituire la tradizione delle erme romane9. Spesso esse rappresentano i testimoni di pietra delle ricerche di archivio, specialmente nei casi in cui mantengono la memoria di chiese distrutte o, viceversa, anticipano una devozione
che in seguito verrà continuata all’interno di una chiesa vera e propria, come
è av­venuto per l’Incancellata.
Le iscrizioni delle figurette testimoniano devozioni antichissime, ma sono
state apposte in epoca moderna. Nessuna pietra iscritta contemporanea getta
sprazzi di luce sui cosiddetti “secoli bui”, il lungo periodo dell’età altomedievale. Dal Basso Medioevo però – tra i secoli XI e XV – ci giunge una voce
antica attraverso i rintocchi di una campana (fig. 4): impresso indelebilmente nel bronzo, il saluto dell’angelo a Maria in latino è preceduto dalla vetusta
data: Anno del Signore 1281. Ave Maria, piena di grazia, il Signore è
con te, tu sei benedetta tra le donne e benedetto è il frutto del
3 – Le edicole sacre
presenti nel territorio di Co­rinaldo,
studiate e pubblicate dalla locale
Scuola Ele­m en­
tare Statale.
84
Testimoni di Pietra
4 – Campana di bronzo nella torre campanaria della chiesa parrocchiale di San
Francesco, con data ed iscrizione incise in caratteri capitali.
A.D. MCCLXXXI Ave Maria gratia plena dominus tecum /benedicta tu in mulieribus et
benedictus fructus ventris tui Jesus
ventre tuo, Gesù.
La campana suona ormai da più di settecento anni dal campanile della
chiesa di San Francesco ed è ben nota ai Corinaldesi: è stata anche oggetto di
studio, insieme con tutta la chiesa, da parte di una classe della locale Scuola
Media, nell’ambito del progetto “La scuola adotta un monumento”10.
La data della campana testimonia il compimento dei lavori della chiesa,
iniziati con la posa della prima pietra nel 1265. Il luogo scelto per la costruzione ha giocato un ruolo determinante per la sua conservazione: vicina al
castello, ma fuori delle mura, la chiesa francescana è scampata quasi certamente alla distruzione di Corinaldo del 1360 e, benché più volte ricostruita,
ha mantenuta intatta la campana sul primitivo campanile che risulta infatti
più basso di tutto il complesso.
Una data altrettanto antica, il 1233, era incisa su una pietra utilizzata al
naturale e murata all’interno della chiesa di San Vito, sulla sommità dello
spartiacque tra gli attuali comuni di Corinaldo e di Ostra Vetere, allo sbocco
collinare di Via Ripa; la località, con il nome di San Vito mantenuto sino ad
Entro il rosso cerchio delle mura
85
oggi, è testimoniata fin dal
1155 dalle fonti studiate
da Virginio Villani e relative al vicino castello di
Buscareto; la pietra dava
conferma della presenza,
meno di un secolo dopo,
dell’edificio di culto forse
rinnovato in quella data11.
Di essa ci resta purtroppo solo la testimonianza
fotografica, gentilmente
fornita da Dario Cingolani,
autore dello scatto alla fine
degli anni Settanta, che
presentiamo come raro
documento (fig. 5). Nelle
more della ricostruzione
della chiesa, dopo il terremoto del 1997, la pietra
ed altri arredi sono stati
5 – Pietra di foggia triangolare, recentemente
asportati da ignoti, seconscomparsa, già murata all’interno della chiesa
do la testimonianza resaci
di San Vito, allo sbocco collinare di Via Ripa (g.
c. di Dario Cingolani). è chiaramente leggibile
dalla custode della chiela data 1233 die […] de maio.
setta, tuttora officiata, e da
Padre Rolando Màffoli, già
bibliotecario di Ostra Ve­tere, che ben conosceva la pietra, sparita praticamente sotto i suoi occhi: ci auguriamo che la segnalazione possa permettere il
recupero dell’antica testimonianza.
Combusta ...
Oltre alla campana di San Francesco, poche pietre sono sopravvissute all’incendio del 1360, tanto terribile che il motto dello stemma cittadino ne fa una
tappa della sua sintesi storica: Combusta, cioè distrutta dal fuoco.
Cimarelli ce ne fa sentire tutto l’orrore, quasi ponendosi lui stesso a guardar di lontano le fiamme, tra i suoi concittadini, flagellati e cacciati a forza
fuori dalle loro case su per il colle degli Olmigrandi. Ma ancor più agghiac-
86
Testimoni di Pietra
ciante perché contemporanea è la relazione del legato pontificio Egidio
Albornoz sull’espugnazione del castello: il documento descrive con accesa
soddisfazione l’assalto, l’uccisione di molti ribelli e l’incendio del castrum12.
A far appiccare il fuoco, un ordine del generale Galeotto Malatesta, inviato dalla Santa Sede a reprimere la ribellione dei Corinaldesi: erano stati
sobillati dal ghibellino Nic­colò Buscareto contro le Sante e giustissime Leggi
con le quali lo stesso Egidio Albornoz aveva poco prima ricondotto l’Italia
all’obbedienza della Chiesa romana. Troppo tardi avvedutisi della cattiva
scelta politica, ai Corinaldesi non resta che mirare disperati gli più alti edifici
con strepito fiero precipitare a terra.
Tra l’ardore delle fiamme e l’insulto del fumo, due piccole pietre iscritte
resistono alla distruzione: le troviamo ancora oggi acquattate e come compresse nella Porta del Mercato, utilizzate come conci d’ imposta alla base
della volta ogivale (fig. 6). Le aveva già notate Gello Giorgi che era riuscito
ad interpretarle parzialmente13; molti le hanno osservate con curiosità per gli
insoliti caratteri, detti rustici, della scrittura, interpretati addirittura come
etruschi.
Oggi siamo in grado di darne una trascrizione sicura, grazie a Dario
Cin­golani, che ha sottoposto le pietre all’esame di Augusto Campana, di
passaggio a Corinaldo in occasione di un convegno di studi, a metà degli
anni Settanta. L’illustre studioso, allora docente di epigrafia all’Università
La Sa­pienza di Roma, ha fornito lettura delle poche parole decifrabili, che
sorprendentemente rivelano una data, un nome, un luogo: sulla pietra del
lato ovest, caratterizzata da una vistosa frattura (fig. 7), è stato letto: 1240.
Quest’opera Fulbe[rto], possiamo sottintendere fece ; sul lato est (fig. 8):
Alla porta di Santa Maria.
Una rilettura più accurata, possibile grazie alla moderna digitalizzazione delle immagini, ha permesso a Cingolani di individuare altre lettere:
sul lato ovest, dopo la frattura, alla seconda riga si distinguono le lettere
capitali CAPITAN, forse tracciate da altra mano. Altre iscrizioni incise più
superficialmente su un laterizio del voltone antistante la porta, non sono
state decifrate.
La costruzione della porta è probabile opera di Fulberto, ignoto maestro
carpentiere forse di Corinaldo, forse forestiero: come i molti lapicidi provenienti dall’Italia settentrionale che concorsero al buon mantenimento delle
mura a metà del Quattrocento14. Il nome è di origine germanica, variante di
Filiberto.
Entro il rosso cerchio delle mura
6 – Porta ogivale della cinta muraria trecentesca, detta Porta del Mercato.
87
88
Testimoni di Pietra
La lettura, per quanto frammentaria, del documento epigrafico, apre
un nuovo interesse verso la porta in cui è inserito. Essa era sicuramente
presente nel nuovo perimetro delle mura, ricostruite dopo il 1367, a pochi
anni dall’incendio distruttivo. In quell’anno papa Urbano V permise infatti
ai Cori­naldesi dispersi di riedificare la città e la fortificazione, concedendola
in feudo a Niccolò Spinelli.
La ricostruzione delle nuove mura viene eseguita con tecniche più moderne: si usa, al posto di calce mescolata con sabbia, l’argilla, materiale che salda
tenacemente i mattoni dalle rovine raccolti.
L’uso di reimpiegare materiale edilizio preesistente non è certo una rarità: ci piace però pensare che le parole di Cimarelli siano riferite proprio alle
pietre di Fulberto. Esse ci permettono di ricreare una situazione topografica
molto antica: la data impressa nella mensola di pietra, 1240, ci riporta alla
cinta difensiva precedente all’incendio la quale benché eretta in gran parte
con legname, doveva avere le porte in muratura. Una di esse si apriva nello
stesso luogo di quella attuale, di fronte allo spiazzo in cui si svolgeva il
mercato. Su questa stessa spianata si affacciava un altro edificio, coevo alla
porta: la chiesa di “Santa Maria di Corinaldo” o “de Foro” o “del Mercato”,
attestata in documenti del 1283 come abbazia avellanita e dunque costruita
già da tempo15; Cimarelli la descrive come la maggiore che in Corinaldo si
trovasse, costruita con ornamenti al modo gotico: la campana maggiore, di
suono esquisita, portava la data 1284. L’iscrizione di Fulberto lo conferma:
alla porta di Santa Maria.
Le pietre iscritte di Fulberto non andarono disperse ma furono certo
recuperate dopo l’incendio del 1360 ed immesse sugli stipiti del nuovo
fornice, che mantenne il nome di Porta del Mercato: nulla infatti era cambiato, e l’indicazione “verso Santa Maria” era ancora valida, dal momento
che anche la chiesa di Santa Maria era scampata all’incendio ed era sempre
al suo posto, continuando a sussistere, molto onorata, fino all’Ottocento.
La sua presenza è attestata nel catasto di Corinaldo, pubblicato nel 1835
per volere di Gregorio XVI; nell’elenco delle chiese esistenti nel comune di
Corinaldo, redatto nel 1812, si parla di una “chiesa di San Biagio nel sobborgo di Santa Maria del Mercato aperta al culto e di pertinenza dell’abbazia di
Santa Maria del Mercato…”16; la chiesa infatti nel corso del Settecento aveva
cambiato noime e veniva indicata con il titolo di San Biagio, con il quale
viene registrata anche nei carteggi di sacra visita del vescovo di Senigallia
Fabrizio Sceberras Testaferrata del 1836. Lo storico Gregorini che ci ha fornito le indicazioni, ritiene lecito pensare che con la confisca dei beni degli
Entro il rosso cerchio delle mura
89
7/8 – Due conci di arenaria
all’imposta della volta ogivale della Porta del Mercato.
Lato est, 7: 14x58x30; anepigrafe nel lato esterno
dell’arco, reca sul lato interno una scritta in caratteri
rustici della quale sono
leggibili le lettere: ad porta
s(an)c(t)e Marie
Lato ovest, 8: 14x50x35;
anepigrafe nel lato esterno
dell’arco, nel lato interno
7
presenta una frattura che la
divide in due parti; la parte
sinistra integra presenta
un’iscrizione in caratteri
rustici su due righe, di
cui leggibili, nella prima:
MCCXL hoc op(us); nella
seconda: […] fulbe(rtus);
la parte destra scheggiata
rende illeggibile la prima
riga; nella seconda riga si
leggono in caratteri capitali
le lettere CAPITAN
8
ordini religiosi della seconda metà dell’Ottocento, l’edificio sia passato in
mano di privati ed utilizzato per altre funzioni, così come è avvenuto in
molti altri casi, tanto che oggi se ne è persa traccia.
Resta l’indicazione nell’arco ogivale, perché solo in seguito i due edifici,
la porta e la chiesa del mercato, furono separati: le mura di Corinaldo dovevano infatti adattarsi a una realtà politica e militare fortemente trasformata
nel corso del Quattrocento.
Le perniciose guerre tra le Signorie italiane nelle quali anche Corinaldo
era stata coinvolta, avevano favorito la conquista dell’Italia da parte dei
Francesi e, in seguito, degli Spagnoli. Truppe allo sbando percorrevano il
territorio e gli stessi capitani corinaldesi, già in forza nelle armate dei vari
Signori, ritornavano ora in una patria troppo esposta agli assalti delle nuove
artiglierie. Fu necessario procedere ad un più efficace assetto difensivo che
90
Testimoni di Pietra
9 – Gli attuali edifici adibiti a magazzino, sorti sull’area dell’antica chiesa di Santa
Maria del Mercato, in Borgo di Sotto.
ampliasse e fortificasse le mura cittadine: il rinnovato circuito murario am­pliò
di un terzo quello trecentesco, secondo un disegno complessivo certo predisposto da un abile architetto. La poderosa fortificazione di Corinaldo è stata
analizzata e riproposta ai cittadini negli Atti del Convegno su Francesco Di
Giorgio Martini, tenutosi a Corinaldo nel 1989 (vedi nota 14), curati da Fabio
Mariano; un rilievo grafico dei vari prospetti delle mura, ad opera di Ettore
Montesi, è stato pubblicato nella collana “Le mura delle Marche” nel 199917.
La nuova fortificaziione ci interessa in modo particolare perché proprio
allora la Porta del Mercato fu inglobata nel “bel bastione poligonale (il For­
tino) che costituisce l’opera fortificata più efficace della cinta corinaldese”18.
Nel perimetro del fortino fu ricavata una nuova apertura a tutto sesto,
volta ad oriente, che indichiamo col nome di “Porta di Sotto”, per distinguerla da quella ogivale di Fulberto, alle sue spalle19: in tal modo la Porta
e la Chiesa del Mercato non si fronteggiarono più e della loro collocazione
reciproca si spense il ricordo, testimoniato invece dalle nostre pietre.
Santa maria del mercato
Tuttavia, negli ultimi anni, anche l’antica Santa Maria del Mercato ci ha
inviato il suo messaggio di pietra per non farsi dimenticare.
Entro il rosso cerchio delle mura
91
10/11/12 – Tre pietre di
arenaria trovate nell’area
in cui sorgeva la chiesa di
Santa Maria del Mercato,
conservate nell’abitazione
di Via della Murata n. 43.
fig. 10: 20x15x6 in due
frammenti combacianti,
divisi da frattura obliqua;
sullo sfondo colorato di
rosa, in rilievo un girale
con motivi vegetali.
Fig. 11: 11x22x15 in unico
frammento ad angolo retto; sulla faccia anteriore
presenta l’iscrizione in caratteri capitali Hoc op(us)
Fig. 12: 11x25x15 in unico
frammento, presenta nella
parte inferiore una serie di
tredici ovoli.
Al posto della chiesa, in Borgo di Sotto, si trova oggi un edificio già adibito a deposito di macchinari, anonimo e senza alcun rilievo urbanistico (fig.
9). Durante i lavori di sterro per la pavimentazione, intorno agli anni Ottanta,
sono venute alla luce alcune pietre di insolita fattura che hanno incuriosito
i proprietari, le famiglie Bartolini e Martelli. Gentilmente segnalateci, le reli-
92
Testimoni di Pietra
quie di pietra ci permettono oggi di documentare materialmente la presenza
della chiesa, ben nota attraverso i numerosi riferimenti letterari e d’archivio
già ricordati.
Si tratta di tre frammenti di arenaria principali che presentiamo, trascurando alcune altre pietre prive di connotazione.
La più interessante, perché iscritta, è lo spigolo sinistro di un frammento
architettonico, probabilmente un architrave (fig. 11), conservato per circa
venti centimetri, che presenta un’iscrizione in caratteri capitali molto accurati: HOC OPUS, cioè questa opera possiamo sottintendere fu fatta...; la
scritta doveva essere completata dal nome dell’artefice o del committente,
e probabilmente dalla data; così abbiamo trovato nell’iscrizione di Fulberto.
Nella parola opus è presente un’abbreviatura simile a quella che si usava
nei manoscritti: il dizionario Hoepli l’attribuisce al secolo XIV20.
Un secondo elemento (fig. 10), recuperato in due frammenti separati da
una frattura obliqua, faceva evidentemente parte di una fascia decorativa,
inserita in linea obliqua sulla costruzione: sullo sfondo rosa acceso si eleva
in rilievo un elegante girale con semplici motivi vegetali, certo collegato ad
altri uguali. Il terzo frammento (fig. 12), all’incirca delle stesse dimensioni
del primo, è caratterizzato da una serie di piccoli ovoli uniti tra loro, che
decorano il bordo inferiore.
Troppo poco per azzardare qualsiasi ipotesi sull’architettura della chiesa
e sulla fase costruttiva a cui risalgono i frammenti; ci basti aver individuato
un sito di antica e ricca memoria.
Di esso abbiamo conferma dal ritrovamento di ossa umane nelle immediate adiacenze dell’attuale magazzino, intorno ai locali di un antico mulino
di granaglie, poi trasformato in frantoio, di proprietà dei fratelli Gino e
Antonio Patrignani. Alla fine degli anni Settanta, per la ristrutturazione dei
macchinari, passati da trazione animale a trazione elettrica, fu eseguito uno
scasso ad una certa profondità: ne emersero materiali di varia tipologia e
soprattutto scheletri umani, con un mattone posto sotto la testa, che risultava rivolta verso il basso21.
Un disegno di fantasia, ma basato sulla documentazione storica, presenta la chiesa in elevato, con annesso il cimitero, così come doveva apparire
a Cimarelli che la descrive accuratamente: l’ha proposto Ettore Montesi nel
1984, in una mappa di Corinaldo da lui ricostruita e distribuita in omaggio,
datata intenzionalmente al 1642, l’anno di pubblicazione delle Istorie di
Cimarelli. La riproduciamo alla figura 13, in aiuto al lettore, per una visualizzazione dei monumenti che andiamo esaminando.
Entro il rosso cerchio delle mura
93
13 – Mappa di Corinaldo, datata 1642, ricostruita dall’architetto Ettore Montesi nel
1984, sulla base di documenti archivistici e storici.
revixi
L’Augel, cui solo al Mondo il Mondo ammira
Vago era omai di rinovarsi gli anni,
Onde per far la Pira in Rogo, i vanni
Batteva al Sol su l’odorata Pira.
E mentre il Tempo reo, la Morte dira
A lui stavan tessendo ardenti affanni
Una penna gli cadde: e questa ai danni
De l’un s’oppose, e in un de l’altra a l’ira.
Cadde nella tua man VINCENTIO, e scrivi
Tu dell’arsa Suasa il duro Annale
Oggi con essa, e i nomi estinti avvivi.
94
Testimoni di Pietra
E che la Penna tua sia penna tale
Qual più vivo segnal puoi darne ai Vivi?
Nel Cenere ella or fassi anco immortale.
Trascriviamo qui un po’ scherzosamente il sonetto dedicato dal Signor
Guid’Ubaldo Benamati a Cimarelli, per rallegrarsi con lo storico in occasione
della pubblicazione delle sue Istorie, perché in esso si fa chiaro riferimento
alla fenice, il mitico uccello che risorgeva dalle proprie ceneri e riprendeva
vita da se stesso22: una penna, caduta dal piumaggio della fenice, ha permesso a Cimarelli di superare il tempo e la morte, e di portare alla resurrezione
le vicende dell’arsa Suasa, destinate all’oblìo.
L’immagine, ricca di simbologie e di rimandi colti, è stata utilizzata
anche dall’ideatore dell’iscrizione allo stemma di Corinaldo, che ugualmente
paragona la storia del paese alla sorte della fenice: nata dalle ceneri di Suasa,
distrutta dal fuoco di una dura punizione, è stata capace di risorgere dalle
nuove ceneri. Abbiamo trovato, quasi a ribadire il concetto, l’mmagine della
fenice affrescata al centro del soffitto, in una sala del piano nobile dell’ex
Palazzo Ottaviani, e la proponiamo ai lettori come simbolo visivo della città
rinata (fig. 14).
Infatti, con la fine dei conflitti tra i vari Signori, volta a volta sostituiti
da nuovi conquistatori, nel gioco politico drammatico e violento dei secoli
XIV e XV, “Corinaldo può finalmente sperare in quello sviluppo economico
e demografico impedito dai lunghi anni di guerra che hanno travagliato la
re­gione23”
L’ultima parola dello stemma cittadino revixi: son tornata a vivere, ci
trasporta in una città ricostruita, rafforzata come si è visto da più solide cortine murarie che i soprastanti architetti non cessano di custodire e potenziare,
mentre nuovi quartieri sono costruiti a nord-ovest, anch’essi racchiusi dalle
nuove mura.
A dare testimonianza eloquente della rinascita non sono singole pietre, ma
il complesso stesso della struttura e dell’architettura cittadina, che avvolge
il visitatore nel caldo abbraccio del rosso laterizio. Pochi sono infatti i manufatti di pietra visibili all’esterno, lungo le vie: si tratta soprattutto di portali,
scalini ed architravi, spesso insigniti di un motto e di uno stemma gentilizio.
La pietra utilizzata è per la maggior parte calcare organogeno, proveniente
con ogni probabilità dalle cave del Furlo o delle Cesane: presentiamo quasi a
simbolo una conchiglia fossile ben visibile in una pietra di fondazione di un
palazzo nella piazza Il Terreno (fig. 15). Non mancano epigrafi, portali e fregi
Entro il rosso cerchio delle mura
95
14 – Palazzo Tarsi Marcolini, già Ottaviani, in Piazza Il Terreno n. 20: la mitica Fenice
affrescata al centro del soffitto in una sala del piano nobile.
di arenaria, facilmente reperibile nel pesarese, ma in percentuale minore24.
Procedendo lungo le vie, nella città cinta da nuove mura, si avvertono i
segni superstiti di decoro artistico, si scoprono aspetti inattesi, perché trascurati dagli sguardi quotidiani, del volto urbano signorile, di interni sconosciuti ma ricchi ancora di oggetti di pregio.
Del Rinascimento permangono rari manufatti, pervasi di armonia e di
bellezza ma privi di iscrizioni: segnaliamo qui i pochissimi che abbiamo
potuto individuare, non tutti accessibili al pubblico.
è il caso di una graziosa loggia dai caratteri rinascimentali, tornata alla
luce casualmente, durante i lavori di riadattamento di un palazzo destinato
ad ospitare il locale Ufficio postale. Il palazzo sorge fra Piazza del Cassero
e Il Terreno, un luogo legato alle vicende storiche più importanti del nostro
paese. I nomi stessi delle due piazze sono tra loro collegati: secondo le ipotesi
più recenti, la spianata denominata “Terreno” prende nome dall’abbattimento del Cassero, le cui rovine erano rimaste ammucchiate lì intorno per lungo
tempo25.
Furono gli stessi Corinaldesi a distruggere la loro rocca, divenuta simbolo
96
Testimoni di Pietra
15 – Calcare organogeno,
comunemente usato nei
manufatti di pietra dei palazzi gentilizi del centro storico.
di oppressione: essa aveva ospitato prima il prepotente uomo d’armi, rappresentante di Francesco Sforza, Cattabriga o Accattabriga, che l’aveva fatta
costruire; cacciato da un coraggioso gruppo di Corinaldesi il Cattabriga, la
rocca fu ricetto in seguito di una guarnigione di soldati papalini, più disposti
a vessare che a difendere gli abitanti.
Indignati, furono proprio i cittadini a demolirla nel 1466, spargendo a
terra il materiale da costruzione. La rocca non fu più ricostruita, il terreno di
risulta fu spianato e nuovi edifici sorsero su quell’area, inglobando le fondamenta e alcuni settori dell’antico Cassero: Cimarelli racconta le vicende della
distruzione della fortezza, e della ricostruzione su quell’area del palazzo
della nobile famiglia Simonetti, in seguito estinta. Anche in questo caso, il
suo racconto risulta sostanzialmente veritiero: lo confermano le indagini
condotte dagli architetti Ettore Montesi, Stefano Lenci, Fabio Mariano nei
sotterranei dell’edificio, dove sono riconoscibili muraglie di fondazione ed
archi di scarico di un probabile pontile. Al primo piano poi, la sorpresa più
straordinaria: a malapena affiorante dalla cortina muraria di tamponamento,
è stata riconosciuta “una stupenda loggia costituita da quattro archi con tre
colonnine in marmo ed agli estremi due lesene”26.
La loggia potrebbe corrispondere ad un ambiente della residenza del
castellano, ricostruibile attraverso un documento dell’epoca, l’Inventarium
Roche Corinaldi, redatto nel 1455 per la consegna della rocca da parte del
Commissario pontificio (Corinaldo da poco si era sottomessa alla Chiesa)
al nuovo castellano. Nel documento vengono elencati minuziosamente gli
oggetti contenuti nei vari locali, fra i quali si nomina una loggia con pozzo27:
la balconata ci appare rappresentata nella mappa del 1642 ricostruita da
Entro il rosso cerchio delle mura
97
Montesi.
Non è solo un sottile piacere della fantasia intravedere tra le arcate della
loggia la figura di una donna di inestimabile bellezza, modestia e dolcezza di
costumi, Bianca Maria Visconti, moglie del conte Francesco Sforza. La presenza della dama a Corinaldo è attestata sicuramente nel 1443 e nel 144528: la
comunità si sottopone a spese di rappresentanza, di cui ci resta la registrazione scritta, per fornirle una degna accoglienza e il Cattabriga la ospita con
tutti gli onori proprio nel Cassero, residenza che lui stesso ha fatto costruire
e dove risiede con la moglie Antonella 29.
La fantasia si sposa dunque con la realtà storica, ricostruibile attraverso
i documenti d’archivio e gli eleganti marmi della loggia, certo disegnata da
un’abile mano.
Lo stile dei capitelli ricorda quello usato nella biblioteca Malatestiana di
Cesena, costruita per Novello Malatesta tra il 1450 ed il 1452 dall’architetto
umbro Matteo di Nuccio detto Nuti. Il personaggio costruisce l’alto mastio
della Rocca malatestiana di Fano tra il 1438 e il 1452, una delle opere esaminate da Fabio Mariano come coeva e verosimilmente similare al Cassero
corinaldese30: “il gusto un po’ di invenzione” del Nuti si intravede anche nei
capitelli di Corinaldo
La loggia, fortunosamente preservata nel tempo, ha rischiato di scomparire ai nostri giorni, non appena riscoperta. L’antica dimora dei Simonetti è
stata infatti assorbita, nel corso del Settecento, dal grandioso Palazzo Romaldi,
che prospetta al Terreno, oggi purtroppo in stato di grave decadenza a causa
dei decenni di abbandono. Il fabbricato è passato nella proprietà dell’Opera Pia Asilo infantile, amministrata dagli Istituti Riuniti di Beneficenza, in
seguito a lascito testamentario del conte Giacomo Cesarini Romaldi, stilato
nel 1930 e accettato nel 197831.
Nel 1991 il Ministero delle Poste e Telecomu­nicazioni, tramite la Società
Italposte-Edilizia, instaura la procedura espropriativa dell’immobile, richiesto come sede dell’Ufficio postale, e ben presto vengono iniziati i lavori di
ristrutturazione per la nuova funzione32.
In quella circostanza una ricognizione di Ettore Montesi e Italo Pelinga,
molto interessati alla storia dell’edificio, permise l’individuazione della
loggia che fu subito segnalata per salvaguardia; ma i lavori della ditta appaltatrice proseguirono tanto rapidamente che la struttura rinascimentale fu
abbattuta e le pietre pregiate trasportate, insieme con il restante materiale,
in una discarica. Soltanto un fermo intervento dello stesso Montesi presso
l’Am­­­ministrazione comunale permise il recupero dei marmi che furono
98
Testimoni di Pietra
16 – Marmi della loggia rinascimentale estratti in frantumi dal palazzo ex Simonetti
in Piazza del Cassero e collocati temporaneamente nei depositi comunali di Via del
Teatro (foto1997).
momentaneamente accatastati in un deposito comunale, dove noi stessi li
abbiamo fotografate (fig. 16). Successivamente la loggia è stata ricostruita,
utilizzando gran parte del materiale recuperato, al primo piano dell’Ufficio
postale (fig. 17): purtroppo possono lì ammirarla soltanto gli impiegati e gli
addetti, dal momento che l’accesso ai locali è vietato agli estranei.
Le colonnine non sostengono più le antiche volte, ma si elevano isolate al
di sopra di un ricostruito muretto di mattoni, distanziate in maniera diversa
dall’istallazione originale. In luogo della volta affrescata, le copre un soffitto
a travature di legno dal quale pendono moderni tubi di metallo e plastica
per l’illuminazione; alla parete di fondo permangono tracce di affreschi quasi
illeggibili e due rombi a bande azzurre e gialle, che ricordano i colori dello
stemma dei Della Rovere, labile traccia di una presenza oscurata.
Un convento per ospedale
è facile notare che il marmo, usato per le colonne e le lesene della loggia ora descritta, è rarissimo negli arredi urbani pubblici e privati e denota
particolare ricchezza e raffinatezza. Per altri manufatti ornamentali del
Rina­scimento si usa il calcare, pur lavorato con notevole raffinatezza: ce ne
Entro il rosso cerchio delle mura
99
17 – La loggia rinascimentale dell’ex Palazzo Simonetti ricostruita nell’ambiente in
cui è stata ritrovata, attualmente adibito ad Ufficio Postale dall’Ente Poste Italiane,
in Piazza del Cassero.
Quattro colonne h 160, circonferenza 58; base h 15; capitelli h 25; due lesene 185x18x7;
le colonne sono state ricomposte su un muretto di laterizio e distanziate tra loro di
cm 130 nella parte anteriore, di cm 180 sul fronte laterale, secondo un modulo che si
discosta da quello originale.
100
Testimoni di Pietra
18 – Pozzo rinascimentale di pietra calcarea a sezione ottagonale nel chiostro della
chiesa di San Francesco. Sono visibili sei lastre di rivestimento 80x60x4, inserite tra
la base inferiore e la vera, bocciardate nello sfondo e decorate con fasce geometriche
levigate e dipinte di nero; altre due lastre sono occultate dal rivestimento in laterizio
che copre la sommità del pozzo.
offrono esempio le eleganti lastre che rivestono il pozzo del chiostro (fig. 18)
dei Minori Conventuali, adiacente alla chiesa di San Francesco33.
Cimarelli aveva già ammirato la bella cisterna al centro del bel Chiostro
di molti archi formato, in quattro ale diviso, con le doppie volte rinnovato e
d’inestimabile bellezza rifatto dopo il Capitolo del 1503, con i lasciti di messer
Fran­cesco di Domenico da Corinaldo. Attualmente l’ambiente è degradato
a causa delle trasformazioni subite, ma le belle pietre della cisterna parlano
ancora il linguaggio del rigore e dell’armonia rinascimentale. Sei lastre visibili rivestono il vano verticale del pozzo a sezione ottagonale, inserite tra
le pietre calcaree della base e della vera, consunta in due punti dalle corde
dei secchi. Lo specchio delle lastre è inciso da nitidi disegni geometrici, che
alternano figure più complesse a semplici rombi, e creano un armonico gio­
co di linee rette e curve. La sovrapposizione a tutto il pozzo di una copertura
in laterizio, alquanto rozza, nasconde due lastre laterali ma non oscura la
Entro il rosso cerchio delle mura
101
grazia originaria del manufatto.
Anche questo leggiadro monumento è oggi praticamente escluso dalla
vista dei cittadini perché il chiostro è stato destinato a luogo di servizio per
le cucine. L’antico convento è stato infatti trasformato in ospedale e tutta la
struttura, la miglior sede che i Minori Conventuali avessero nella Diocesi di
Senigallia, ne è rimasta sconvolta.
Il passaggio ebbe inizio con l’abolizione di tutti gli ordini, compagnie,
congregazioni e associazioni religiose imposta dal regime napoleonico nel
1810; i locali, ancora abitati da otto religiosi e quattro studenti, furono convertiti in ospedale nel 1817, quando un gruppo di Corinaldesi (“nobili filantropi” secondo alcuni, “pochi fanatici” secondo altri) ottenne di ricoverarci
alcuni malati di tifo petecchiale. In precedenza l’ospedale era allestito vicino
alla Porta San Giovanni e annesso alla chiesa di San Rocco, di fondazione
quattrocentesca, rifatta e ben attrezzata ai tempi di Cimarelli ma decadente
agli inizi dell’Ottocento ed attualmente abbattuta: l’ubicazione è visibile nei
disegni della mappa già nota.
Nonostante il disappunto del vescovo di Senigallia Fabrizio Sceberras
Testaferrata, che invano tentò di arrestare il provvedimento, nel 1820 la Sacra
Congregazione acconsentì alla trasformazione del convento in ospedale, e la
decisione fu sancita da un rescritto di papa Pio VII dello stesso anno.
Parecchie lapidi si affiancano sul primo ripiano del luminoso scalone
d’ono­re per testimoniare le trasformazioni subìte dall’edificio: la più antica
(fig. 19) collocata in mezzo alle due ampie finestre e contornata da una ricca
cornice di stucco, è stata apposta dagli stessi Conventuali ed esalta il convento quale luogo scelto in molte occasioni dalla gerarchia dell’Ordine per
tenervi le assemblee, destinate ad eleggere i padri provinciali.
L’intitolazione in latino dell’epigrafe: Monumentum, cioè testimonianza
indica l’importanza che si volle dare, con questo documento di pietra, alla
storia del convento: se ne ricorda la presenza e la rilevanza fin dal 1527, anno
in cui si tenne un Capitolo provinciale, registrato anche negli archivi consultati da Padre Gustavo Parisciani, tra i più approfonditi studiosi della storia
del Fran­cesca­nesimo nelle Marche.
La lapide è stata affissa due secoli più tardi, e l’occasione non era trascurabile: dopo vari terremoti infatti, e specialmente dopo quello del 1727, il convento fu ricostruito dalle fondamenta nelle forme e nello stile in cui appare
oggi ai nostri occhi, soprattutto per quel che riguarda gli interni.
Il convento poteva dunque di nuovo ospitare i Capitoli a partire dal
19 – Lapide di arenaria 70x115 delimitata da una cornice di stucco, murata tra le due
finestre al primo ripiano dello scalone d’accesso all’Ospedale, Viale degli Eroi n. 7.
Monumentum. / Habitis Comitiis pro(vincialibus) in hoc coenobio F(ratrum) M(inorum)
Con(ventualium) / D(omini) Francisci terrae Corinalti a(nno) D(omini) MDXXVII XVI
cal(endas) / Iun(ias) renunciatus est Min(ister) Pro(vinci)alis a(dmodum) r(everendus)P(ater)
M(agister) Ludovicus de S(ancto) / Leone Feltrius. / Praeterea a(nno) D(omini) MDCCXLVIII
convocata est hic et peracta annua / lis Congreg(ati)o XIV. XIII. XII. cal(endas) Iun(ias)
Praeside a(dmodum) r(everendo) P(atre) M(agistro) Iosepho / Maria Avetrani de Monte
S(ancti) Petri Angel(orum) Min(istro) Pro(vinci)ali et Com(missario) / Gen(erali). / Postremo
recurrentib(us) Comitiis pro(vinci)alibus a(nno) D(omini) MDCCXLIX in hoc / ipso coeno­
bio ea laute splendideque celebrata sunt XV XIV XIII / cal(endas) Iun(ias) Moderatore ac
Praeside a(dmodum) r(everendo) P(atre) M(agistro) Iosepho Maria Mode / stini de Perusio
exsecr(etario) Ord(inis) Prov(inciae) Seraph(icae) Min(istro) Pro(vinci)ali et Com(missario)
/ Gen(erali) atque omnium consensione P(atrum) declaratus est Min(ister) Pro(vinci)alis /
a(dmodum) r(everendus) P(ater) M(agister) Philippus Tommasini Forosempronien(sis)
Sopra la lapide è affisso un ritratto in stucco, alla cui base una lastra di marmo 20x45
contiene l’iscrizione: Conte Pompeo Perozzi, Presidente della Congregazione di Carità.
Operò efficacemente all’affermazione e all’incremento di questo Istituto
103
Entro il rosso cerchio delle mura
1748, anno in cui era certo completato, e nel 1749 era onorato dalla presenza
di personaggi insigniti delle maggiori cariche della gerarchia: Durante il
Capitolo provinciale in questo convento dei Frati Minori Conven­
tuali di San Francesco della terra di Corinaldo, nell’anno del
signore 1527, fu eletto Ministro Provinciale il molto Reverendo
Padre Maestro Ludovico da San Leo Feltrio. Inoltre nell’anno
del Signore 1748 fu convocata e qui si svolse la Congregazione
annuale il
19, 20 e 21 maggio, presieduta dal molto Reverendo
Padre Maestro Giuseppe Maria Avetrani da Montesanpietrangeli,
Ministro Provinciale e Commissario Generale. Infine nell’anno 1749
in questo stesso convento fu celebrato il Capitolo provinciale
con solennità e splendore il 18,19 e 20 maggio, essendo moderatore
e Presidente il molto Reverendo Padre Maestro Giuseppe Maria
Modestini da Perugia, Se­gretario dell’Ordine della Provincia
Serafica,
Ministro
Provin­ciale
e
Commissario
Generale,
e
all’unanimità fu eletto ministro provinciale il molto Reverendo
Padre Maestro Filippo Tommasini da Fossombrone.
Della successiva ricostruzione della chiesa di san Francesco, avvenuta ad
opera dell’architetto Arcangelo Vici tra il 1752 e il 1759, ci dà conferma un’altra epigrafe (fig. 20) della stessa epoca e dello stesso stile: è affissa all’interno
della chiesa, nella prima cappella di destra, e ricorda l’indulgenza plenaria
per i defunti, concessa da Benedetto XIV: Questo altare eretto a gloria
di Dio Onnipotente, in onore di San Francesco Confessore, fu insignito del privilegio quotidiano perpetuo a suffragio di tutti i defunti:
vi possono celebrare tutti i sacerdoti in forza del Breve del 4 ottobre 1751 del sommo Pontefice Benedetto XIV; altare a ciò designato
dal Ministro generale dell’Ordine il 16 settembre 1757.
Anche questo privilegio papale è un segnale dell’importanza sia della
chiesa sia del gruppo dei Conventuali che lo richiese e ai quali fu concesso.
La chiesa mantenne la sua funzione, ma il convento, come si è visto, fu
trasformato in ricovero per malati ed ospizio per i poveri.
A darcene testimonianza si incaricano altre lapidi collocate vicino a quella
dei Conventuali, nelle pareti laterali dello stesso scalone dell’attuale ospedale, diverse tra loro per dimensioni, materiale e periodi storici.
Le accomuna però lo stesso contenuto e la stessa lingua, l’italiano: fanno
tutte menzione di personaggi, corinaldesi e non, che hanno elargito i loro
averi a favore degli Enti benefici, che con vari nomi si sono susseguiti nel
104
Testimoni di Pietra
20 – Lapide di arenaria 70x85 racchiusa da una cornice di stucco, nel primo altare
di destra della chiesa di San Francesco; l’iscrizione è sormontata e conclusa da due
croci poste al centro della scritta.
Altare hoc omnipotenti Deo in / honorem S(ancti) Francisci confes(soris) / erectum privile­
gio quotidiano / perpetuo ac libero pro omnibus / defunctis ad quoscumq(ue) Sacerdotes
/ vigore brevis Benedicti P(a) P(ae) / XIV die IV octob(ris) MDCCLI / insignitum atq(ue) a
Ministro Gener(ali) / Ord(inis) die XVI mensis septembris / MDCCLVII designatum
tempo per migliorare le condizioni dei cittadini più poveri.
Il dato più antico riguarda l’anno 1500: messer Francesco Fata, contemporaneo e forse parente del Cavaliere aurato Giovanni Andrea Fata che
conosceremo più oltre, per primo assegnò una quantità del proprio grano
per dar vita al Monte Frumentario, il deposito di riserva del prezioso seme,
da consegnare, dietro idonea fideiussione o “sigurtà”, a quanti, per disgrazie
varie, non avessero potuto trattenere le scorte necessarie per la nuova semina: Messer Francesco Fata nel 1500 diede some 40 di grano per distribuirsi ai poveri e così ebbe origine il Monte frumentario.
Il primo deposito avrà uno sviluppo notevole, tanto che potrà stabilirsi
in seguito su 32 salme di grano, gestito dal Monte di Pietà; a distanza di
quindici anni infatti, nascerà questa nuova istituzione, per iniziativa di un
Entro il rosso cerchio delle mura
105
altro privato, ricordato nella stessa lapide (fig. 21): Bartolomeo Calcagni
di Agostino da Crema, abitando in Corinaldo, del 1515 legò fiorini
100 ad erigere il Monte di Pietà a condizione che vi contribuisse col
doppio della stessa somma la Comunità di Corinaldo la quale il 3
gennaio 1517 depositò i fiorini 200 e nel Consiglio del 6 dello stesso
mese nominò tre Conservatori ed un Ufficiale per l’amministrazione del Monte di Pietà
Arricchiscono le pur precise parole della lapide le notizie presenti nell’archivio comunale di Corinaldo, ormai estremamente scarse rispetto ai fondi
originari, e pubblicate, con la relativa bibliografia, ad opera dell’archivista
Carlo Giacomini, nel volume già citato; ulteriori notizie sono presenti nello
studio di Renzo Fiorani sui Monti di Pietà della Diocesi di Senigallia34.
Possiamo così sapere che la condizione imposta da Bartolomeo fu rispettata dalla Comunità di Corinaldo, che versò i duecento fiorini traendoli da un
dazio imposto sulle ghiande e dalla vendita del legname delle selve comunali. Il deposito avrà certo rappresentato notevole aggravio per le risorse
della cittadina, impegnata proprio in quegli anni ad armarsi per sostenere
gli scontri tra i Medici e i Della Rovere, che sfoceranno nel duro assedio di
Francesco Maria I della Rovere, nel 1517. Eppure l’impegno fu assolto, a
di­mostrazione del favore in cui era tenuta dalla sensibilità civica, proprio in
quell’epoca, l’istituzione dei Monti.
Il lascito di Bartolomeo Calcagni ci ricorda che erano gli stessi notai che,
per obbligo imposto dal Consiglio, sollecitavano i testatori a lasciare offerte
per il Monte di Pietà: l’esortazione veniva spesso assecondata, a giudicare
dai cospicui beni accumulati nel corso dei secoli dal Monte, enumerati da
Cimarelli, registrati in numerosi atti del Consiglio di quegli anni e, come si
vede, trasferiti anche sulla pietra.
Un Officiale detto Montista e quattro Conservatori eletti dal Consiglio
curavano l’amministrazione dei beni; il Monte gestiva anche l’ospedale
annesso alla chiesa di San Rocco, di cui si è parlato, ricovero per i bambini
abbandonati dai genitori, gli “esposti”, e per le fanciulla da maritare con
una minima dote, offerta dai fondi del Monte.
è questo probabilmente il legame che permette di giustificare la presenza delle lapidi all’interno dell’ospedale attuale: notiamo che anche quelle
che riportano le donazioni del 1500 non sembrano dell’epoca, perché allora
per le iscrizioni si usava il latino; ci viene persino il dubbio che alcune iscrizioni siano state tratte proprio dai documenti di archivio, per la coincidenza
delle parole usate Su chi le abbia volute lì, da dove provengano, in quale
106
Testimoni di Pietra
21 – Due lapidi di marmo sovrapposte, murate nella parete destra del primo ripiano
dello scalone dell’Ospedale; in alto, lapide 20x53, con iscrizione:
Filippo Vicerè nel 1816 legò / ai poveri un terreno / del valore di circa L. 500; in basso,
lapide 73x85, con due iscrizioni: sopra
Bartolomeo Calcagni di Agostino da Crema / abitando in Corinaldo del 1515 legò fiorini
100 / ad erigere il Monte di Pietà a condizione che vi / contribuisse col doppio della stessa
somma la co / munità di Corinaldo la quale il 3 gennaio 1517 / depositò i fiorini 200 e nel
Consiglio del 6 dello / stesso mese nominò tre Conservatori ed un Ufficiale / per l’ammini­
strazione del Monte di Pietà;
sotto: Messer Francesco Fata nel 1500 diede some 40 di grano per distribuirsi ai poveri e
così ebbe origine il M(onte) Frumentario
Entro il rosso cerchio delle mura
107
epoca siano state scritte, nessuno ha saputo darci notizia: azzardiamo pertanto noi qualche ipotesi. Riteniamo che provengano dall’ospedale di San
Rocco o, forse meglio, dalla vecchia sede del Monte, allestito negli ambienti
del Palazzo pubblico (come ricorda Cimarelli) e allargatosi in seguito in altri
magazzini, ricavati in locali vicino a Porta Nuova.
Quando, nel 1817, fu costituita la Congregazione di Carità per amministrare il nuovo ospedale, possiamo pensare che l’istituzione volesse ribadire
subito la nuova funzione dell’edificio, evidentemente contrastata da molti.
Alla lapide dei Conventuali furono affiancate, pensiamo in funzione ideologica, le altre iscrizione, ben cinque, che esaltano le benemerenze di quanti
nel tempo si erano schierati dalla parte della “pubblica assistenza”, diremmo oggi, favorendola con offerte anche molto cospicue.
Negli elenchi dei benefattori sono infatti presenti donazioni risalenti a
prima della trasformazione del convento in ospedale: una del 1718, un’altra
del 1816 (fig. 22B). Una lapide a sé stante (fig. 22A) ricorda che Bernardino
Mazzoleni nel 1665 legò ai poveri le rendite di un podere del valore
di circa L. 19.000 col quale podere, cedutane dagli eredi la proprietà, fu istituita l’Opera Pia Mazzoleni Sandreani.
La lapide più recente, benché priva di date, ci sembra proprio quella
della Congregazione (fig. 23): La Congregazione di Carità di Cori­naldo,
memore e riconoscente, designa alla pubblica beneficenza (sic) i
benemeriti…; segue l’elenco, corredato delle cifre versate, dei privati e
delle istituzioni che contribuirono al mantenimento della sezione cronici,
dell’ospedale, degli Istituti di beneficenza: notiamo che tra i benefattori è
presente anche la Cassa di Risparmio che ci permette di stabilire come termine ante quem gli anni 1927 o 1928, dopo i quali la Cassa di Risparmio di
Cori­naldo, che ebbe origine nel 1858, fu assorbita dalla Cassa di Risparmio di
Jesi, assumendone il nome. Del resto il Monte assicurava la funzione anche
di pubblica cassaforte (e per questo fu anche visitato dai ladri), anzi questo
servizio si mantenne più a lungo di quello dei prestiti, fino a trasformare
gran parte dei Monti in moderni istituti di deposito e credito monetario. Più
in alto di tutte, domina le altre lapidi un ritratto di stucco, sotto il quale corre
l’iscrizione: Conte Pompeo Perozzi. Presidente della Con­gregazione
di Carità, operò efficacemente all’affermazione e all’incremento
di questo istituto. Anche questo riconoscimento si colloca nei primi anni
del Novecento, a ricordo di un sindaco di Corinaldo (1890-1896) che molto si
interessò ai problemi sociali della città, fino alla morte avvenuta nel 1908.
Il Monte di Pietà
108
Testimoni di Pietra
A
B
22 – Due lapidi di marmo sovrapposte, murate nel primo ripiano dello scalone
dell’Ospedale, parete sinistra; in alto, lapide 30x60, con iscrizione:
Bernardino Mazzoleni nel 1665 legò ai poveri / le rendite di un podere del valore di circa
L. 9.000 / col quale podere, cedutane dagli eredi la proprietà, / fu istituita l’Opera Pia
Mazzoleni Sandreani; in basso, lapide 70x80, con iscrizione:
Lasciarono alle opere pie di Corinaldo:
Il canonico don Felice Brunoro Brunori nel 1718 la metà del fruttato di 4 censi di scudi 25
ciascuno. / Cristina Brunori in Savelli nel 1849 coppe quattro di grano all’anno. / La contes­
sa Carolina Filippi vedova Gaetani nel 1852 L. 1596. / Don Pasquale Marchetti nel 1855 un
fondo rustico del valore di L. 2280. / Annacleta Giombi ved. G.B. Orlandi il suo patrimonio. /
Elisabetta Fermani ved. Brunori nel 1862 L. 532. / Il nobil uomo Domenico Brunori nel 1867
L. 2006,29 in censi attivi. / Adelaide Pasqualini fu Giuseppe nel 1867 il fabbricato in Borgo
mercato detto Le caselle. / Giacomo Brunori di Luigi nel 1870 L. 1266
Entro il rosso cerchio delle mura
109
23 – Lapide di marmo 145x60, murata alla parete destra nel primo ripiano dello
scalone dell’Ospedale; è delimitata da una linea incisa e dipinta di nero che disegna
motivi geometrici ai quattro angoli.
La Congregazione di Carità di Corinaldo / memore e riconoscente / designa / alla pubblica
beneficenza / i benemeriti
Boscarini don Pietro che donò alla sezione cronici L. 500
Municipio di Corinaldo “ “
“
“ L.
3000
Cassa di Risparmio
“ “
“
“ L.
100
Cesarini Romaldi Vincenzo“ “
“
“ L.
100
Bonci Luca
all’ospedale L. 500
Ciani Giuseppe= fondo rustico“ “ “
“ L. 6500
Manfredi Matilde in Ceccacci“ “ “
“ L. 50
Barbaresi Nicola
“ ““
“ L. 250
Silviotti Maria“ ““
“ L.
750
n.d. Elena Orlandi Romaldi
agli istituti L. 18.000
110
Testimoni di Pietra
Originate o no da una polemica istituzionale, a questo punto ci pare che le
lapidi in memoria dei Monti di Pietà, e della loro evoluzione, stiano bene
proprio lì, nel convento dei Padri francescani.
è opportuno ricordare con Renzo Franciolini che la nascita dei Monti si
deve proprio all’iniziativa e alle esortazioni dei Francescani, e in modo particolare a quelli della nostra regione: il francescano Domenico da Leonessa
fondò il primo Monte ad Ascoli nel 1458, seguito da molti altri in varie
località delle Marche, come Fano e Arcevia. è il padre predicatore minore
francescano Giovanni da Fermo che convince i Confalonieri e i Priori del
Consiglio di Sassoferrato a istituire un Monte di Pietà, che sarà creato nel
1472; così pure gli Statuti del Monte di Fabriano del 1470 furono ispirati e in
larga misura elaborati dal minore francescano Beato Marco da Montegallo,
autorità indiscussa nell’apostolato contro l’usura35.
Vicini al popolo più dei monaci, ne vedevano le miserie e le vessazioni da
parte degli usurai, ebrei e cristiani, che pretendevano interessi fino al 65%.
I Francescani non si accontentarono delle prediche contro questo male
sociale, ma presero per primi l’iniziativa: allontanatosi il grande predicatore
che dava l’impulso iniziale, semplici frati organizzarono nelle nostre città la
pratica di un piccolo prestito sul quale non veniva applicato nessun interesse,
mo solo richiesto un pegno. Dall’originaria spinta caritativa cristiana, spesso
ci si allontanò molto da parte degli amministratori; alla fine dell’Otto­cento
l’istituzione aveva ormai perso i motivi del suo essere e fu sostituita da altre
forme di statuti (tuttavia il Monte di Pietà di Corinaldo era ancora attivo nel
1891), fino a scomparire definitivamente: a Corinaldo nel 1915.
Non stona pertanto la testimonianza di pietra sull’origine del Monte dentro un edificio francescano.
Da venti anni ormai anche la sorte del convento-ospedale è molto cambiata: dagli anni Sessanta agli Ottanta l’istituto è stato al centro dell’afflusso
di malati da tutti i paesi vicini, grazie alla presenza di medici (ricordiamo
per tutti il dottor Federico Alfonso Pagliariccio, deceduto nel 1980) e di
attrezzature qualificate; ma l’accentramento degli istituti ospedalieri, ritenuto necessario nel corso degli anni Ottanta, e le trasformazioni operate dalle
Unità Sanitarie Locali, determinarono, nonostante le proteste e l’opposizione
della cittadinanza, la chiusura dei reparti di degenza a Corinaldo e la loro
trasformazione in Residenza Sanitaria. Attualmente sono rimasti in funzione
un po­liambulatorio e un reparto per gli esami radiografici.
Il cedimento di un’ala moderna dell’edificio ha imposto inoltre la
Entro il rosso cerchio delle mura
111
ristrutturazione totale del complesso, che avviene sotto i nostri occhi, e che
sta oscurando, per motivi tecnici, anche l’aspetto settecentesco del nobile
edificio: altre lapidi ne racconteranno forse l’evoluzione, ci auguriamo in
positivo.
Le chiavi per la città
C’è un’altra pietra di stile rinascimentale che, a differenza del pozzo di San
Francesco, può essere ammirata da tutti, collocata com’è in un luogo pubblico, il ristorante “Ai nove Tarocchi”, lungo il Viale Dietro le Monache. Chiun­
que si avvicini al bancone di mescita la vede di fronte a sé, ben collocata in
alto sul muretto laterale di sinistra.
La bella pietra dal caldo colore della sabbia, esibisce al centro lo stemma
della città (fig. 24), le chiavi incrociate sui sei colli, racchiuso entro una ricca
cornice e sormontato da un motivo decorativo a membrana. Due ampie volute ornano lo spessore delle facce laterali fino alla sommità.
è con molta probabilità il concio di chiave di un portale a cui potevano
essere affiancati gli altri due decori, ora posti ai lati di un’apertura interna:
due trionfi di frutta - a nostro parere montati in posizione rovesciata - sostenuti da un calice. Da dove provengano e quale edificio abbiano ornato, non
è stato possibile definire: sappiamo soltanto che si trovavano nello stesso
luogo in cui sono ora esposti, luogo adibito negli anni Sessanta a deposito
comunale.
Un gruppo di giovani del tempo, riunito nel “Centro sociale culturale”
che diede in seguito vita all’associazione “Pro loco”, desideroso di rianimare la vita piuttosto spenta del paese, chiese i locali all’Amministrazione
comunale per poterli trasformare in un bar, destinato soprattutto ai giovani.
Du­rante i lavori di ristrutturazione di cui si interessò anche economicamente
il concittadino Romolo Bettini, venne ritrovato il manufatto, oggi opportunamente riesposto alla vista di tutti.
Chiamiamo la pietra tra i testimoni più antichi del nuovo stemma della
civitas che, dal 19 gennaio 1452, può insignirsi del simbolo delle chiavi,
ancora oggi custodite nell’ufficio del sindaco (fig. 25): il papa Nicolò V, in
quell’anno, con un suo Breve riconosce a Corinaldo numerosi privilegi; conferma i Capitoli nei quali i Corinaldese domandavano di essere immediatamente soggetti alla Santa Sede e di potersi governare con statuti propri36;
dona insieme le chiavi di San Pietro, le stesse che nei suoi stendardi usa in
112
Testimoni di Pietra
24 – Ristorante “Ai 9 Tarocchi”, Viale dietro le Monache, n. 8.
Concio di volta 50x26 nel bordo superiore, x16 nel bordo inferiore, ornato da due
volute nelle facce laterali e, in quella centrale, da un motivo ornamentale a membrana; tracce di gocce alla base; al centro, entro uno scudo, è presente lo stemma di
Corinaldo, sei colli sormontati dalle chiavi decussate.
Roma la Sede Apostolica e vuole che quelle incrocciate aggiungessero all’Ar­
ma del Comune che sono li sei monti.
Se consideriamo la bellezza del manufatto, la sua evidente funzione
celebrativa e l’ottimo stato di conservazione, lo possiamo pensare esposto
sotto il loggiato dell’antico Palagio malatestiano; o forse come ornamento
della Porta Nova, che si trova nelle immediate vicinanze dei “Tarocchi” e che
fu completata alla fine del Quattrocento: Cimarelli afferma che una lapide
(spesso citata ma ora perduta) era affissa alla porta e dichiarava in latino
Quest’opera fu terminata nel 1490.
Entro il rosso cerchio delle mura
113
25 – Le chiavi simboliche della città
di Corinaldo, donate nel 1452 alla
Co­munità da papa
Nicolò V e conservate nell’ufficio del
Sindaco.
La lapide è perduta, ma ci resta questo stemma, insigne simbolo del
rango di città; Corinaldo ne otterrà però l’attuazione formale solo con il
Breve di papa Pio VI del 20 giugno 178637.
Sono purtroppo spariti i documenti originali che attestavano questi
importanti snodi politici della storia di Corinaldo: l’archivista Giacomini
pubblica nel 1998, come si è visto, il contenuto dell’Archivio comunale di
Corinaldo e presenta anche l’elenco delle pergamene disperse: tra queste
risultano sparite le Bolle e i Brevi di Nicolò V e il Breve di Pio VI, in copia,
con la concessione del titolo di Città a Corinaldo. Nell’archivio Carafòli una
foto, da lui stesso donata nel 1980 a Fabio Ciceroni allora sindaco e datata
1936, presenta le chiavi simboliche della città, appoggiate sopra la copia
manoscritta del Breve di Pio VI: l’immagine emblematica, prodotta con
intenti artistici più che documentari, resta tuttavia un’importante testimonianza cronologica della presenza del documento a Corinaldo, e insieme
114
Testimoni di Pietra
della soddisfazione che i Corinaldesi antichi e moderni hanno sempre provato per l’ambìto titolo.
Scalinari e polentari
E ben meritarono il riconoscimento i Corinaldesi che, dopo essersi liberati nel
1447 prima del Cattabriga e poi delle pretese degli Sforza sul loro territorio,
spontaneamente inalberarono alla cima delle Torri i Pontifìci stendardi e in tutte
le circostanze successive mostrarono intiera e candida fe’ verso la Chiesa.
Si presenterà l’occasione di mettere alla prova la reciproca affezione tra i
Papi e la Comunità corinaldese all’inizio del nuovo secolo.
La Chiesa, come è noto, è retta in quegli anni da prìncipi più che da pontefici: essi dispongono spesso delle terre soggette alla Santa Sede per assegnarle ai propri parenti e nipoti, sottraendole ai precedenti signori, legati al casato
del papa deceduto: si invocava infatti l’argomento che occorreva deputare al
governo degli Stati della Chiesa, anche per il bene dei sudditi, persone che
godevano la piena fiducia e benevolenza del Pontefice in carica.
Il papa Leone X, della famiglia dei Medici, succeduto a Giulio II Della
Rovere, assegna nel 1516 i domini feltreschi e rovereschi a suo nipote
Lo­renzino de’ Medici, creandolo Duca di Urbino al posto di Francesco
Maria I della Rovere: quest’ultimo tenta un accordo con la munita piazzaforte di Corinaldo, ma il suo atteggiamento eccessivamente sospettoso porta
i Co­rinaldesi a schierarsi con Lorenzino e con il Papa e ad affrontare, per
questo, un terribile assedio: esso risulterà tuttavia inutile e renderà straordinariamente famoso il coraggio degli assediati e la resistenza delle mura,
invano sottoposte ai colpi di artiglieria di Francesco Maria.
Si tratta del famoso assedio del 1517 sul quale Cimarelli si dilunga
ampiamente, che viene citato anche da Francesco Guicciardini tra gli episodi memorabili della storia d’Italia, e divulgato da tanti altri scrittori che ce
ne lasciano testimonianza letteraria38. Lo stesso Leone X, in un Breve del 6
dicembre 1517 riportato per intero da Cimarelli, loda i Corinaldesi, fidelissi­
mi subditi, per aver mostrato tanta fede e costanza nell’affrontare i pericoli
del lungo ed aspro assedio.
Non ne potremmo invece parlare noi, se non ci soccorresse un documento
epigrafico modestamente affisso al n. 1 di Via dei Simonetti: la piccola targa
di metallo (fig. 26), già parzialmente ossidata, lancia un messaggio che può
risultare oscuro e che ci incarichiamo di chiarire, sulla testimonianza degli
autori: Qui nel 1978 scoccò la scintilla che incendiò lo spirito gioioso degli “scalinari”, i quali vollero ribaltare la nomea di polen-
Entro il rosso cerchio delle mura
115
26 – Targa di metallo apposta alla parete
esterna dell’abitazione
di Via Simonetti n. 1.
Qui nel 1978 / scoccò la
scintilla / che incendiò
lo spirito gioioso / degli
“scalinari” / i quali vollero
ribaltare / la nomea di
polentari loro attribuita
/ in una risonanza festo­
sa / che diede lustro a /
Corinaldo
tari loro attribuita, in una risonanza festosa che diede lustro a
Corinaldo.
La targa è stata affissa dai primi ideatori di una festa paesana, oggi divenuta tanto nota e pubblicizzata da far dimenticare al grande pubblico la sua
stessa origine: la “Festa del pozzo della polenta”.
L’iscrizione rivendica il primo impulso dato alla manifestazione da parte
di alcuni corinaldese residenti nel quartiere della Piaggia, la bella scalinata
che dalla Porta di sotto al Palazzo del Publico ascende: gli scalinari appunto.
Per spirito gioioso e voglia di stare insieme, nell’estate del 1978 avevano
iniziato a cenare all’aperto, lungo la scalinata, sotto gli occhi ammirati e
vogliosi dei passanti; generosi e divertiti, pensarono di rendere pubblici i
loro festini e idearono per l’anno successivo una festa in comune: estrassero
dai bauli delle nonne abiti tradizionali, monili e ornamenti, infilarono ai
giovanotti calzamaglie verdi e nere per una sfilata che si concludeva con un
ballo finale: era la “Prima festa rionale della Scalinata”.
Negli anni seguenti gli spiriti più dotti suggerirono di inserire la festa
in una cornice storica e, attingendo alle Istorie di Cimarelli, si soffermarono
sull’episodio glorioso dell’assedio del 1517: presi dal piacere del gioco, e
forzando un poco la mano, immaginarono che la sfilata in costume si dovesse svolgere per accogliere Lorenzino de’ Medici, venuto a Corinaldo dopo
l’assedio per rendere omaggio ai coraggiosi Corinaldesi.
Il fatto che la visita ducale non avvenne mai nella realtà, è diventato
ormai un dettaglio trascurabile: da quel giorno, di anno in anno, si accorre
a Cori­naldo dai lidi e dalle convalli per attendere l’arrivo del Duca e della
Duchessa di Urbino e dei loro cortigiani, in splendidi abiti rinascimentali.
116
Testimoni di Pietra
Il popolo gode della visione principesca, ma gli scalinari non dimenticarono i risvolti più popolari della tradizione corinaldese; pescarono tra storie
e storielle di Corinaldo e, invece di vergognarsene, ribaltarono in gloria la
nomèa di polentari loro attribuita dagli stizzosi paesani delle vicine vallate.
Li rinfrancava anche l’appoggio morale di Mario Carafòli, sostenitore delle
tradizioni corinaldesi esposte in articoli ed opuscoli; egli stesso diffuse proprio in quegli anni, in una trasmissione radiofonica, la leggenda della polenta
nel pozzo di Corinaldo, già motivo di polemica tra lui e il Consiglio comunale negli anni Cinquanta39.
Il ”pozzo della polenta” non c’era più, ma gli scalinari ne costruirono
uno di legno in mezzo alla scalinata; il villano con il sacco di farina gialla
di granturco lo si prese tra i costumanti ed ecco che, appoggiata al pozzo e
rovesciata inavvertitamente la farina dentro, il nome di polentari era bello
che giustificato.
Quanto al pozzo, ricordiamo che se ne stava per perdere la memoria, perché era stato disimpegnato alla fine dell’Ottocento quando, nel 1894, l’Amministrazione comunale, col sindaco Perozzi, aveva ottenuto di poter allacciare
l’acquedotto di Corinaldo alla sorgente di Montesecco, un contrafforte del
Catria, depositandone le acque nel serbatoio del colle S. Maria40.
Da allora la scalinata era rimasta vuota, ma ben ricordava l’ubicazione
del pozzo, pensiamo indicata dai suoi genitori, l’anziano corinaldese Nicola
Bolognini Bordi, nato nel 1889 e morto nel 1982, titolare di un’impresa
edile e memoria storica degli eventi cittadini: egli indicò il punto preciso
agli amministratori del tempo ed essi, nel 1980, fecero ricostruire sul posto
la sponda del pozzo, tra la soddisfazione degli scalinari che l’avevano
appunto sollecitato, e il mugugno di altri che ritenevano inutile l’impresa.
La polemica è ripresa recentemente, in occasione del rifacimento in mattoni
della scalinata, nel 2003-2004: un’assemblea cittadina si è riunita per rimettere in discussione l’ubicazione e la fondatezza del pozzo, secondo alcuni
inesistente nel passato.
Pozzo sì o pozzo no, possiamo oggi rassicurare i cittadini tutti: il pozzo
esisteva veramente, e proprio lì dove sorge oggi: lo provano i ducati otto e
bolognini ventidue pagati a mastro Mariano dalla Roccha per saldo e pagamento
del pozo facto in la piaza (cioè la piaggia) cavato et murato per cinquanta pie,
spesa registrata in un libro delle entrate e delle uscite del 144541.
Quel pozzo lo aveva fatto costruire proprio il Cattabriga: ben si può
dunque accettarlo ancor oggi e metterlo al centro dell’attenzione, durante la
festa rinascimentale di Corinaldo e durante tutto l’anno, per la memoria dei
Entro il rosso cerchio delle mura
117
27 – Largo XVII
Settembre 1860, n. 1.
Pannello di ceramica colorata, con
la raffigurazione di
un uo­mo e di una
donna in costume
rinascimentale; agli
angoli gli emblemi
dei quattro rioni
che si contendono il
Palio nella “Festa del
pozzo della polenta”: Cen­tro storico –
Porta San Giovanni
– Porta del Mercato
– Porta Nuova.
Sala del costume e
delle tradizioni popo­
lari
cittadini e dei visitatori: Cimarelli stesso si dilunga a descriverlo tra le cose
memorabili non meno ivi (a Corinaldo) dalla Natura prodotte, che dall’industria
degl’ingegnosi artefici fabricatevi; e colloca con precisione il pozzo in mezzo alla
strada, che dalla Porta di sotto al Palazzo del Publico ascende, chiamata Piaggia.
Nessun timore dunque di un grossolano falso storico.
La targa degli scalinari, apposta nel 1998, a venti anni dalla prima
edizione, rivendica un po’ polemicamente i meriti degli ideatori originari
della festa, non sempre tenuti in conto nella gestione ufficializzata e nelle
premiazioni degli anni successivi. Alzando gli occhi dalla piccola iscrizione,
proprio di fronte a sé, il lettore scorge invece una grande e colorata insegna
di ceramica con la scritta Sala del costume e delle tradizioni popolari
(fig. 27): l’epigrafe porta a completo sviluppo l’accenno della targa e i due
messaggi si com­pletano a vicenda.
Nella sala del costume, infatti, sono oggi conservati ed esposti al pubblico gli abiti delle coppie ducali, ideati ogni anno nuovamente per la sfilata,
e ormai in numero considerevole: si è giunti, nel 2005, alla ventisettesima
edizione della rievocazione. L’attento studio dei costumi dell’epoca, rigorosamente ricostruiti da Gianni Giacomelli ed Ettore Montesi, l’esecuzione
118
Testimoni di Pietra
accurata e puntigliosa delle sartorie locali, hanno arricchito la comunità di
un patrimonio artigianale che giustamente si è voluto conservare e mostrare
ai visitatori, nell’attuale gestione congiunta delle associazioni “Pro loco” e
“Pozzo della polenta”.
Per l’edizione della Festa del Pozzo 2005, in occasione del ventennale
della morte di Mario Carafòli, nella Sala del costume è stata allestita una
mostra antologica retrospettiva delle immagini del fotografo; il suo nome
è legato anche ad un concorso fotografico nazionale che dal 1985 porta in
Italia la fama di Corinaldo come “il paese più bello del mondo”, titolo di un
opuscolo dedicato dallo scrittore al suo paese di origine42.
L’Amministrazione comunale ha fornito i locali per l’allestimento dei
costumi rinascimentali in una sede storica, la chiesa antica di San Nicolò da
Bari, forse coeva alla prima costituzione del castrum di Corinaldo e comunque attestata nel 1290: l’accesso ai locali espositivi si apre proprio nell’antica
abside di quella chiesa, che per circa tre secoli è stata l’unico edificio sacro
all’interno delle mura. Solo alla fine del Quattrocento diventerà la “chiesa
inferiore” riservata ai fedeli, sottostante alla chiesa superiore ricostruita
dagli Agostiniani che ne avevano preso possesso, ampliandola e dotandola
di un convento43. Anche nell’attuale ricostruzione settecentesca, non si è
perduta la testimonianza epigrafica del primo Santo a cui era stata dedicata
la chiesa: in una ricca cornice di stucco apposta sull’arco rivolto all’ingresso,
dei quattro che sostengono l’impianto della cupola, è ben visibile la scritta
A Dio Ottimo Massimo In onore di San Nicola da Bari patrono di
questa chiesa eremitana (fig. 28)). Ricordiamo che l’Ordine mendicante
degli Agostiniani è il risultato dell’aggregazione in un’unica entità giuridica
di diverse esperienze di vita religiosa, unite dal comune elemento di essere
eremiti e di essere agostiniani: è del 1256 la “Grande Unione” sollecitata
dalla Santa Sede, tra cinque gruppi eremitici, tre di regola agostiniana e due
di regola benedettina, questi ultimi presto distaccatisi: di qui il termine di
chiesa eremitana presente nell’epigrafe.
i segni della gloria
Durante la rievocazione storica in costume, le sontuose dame e gli eleganti
cavalieri, nell’affluire in corteo al Terreno principale sede della festa, escono
dai portali di nobili palazzi che ben ricordano i personaggi che usavano realmente quelle fogge nella vita quotidiana: il patriziato civico di Corinaldo.
Entro il rosso cerchio delle mura
119
28 – Ex chiesa di Sant’Agostino, oggi Santuario di Santa Maria Goretti: iscrizione
entro ricca cornice di stucco, sopra uno degli archi di sostegno della cupola, rivolto
verso l’ingresso.
D(eo) O(ptimo) M(aximo). / D(omino) Nicolao Bariensi / huius Eremitanae Ecclesiae
Patrono
Protagonista della vita politica e amministrativa della città per lunghi
secoli, esso ha ora abbandonato le sue belle dimore e gli ultimi rappresentanti, trasferiti altrove, tornano raramente a visitarle.
Il complesso della struttura e dell’architettura cittadina mantiene invece
la solida impronta lasciata dagli edifici nobiliari, eretti a partire dal Quat­
trocento e trasformati nel corso del Seicento e del Settecento. In parte vuoti
e in declino, in parte ristrutturati da nuovi proprietari, essi hanno perduto
il legame connesso ad una precisa necessità dell’epoca: rappresentare con
segni esteriori, in forma immediatamente evidente agli occhi del mondo, la
particolare eminenza della posizione del nobile tra i ceti inferiori.
Si è nobili quando si può rivendicare uno statuto giuridico di superiorità rispetto alle altre fasce sociali e quando tali prerogative possono essere
trasmesse per via ereditaria; ma anche quando l’esclusività di certi diritti si
fonde con l’ostentazione di un genere di vita assai elevato.
La dimora cittadina del nobile dev’essere costituita da un palazzo sontuoso dotato di componenti strutturali ed architettoniche precise: una sala di
120
Testimoni di Pietra
rappresentanza, la cappella privata, spesso un teatrino, i locali per la servitù.
Per il periodo di riposo dagli impegni di governo e dalla partecipazione alle
cerimonie pubbliche e religiose, la famiglia dispone di una residenza di campagna che riproduce in proporzioni più ridotte i locali della città.
Palazzi e ville di campagna caratterizzano ancora il territorio di Corinaldo
e parlano allo studioso e al visitatore con la voce del caldo laterizio: sono i
testimoni della storia e della cultura dominante dei nuovi secoli Sedicesimo
e Diciassettesimo.
Il numero più cospicuo di documenti lapidei, muti ed iscritti, è infatti
concentrato nel corso del Seicento; se ne ricava il volto di una società che
ribadisce sulla pietra i due elementi su cui fonda la propria autorità di
governo temporale e spirituale: la nobiltà e gli ordini religiosi. Il messaggio
che essi trasmettono ci permette di cogliere un modo di vivere, un modello
e una cultura che hanno segnato un momento molto rappresentativo della
storia sociale di Corinaldo.
Dal 1575 al 1691 restano ben 15 epigrafi, molte esposte alla pubblica lettura, altre conservate in abitazioni private. La caratteristica che le accomuna è
il contenuto di carattere privato ed autocelebrativo: singoli cittadini o comunità religiose esibiscono i propri attributi sociali e le cariche che rivestono;
spesso, in base alle funzioni che svolgono, ricordano di essersene serviti per
il bene collettivo.
Mancano invece, per questi secoli, iscrizioni della Comunitas, che ha
lasciato memoria delle sue opere negli statuti e nelle riformanze, ma non ne
ha ritenuta nessuna degna di essere affidata alla pietra. O almeno non se ne
sono trovate.
Il fatto è comprensibile: già dalla fine del Cinquecento il governo del
Comune è passato nelle mani del ceto nobiliare i cui membri comporranno
in breve la totalità del Consiglio Generale, e otterranno di trasmettere ereditariamente i seggi nel Consiglio, attuando la cosiddetta “chiusura di ceto”.
Dunque Comunitas e ceto nobiliare finiscono col coincidere: quest’ultimo si
potenzia inoltre attraverso le cariche prelatizie delle quali molti suoi membri
sono insigniti, e cura le più importanti realizzazioni monumentali a nome e
col denaro proprio.
I loro volti ci osservano ancor oggi dai dipinti esposti nella Sala Grande
del Palazzo comunale; restaurata entro l’anno 2004 presso il laboratorio
urbinate di Isidoro Bacchiocca, la galleria degli antenati non si discosta dai
personaggi presentati da Cimarelli nella sua rassegna dei cittadini illustri
Entro il rosso cerchio delle mura
121
di Corinaldo: ammirati e ammirabili per aver riposto la nobiltà personale
non solo nel sangue ma nella dignitas, vale a dire nelle opere dell’ingegno,
della fede, del governo cittadino, del braccio: un braccio armato, giacché dal
Consiglio generale erano esclusi i rappresentanti delle arti meccaniche.
Sulle caratteristiche della dignitas, nella nuova concezione elaborata
dagli umanisti in contrapposizione con le posizioni medioevali, ci ha fatto
soffermare Dario Cingolani in una interessante conferenza, nella quale sono
state richiamate le riflessioni di un umanista, Ser Johannes Tintus de Vicinis de
Fabriano, mandato a governare Corinaldo negli anni 1407-1408 da Pandolfo
III Malatesta: nel suo libro sull’istituzione del governo dei nobili, il notaio e
capitano Giovanni Tinto Vicini sostiene, nella forma letteraria di un dialogo
tra discepolo e maestro, che quanti occupano responsabilità di governo debbono essere i più degni, quelli in grado di operare in modo onesto, lodevole
ed utile alla società umana; tali virtù si acquisiscono attraverso lo studio,
l’educazione della mente, la riflessione sull’insegnamento dei classici antichi,
e non sono garantite solo dalla discendenza da nobile sangue o dal possesso di proprietà e di feudi, conquistati e mantenuti con le armi. Che anzi,
come rincalza in una più tarda orazione, rivolta ai nobili di Lucca, Giovanni
Gui­diccioni, Governatore della Marca in Macerata, dove morì nel 1541, “…
vedevansi alcuni nobili, non solamente salire i gradi de’ magistrati e degli
onori, ma avere in dispregio gli inferiori…e con ingiusto arbitrio dominarli;
volevano ancora godersi, anzi usurparsi il patrimonio pubblico con mille
sconci interessi e mille aperte ruberie…”44.
Le esortazioni degli umanisti dovevano rappresentare una novità nell’atmosfera culturale del nostro paese, ma Cingolani ritiene che il Vicini abbia
dibattuto a lungo gli argomenti con i membri più responsabili della nobiltà
e si sia positivamente confrontato con loro prima di pubblicare il libro, riuscendo probabilmente a convincerli: ne possiamo cogliere qualche segnale
dall’apprezzamento verso la cultura e le arti che si dispiega nei secoli seguenti.
La nobiltà locale, ormai rassicurata sulla stabilità del proprio potere
ereditario nel Consiglio cittadino, dirige le sue energie verso il piacere della
cultura, l’otium raccomandato dagli antichi e dagli umanisti, a ulteriore
conferma del prestigio del casato: i palazzi ricostruiti ospitano opere d’arte,
affreschi e quadri; le famiglie esercitano il giuspatronato su cappelle ed altari
che arricchiscono di dipinti, arredi e reliquie. Molte chiese cittadine rurali
sono fatte erigere dal patriziato corinaldese o dalle confraternite religiose
122
Testimoni di Pietra
29 – Lapide di marmo sagomata, affissa con borchie di metallo alla parete sinistra
dell’atrio del Palazzo comunale.
In memoria / della contessa Elena Orlandi Romaldi Pasqui / dei suoi antenati e dei suoi
discendenti i nepoti / Luigi e Maria, Giuseppe ed Emma Venturoli Orlandi Romaldi / il
comune di Corinaldo / con stima e gratitudine verso l’illustre famiglia storica e benefattri­
ce / pone. / Corinaldo, aprile 1998
da esso sostenute: Francesco Orlandi nel 1574 dona un ampio campo per la
costruzione del nuovo convento dei Padri Cappuccini, in aperta campagna;
Do­menico Brunori fa erigere la chiesa di San Domenico nel 1618; Giuseppe
Maria Sandreani quella di Sant’Angelo Custode (oggi San Vincenzo) nel
1735; Antonio Ciaffoni la chiesa gentilizia di Sant’Antonio al Borgo di Sotto
nel 1654; la famiglia Ciani quella di Sant’Isidoro alla fine del Settecento; le
confraternite del Suffragio e quella del Gonfalone portano a termine rispettivamente la chiesa del Suffragio nel 1640 e l’Incancellata nel 1690.
Di tante benemerenze restano tuttavia testimonianze epigrafiche riferite
solo alla famiglia Orlandi, di cui si tratterà anche in seguito, che ha il merito
di averle conservate.
Gli antenati e gli esponenti più vicini nel tempo sono ricordati in un’epigrafe (fig. 29) affissa nell’aprile 1998 nell’atrio del Palazzo comunale, alla sinistra di chi entra: l’Amministrazione comunale, interessata dalla reverenza
familiare di Vittorio Venturoli Orlandi Romaldi, ne ha curato la realizzazione
per gratitudine verso quella famiglia: In memoria della contessa Elena
Entro il rosso cerchio delle mura
123
Orlandi Romaldi Pasqui, dei suoi antenati e dei suoi discendenti i
nipoti Luigi e Maria, Giuseppe ed Emma Venturoli Orlandi Romaldi, il
Comune di Corinaldo con stima e gratitudine verso l’illustre famiglia storica e benefattrice pone. Segue la data.
Della nobildonna, figlia di Giovan Battista Orlandi e di Doralice Ricci di
Montenovo e moglie del conte fiorentino Alessandro Pasqui, deceduta nel
1928, si conosce la generosità: il suo nome compare tra i maggiori benefattori
della Congregazione di Carità, nell’epigrafe dell’ospedale già presentata, e
tra quanti fecero offerte a favore dell’asilo infantile “Margherita di Savoia”,
anch’essi ricordati in un’epigrafe apposta sulla parete dell’asilo stesso, in
Piazza San Pietro.
Si deve a lei anche la trasmissione del nome Orlandi Romaldi (che altrimenti si sarebbe estinto, come è accaduto per tanti altri casati), alle generazioni successive: ella infatti, poiché il figlio Pietro era privo di eredi, affiliò
nel 1902 Luigi e Giuseppe, figli di sua nipote Giuseppina Serra e di Enrico
Fausto Venturoli, e ad essi trasmise il nome gentilizio.
Alla moderna lapide fanno riscontro iscrizioni molto più antiche degli
Orlandi, relative al secolo che stiamo illustrando: due di esse si riferiscono
ad uno stesso personaggio, Francesco Orlandi.
Gentiluomo estremamente generoso, fece erigere e decorare con il proprio patrimonio familiare la chiesa di San Pietro Apostolo entro le mura
cittadine, in sostituzione di quella che sorgeva con lo stesso titolo nell’attuale
Borgo di Sotto, vicino a Santa Maria del Mercato. San Pietro è testimoniata
fin dal XII secolo e aveva assunto un ruolo sempre più rilevante tra le chiese
di Co­rinaldo, tanto che il rettore aveva ricevuto la dignità di pievano. Essa
però aveva subito notevoli danni ad opera di Francesco Maria I Della Rovere,
du­rante l’assedio del 1517 e, benché in parte restaurata, era ridotta in condizioni di notevole decadenza.
Per munifica iniziativa di Francesco Orlandi la chiesa fu dunque ricostruita con caratteri monumentali nel 1574, con archi e grosse colonne, in tre navi,
secondo l’arte della moderna architettura partita; più tardi, nel 1645, fu elevata
a Collegiata insigne, officiata da un arciprete e da un arcidiacono assistiti
da dodici canonici e da quattro mansionari: anche di questa chiesa ci viene
restituita l’immagine nella mappa già nota. Nei secoli successivi tuttavia
l’edificio dovette subire notevoli restauri, a causa della precaria situazione
statica: fu il principale edificio che, nell’area dell’ampliamento rinascimentale, fece le spese dell’inconsistenza statica dei riporti necessari alla creazione
124
Testimoni di Pietra
dei terrapieni, che nel
tempo hanno determinato vari crolli; in una
planimetria del 1870
conservata nel locale
Ufficio te­cnico comunale, San Pietro risulta
atterrata, e da allora
non è stata più riedificata.
In seguito a ciò,
la sede parrocchiale mantenuto il titolo di
San Pietro Apostolo
- venne trasferita, e
rimane fino ad oggi,
fuori le mura, nella
chiesa di San Fran­
cesco annessa al convento dei Padri Minori
Conventuali.
Della chiesa antica
30 – Il ritratto a olio di Francesco Orlandi, costruttore
di
San
Pietro restano
e rettore della chiesa di San Pietro Apostolo, nella
Sala Grande del Palazzo comunale.
un’abitazione, resi­
dua­­­le delle case per la
residenza dei Rettori e
abitazioni de’ Cappel­la­ni, e il campanile, tuttora utilizzato per le funzioni
parrocchiali. Giuseppe Rossi, “Peppino” per i suoi concittadini, ha letto personalmente e trascritto le date incise su tre delle quattro campane del campanile, grazie alla sua funzione di sacrestano ma soprattutto alla sua passione
per la documentazione storica orale e scritta su Corinaldo: spesso lo abbiamo
consultato con successo ed anche in questa occasione ci ha fornito i dati,
difficilmente riscontrabili oggi per l’inaccessibilità del campanile ormai elettrificato. Una campana riporta l’anno 1759, altre due gli anni 1783 e 1885. La
data più antica conferma che in quegli anni, dopo il terremoto già ricordato
del 1727, si procedette a rifacimenti e migliorìe: la targa di metallo apposta al
campanile di San Pietro ricorda che l’edificio e il campanile fu­rono rimaneggiati all’inizio del Sette­cen­to per volere del­l’Arci­prete Gian Orazio Maz­zoleni,
Entro il rosso cerchio delle mura
125
31 – Lapide di arenaria 75x75 affissa con grappe di ferro alla parete dello scalone del
Palazzo comunale, al terzo ripiano; lo specchio epigrafico ribassato, 55x55, è delimitato
da una cornice a cartiglio.
D(eo) O(ptimo) M(aximo) / D(ominus) Franc(iscus) Orland(us) I(uris) V(triusque) Do / ctor
opt(imus) / Divi Petri rec / tor cuius aedem condidi(t) / ac decoravit vir praecla / ris moribus
p(rae)ditus in omne(s) / p(rae)cipue in pauperes munific(us) / iustitiae religionisq(ue) ob
/ servantiss(imus) obiit incre / dibili suorum maerore / MDLXXV annum agens / quinqua­
gesimum cui piiss(imus) / fr(ater) Lucangelus Orlandus / eques pius hu(n)c sarcofagu(m)
/ erexit
come successe a San Francesco in questo stesso periodo.
L’area già occupata dal tempio è attualmente adibita in parte a Piazza San
Pietro ed in parte a giardino: vi potevano giocare, protetti da un muro ora
abbattuto e da un rigoglioso esemplare di cedro, universalmente noto come
“il pino dell’asilo”, i bambini ospitati dall’Opera Pia Asilo infantile “Regina
Margherita”, gestita dagli Istituti Riuniti di Beneficenza fino al 30 giugno
1994 e i cui locali sono attualmente utilizzati per altre attività45.
La memoria del costruttore della chiesa non è tuttavia perduta: di
Francesco Orlandi conosciamo il volto, rappresentato ad olio tra i ritratti
della Sala Grande, (fig. 30) e soprattutto le doti personali e i meriti sociali
126
Testimoni di Pietra
32 – Lapide di arenaria 57x148x 6,5;in alto a sinistra presenta una frattura ricomposta
in massima parte con la pietra originale e, all’angolo sinistro, con pietra diversa che
impedisce parzialmente la lettura delle prime due lettere della l. 2; nelle parole finali
delle ll. 5 e 6 sono presenti vistose correzioni; la lapide è conservata nei depositi
comunali di Via del Teatro, in attesa di collocazione in luogo idoneo.
D(eo) O(ptimo) M(aximo). / [Ec]clesiam hanc olim parochialem, / Principi apostolorum
dicatam, / aere proprio / R(everendi) D(omini) Francisci Orlandi rectoris / a fundamentis
erectam, (sotto “rectoris” si legge “plebani”; sotto “erectam” si legge “rectoris”)
incisi nell’epigrafe (fig. 31) che il fratello, insignito del titolo di cavaliere pio,
fece apporre sul suo sarcofago: A Dio Ottimo Massimo. Don Francesco
Orlandi, ottimo dottore in legge civile ed ecclesiastica, rettore
di San Pietro di cui fece erigere e decorare la chiesa, uomo dotato
di eccelse doti morali, munifico verso tutti e specialmente verso i
poveri, scrupoloso custode della giustizia e della religione, morì
nel 1575 a cinquanta anni tra l’indicibile compianto dei suoi; il suo
devotissimo fratello Lucangelo Orlandi, cavaliere pio, fece erige-
re questo sarcofago.
Il testo latino dell’epigrafe, insieme con elogi e riconoscimenti ulteriori, è
riportato da Cimarelli, che evidentemente la lesse al suo posto, sul sarcofago
all’interno dell’antica chiesa.
All’esterno invece, ultimato l’edificio, sarà stata affissa, così almeno riteniamo, un’altra più imponente lapide (fig. 32) che ne ricordava a tutti il fondatore: Questa chiesa, un tempo parrocchiale, dedicata al Principe
degli Apostoli, è stata eretta dalle fondamenta con il patrimonio
privato del reverendo Rettore don Francesco Orlandi.
Entro il rosso cerchio delle mura
127
L’iscrizione presenta vistose correzioni nelle ultime parole delle ultime
due righe: la lettura, ancora possibile, delle parole corrette, ci dà forse testimonianza delle fasi di passaggio subìte dalla chiesa nella sua istituzione
giuridica: nel testo la si considera “un tempo parrocchiale”; nella prima correzione il termine “rettore” sostituisce “pievano”, che è ancora ben leggibile;
nell’ultima riga, il termine “rettore” è stato corretto con “eretta”. Correzioni
e pentimenti che possono offrire materia di approfondimento per la discussa identificazione degli istituti giuridici di “parrocchia e pieve”, sostenuta
da alcuni, o per l’affermazione di una differenza specifica tra i due istituti,
come vogliono altri46.
Un’ulteriore particolarità dell’epigrafe è costituita dalla costruzione latina
della frase, inammissibile da un punto di vista grammaticale47: sull’errore si
possono presentare varie ipotesi, ma il messaggio resta chiarissimo e ci offre
una preziosa testimonianza dell’evento, di cui troppo poco potè rallegrarsi
il committente Francesco Orlandi, morto l’anno successivo all’erezione della
chiesa. Cimarelli la pone con sicurezza nel 1574: forse la data di fondazione
si poteva leggere nel testo stesso della lapide, se si volesse assecondare la
nostra ipotesi che la lastra sia stata segata nella parte inferiore; può farlo
pensare la presenza di un’interpunzione dopo l’ultima parola, simile ad altre
interpunzioni delle righe precedenti, che fa supporre, nella prosecuzione
della frase, la presenza di altri dati e la giustificazione dell’attuale errore.
Entrambe le lapidi sopra presentate ci sono state conservate grazie all’interessamento della famiglia Orlandi, che probabilmente le prelevò dopo
l’abbattimento della chiesa, le conservò per lungo tempo nel palazzo di
città, e in un secondo tempo nel villino di campagna, poco fuori le mura; là
le aveva fatte trasportare Luigi Venturoli Orlandi Romaldi, con l’intenzione
di farne in seguito dono alla comunità. Sono ora rientrate ufficialmente nel
possesso pubblico, grazie alla donazione fatta all’Amministrazione comunale nel 1998 delle epigrafi e di altri beni, da parte del figlio Vittorio, l’unico
discendente dell’antica famiglia che, dopo l’attività professionale svolta a
Roma, ha scelto di vivere stabilmente a Corinaldo.
Delle due epigrafi donate, l’elogio funebre è stato affisso alla parete
dello scalone di accesso al Palazzo comunale, al terzo ripiano; la lapide in
memoria dell’erezione della chiesa di San Pietro è provvisoriamente riposta nei lo­ca­li comunali di Via del Teatro, in attesa di essere affissa sopra la
porta di accesso al sopravvissuto campanile, in accordo con la Parrocchia,
l’Ammi­nistrazione comunale e i proprietari dell’edificio in cui è inserito il
128
Testimoni di Pietra
33 – Ex chiesa di Sant’Agostino: lapide di arenaria 90x72 murata alla destra dell’altare, nel braccio sinistro del transetto; lo specchio epigrafico è delimitato da una
cornice rettangolare liscia.
D(eo) O(ptimo) M(aximo) / Hanc sacram aram / divo Bartholomaeo apostolo dicatam
/ aere paterno erexit locupletavit / sacrisq(ue) reliquiis et vestibus decoravit / fr(ater)
Bartholomaeus Orlandus corinalten(sis) / sacrae theol(ogiae) Mag(ister) Ord(inis) S(ancti)
Augustini /an(no) Dom(ini) MDCXXII. / Super eandem hanc aram / cuilibet sacerdoti
Missam celebranti / facultatem quotidie unius animae / e purgatorio liberandae /et contra
quoscunq(ue) / ipsius bona surripientes / et quomodolibet distrahentes / anathema impe­
travit / a Gregorio XV Pont(ifice) Max(imo) / idem fr(ater) Barth(olomaeus)
campanile stesso.
Una quarta epigrafe (fig. 33) della famiglia Orlandi è visibile nell’ex chiesa di Sant’Agostino, ora Santuario di S. Maria Goretti, murata alla destra
dell’altare dedicato a San Bartolomeo, nel braccio sinistro del breve transetto.
L’altare raccoglie le memorie di una precedente cappella fatta erigere da fra
Bartolomeo Orlandi in onore del suo santo patrono, l’apostolo Bartolomeo.
Alle notizie sul personaggio, fornite da Cimarelli, possiamo aggiungere il
Entro il rosso cerchio delle mura
129
34 – Ex chiesa di Sant’Agostino: altare di San Bartolomeo nel braccio sinistro del
transetto; sono visibili la lapide, la pala d’altare del Maggeri con il supplizio di San
Bartolomeo, commissionata da fra Bartolomeo Orlandi e, nel riquadro, il ritratto del
committente.
nome di nascita del frate agostiniano: Filippo, figlio di Orlando Orlandi e di
Cornelia Vanni da Sangiorgio. Il nome di battesimo è stato tratto, insieme
con altre inedite notizie sulle più importanti famiglie corinaldesi, dagli alberi
genealogici e dai manoscritti conservati nell’archivio della famiglia Brunori:
di essi spesso ci serviremo per molti approfondimenti, grazie alla cortese
disponibilità di Stanislao De Angelis Corvi che, con i dati ivi registrati e da
lui trascritti, ha arricchito e guidato la nostra ricerca storica sul Cinquecento
e sul Seicento a Corinaldo.
Il supplizio di San Bartolomeo è rappresentato nella grande pala commissionata dall’Orlandi stesso nel 1622 al pittore urbinate Cesare Maggeri:
l’artista ha ritratto il viso assai espressivo del committente in basso a sinistra
della tela (fig. 34). Al “Gran Padre Orlandi ” sono state dedicate da un anonimo contemporaneo rime encomiastiche che possiamo leggere tra i documenti dell’archivio storico corinaldese, in una miscellanea forse proveniente
dalla stessa famiglia Orlandi 48.
Cimarelli si sofferma sulla ricchezza della cappella quando descrive la
130
Testimoni di Pietra
chiesa di San Nicolò e il monastero degli Eremitani di Sant’Agostino: gli
Ere­mitani, come si è detto, avevano occupato l’edificio sacro alla fine del
Due­cento, uscendo dalla loro vera chiesa di Sant’Agostino fuori le mura, per
sfuggire ai disordini causati dalla lunga mancanza di un nuovo pontefice,
alla morte di Nicolò IV.
La chiesa era piuttosto angusta, trovandosi ristretta tra altri edifici (ce la
ricostruisce in maniera evidente la mappa già nota), ma Cimarelli si sofferma sulla ricchezza delle entrate economiche e degli arredi, in modo particolare su quelli della Capella del Padre Maestro Fra Bartolomeo Orlandi, ad onore
di S. Bartolomeo apostolo eretta; poi dal medesimo di grosse entrate dotata e di
molte Sante reliquie arricchita.
Le parole dello storico sono confermate dall’iscrizione della lapide, certo
nota a Cimarelli: A Dio Ottimo Massimo. Questo sacro altare, dedicato
a San Bartolomeo apostolo, lo fece erigere col patrimonio paterno, arricchire di arredi, completare di corredi tessili e di sacre
reliquie, Fra Bartolomeo Orlandi di Corinaldo, Maestro di sacra
teologia dell’Ordine di Sant’Agostino, nell’anno del Signore 1622.
Lo stesso fra Bartolomeo ha ottenuto dal pontefice Gregorio XV
la facoltà, per qualunque sacerdote che vi celebri la Messa, di
liberare dal purgatorio un’anima al giorno e inoltre l’anatema
contro chiunque rubi i beni di questo stesso altare o in qualunque
modo li porti via.
Le reliquie ricordate nell’epigrafe furono portate a Corinaldo da Sa­ra­
gozza di Sicilia, dove l’Orlandi era diventato Provinciale: lo stesso Cimarelli,
parente del frate agostiniano sulle cui cariche, capacità e virtù si sofferma
a lungo nei propri scritti, curò il riconoscimento delle reliquie da parte del
vescovo di Senigallia Antaldo degli Antaldi, nel 1617.
Anche dopo la costruzione in due fasi degli attuali monastero e chiesa
di Sant’Agostino ad opera dell’architetto A. M. Carbonari Geminiani, tra il
1750 e il 1787, l’altare di San Bartolomeo fu mantenuto, e i preziosi reliquiari
conservati in due armadi a muro, a destra ed a sinistra dell’altare maggiore:
lì, aperti gli sportelli artisticamente decorati e dorati come i molti altri infissi
lignei della chiesa, le reliquie venivano esposte alla pubblica venerazione in
rare occasioni, specialmente ad Ognissanti.
Oggi invece, che nessuno più teme l’anatema di papa Gregorio, i bei
reliquiari sono stati prelevati dalla chiesa e trasferiti nella Civica raccolta
d’arte, in Piazza del Cassero n. 4, dove possono essere quotidianamente
ammirati. Sono stati inoltre esposti, insieme con altri manufatti di carattere
Entro il rosso cerchio delle mura
131
35 – Lapide di
marmo
60x60
af­fissa con grappe di ferro, in
Piazza Il Terreno
n. 5.
In questa casa
/ nella quiete di
Corinaldo / tra­
scorse / la secon­
da metà della vita
/ Claudio Ridolfi /
pittore veronese /
e qui morì / a set­
tantaquattro anni
/ il 26 novembre
1644
sacro, nella mostra “Reliquiari e statue sacre”, allestita nel 2002 nella chiesa
del Suf­fragio.
“Le virtù e buone qualità” di claudio ridolfi
Alla Civica raccolta d’arte ci richiama un’epigrafe moderna (fig. 35), che fa
memoria di un altro personaggio del Seicento, il secolo che stiamo analizzando; nel 1978 è stata affissa dall’Amministrazione comunale nella Piazza
Il Terreno, al n. 5, perché in quella casa aveva abitato il pittore Claudio
Ri­dolfi che, come dichiara l’iscrizione, scelse Corinaldo per trascorrervi
gran parte della vita, in piena attività artistica: In questa casa, nella
quiete di Corinaldo, trascorse la seconda metà della sua vita
Claudio Ridolfi pittore veronese e qui morì a settantaquattro
anni, il 26 novembre 1644.
Per onorare la figura del pittore, allievo di Paolo Veronese e seguace di
Federico Barocci durante il suo soggiorno ad Urbino, a trecentocinquant’anni dalla morte, nel 1994, il Centro Beni Culturali della Regione Marche ha
promosso una serie di studi e di mostre, da tenersi nelle città dove l’artista
aveva operato o dove le sue opere sono presenti in maggior numero: Per­
gola, Ostra, Mondolfo, Arcevia49.
Anche Corinaldo naturalmente è stata sede di mostra, allestita nel com­
plesso conventuale delle Benedettine e nella vicina chiesa del Suffragio,
dove i numerosi quadri di Ridolfi presenti a Corinaldo sono stati esposti da
132
Testimoni di Pietra
giugno a settembre, per tutta la durata dell’evento: esso ha rappresentato
il momento conclusivo di un precedente lavoro di studio e di rivalutazione dell’artista, ma soprattutto l’occasione per un necessario restauro di
numerosissimi quadri. Il notevole impegno organizzativo ed economico
del­l’Am­mi­nistrazione comunale, sostenuta dalla Regione Marche, non si è
esaurito nei pochi mesi dell’esposizione, ma ha dato vita ad una istituzione
culturale permanente: la mostra ha infatti rappresentato il punto di partenza per l’apertura, nel 1996, della Civica raccolta di opere di pittura, scultura
e arredi sacri intitolata a Clau­dio Ridolfi.
Il personaggio è stato protagonista e artefice di una reviviscenza culturale che ha notevolmente coinvolto la cittadinanza: a suggello della mostra,
al pittore sono stati dedicati un Convegno di studio e la successiva pubblicazione degli Atti, voluta dal Centro Studi Domenico Grandi, sorto nel 1987
per contribuire alla valorizzazione del patrimonio culturale delle Marche in
vari settori. Alla riflessione di critici e di studiosi si è unita la presentazione
di una Unità didattica realizzata dagli studenti della locale Scuola media,
coinvolti dai docenti nella nuova conoscenza dell’artista50.
Dall’Archivio comunale di Corinaldo sono infatti emersi, grazie alla
ricerca dei già citati studiosi locali, numerosissimi documenti che testimoniano la presenza e l’attività non solo artistica, ma umana e quotidiana, di
Ridolfi e della sua famiglia51.
L’artista giunse a Corinaldo con la moglie Vittoria Maschi di Urbino e i
cinque figli nati in quella città; a Corinaldo nasceranno altri quattro figli, dal
1623 al 1631, tanto che per la numerosa famiglia il pittore dovette acquistare
prima una casa e poi un’altra contigua, proprio nella piazza dove è attualmente collocata la lapide che lo ricorda.
Fin dal 1621 Claudio Ridolfi viene aggregato alla civiltà di Corinaldo, con
decreto del Consiglio generale, considerate le virtù e buone qualità dell’artista. Si inserì presto nell’alta società e fu protetto e familiare di nobili cittadini,
gli Amati, gli Ottaviani, i Sandreani, i Mazzoleni, presenti come testimoni al
battesimo dei suoi figli ma anche ai numerosi atti di compravendita e alle
diatribe per pagamenti e more. Ricorrono spesso documenti relativi ai suoi
quadri, che continuerà a dipingere fino a tarda età, pur dolorante agli occhi;
fu deposto nella chiesa di San Pietro, mentre la moglie, che gli sopravvivrà
di tredici anni, volle essere sepolta in Sant’Agostino.
La tomba del pittore è andata distrutta insieme con la chiesa, ma la sua
memoria è mantenuta viva anche grazie all’epigrafe ed al nome “Claudio
Ridolfi” imposto alla pinacoteca civica, raccolta di beni culturali allestita in
Entro il rosso cerchio delle mura
133
un contenitore che rappresenta esso stesso un bene architettonico: il Mona­
stero delle monache di San Benedetto.
monache, nobili e re
Individuare un palazzo per la mostra su Ridolfi ha rappresentato un gravoso impegno burocratico e finanziario per l’Amministrazione comunale di
Corinaldo: erano necessari saloni di grande ampiezza e di elevato decoro,
non facilmente reperibili.
Nel centro storico i locali più adatti sono subito sembrati quelli che dal
Seicento fino all’Ottocento avevano ospitato il Monastero delle Benedettine
di Sant’Anna, edificio monumentale che si appoggia alle mura di ponente, le
ingloba e si erge al di sopra di esse, costituendo un elemento architettonico
inscindibile dal disegno urbano di Corinaldo: il viale “Dietro le Monache”,
che corre lungo parte del perimetro del monastero, testimonia con il suo
nome popolare l’impatto della costruzione sull’immaginario collettivo e
sulla toponomastica cittadina.
è ancora Cimarelli che presenta la storia dell’edificio; egli tuttavia non
vide completato il grandioso complesso attuale, ma solo l’insediamento
iniziale delle monache dell’abito e istituto di San Benedetto, costruito sopra le
fondamenta della rocca di Cattabriga, già abbattuta come si è detto e appunto utilizzata come sostruzione del nuovo edificio. L’ampliamento del monastero, la chiesa oggi consacrata alla Vergine Addolorata e la sottostante cripta,
dedicata a S. Maria Goretti, sono la risultanza di un massiccio intervento
iniziato nel 1637, che ha inglobato due tratti delle mura quattrocentesche
formanti approssimativamente un angolo retto52.
Alla descrizione solo letteraria e archivistica delle origini del monastero,
rispondono due documenti epigrafici che testimoniano invece le vicissitudini subite dall’edificio in tempi moderni.
Numerosi sono stati infatti i passaggi e le suddivisioni di proprietà, da
quando l’edificio è stato requisito alle monache per entrare a far parte dei
beni destinati all’“Appannaggio del Principe Eugenio Napoleone, nostro
ama­tissimo figlio adottivo”: tanto stabilisce Napoleone Bonaparte con il
No­no statuto del 15 marzo 1810.
L’appannaggio, cioè una dotazione o assegnazione beneficiaria, era
stato reputato necessario per le spese di corte del Palazzo Reale di Milano,
dove risiedeva Eugenio, Vicerè d’Italia: Napoleone stesso aveva concluso
il matrimonio tra Eugenio, figlio di sua moglie Giuseppina, già maritata
Beau­har­nais, e Amalia, figlia del principe elettore Massimiliano di Baviera.
134
Testimoni di Pietra
La coppia, dopo il matrimonio a Monaco, si era stabilita a Milano, circondandosi della fastosa corte che si addiceva ad un erede della Corona d’Italia,
corte per la quale erano necessari i ricchi proventi dell’Appannaggio.
In quell’assegnazione confluirono gran parte dei beni appartenuti a
conventi, monasteri, congregazioni ed altri enti religiosi, requisiti in base
ad una legislazione già in vigore nell’Impero francese e subito introdotta
nel Regno d’Italia53: fin dal 1805 un “Decreto sull’organizzazione del Clero
secolare, regolare e delle Monache” aveva disposto che “i beni dei conventi…
e le case parimenti… si aggregheranno al Demanio nazionale”. A Corinaldo
sono requisite le proprietà delle Benedettine di Sant’Anna, dei Francescani e
degli Agostiniani.
Il vescovo di Senigallia Fabrizio Sceberras Testaferrata tentò, alla caduta
di Napoleone, di riportare alcune comunità monastiche nei chiostri, dove
potessero riparare di nuovo “le devote donne a cui era stata disdetta l’ombra
delle sacre bende e il religioso ritiro”, ma non ci riuscì con le Benedettine di
Corinaldo: esse furono ospitate a Senigallia presso le consorelle del monastero di Santa Cristina, eretto nel 1574 ed ora abbattuto54: possiamo conoscere
anche i nominativi, la provenienza e la dote delle monache e delle educande
espulse dal monastero, tra le quali risultano tre monache ed un’educanda
della famiglia Brunori55.
Così oggi il grande portale dell’ex Monastero, che si apre sulla Piazza
del Cassero al n. 3, esibisce nell’inferriata le iniziali e lo stemma dei nuovi
padroni francesi (fig. 36): una corona granducale che sormonta le iniziali
della Casa Ducale Leuchtemberg: C. D. L.
Il nome del casato tedesco si inserisce i mezzo agli stemmi della nobiltà
locale in quanto Eugenio, dopo il tramonto politico di Napoleone, al quale
tuttavia era rimasto lealmente fedele, aveva spontaneamente rinunciato alla
Corona d’Italia e si era ritirato a Monaco presso il suocero, che lo aveva insignito dei titoli di Duca di Leuchtemberg e Principe di Eichstadt.
L’ex Vicerè d’Italia fu tra i pochissimi che, dopo il Congresso di Vienna,
convocato per ripristinare il vecchio ordine politico sovvertito dagli sconvolgimenti napoleonici, si vide riconfermare “il libero ed intero usufrutto
delle sue dotazioni in tutti gli Stati che hanno fatto parte del Regno d’Italia”,
in base all’articolo 64, separato e segreto, del Protocollo di Vienna , redatto
nell’aprile 1815. La concessione era chiaramente volta a danno dello Stato
Pon­tificio entro i cui confini erano situati i beni dell’ Appannaggio. Tra proteste, minacce ed infiniti carteggi tra il papato e le potenze assegnatrici dei
beni, si giunge infine ad un contratto di enfiteusi legato al principe Eugenio
e alla sua discendenza; ma nel 1816 si ribadisce il principio che la proprietà
Entro il rosso cerchio delle mura
135
36 – Grata di ferro
con corona ducale e iniziali C D L della Casa
Du­cale Leuchtemberg,
al portale dell’ex Mona­
stero delle Benedettine,
oggi “Oasi Santa Maria
Goretti”, in Piazza Il
Terreno n. 3.
dei beni rimane allo Stato Pontificio.
Sarà Giacomo Antonelli, nominato cardinale da Pio IX, a intavolare
trattative con Massimiliano, il figlio di Eugenio ormai deceduto, particolarmente legato alle tenute di caccia di Monterado in cui risiedette spesso, nel
castello trasmessogli tra i beni dell’Appannaggio, da lui stesso trasformato
in lussuosa residenza. Il 3 aprile 1845 viene firmato un contratto in cui si
prevede che Massimi­liano e sua madre Amalia cedano alla Santa Sede, a
prezzo concordato, tutte le proprietà possedute nello Stato Pontificio; subito
dopo Antonelli stipula un contratto di compra e vendita dei beni dell’Appan­
naggio tra la Santa Sede ed una Società degli Acquirenti, che si impegna a
rivendere entro 12 anni i beni al dettaglio, dando la precedenza alle offerte
dei “Luoghi pii” e dei cittadini dello Stato Pontificio.
è questo il momento in cui molti edifici rientrano in possesso della
nobiltà o dell’alta borghesia italiana, in grado di acquisirli: nel nostro caso
è la famiglia Brunori che acquista all’asta il grande complesso conventuale
(in parte comperato anche dai conti Augusti e dalla famiglia Coen) ed orna
il soffitto dello scalone d’onore con il proprio stemma (fig. 59); acquista
insieme anche il castello e la tenuta di Monterado e li possiede fino agli anni
Trenta circa, quando furono venduti dal conte Silvio Brunori.
Ai nostri giorni, nel 1976, altri passaggi di proprietà hanno suddiviso l’ex
monastero in residenze di varia funzione: la vendita della maggior parte del
complesso da parte di Giovanni Brunori a Romolo Bettini e in parte minore
alla Curia vescovile di Senigallia, ha permesso la completa ristrutturazione
di tutti gli ambienti, precedentemente in notevole degrado.
I tre monumentali saloni sovrapposti, nei quali quasi un centinaro di
136
Testimoni di Pietra
mo­niales hanno trascorso la loro
vita in comunità, sono adibiti ad
usi diversi ma in qualche modo
affini: nel piano inferiore, utilizzato come cantine dai Brunori,
l’ambiente grandissimo è diventato il “refettorio” degli ospiti
del ristorante “I Tigli”; nel piano
medio c’è ora il refettorio dei pellegrini che visitano il Santuario
di Santa Maria Goretti, mentre il panoramico salone superiore, ottenuto in affitto dalla
Curia, è stato utilizzato dall’Am­
ministrazione co­mu­nale per la
refezione dello spirito: la mostra
e la successiva raccolta d’arte
intitolata a Ridolfi, come si è
detto.
Un’epigrafe (fig. 37) di notevoli dimensioni aggiunge notizie
alla storia del complesso: è stata
37 – Lapide di travertino m.1,40x3 sopra
il portale della chiesa dell’Addolorata in
affissa alla facciata della chiesa
Piazza Il Terreno; lo specchio epigrafico
del­le Benedettine, oggi poposu piano ribassato è delimitato da una
larmente detta “L’Addolorata”,
cornice modanata.
fron­­te rimasta incompiuta nei
Templum Virg(inum) Benedictinar(um) /
an(no) Chr(isti) MDLV conditum / ab an(no)
secoli precedenti: nel 1925, in
MDCCCLIX / imagini prodigiali Virginis /
oc­casione dell’Anno Santo, la
Perdolentis sedem / curiatorum piorumq(ue)
fac­ciata fu completata nel gusto
largitas / fronte exornavit / An(no) Sacro
del tempo, che oggi ci appaMCMXXV PII XI P(ontificis) M(aximi) IV
re discutibile, con mattoncini di
ri­ve­stimento rossi e travertino,
su progetto dell’architetto Anto­nio Dominici.
L’iscrizione in latino è sor-mon­tata da una “pietà” scolpita da Don Enrico
Paniconi, ai nostri giorni affermato pittore espressionista, e testimonia
recenti avvenimenti: La generosità dei curatori e dei fedeli ha fatto
ornare con questa facciata, nell’Anno Santo 1925, anno quarto
del pontificato di Pio XI, la chiesa delle Monache benedettine, fon-
Entro il rosso cerchio delle mura
137
data nell’anno 1555, dal 1859 sede dell’immagine miracolosa della
Vergine Addolorata.
La data di fondazione della chiesa è stata evidentemente desunta da un
documento del­l’Archivio vescovile di Senigallia: negli inventari dei Luoghi
Pii della Diocesi risulta che “Il monastero delle Monache di Sant’Anna
dell’ordine di San Benedetto ha avuto la sua origine nell’anno 1555 nel qual
tem­po molti, per secondare l’animo di talune persone pie, anche delle loro
figliole, stabilirono di fabricare un Monastero al qual ogetto concordarono
l’elemo­sina dotale; con tal disposizzione furono comprate le case e immediatamente fabricato il Monastero; nel medesimo tempo ebbe il suo principio la
fabrica della Chiesa”56.
Delle notizie più recenti riportate nell’epigrafe ci interesseremo nelle
se­zioni riguardanti quei secoli.
gli stemmi del patriziato cittadino
Lo stemma napoleonico sul Monastero delle benedettine è in ordine cronologico il più recente, e quasi un parvenu tra gli altri stemmi dei casati
corinaldesi, che rappresentano una nobiltà di ben più antica data: scomparsa
ai nostri giorni ogni tipo di distinzione tra classi sociali, resiste tuttavia sui
portali dei palazzi e delle chiese, o al loro interno, o nelle cappelle funerarie,
lo stemma o blasone o arme, segno della condizione di nobile, elemento che
distingue il personaggio di rango elevato da qualsiasi altro soggetto.
In origine, non un ornamento ma una necessità: è infatti la presenza di
un disegno particolare a far distinguere sui campi di battaglia le bandiere
dei vari feudatari e delle loro schiere. Disegni non elaborati casualmente,
ma sistemi di figure governati da precise regole: di essi, nati appunto nel
me­dioevo, gli stessi detentori, spesso hanno perduto la documentazione
storica e leggono i simboli traendone congetture talvolta devianti. Per comprendere il significato degli stemmi che vediamo an­cora lungo le nostre vie,
eloquenti per i nostri avi ma muti ormai per i passanti, è necessario fare
ricorso alla disciplina dell’araldica. Ci apre la strada Francesca Pongetti con
il recente volume sulla Marca e le famiglie nobili e notabili di Corinaldo: lo
studio intorno alle origini della nobiltà civica nelle Marche, alla sua funzione
di governo a volte ristretta a poche famiglie, a volte allargata ad uomini nuo­
vi, si conclude con la storia delle famiglie nobili più cospicue di Corinaldo57.
Rimandiamo dunque ancora una volta il lettore ad un testo monografico,
nel quale è già stata esplicitata la descrizione e l’interpretazione di molti
138
Testimoni di Pietra
emblemi. Noi affianchiamo e
arricchiamo la rassegna, tratta dalla Pongetti anche da testi
cartacei, con la documentazione
dei soli manufatti di pietra o di
metallo - com’è nel programma
della nostra ricerca - e con il
competente supporto del se­ni­
galliese Giuliano Vichi, esperto
di araldica, che ci ha per­mes­so di
descrivere molti em­ble­mi inediti
e sconosciuti ai più.
38 – Stemma degli Agostiniani al centro
del portale di pietra d’Istria dell’ex chiesa
di S. Agostino: un cuore da cui zampillano
rivoli di sangue, appoggiato su un libro, in
alto il particolare.
Nella piazza Il Terreno e
nelle sue adiacenze si concentra
il maggior numero di stemmi,
giacché vi sono stati edificati
i palazzi e le chiese più imponenti della città. La chiesa di
Sant’Agostino, divenuta nel 1987
Santuario diocesano di Santa
Maria Goretti, presenta al centro del portale in pietra d’Istria,
concluso da un timpano triangolare a base spezzata, l’emblema degli Agostiniani: un libro
sormontato da un cuore trafitto
e fiammeggiante (fig. 38), ispirato alle parole di Sant’Agostino
“Tu avevi trafitto il nostro cuore
con le fiamme del tuo amore”58;
lo stemma è ripetuto all’interno della chiesa, negli arredi di
legno e di marmo (fig. 39). Alla
chiesa era annesso il monastero,
il cui ingresso si apre in Via
del Corso n. 8: sull’inferrriata
del grandioso portale, si leggo-
Entro il rosso cerchio delle mura
139
no le iniziali intrecciate dell’antico
Monastero Ago­sti­­niano, M A (fig.
40). Anche questo convento ha subito
l’esproprio dei beni e la cacciata dei
frati, in seguito alle leggi napoleoniche di cui si è detto.
Oggi su quel portale compare l’insegna “Albergo-Ristorante Il Giglio”:
la denominazione è stata ideata in
riferimento a Santa Maria Goretti,
giglio di purezza. La ristrutturazione del possente edificio è avvenuta
infatti in un’occasione di carattere
religioso, il Giubileo dell’anno 2000,
39 – Lo stemma degli Agostiniani in
ed era stata finanziata inizialmente
marmi colorati sulle porte di accesso
per ospitare soprattutto i pellegrini
al coro dell’ex chiesa di Sant’Ago­
di passaggio in quell’anno. In precestino.
denza il convento era stato a lungo
occupato dalla locale Scuola elementare statale, oggi trasferita nella nuova costruzione eretta sullo spazio di un
precedente campo sportivo, in Viale Dante n. 1.
Parallela alla fiancata destra della chiesa corre la Via Santa Maria Goretti,
lungo la quale, al n. 6, si apre il portale del Palazzo Sandreani, nobile famiglia originaria di S. Andrea di Suasa, presente a Corinaldo fin dal XIV secolo
con personaggi illustri in molti campi militari, civili e religiosi: i ritratti di
famiglia, corredati dello stemma che innalza una zampa leonina rampante sormontata da gigli, figurano nella Sala Grande del Palazzo comunale
(fig. 41): tra loro il Padre Angelo Antonio Sandreani, maestro di teologia
nell’ordine dei Conventuali, morto in odore di santità nel 1750. L’emblema
di famiglia si esibisce distesamente sulla sommità del palazzo: lì, l’intera
figura di un leone rampante scolpito nell’arenaria, all’incontro dei cornicioni completamente decorati da una serie di gigli, è poco visibile ai passanti:
lo si può però ammirare tra le belle immagini fotografiche di Dino Montesi
che corredano il recente suggestivo volume sul paese di Corinaldo, definito
“la casa del tempo”dall’autrice dei testi Domizia Carafòli59.
Al primo ripiano della bella scala del palazzo, conservata nell’originale
pietra arenaria, le porte di accesso agli appartamenti del piano nobile sono
sormontate da imponenti stemmi (fig. 42) di stucco bianco raffrontati: in
140
Testimoni di Pietra
40 – Grata di ferro con le iniziali in­trecciate
del M(onasterium) A(gostinianum) al portale
dell’ex Monastero de­gli Agostiniani, in Via
del Corso n. 8.
41 – Lo stemma dei nobili Sandreani raffigurato sotto il ritratto ad olio del Canonico
Luca Sandreani, nella Sala Grande del
Palazzo comunale. Lo stemma innalza in
campo az­zur­ro una zampa rampante sormon­
tata da tre gigli
uno campeggia l’arme dei Sandreani, nell’altro lo stemma partito degli
Orlandi e dei Sandreani, tra loro imparentati (fig. 43). Gli stemmi compaiono anche nei soffitti dipinti dell’appartamento nobile, ristrutturato alla fine
degli anni Novanta da Alberto Battistini, che lo utilizza come studio commerciale: vanno ascritti a merito del nuovo proprietario l’assoluto rispetto
e l’accurato restauro degli affreschi e degli arredi originari, in un luogo che
coniuga l’eleganza della dimora patrizia con l’efficienza della nuova destinazione funzionale.
Entro il rosso cerchio delle mura
141
42 – Palazzo Sandreani, Via S. Maria
Goretti n. 6: portone interno, al primo
ripiano dello scalone, sormontato
dallo stemma di famiglia entro un
ricco ornamento di stucco
43 – Lo stemma dei Sandreani e, sopra,
lo stemma Sandreani partito con lo
stemma Orlandi, sui portoni al primo
ripiano del Palazzo Sandreani.
Sulla storia della famiglia Sandreani, presentata anche da Pongetti, segnaliamo gli aggiornamenti esposti in sintesi a Corinaldo da Flavio e Gabriela
Solazzi in occasione di un recentissimo convegno, e destinati in forma più
ampia alle stampe60: i due ricercatori hanno studiato tre manoscritti presenti
nell’archivio Augusti Arsilli della Biblioteca comunale di Senigallia, riferititi
agli anni 1542, 1651, 1668, e riguardanti tutta la famiglia Arsilli, dalle origini
alla sua estinzione avvenuta nell’Ottocento; dagli scritti emerge la provenienza della famiglia da Sant’Andrea, con l’originario nome di De’ Rossi;
per contese con i Malatesta, alcuni esponenti si trasferirno a Corinaldo, dove
142
Testimoni di Pietra
vennero indicati dalla popolazione come Sandreani, ma preferirono chiamarsi Selvatici o Silvatili di Corinaldo, mentre soltanto un Aloisio mantenne a
Corinaldo il nome di Sandreani; solo nelle generazioni successive la famiglia,
passata a Senigallia si denominò Arsilli. Tra i documenti esaminati, compare
anche un manoscritto del 1685 di Panfilo Orazio Orlandi, richiestogli da
Senigallia da parte di Giuseppe Tiraboschi, nel quale il dotto corinaldese
conferma la presenza a Corinaldo della famiglia Selvatici. La pubblicazione
della ricerca fornirà maggiori dettagli sull’interessante ricostruzione storica.
giovanni andrea fata, Cavaliere aurato, e la sua discendenza
Parallelo alla fiancata sinistra della chiesa di Sant’Agostino, si erge un palazzo che occupa quasi interamente il lato meridionale della Piazza Il Ter­reno:
l’imponente mole, iniziata nel Cinquecento, è citata come Palazzo Ottaviani
fino a tutto l’Ottocento61; esso è passato attraverso numerosi rifacimenti e
possessori, fino alla famiglia di Maria Vittoria Tarsi Marcolini che attualmente ha posto in vendita la proprietà.
Nel palazzo non ci sono più tracce degli stemmi delle varie famiglie che
l’hanno posseduto, e sarebbe stato impossibile individuarne il soggiorno tra
quelle mura attraverso i segnali di pietra che ci guidano.
E invece siamo incorsi nello stupefacente incontro con un casato che ha
voluto consegnare di sé una testimonianza epigrafica di straordinario vigore, la più lunga di tutte le epigrafi di Corinaldo: la nobile famiglia dei Fata.
Il loro messaggio non è stato certo lasciato in un luogo riposto, anzi è
collocato in modo che non sfugga a chiunque salga e scenda l’ampio scalone d’accesso al piano nobile della dimora: ma nessuno gli aveva più rivolto
l’attenzione. Eppure la lapide di notevoli dimensioni s’impone allo sguardo,
murata com’è sulla parete di fronte all’ampia finestra, al primo ripiano della
scala (fig. 44).
L’ha voluta in quella posizione Giovanni Battista Fata, che nel 1623 fece
trascrivere sulla pietra un Decreto di privilegio concesso più di un secolo
prima ad un illustre antenato della famiglia, Giovanni Andrea Fata, dal re
di Francia Francesco I: il sovrano stesso lo confermò da Lione col grande
sigillo regale il 17 luglio 1515. I ritratti dei due personaggi, il re di Francia
(fig. 45) e il Cavaliere aurato Giovanni Andrea Fata (fig. 46), sono presenti
nelle sale del Palazzo comunale.
Giovanni Andrea Fata è noto agli storici e a tutti coloro che hanno letto,
nelle Istorie di Cimarelli, il Trattato di quelli huomini illustri che si ha per cogni­
tione esser in diversi tempi fioriti in Corinalto62. Nel presentare le benemerenze
44 – Lapide di arenaria137x75x2 murata alla parete destra, primo ripiano dello
scalone, nel Palazzo Tarsi Marcolini, già Ottaviani Fata, in Piazza Il Terreno n. 20;
presenta una frattura orizzontale ricomposta tra le ll. 44-45; nell’unico margine di
sinistra di cm 7, sono incisi due stemmi, il primo all’altezza delle ll.1-2, il secondo tra
le ll.18-21; sono visibili le linee di guida; caratteri cm. 3x2 alle ll. 1-2, e per la parola
CVM alla l. 3; cm 1,7x2 per i restanti caratteri. Trascrizione in Appendice I.
144
Testimoni di Pietra
45 – Sala Grande del Palazzo
comunale: il ritratto di
Francesco I re di Francia che
elargì il privilegio di “Cava­
liere aurato” a Giovanni An­
drea Fata.
di costoro, Cimarelli è costretto a fare un elenco parziale, servendosi delle
note che a caso di loro negli archivi ritrovate si sono.
Ma che si servisse davvero di carte d’archivio e non inventasse, per
eccesso di amor patrio, le virtù ed i successi degli antenati, di ciò possiamo
dare ora riconoscimento allo storico, su conferma di questo nuovo documento epigrafico, che non può certo suscitare dubbi sulla sua autenticità e
che registra sulla pietra quanto riportato da Cimarelli.
Le caratteristiche della storiografia del Seicento sono state delineate
nell’intervento di Marinella Bonvini Mazzanti al Convegno su Cimarelli63: si
apre in questo secolo uno straordinario interesse per tutte le fonti, che segna
la nascita della moderna metodologia storica, fondata sulla ricerca e sullo
studio della documentazione.
Anche Cimarelli rientra in questa mentalità, riscontrabile nello sforzo
di raccogliere il maggior numero possibile di dati: la sua fatica ci permette
oggi almeno di conoscerli, anche solo per vagliarne l’attendibilità con altri
strumenti di controllo e con il confronto con testi contemporanei o successivi: ricordiamo qui le Notizie particolari di Corinaldo nella Marca d’Ancona,
Entro il rosso cerchio delle mura
145
46 – Il ritratto ad olio di
Giovanni Andrea Fata, nella
Sala Consiliare del Palazzo
comunale, con la scritta: Jo(hannes) Andreas Fata
Reipub(licae)
Genuen(sis)
orat(or) / apud Franciscum I
Galliae regem / a quo Equitis
Aurati insignia promeruit /
Datum Lugduni 17 Juli 1515
riportate a metà del Settecento in un raro volume del corinaldese Francesco
Saverio Brunetti, che riferisce e aggiorna le notizie sulle Famiglie antichissime,
e cospicue, lodate dal P. Cimarelli64. C’è da notare infatti che la ricca messe di
conoscenze riportata dal nostro storico-guida, ha finora diretto gli studiosi
locali ad approfondire i suoi testi, tralasciando altri autori ed altri scritti su
Corinaldo, sparsi nelle biblioteche di molte città, nei negozi di antiquari, nei
manoscritti degli archivi delle famiglie nobili cittadine. Ne abbiamo avuto
consapevolezza attraverso i colloqui con un appassionato raccoglitore, lettore e trascrittore di manoscritti e documenti storici, il bibliofilo Stanislao De
Angelis Corvi, interessato alla storia di Corinaldo fin da bambino, attraverso
i racconti della madre Elena, della nobile famiglia Brunori: a lui dobbiamo
gran parte degli approfondimenti e delle precisazioni che abbiamo potuto
apportare nel corso della nostra ricerca, in aggiunta alle notizie già pubblicate dagli studiosi locali.
Il testo della lapide in onore di Giovanni Andrea Fata, affissa negli anni
in cui Cimarelli era attivo a Corinaldo, è da quest’ultimo riassunto nel corso
della presentazione del personaggio, inserito tra gli uomini illustri: ciò con-
146
Testimoni di Pietra
ferma che lo storico registrò dall’originale i documenti che in mano dei suoi
congiunti si vedono, e che davano notizie assai più ampie sull’attività del
personaggio, ricercato da principi, papi e re: ricordiamo rapidamente il suo
servizio di ambasciatore della Repubblica di Genova presso il re di Francia,
Francesco I; le cariche di Commissario della Marca e di Governatore del­
l’Um­bria; di Luogotenente Generale e in seguito di Gover­natore di Urbino,
su incarico di Leone X, proprio al tempo delle lotte tra i Medici e i Della
Rovere. Tornati questi ultimi nel possesso del Ducato, il nostro personaggio
fu tanto apprezzato da Francesco Maria I e da sua mo­glie Eleonora Gonzaga,
che fu trattenuto presso la loro corte e impiegato come ambasciatore e luogotenente. Ma, triste sorte di un uomo tanto degno e probabilmente altrettanto invidiato, durante una sosta nella sua terra di Corinaldo, fu ucciso da
un sicario.
Tra tutte le carte riguardanti le sue benemerenze, uno degli ultimi rappresentanti del casato dei Fata, Giovanni Battista, scelse di trasmettere sulla
pietra la più onorifica, e soprattutto quella che concedeva privilegi non solo
per i membri della famiglia contemporanei di Giovanni Andrea, ma anche
per i loro successori, per trasmissione ereditaria.
Il titolo più illustre era quello di “Cavaliere aurato”, che avrebbero ereditato i posteri che saranno nel tempo dottori dignitari ed esperti
di leggi, come lo era appunto l’estensore della lapide, Giovanni Battista.
Il privilegio reale concedeva inoltre che Giovanni Andrea potesse fregiarsi
di uno stemma, accuratamente descritto nel documento, in cui era presente
l’emblema stesso del re, tre gigli d’oro in campo azzurro: il lapicida è riuscito ad inserire entrambi, certo su prescrizione dello stesso Fata, nel piccolo
margine sinistro della lapide (fig. 47).
Possiamo vedere lo stemma a colori dei Fata (fig. 48) sotto il ritratto ad
olio di Giovanni Andrea, che viene presentato nell’iscrizione come ambasciatore della Repubblica di Genova presso Francesco I, dal quale
ricevette appunto la nomina di Cavaliere aurato.
Il titolo di cavaliere, durante l’epoca feudale, era personale e non trasmissibile ereditariamente: nei secoli XII e XIII la cavalleria divenne un’istituzione giuridica ben definita da un codice professionale che regolava l’attività
del cavaliere. Solo nel corso del Quattrocento e del Cinquecento, ormai
trasformato l’assetto sociale con il prevalere degli stati regionali e nazionali,
“il titolo di cavaliere assunse un significato soprattutto onorifico e l’istituto
si vuotò del valore e dello spirito originario”65. La Chiesa tuttavia custodì
sempre i valori di lealtà, fedeltà, difesa dei deboli che avevano rappresen-
Entro il rosso cerchio delle mura
147
47 – Particolare dei due stemmi, del re Francesco I e della famiglia Fata, incisi nel
margine sinistro della lapide in onore di Giovanni Andrea Fata.
48 – Lo stemma dei Fata raffigurato sotto il ritratto ad olio
di Giovanni Andrea Fata, nella Sala Consiliare del Palazzo
comunale.
Lo stemma presenta alla som­
mità dello scudo tre gigli d’oro
dipinti a distanza uguale, in
campo azzurro, e in basso un
albero, il leccio, sopra una base
di sassi.
tato l’ideale cavalleresco: come ricorda Stanislao De Angelis Corvi in un
recente articolo, Paolo III Farnese fu il primo papa che, nell’ambito delle
onorificenze pontificie, creò cavalieri in Roma: con bolla del 1540 confermò
i privilegi dei cavalieri dello speron d’oro, o milizia aurata, titolo ricevuto
appunto nel 1515 dal nostro Giovanni Andrea Fata e, aggiungiamo, anche
da altri membri della famiglia Brunori.
Recenti studi ci permettono di allargare la nostra indagine sui cavalieri
corinaldesi del Cinquecento e del Seicento: Stanislao De Angelis Corvi e
Renzo Paci hanno recentemente pubblicato le loro ricerche, il primo sui
“cavalieri lauretani” e il secondo sulle guerre nell’Europa del Cinquecento,
delle quali fu protagonista e acuto osservatore un contemporaneo di Gio­
148
Testimoni di Pietra
vanni Andrea Fata, il generale Achille Tarducci da Corinaldo66. La ricerca di
De Angelis Corvi offre un dato nuovo per la conoscenza dei Tarducci: lo studio sul Collegio dei cavalieri lauretani, anche se soprattutto riferito ai cavalieri ascolani, mette in evidenza che tra loro fu insignito dell’onorificenza,
con la Bolla apostolica di Paolo III Celestis Patrisfamilias, del 1545, Tarduccius
de Tarducciis de Corinalto laicus Senogalliensis. Più tardi, nel 1551, il nuovo
pa­pa Giulio III, con la Bolla di conferma, erezione e aumento del Collegio
dei cavalieri lauretani, inserisce ancora nell’elenco il nome di Tarduccius
de Co­rinalto laicus senogalliensis: le date delle due bolle possono aiutare
gli studiosi a far luce sulla cronologia e sull’identità di questo Tarduccio,
dal mo­mento che tale nome è presente per più membri del casato, riferiti
succes­sivamente nello studio di Paci.
I cavalieri lauretani erano soprattutto impegnati nella difesa delle coste
adriatiche dalle incursioni dei Turchi, lotta alla quale molto si dedicò
Achille Tarducci, esponendo le sue considerazioni nel trattato Il Turco vin­
cibile in Ungaria con mediocri aiuti di Germania, ampiamente presentato da
Paci; altre opere del Tarducci, meno note, sono state reperite negli archivi
di famiglia e nelle esplorazioni bibliografiche di De Angelis Corvi, oltre a
notizie manoscritte sul medesimo personaggio.
Dalle indagini dei due studiosi – in minima parte pubblicate da De
Angelis Corvi – emerge con sorprendente chiarezza l’importanza dei nobili
corinaldesi nell’ambito della diplomazia e della pratica militare in Europa:
nata dalle rivalità e dagli scontri tra fazioni cittadine, l’abitudine alle armi nel
corso del Cinquecento e del Seicento era una prassi di vita, sostenuta dalle
contingenze storiche, in un paese posto ai confini del Ducato di Urbino sempre in cerca di mercenari, e coinvolto nelle guerre in cui era spesso implicata
la Santa Sede. Frequenti bandi anzi vietavano ai Corinaldesi di pigliar soldo
per conto di capitani estranei allo Stato Pontificio, ma non sortivano effetto:
si andava là dove l’offerta era più allettante per gli strati sociali inferiori, o
dove parentele, segnalazioni o raccomandazioni permettevano ai giovani
rampolli patrizi di prestare la loro opera d’ingegno e di braccio.
Anche la famiglia Fata rientra in questi meccanismi sociali, all’interno
dei quali era molto importante esibire titoli di meritato buon servizio, guadagnato anche dagli avi.
Il documento epigrafico vuol dunque che a distanza di un secolo sia
riconosciuto alla famiglia il prestigioso titolo di Cavaliere aurato, e non se
ne perda il ricordo: rammenta Cimarelli che il cavagliero aureato con tutti
gli suoi Discendenti, non è costretto a dar prova della sua nobiltà supplen­
Entro il rosso cerchio delle mura
149
do al tutto l’au­reata cavaglieranza, e l’autorità Regale che la dona; da ciò la
riproposta sulla pietra dell’ambìto titolo, forse da esibire presso altri nobili
imparentati con i Fata, come gli Aldobrandini: Giovanni Battista Fata,
Dottore in Diritto civile e canonico, volle che questo documento
fosse estratto con cura dal (decreto di) Privilegio, nell’anno del
Signore 1623, il 31 maggio, affinché Nicola, Camillo, Giovanni Maria
di Giulio, AntenorE della famiglia Aldobrandini e i loro successori,
guidati da questo esempio, ne traggano insegnamento e venerino
Dio Ottimo Massimo.
è ancora la collaborazione di De Angelis Corvi che ha permesso di confermare con altri documenti la presenza a Corinaldo dei membri della famiglia Aldobrandini citata nell’iscrizione: passati a Pergola da Fano, uno dei
membri della famiglia, Aldobrandino Aldobrandini, è aggregato alla nobiltà di Corinaldo l’8 settembre 1570; Sinibaldo I Brunori sposa Maddalena
Ta­ni di Prato, figlia di Domenico e di Alessandra Aldobrandini, sorella di
papa Clemente VIII: una sorella di Alessandra, Elisabetta, sposa il senigalliese Aurelio Passeri. Lo stesso Achille Tarducci dedica la sua opera Il Turco
vincibile in Ungaria a Giovanni Francesco Aldobrandini.
Tra i personaggi riportati nell’epigrafe compare il nome di Antenore
(o Antinoro) Aldobrandini, che acquista una fisionomia precisa grazie alle
notizie presenti in uno dei citati manoscritti Brunori che ci è stato esibito67:
egli vi viene definito come “uomo di varia letteratura e prudenza, di cui si
vedevano tempo fa otto tomi legali che intendeva stampare. Ho l’attestato
del dottor Panfilo Orlandi nelle sue memorie manoscritte, è nominato in
una lapide scolpita de an(no) 1623 prim(o) Kalendis Junii in domo Ottaviani”.
Il manoscritto attesta sorprendentemente la presenza e la data di apposizione della nostra lapide in domo Ottaviani: ciò conferma che la dimora dei
Fata, autori della lapide, è stata comune anche agli Ottaviani, imparentati
con loro e noti in seguito come proprietari del palazzo, mentre si è oscurato
il nome dei Fata. Antenore Aldobrandini risiedette a Corinaldo, dove è presente nel Consiglio al I grado nel 1625 e nel 1628; fu chiamato come podestà
a Fano e nominato Vicepretore ad Ascoli Piceno; morì il 17 maggio 1673
a Corinaldo, come attestato nel Libro dei morti dell’Archivio parrocchiale, dopo cinquant’anni dalla data dell’epigrafe: dunque a quell’epoca egli
poteva essere un giovinetto, come forse Nicola, Camillo, Giovanni Maria ai
quali viene dedicata la lapide e per i quali sembra appropriata l’espressione
ut discant, cioè affinché traggano insegnamento, verbo tipico dell’apprendimento giovanile.
150
Testimoni di Pietra
La nobile famiglia di Silvestro Aldobrandini, allontanatasi da Firenze
per inimicizia verso i Medici e legata da matrimoni alla famiglia ormai
senigalliese dei Passeri (chiamati tre generazioni prima dal Bergamasco da
parte di Sigismondo Malatesta per il ripopolamento di Senigallia), ebbe tra i
suoi più famosi esponenti Ippolito, poi papa Clemente VIII, e Cinzio Passeri
Aldo­brandini, Cardinal nepote e famoso mecenate, nato a Senigallia nel 1551
da Aurelio Passeri e da Elisabetta Aldobrandini, sorella appunto di papa
Cle­mente e della già citata Alessandra. Cinzio Passeri Aldobrandini, primo
cardinale senigalliese, ebbe una lunga attività ecclesiastica e diplomatica e
si distinse per la protezione degli artisti e dei letterati, tra i quali è notissima
la benevola amicizia verso Torquato Tasso. La sua morte cade nel 1610, un
de­cennio prima della composizione della nostra epigrafe.
Ci fa pensare ad una rapida scomparsa del casato dei Fata nel corso del
Seicento, la notizia che ci dà lo stesso Cimarelli su due rappresentanti della
famiglia, suoi contemporanei: Fabio, figlio di Marco Antonio Fata e gran
Dottore di legge, che morì nel pieno della virilità, nel 1612, senza legitimi
posteri e naturali successori; la moglie di Fabio, unica erede del patrimonio,
persuasa da persone devote (e magari interessate), prese l’habito d’una
Religione stimata e a quell’istituto lasciò in eredità tutti gli averi dei Fata, ben
centomila scudi, e i suoi beni personali, ritirandosi in povertà. Ricordiamo
che lo stesso Giovanni Battista compare nel Consiglio nel 1625, ma ne è già
scomparso nel 1627, a pochi anni dalla composizione della lapide; l’ultima
testimonianza ufficiale della presenza dei Fata a Corinaldo si ha proprio
con Nicola Fata, uno dei giovani dedicatari della nostra lapide, che risulta
inserito nel Consiglio, al I grado, fino al 1669; dopo di che il loro nome scompare dagli elenchi. Anche Giovanni Maria, sempre nominato nella lapide, è
iscritto nel “Libro dei morti” in data 18 marzo 1688. Il casato dei Fata risulta
infine assente dall’elenco delle nobili famiglie corinaldesi redatto, come si è
visto, da Francesco Saverio Brunetti nel 1754.
Forse in questi anni in cui anche i rami collaterali della famiglia stavano
estinguendosi, e per il sangue e per il patrimonio, Giovanni Battista dà incarico di trascrivere il privilegio di Francesco I, complicato documento cartaceo,
sulla pietra arenaria, dove potessero resistere per sempre le benemerenze
della famiglia: difficile compito per il lapicida, iniziato con accuratezza e terminato un po’ affrettatamente, con alcuni errori, ripetizioni, variabilità nelle
abbreviazioni, e lettere piuttosto irregolari negli interspazi e nell’altezza.
Entro il rosso cerchio delle mura
151
Per l’eccessiva lunghezza del testo, non lo traduciamo qui per intero,
come si è fatto per le altre lapidi ma, nell’appendice I, riportiamo la nostra
trascrizione del testo latino con lo scioglimento delle numerosissime e variatissime abbreviazioni e, di seguito, la traduzione italiana. Per scrupolo di
documentazione, presentiamo anche la trascrizione dell’epigrafe in latino,
mantenendo l’impaginazione con tutte e soltanto le lettere alfabetiche visibili
(dunque anche gli errori e le ripetizioni), senza i segni delle abbreviazioni.
La consultazione diretta dell’epigrafe permetterà di controllare il testo
originale, che ci auguriamo non venga occultato nella ristrutturazione del
palazzo, scomparendo di nuovo.
Anche questo documento infatti è emerso come un’apparizione inaspettata ed ha chiamato proprio chi cercava la sua testimonianza: gli ultimi
abitanti del palazzo e la proprietaria Anna Maria Marcolini Pagliariccio, che
ce lo ha segnalato, lo avevano notato, ma mai letto con attenzione68; chi lo
avesse fatto per loro, non ne ha data comunicazione ufficiale, almeno per
quanto se ne sa tra gli studiosi locali.
Così è toccato a noi stupirci per primi davanti a quel testo ignorato che
pure, tra i pochi, esibiva nomi, date, personaggi di fama europea e perfino la
firma dell’estensore. Ci resta il loro emblema, ancora inserito nella stemma
composito della famiglia Brunori Ottaviani Vigilini Fata, oggi in uso tra i
discendenti di quelle famiglie più volte imparentate tra loro (fig. 60): i Fata
infatti si estinguono negli Ottaviani, che abiteranno come si è visto nel loro
palazzo, e a loro volta gli Ottaviani Fata si estinguono nei Brunori quando,
ai primi del Settecento, Caterina Ottaviani, ultima erede del nome, sposa
Sinibaldo III Brunori. La famiglia Ottaviani è lodata da Cimarelli, oltre che
per i meriti acquisiti da alcuni suoi esponenti presso la Sede Apostolica,
anche per la sua generosità e liberalità di cui godettero particolarmente i
Padri Cappuccini e i poveri della città.
Riconsegniamo la conoscenza dei Fata alla memoria dei cittadini, ricordando che l’epigrafe è già scampata ad una possibilissima distruzione:
du­rante la Seconda guerra mondiale infatti, il palazzo è stato colpito da una
bomba che ha distrutto l’ingresso e il portone, seppellendo sotto le macerie
una povera donna e ferendo altri; ma la lapide è rimasta al suo posto ed ha
assolto al suo compito di trasmettere a noi, lettori magari smaliziati e poco
riverenti, il barbaglio dorato dei cavalieri antichi.
Come abbiamo detto, sul portale del palazzo non compaiono i simboli
152
Testimoni di Pietra
araldici dei vari casati, bensì un ornamento in forma di aquila con le ali
aperte (fig. 49), che racchiude al centro il monogramma IHS, interpretato comunemente, ma non correttamente, come le iniziali latine di I(esus)
H(ominum) S(alvator), Gesù Salvatore degli Uomini.
Il monogramma era stato affidato alla devozione cristiana da San Ber­
nardino nato a Siena nel 1380, particolarmente devoto del nome di Gesù, e
divenne ancor più popolare quando fu inserito nello stemma dei Gesuiti.
Uno studio del francescano Padre Filippo Ferroni ricostruisce la vera
ideazione del monogramma da parte di San Bernardino: egli si servì dell’abbreviazione del nome di Gesù al nominativo della lingua latina IE (SU)S
ma con grafìa greca: IHS, e al centro delle tre lettere inserì il celebre Tau di
Ezechiele, la lettera dell’alfabeto ebraico che doveva essere impressa sulla
fronte di quanti non avevano ceduto all’idolatria, affinché fossero salvati
dallo sterminio; la lettera tau assomiglia ad una croce e così viene comunemente interpretata: T.
Bernardino pose il monogramma al centro di un sole raggiante e in certi
casi aggiunse l’iniziale del nome di Maria, raccomandando di rappresentarlo in molti esemplari e di esporlo nelle abitazioni69 In tal modo il nome di
Gesù affisso alle porte, sormontato dal simbolo della salvezza dallo sterminio, avrebbe protetto come in antico le case di chi lo esponeva.
La sua diffusione è vasta in tutte le città italiane e anche a Corinaldo è
presente in un notevole numero di esemplari: lo vediamo in un frammento
già descritto sul portale di Madonna del Piano (fig. 41, cap. I), nel periodo
in cui la chiesa appartenne al Collegio Germanico Ungarico gestito, come
si è detto, dai Gesuiti; sull’alto terrazzo dell’appartamento della famiglia
Ricci Rossi, all’ultimo piano dell’ex Monastero delle benedettine, in Via
del Teatro 35: il monogramma è ancora ben visibile (fig. 50), mentre lo
stemma di famiglia collocato accanto è ormai completamente eroso; nella
facciata dell’abitazione di Via dei Santarelli n. 6 (fig. 51); nel portale (fig. 52)
dell’ex Palazzo Ricci, attualmente acquisito e restaurato dalla famiglia Fabio
Baldarelli, sul lato occidentale del Terreno, al n. 22; sulla vicina facciata (fig.
53) del Palazzo Romaldi, al n. 23.
Lì accanto, al n° 17, uno stemma di piccole dimensioni (fig. 54) parla
del grande casato degli Orlandi, già presentato, provenienti da un Monte
d’Orlando, nelle alture tra Cagli ed Urbino, ma radicati a Corinaldo fin dalla
metà del Trecento: il palazzo è ancora oggi occupato dagli eredi. Lo stemma
è presente sul portale fin dagli anni Trenta, dove lo mostra una foto dell’archivio Carafòli, ma proviene dall’antico Palazzo Orlandi di Via del Velluto.
Entro il rosso cerchio delle mura
153
49 – Stemma con il monogramma del nome di Gesù, in evidenza nel riquadro sul
portale di Palazzo Tarsi Marcolini, già Ottaviani, in Piazza Il Terreno n. 20.
154
Testimoni di Pietra
50/51/52/53 – Dall’alto a sinistra,
stemmi con il monogramma del nome
di Gesù, IHS, talvolta accompagnato
dall’iniziale del nome di Maria, presenti negli edifici:
ex Monastero delle Benedettine, ingresso da Via del Teatro n. 35, alla parete
del terrazzo di un appartamento all’ultimo piano;
abitazione di Via dei Santarelli n. 6;
Pa­lazzo già Ricci Rossi, Piazza Il Ter­
reno n. 22;
Palazzo già Romaldi, Piazza Il Terreno
n. 23.
L’emblema degli Orlandi è rappresentato a colori in molti esemplari, sotto
il ritratto degli illustri rappresentanti del casato, nelle sale del Palazzo
comunale (fig. 55). Imparentati con altri esponenti della nobiltà, i Romaldi, i
Duranti, i Pasqui, i Cesarini, i Brunori, i palazzi degli Orlandi si diffondono
nel tessuto urbano: il nome del casato compare nel fregio sopra il portale del
Entro il rosso cerchio delle mura
155
54/55 – Stemma di arenaria della nobile
famiglia Orlandi sopra il portale del palazzo, in Piazza Il Terreno n. 17; accanto,
lo stemma a colori sotto il ritratto ad olio
di Francesco Orlandi, nella Sala Grande
del Palazzo comunale.
Lo stemma, su campo azzurro, innalza tre
monti d’oro sormontati da una cometa
pendente in palo, fiancheggiata da due
archi di luna.
palazzo più antico, in Via del Velluto n. 44 (fig 56). L’an­tica struttura unitaria, attestata già per il 1530 nei catasti cittadini, è oggi parzialmente disabitata e smembrata in varie proprietà, ma resiste sul portale di corrosa arenaria
il nome di Ottavio Orlandi70. Sul fregio delle due finestre al primo piano,
contornate da eleganti volute, corre un motto in latino: Poiché conosciamo la potenza del suo aiuto, soltanto in esso speriamo (fig. 57).
L’attuale degrado della facciata non sminuisce la nobiltà dell’impianto
generale del complesso edificio. Il nome del proprietario, iscritto sopra
il portale, ci riporta ai primi decenni del Cinquecento, ma la costruzione
dell’edificio è sicuramente anteriore, come si vedrà: Ottavio Orlandi compare nell’albero genealogico come figlio di Raimondo di Luca e padre del
capitano Mario e del capitano Silvio, zio di Panfilo Orlandi, di cui si ha
documentazione per il 1544 tra i membri del Consiglio e che combattè per
156
Testimoni di Pietra
56/57 – Portale di
arenaria dell’antico
Palazzo Or­l andi,
in Via del Velluto
n. 44; sul fregio
dell’architrave è
inciso il nome di
Otta­vio Orlandi; sul
fregio delle due
finestre al primo
piano corrono rispettivamente le
scritte:
Quia novimus auxi­
lium In eo tantum
speramus
Entro il rosso cerchio delle mura
157
Francesco I di Francia contro l’imperatore Carlo V: il documento genealogico manoscritto è conservato, come si è detto, nell’archivio dei Brunori,
legati da parentela agli Orlandi; una parte dell’edificio di Via del Velluto è
passata nella proprietà di Elena Brunori ed apre ora un ingresso in via Mura
del Bar­gello, n. 6; un recente restauro ha restituito al palazzetto caratteri di
sobria signorilità.
Nell’inferriata del portale sono presenti lo stemma gentilizio (fig. 58) e le
iniziali di Elena Brunori, moglie di Vito De Angelis Corvi di Ascoli Piceno;
l’emblema del casato ascolano è visibile in due formelle di ceramica apposte
sulla facciata del palazzo, attualmente detenuto dal figlio Stanislao. Agli
inizi del Settecento vi dimorava il canonico don Felice Brunoro Brunori
(ri­cordato tra i benefattori delle Opere Pie in una lapide dell’Ospedale già
presentata) che, per raggiungere il suo seggio nel bel coro ligneo della vicina
chiesa di San Francesco, si era a poco a poco aperto un piccolo varco nelle
mu­ra cittadine prospicienti, scendendo all’esterno lungo il pendio di terra
allora addossato ad esse. Nel secondo dopoguerra i Brunori, grandi proprietari terrieri, avevano assegnato l’abitazione al “fattore di città”.
Lo stemma di pietra dei Brunori compare nella tomba di famiglia:
all’esterno accanto a quello dei Querenghi con loro imparentati e, all’interno,
in mosaico a colori, inquartato con gli stemmi degli Ottaviani Vigilini Fata,
sulla tomba del giovane sottotenente Giovanni Brunori, morto durante la
Prima guerra mondiale (fig. 60). I simboli presenti nello stemma dei Brunori
sono meglio visibili nello scudo affrescato nella volta dello scalone dell’ex
proprietà Brunori, ora Oasi S. Maria Goretti, in Piazza del Cassero n. 3 (fig.
59): il profilo di un volto dal colorito bruno, posto nella sua maestà, ricorda
la provenienza della famiglia dall’Armenia; la sua definitiva collocazione
tra la nobiltà di Corinaldo, attestata dai documenti manoscritti di famiglia e
dalle rassegne di Brunetti e di Cimarelli, si pone circa alla metà del Quat­tro­
cento provenendo da Montesecco dove questa famiglia de scuri fù denominata
de Brunori e per migliorar paese o altra cagione a Corinaldo fece passaggio.
Il legame tra le famiglie Brunori e Orlandi, con la conseguente trasmissione e suddivisione del patrimonio edilizio, è avvenuto attraverso vincoli
matrimoniali che, nel ramo principale, risalgono alla prima metà del Cin­
quecento, al momento dell’unione tra Malagige Brunori e Cleopatra Orlan­
di; seguono i matrimoni tra Agostino, contemporaneo di Ottavio Orlandi, e
Andromeda; tra Paolo e Maria Lucia ai primi del Settecento e, alla fine di
quel secolo, tra Domenico Brunori e Tecla Orlandi che risiedettero nel palazzo Brunori di Via del Corso, attualmente acquisito dalla Banca di Credito
158
Testimoni di Pietra
58/59 – Stemma dei conti
Brunori nell’inferriata del
portale del palazzetto, in
via Mura del Bargello n. 6;
accanto, lo stemma a colori
affrescato nella volta dello
scalone dell’attuale “Oasi
S. Maria Goretti”, già proprietà Brunori, in Piazza del
Cassero n. 3.
Lo stemma innalza in campo
azzurro il viso di un moro sor­
montato da una fascia d’oro
orizzontale e al di sopra di
essa tre comete digradanti in
palo.
Entro il rosso cerchio delle mura
159
Cooperativo, già Cassa Rurale ed
Artigiana.
Testimonianze epigrafiche su
alcuni componenti della famiglia
sono ri­scontrabili in una delle già
note lapidi dell’Ospedale: nell’elenco dei nove benefattori delle Opere
Pie, ben cinque personaggi appartengono alla famiglia Bru­nori, dal
1718 al 1870 (fig. 22).
La cortese disponibilità di
Stanislao de Angelis Corvi ci ha
per­messo di documentare due inediti emblemi di pietra della famiglia Orlandi, trovati all’interno del
palazzo di via Mura del Bargello
durante la ristrutturazione da lui
stesso voluta. Dei due stemmi, uno
60 – Lo stemma della nobile famiglia
è inserito in un frammento di pietra
Brunori Ottaviani Vigilini Fata effigiato
(fig. 61) appartenente ad un archiin mosaico e argento sul sarcofago di
trave ormai smem­­brato; il secondo
Giovanni Brunori, nella tomba gentilizia
è invece an­co­ra ben conservato nell’
al cimitero di Corinaldo.
architrave di un elegante e completo portale di pietra arenaria (figg.
62 e 63), attualmente in re­stauro
ad ope­ra del proprietario. Ma il ma­nufatto più straordinario per ricchezza
di messaggi e raffinatezza di esecuzione è certo il pozzo ottagonale (fig. 64)
di un riposto cortile interno: il recente accurato restauro gli ha restituito la
nobiltà originaria.
è costituito da una base ed un bordo superiore di pietra, tra i quali sono
disposte otto lastre, scandite da altrettante colonnine tortili. Dalla parte da
cui si attingeva l’acqua, la continua usura prodotta dalle corde dei secchi ha
consunto parzialmente i rilievi delle lastre e di due colonnine, ma gli altri
sei specchi mantengono ben visibili le raffigurazioni, certo legate a precise
simbologie.
Esaminate, come sicuramente meritano, da uno storico dell’arte, le belle
pietre sapranno raccontare la loro antica storia e testimoniare le relazioni
160
Testimoni di Pietra
61 – Frammento di pietra arenaria 13x30x4,5
con lo stemma della
famiglia Orlandi, recuperato durante il
restauro del palazzetto
Brunori, in via Mura
del Bar­gello n. 6.
62/63 – Portale di pietra arenaria recuperato all’interno del palazzetto Brunori; accanto,
il particolare dello stemma Orlandi al centro dell’architrave 132x18.
Entro il rosso cerchio delle mura
161
con la vita della città, le ideologie del tempo, i rapporti con le dinastie dominanti: una delle lastre presenta infatti i simboli dei Della Rovere, riconosciuti
dal proprietario. Per tutta la durata della dinastia, frequenti furono i legami
tra i Della Rovere e le famiglie nobili corinaldesi i cui membri furono alla
loro corte in qualità di Consiglieri, e Conduttori in guerra, Giudici e Governatori
dei popoli in pace, come attesta Cimarelli; una documentazione precisa e più
domestica ci è fornita dall’attestato di nascita di Giuseppe Brunori, avvenuta il giorno 8 giugno 1589, stilato di pugno dal padre Alessandro, in cui
egli dichiara che “detto mio figliolo fu battizzato alli XI del detto mese, e
li tenne à battesimo Madama Serenissima e Monsignor Illustrissimo della
Rovere” che erano al tempo Francesco Maria II e Lucrezia d’Este, dei quali
il Brunori era familiare71.
Ci limitiamo a presentare qui una sola delle raffigurazioni del pozzo,
quella che ci sembra la pietra testimone dei secoli che stiamo illustrando:
uno scudo con al centro due chiavi decussate, sormontate dalla tiara papale
(fig. 65). è possibile leggere in questo inedito documento due messaggi:
la volontà di celebrare, sulla resistenza della pietra, l’avvenuta donazione
delle chiavi alla nostra città, fatta da Nicolò V il 19 gennaio 1452, e insieme
il segno del legame con la Santa Sede che Corinaldo rinnovò in quegli anni,
certo sorretto e condiviso dall’assenso della nobiltà locale.
Questa interpretazione secondo Stanislao De Angelis Corvi, è avvalorata
da quanto riportato nel primo manoscritto Brunori nel quale viene riferita
la donazione spontanea della Comunità di Corinaldo alla Santa Sede; così
come vien fatto anche da Cimarelli, che dedica all’avvenimento e alla trascrizione dei patti e delle convenzioni tutto il capitolo dodicesimo del libro
III. Il ricordo dell’evento sicuramente recente, sigillato sulla pietra, conferma
l’erezione del Palazzo Orlandi almeno nella prima metà del Quattrocento;
nella recente ristrutturazione del resto, sono state riordinate strutture quattrocentesche, riconoscibili soprattutto negli architravi del tetto.
La lastra del pozzo ci consegna anche un simbolo, la tiara papale, che
invano abbiamo cercato in altri documenti di pietra; nessuno stemma dei
tanti pontefici che hanno avuto relazione con Corinaldo è più presente
nella città (se lo è mai stato), e soltanto l’effigie di un papa moderno resta
tra noi: il mezzo busto di Pio XII che guarda compiaciuto, nell’atrio davanti
al battistero di San Francesco, il piccolo monumento a Maria Goretti, da lui
proclamata santa nel 1950.
162
Testimoni di Pietra
64 – Pozzo ottagonale di pietra arenaria nel cortile interno del palazzetto
Brunori: diametro cm 112 all’imboccatura, larghezza del bordo superiore cm
20; le otto lastre 75x35 di rivestimento
del vano verticale, sono intervallate
da colonnine tortili, di cui due parzialmente erose; specchi riccamente
decorati con raffigurazioni simboliche, tranne due pressoché spianati
dall’usura.
65 – Una lastra di rivestimento del pozzo, con la raffigurazione di due chiavi
decussate racchiuse entro uno scudo,
sormontate dalla tiara papale.
Entro il rosso cerchio delle mura
163
Altri stemmi sussistono
sugli edifici del lato settentrionale de Il Terreno: se sul
portone al n. 6 è comparso,
dopo la recente ristrutturazione, uno stemma voluto
dal proprietario ma estraneo
alla storia corinaldese (fig. 66),
nell’imponente palazzo al n°
4, al centro del portale è visibile l’emblema dei Maz­zoleni,
sormontato da un cappello
prelatizio (fig. 67): lo stemma
66 – Uno stemma recentemente inserito sul porè riprodotto a colori, privo del
tone al n. 6 di Piazza Il Terreno, proveniente da
cappello, in un affresco al cenlocalità estranea alla storia di Corinaldo.
tro del soffitto, nella camera
conosciuta dai residenti come
“la stanza del prelato”, dove è
ben visibile il braccio rivestito
da corazza che regge la mazza (fig. 68).
I rappresentanti della fa­mi­glia Mazzoleni, originari di Bergamo e presenti a Cori­naldo nella persona del cavalier Malagigi Maz­zoleni fin dal secolo
XV, come registra il manoscritto Brunori, ricorrono in numerosi documenti,
che testimoniano la loro partecipazione alla vita cittadina: per restringerci ai
settori trattati nella presente ricerca, dei quali è già stata data la bibliografia,
ricordiamo che nel Cinquecento è presente nel convento di San Francesco il
Padre Maestro Sante; Claudio Ridolfi fu molto appoggiato ai suoi tempi da
membri di quella famiglia; Giuseppe Maria ebbe funzione di Ufficiale del
Monte di Pietà agli inizi del Settecento e il suo contemporaneo Gian Orazio
fu Arciprete di San Pietro e curò la parziale ristrutturazione della chiesa e
del campanile.
Tra le testimonianze epigrafiche, il loro nome compare nelle lapidi già
descritte del­l’Ospe­dale: Bernardino Maz­zoleni, marito di Maria Lavinia
Brunori, nel suo testamento del 1665, lasciò ai poveri le rendite di un podere che diede vita in seguito ad una “Opera Pia”. I membri della famiglia
Mazzoleni compaiono nell’albero genealogico ricostruito da Arnaldo Ciani,
figlio di Clito­fonte e di Rosa Madalena Maz­zoleni, che abitò nel palazzo
al Terreno con sua moglie Edvige Orlandi, egli redasse il documento nel
164
Testimoni di Pietra
67 – Il portale di Palazzo Mazzoleni, in Piazza Il Terreno n. 4, con lo stemma della
nobile famiglia sul concio di volta, visibile nel riquadro.
Entro il rosso cerchio delle mura
1928, in base alla consultazione dell’Archivio parrocchiale,
potendo risalire naturalmente solo ai primi del Seicento;
il foglio manoscritto, attualmente conservato nell’archivio degli eredi Paolini, riporta
solo le date dei più antichi
rappresentanti della famiglia, Pier Andrea Maz­zoleni e
An­tonia Fata, il pri­mo morto
nel 1606, e si conclude con la
generazione contemporanea
di Arnaldo, mor­to nel 1940.
La coppia Arnaldo Ciani
ed Edvige Orlandi, non avendo avuto figli, ha lasciato il
nome e il palazzo in eredità
alla figlia adottiva Ea Lenci
Ciani coniugata Paolini, che
lo ha ristrutturato per sé e per
i figli i quali attualmente lo
abitano, dopo la di lei morte
avvenuta nel 1998.
165
68 – Lo stemma dei Mazzoleni affrescato al
soffitto di una stanza del piano nobile del
palazzo, in Piazza Il Terreno n. 4.
Stemma d’azzurro alla fascia alzata d’argento
abbassato in punta; uscente dal fianco sinistro
dello scudo un destrocherio corazzato armato
di mazza, attributo di valente guerriero.
Nessuno invece ha ancora posto mano al restauro del più imponente edificio del Terreno, il rinascimentale pa­lazzo dei Romaldi, costruito nei primi
decenni del Cin­quecento: la Soprinten­den­za regionale per i Beni Ambien­tali
e Architettonici dichiara che il palazzo riveste notevole interesse storicoartistico ed è da ritenersi inserito negli elenchi degli Enti descritti nell’art.4
della legge n. 1089/3972.
Confluito nei beni del conte Giacomo Cesarini Romaldi, è stato da questi
assegnato in eredità, come si è detto, alla Congregazione di Carità, oggi
Isti­tuti Riuniti di Beneficenza. Anche per questo Ente il restauro è risultato
troppo oneroso, così che l’immobile è stato prima offerto all’asta pubblica
e in seguito, risultata essa deserta, è stato venduto nel 1998 ad un privato
residente a Bologna73. Dopo l’acquisto tuttavia il proprietario non ha proceduto ad alcuna sistemazione e l’edificio penosamente mostra i segni di un
166
Testimoni di Pietra
69 – Due stemmi inseriti nella cancellata di accesso alla Villa Cesarini, in Via del
Montale; i simboli araldici sono ottenuti dal traforo delle lastre di ferro. La descrizione è ricavata dagli stemmi dipinti al centro di un soffitto a cassettoni, ora perduto,
all’interno della villa.
A sinistra, stemma della nobile famiglia Cesarini Romaldi: partito nel primo d’azzurro
alla fascia d’ argento accompagnata in capo dalla mezzaluna crescente d’argento sor­
montata da una cometa d’oro ondeggiante in banda, ed in punta da un uccello coronato
movente da un monte di tre cime il tutto d’oro; nel secondo di verde alla banda scaccata
di rosso e d’argento di due file. A destra, stemma della famiglia Duranti: di azzurro
accompagnato in capo da una cometa d’oro posta sopra un monte di tre cime pure al
naturale con la torre sormontata da tre stelle e da un lambello.
immeritato declino. Nella fascia decorata del sottotetto è oggi a stento visibile la scacchiera di colore bianco e rosso (fig. 46, cap. I) presente nello stemma
dei Romaldi; le finestre sono ornate da decorazioni figurate di arenaria, le
fondamenta inglobano, come si è detto, i resti dell’antico cassero.
I legami matrimoniali tra vari casati nobiliari hanno modificato gli
emblemi dei Romaldi, che in altri esemplari si presentano partiti o inquartati: nella cancellata di ferro della villa di campagna al Montale e nella tomba
gentilizia, gli scudi raccolgono insieme i simboli dei casati dei Cesarini, dei
Duranti e dei Romaldi (fig. 69).
Mal conservato ma ancora assai notevole per i caratteri signorili della
facciata e le proporzioni armoniose delle finestre, il palazzo della nobile
famiglia Amati è oggi disabitato, benché si trovi lungo la principale Via
Entro il rosso cerchio delle mura
del Corso, al n 44. La proprietà fu smembrata durante
la seconda guerra mondiale
e l’ erede diretta, figlia di
Elde Amati, ne possiede solo
alcune stanze. Lo stemma di
famiglia è ancora visibile nei
fregi di alcune finestre sia
della facciata principale (fig.
70) sia di quella po­steriore, in
Vicolo degli Amati. Le gesta
degli antenati ci sono consegnate dalle nar­razioni di
Ci­marelli, che descrive molti
illustri personaggi appartenuti al­l’an­tica famiglia, tra i
quali alcuni particolarmente
benemeriti per la storia corinaldese, ri­tratti con il loro
stemma a colori nella Sala
Grande del palazzo comunale (fig. 71); l’albero genealogico e le vi­cende del casato fino
al se­colo scorso, sono ampiamente presentati nel citato
studio di Francesca Pon­getti.
Mancano ormai lungo
Via del Corso gli stemmi
sulla dimora dei Cesarini, ai
nu­meri 59 e 61, e su quella
dei Brunori, divenuta sede di
un istituto di credito, come
si è detto: tra i due grandi
palazzi, un edificio più basso
presenta sui conci di volta il
monogramma del nome di
Ge­sù e le iniziali di Maria.
Anche il palazzetto Ciani
167
70 – Palazzo della nobile famiglia Amati, in
Via del Corso n. 44: nel fregio delle finestre è
raffigurato lo stemma di famiglia, visibile nel
riquadro.
71 – Lo stemma della famiglia Amati raffigurato
a colori sotto il ritratto di Aloysius Amati, nella
Sala Grande del Palazzo comunale.
Lo stemma innalza in campo azzurro una croce
d’oro che lo divide in quattro quarti, nei due supe­
riori vi sono tre stelle per ogni quarto ed in ognu­
no dei quarti inferiori tre monti d’oro sormontati
da un albero carico di frutti rossi.
168
Testimoni di Pietra
al n. 31, ha rinnovato alla fine dell’Ottocento la facciata: la data 1880 è iscritta sul fregio di pietra di una finestra al primo piano. Nella ricostruzione è
stato evidentemente smembrato il precedente portale che esibiva uno stemma: ne restano due frammenti, una lastra di arenaria murata nella facciata di
ponente, in Via Landroni, ed una conservata all’interno dell’abitazione dagli
eredi, la famiglia del già citato archivista di Corinaldo Efrem Rossi: la proprietà di Adele Ciani, figlia di Vincenzo e di Dirce Cesarini e sposa di Carlo
Rossi, figlio di Efrem, venne trasmessa infatti a quest’ultima famiglia.
La cortese disponibilità di Mariella Marinelli, moglie del figlio di
Carlo Rossi, Gian­franco, ci permette di presentare questo emblema ormai
sconosciuto. La famiglia Ciani proveniva dalla Toscana, secondo le fonti
riferite da Pongetti e da Daniele Ciani, autore di un opuscolo sulla storia
familiare74; fu aggregata solo nel 1667 al Consiglio di Corinaldo, dove siede
in quell’anno al IV grado Lorenzo Ciani: non poteva pertanto esibire un
emblema nobiliare fin dal 1643, l’anno inciso nello stemma di Via Lan­droni;
è da escludere perciò che lo stemma ritrovato in casa Rossi sia appartenuto
ai Ciani. Ricor­diamo invece che un palazzo dei Ciani sorgeva vicino al citato Palazzo Sandreani, ma era già caduto in rovina alla fine dell’Ot­tocento,
come testimonia Francesco Turris nelle citate memorie su Cori­nal­do. Lo
stemma dei Ciani, una colomba posata su di un grappolo d’uva e sormontata da una stella cometa, è noto solo in documentazione cartacea, mancano
documenti di pietra. L’unica testimonianza epigrafica della famiglia si registra nelle lapidi già presentate dell’Ospedale dove, tra i benefattori della
Con­gre­gazione di Carità, compare il nome di Giuseppe Ciani, che lasciò un
fondo rustico.
La lastra di arenaria (fig. 72) di Via Landroni, presenta l’elegante figura
di un levriero ritto, cinto al collo da un collare, simbolo di fedeltà e dedizione, che leva la zampa destra appoggiandola a un oggetto non più visibile;
tale oggetto tuttavia è ricostruibile attraverso il secondo frammento, che
presenta la stessa immagine del cane - in figura di “tenente” -, che appoggia
pe­rò la zampa ad uno scudo in cui è inserito l’emblema: sopra tre colli un
braccio destro uscente dal fianco sinistro dello scudo, sostiene un giglio
affiancato da una stella di sei raggi (fig. 73).
Interessante la data riportata accanto al levriero, 1643: essa ci riporta al
periodo dell’erezione dei palazzi nobiliari lungo l’asse del nuovo ampliamento della città verso sud ovest, costruzioni che si addossarono addirittura
sopra alcuni tratti delle mura cittadine: il nome di “landroni”, corruzione
popolare di “androni”, ha origine appunto dal corridoio coperto che si
Entro il rosso cerchio delle mura
169
72 – Frammento di arenaria 17x30 murato in Via
Landroni n. 4: vi è raffigurato un cane levriero
con collare, in funzione di
tenente; in alto a destra è
incisa la data 1643.
73 – Lastra di arenaria
in frammento 17x23x4,5,
all’interno dell’abitazione
di Via del Corso n. 31, con
la raffigurazione di uno
stemma non identificato.
Stemma antico sorretto
da un cane (tenente). Pro­
ba­bilmente d’azzurro al
destrocherio vestito di
rosso uscente dal fianco
sinistro dello scudo, tenen­
te un giglio d’oro posto in
palo affiancato da una stel­
la di sei raggi.
venne a creare, per disposizione comunale, al di sotto dei palazzi e che permetteva di percorrere comunque il cammino di ronda, precedentemente a
cielo scoperto.
Sulla stessa Via del Corso, sul palazzo al numero 64, è recentemente
ri­comparsa, ad opera del proprietario principale Romolo Bettini, la scritta
latina purtroppo in frammento (fig. 74), presente in antico sul fregio del
portale: Sopporta e astieniti (dalla vendetta, dal ricambiare il male). La
ricostruzione del motto latino è possibile sulla base del confronto con altre
simili scritte, note in altri contesti.
Il portale, completo di due ornamenti floreali di stile rinascimentale,
compare in una fotografia scattata nel 1963 da Mario Carafòli, comproprietario del palazzo, prima di un restauro che ne ha smembrato la struttura,
insieme con il fregio
170
Testimoni di Pietra
All’interno del palazzo, insieme con altre “maraviglie”, è presente in una
sala al primo piano, su un camino monumentale, uno stemma raffigurante
una palma piantata su sei colli e sormontata da tre stelle.
L’acuta intuizione di Stanislao De Angelis Corvi, esperto anche delle
genealogie corinaldesi, ha permesso di individuare la famiglia di cui la
palma rappresenta l’emblema: il palazzo è appartenuto nella seconda metà
dell’Ottocento alle famiglie Marangoni di Saludecio e Cesarini, imparentate
tra loro attraverso matrimoni, ma non rappresentate da questo stemma.
Il corinaldese Luca Cesarini Romaldi sposa nel 1876 Leandra Marangoni,
fi­glia di Alfonso da Saludecio; sono ancora presenti a Corinaldo i discendenti di questo ramo della famiglia Cesarini. Nei primi anni dell’Ottocento
Ulderico Marangoni aveva sposato la corinaldese Sofia Brunori, che ebbe in
dote il palazzo.
Lo stemma del camino (fig. 75) testimonia invece la residenza nella bella
dimora di famiglie precedenti e si deve considerare uno “stemma parlante”:
infatti è stato scelto dal 1599 come simbolo dalla famiglia Palma di Urbino,
anch’essa im­parentata con i nobili di Corinaldo. Nelle citate notizie di F.
Saverio Brunetti sulle famiglie nobili della nostra città, si attesta che Maria
Leonora Orlandi fu sposata al conte Eustachio Palma nobile di Urbino; che
Giustina Ottaviani (in realtà Sandreani, come risulta dagli alberi genealogici
Orlandi Brunori) fu moglie del conte Aurelio Còrboli Brunori di Urbino e
”hanno avuto in sua Casa e date Donne agli Orlandi, Brunori, Sandreani di
Co­rinaldo, alli Conti Palma…”; Girolamo Còrboli sposa nel 1604 Vittoria
Bru­nori, da cui il citato Aurelio; successivi e ripetuti matrimoni, documentati
negli alberi genealogici citati, legano i nobili urbinati Còrboli e Palma con i
Brunori.
A conferma, abbiamo consultato la ricca documentazione di Franco
Mazzini sui muri e le pietre di Urbino, e abbiamo riscontrato che lo stemma
della famiglia Palma, sulla facciata dell’omonimo Palazzo in via Valbona n.
34 ad Urbino, corrisponde a quello di Corinaldo75.
Il testimone di pietra ci permette di avvalorare l’ipotesi, già ben radicata
in De Angelis Corvi, che il palazzo corinaldese dove è ancora presente l’emblema dei Palma sia appartenuto nei secoli scorsi anche ai Brunori, e che proprio in esso siano stati ospitati tanti illustri personaggi in visita a Cori­naldo,
attirati dalla magnifica ospitalità di un nobile in particolare, il canonico Pier
Luigi Brunori, arciprete della Collegiata di San Francesco dal 1646, Vicario
vescovile della Diocesi di Senigallia, morto nel 1665. L’orazione funebre fu
scritta per lui, non a caso, dal marchese Aurelio Còrboli Brunori, Conte di
Entro il rosso cerchio delle mura
171
74 – Frammento di
epigrafe di calcare
26x65x8 alla scala
esterna di accesso al
Palazzo già Maran­
goni, in Via del Corso
n. 64; la lastra proviene dal fregio dell’antico portale.
[S]ustine et a[bstine]
75 – Stemma di marmo (in evidenza nel riquadro)
della nobile famiglia Palma sul coronamento del
camino in una sala a pianterreno del Palazzo già
Marangoni, Via del Corso n. 64.
D’azzurro alla palma al naturale sulla cima di un
monte di verde di sei pezzi, alla fascia d’oro accom­
pagnato in capo da tre stelle dello stesso.
Montefiore, abitante a Corinaldo, e recitata dal di lui figlio Pom­pilio in San
Francesco, il 10 ottobre 1665: l’oratore sottolinea che nel palazzo del canonico
defunto“sono stati alloggiati, serviti con lautezza e splendidezza superiore
allo stato privato tanti illustrissimi signori Cardinali della Marca e tanti altri
prelati e signori…”; tra essi vengono ospitati, per il solo motivo di onorare
con la loro presenza la casa dell’arciprete, “l’Eminen­tissimo signor Cardinal
(Antonio) Bichi Legato di Urbino, nepote del Gran Pontefice Alle­sandro
172
Testimoni di Pietra
(VII)… e il Cardinal (Cesare) Fachinetti che vi ha dimorato le staggioni intiere tiratovi da comodità dell’abitazione del Signor Arciprete”.
L’orazione funebre manoscritta, reperita da Stanislao De Angelis Corvi
nel­l’Ar­chivio Pianetti conservato nella Biblioteca comunale di Jesi, è ritenuta fantasiosa dalla curatrice dell’inventario, ma risultata invece precisa in
tutte le sue parti, che sono documentate in altri testi degli archivi Brunori
e dell’Archivio parrocchiale di Corinaldo: il documento fornisce una storia
dettagliata non solo della famiglia Brunori, ma anche degli altri nobili con
loro imparentati, degli ospiti illustri soggiornanti a Corinaldo e, sullo sfondo, dei modi di vita e dei valori dell’epoca76.
La ricchezza di rapporti e la circolazione di personaggi illustri - per tutti
ricordiamo San Carlo Borromeo ospite della famiglia Brunori nell’agosto
1579 - tra Corinaldo e le corti del tempo, dalle quali era possibile ottenere
incarichi e titoli nobiliari, giustifica la presenza di altri stemmi di pietra
non attribuibili al patriziato corinaldese più noto, segnalati all’interno di
dimore patrizie, ma anche di abitazioni oggi di carattere più popolare: ne è
esempio il bello stemma dai caratteri rinascimentali sul fregio di pietra del
camino (fig. 76), nell’ampia sala di una casa corinaldese, ancora signorile
nonostante il degrado, in Via dei Clementi n. 14: non ci è stato possibile
attribuire l’emblema a qualche casato, nonostante la richiesta di aiuto indirizzata agli esperti, ma certo la presenza di un manufatto di tanto pregio
sorprende; per di più nella stessa abitazione, all’interno del portone, vicino
ad un antico pozzo di laterizio ancora utilizzato negli ultimi decenni ma ora
distrutto, è appoggiato un grande mortaio di pietra bocciardata, riutilizzato
come bacile per l’acqua del pozzo (fig. 77) e pertanto munito di un foro nella
parte inferiore. Sulla faccia anteriore è lavorato sulla pietra uno stemma
vescovile assai pregevole rappresentante un’aquila a volo abbassato, scaccata, probabilmente di color giallo e nero, i colori imperiali. Se nessuno finora
ha saputo fornire notizie storiche o araldiche sui due manufatti, di essi si
sono interessate parecchie persone, per acquistarli e trasferirli nelle proprie
case: li veglia però con grande fermezza l’anziana padrona di casa Esterina
Tomani Baci, rispettosa della volontà del defunto marito, un modesto operaio che le aveva raccomandato di non venderli. Alla fedeltà della famiglia
Tomani Baci, a cui siamo grati, si deve dunque la presenza a Corinaldo dei
due artistici testimoni di un nobile passato.
Un altro stemma vescovile (fig. 78) si presenta a chi esca dalla città e
scen­da lungo Via della Murata, la strada di collegamento al fondovalle, così
Entro il rosso cerchio delle mura
173
76 – Stemma non identificato (in evidenza nel riquadro) al centro dell’architrave di pietra del camino, in una
stanza al piano terra dell’abitazione
di Via dei Clementi n. 14.
Non si può definire il colore del campo,
probabilmente di rosso, al capriolo
ac­com­pagnato da tre stelle, due in
capo e una in punta, probabilmente
d’argento.
denominata perché, in prossimità del fiume Nevola, conservava i resti di una
costruzione, forse un posto di guardia, certo un notevole manufatto in muratura a ridosso di un ponte che collegava Corinaldo all’Oltrenevola, verso
Ostra Vetere ed Ostra: la nostra ricognizione personale per documentare il
manufatto ai lettori, ci ha messo di fronte ad un pilastro mozzato in laterizio,
completamente ricoperto dai rovi e identificato solo grazie alla memoria
storica di chi ci ha accompagnati fin là. L’area, un tempo assai importante
per i collegamenti viari, è stata oggi destinata all’edilizia industriale, e tutto
il paesaggio ne è risultato sconvolto: resta il ricordo dell’antico e sicuro
attraversamento del fiume nel nome della via che vi conduceva, e nella
denominazione di antiche località disposte lungo la media valle del Nevola,
alle quali veniva aggiunta l’indicazione “di Casamurata”: ricordiamo San
Paterniano e Sant’Andrea “di Casamurata” e la “selva di Casamu­rata”, registrata nei catasti rustici di Corinaldo del 1452 e del 1580.
Lungo Via della Murata appunto, poco fuori del paese, sulla facciata
rivolta alla strada di una villa al numero 10, è ben visibile, nonostante l’ac-
174
Testimoni di Pietra
77 – Mortaio di pietra,
riutilizzato come bacile
da pozzo, nel vano di
ingresso dell’abitazione in Via dei Clementi
n. 14, dove era presente
un pozzo ora distrutto; sulla faccia anteriore è rappresentato in
rilievo l’emblema non
identificato.
Stemma vescovile rap­
presentante un’aquila a
volo abbassato, scacca­
ta, probabilmente nera,
di giallo e di nero (colori
imperiali).
78 – Stemma non
identificato, sul muro rivolto alla strada
dell’abitazione di Via
della Murata n. 11.
Stemma vescovile, al
cin­golo armato di gigli,
probabilmente simbolo
di una confraternita o di
un ordine cavalleresco.
curata copertura di pittura murale, uno stemma sormontato da cappello
vescovile da cui pendono cordone e mappi: al centro, un cingolo armato
di gigli, interpretato dagli esperti come simbolo di una confraternita o di
un ordine cavalleresco, pone interrogativi al passante curioso. Inseriamo
nell’elenco degli stemmi non ancora attribuiti anche la bella pietra proveniente da Villa Cesarini, presentata nel precedente capitolo, portatrice di
segni araldici di grande nobiltà (fig. 79).
La segnalazione degli stemmi potrà offrire agli studiosi materia per la
loro identificazione: una fonte di ricerca ancora da sondare, che potreb-
Entro il rosso cerchio delle mura
175
79 – Stemma non identificato 26x19,5x1,5 in rilievo su una lastra di arenaria 31x45x8,
in deposito nei locali della “Sala del costume”, Largo XVII Settembre 1860.
Stemma antico e probabilmente di consolidata nobiltà. In capo all’arme compare lo stem­
ma antico del Regno di Francia “d’azzurro seminato di gigli d’oro”. In punta compaiono
tre crescenti (uno montante e due rovesciati) simboleggianti la fortuna e la vittoria sui
Mori: forse d’argento. Sul fianco sinistro (destra per chi guarda) compaiono tre stelle di
sei raggi, forse d’oro, male ordinate, attributo e simbolo di chi aspira a cose superiori, ad
azioni sublimi.
be aprire altri capitoli sulla storia sociale del Seicento corinaldese, è data
dall’esame dei sigilli, e dunque degli stemmi, dei nobili corinaldesi nei
testamenti conservati negli Archivi di Stato.
una presenza popolare: i graffiti
Ci piace chiudere la rassegna delle testimonianze di questo secolo con la
presentazione di deboli voci popolari, affidate non alla costosa pietra ma
incise personalmente con un semplice stilo sul cotto, il materiale più disponibile tra la gente comune.
Sono in genere date, accompagnate da un semplice disegno ornamentale
o da una scritta: le abbiamo viste su un coppo da tetto, conservato nel palazzo ex Marangoni, in cui compare la data 1666 (fig. 80); in anfore da olio o
da vino smaltate, classico dono per le spose, su una delle quali è graffita la
176
Testimoni di Pietra
80 – Coppo con iscrizione graffita
in corsivo, all’interno del Palazzo
già Marangoni, in Via del Corso
n. 64.
Adì 18 di luglio 1666.
81 – Anfora da olio con la data
1668 e le iniziali G. R. graffite in
corsivo, nell’abitazione di Via del
Corso n. 31.
data 1668 (fig. 81), conservate nell’abitazione già nota di Via del Corso n. 31;
in un mattone estratto dalla muratura del Monastero delle benedettine, con
incisa la data 1650 (fig. 82).
Il messaggio più segreto ci è stato segnalato dal concittadino Giancarlo
Balducci in un luogo di incredibile suggestione, rimesso in luce e reso accessibile grazie alla volontà di recupero delle qualità architettoniche dei palazzi
Entro il rosso cerchio delle mura
177
82 – Mattone recuperato dalla muratura dell’ex Mona­
stero delle Bene­
det­tine, con incisa
la data 1650.
83 – Foro per l’approvvigionamento idrico della cisterna, nel cortile dell’ex Monastero
delle Benedettine, oggi Albergo Ristorante “I Tigli”, Via del Teatro n. 31.
cittadini del già noto Romolo Bettini: è in questo caso la grandissima cisterna di raccolta delle acque, riscoperta nella ristrutturazione del monastero
delle Benedettine (fig. 83).
Vuotato dell’acqua in eccesso, perché non più utilizzata, e dotato di uno
scolmatore che ne garantisce il naturale livello, l’anello della cisterna con al
centro l’apertura del pozzo, è ora fruibile dai cittadini e dagli avventori del
ristorante “I Tigli”per un insolito incontro a fior d’acqua.
178
Testimoni di Pietra
84 – Ex Monastero delle Benedettine: nel muro interno della cisterna di raccolta delle
acque è stata graffita la scritta in lettere maiuscole:
Io Maria Adelaide e donna Filippa fusimo qua giu del 1686
Lì sotto, un luogo di difficile accesso anche in tempo antico, si sono
av­venturate due donne che hanno voluto fissare la loro audace impresa con
una dichiarazione, incisa con una punta sullo scialbo del muro di contenimento: riflessa a stento dal limpido strato liquido, ai primi volonterosi che
si sono calati laggiù è apparsa l’antica scritta (fig. 84): Io Maria Adelaide e
donna Filippa fusimo qua giu del 1686.
Le ignare donne non sapevano, con il loro ingenuo e forse furtivo
attestato, di essere riuscite a rendere testimonianza storica di una fase di
avanzamento dell’imponente edificazione del monastero, non chiaramente
attestata ancora dalla documentazione d’archivio.
Con le loro parole ci congediamo dai lettori, per i limiti temporali concessi dai committenti alla stesura del nostro testo. Con lo scrupolo di non
aver chiarito e approfondito a sufficienza molti aspetti, con il desiderio di
dar voce anche alle pietre dei secoli più vicini a noi, che attendono il loro
turno per raccontarci di sé.
Entro il rosso cerchio delle mura
179
Note
1 Lo slogan “Antico colore del tempo” è stato ideato dal concittadino Fabio Ciceroni.
2 Deliberazione del Consiglio Comunale di Corinaldo n. 160 del 20.12.1977.
3 Tra le numerose pubblicazioni utilizziamo qui la recente sintesi di V. VILLANI, I
centri murati in età medievale, Provincia di Ancona, Sistema informativo territoriale, Settore
VII-Assetto del territorio e difesa del suolo, 2004; dello stesso vedi l’ampia trattazione
del periodo storico qui presentato in Serra de’ Conti. Origine ed evoluzione di un’autonomia
comunale-secoli X-XV, Comune di Serra de’ Conti, 1995.
4 Vedi VILLANI, I centri murati…, cit. , pag. 120.
5 Vedi GREGORINI, Studio delle pievi…, cit., pag. 871.
6 Vedi lo studio di E. BALDETTI, Aspetti topografico - storici dei toponimi medievali nelle
Valli del Misa e del Cesano, ed. Clueb, Bologna 1988.
7 Vedi Bibliotheca Sanctorum, Città Nuova Editrice, Roma 1969, XIII, pag.1244.
8 Vedi GREGORINI, Studio delle pievi…, cit., nell’ordine pagg. 861, 855, 863 per le
notizie sulle chiese di San Vito, di San Bartolo, di San Pietro de Arutio.
9 Le figurette, Scuola Elementare Statale “Santa Maria Goretti”, Corinaldo, classi quinte,
coordinatori A. M. Frati, D. Maori, P. Scattolini, a. s. 1999/2000, progetto “La scuola adotta
un monumento”. Per completezza di documentazione indichiamo un’altra edicola sacra
eretta in onore del Sacro Cuore di Gesù, al trivio Via Corinaldese – Via delle Ville – Strada
per Montalboddo, in occasione del Giubileo 2000, dopo la pubblicazione dell’opuscolo da
parte della Scuola elementare.
10 Chiesa di San Francesco. Corinaldo, Parrocchia San Pietro Apostolo - Scuola Media
Statale “Guido degli Sforza”, classe II–III B, coordinatore prof. M. Ferroni, aa. ss. 1996/1997
e 1997/1998, progetto ”La scuola adotta un monumento”.
11 Vedi V. VILLANI, Signori e Comuni nel Medioevo marchigiano. I Conti di Buscareto,
Deputazione di Storia Patria per le Marche, Ancona 1992, pagg. 243-245.
12 E. GREGORINI, La distruzione del castello di Corinaldo nel 1360, Cassa Rurale ed
Artigiana di Corinaldo, Corinaldo 1987, pag. 58.
13 Vedi GIORGI, Suasa…, cit., (1981) , pag. 123 e pag. 179. Giorgi nel 1952 legge e
trascrive: ANO D. MCCXL. HOC OP/US... FACIEBAT.
14 S. LENCI, L’evoluzione storica della cerchia muraria in La Fortificazione di Corinaldo,
Atti del Convegno su Francesco di Giorgio nel 550° Anniversario della nascita, Corinaldo
2.3 settembre 1989, a cura di F. Mariano, Centro Studi Domenico Grandi, Edizioni
Quat­troventi, Urbino 1991, pag. 121.
15 Vedi GREGORINI, Studio delle pievi..., cit., pag. 958.
16 Vedi Archivio Comunale di Corinaldo, Culto ed oggetti di religione dal 1809 al 1812,
fascicolo 15, al titolo Elenco delle chiese esistenti nel Comune di Corinaldo e suo circondario;
inoltre Archivio Vescovile di Senigallia, Carteggi di Sacra Visita, 1826-1842.
17 E. MONTESI - G. VOLPE, Corinaldo, collana “Le mura delle Marche”, Editrice For­
tuna, Fano 1999.
18 Vedi F. MARIANO, La Fortificazione di Corinaldo e l’Architettura militare del ‘400 nelle
Marche in La Fortificazione…, cit., pag. 29.
19 La distinzione nella denominazione delle due porte è presentata da Lenci, L ’evolu­
zione…, cit., pag. 121.
20 Dizionario di abbreviature latine ed italiane per cura di A. Cappelli, Hoepli, Milano,
ristampa 1987, pag. 251.
21 La testimonianza ci è stata resa da Gerolamo Patrignani senza sostegno di documenti scritti.
180
Testimoni di Pietra
22 Il sonetto compare a pag. 6 delle Istorie di Cimarelli, insieme con altri numerosi
componimenti poetici ed attestati di elogio all’autore.
23 E. GREGORINI, Politica e società nel castello di Corinaldo nel XV secolo, in La Forti­
ficazione… cit., pag. 88.
24 Ci ha accompagnati nella ricognizione delle pietre da costruzione di Corinaldo il
geologo Rodolfo Coccioni dell’Università di Urbino, che qui cordialmente ringraziamo.
25 Vedi LENCI, L’evoluzione…, cit., pag. 131.
26 Vedi E. MONTESI, Elementi compositivi della struttura urbana, in La Fortificazione...,
cit., pag. 108.
27 Vedi MARIANO, La Fortificazione…, cit., pag. 14 e pag. 16.
28 GREGORINI, Politica e società…, cit., pag. 87.
29 Per i nomi dei due personaggi si vedano le osservazioni dell’archivista corinaldese Efrem Rossi (1861-1913) nel fascicolo ad uso del Consiglio comunale Il riordinamento
dell’antico archivio, Comune di Corinaldo, 1907, pag. 8.
30 MARIANO, La Fortificazione …, cit., pag. 20.
31 Vedi Delibera n. 30 del 22.11.1978 del Consiglio di Amministrazione degli II.RR.B.
di Corinaldo.
32 Vedi Delibera n. 51 del 6.7.1991 del Consiglio di Amministrazione degli II.RR.B. di
Corinaldo.
33 Ampie notizie sul Convento dei Francescani di Corinaldo sono riportate da G.
PARISCIANI, I frati minori conventuali nella Diocesi di Senigallia, in Senigallia…, cit., III, pagg.
852-854; dello stesso, I Frati Minori Conventuali nelle Marche (secoli XIII-XX), Falconara 1982 e I
Minori Conventuali nelle Marche nel 1535 in “Francescanesimo nelle Marche”, 2, Capo­darco
di Fermo 1990.
34 GIACOMINI, L’Archivio del Comune…, cit., pagg. 675-683; R. FIORANI, I Monti di
Pietà nella Diocesi di Senigallia, in Senigallia…, cit., III, pagg. 1122-1127.
35 Vedi R. FRANCIOLINI, Il Monte di pietà di Sassoferrato, in “Picenum Seraphicum”,
nuova serie, XVIII, 1999, pagg. 177-229; dello stesso per i riferimenti ai Monti di Pietà di
Arcevia, Osimo, Jesi, vedi I Monti di Pietà nella Marca centrale, in Monti di Pietà, finanza locale
e prestito ebraico nelle Marche in età moderna, Quaderni di Studi Storici, I, Centro Studi
Avellaniti.
36 Un approfondimento sul periodo storico è stato effettuato nella tesi di laurea di O.
PAGONI, Il I libro degli Statuti di Corinaldo del 1457, Università degli Studi di Urbino, a.a.
1980-81.
37 Il Breve di Pio VI compare in traduzione italiana nella citata Storia della Diocesi di
Senigallia, II, alle pagg. 886-888.
38 Ricordiamo sul piano locale il volumetto di M. CARAFOLI, Corinaldo. L’assedio del
1517, Cassa Rurale ed Artigiana, Corinaldo 1984; riscontriamo invece che non si fa cenno,
per l’anno 1517, all’assedio di Corinaldo nei citati Annali di Senigallia di Monti Guarnieri,
che pure tratta ampiamente la vicenda.
39 Si fa qui riferimento al volumetto di M. CARAFOLI, Storie e storielle di Corinaldo e
dintorni, Cassa Rurale ed Artigiana, Corinaldo 1978. Sulla “polenta nel pozzo” si accese
una vivace polemica negli anni Cinquanta fra Mario Carafòli, che aveva suggerito di usare
l’espressione per l’insegna di una trattoria, e il sindaco di allora che, con il Consiglio comunale, aveva avversato l’iniziativa: vedi gli articoli del quotidiano “Il Resto del Carlino”,
12 e 17 ottobre 1956. L’argomento venne ripreso e presentato ad un pubblico più vasto
attraverso la rubrica radiofonica “I racconti di Mario Carafòli”, in onda nel terzo trimestre
del 1976, per la trasmissione “Qui le Marche” della sede regionale RAI, a cura di Terenzio
Mon­tesi.
40 La notizia è riportata dallo Sforza nel citato Corinaldo nel cammino dei secoli, a pag.
Entro il rosso cerchio delle mura
181
19; una cartolina del 1898 riproduce infatti la scalinata senza il pozzo (archivio di Stanislao
De Angelis Corvi). Del collegamento idrico si dà notizia in un articolo plaudente di G.
Pasqualini, Reminescenze e speranze, pubblicato nel 1894 nel periodico “Cesano-Misa”,
anno II, 1 gennaio 1894, pag. 1. Il sindaco Pompeo Perozzi ottenne i finanziamenti grazie
al so­stegno del deputato Domenico Grandi, domiciliato a Corinaldo. Per festeggiare l’avvenimento fu fatta una gran festa nel Teatro cittadino.
41 Vedi GREGORINI, Politica… cit., pag. 98, nota 97 e inoltre ROSSI, Il riordinamento…,
cit., pag. 9.
42 M. CARAFOLI, Ricerca del Paese più bello del mondo, Associazione Pro Corinaldo,
Corinaldo 1979.
43 La descrizione e la documentazione storica su Sant’Agostino sono presenti in Gli
Agostiniani nelle Marche a cura di F. Mariano, Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi,
Motta editore, Milano 2004, pag. 183.
44 La ricerca di Dario Cingolani, presentata l’11 febbraio 2005 nella Sala grande del
Palazzo comunale, è stata operata sul testo di G. TINTO VICINI, De insitutione regiminis
dignitatum, a cura di P. Smiraglia, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1977, e sul
testo di G. GUIDICCIONI, Orazione ai nobili di Lucca, a cura di C. Dionisotti, Adelphi,
Milano 1994.
45 Sull’imponente cedro dell’Himalaya e sulla vegetazione presente nel centro cittadino di Corinaldo sono stati fatti uno studio e un preciso censimento nel fascicolo Il verde
urbano, Progetto “Ragazzi 2000”, Scuola Media Statale “Guido degli Sforza”, classe I B, a.s.
1994/95.
46 La questione è affrontata per l’area locale da A. POLVERARI, Le pievi nel Senigalliese,
in Nelle Marche centrali a cura di S. Anselmi, Cassa di Risparmio di Jesi 1979, I, pagg.
429-456.
47 La frase latina presenta una serie di termini espressi nel caso accusativo, con mancanza di un verbo transitivo di cui dovrebbero costituire l’oggetto: errore troppo vistoso
per un’iscrizione di tal rilievo celebrativo.
48 Vedi GIACOMINI, L’Archivio…, cit., pagg. 666-667.
49 Il catalogo generale della mostra è stato curato da C. COSTANZI e M. MASSA,
Claudio Ridolfi. Un pittore veneto nelle Marche del Seicento, il lavoro editoriale, Ancona
1994.
50 C. COSTANZI - F. MARIANO - M. MASSA (a cura di), Claudio Ridolfi. Un pittore
veneto nelle Marche del Seicento, Atti del Convegno di Corinaldo, 24 settembre 1994,
Centro Studi Domenico Grandi, Edizioni Quattroventi, Urbino 1997.
51 Le notizie sulla famiglia Ridolfi qui riassunte, sono tratte da Regesti, a cura di E.
Gregorini, pubblicati nel Catalogo della mostra citato, alle pagine 202-211, per i quali è
stato utilizzato il lavoro di ricerca di Dario Cingolani, Carlo Giacomini, Franco Negroni.
52 I dati sull’ampliamento del Monastero delle Benedettine sono riportati a pag.
215 del volume di Autori Vari, L’architettura teatrale nelle Marche, edito dalla Cassa di
Risparmio di Jesi nel 1983.
53 Per un approfondimento sui beni dell’Appannaggio napoleonico nelle Marche
vedi M. FRATESI, Il Principe e il Papa, Comune di Camerata Picena, Ancona 2004; N.
GIANFRANCESCHI, Monterado, storia di un paese, Banca Popolare di Ancona, 1994; S.
SEBASTIANELLI, L’appannaggio del Regno italico nelle Marche (1808-1845) in “Miscellanea
sentinate e picena”, 1, gennaio-aprile 1972.
54 Vedi A. POLVERARI, Cronotassi dei vescovi di Senigallia, Editrice Fortuna, Fano1992,
pag. 133.
55 Le notizie sulle benedettine di Corinaldo sono state reperite, e cortesemente trasmesse, da Stanislao De Angelis Corvi in A.S. Roma, Cam. III, B 970 f. 3, a. 1808.
182
Testimoni di Pietra
56 Archivio Vescovile di Senigllia, Inventarii de Luoghi Pii della Diocesi di Sinigaglia,
tomo I, 1746, carta 231r. La citazione ci è stata cortesemente fornita da Eros Gregorini.
57 Vedi PONGETTI, La Marca…, cit., pagg.133-230.
58 AGOSTINO, Confessioni, libro IX, cap. II.
59 Corinaldo. La casa del tempo, testi di D. CARAFOLI, fotografie di D. MONTESI,
Comune di Corinaldo, gennaio 2001, pagine non numerate.
60 ˆLa relazione di Flavio e Gabriela Solazzi è stata presentata nell’ambito del Con­
vegno di studi La fiamma onde il mio nome ha luce: gli Arsilli, tenutosi a Corinaldo il 4 luglio
2005.
61 Archivio Tarsi Marcolini: la citazione “già palazzo Ottaviani” è presente nell’atto di
vendita dell’edificio da parte di Giovanni Ridolfi a Francesco Tarsi, redatto dal dott. Pietro
Aguzzi, notaro in Corinaldo, in data 12 giugno1898, registrato a Senigallia il 24 medesimo
al n. 335, vol. 30 Atti Pubblici.
62 Cimarelli, Istorie…, cit., Trattato II, pagg. 135-184; notizie su Giovanni Andrea Fata
alle pagg. 147-149.
63 M. BONVINI MAZZANTI, Vincenzo Maria Cimarelli storiografo del Seicento, in Atti
del Convegno…, cit., pagg. 47-65.
64 F. S. BRUNETTI, Trattenimenti scientifici sulla sfera, geografia istorica, meteore, ed
astronomia, Bernabò e Lazzarini, Roma 1754; le notizie su Corinaldo alle pagg. 71-77.
65 Vedi S. DE ANGELIS CORVI, I cavalieri lauretani e la città di Ascoli, in I cavalieri dalla
società ai Giochi Storici, VIII Convegno di studi sui Giochi Storici, Ascoli Piceno 12-13 aprile
2002, Quaderno n. 13 dell’Ente Quintana, pagg. 99-116; a pag. 99 le notizie sulla Bolla di
Paolo III.
66 R. PACI, La guerra nell’Europa del Cinquecento e il generale Achille Tarducci da
Corinaldo, Quaderno n. 31 di “Proposte e Ricerche”, Ancona 2005.
67 Nell’archivio Brunori sono presenti tre manoscritti, risalenti il primo al 1681, di
pugno di Ascanio e di Panfilo Orazio Orlandi, il secondo al periodo tra il 1797 e il 1799 e
il terzo al 1800, questi ultimi anonimi; da essi il proprietario Stanislao De Angelis Corvi
ha tratto e cortesemente fornito ai ricercatori locali numerosi e inediti dati, confluiti nelle
loro pubblicazioni.
68 Ringraziamo in modo particolare la proprietaria del palazzo Anna Maria Marcolini
Pagliariccio, che ha segnalato la lapide e permesso la ricognizione; Roberto Spallacci per la
testimonianza sulle vicende dell’edificio in cui ha abitato per molti anni, e l’ottimo Pier­luigi
Basili che si è sobbarcato la fatica della prima trascrizione a penna del testo epigrafico.
69 Vedi F. FERRONI, I Francescani a Fabriano, Arti Grafiche “Gentile”, Fabriano 1981,
pag. 52.
70 Vedi E. GREGORINI, Variazioni catastali a Corinaldo tra il 1452 e il 1580, in “Proposte
e ricerche”, 13, Urbino 1984, pag. 45.
71 L’attestato di nascita è stato reperito da Stanislao De Angelis Corvi nell’Archivio
Pianetti della Biblioteca comunale di Jesi, B. 659/2, (1587-1625), fasc. 2.
72 Nota del soprintendente Renzo Mancini del 6/3/1999, inviata agli II. RR. B. di
Corinaldo.
73 Vedi delibera n. 27 del Consiglio di Amministrazione degli II. RR. B. del 6/7/1998.
74 I Ciani di Corinaldo, a cura di D. CIANI, opuscolo distribuito dalla famiglia Ciani
nell’anno 1999.
75 F. MAZZINI, Urbino. I mattoni e le pietre, Comune di Urbino, Argalìa editore, 2000,
pag. 307.
76 Nell’Inventario dell’Archivio Pianetti nella Biblioteca Comunale di Jesi, stampato
nel 1996 a cura di E. Federici, il testo è inserito alle pagg. 131-133.
appendice I
Epigrafe nel palazzo già ottaviani fata
Si dà di seguito la descrizione dell’epigrafe riportata a fig. 44 che per la
lunghezza del testo, la ricchezza dei dati storici, la novità del ritrovamento,
appare degna di particolare attenzione.
Per favorire un esame puntuale del testo inedito, si danno inoltre
a) la trascrizione ad litteram del testo latino dell’epigrafe, mantenendo l’impaginazione, le abbreviazioni, gli errori e le ripetizioni;
b) la nostra trascrizione in latino, con la correzione degli errori, l’uso della
punteggiatura e lo scioglimento delle abbreviazioni, senza l’uso delle prescritte parentesi, per comodità di lettura;
c) la nostra traduzione in italiano.
Lapide di arenaria137x75x2 murata alla parete destra, primo ripiano dello
scalone, nel Palazzo Tarsi Marcolini, già Ottaviani Fata, in piazza Il Ter­reno
n. 20; presenta una frattura orizzontale ricomposta tra le ll. 44-45; nell’unico
margine di sinistra di cm 7, sono incisi due stemmi, il primo all’altezza delle
ll.1-2, il secondo tra le ll.18-21; sono visibili le linee di guida; caratteri cm 3x2
alle ll. 1-2, e per la parola CVM alla l. 3; cm 1,7x2 per i restanti caratteri.
a)
FRANCISCVS DEI GRATIA FRANCOR
REX & C
CVM NOBIS NATVRA INSITVM SIT VT PRINCIPEM DECET
BENEMERITOS GRATITVDINE HONORIB PREMIIS AC BENEFICIIS AF
FICIENDOS FORE ET PRAESERTIM VBI INGENIVM VIVENDI DEXTERI
TAS FIDES OPTIMA ET VIRTVTVM AC LITERAR GRAVITAS AC
AC NONNVLLA IN NOS COLLATA MERITA ET QVID GRATISSMA
AD ID NOS SVADET PROVOCAT AC IMPELIT RESERVATA IN POSTE
184
Testimoni di Pietra
RVM AD MAIORA NOS P VENTVROS CVPIENTES IGITVR PR
AEMISSIS MOTI TE DNVM IO AND FATA DE CORINALT DIV
INI ATQ HVMANI IVR DOCT ALIQVIB ET PREMIIS HONO
RIB AC PRAEMINENTIIS DECORARE MOTV PROP ET EX NRA
ANIMI CERTA SCIENTIA TE INQVAM INAVREAT MILIT
EM NRA REGIA POTESTATE CVM HONORIB ONERIB ET PRI
VILEGIIS IN SIMILIB COSVETIS CREAMVS ELIGIMVS FACI
MVS AC LIBENTI ANIMO COSTITVIMVS AC DECERNIMVS IN PREM
IVM FIDEM AC TESTIMONIV IN NOS COLLATOR MERITORV RE
COGNITIONIS NRE VIRTVTIS AC DEXTERITATIS TVE ADDENT
ENTES EADEM NRA REGIA POTESTATE TIBI IN PRIVILEGIV VT
ET TVE I PRESENTES ET POSTRERITVI QES DEAGATIONE ET
FAMILIA TVA QVI ET DOCTORES GRADVATI ET IVRISPERITI
PRO TEMPOR FVERIN PRAEFATA AVCTORITATE NRA AC PO
TESTATE REGIA APELLENTVR DICANTVR AC NOMINARI QES DE
BEAT REGII MILITES AVREATI ET PERINDE QES HABEATVR AC
REPVTENTVR IN PRAEMINENTIIS HONORIB AC PRIVILEG ACSI
OMNI FORMA SOLITA AC IVRIS SOLENITATE SERVATA
PROVT IN SIMILIB FIERI A NOBIS SOLITVM EST CREATI
ELETTI AC NOMINATI FVISSENT ET ACSI PRESENTES A
NOBIS FORENT QES TALI DIGNITATE AC PRIVILEGIIS DE
CORATI ET CVM GRATITVDINIB GRATIOSIS BNFITIIS
AC RECOGNITIONIB BNMERITI AD PERSEVERANDVM
AC IN DIES DEO FAVENTE AD MELIORA MAGIS MAGISQ
REFITIENDVM PROVOCENTVR AC IMPELLAT ET PENITVS E
X NTRIS GRANDE EXEMPLV OB ID ALLECTIS ET PVOCAT
IS INSIT AC PERIBBATVR LIBERALITER DECERNIMVS AC
CONSTITVIMVS VT ET NRIS REGIIS INSGNIS ET ARMIS VTA
RIS INFRASCRIPTA FORMA AD VNGVEM INVIOLABILITER OB
SERVATA ET PROVT LATIVS AD OCVLV INPNTI PRIVILEGIO
SVIS CONGRVIS COLORIB DEPICTA FVERIT V IN CVLMINE
SEV SVMITATE SCVTI NRA INSIT INTIGRA INSIGA REGIA TRIA
LILIA AVREA EQVALI ORDINE DEPITA I CAPO AZVRRO ET IFRA
VEL SVBTER ILLEX ARBOS SVPRA SAXV PRATVRA DEPIGAT
VR PROVT LATIVS AC MANIFESTE CVIQ INTVENTE PATEBIT
SVIS COLOIB AC FORMIS IN HOC PNTI PRIVILEGIO INTEGRE
NVLLO PRETERMISSO ET EA QVA DECET REVERENTIA AC
GRAVITATE ONIMO DEOBSERVADO IN QVORVM OMNIB
appendice
185
FIDEM ROBVR TESTIMONIVM PREMISSOR IVSSIMVS
SIGILLO NRO MAGNIO CONMVNIRI SOLITO. DATVM
LVGDVNI DIE 17 IVLII MILLESIMO QINGENTESIMO
DECIMO QVINTO
IOA BATT FATA I V D E PRIVLEGIO ACCVRATE ID EXTRAEDV
CVRAVIT ANN DNI MDCXXIII PRID CAL IVNII VT NCOLVS
CAMILLVS IO MARIA IVLII ANTEOR ALDOBRADIVS GENERE
EOR SVCCESORS HOC EXEPLO DVCTI DISCAT ET D O M. COLANT
b) Franciscus, Dei gratia Francorum Rex et cetera
Cum nobis natura insitum sit, ut principem decet, benemeritos gratitudine
honoribus, praemiis ac beneficiis afficiendos fore et praesertim ubi ingenium vivendi, dexteritas, fides optima et virtutum ac litterarum gravitas
ac nonnulla in nos collata merita et quidem gratissima ad id nos suadet et
provocat ac impellit, reservata in posterum ad maiora nostros posteros venturos, cupientes igitur, praemissis moti, te dominum Iohannem Andream
Fata, de Corinalto, divini atque humani juris doctorem, aliquibus et praemiis, honoribus et praeminentiis decorare, motu proprio et ex nostra animi
certa scientia, te, inquam, inauratum militem, nostra regia potestate, cum
honoribus, oneribus, et privilegiis in similibus consuetis, creamus, eligimus,
facimus ac libenti animo constituimus ac decernimus, in praemium fidem ac
testimonium in nos collatorum meritorum recognitionis nostrae virtutis ac
dexteritatis tuae, addentes eadem nostra regia potestate, tibi in privilegium
ut et tuae familiae presentes et posteri tui equites delegatione et familia tua
qui et doctores, graduati et iurisperiti pro tempore fuerint, praefata auctoritate nostra ac potestate regia appellentur, dicantur ac nominari debeant
equites, regii milites aureati et perinde equites habeantur ac reputentur,
in praeminentiis, honoribus ac privilegiis, acsi omni forma solita ac iuris
solemnitate servata, prout in similibus fieri a Nobis solitum est, creati, electi
ac nominati fuissent, et acsi praesentes a nobis forent equites tali dignitate
ac privilegiis decorati et cum gratitudinibus, gratiosis benefitiis ac recognitionibus benemeriti ad perseverandum ac in dies, Deo favente, ad meliora
magis magisque praeficiendum provocentur ac impellantur et penitus ex
nostris grande exemplum ob id allectis et provocatis insit ac perhibeatur.
Liberaliter decernimus ac costituimus ut ex nostris regiis insignibus et armis
utaris, infrascripta forma ad unguem inviolabiliter observata et prout latius
186
Testimoni di Pietra
ad oculum in patenti privilegio suis congruis coloribus depicta fuerit: ut in
culmine, seu summitate scuti, nostra insint integra insignia regia: tria lilia
aurea equali ordine depicta in campo azzurro et infra, vel subter, illex arbor
supra saxuum praturam depingatur prout latius ac manifeste cuique intuenti
patebit suis coloribus ac formis in hoc patenti privilegio integre, nullo praetermisso et ea qua decet reverentia ac gravitate, animo deobservanda. In
quorum omnibus fidem, robur, testimonium praemissorum, iussimus sigillo
nostro magno communiri solito.
Datum Lugduni, die 17 iuli millesimo quingentesimo decimo quinto.
Iohannes Bactista Fata, iuris utriusque doctor, ex Privilegio accurate id
extrahendum curavit, anno Domini MDCXXIII pridie Calendas Iunii ut
Nicolaus, Camillus, Iohannes Maria Iulii, Antenor Aldobrandinius genere et eorum successores, hoc exemplo ducti, discant et Deum Optimum
Maximum colant.
c) Francesco per grazia di Dio re dei Francesi eccetera
Poiché è insito in noi per natura, come conviene ad un Principe, ricompensare le persone benemerite con la gratitudine, gli onori, i premi e i benefici
specialmente quando a ciò ci consiglia, chiama e sospinge l’ingegno dimostrato nella vita, l’abilità, la lealtà più grande, l’eccellenza delle virtù e degli
studi e alcuni meriti invero assai graditi verso di noi, riservandoci che in
futuro i nostri posteri possano arrivare a migliori traguardi, desiderando
(ricompensarti) e spinti dai tuoi suddetti meriti, dichiariamo di voler onorare te, signor Giovanni Andrea Fata di Corinaldo, dottore nelle leggi sia
canoniche sia civili, con alcuni onori, premi e segni di distinzione, e ciò di
nostra spontanea volontà e per un sicuro giudizio del nostro animo; e in
virtù della nostra regale potestà te, dico, creiamo, eleggiamo e innalziamo
e con animo favorevole decretiamo e costituiamo Cavaliere Aurato, con gli
onori, gli oneri e i privilegi consueti in simili onorificenze, in premio, in fede
e in testimonianza dei meriti che hai verso di Noi e in segno di riconoscenza del tuo valore e della tua destrezza; e aggiungiamo, con la Nostra regia
potestà, che come privilegio per te, i membri presenti della tua famiglia e i
tuoi posteri (siano) Cavalieri per trasmissione legale; e i tuoi familiari che
saranno nel loro tempo Dottori graduati ed esperti di legge, per la suddetta
Nostra potestà regia, debbano essere chiamati, detti e nominati Cavalieri
appendice
187
Aurati, militi del Re; e come Cavalieri siano considerati e reputati nei diritti
di precedenza, negli onori e nei privilegi, come se fossero stati creati, eletti e
nominati (da Noi in persona) con tutti i rituali d’uso e osservando la solennità della legge, come si è soliti fare da Noi in simili casi e come se essi fossero
stati presenti mentre venivano creati Cavalieri, in tale dignità e privilegi; e
bene meritando per la gratitudine, siano stimolati e spinti a bene meritare di
giorno in giorno, con l’aiuto di Dio, e a perfezionarsi sempre più, verso mete
più alte; e quindi profondamente vi sia e venga notato un grande esempio da
parte dei nostri, (che saranno) così attirati e sospinti verso maggiori mete. E
Noi generosamente decretiamo e stabiliamo che tu possa anche usare i nostri
Regi stemmi e insegne, nella forma qui sotto descritta, da osservare in ogni
particolare, senza cambiare nulla; e in modo che alla vista sia più ampiamente presente il privilegio, siano dipinti con i loro appropriati colori: che in alto,
ossia alla sommità dello scudo, sia l’intera Insegna Regale , tre gigli d’oro
dipinti a distanza uguale, in campo azzurro; e di sotto, ossia in basso, sia
dipinto un albero, il leccio, sopra una base di sassi, in modo che appaia più
manifestamente e ampiamente a chiunque lo veda, nei suoi colori e forme, in
questo evidente privilegio, per intero, senza omettere nessun particolare, e
con quella reverenza e solennità che sono necessarie e si debbono osservare
nell’animo. E abbiamo comandato che in fede, in forza e in testimonianza per
tutti delle cose suddette, (queste disposizioni) siano confermate dal Nostro
consueto Grande Sigillo.
Emesso da Lione, il 17 giugno 1515.
Giovanni Battista Fata, dottore in entrambe le leggi, volle che questo documento fosse estratto con cura dal (Decreto di ) Privilegio, nell’anno del
Signore 1623, il 31 maggio, affinché Nicolò, Camillo, Giovanni Maria di Giulio,
Antenore della famiglia Aldobrandini e i loro successori, guidati da questo
esempio, ne traggano insegnamento e venerino Dio Ottimo Massimo.
appendice II
sindaci - pievani - arcipreti
di corinaldo
Sindaci di Corinaldo dal Secondo dopoguerra
Arnaldo Ciani 14.08.1944 - 25.11.1944
Antonio Dominici 25.11.1944 - 14.11.1945
Domenico Battistini
14.11.1945 - 18.3.1946
Domenico Cacciani
18.03.1946 - 07.06.1951
Dino POETA 07.06.1951 - 11.06.1956
Sergio MINEO
11.06.1956 - 30.06.1958
Giovanni SARTINI
30.06.1958 - 23.11.1960
Giuseppe SCATTOLINI
23.11.1960 - 07.08.1975
Fabio CICERONI 08.08.1975 - 16.02.1981
Ennio LENCI
16.02.1981 - 22.11.1982
Fabio CICERONI
23.11.1982 - 22.07.1985
Erminio GIANCAMILLI
23.07.1985 - 06.12.1988
Ilario TAUS
24.12.1988 - 28.03.1989
Fabio COSTANTINI29.03.1989 - 18.07.1989
Commissario Prefettizio
Stefano FABRIZI
19.07.1989 - 12.06.1994
Luciano ANTONIETTI
13.06.1994 - 26.06.2002
Livio SCATTOLINI
27.06.2002
Pievani ed arcipreti di Corinaldo
Francesco ORLANDI
Viviano BRUNORI
Francesco BRUNORI
Girolamo MANETTI
Pietro Luigi BRUNORI
Terenzo VITALI
Filippo ALESSANDRI
Bolla non reperibile
Bolla non reperibile
1580
1629
1646
1696
1725
190
Testimoni di Pietra
Luca Antonio PANTANI 1732
Domenico TADDEI 1748
Claudio RIDOLFI 1774
Filippo ALESSANDRI 1783
Giuseppe MORONI
1816
Luigi PAOLINI
1819
Giacomo MATTEI
1835
Domenico ROTATORI 1848
Domenico COLTORTI 1852
Gherardo EVANGELISTI 1885
Alessandro MARINELLI
1895
Francesco BERNACCHIA
1926
Umberto ROCCHETTI 1949
Piero PIERINI 1971
Umberto ROCCHETTI8.8 - 16.10.1988
Amministratore Parrocchiale
Umberto MATTIOLI 16.10.1988
INDICE dei nomi
Accattabriga 96, 97, 114, 116, 133
Agostiniani, ordine religioso 118
Aguzzi, famiglia 65, 182
Alarico 18
Alberti Giovanni 40
Albi Andrea 23
Albornoz Egidio 85, 86
Aldo, antroponimo longobardo 79
Aldobrandini Aldobrandino 149
Aldobrandini Alessandra 149
Aldobrandini Antenore 149, 187
Aldobrandini Elisabetta 150
Aldobrandini Giovanni Francesco 149
Aldobrandini Silvestro 149
Aldobrandini, famiglia 149, 150, 187
Alessandri Filippo 189
Alessandro VII 171
Amalia di Baviera 133, 135
Amati Elde 166
Amati, famiglia 132, 166, 167
Anselmi Anselmo 76
Anselmi Sergio 59, 76, 181
Antaldi (Degli) Antaldo 130
Antolini Simona 44, 46, 47, 60, 62, 74, 76
Antonelli Giacomo 135
Antonietti Luciano 76, 189
Arcangeli Galeotto 38
Arcangielo Francesco 28
Arsilli, famiglia 141, 142, 182
Augenti Andrea 76
Augusti, famiglia 135
Augusti Arsilli, famiglia 141
Avetrani Giuseppe Maria 103
Baldarelli Fabio 152
Baldelli Marisa 74
Baldetti Ettore 179
Balducci Giancarlo 176
Barbaresi Nicola 109
Barocci Federico 131
Baroncioni Andrea 75, 76
Bartera Giuseppe 59
Bartolini-Martelli, famiglia 91
Battistini Alberto 140
Battistini Domenico 189
Beauharnais Eugenio 133, 134, 135
Beauharnais Giuseppina 133
Beauharnais Massimiliano 135
Benamati Guid’Ubaldo 94
Benedettine, ordine religioso 134
Benedetto XIV 103
Bernacchia Francesco 190
Bernardelli Calavalle Rosetta 62, 75, 76
Bettini Romolo 111, 135, 169, 176
Bevilacqua Cristoforo 38
Bichi Antonio 171
Bolognini Bordi Nicola 116
Bolognini-Morbidelli, famiglia 21
Bonci Luca 109
Bonvini Mazzanti Marinella 144, 182
Bormann Eugen 44, 48, 60, 62, 76
Boscarini Pietro 109
Brunetti Francesco Saverio 144, 150, 170,
182
Brunetti Manlio 59, 75, 76
Brunori Brunoro Felice 108, 157
Brunori Domenico 108, 122, 157
Brunori Elena 157
Brunori Francesco 66, 189
Brunori Giacomo Di Luigi 108
Brunori Giovanni 135, 157, 159
Brunori in Savelli Cristina 108
Brunori Maria Lavinia 163
Brunori Ottaviani Vigilini Fata, famiglia
192
159
Brunori Pier Luigi 170, 189
Brunori Silvio 135
Brunori Sinibaldo I 149
Brunori Sinibaldo III 151
Brunori Sofia 170
Brunori Vittoria 170
Brunori Viviano 189
Brunori, famiglia 129, 135, 136, 145, 147,
149, 151, 154, 155, 157, 158, 159, 161,
163, 167, 172, 182
Cacciani Domenico 189
Calcagni Bartolomeo 105, 106
Campagnoli Paolo 75
Campana Augusto 86
Cappelli Adriano 179
Cappuccini, ordine religioso 122, 151
Carafòli Domizia 139, 182
Carafòli Luisa 45
Carafòli Mario 73, 76, 79, 113, 116, 118,
152, 169, 180, 181
Carbonari Geminiani A. M. 130
Carlo d’Angiò 35
Carlo V, imperatore155
Casci Ceccacci Tommaso 75
Cattabriga (vedi Accattabriga)
Cesare Flavio Valerio Costantino 46, 47
Cesare Marco Aurelio Valerio Massenzio
46, 47, 75
Cesarini Dirce 168
Cesarini Romaldi, famiglia 23, 166
Cesarini Romaldi Giacomo 74, 97, 165
Cesarini Romaldi Ippolito 74
Cesarini Romaldi Luca 170
Cesarini Romaldi Vincenzo 109
Cesarini, famiglia 21, 42, 74, 154, 166,
167, 170
Ciaffoni Antonio 122
Ciani, famiglia 28, 122, 168
Ciani Arnaldo 163, 165, 189
Ciani Clitofonte 163
Ciani Daniele 168, 182
Ciani Giuseppe 109, 168
Ciani Lorenzo 168
Ciceroni Antonio (Toto) 67
Ciceroni Fabio 73, 113, 179, 189
Cimarelli Nicolò (Fra Vincenzo Maria)
18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 26, 27, 28, 29,
Indice dei nomi
35, 42, 45, 48, 50, 51, 52, 66, 68, 73, 74,
77, 80, 85, 88, 92, 94, 96, 100, 101, 105,
107, 112, 114, 115, 117, 120, 126, 127,
128, 129, 130, 133, 142, 144, 145, 148,
150, 151, 157, 161, 167, 180, 182
Cimarello Di Gualtiero Mausulio 19
Cingolani Dario 8, 26, 73, 85, 86, 121, 181,
199
Clemente IV 29
Clemente VIII 149, 150
Coen, famiglia 135
Conventuali, ordine religioso 100, 101,
103
Còrboli Brunori Aurelio 170
Còrboli Brunori Pompilio 170
Còrboli Girolamo 170
Costante, imperatore 46
Costantini Fabio 189
Costanzi Costanza 74, 181
Cristofani Mauro 70, 76
Cutius Romanelle 65
D’Este Lucrezia 161
Dall’Aglio Pier Luigi 74
Damiani Giuseppe 76
De Angelis Corvi Stanislao 40, 129, 145,
146, 147, 148, 149, 157, 159, 161, 170,
171, 181, 182
De Angelis Corvi Vito 157
De Maria Sandro 74
De’ Rossi, famiglia 141
Della Rovere Francesco Maria I 105, 114,
123, 142, 144, 146, 147, 150, 155
Della Rovere Francesco Maria II 161
Della Rovere 98, 105, 114, 123, 146, 159,
161
Destro Marco 75
Di Giorgio Martini Francesco 90
Dionisotti Carlo 181
Domenico Coltorti 190
Domenico da Leonessa 110
Dominici Antonio 15, 73, 136, 189
Dominici Giorgio 73
Dominici Licia 73
Duranti, famiglia 154, 166
Evangelisti Gherardo 190
Fabrizi Stefano 189
Indice dei nomi
Fachinetti Cesare 171
Fata Antonia 163
Fata Camillo 149
Fata Francesco 104, 106
Fata Giovanni Andrea 104, 142, 144, 145,
147, 182, 186, 199
Fata Giovanni Battista 142, 146, 149, 150,
187
Fata Giovanni Maria 149, 150
Fata Marco Antonio 150
Fata Nicola 149, 150
Fata, famiglia 142, 148, 149, 150, 151
Federici Elena 182
Fermani Ved. Brunori Elisabetta 108
Ferroni Filippo 152, 182
Ferroni Maria 179
Filippi Carolina 108
Filipponi Giuseppe 39
Fiorani Alberto 28, 73
Fiorani Renzo 105, 180
Fonti Di Mineo Giacomo 35
Fontini (O Fonti), famiglia 35, 36
Fontini Cristofaro 35
Fontini Filippo 34, 35, 36, 37
Fontini Livio 35, 36
Fontini Pandolfo 35, 36
Francescani, ordine religioso 110
Francesco Di Domenico 100
Francesi, popolo 89, 134, 186
Franchi, popolo 80
Franciolini Renzo 110, 180
Fratesi Mario 181
Frati A. Maria 179
Frati Mario 67
Fulberto 86, 88, 90, 92
Gellone 66
Giacomelli Gianni 117
Giacomini Carlo 27, 35, 73, 74, 105, 113,
180, 181
Giancamilli Erminio 189
Gianfranceschi Nazzareno 57, 76, 181
Giannotti Giuliana 75
Giombi Annacleta 108
Giorgi Gello 24, 48, 73, 74, 75, 76, 86, 179
Giorgi Enrico 75
Giovanni Da Fermo 110
Giulio II 114
Giulio III 148
Gonzaga Eleonora 146
Goretti Ersilia 39
Goretti Assunta 39
Grandi Domenico 132, 179, 181
Gregorini Eros 30, 73, 74, 75, 76, 80, 88,
179, 180, 181, 182
Gregorio XIII 49
Gregorio XV 128, 130
Gregorio XVI 88
Guaitoli Maria Teresa 75
Guicciardini Francesco 114
Guidiccioni Giovanni 181
Hoenia gens 62
Honorati Bernardino 29
Inaldo, antroponimo longobardo 79
Josi Enrico 66
Lenci Ciani Paolini Ea 60, 76, 165
Lenci Ennio 189
Lenci Stefano 96, 179, 180
Leone X 114, 146
Lepore Giuseppe 75
Lollini Delia 68
Longobardi, popolo 79, 80
Lucio Enio Gemino 62
Ludovico Da San Leo Feltrio 103
Luni Mario 47, 73, 75
Luzietti Goffredo 72
Màffoli Rolando 85
Maggeri Cesare 129
Malatesta 141
Malatesta Galeotto 17, 86
Malatesta Novello 97
Malatesta Pandolfo III 121
Malatesta Sigismondo 150
Manetti Girolamo 189
Manfredi Matilde in Ceccacci 109
Maori Danila 179
Marangoni, famiglia 170
Marangoni Alfonso da Saludecio 170
Marangoni Leandra 170
Marangoni Ulderico 170
Marchetti Pasquale 108
Marchetti Nicolò 75
Marco Da Montegallo 110
193
194
Marcolini Pagliariccio A. Maria 182
Mariani Mirco 39
Mariano dalla Roccha 116
Mariano Fabio 74, 90, 96, 97, 116, 179,
180, 181
Marinelli Alessandro 190
Marinelli Mariella 168
Mario Carafòli 45, 73, 76, 79, 116, 118,
169, 180
Mariotti Amelia 74
Maschi Vittoria 132
Massa Marina 74, 181
Massimiliano IV di Baviera 133
Mattei Giacomo 190
Matteo di Nuccio 97
Mattioli Umberto 39, 67, 190
Mazzini Franco 170, 182
Mazzoleni, famiglia 132, 163
Mazzoleni Bernardino 107, 108, 163
Mazzoleni Gian Orazio 124, 163
Mazzoleni Malagigi 163
Mazzoleni Pier Andrea 163
Mazzoleni Rosa Madalena 163
Mazzoleni Sandreani 107, 108
Mazzoleni Sante 163
Medici (de’) Lorenzino 114, 115
Medici 105, 114, 146
Mencucci Angelo 73,
Mencucci Ferdinando 41
Mencucci Quintiliano 67
Mineo Sergio 189
Modestini Giuseppe Maria 103
Montesi Dino 139, 182
Montesi Ettore 90, 92, 93, 96, 97, 117, 179,
180
Monti Guarnieri Giovanni 35, 74
Moretti Giuseppe 76
Mori Donato 35
Moricoli Franco 67
Moroni Giuseppe 190
Napoleone Bonaparte 133, 134
Negroni Franco 181
Nicolò IV 130
Nicolò V 111, 113, 161
Nuti (vedi Matteo di Nuccio)
Orlandi, famiglia 127, 129, 139, 152, 154,
157, 159, 160
Indice dei nomi
Orlandi Ascanio 182
Orlandi Nicolò (fra Bartolomeo) 128, 129,
130
Orlandi Cleopatra 157
Orlandi Edvige 163, 165
Orlandi Francesco 121, 123, 124, 125, 126,
127, 155, 189
Orlandi Giovan Battista 108, 123
Orlandi Lucangelo 126
Orlandi Maria Leonora 170
Orlandi Orazio Panfilo 142, 182
Orlandi Orlando 128
Orlandi Ottavio 155, 156, 157
Orlandi Romaldi, famiglia 109, 122, 123,
127
Orlandi Romaldi Pasqui Elena 109, 122
Orlandi Tecla 157
Ottaviani Giustina 170
Ottaviani, famiglia 132, 149, 151
Ottone I, imperatore 78
Paci Gianfranco 44, 73, 74
Paci Renzo 147, 148, 182
Pagliariccio Federico Alfonso 110
Pagoni Ornella 180
Palma Eustachio 170
Palma, famiglia 170, 171
Paniconi Enrico 136
Pantani Luca Antonio 190
Paolini Ciro 70
Paolini Lorenzo 68
Paolini Luigi 190
Paolini Sante 68
Paolo III 146, 148, 182
Paolo Veronese 131
Parisciani Gustavo 101, 180
Pasqualini Adelaide Fu Giuseppe 108
Pasqui, famiglia 154
Pasqui Alessandro 123
Passeri Aldobrandini Cinzio 150
Passeri Aurelio 149, 150
Patrignani Antonio 92
Patrignani Gerolamo 179
Patrignani Gino 92
Pelinga Italo 97
Perozzi Pompeo 17, 18, 102, 107, 116, 181
Pierini Piero 190
Pio IX 135
Pio V 49
Indice dei nomi
Pio VI 113, 180
Pio VII 101
Pio XI 136
Pio XII 39, 161
Poeta Dino 75, 189
Polverari Alberto 48, 74, 75, 76, 79, 181
Pongetti Francesca 28, 73, 74, 137, 140,
167, 168, 182
Portunus, divinità romana 50
Publio Acuzio Panfilo 62, 65
Radke Gerard 48, 75
Ravaioli Enrico 75
Ravetta Umberto 39, 57, 67
Ricci Doralice 123
Ricci Rossi, famiglia 152, 154
Ricci Ubaldo 35
Ridolfi Claudio 38, 74, 131, 132, 133, 136,
163, 181, 182, 190, 199
Ridolfi Giovanni 182
Roberti Guerrino 15
Rocchetti Aldo 64
Rocchetti Igino 64
Rocchetti Umberto 190
Romaldi, famiglia 165, 166
Rossi Carlo 168
Rossi Efrem 17, 168, 180, 181
Rossi Gianfranco 168
Rossi Giuseppe 67, 124
Rotatori Domenico 190
Rutius (o Arutius), antroponimo romano
82
Sant’Agostino 138
Sant’Anna 41
San Bernardino 152
San Bonaventura da Bagnorea 29
San Carlo Borromeo 172
San Gaetano da Thiene 35, 36
Santa Maria Goretti 38, 39, 139
San Panfilo 66
San Vito 80, 81, 82, 84, 85, 179
Sandreani, famiglia 63, 64, 107, 108, 122,
132, 139, 140, 141, 142, 168, 170
Sandreani Angelo Antonio 139
Sandreani Giuseppe Maria 122, 163
Sandreani Sandro 64
Sandreni Aloisio 141
Sangiorgi Silvia 71, 74, 76
Sartini Giovanni 189
Saturnina 60, 61, 62, 199
Savelli Luca 29
Scagliarini Daniela 75
Scattolini Giuseppe 189
Scattolini Livio 6, 189
Scattolini Paola 179
Sceberras Testaferrata Fabrizio 88, 101,
134
Scriba 80
Sebastianelli Sirio 181
Selvatici (o Silvatili), famiglia 141, 142
Serra Giuseppina 123
Sforza Domenico Clemente 24, 73, 79,
181
Sforza Francesco 96, 97
Silviotti Maria 109
Simonetti, famiglia 96
Smiraglia Pasquale 181
Solazzi Flavio 140, 182
Solazzi Osti Gabriela 140, 182
Spagnoli, popolo 89
Stefanini Sergio 17, 19, 21, 73
Taddei Domenico 190
Tani Maddalena 149
Tarducci Achille 147, 148, 149, 182
Tarducci, famiglia 147
Tarduccius De Tarducciis 148,
Tarsi Francesco 182
Tarsi Marcolini Maria Vittoria, 142
Tasso Torquato 150
Taus Ilario 189
Testaguzza, famiglia 65
Tiraboschi Giuseppe 142
Tito Enio Pardo 62
Tomani Baci Esterina 172
Tomani, famiglia 172
Tommasini Filippo 103
Torelli Nivea 21
Turchi, popolo 29, 148
Turris Francesco 18, 73, 168
Urbano V 88
Urbano Viii 66
Usuardo 66
Vagnini Cocci Silvia 74
Vanni Da Sangiorgio Cornelia 129
195
196
Venere, divinità romana 50
Venturoli Enrico Fausto 123
Venturoli Orlandi Romaldi Giuseppe
122, 123
Venturoli Orlandi Romaldi Emma 122,
123
Venturoli Orlandi Romaldi Luigi 122,
123, 127
Venturoli Orlandi Romaldi Maria 122,
123
Venturoli Orlandi Romaldi Vittorio 122,
127
Vergari Marisa 74, 76
Veronica Andrea 26
Indice dei nomi
Vichi Giuliano 138
Vici Arcangelo 103
Vicini Giovanni Tinto 181
Vieri Ettore 30
Villani Virginio 78, 84, 179
Villicich Riccardo 75
Visconti Bianca Maria 97
Vitali Terenzo 189
Volpe Gianni 179
INDICE
Presentazioni
Livio Scattolini, Sindaco di Corinaldo
Dario Cingolani, Dirigente dell’Istituto Comprensivo di Corinaldo
Nota dell’autore
I – LE pietre antiche
1.Cineribus orta…
2.Suasae ruinis…
3.Virgo incancellis…
4.Repertae in agro Corinaltensium Columnae & Tabulae
marmoreae…
5.Domino nostro Imperatori Maxentio… Domino nostro
Imperatori Constantino…
6.Sancta Maria que dicitur in Portuno
7.Have Saturnina
8.Il liberto Panfilo
9.I devoti di bronzo
10.Ville e casali romani nel territorio
II – Entro il rosso cerchio delle mura
1. In monte Collinalti… In castro Curinalti
2. Combusta…
3. Santa Maria del Mercato
4. Revixi
5. Un convento per ospedale
6. Il Monte di Pietà
7. Le chiavi per la città
8. Scalinari e polentari
9. I segni della gloria
p.
5
5
7
9
15
15
24
27
41
44
48
60
62
68
70
77
77
85
90
93
98
110
111
114
118
198
indice
10. “Le virtù e buone qualità” di Claudio Ridolfi
11. Monache, nobili e re
12. Gli stemmi del patriziato cittadino
13. Giovanni Andrea Fata Cavaliere aurato,
e la sua discendenza
14. Una presenza popolare: i graffiti
p. 131
133
137
Appendice I
Epigrafe nel Palazzo già Ottaviani Fata
Appendice II
Sindaci - Pievani - Arcipreti di Corinaldo
183
Indice dei nomi
191
142
175
189
Finito di stampare nel mese di novembre 2005
presso la Tecnostampa di Ostra Vetere AN