Proverbi - Oblati di Maria Vergine

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Proverbi - Oblati di Maria Vergine
Capitolo 40
Proverbi
1. Il mashal
Il termine mašhal è il plurale di mešhalim, che indica sia una «similitudine» sia una «parola
direttiva». La radice verbale mšl, infatti, può significare tanto «essere simile» quanto «governare, dirigere». I due significati verbali sono presenti nel vocabolo mašhal, per cui si può ben
dire che il proverbio coglie i rapporti tra realtà differenti, e per questo aiuta a dirigere la propria esistenza quotidiana. Il proverbio, proprio per questa sua caratteristica “terreste”, non
si pone mai problemi definitivi sulla morte e sull’aldilà.
Essenziale del proverbio è il suo radicamento nell’esperienza quotidiana. Infatti alle spalle
di esso sta una ricca messe di esperienze, riflessioni, tentativi e insuccessi, cioè una tradizione. Come risultato di una lunga catena di riflessioni, il proverbio è l’evidenziazione di costanti o leggi che regolano l’esperienza umana del mondo e della vita. Esso si fonda sul presupposto che il mondo ha un senso ed è retto da un ordine fondamentale. La scoperta dell’ordine
latente nel mondo è espressa in formule paradigmatiche, in brevi ed elaboratissime sentenze
che hanno la funzione di regolare l’esistenza umana.
E’ innegabile la presenza di una certa «ironia» in molte sentenze, e perfino il «sarcasmo».
Così, ad esempio:
«Le parole del calunniatore sono come ghiotti bocconi
che scendono in fondo alle viscere» (Pr 18,8 = 26,22).
«I beni del ricco sono la sua roccaforte,
come un’alta muraglia, a suo parere» (Pr 18,11).
Talvolta la constatazione delle conseguenze di certi fatti produce un’ironia amara:
«Il pigro dice: “C’è una belva per la strada,
un leone si aggira per le piazze”.
La porta gira sui cardini,
così il pigro sul suo letto.
Il pigro tuffa la mano nel piatto,
ma dura la fatica a portarla alla bocca» (Pr 26,13-15).
«Il ricco si crede saggio,
ma il povero intelligente lo scruta bene» (Pr 28,11).
Ci sono proverbi che usano la forma imperativa orientata all’esortazione, anche se il motivo è sempre l’esperienza, mai l’autorità: «Non ti associare a un collerico e non praticare un
uomo iracondo, per non imparare i suoi costumi e procurarti una trappola per la tua vita» (Pr
22,24-25).
Procedimento caratteristico di questa letteratura sapienziale è il parallelismo nelle sue
quattro forme. Anzitutto quello sinonimico: quando la seconda parte del versetto ripete l’idea
con parole simili. Quindi si ripete due volte la stessa cosa da angolature diverse, cioè guardando la stessa realtà da prospettive diverse, cogliendo due sfaccettature differenti:
«Il falso testimone non resterà impunito
chi diffonde menzogne non avrà scampo» (Pr 19,5).
Il parallelismo antitetico (presente nell’ottanta per cento dei proverbi!), invece, insiste su
un determinato dato descrivendone anche il contrario:
«C’è chi fa il ricco e non ha nulla
c’è chi fa il povero e ha molti beni» (Pr 13,7)
Uno dei risultati che si vogliono ottenere usando queste tecniche è il suono, la facilità
dell’apprendimento, la costruzione della paronomasia, cioè dell’onomatopea fonetica.
C’è poi il parallelismo progressivo o sintetico: quando la seconda parte del versetto non ripete o non nega la prima, ma sviluppa o prolunga quello che è detto nella prima parte. Un esempio di parallelismo sintetico:
«Morte e vita sono in potere della lingua
e chi l’accarezza ne mangerà i frutti » (Pr 18,21).
Inoltre, ci sono proverbi che per dire che una cosa è buona e un’altra cattiva cominciano
con l’espressione: «Vale più... che... ».
«Un piatto di verdura con l’amore è meglio di un bue grasso con l’odio» (Pr 15,17).
Si incontra qualche altra forma, ad esempio quella chiamata dei proverbi numerici: corrisponde al bisogno di ordine che è innato nell’uomo e vuole provocare curiosità, suscitare interrogativi stimolando la ricerca in un crescendo continuo:
«Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, che io non comprendo: il sentiero dell’aquila nell’aria, il
sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una
giovane» (Pro 30,18-19)
2. La struttura del libro e gli autori
Il libro dei Proverbi si presenta come una collezione di poemi sapienziali e di proverbi letterari:
1,1-7:
1,8-9,18:
Titolo e prologo
Poemi sapienziali introduttivi:
1,20-32: discorso della Sapienza
8:
discorso della Sapienza
10,1-22,16:
22,17-24,22:
24,23-34:
Raccolta di sentenze: «Proverbi di Salomone» (10,1)
Appendice: massime dei saggi
Appendice: altre massime dei saggi (24,23)
25,1-29,27:
Raccolta di sentenze: «Proverbi di Salomone, trascritti dagli uomini di
Ezechia, re di Giuda» (25,1)
Appendice: massime di Agur, «figlio di Iake, da Massa» (30,1)
Appendice: proverbi numerici
Appendice: massime di Lemuel «re di Massa, che sua madre gli
insegnò (31,1)
30,1-14:
30,15-33:
31,1-9:
31,10-31:
Epilogo: elogio della donna perfetta.
Dalla struttura ci rendiamo già conto che abbiamo a che fare con un libro che è
un’antologia o una raccolta di collezioni di meshalim (cf. Pr 1,1) che non può essersi formata
2
in un giorno, ma è il frutto di una lunga tradizione. Le sentenze, e forse anche alcuni poemi o
parti di poemi, poterono esistere isolati prima di venire composti così come li troviamo attualmente nel libro. Il tempo preciso di composizione delle singole parti è incerto. È probabile
che le sentenze dovettero circolare a lungo in forma orale prima che venisse loro assegnata la
forma letterariamente elaborata, in cui oggi le leggiamo.
L’attribuzione di tutto il libro a Salomone è evidentemente un artificio letterario1. Mentre
le due raccolte centrali sono direttamente (Pr 10,1) o indirettamente (25,1) attribuite al grande
re, alcune delle raccolte minori presentano altre intestazioni (22,17; 24,23; 30,1; 31,1). In realtà, il vero o i veri autori del libro rimangono anonimi. L’anonimato è tipico dei libri biblici.
Gli autori ricorrono sovente alla pseudonimia per conferire maggiore autorevolezza al proprio scritto (come a Mosé si attribuisce il Pentateuco, e a Davide il Salterio). Ciò che sta a
cuore agli agiografi è evidentemente di invogliare e convincere il maggior numero di lettori
che vale la pena intraprendere la lettura del libro. A questi autori e redattori, peraltro spesso
dotati di grande talento artistico, non interessa affatto di essere conosciuti e di passare alla
storia per i loro capolavori. Sono degli anonimi comunicatori di sapienza: sanno che il libro,
nella sua oggettività, contiene un messaggio di vita per coloro che lo ascoltano e lo leggono, e
desiderano che esso sia accolto per se stesso dal maggior numero possibile di uditori, perché
raggiunga le coscienze di ciascuno e le orienti verso ciò che è il loro bene. Una predicazione
o un insegnamento sono più efficaci quanto più il predicatore o il maestro spariscono con la
propria soggettività, e si rendono strumenti docili a servizio della verità e a vantaggio dei loro
destinatari.
Per quanto fittizia appaia l’attribuzione del libro a Salomone, non si può escludere completamente che egli abbia offerto un certo contributo personale all’elaborazione, e forse anche
alla composizione, di qualche materiale sapienziale. Al re si attribuiva una funzione rilevante
nel campo della ricerca sapienziale: «È gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle» (Pr 25,2).
Al suo tempo, lo Stato ebraico era al culmine dell’efficienza politica, militare ed economica. Si erano incrementate le relazioni diplomatiche con le potenze straniere: la cultura e la
sapienza delle nazioni entravano a corte. Qui potevano esistere scuole dove queste erano imparate ed elaborate2; non si può escludere che Salomone vi abbia esercitato un ruolo attivo.
La tradizione tardiva gli attribuisce direttamente la composizione di tremila proverbi:
«Dio concesse a Salomone saggezza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia
che è sulla spiaggia del mare. La saggezza di Salomone superò la saggezza di tutti gli orientali e
tutta la saggezza dell’Egitto. Egli fu veramente più saggio di tutti, più di Etan l’Ezrachita, di Eman, di Calcol e di Darda, figli di Macol; il suo nome divenne noto fra tutti i popoli limitrofi. Salomone pronunziò tremila proverbi; le sue poesie furono millecinque. Parlò di piante, dal cedro
del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci. Da
tutte le nazioni venivano per ascoltare la saggezza di Salomone; venivano anche i re dei paesi ove
si era sparsa la fama della sua saggezza» (1Re 5,9-14).
Non essendo sacerdote, né profeta, il re rivestiva una funzione di rappresentanza di tutto il
popolo; a lui, e dunque al suo popolo inteso come totalità, si indirizza la parola dei profeti
che, assimilata, si trasforma in sapienza.
Se Israele ha imparato qualche cosa dal contatto con le nazioni, esso ha coscienza poi di
1
Salomone è presentato anche come autore del Qoelet (1,1), del Cantico dei Cantici (1,1) e del libro della
Sapienza (9,7-8.12).
2
Se, però, la corte regale poté avere un ruolo importante nella raccolta del materiale sapienziale (cf. Pr 25,1),
dall’insieme delle sentenze dei proverbi si ricavano dati che poco fanno riferimento a una società aristocratica e
di corte. La maggior parte dei proverbi, per quanto letterariamente raffinati, sono nella sostanza popolari, cioè
hanno per destinatari gli uomini e le donne di una società cittadina e contadina medio-borghese.
3
aver elaborato un sapere che, a sua volta, conquista e affascina le nazioni. Il ricorso a Salomone come a personaggio emblematico del sapiente consente di gettare un ponte tra l’intero
popolo della promessa e tutte le genti. Esse accorrono per imparare la saggezza dal popolo di
Dio.
3. Il prologo e i poemi introduttivi
3.1. Il prologo (1,2-7)
L’inizio del prologo (1,2-4) indica la finalità del libro: dare una conoscenza che non coinvolga solo la sfera intellettuale, ma l’intera vita. Il suo banco di prova è l’equità, la giustizia e
la rettitudine (cf. v. 3). E’ chiaro che ai maestri sta a cuore l’esistenza concreta degli uomini:
ciò che fanno è più importante di ciò che sanno e che dicono. La virtù morale è il banco di
prova della saggezza. Per questo il sapiente (chacham) è il giusto (tzaddiq).
Il libro si rivolge agli esperti e agli ingenui, ai giovani (cf. v. 4) e, in generale, a tutti coloro
che sono disponibili a porsi alla scuola della sapienza (cf. v. 5). Chiunque sia ben disposto ad
ascoltare per apprendere cose nuove comincia a diventare sapiente. Soltanto gli stolti voltano
le spalle sprezzanti, perché pensano di sapere già tutto. I saggi, al contrario, ascoltano e aggiungono cose nuove e ciò che hanno ascoltato.
L’acquisizione della sapienza comporta anche la capacità di non farsi abbindolare, il saper
tenere gli occhi aperti senza farsi illusioni, conoscendo ciò che c’è nel cuore umano. Si deve
sapere che viviamo in un mondo in cui è presente il male in molte forme, dal parlare falso che
sgorga dall’arroganza e dalla concupiscenza del cuore all’azione perversa. Si deve vigilare,
tanto più che spesso la menzogna non è facilmente riconoscibile, si nasconde dissimulata dietro un’apparenza di bene. Il compito educativo si propone di insegnare anche una certa astuzia e furbizia (così si potrebbero tradurre i termini ’ormah e mezimmah del v. 4), per sapersi
guardare da ciò che nuoce, in una parola occorre imparare il discernimento tra il bene e il male.
Il prologo si conclude annunciando il principio e fondamento per l’acquisizione della sapienza: il timor di Dio (cf. v. 7; cf. anche 9,10; 14,27; 15,33; 22,4; 23,1; 31,30).
3.2. La disposizione all’ascolto nei poemi introduttivi (1,8-9,18)
Ci si aspetterebbe ora che il libro comincia a proporre i suoi contenuti sapienziali. Incontriamo, invece, dei poemi in cui il lettore è invitato ad ascoltare. L’autore di un libro non ha
normalmente bisogno di esortare il lettore all’ascolto. Lo dà per scontato. I maestri invece
non si stancano di educare i lettori ad essere attenti al loro insegnamento. E non temono di
annoiare il lettore con la loro insistenza, con varie modulazioni, sulle stesse disposizioni
all’ascolto. Solamente uno stolto si annoierebbe, in capace di cogliere la ragione profonda di
queste ripetizioni. Qui non si tratta semplicemente di capire certe cose, ma si deve comprendere che l’oggetto di cui si parla, cioè la Sapienza, si trova al di là di ciò che di lei si possa
dire; è un mistero inaccessibile all’uomo3. Per questo sono tanto importanti le disposizioni
del cuore sulle quali i maestri non si stancano di insistere. Coloro che nell’ascolto degli insegnamenti del maestro avranno dilatato il loro cuore saranno poi in condizione di ascoltare la
Sapienza stessa, quando essa parlerà in persona di sé ai discepoli e comunicherà loro direttamente i suoi segreti.
La Sapienza non è racchiusa letteralmente in nessuna massima, non è neppure data dalla
somma delle sentenze, qualora si sapessero ripetere tutte a memoria. Non è saggio neppure
chi metta semplicemente in pratica tutti gli insegnamenti impliciti nelle massime. La Sapien3
Cf. Gb 28; Bar 3,9-4,4.
4
za è ancora oltre. Ciò che rende qualcuno sapiente è un’esperienza e un gusto delle realtà divine, difficilmente esprimibili e incomprensibili da coloro che ne siano ancora privi. Soltanto
la grazia di Dio rende sapienti.
Commentiamo brevemente i singoli poemi di questi primi capitoli.
a) «ASCOLTA, FIGLIO MIO!» (1,8-19)
Il padre e la madre sono insieme nella trasmissione dell’insegnamento sapienziale di ciò
che essi hanno ricevuto dai propri genitori4. Questo discorso a due voci è più persuasivo di
uno a una voce soltanto. La comunione coniugale fondata sulla fedeltà al Signore è
l’espressione più eloquente della Sapienza, sicché nella sintonia delle parole dei due coniugi
si rende manifesta l’istruzione del Signore. La loro insistenza è fondata sulla convinzione di
avere ricevuto da un Altro ciò che dicono; sono uno strumento di Dio. L’obbedienza ai genitori, però, non è cieca. Essi per primi fanno appello alla libertà del figlio, sapendo di non potersi sostituire a lui nella decisione responsabile della propria vita. Da parte loro, essi cercano
di essere il più possibile umili e ricettivi, non lasciando nulla di intentato nel loro proposito
educativo e formativo. Il loro linguaggio è forte e deciso, e nel contempo dolce e discreto.
L’acquisizione della Sapienza non è compito facile per il discepolo, che spontaneamente è
più allettato e sedotto dall’ascolto di altre voci, che proclamano sapienze alternative. Qui i
maestri parlano degli ornamenti e dei gioielli che renderanno grazioso colui che accoglierà gli
insegnamenti dei genitori (cf. v. 9).
Il brano continua mettendo in guardia contro la cupidigia e l’avidità insaziabile, sotto tutte
le sue forme (cf. vv. 10-16)5. I peccatori promettono l’appagamento dei desideri, il conseguimento di ricchezze e ogni specie di beni preziosi. Il loro è un discorso seducente, contiene la
proposta di una sorta di sapienza alternativa, nasce da un’abilità demoniaca che si manifesta
in piani e progetti maliziosi. Per aiutare a discernere tra vera e falsa sapienza, tra via che conduce alla vita e via che conduce alla morte, i maestri parlano subito della radice degli atteggiamenti umani e pongono sotto gli occhi del discepolo le motivazioni di fondo che inducono
a fare il male. Essi svelano la concatenazione tra la cupidigia, il furto e l’omicidio. La radice
del male è l’avidità insaziabile, che conduce a rubare, quindi a uccidere. L’appagamento dei
propri desideri a ogni costo induce a voler divorare tutto: non solo si concupiscono le cose,
ma il desiderio di avere porta a invidiare i possessori di beni, dei quali si desidera e si attua
l’annientamento allo scopo di derubarli. Insieme alle cose si divorano, così , le persone, che
diventano oggetti da prendere, strumenti da utilizzare per soddisfare le proprie brame6.
La perversità dei peccatori è resa più grave dalla coscienza che essi hanno di operare il male; sanno di fare opera satanica e non vi si sottraggono. Per questo la loro fine è terribile.
Mentre complottano per spargere sangue innocente, essi stanno in realtà complottando contro
il proprio sangue (cf. vv. 17-19). Ciascuno raccoglie ciò che semina e si sazia dei frutto della
propria condotta7. Ogni omicidio è, nella sostanza, un suicidio.
Già da questo primo poema, dunque, i maestri orientano il discepolo al discernimento, parlandogli della radice di ogni male e ammonendolo a guardarsi dal frequentare i peccatori, i
quali sono schiavi della cupidigia. Sembra che si voglia dire: fate attenzione a come desiderate e a ciò che desiderate! Dal cuore dell’uomo possono sprigionarsi anche desideri infernali,
che conducono alla morte. E’ importante prenderne coscienza e tenersi lontani con tutte le
4
Cf. anche Pr 6,20; 15,20; 19,26; 20,20; 23,22.25; 30,17; 31,1-9.
Cf. anche Pr 11,6; 14,30; 15,27; 21,26; 23,1-5.2-21; 28,22.24-25; Gb 20,14-23; Qo 1,8; Sir 14,8-10; 18,3019,3; 23,4-6; 31; 37,27-31; e, nel Nuovo Testamento, Gc 4,1-14; 1Pt 4,1-3; 1Gv 2,15-17; ecc.
6
Più avanti si parlerà dell’adulterio: Pr 2,16-19; 5; 6,20-7,27.
7
Cf. Pr 1,29-32; 2,20-22; 3,35; 4,14-19; 5,22-23; 9,12; 11,17; 13,2; 14,18.24.32; 18,20; 22,8; 26,27 e anche Sal
7,15-17; 37,14-15; Sir 14,6; 27,25-27; ecc.
5
5
forze, dalla voce seducente dei peccatori. Altra è la voce da ascoltare e da cui lasciarsi conquistare e affascinare. Essa è tanto discreta che non le si presta attenzione e, quando si presenta, deve gridare.
b) L’APPELLO GRIDATO DALLA SAPIENZA (1,8-19)
I maestri sanno di essere strumenti che devono condurre il discepolo ad ascoltare la Sapienza stessa che parla. Se si tendono le orecchie, ecco, non solo si sente parlare, ma gridare
nel suo silenzio. La sua voce grida ovunque ci si trovi; ovunque si trovino uomini e donne
essa è là; risuona sulle piazze cittadine, dove più grande è il clamore della città che non riesce
a soffocarla; bisogna, però, avere orecchie che la sappiano sentire. E i maestri sono al servizio
di questo ascolto.
Il discorso della Sapienza colpisce qui per il suo tono forte e deciso: minaccia e rimprovera
gli abitanti della città perché si ravvedano (cf. vv. 22ss). Chiama ciascuno con il proprio nome (gli inesperti, beffardi o insolenti, sciocchi) per scuoterli dal torpore, dalla ribellione e dalla loro mortale superficialità.
All’inizio del libro questo poema è particolarmente adatto per attirare l’attenzione
sull’essenziale. L’appello della Sapienza è urgente, da accogliere qui e subito, ne va della vita
o della morte. E’ impressionante l’evocazione delle disgrazie, del terrore e delle angosce che
si abbatterebbero su quanti si sottraessero all’appello. Non si tratta di una punizione inflitta
dalla Sapienza, ma delle conseguenze inevitabili, inerenti alla condotta insipiente, delle quali
la Sapienza riderà e si farà beffe8.
La Sapienza orienta verso il sentire intimo del cuore umano. Gli inesperti non devono continuare ad amare l’inesperienza, i beffardi non devono continuare a compiacersi delle loro
beffe, gli stolti non devono continuare a odiare la scienza (v. 22). Non devono odiare, ma volere e amare la sapienza e il timore del Signore (cf. vv. 29-30). Soltanto chi la ama giungerà a
gustarla nel cuore. Per questo i maestri in 2,1-19 fanno subito un’esortazione diretta a formare
il discepolo al buon gusto sapienziale.
c) I PIACERI E LE DELIZIE DELLA SAPIENZA (2,1-19)
Si ritorna qui allo stile meno categorico di un anziano che si rivolge al figlio-discepolo per
darli il consiglio così essenziale di ricercare la sapienza – vista come un bene sommamente
desiderabile per il suo fascino e la sua bellezza – con tutto i proprio essere, anima e corpo
(viene citato l’orecchio, il cuore e l’intelligenza). Il maestro chiede che essa sia desiderata con
tutto l’ardore del cuore, venga chiamata e implorata come l’amante cerca e grida per l’amata
assente. E la sapienza si lascia trovare da quanti la desiderano. Chi cerca, trova9. Ecco il frutto
in cui si trova l’appagamento di ogni desiderio: la comprensione e l’assimilazione esistenziale
del timore del Signore e la conoscenza di Dio (cf. vv. 5-10). Conoscere nella Bibbia equivale
ad amare. Conoscere Dio equivale ad amarlo.
A partire dal v. 7, nel poema appare un vocabolario più etico. Colui che riceve la sapienza
dall’alto è non soltanto sapiente, ma anche giusto. E per lui, come per tutti coloro che agiscono con rettitudine, il Signore è protezione e scudo, vegliando sui sentieri della giustizia e custodendo le vie dei suoi devoti. Il Signore veglia sul giusto e lo custodisce, come fanno la riflessione e l’intelligenza (cf. v. 11).
Ove la sapienza che esce dalla bocca del cuore penetra nel cuore di colui che l’accoglie, vi
espande delizie e dolcezze (cf. v. 10). Questo gusto e piacere della sapienza è la condizione
8
Cf. anche i toni e le energiche reazioni di Gesù in alcune circostanze: Mt 12,39.45; 16,4; 17,17; 23,13-36; Mc
8,38; 9,19; Lc 9,41; 11,29; 24,25.
9
Cf. Mt 7,7-11; Lc 11,9-13.
6
per non sentire e non andare dietro ad altri piaceri dall’apparenza seducente, e per saper discernere tra la via del male e quella del ben, tra il sentiero della morte e quello della vita. Si
può giungere a provare un piacere sadico e maligno nel fare il male, che seduce e affascina
(cf. v. 14). Per questo il piacere e il gusto della sapienza devono ben radicarsi nel cuore; se ne
deve sentire l’attrattiva, essere conquistati dal fascino e dalla bellezza del bene, al punto di
disprezzare e odiare altri piaceri (nei vv. 26-19 si parla dei falsi piaceri della fornicazione e
dell’adulterio), quando se ne offrisse l’occasione.
d) LA SAPIENZA DI CARNE (= INCARNATA) È IL BENE PROPRIO DEGLI UMANI (2,20-3,26)
Assimilare l’insegnamento dei padri è questione di vita o di morte. Davanti all’uomo sono
poste due strade, una conduce alla vita, l’altra alla morte, una conduce al possesso della terra
promessa, l’altra a vagare per sempre fuori della terra, dalla quale si è espulsi senza ritorno
(cf. Dt 30,15-20). L’acquisizione della sapienza è la condizione per ereditare la terra. I buoni
la possederanno, mentre i malvagi ne saranno strappati (cf. vv. 20-22)10. Affiora con chiarezza, qui, il motivo di una sapienza incarnata, ben radicata sulla terra, capace cioè di affermarsi
nell’ambito concreto in cui siamo chiamati a vivere. I maestri on si stancano di insistere
sull’importanza dell’assimilazione dei loro insegnamenti (torah e mizwoth) che vanno custoditi nel cuore (cf. 3,1). E i due attributi divini – bontà e fedeltà – rivelati a Mosè sul Sinai (cf.
Es 34,6-7) devono accompagnare e plasmare in modo permanente l’esistenza del discepolo,
tenuti con sé gelosamente come una collana preziosa, e incisi sulle tavole di carne del cuore
(cf. 3,2-4; Ger 31,33).
Il segreto è non ritenersi saggi (cf. 3,7)11 e non appoggiarsi sulla propria intelligenza, ma
confidare nel Signore con tutto il cuore (cf. Pr 16,20; 29,25), rimanendo tranquilli e sereni
come bambini tra le braccia della madre (cf. Sal 131): la vita fluisce nel timore del Signore, il
quale provvede e ha cuore il bene delle sue creature, delle quali egli conosce i bisogni molto
più di quanto non siano da esse conosciuti. Così si sperimenteranno sia gli effetti benefici su
tutto l’uomo («salute e refrigerio delle ossa»: v. 8) ed anche il benessere materiale (cf. v.
10)12. Con questi stessi beni va onorato il Signore; in altre parole tutti gli averi vanno riconosciuti nella loro verità di doni, e restituiti al loro Donatore nel rendimento di grazie13.
Il poema continua nel ribadire che la vera ricchezza, il tesoro incomparabile di ogni beatitudine, è il possesso della sapienza. Stringendosi a lei si godono le gioia del giardini di Eden
(cf. vv.13-18). Ogni altra ricchezza sarà apprezzabile e godibile nella misura in cui venga elargita la sapienza, altrimenti è vana e pericolosa.
Il poema termina (vv. 21-26) nell’esortazione a rimanere saldi nella sapienza; allora «il Signore sarà la tua sicurezza» (v. 26).
e) LA SAPIENZA E GLI ALTRI (3,27-35)
Vi è un unico modo per sapere se siamo stati veramente affascinati e attratti dalla sapienza,
e se essa sia stata scelta come un tesoro esclusivo, a preferenza di ogni altro bene. Sarebbe
molto illusoria e in autentica la beatitudine di qualcuno che godesse dei benefici della sapienza, e non si preoccupasse di farne scaturire azioni a essa conformi. La carità è il banco di prova della sapienza (cf. vv. 27-35). I primi due comandi (v. 27) concernono i doveri verso i po-
10
Cf. Dt 11,8-32; Sal 37,3.9.11.22.29.34; Mt 5,4.
Ritenersi saggio è massima stoltezza per Pr 26,5.12.16.
12
Cf. 1Re 3,7-14, dove Salomone chiede al Signore il dono della sapienza, e per qusto il Signore gli accorda
anche tutto ciò che non ha domandato, felicità, lungi giorni di vita e molti beni.
13
Cf. Lv 27,30-33; Nm 15,17-21; Dt 14,22-27; 26,1-15; Sir 35,7-10; ecc.
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7
veri. Diverse sentenze trattano questa materia14. Nel libro dei Proverbi, come nel resto del
canone biblico, è forte la coscienza che il Signore è sensibile al grido dei poveri e interviene a
difendere la loro causa contro coloro che li opprimono. Chiudere l’orecchio e le mani di fronte al povero che invoca non è solo un gesto impietoso verso un proprio simile, ma un attentato contro Dio stesso, che è il Creatore dei ricchi come dei poveri, ma che ha specialmente a
cuore la sorte delle sue creature più deboli, come farebbe una madre verso i propri piccoli più
fragili e bisognosi di attenzioni amorevoli.
Oltre alle norme di comportamento verso i bisognosi, i vv. 29- contengono indicazioni nei
confronti del prossimo in generale. E’ grave tramare il male contro il proprio ospite o comunque contro qualcuno che abita fiducioso e pacifico presso di noi (v. 29); non si deve litigare
con nessuno senza motivo (v. 30)15; bisogna vigilare sui sentimenti – si può infatti giungere,
ad esempio, a invidiare il violento (cf. vv. 31-33)16 -. Gli autori dei Proverbi non sono
ingenui; sanno bene che anche i malvagi possono divenire invidiabili per la proposterità e il
successo che ottengono. Il bene va desiderato per se stesso, non per i benefici che apporta.
Così come il male va sempre disprezzato in quanto male e non si trasforma in bene, anche se
apparentemente sembra che, nel farlo, si conseguano benefici.
f) LE DUE VIE (4,1-27)
Il saggio non si stanca di ammonire coloro che gli sono teneramente cari come figli (cf. vv.
1-4.10.20-22). Temi già trattati ritornano. Ma affiora anche un nuovo tema, quello sponsale,
che verrà sviluppato nei testi seguenti. La Sapienza è presentata come una donna da amare
gelosamente con tutto il cuore a preferenza di qualunque altro amore, come condizione unica
per conoscere la via giusti su cui camminare e vivere. Ama e cammina! Chi la ama conosce
dunque la strada dove porre il piede, sa guardare diritto davanti a sé, senza deviare né a destra
né a sinistra. L’alternativa alla via della sapienza è quella antitetica del male, della morte.
Non ci sono altre vie! Qui i saggi parlano chiaro: se non si è innamorati della sapienza, si rischia di ritrovarsi, senza neppure accorgersene, a battere la strada dei malvagi, che invece va
assolutamente evitata (cf. vv. 11-19). Il pericolo è reale, perché tale alternativa è non solamente possibile, ma seducente e sempre alla nostra portata. Anche i malvagi, dopo tutto, dormono sonni soddisfatti, mangiano pane e bevono vino, anzi forse i loro sonni sono apparentemente più dolci, il loro pane e il loro vino, a prima vista, possono risultare più gustosi. Tutto il discorso verte, dunque, sulla necessità di imparare l’arte di discernere, per diventare uomini liberi, capaci di scegliere il bene e rigettare il male. Per questo è importante vigilare con
ogni attenzione sul cuore (cf. vv. 20-27), che è la sorgente da cui sgorga la vita. Allora anche
la bocca, gli occhi e il piede saranno bene indirizzati.
g) LA MERETRICE E LA SPOSA; INTERMEZZO; L’ADULTERA (Pr 5; 6,1-19; 6,20-7,27)
Il capitolo 5 dei Proverbi riprende e amplifica il tema della meretrice già trattato in parte in
2,16-19. Alla «donna straniera» viene contrapposta la sposa legittima (cf. vv. 15-19). Se la
sapienza parte dal cuore e penetra benefica e salutare in ogni parte del corpo, non si può dare
il proprio corpo a una meretrice. Noi possediamo un corpo da custodire con ogni attenzione,
non alienandolo e non mettendolo in balìa di altri, ma conservandolo nel suo vigore e nella
14
Cf. Pr 10,2; 11,4; 19,17; 14,31; 21,13; 22,22-23.28; 23,10-11; 28,27. In Pr 31,20 la donna perfetta «apre le
sue mani al misero, stende la mano al povero».
15
Altri proverbi sono ancor più radicali: è saggio evitare di litigare, o saper troncare subito una lite prima che si
esaperi, anche se ci fossero motivi giusti pe aprirla: cf. Pr 6,14.16-19; 15,18; 17,14; 18,6; 22,10; 26,20-21.
16
Cf. anche Pr 23,17; 24,1-2.19-20. Ci si può domandare come si possa arrivare a invidiare un malvagio, dal
momento che la cativeria, come tale, non dovrebbe esercitare alcuna attrattiva.
8
sua capacità di amare colei a cui è dovuto l’amore: la sposa, … la Sapienza17.
Tutte le realtà di questo mondo, la fedeltà dell’amore coniugale sembra ciò che, più di ogni
altra, significhi l’unione della Sapienza con i figli dell’uomo. Questa, infatti, ci ama e desidera corrispondenza al suo amore: un amore esclusivo, geloso, che non ammette rivali;
un’acqua sorgiva che non si deve sciupare, disperdendola al di fuori. I saggi ridicono, con le
immagini dell’adulterio e della fedeltà coniugale, quanto i profeti avevano significato con le
stesse immagini per parlare delle relazioni del Signore con il suo popolo.
Dopo un intermezzo (6,1-19) – che consiste in quattro brevi istruzioni su una tematica differente: la causazione data con imprudenza (6,1-5); il confronto tra il pigro e la formica (6,611); uno schizzo dell’uomo perverso (6,12-15); le sette cose abominevoli agli occhi del Signore (6,16-19), prosegue l’insegnamento riguardante la sfera sessuale (6,20-7,27). Se il discepolo desidera con tutto il cuore e tutte le forze la bellezza della Sapienza, non si farà adescare da una prostituta. La Sapienza stessa lo preserverà, lo proteggerà con il suo amore dalle
lusinghe dell’adultera e della straniera.
Si può notare un crescendo in questi testi che descrivono i pericoli della fornicazione e
dell’adulterio: in 5,3-14 l’accento era posto sull’attrattiva del piacere sessuale e del rapporto
illecito. Ora si parla di desiderio e di passione travolgente, che consuma con un fuoco (cf.
6,25-28). «Non desiderare la donna del tuo prossimo» è un precetto del decalogo18. L’adultera
è insensata, conduce alla rovina colui che ne viene trascinato. Il marito geloso e tradito sarà
spietato nel giorno della vendetta (cf. 6,29-35). Un’altra è la «donna» di cui innamorarsi e da
accogliere come sposa: la Sapienza (cf. 7,4). I profumi della sua amicizia e del suo amore sono così inebrianti da smascherare le seduzioni ingannevoli di altri profumi e di altri piaceri
(cf. Pr 7,5-27)19. Non si può essere più precisi nel descrivere i pericoli mortali che attendono
l’incauto giovane sedotto dalla falsa bellezza di Donna Piacere.
h) IL SECONDO APPELLO DELLA SAPIENZA (Pr 8)
Ora i maestri tacciono. Hanno esortato e ammonito il figlio-discepolo con tutti i mezzi a
loro disposizione perché apra il cuore ad ascoltare la voce di Donna Sapienza. Ed eccone il
suo la sua voce. Come un commerciante va in cerca della gente, a cui offrire i propri prodotti
pregiati, così essa si apposta nei punti più affollati per offrire la propria istruzione. Le parole
di Sapienza in persona sono giuste, vere, senza doppiezza; esse posseggono una preziosità
che nessuna cosa preziosa le eguaglia, eppure sono offerte gratuitamente e con sovrabbondanza a quanti le desiderano (cf. Is 55,1-3). Essa possiede prudenza, scienza e riflessione,
mentre ha in odio ciò che il Signore stesso detesta: la superbia, che è la madre di tutti i vizi, e
l’arroganza, la cattiva condotta e la bocca perversa (cf. vv. 12-14). Essa dipende interamente
dal Signore che l’ha creata, ma è una figlia del Signore tutta speciale rispetto ai figli
dell’uomo, perché primogenita, precedente tutti e tutte le cose (cf. vv. 22-25). Quando il Signore ha dato inizio alla creazione essa era là; era accanto a Lui come testimone e depositaria
dei segreti divini: nulla le era nascosto e Dio si compiaceva di rivelarle ogni cosa (cf. vv. 2631). Ogni giorno, in ogni istante, mentre il tempo fluisce, il Signore e la Sapienza giocano,
17
Cf. Pr 8-9 ove si parla della Donna Sapienza e della Donna Follia. La Sapienza è da amare e la Follia è da
detestare.
18
Es 20,17; Dt 5,21.
19
Cf. la somiglianza delle espressioni di Pr 5,18-19 con quelle di 7,16-19: il contrasto tra le tenerezze inebrianti
della propria sposa e quelle dell’adultera introduce il tema del discerniemnto del vero amore. E’ interessante il
commento di sant’AMBROGIO in De Cain et Abel I, 4, 13-14 ove afferma che «in ciascuno di noi… abitano
insieme due donne, divise da inimicizia e discordia, che riempiono la casa della nostra anima di dispute
provocate dalla gelosia. Una di esse, che è per noi fonte di soavità e amore, insinuante consigliera di ciò che
attrae, si chiama Piacere; questa è da noi ritenuta un’amica di famiglia; l’altra, il cui nome è Virtù, noi la
giudichiamo dura, aspra e crudele».
9
compiacendosi l’uno nell’altra20: un piacere che essa partecipa ai suoi compagni di gioco, i
figli dell’uomo. Giocare con la Sapienza rende sapienti (cf. Pr 10,23). Attraverso di lei il Signore ci vuole condurre a farci partecipi della sua vita e della sua gioia, del suo gioco e della
sua danza. Tutto questo la Sapienza lo proclama, gridando sulla via, ai crocicchi delle strade,
presso le porte della città e sulle soglie degli usci delle case (Pr 8,1-3).
Ora il movimento cambia: dalla strada li vuole condurre per introdurli nella sua dimora, al
banchetto che ha preparato per loro, ma mangiare il suo pane21 (cf. vv. 32-36). Ma allo stesso
tempo anche Follia cerca di adescare gli inesperti invitandoli a casa sua, promettendo il suo
pane furtivo. Il primo però è alimento di vita, il secondo fa precipitare nel profondo degli inferi (cf. Pr 9,13-18). In ogni circostanza della vita l’uomo è messo nella condizione di decidere a quale banchetto nutrirsi.
i) AL BANCHETTO DELLA SAPIENZA (Pr 9)
La Sapienza ha costruito con le sue mani una casa, ricca e spaziosa, per accogliere i suoi
amici. Come una madre sollecita del bene dei propri cari, essa uccide con le proprie mani per
offrire cibo, e imbandisce personalmente la tavola (cf. Pr 31,10-31). Il pane e il vino offerti
dalle sue mani operose sono il suo pane e il suo vino. Un cibo di cui essa soltanto conosce il
segreto, e che dona senza misura a quanti accolgono il suo invito. Allo stesso modo Gesù, la
Sapienza eterna del Padre, il Senso (Logos) di ogni cosa (cf. Gv 1,1-3.14) che ci dice: «Venite
a mangiare» (Gv 21,11)! Ogni giorno nella Chiesa si rifà presente per noi, nell’eucaristia, la
memoria della nostra salvezza, che ci alimenta del suo corpo e del suo sangue. Essa ci fa pregustare la gioia del banchetto della vita eterna al quale il Padre stesso continua ad invitarci.
4. Le raccolte centrali
Il corpo centrale del libro (Pr 10-31,9) è costituito da una ricca raccolta di sentenze. È difficile precisare il tempo esatto della loro composizione. Costituiscono forse la parte più antica.
4.1. Pr 10,1-22,16
Questa sezione contiene 375 mešhalim. I temi trattati sono i più vari, numerosi come i fatti
e le situazioni della vita quotidiana. Domina sempre il desiderio di cogliere nel mondo un ordine e di elaborare, di conseguenza, norme per il comportamento del saggio.
Si possono distinguere in due grandi aree: Pr 10-15 e Pr 16-22, di cui diamo sotto indichiamo la struttura che ci può essere molto utile per orientarci nella lettura.
Ö Pr 10-15: Questi sono i proverbi di Salomone
Il ruolo del giusto
10,5-32
Giustizia e onestà
11
Chi ama e chi odia la sapienza
12,1-12
I beni e i mali della lingua
12,13-24
Genitori e figli
13
Le doti della sapienza e della stoltezza 14
Il timore del Signore e l’umiltà
15
20
Il termine ’amon del v. 30, accanto alla traduzione di «artigiano» o «architetto», proposta anche dalla LXX,
ammette altre comprensioni, come ’amûn = bambina diletta.
21
Troviamo e chi di queste pagine nel NT, specialemnte in Gv 1,37-39; 13,36; 14,1-6; ecc.
10
Ö Pr 16,1-22,16: Ancora dai proverbi di Salomone
Il governo di Dio sul mondo
16
Vale di più…
17
Proverbi per varie occasioni
18-19
Antologia di proverbi
20
Proverbi di natura diversa
21,1-22,16
y Nella prima sezione (Pr 10-16) prevale il parallelismo antitetico, e il carattere è più descrittivo che imperativo. Le principali coppie antitetiche sono le seguenti:
a) quella del giusto-empio (94 proverbi su 184). Ecco il ritratto del giusto: egli sa regolare
la sua parola, una parola preziosa (10,20) che nutre (10,21), che è giusta (12,5), sincera
(13,5), riflessiva (15,28); egli è giusto (11,3.11; 12,6; 14,2.11; 15,8), è benefico (11,25), benevolo (11,27; 12,2; 13,2.22; 14,14.19.22; 15,3), è fidato (11,13; 12,17.19.22; 13,17;
14,5.25), modesto (11,2), sensibile (22,17), amante dei poveri (14,21.31), incorruttibile
(15,27), esigente con se stesso (10,27; 12,1) e dominato dal timor di Dio (10,27; 14,26.27).
Su di lui si attua in pienezza la legge della retribuzione: avrà sicurezza (10,9.25.29.30; 11,3.5,
ecc.), gioia (11,10; 13,9; 14,21), pace col Signore (11,20; 12,22; 15,8.9.29), discendenza benedetta (11,21; 13,22), sapienza sempre maggiore (10,31-22; 112) e scamperà dalla morte
prematura (10,2.11.16.17; 11,4.7.19.28.30; 12,28; 13,3; 14,27; 15,4.27). L’empio, invece, è in
pratica tratteggiato come l’esatto negativo del giusto, e la retribuzione terrena piomberà inesorabile su di lui togliendogli stabilità e speranza (10,3.25.30; 12,3.7; 10,28; 11,7.23), perché
il Signore non lo può tollerare (10,3; 11,20; 12,22; 15,8-9).
b) quella del saggio e dello stolto. Si ribadisce che la sapienza si ottiene con l’ascolto
(12,15; 13,1.10.20; 15,5.14): «Va’ coi saggi e saggio diverrai» (13,20). Il saggio a sua volta
diventa fonte di sapienza per gli altri (15,2.7).
c) quella dell’ozioso e del diligente. Il lavoratore è sinonimo di giusto (15,19), mentre il
pigro, «aceto ai denti e fumo agli occhi» (10,26) è il tipo dell’empio. Il successo economico è
segno di benedizione (10,4-5; 12,11.27; 13,4).
d) Un’ultima antitesi, più rara (19 proverbi) e più teologica, raffronta ciò che Dio ama e
ciò che egli odia. Egli interviene giudicando, correggendo e interpretando la scala dei valori
umani. Così Egli aiuta l’affamato deludendo la cupidigia dell’empio (10,3), che benedice arricchendo il giusto (10,22), che è fortezza per l’uomo retto e rovina per il malfattore (10,29).
y Nella seconda sezione (Pr 16,1-22,16) prevale invece il parallelismo sinonimico. Anche
qui appaiono coppie antitetiche.
a) La coppia giusto-empio. Il ritratto più completo ora è quello negativo del malvagio: orgoglioso (16,5.18.29; 17,19; 18,12; 21,4), beffardo e arrogante (21,24), tortuoso, perverso e
infido (17,20; 19,1; 22,5.12), violento (16,29), bugiardo (17,4; 19,5.9.22; 21,6.28), impietoso
(21,10), si beffa della giustizia (19,28; 21,7), disprezza i poveri (17,5; 22,16), ne irride i diritti
(17,5.26; 18,5), combatte il prossimo (16.28; 17,9; 18,1). La tesi della retribuzione è particolarmente esaltata per il giusto che avrà lunga vita (16,31; 19,23; 21,21; 22,4), ricchezze
(22,4), protezione e sicurezza (16,17; 18,10; 19,16.23; 21,23; 22,5), discendenza benedetta
(20,7) e onore (21,21; 22,4).
b) La coppia sapiente e stolto. Qui si sottolinea che la sapienza, più che valore morale, è
innanzitutto abilità, intelligenza, capacità di districarsi nelle contraddizioni quotidiane. E’
quindi una qualità umana (16,21.23.32; 18,15; 19,11; 20,5, ecc.). Lo stolto, invece, è dipinto
sulla base dei peccati di lingua (17,28; 18,2.6; 20,3). E rivelando un certo pessimismo pedagogico, altrove temperato (19,25; 20,30; 22,10), si dichiara che lo stolto è incorreggibile
(17,10.16; 19,19.29; 20,11; 22,6.15).
c) La coppia diligente-ozioso dà origine ad aforismi simili a deliziose caricature, spesso vi11
cine al grottesco (19,24; 20,4.13; 21,5.17; 22,13).
d) la coppia ricco-povero. Sono pochi i proverbi che vedono, secondo la tradizionale prospettiva retribuizionistica, il povero come un peccatore o un pigro (19,15; 20,4.13; 21,17.20).
La ricchezza è vista come benedizione divina (17,8; 18,11.16; 19,4.6; 21,14). Ma c’è anche
chi ottiene la ricchezza in modo ingiusto (16,8; 17,1; 19,1.22; 20,21; 21,6; 22,4.16). Dio è
l’avvocato difensore del povero (17,5; 21,13; 22,2): punirà severamente lo sfruttamento del
povero (22,7), i maltrattamenti dei deboli (18,23), mentre l’amore per i poveri diverrà sorgente di benedizione (19.17; 21,26; 22,9.16).
In questa sezione – la più penetrata di teologia ebraica – si afferma che esiste un piano
tracciato da Dio, rivelato dall’atto creativo divino (16,4.11), che si rende visibile anche nella
provvidenza divina che dispone ogni realtà con amore e passione (18,22; 19,14.21; 20,27;
21,31). Da un quadro teologico così limpido nasce anche una forte coscienza del peccato, visto come progetto alternativo umano al piano di Dio (16,6; 20,6.9).
Un elemento originale di questa sezione è anche l’ingresso dei proverbi monarchici, che
presentano il re come luogotenente di Dio sulla terra (16,1-16; 20,22-21,3), come il garante
terreno del processo divino della retribuzione (16,13; 20,8.26; 22,11). Infatti «il cuore del re è
un canale d’acqua in mano al Signore: a tutto ciò che vuole egli lo inclina» (21,1).
4.2. Pr 22,17-24,34
Pr 22,17-24,22 è una collezione di 30 proverbi (un adattamento di un classico sapienziale
egiziano: la Sapienza di Amenemope) nei quali il discorso è diretto, rivolto al lettore. In essi
predomina non tanto l’ammonizione o la messa in guardia né l’imperativo – che non mancano del tutto – ma piuttosto la descrizione e l’argomentazione sapienziale. Poco usate sono le
varie forme di parallelismo. E’ uno stile che sembra riflettere da vicino la relazione tra maestro e alunno. Particolarmente grazioso e raffinato è il quadretto dell’ubriacone (Pr 23,29-35),
descritto con pathos e fine ironia.
Pr 24,23-24 è un’appendice a tale raccolta. Raccoglie «parole di sapienti» sparse, centrate
su tre temi: i rapporti con il prossimo, la sobrietà e il lavoro.
4.3. Pr 25-29,27
y Nella prima parte (Pr 25-27), che utilizza il parallelismo sinonimico, il mondo di queste
pagine è quello della natura aperta, della cultura rurale, dell’amore per le realtà terresti, espressione della sapienza creatrice di Dio. Ecco allora la sabbia (27,3), la pietra (26,27;
27,3), le fonti (26,26), l’acqua (25,25; 27,19), i campi (27,26), il fieno (27,25), le spine
(26,9), il vento (25,14.23), le nubi (25,14), la pioggia (26,1; 27,15), la neve (25,13; 26,1), il
freddo (25,13), la calura estiva (26,1). Ecco gli animali: l’asino e il cavallo (26,3), i greggi
(27,23.26), il leone (26,13), gli uccelli (26,2; 27,8), i capretti (27,26). Ecco le arti e le professioni: l’orafo (25,4.11.12; 26,13; 27,17.21), il tessitore (27,13.26), il carpentiere (25,24;
26,14; 27,15) e il contadino, spesso timoroso della carestia (25,16; 27,7-8).
Non mancano le tradizionali coppie del sapiente e dello stolto (con particolare attenzione
allo stolto, del quale è abbozzato un ritratto vivacissimo soprattutto a livello umano e intellettuale), dell’ozioso e del diligente, del giusto e dell’empio: ma in forma molto limitata, come
esigua è la ripresa dei proverbi monarchici.
Argomenti trattati sono anche la calunnia (26,20.22), l’ipocrisia (26,23-25.28), la menzogna (25,18), l’indiscrezione (25,8.23), le liti (25,24; 26,21; 27,15-16), il tradimento e lo spionaggio (25,9-10; 26,19.28), la vanagloria (27,1-2), la mancanza di autocontrollo (26,2.17); e,
in positivo, per quanto riguarda la buona educazione e i valori umani: il calibrare le lodi
(25,27), il conservare l’amicizia (17,10), il godere delle piccole gioie della vita (25,16),
l’intuire i sottintesi (26,24-26), il curarsi del pane quotidiano (27,23-27).
12
y La seconda parte (Pr 28-29), che conta di 128 proverbi che utilizzano il parallelismo antitetico, sembra aver di mira anzitutto studenti che aspirano a cariche pubbliche. Infatti
l’uomo politico ideale deve possedere i seguenti tratti: forte senso di responsabilità nei confronti del popolo, soprattutto delle classi più deboli (28,3; 29,2.4), imparzialità
nell’amministrare la giustizia (28,28; 29,14), sapienza e doti intellettuali e umane (28,2.16;
29,4.14), esemplarità nel comportamento (29,4.12), odio contro lo sfruttamento del popolo
(28,3.15-16; 29,4), astuzia e realismo nei confronti dell’adulazione, dell’ipocrisia e della falsità (29,12.26), riconoscimento della suprema autorità divina (28,4.5.7.9), fiducia in JWHW
(28,25; 29,25), davanti al quale anch’egli deve riconoscersi peccatore (28,13).
5. Appendici (Pr 30-31)
Gli ultimi due capitoli del libro sono costituiti da massime varie. Probabilmente vanno attribuiti a un redattore di epoca postesilica, che li ha aggiunti come «appendici» alla raccolta
precedente, attingendo anche a materiale preesilico.
y La prima appendice (30,1-9) contiene una bella preghiera. Argùr – che non è ebreo chiede due cose complementari: scartare gli estremi e concedere il giusto per vivere. Gli estremi di cui il sapiente si augura di non fare di persona l’esperienza sono la povertà e la ricchezza, cioè l’indigenza e il lusso. Perché sia l’una che l’altra comportano dei rischi, di cui
egli è ben conscio. Se fosse ricco rischierebbe di dimenticare il Signore (cf. Mt 6,24: la ricchezza «Mammona»). Se nella miseria sarebbe tentato di prendersela con Dio, maledicendolo
perché lo avrebbe abbandonato. Perciò Argùr chiede al suo Dio di evitare questi estremi finché è in vita. A questa così lucida richiesta Agùr ne oppone una seconda, in positivo: «Lasciami gustare la mia parte di pane». Come non pensare a quell’altra preghiera, quella che
Gesù insegna ai suoi discepoli: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano?» (Mt 6,11)?
y La seconda (30,10-33) è costituita da proverbi numerici, molto sofisticati, idonei ad esprimere lo stupore di fronte ai misteri della vita e la curiosità del poeta-pensatore.
y La terza (31,1-9) riflette la tipica saggezza di un amministratore o di un responsabile della comunità. E’ una istruzione attribuita alla madre per conferire ai consigli un carattere familiare. Chi è responsabile della comunità deve giudicare in modo obiettivo e non lasciarsi fuorviare da nulla: sono portati due esempi di tentazioni – il sesso e il vino – che possono far perdere la lucidità e l’equilibrio necessari in chi ha una responsabilità sociale.
y La quarta appendice (31,10-31) è il ritratto di una donna perfetta che personifica la sapienza, sia quella secolare sia quella religiosa.
Con questo ritratto vivo e incarnato il redattore finale ha costruito un parallelo ai capp. 1-9.
Se infatti in questi primi capitoli ricorreva di continuo l’invito a cercare la sapienza, ecco ora
- dopo il lungo percorso attraverso tutto il libro - l’immagine viva della vera sapienza nella
figura di una donna eccellente.
Le qualità essenziali di questa donna Sapienza sono: il lavoro instancabile fonte di benessere e la buona amministrazione: ella fa, sceglie, fa venire, si alza, dà, valuta, compera, pianta, si cinge, usa con forza le braccia (vv. 13-19): non c’è quindi alcun spazio per l’ozio e la
pigrizia. Con la sua attività confeziona vesti per la famiglia e per sé. La sua previdenza permette alla famiglia di non temere l’inverno, perché tutti hanno vestiti «doppi» e «foderati».
Perciò la famiglia la loda (v. 28). Altre confezioni le vende al mercato; la carità verso i bisognosi e i poveri (v. 20); l’uso della lingua fatto con modestia, saggezza e amore verso tutti (v.
26). Per questo, la donna perfetta, dal suo focolare diffonde la felicità con chiunque. Il marito
gode presso di lei, nella sicurezza e nel riposo, e beneficia dei suoi consigli e incoraggiamenti. I figli possono solo lodarla e testimoniarne la saggezza e intraprendenza (vv. 27s).
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