religione come finestra
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religione come finestra
Affacciarsi alla finestra Fondazioni culturali per uno studio della prospettiva religiosa nella scuola dell’ infanzia e oltre Era calata la notte, la luce del giorno se n’era andata e nel cielo rilucevano solo le stelle. Tutto il resto era nero. Chiesi a mio babbo dove se ne fosse andata tutta la luce del giorno. E’ sempre lì –rispose- dietro la volta del cielo e le stelle sono i forellini che vi sono stati fatti a ricordarci che la luce c’è sempre, anche quando non risplende nella sua interezza. Cielo e cieli, universo e universi, all’infinito. Luce, luci d’altra luce. Natura e nature. Guardata la Terra, dopo aver trovato nei fenomeni della Natura il centro di gravità culturale dell’attività di ricerca dell’anno scorso, il gruppo delle scuole dell’infanzia della provincia di Parma studierà e lavorerà nell’anno prossimo su un altro versante critico dell’esistenza umana: i fenomeni e le figure della vita religiosa, la distensione ad infinitum dell’orizzonte degli eventi. Non per fare catechesi, e nemmeno per trattare come oggetto culturale la struttura dommatica di alcuna religione ma per inter-rogarci sul sentimento che ci porta a ri-legarci con l’infinito che trascende gli spazi e il tempo e nel contempo può – oltre gli obiettivi della contingenza- dare un fine al nostro percorrerli. In vista di ciò, così come l’anno scorso abbiamo pensato/insegnato la Natura (si può insegnare qualcosa – ovvio ma non certo- solo quando la si pensa), tra noi e dialogando con studiosi e operatori della stessa, l’anno che viene –l’ultimo del mio magistero di Ispettore- penseremo Dio parlandone con teologi e filosofi, proveremo come confrontarci con i contatti che i bambini comunque hanno con l’assoluto oltre: la nascita di un fratellino, la morte di un nonno, le festività religiose, le cerimonie….ma anche con quegli eventi che, pur appartenendo principalmente alla scienza, suscitano uno sgomento e una meraviglia che fanno intuire un mistero oltre la Natura: le stelle nella notte (Lucrezio, De rerum natura), gli animali, le piante, il mondo fisico come totalità (Rousseau, Emile). Natura e Dio: l’insieme dell’esistente e l’Ente che è pensato da millenni come il punto di origine e conversione, il termine in cui vengono a collimare tutte le direzioni di senso. Vedremo come introdurre ai fenomeni religiosi della vita sia esssenzialmente aprire ai bambini una finestra sull’infinito e gettare insieme lo sguardo oltre i confini del visibile. Vi invio il presente materiale di lettura; non lo firmo poichè in una certa misura viene dal saccheggio della tesi di laurea di mia figlia Annalisa (parte su Agostino), di uno studio di Agostina Melucci (parte introduttiva) e di un lavoro di trent’anni fa scritto da me insieme ad Aida Leoni (parte sui teologi del Novecento). Le basi sono queste e le ho appena adattate. Sono scritte senza alcun “imprimatur”, semplici ma densi aggregati di inter-rogazioni. Parte prima: guardare lontano, anzi lontanissimo 1.1 L’inter-rogazione su Dio: la domanda assoluta e fondazionale Da sempre Dio non è apparso in forma propria incontrovertibilmente visibile. Venne il Figlio 2000 anni fa, mostrò il Volto e parlò a molti; poi tornò in Cielo e da allora non si fece più vedere nè sentire, se non alle anime mistiche. Milioni di uomini tuttavia lo invocano da millenni, altri lo bestemmiano e altri si dicono certi che sia solo una invenzione della disperazione dell’uomo di fronte al male e alla morte. Il sapere della umanità contemporanea procede comunque, nella sostanza, etsi Deus non daretur lasciandolo alle prospettive della singolarità o alla sociologia della cultura. La secolarizzazione (riconoscere solo ciò che si mostra nel tempo e non guardare ad altro) è pressochè integrale nell’architettura concettuale del conoscere della modernità come della postmodernità. Dio non è solo invisibile e inconoscibile, è impensabile come termine generale riconosciuto dell’umanità. E’ avvertito generalmente come un concetto che agisce solo nelle forme di vita religiosa, un oggetto culturale studiato nella sociologia della religione. Dio, l’Eterno, Colui che non necessita di avere il tempo fra le sue categorie, sarebbe (voce del verbo essere) anche se non esistesse; forse basta a se stesso, forse non ha bisogno di volgersi (ma allora perchè è divenuto il Volto?). L’uomo no: è/esiste necessariamente entro il tempo ed entro la storia, non può entrarvi e fuoriuscirne a volontà. Esiste-per, ha nella coscienza intenzionale la sua caratteristica essenziale. Ardua a riconoscersi, ma non configurabile se non guardando al proprio interno attraverso la rappresentazione personale dell'esterno, l'Alterità verso cui pro-gettarsi, si pone all'orizzonte sociale ed educativo come disposizione all'oltre-sé, riconoscimento a se stessi e agli altri di quella indefinitezza e di quella creaturalità (ovvero della possibilità di essere ogni giorno nuovi, altri rispetto all'oggi, Schillebeek) che appartengono a ogni essere umano sempre, ma particolarmente nelle situazioni non tutelate dall'avere con certezza un habitat proprio e un giorno a disposizione. L’apertura indeterminata all’Intero, insieme alla speranza, figlia virtuosa dell’incertezza, abita ancora le scuole. Quivi l'esser-ci (come essere-qui ed essere -a –noi e ad-altri) ricontestualizza e aiuta il costituirsi della relazione educativa ; può portare molti all’attenzione verso la trascendenza, intesa come lo stare con l'intenzione -e dunque con la parte più significativa di noi- oltre il luogo che si frequenta. L'educazione che salva é quella che ci consolida nelle radici anche religiose della nostra terra europea ma nel contempo apre, e apre alla pluralità dell'Intero, nelle sue varie costellazioni. Radici e cielo. 1.2 La compressione nel visibile e le mète Sono appena accennate alla nostra vista le mète, i fini: prospettive sia vicine che lontane nel tempo. Sono vicine perchè devono orientare, illuminare quotidianamente il cammino educativo, ma sono lontanissime perchè riguardano il lungo periodo. Per questo occorre consapevolezza culturale. Formare è orientare, ossia indicare al cammino altrui un punto non troppo definito verso cui muovere. Il magistero dell'indicare va svolto sia da un punto di vista generale e astratto, sia con attenzione ai possibili esiti particolari e concreti. Guardare lontano e vicino; utopia e disincanto. La scuola non appartiene all’epoca, non è integralmente “secolare”. Attraversa l’epoca “epochizzandola”, esperendola e traendosene fuori, con l’eredità dei millenni trascorsi e la proiezione/profezia verso quelli venturi. E’ utopia. L'utopia (attrazione per il non-luogo che sta oltre l’orizzonte) dà senso alla vita perchè esige che la vita abbia un senso. Il lontano e il vicino, l’ideale e il possibile) non sono in contrapposizione ma possono sorreggersi e correggersi a vicenda. (C. Magris). Il destino di ogni uomo assomiglia a quello di Mosè, il pedagogo del popolo ebraico, il quale se ben ricordo non raggiunse mai la terra promessa ma non smise di camminare e far cenni nella sua direzione. 1.3 Indicazioni Dalle nostre esperienze di vita, dalle diverse identità che viviamo quotidianamente, proponiamo tratti di una cultura dell‘esistenza e della possibilità di continuamente ridisegnarla in un agile, aperto, duttile, dialogante, creativo progettare come quello esposto nella teoria della Postprogrammazione (1987/91) e poi ridefinito nel nostro saggio nel Manifesto del 1995. Si potrebbe configurarli come segue. -L’esistere autentico della persona non è mai soltanto un in sé, una in-tensione (se non in momenti di difficoltà e di necessaria difesa). E’ essenzialmente pro-tensione, intenzionalità. -Dunque, aver cura dell’esistere proprio e altrui come esistere in pieno: esistere-a, esistere-di, esistere-con, esistere-fra, esistere-per. -Coltivare l'epoché difensiva: ridurre i condizionamenti delle cariche di chiacchiera, banalità, di attivismo alienato e alienante. -Occorre darsi e offrire un insieme plurale e variabile di linee di riferimento singolarmente instabili, ma che complessivamente possa fungere da costellazione orientante. -Individuare nello scolaro il primo soggetto progettante e non l'oggetto dell'ingegneria educativa, come invece accade quando questi è semplicemente chiamato a conseguire obiettivi predefiniti, senza sua alcuna partecipazione. -Tentare di progettare secondo lo stato della relazione complessiva che il soggetto, insieme al maestro e ai compagni, può instaurare con gli elementi del suo campo di esperienze. -Non si esiste integralmente se ci si disperde nell’inintenzionalità, ma una vita troppo progettata o addirittura pianificata sarebbe una vita povera. Occorre, nella vita e nell’educazione, anche essere aperti ai progetti assolutamente Altri, o almeno stra-ordinari. -Divenire almeno un poco poeti ed educare poeti (la poesia, insieme alla filosofia, alla religione e all’arte intro-ducono all’infinito), per vivere come soggetti, elementi della nostra costellazione del mondo. Guardata nella coscienza che oltre alle costellazioni che vediamo esisitono altre costellazioni, infiniti cieli. Parte seconda: Il testo agostiniano come invito alla domanda essenziale, all'interpretazione e alla cura dell’esistere-per-l’essere 2.1 Inter-rogarsi su Dio Le idee di persona e di mondo-cosa (il mondo a prescindere dagli esistenti umani e non) sono ben più antiche della modernità e le sopravviveranno a lungo, fino all'estinzione della specie umana. Penso che l'attuale compito della pedagogia come scienza filosofica sia prima di tutto “clinico”: quello di conoscere le malattie del soggetto e del suo mondo vitale e lavorare affinché i soggetti concretamente esistenti in questo spazio e in questi tempi trovino modo di convivere con le crisi contingenti preparandosi a un futuro del mondo e di se stessi di cui non sappiamo nulla se non che sarà d’imprevedibile diversità. E di farlo mantenendo l’attenzione all’essere, l’essere della loro terra e del loro cielo. Altrimenti sarà solo l’accadere del nulla. La filosofia –scrive Gentile – è atto puro di libertà. Libertà-da (dal male, dal potere privo di dignità) e libertà-di (di attingere nell’esistenza all’intera espansione del proprio essere, come insegna Agostino. Deve sostenere la riaffermazione della persona e di un suo mondo sulle tempeste di volontà di potenza e di prepotenza che virtualmente e materialmente percorrono e sconvolgono le scene in cui l’essere accade. Il conflitto fondazionale del soggetto tardomoderno può essere constatato anche attraverso il diffuso senso di vuoto. Come assenza della capacità di porre domande radicali. In ciò si riflette il vuoto di senso dell'esperienza sociale: dove il mondo della vita personale tiene il soggetto in uno stato di perenne intontimento, il raggio della domanda é debole, precede di pochissimo il prorprio naso. Qui l’incontro della pedagogia con la filosofia della religione e la teologia. E’ già difficile che il soggetto tardomoderno possa vedere e chiamare chi gli sta accanto, figurarsi l’altro, figurarsi chi abita nel profondo dell’anima ma contemporaneamente sta oltre l’ultima stella che potrà mai essere scoperta: Dio. Parliamone lo stesso, seguendo il vescovo di Ippona. Punto di partenza di tutta l’inter-rogazione agostiniana è l’analisi dell’ interiorità umana attraverso la quale Agostino approderà alla definizione del concetto di autocoscienza. Tale grande scoperta della filosofia agostiniana si andrà definendo a seguito della confutazione dello scetticismo della Nuova Accademia. “…et si certum est te esse dubitantem quaere unde sit certum Unico, vero autentico punto di partenza della analisi agostiniana dell’animo umano, primo punto archimedeo di ogni possibilità di pensiero: il dubbio. L’uomo si apre all’esistenza accompagnato dall’inquietudine del dubbio, dal perenne domandarsi di se stesso. Destatasi all’esistenza, la persona chiede di sè e del mondo. L’interrogarsi viene da un non-sapere che manifesta ancora oscuramente un non-sapersi, o come direbbe Agostino, da un “scire se nescire “, perciò si dubita, ci si muove nell’irrequietezza della mancanza di certezze, nella turbolenza e mutevolezza dei venti che scuotono l’esistenza. Il dubbio sorge da questo, dal venire alla coscienza del perché dell’esistenza; nasce dalla consapevolezza del darsi di qualcosa, il mondo, che agisce sul sé e da cui è agito. 2.2 Esistere come essere soggetti-in-relazione con la totalità L’essere dell’uomo nel mondo è un muoversi nel relativo, in assenza di una misura assoluta o originaria che orienti il nostro vivere o che decida di esso; l’uomo vive al di là da qualsiasi certezza o stabilità; ci si può interrogare sul perché di sé e delle cose, si possono dare delle risposte, porre ulteriori domande, si possono interrogare le domande stesse; ma ciò che è assoluto, certo, stabile non si dà gnoseologisticamente all’uomo, non è di questa terra, o forse non per ora. La conoscenza del mondo è sempre frutto di un incontro tra sé e le cose, tra un Io che conosce, che nell’atto di porsi alle cose si pro-pone, ovvero si volge con tutto il suo vissuto e la sua intenzionalità, e le cose del mondo, altro dall’Io. Nell’incontro l’Io e le cose sono reciprocamente altro-da-essi-stessi, non si è mai se stessi, perché si è sempre altro-da-qualcosa in virtù del fatto che si è sempre insieme-a-qualcosa o qualcuno. L’intera vita è questa relazione, questo incontro nella temporalità dell‘esistenza, con le cose e gli altri Io. In questo incontro l’Io costituisce delle categorie attraverso le quali entrare in relazione con tutto ciò che si dà, muovendosi in un universo mutevole e dinamico. Adatta di volta in volta, di epoca in epoca, gli strumenti che ha a disposizione per cercare di penetrare più a fondo in questa relazione. Ciò che ha a disposizione rivela caratteristiche di estrema dinamicità, in grado di afferrare, o spiegare solo frammenti di realtà. Gli eventi del mondo (Boniolo, Vidali) non possono essere descritti, una descrizione presuppone una conoscenza certa, ma solo, ed in parte, spiegati. La spiegazione, al contrario, parte dalla coscienza della impossibilità di una descrizione, e si muove nel tentativo di legare secondo le categorie dell’intelletto, che la natura e la storia hanno fornito all’uomo,gli eventi tra loro e a colui che li osserva e con i quali interagisce. Una osservazione “oggettiva” e distaccata degli eventi del mondo, che , al contrario, tanta parte della filosofia e della scienza hanno tentato di compiere, mi sembra di impossibile realizzazione. Una visione di questo tipo, a mio parere, si rivela incompatibile con la stessa natura umana, poichè l’uomo non è altro dagli eventi che osserva. Il riconoscimento di questa posizione è venuto anche dalla fisica, che si è espressa nel 1927, con il principio di indeterminazione di Heinsemberg, nei seguenti termini : “E’ impossibile determinare esattamente la posizione e la velocità di una particella sub-atomica perché l’osservazione di una delle due coordinate influenzerebbe l’altra in maniera irreversibile”. La fisica successiva ha poi tentato di calcolare il valore numerico di tale influenza e lo ha identificato nella costante h di Plank. Un altro importante riconoscimento in questo senso della fisica consiste nella impossibilità di qualsiasi tentativo di spiegazione deterministica nel campo della meccanica quantistica : non si può prevedere con esattezza, nemmeno conoscendo tutte le condizioni antecedenti in grado di influenzare l’evento, quando un elettrone passi da un livello energetico inferiore ad uno superiore. Le uniche spiegazioni attendibili in questo campo risultano essere quelle a carattere probabilistico. Ciò che risulta fondamentale in questa analisi è la presa in considerazione dell’inter-azione tra soggetto e oggetto, tra conoscente e conosciuto, anzi tra soggetti di uno stesso rapporto. Quando spieghiamo gli eventi –si diceva l’anno scorso- non spieghiamo lo svolgersi di un qualcosa che ci è estraneo, ma il nostro stesso entrarvi in contatto. Per questo non vi sono teorie giuste e sbagliate: la teoria di gravitazione universale di Newton non è sbagliata di fronte a quella di Einstein, entrambe forniscono spiegazioni diverse di fenomeni storicamente valide, ma tengono in considerazione aspetti diversi di una stessa realtà e disegnano due modi diversi di porsi in relazione con il mondo. Queste due teorie hanno raccontato di due incontri diversi con gli eventi - evento per sua stessa definizione designa già in sé un annunciarsi-a qualcuno- illuminando da diverse prospettive questo entrare in contatto-con altro. Questo muoversi perennemente nel discreto artificiale dell’esistenza, artificiale perché introdotto dall’uomo per poter capire o capere “afferrare” il mondo, data la sua essenziale incomprensibilità, è ciò che in realtà ce lo rende comprensibile, è solo nella luce chiaroscurale, nelle “tenebre illuminate e nella luce ottenebrata” (Hegel, La scienza della logica) che è possibile la visione. Questo causa un profondo senso di inquietudine, da qui, il sorgere del dubbio. Il dubbio, prima di essere cartesianamente metodico, ovvero fondamentale e fondante di qualsiasi conoscenza che voglia assurgere a scienza, è costitutivo dell’animo umano, inscindibilmente legato. Agostino avverte il legame profondo che unisce esistenza e dubbio, il darsi del mondo e il suo problema, l’essere e il suo senso, il che e il perché con tutto il seguito di angoscia e irrequietezza che tale questione si porta con sé. Ma nel dubbio lui fonda proprio l’autocoscienza, ciò che sarà in grado di rendere costruttivo e aperto all’ulteriore il domandare. 2.3 Dubbio, discontinuità, rischio Il dubbio trasforma la vita, producendo una nuova credenza nella realtà, possiede una autofondazione razionale. Il Cogito è in realtà, scrive Zambrano, “ la proclamazione della solitudine umana che afferma se stessa”: il dubbio cartesiano si spiega nella ricerca dell’unità del soggetto, a seguito della perdita dell’interdipendenza tra vita e conoscenza. Il dubbio conduce all’erranza, al peregrinare tra le cose del mondo tra approdi e partenze, tra rotture e adesioni. La vita come “ciò che è capace di errore”, non nel senso di sbagliato, perché il termine sbagliato ci conduce laddove c’è già una verità predefinita che l’uomo ha dentro di sé, ma come erranza, come vagabondare tra rive diverse proponendosi una via alla ricerca. Il dubbio (Beppe Sevaste, 2001) assomiglia alla confessione, perchè si attuano entrambi nella trasformazione della vita, nel passaggio e nella separazione. La rottura, la rinuncia, la separazione sono passaggi fondanti dell'esistenza umana: lo stesso nascere e venire all'esistenza è un separarsi dal corpo materno ( sembra che l'origine etimologica di nascere e separarsi sia comune) . Quella rottura o morte da cui sorge la vita è il luogo da cui sorge la parola, il racconto stesso, il Verbo. Dal dubbio alla confessione, dalla domanda su di sè alla costituzione di un Io che quindi si confessa e si racconta. Si è dicendosi, non tanto perchè la parola apre all'essere, quanto perchè la parola risponde alla separazione originaria e lega l'uomo all'essere. Silesio scrive: “Non so chi sono, non sono chi so”, ma il parlare è sempre un unire sè alle cose in virtù di un distacco da esse. La vita in tutte le sue forme è un rinfrangersi nell'ulteriore, un costituirsi nel discreto. 2.4 Rischiare il salto nel nulla…o nel Tutto Ma alla rottura segue l'adesione, all'esposizione l'iniziazione: da ciò sorge la costituzione dell'Io, dopo l'abolizione dell'ego. La confessione, come il dubbio, rappresenta un tentativo di conciliazione tra vita e ragione, apertura della vita alla conoscenza che non si manifesti come una validazione della prima nei confronti della seconda, della vita nella filosofia, ma come una comune conversione. Come Erlebnis , evasione da sè sotto la spinta della di-sperazione e contemporaneamente recupero di sè alla luce di una speranza, dubbio e confessione sono simili, e in Agostino si conciliano e portano ad una evidenza che nasce da un incontro tra verità dell'intelletto e verità della vita. Si enim fallor, sum. Nam qui non est, utique nec falli potest: ac per hoc sum, si fallor. E dal dubbio –per Agostino- la certezza. Omnis qui se dubitantem intelligit, verum intelligit et de hac re quam intelligit certus est. Pertanto, chiunque dubiti dell’esistenza della verità, ha in sé alcunché di vero, di cui non può dubitare; e il vero è tale in forza della verità: dunque è necessario che non dubiti della verità chi in qualche modo ha potuto dubitare, perché essa non ratiocinatio talia facit, sed invenit. Ciò è fondamentale, perchè se fosse la ragione a costruire la verità, o a rendere tale ciò che l'uomo vuole che sia, tutto sarebbe opinabile, tutto cadrebbe nel baratro insondabile dell'estremamente relativo. Per Agostino, al contrario, la ragione ha trovato la verità, non la ha costituita come tale. La ragione stessa è costituita come tale dalla verità, ponendo così alla ragione il problema di se stessa. Essa non può spiegare immanentisticamente il suo contenuto di verità, che la fonda, la spiega e la oltrepassa. La verità non è inferiore nè uguale alla ragione, che resta in sè integra et incorrupta, che è regola secondo cui la ragione giudica, è rispetto a questa superior atque excelletior, trascendente. La ragione non si identifica con la verità che è suo oggetto e la sovrasta, la prima muta, la seconda è immutabile. La ragione è passagio di conoscenze diverse, la verità è. La ragione non giudica la verità ma è da essa giudicata, è persino inferiore all'intelligenza che ha la facoltà di intuire immediatamente la verità di Dio. Nonostante l'esigenza dell'uomo, fortemente sentita da Agostino, di vivere la fede e la notizia di Dio in tutta la sua profonda umanità,quindi anche come animal rational, avvertendo con inquietudine il condurre della fede in captivitem intellectum, la ragione è costretta a trascendersi, ad ammettere, con un atto razionale, l'esistenza della verità sostanziale, eterna, necessaria, immutabile, invisibile: Dio , la luce che illumina ogni ragione, la Verità che è origine e fondamento di tutte le verità. Allora posso dubitare di ogni cosa che si dà al mio intelletto, persino del fatto di stare dubitando, ma di sicuro qualcosa c’è ed è il dubbio stesso, la domanda fondamentale, il mio interrogare. E’ presente qualcosa radicalmente e intrinsecamente vicino alla vita: si dubitat, vivit. Se dubiti, vivi, pensi, sei certo di qualcosa, sei. La pensabilità dell’esistenza si è data da sé la condizione di possibilità e si è fondata nel dubbio. L’essere dell’uomo è in grado di pensarsi, è domanda che si domanda, domanda di sé, è attuale presenza di interrogazione, atto originario e costitutivo del suo darsi. Essendo il dubbio, c'è qualcosa che non è più tale, poiché il dubbio è pensabile se vi è al di fuori del dubbio stesso, solo se esiste qualcosa che è altro dal dubbio e che ne ha reso possibile la presenza. Questo essere altro dal dubbio universale è la certezza: qualcosa di certo vi deve essere per forza, è ciò che ci risveglia allo stesso dubbio, certezza della sua presenza e condizione della sua pensabilità. In Agostino questo qualcosa che trascende è Dio, unico e vero fondamento di tutte le presenze. Non si dubita delle cose in se stesse, se mai vi sono cose in se stesse, noumeni, ma del nostro rapportarci alle cose, del nostro viverle secondo le categorie dello spirito e della ragione. Ritrovando le cose nel loro darsi a noi, ci costituiamo a mens, luogo d’incontro tra l’interiorità e l’esteriorità, dove l’interior stesso prende forma dall’exterior e viceversa. Ecco tu eri dentro di me e io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, e deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che tu hai creato. Tu eri con me, io non ero con te.Tenuto lontano da quelle cose che non esisterebbero se non fossero in te. Tu mi hai chiamato.. ( Conf.X,27) Che è ciò? Interrogai la terra e mi rispose: “Non sono io”; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovavano in essa. Interrogai il mare , i suoi abissi e I rettili con anime vive e mi risposero: “ Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi”. Interrogai I soffi dell'aria..Interrogai il cielo, la luna e le stelle..E dissi:” Parlatemi del mio Dio, se non lo siete voi, parlatemi di lui” ; ed essi esclamarono a gran voce: “ E' lui che ci fece”. Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte la loro bellezza. Allora mi rivolsi a me stesso. Mi chiesi:” Tu chi sei?” e risposi: “ Un uomo”. Dunque, eccomi fornito di un corpo e di un'anima, l'uno esteriore, l'altro interiore. A quali dei due chiedere del mio Dio, già cercato con il corpo dalla terra fino al cielo, fino a dove potei inviare messaggeri, I raggi dei miei occhi? Più prezioso l'elemento interiore. ( Conf.,10,6.9) Noli foras ire, in teipsum redi,in interiore homine abitat veritas 2.5 Il rifrangersi della LUCE Nell'interiorità scopre la verità di Dio e l'Io. Binomio inscindibile in Agostino, la scoperta dell'Io è ciò che permette all'uomo di trovarsi in Dio. Ma il percorso dell'uomo che vuole trovare sè e il Creatore non può non attraversare anche il mondo. Da qui la necessità di interrogare ciò cui è di fronte l'uomo, per ritrovare se stessi. Agostino insegna a uscire da noi stessi, quindi di aprirsi al mondo, di volgere lo sguardo a ciò che si pone di fronte a noi, stando ben attenti a non disperdersi, per poi in teipsum redi, fare ritorno in noi stessi, per poter penetrare una interiorità più profonda. L'autenticità dell'Io che avviene nella scoperta dell'interiorità è frutto di questa dinamica. Il dubbio è ciò che garantisce all'uomo di essere certo di qualcosa, su ciò poggia la certezza invincibile di sè come essere pensante quindi esistente. Dunque l'Io è autentico, vero, non è frutto di una malvagia illusione, poichè lo si ha riscoperto. Nel princpio dell'interiorità è implicita la prova dell'esistenza di Dio. Poichè nulli autem dubium est eum qui iudicat, eo de quo iudicat esse meliorem, ovvero la ragione che giudica di tutte le sensazioni è ad esse superiore. E se esiste qualcosa di superiore alla ragione è necessariamente qualcosa che trascende l'uomo, non può essere che Dio. Inoltre l'anima possiede la facoltà di attingere a verità necessarie, immutabili ed eterne che non vengono dalla ragione stessa, dunque la verità è indipendente dalla ragione, anzi la regola e la trascende. Nella scoperta della trascendenza della verità, l'uomo ha scoperto la trascendenza di Dio quindi la sua esistenza. Occorre a questo punto tenere in considerazione la presa di distanza di Agostino da qualsiasi forma di ontologismo, poichè non è possibile asserire inferenzialmente dall'essenza di Dio l'esistenza, non essendo a noi concessa la conoscenza dell'essenza in tutta la sua portata. Ma le verità che sono in noi presenti giustificano l'esistenza trascendente della Verità. La possibilità stessa per l'uomo di possedere se pur infinitesimamente la Verità, di esserne partecipe, garantisce la presenza dell'origine di questa lux che si irradia, a partire dalle cui rifrazioni siamo in grado di attingere al principio. Parte terza: luci della teologia contemporanea 3.1 Karl Barth ( 1886 - 1968 ):| LA DIFFERENZA E LA GRAZIA Karl Barth ci appare come la figura di maggiore rilievo della teologia del secolo scorso, avendo saputo riportare il discorso su Dio al suo carattere più autentico di discorso in tensione verso l’assolutamente Altro. Barth inizia (con l’Epistola ai Romani) assumendo una posizione antitetica alla teologia liberale dominante agli inizi del Novecento. Questa identificava nella religione un elemento niente affatto atipico della cultura; individuava in Dio una delle tante significative figure che l’umanità aveva ideato per avere risposta alle proprie istanze intellettuali e affettive. Per Karl Barth, invece, Dio non solo non è una creatura dell’uomo (Feuerbach) ma è altro dalla sua cultura, dalla sua ragione. Se mai l’uomo avverte il bisogno di pensare autenticamente Dio deve cercare di dimettere i suoi attrezzi culturali, la sua visione dell’universo formatasi abitando in questo mondo. Riprendendo l’insegnamento di Meister Ekchart (filosofo del Quattrocento), Barth sostiene che l'essenza divina è totalmente altra da quella umana e pertanto gli occhi dell’uomo non potrebbero mai intravedere (e la mente intuire) Dio. Se Dio non operasse in lui. Non appare dunque vera la tesi della 'Analogia entis” secondo cui uomo e Dio sono realtà analoghe e sulla base della loro analogia possono comprendersi. Da questo mondo non sarà mai possibile levare gli occhi tanto in alto da potervi scorgere Dio; la volontà. umana non può sollevare il suo portatore alle regioni ove è possibile la visione del Volto. II miracolo del confronto con il divino però avviene ed è appunto un miracolo: un atto della Grazia divina che rompe la radicale differenza ontologica, supera gli abissi che separano Dio e I'uomo. Non è una strada che va dal basso verso l’ alto ma quella che dalle altezze divine scende ai sentieri di questo mondo. L'abisso è superato dalla volontà divina e unicamente dal prodigio che questa ha compiuto scendendo nel mondo e manifestandosi con la presenza e Ie parole del Cristo. 3.2 Peter Tillich ( 1986 – 1965) IL DONO DELLA CORRISPONDENZA II pensiero di Tillich è connesso a quello di Barth ma se ne differenzia nel suo cercare di restituire all’uomo un ruolo attivo nella sua relazione di fede con Dio. E’ vero, come ribadiva Barth, che la fede è un dono di Dio ma all’uomo è dato qualcosa di più che non il semplice accettarla o rifiutarla: la fede in Dio non è mai la stessa nei vari credenti ma assume il volto delle varie persone che pervengono ad ascoltare la Parola. Per Tillich (posizione poi ampiamente ripresa da Rahner) è l’uomo il soggetto della fede, non vi è fede senza qualcuno che crede. Troppo facile per Dio credere in se stesso; il difficile è che riesca a farlo l’uomo. La sua fede è di qualcuno che avendo ascoltato l’Altro crede in lui; ma il credere nell'altro –pensiero profondamente fenomenologico- non può non portare il segno del soggetto che crede. Il Dio cui posso pensare è il mio Dio, pur cercato e inventato (nella doppia accezione di trovato e di prodotto) attraverso la tradizione di coloro che in ogni epoca lo hanno pensato nelle varie forme dela vita religiosa. In questo senso anche Dio è creatura nostra. Tuttavia anche per Tillich è importante che chi crede sia disposto a intendere quanto grande sia la differenza tra lui e la persona in cui crede o spera; deve sentire quanto egli sia poca cosa di fronte all’ infinito, all’incondizionato, all'eterno. Ma è proprio nel prendere coscienza della propria finitezza, dei propri condizionamenti che si può stabilire una correlazione con I'assolutamente altro, tra il Dio che dona e l’uomo che riceve, fra il soggetto altrimenti destinato a perdersi e il Soggetto che è intrinsecamente salvezza. 3.3 Karl Rahner (1904 - 1984) L’ESSERE-PER- LA-MORTE E L'ASCOLTO DELLA PAROLA Karl Rahner rappresenta la figura di maggiore rilievo fra i teologi cattolici del Novecento: la sua grandezza sta forse nell’aver saputo utilizzare gli strumenti della più alta filosofia di tutti i tempi (la fenomenologia) come strumento di interpretazione della Parola. Quel che Tommaso fece con Aristotele, egli lo ha fatto con Husserl e Heidegger. Mentre Karol Voytjla seguiva il pensiero fenomenologico secondo la definizione datane da Max Scheler, Rahner faceva principalmente riferimento ad Heidegger, in particolare all’ Heidegger autore di "Essere e Tempo" ma con una costante attenzione anche ai lavori successivi, in particolare quelli riguardanti la teoria del linguaggio. Per la verità nelle opere di Rahner esiste anche un costante riferimento alla scolastica di Tommaso d’Aquino ma questo riferimento a parere dello scrivente è più un impedimento che un elemento propulsivo della speculazione rahneriana. Forse non ha saputo o voluto liberarsene per ragioni di tranquillità; certo per il bisogno di lasciare agire in se stesso un elemento di legame verso la "realtà", verso la mitica "cosa in sè", verso l’esterno del discorso umano. Karl Rahner si pone il problema di un confronto fra l’idea del mondo soggiacente alla teologia tradizionale e la concezione con cui si è indotti a fare i conti in un’epoca, come quella contemporanea, che ha abbandonato da qualche secolo ogni forma di presupposizione metafisica. Dopo Kant non si può più parlare di cose in sè nè di enti conoscibili nella loro entità ipostatica, originaria; dopo Hegel non si può più parlare della storia come ne fossimo fuori poichè noi abbiamo irreversibilmente preso coscienza della nostra storicità. La piena contemporaneità di un pensiero teologico (doverosa se questa forma di pensiero non vuole estraniarsi dal tempo e di conseguenza rinunciare alla comunicazione) ci spinge ad abbandonare la presunzione di una ripetizione dell’inaccessibile pensiero divino. La nuova prospettiva teologica non potrà che essere antropologica, non dovrà partire dal mondo derivandovi l’uomo come questi fosse una semplice creatura fra le altre e non la creatura che riconosce senso al creato e che, pur da infinite distanze, può corrispondere con il Creatore. L'uomo è l’unica entità nota (alieni a parte) che può farsi la domanda sul senso dell’essere, che può cercare, interpretando gli eventi, di coglierne il significato più profondo scoprendo, quando la Grazia lo aiuta, l’origine infinita di ogni senso possibile. Occorre cercare, attuata la massima epochè possible e pur già consapevoli della sua limitazione d’intensità, di capire quale sia il ruolo che può avere il mondo, o almeno l’idea che se ne ha, nella formulazione della domanda sull’essere; di investigare con Agostino e oltre Agostino l’essere come questione linguistica, segno di tutti segni, luogo di rinvio ad altri luoghi, come intenzione presente alla coscienza della persona, come tappa senza traguardo dell’avventura infinita della coscienza nel suo oltrepasarsi e nel suo costituirsi -sempre provvisoriamente e precariamente- in quella che, quattordici secoli dopo Agostino, sarebbe stata riconociuta come coscienza trascendentale. Per Rahner, il problema diventa allora non la natura della rivelazione, non Dio nella sua intrinseca essenza, ma il modo in cui l’uomo può cogliere il senso delta Rivelazione, la forma più adeguata del porsi all'ascolto della Parola Divina. La creatura umana si comprende e oomprende il mondo quando riesce, consapevole dei propri limiti, dei propri pregiudizi, dei propri inevitabili travisamenti, ad ascoltare la Parola. Soprattutto quando riesce a farlo senza dimenticare il proprio inevitabile "umanizzare" ciò che viene dall’Altro. Non bisogna pensare all'umanità della fede come a una negatività, ma come ad una positiva attribuzione di senso originata dal circolo virtuoso che si instaura tra la Parola e il parlante. La Parola è di Dio e dell’Uomo insieme. Vi è ascolto della Parola (parola in atto, viva) quando vi è tensione verso il divino; la Parola può darsi solo a chi vuole sentirla, a chi vuole giungere alla pienezza del proprio essere attraverso l’ ascolto dell’Altro. Questo ascolto comporta un continuo cambiamento di posizione del soggetto; non si ascolta stando fermi ma camminando: chi è in cammino, per Rahner, è in cammino verso Dio. Differenziandosi da Heidegger, per cui l’ essere dell’uomo è un essere-per-la-morte, Rahner sostiene che questo è solo un rischio che I'uomo corre quando cessa il sue andare e si ferma compiaciuto in qualche luogo che sembra corrispondere alle sue attese. Là dove Ie attese raggiunte di cose mondane sembrano colmare il bisogno di "essere" del soggetto là è morte, la fine del cammino. Fermarsi è morire dal senso più pieno della parola. Morire può essere vivere quando è vissuto come un partire per un altro viaggio. L’ andare del’uomo, il crescere nello spirito, nell’intelligenza, nella volontà, negli affetti, è reso possibile dall’ esistenza (e-vidente per chi ha fede, nascosta per chi non la prova), di una Parola che viene da lontano che diviene umana in quanto l’uomo, ponendosi all’ascolto la trasforma. La Parola è un appello all’uomo, una sollecitazione a rendersi conto che egli non possiede il senso del mondo e del proprio stesso esserci, ma I'esserci gli consente di coglierli. E’ qui, forse, il punto centrale del pensiero di Rahner con il passaggio che egli riesce ad operare dalla metafisica del Dio come Essere alla ontologia della voce che chiama e che diviene Voce in quanto ascoltata. Di qui il carattere trascendentale della teologia di Rahner: una teologia del soggetto. Teologia della soggettualità Heidegger, una delle fonti di Rahner, spiega la differenza fra soggettivismo e soggettualità (analoga a quella fra relativismo e relatività): soggettivismo è quello del soggetto chiuso in sé, in una casa ideologica senza porte e finestre, che non riconosce altro metro di misura che se stesso e si produce in mondo senza incontrarsi con alcuno, Soggettualità è il distendersi della persona verso se stessa e gli altri nella consapevolezza dei propri limiti e nell’orgoglio legittimo delle proprie capacità. E’ l’essere nel mondo dicendo “presente!” ma in sintonia con tutte le altre presenze. E’ il soggetto che a priori rende possibile la consonanza teofanica: Dio appare all’orizzonte del nostro mondo nel momento in cui è pensato dall’uomo. E’ vero che l’uomo non è che un pensiero nella mente divina (Agostino), ma anche Dio entra in rapporto con I'uomo solo in quanto quest'ultimo si accompagna e ne fa un'idea sulla quale confrontarsi con i suoi simili. La conoscenza di Dio, il suo semplice pensarlo richiede a priori un pensiero pensante che lo chiami ad essere e ad agire nelle singolarità come nel concerto umano in genere. Occorre difendersi da un rischio conseguente alla inevitabile soggettività personale o collettiva del pensiero su Dio; quello di farne e di presentarlo come un pensiero di Dio: e’ il rischio della mancanza di rispetto verso la Rivelazione, verso questa infinita fonte di significati che proprio per la sua infinitezza, non può mai essere compiutamente resa in alcuna definizione umana. La trascendentalità dell'uomo consegna l’uomo e i suoi discorsi a una assiologia storica con prospettive escatologiche; ma la trascendenza è solo di Dio e l’uomo non può pretendere di fissarne in mode assoluto l’orizzonte di significazione. La salvezza del soggetto Un soggetto chiede per prima cosa di rimanere soggetto, di poter continuare a pensare e ad agire liberamente, di essere salvato da ogni limite del suo essere: dalla malattia, dalla schiavitù, dall’ignoranza, dalla mancanza d’amore, dalla morte. La domanda umana verso il proprio essere e verso ogni essere possibile, è prima di tutto una domanda di salvezza. L’uomo scopre allora che la salvezza del proprio essere richiede la precondiziene della volontà di chi si deve salvare, ma anche I'aiuto di altri che siano consapevoli di non potere salvarsi da soli e di poter ricevere la propria salvezza attraverso la salvezza altrui; richiede vivere una fratellanza che rimanda ad una Paternità. Di qui la domanda a Dio, I'unico Ente che può assicurare, avendola, la pienezza dell'Essere. Dio è grazia e con ciò è salvezza e non può non rispondere e non dare: non è il Dio di Aristotele, quieto, immobile, fermo, tranquillo. E nemmeno il Dio di Barth. E’ qualcosa di piu vicino al Dio che ritroviamo nell’ ultimo Shelling; un Dio che non solo risponde, ma ha bisogno di qualcuno che gli chieda, di altre persone che siano disposte alia Comunione con il suo essere. La figura del Cristo, del Dio-uomo esprime la compiutezza di una divinità. Attraverso l’inquietudine e la sofferenza, attraverso quelle realtà umane che Dio riesce ad intendere non guardandole dall'alto ma provandole nella propria carne. La vita del Cristo è il totale accesso di Dio alia vi-ta umana, di cui fa diretta esperienza diventando egli stesso soggetto umano, provando il dolore, l’essere-per~la-morte, il bisogno che qualcuno lo salvi. II circolo compiuto: dalla esperienza divina del mondo, si costituisce la possibilità della comunicazione totale tra l*uomo e chi per trentatrè anni ne ha sperimentato la condizione 3.4 Dietrich Bonhoeffer LONTANI. DA DIO, INSIEME A LUI II dettato teologico di Bonhoeffer è strettamente legato alla vicenda storica e personale vissuta dal suo autore, membro della resistenza tedesca al nazismo, ucciso dalle SS a 39 anni quando ancora il suo pensiero attendeva di essere compiutamente formulato. La rappresentazione teologica di Bonhoeffer ha la forza dell'incompiuto michelangiolesco, la tensione verso un divino pur avvertito come lontano ed estraneo alia vicenda umana, vicenda di un’umanità che ne avrebbe un disperato bisogno. Certo negli anni del nazismo imperante poteva essere pienamente legittimo pensare che il mondo fosse uscito dai pensieri di Dio, che questi avesse cessato di dirigere il suo sguardo protettivo verso I'umanità; cose del genere possono essere pensate ancora oggi in moiti luoghi del mondo, in molte situazioni collettive e personali non lontane da noi. La teologia di Bonhoeffer si offre dunque a chi sta ancora sotto il tallone del potere politico ed econmico, a chi soffre qualsiasi tipo di sventura; non è però una teologia della consolazione, ma del richiamo alla identificazione in positivo con la figura del Cristo, con la sua sconfitta mondana» Per Bonhoeffer, infatti, gli eventi del mondo, non richiedono più il postulato di Dio per poter essere spiegati e la teologia non ha piu ancelle che la accompagnino nella spiegazione del mistero dell'uomo; è sola a spiegare l*enigma della sua esistenza, a interpretare i testi che un Dio lontano quanto il tempo in cui è brevemente apparso sulla Terra ha consegnato a tutela della sua salvezza. La stessa morale non può più essere fondata sui Comandamenti divini ma va assunta fra Ie fatiche di una inevitabile autonomia dell’uomo nella determinazione del principi della propria condotta. Non solo: ormai si va avanti senza Dio anche nelle cose di religione; probabilmente è sempre stato in parte così, si tratta ora di rendersene adultamente conto. Ciò non significa che i predicati della religione non siano veri ma che l’esistenza reale di Dio non è forse un loro necessario presupposto. La morale fondata esclusivamente sui co-mandamenti divini è superata nella teologia di comunione vera con Cristo. L’autonomia della realtà mondana è frutto dell’incontro delI'annuncio evangelico con lo stato del mondo moderno. L’uomo deve vivere mondanamente e proprio cosi partecipa alla sofferenza e alla gioia di Dio. In questo senso va interpretato il “vivere nel mondo come se Dio non fosse”, è lo stare al cospetto di Dio nella libertà non da Dio ma dai "falsi legami e inciampi religiosi". La bonoefferiana teologia della Croce cessa di essere quella religione che sottrae l’uomo alla sua condizione. Per Bonhoeffer occorre convenire sul fatto di una esistenza umana nel mondo "etsi Deus non daretur" e condurre la giornata quotidiana senza il bisogno della consolazione religiosa» Bonheeffer rilevava quanto fosse facile imporre la presenza divina nei momenti di maggiore fragilità umana (malattia, morte etc, ). Si può accettare l’unica vera grazia che Dio ci fa, quella di farci vivere in un mondo in cui ci si può anche distrarre dalla contemplazione del suo Volto. II Dio di Bonhoeffer non è il Dio vincente, trionfatore della storia; non è un Dio che benedice l’icona che sta nel carro dei vincitori. Dio si è lasciato assassinare; I'invocazione di Crisfo a Dio sulla croce è rimasta inascoltata cosi comè è stata inascoltata la voce di tutti coloro che hanno sofferto nelle carceri politiche di tutto il mondò o nei più vari luoghi di sofferenza. L'aiuto divino non è determinato dal potere che Dio ha di modificare le cose del monde; il mondo appare essere fuori dalla tutela di Dio.. L’aiuto divino si manifesta nella comunanza della sofferenza, della debolezza, della morte* Rovesciando il Dio di Feuerbach (rappresentazione di tutto quanto I'uomo non è ma vorrebbe essere: onnipotente, eterno, onniscente etc.) Bonhoeffer rappresenta l’immagine di una divinità che ha condiviso tutti i limiti dell’uomo e per questo e solo in questo ha pertato all’umanità I'aiuto piu grande, L’uomo soffre cosi come soffre Dio, è più vicino a Dio quando è sconfitto che non quando è confortato dal successo storico. Ogni chiesa cristiana per Bonhoeffer deve stare dalla parte di coloro che sono destinati a perdere nei confronti della cronaca. 3.5 Edward Cornelius Florentius Alfonsus Schillebeek (1914-2009) DAL DIO TOTALMENTE ALTRO DI ECKHART E BARTH AL DIO TOTALMENTE NUOVO. LA CHIESA RITROVI LA CAPACITÀ PROFETICA. In analogia con Ie posizioni dei teologi della speranza (Moltmann) e forte ispiratore con Congar, Rahner, il giovane Ratzinger e altri della rivista Concilium e delle correnti più innovative del concilio Vaticano II, il domenicano Schillebeeeck cerca di costruire una teologia che tragga dalla storia –anche attraverso raffinate metodologie di lettura ermeneutica- orientamento e forza per il futuro. Per le sue posizioni innovatrici viene sottoposto a processo canonico e gli viene tolta la cattedra di teologia. L'uomo, egli riconosce, è profondamente radicato nel suo passato e determinato, in misura rilevante, dagli assi culturali che si sone formati nei secoli e che condizionano il suo modo di comportarsi, di sentire e di pensare. L’uomo, però, non è chiamato a ripetere, ma ad inventare, a innovare; viene dal passato, ma si protende, mondanità permettendo, verso il futuro. II condizionamento del passato e la difficoltà a pensare in termini nuovi operano anche nella dimensione religiosa.E’ invece necessario parlare di Dio in modo nuovo, entro e al di fuori delle formule che nei secoli si sono sedimentate interno al nucleo, eterno e per ciò sempre nuovo, della rivelazione. Occorre una nuova interpretazione del concetto di Dio, dell’esperienza umana, del divino: se I'argomento del discorso è eterno e se la lettera dei testi da interpretare rimane immutata, il discorso e l’interpretazione devono essere coerenti/incoerenti con lo spirito del tempo, certo accessibili all’intersoggettualità dei nostri giorni. Non esiste una fede impersonale e astorica, si crede (o non si crede) e si spera (o non si spera) secondo una prospettiva di singolarità personale e sociale. Dono identico di Dio a ciascuno, la fede si fa differente e diversa nella singolarità sroca e personale. La comunità di chi crede, spera, dubita o dispera deve rafforzare la propria comunanza e di lì ripensare la propria protensione religiosain mido nuovo, vocaro a quel Dio che è “colui che viene”. In evidente rapporto con la teologia dell’ebraismo, Schillebeek esalta i tesi del Dio come a-venire, come colui che ritornerà, che ha solo toccato per brevi anni la terra, ma chiama gli uomini al pensiero di un nuovo avvento. Schillebeek sostituisce cosi alla concezione di Meister EckIhart (sec XV) e Barth di un Dio come totalmente altro l’idea di un Dio totalmente nuovo che va pensato non solo guardando all’ indietro ma anche avanti, verso il futuro. Il futuro è il più alto modo di essere di Dio che possa essere pensato; Dio non è il signore del mondo presente ma il Signore del mondo futuro, quello anticipato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. Come per Pannenherg, Dio è potenza del futuro, sta davanti a noi; saperlo, sentirlo porta l’uomo a essere sicuro del fondamento della sua speranza. La speranza di Schillebeek non è però semplice attesa che il FATO si compia, ma si realizza come critica del mondo presente, come liberazione dai condizionamenti del passato, come proposta per un nuovo assetto culturale e politico che il mondo potrà/dovrà assumere se vorrà essere più vicino a Dio. II cristiano, per Schillebeek, non è il borghese gaudente e soddisfatto di questo mondo; è una persona che pensa e agisce ceme pellegrino in territori che non gli appartengono poichè ciò che veramente gli appartiene non sta né in questo ne in un altro luogo, ma in un altro tempo, un tempo a venire. La persona umana va protetta e difesa dall’alienazione poichè è un “frammento del futuro”, una creatura nel senso etimologico del termine: una entità che non è stata ma sarà creata, nell’infinito processo in cui Dio distende il proprio essere. -------------------------------------------------------------Ho cercato dunque di fornire alcuni riferimenti per una fondazione culturale, convinto che senza questa una didattica della religione rischia di essere assoluto non senso, ripetizione magari con tecniche nuove di una cultura religiosa residuale ad antiche esperienze catechistiche. II seminario annuale ci farà certamente pervenire a una visione più profonda (e ortograficamente più corretta) del panorama dell’oltre-orizzonte, della pienezza del giorno e della luce anche quando traspare solo attraverso le stelle, o magari per nulla. Bibliografia L'eterno presente Astrolabio Tillich Barth Epistola ai Romani Feltrinelli Bonheffer Sequela Queriniana Rahner Uditori della Parola Borla Schillebeeck Per una Chiesa dal volto umano Queriniana AA.VV. Lessico dei teologi del Secolo XX Queriniana I. Mancini Novecento Teologico Vallecchi Reale/Antiseri Storia della filosofia, n.10 Bompiani, 2010