ESTRATTO Salam è tornata | Gianluca Serra La parabola ecologica

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ESTRATTO Salam è tornata | Gianluca Serra La parabola ecologica
ESTRATTO
Salam è tornata | Gianluca Serra
La parabola ecologica di un uccello sacro nella Siria di oggi
Exorma Edizioni 2016
Migrazioni pericolose
I beduini migrano, si muovono, oscillano tra i pascoli invernali-primaverili e quelli estivo-autunnali. Come gli
uccelli migratori. Sono movimenti circolari, anzi pendolari, sia quelli dei nomadi-pastori sia quelli dei
nomadi-alati, che li portano a tornare sempre negli stessi luoghi dopo qualche stagione. Per trovarsi al
posto giusto nel momento giusto. Come per gli uccelli, la motivazione all’origine del migrare dei beduini è
legata alla variabilità stagionale delle risorse naturali che occorrono loro per sopravvivere: in particolare
dell’erba dei pascoli, nutrimento delle loro greggi. Per gli ibis si tratta invece degli insetti che vivono negli
stessi pascoli dove brucano le pecore dei beduini. La stagione di produttività della steppa siriana, a meno
che non ci sia siccità estrema, è quella che va da marzo a maggio. In questo periodo le pecore riescono a
trovare qualcosa da mangiare, anche se sempre meno a causa del sovrasfruttamento dei pascoli e della
desertificazione. La stessa cosa succede agli ibis.
A maggio i beduini della zona degli ibis lasciano le zone ad altitudini basse del fondo valle per raggiungere
i pascoli più elevati. Dopodiché, a metà estate, nel periodo di massima aridità, migrano tradizionalmente
verso le aree agricole, lungo i fiumi e le zone fertili ai margini del deserto. Anche gli ibis seguono un
percorso dalla logica equivalente: durante la seconda parte del loro periodo riproduttivo, a maggio, si
spostano verso i pascoli più alti. Poi, verso metà luglio, abbandonano il deserto siriano perché la
popolazione di insetti, che vive della copertura vegetale e dei detriti associati, non è più sufficiente a
sfamarli. Diversamente dalla controparte umana, gli ibis non si spostano verso le aree irrigate lungo i fiumi,
ma cambiano continente.
Anch’io in fondo sono una specie non stanziale. Dopo qualche mese o stagione a casa mia, nella
campagna intorno a Firenze, comincio ad avvertire un certo zugunruhe, termine scientifico tedesco che
significa inquietudo migratoris. Si tratta della smania migratoria che assale gli uccelli nel periodo che
precede la grande partenza. Tale inquietudine è stata dimostrata sperimentalmente tramite strambi
apparati da laboratorio agli inizi del Novecento: delle gabbie con base a forma di cono, nel cui punto più
basso veniva messo dell’inchiostro. Gli uccelli intingevano in continuazione le zampette nell’inchiostro e
poi, risalendo lungo le pareti foderate di carta, lasciavano le loro impronte. Le tracce dell’“inquietudine
migratoria” mostravano una direzionalità rispetto ai trecentosessanta gradi disponibili: quella della
migrazione in cui sarebbero stati in quel momento impegnati gli uccelli se non fossero stati imprigionati.
Bruce Chatwin, grande nomade e narratore di viaggi, preferiva parlare di horreur du domicile, scomodando
addirittura Baudelaire.
Prima dell’avvento dell’era del turismo di massa, una certa porzione della popolazione umana ha portato in
sé uno zugunruhe originario, insomma i geni di Ulisse. In virtù di questa spinta interiore ha esplorato il
pianeta in lungo e in largo, nell’arco dei millenni, e ne ha colonizzato ogni suo angolo, anche il più
sperduto.
In Turchia, precisamente nell’Anatolia meridionale al confine con la Siria, esiste un villaggio
curdo affacciato sull’Eufrate, di nome Birecik. Questa località ha una sua risonanza nel circolo
ornitologico mediorientale in quanto è stata la sede, fino a tutti gli anni Ottanta, dell’ultima
colonia conosciuta di ibis eremita della varietà orientale, quella migratrice. Quando ancora non si
sapeva che alcuni sparuti ibis sopravvivevano in Siria. Questa famosa colonia, che negli anni
Cinquanta contava un migliaio di uccelli, si estinse nel 1989. Un ornitologo tedesco ne seguì le
sorti per molti anni cercando di evitarne l’estinzione. Alla fine la colonia fu sopraffatta
dall’espansione e cementificazione inesorabili del villaggio, oltreché dall’avvelenamento da Ddt,
ancora usato in agricoltura. Senza contare che ogni anno, a primavera, sempre meno uccelli
tornavano dalla migrazione.
Lo stesso ornitologo rivelò l’importanza simbolica e culturale che la grande colonia di uccelli neri rivestiva
per gli abitanti del villaggio. Infatti questi ultimi organizzavano ogni anno a febbraio-marzo, al momento
dell’arrivo dei primi ibis, una festa con cui si celebrava l’inizio della primavera. Inoltre una leggenda
rendeva cari questi uccelli alla popolazione locale, in gran parte di religione musulmana: si credeva che gli
ibis in passato indicassero, con il loro volo migratorio verso Sud, la direzione agli haji, cioè ai pellegrini
diretti verso la Mecca.
Insomma una cosa era certa sul conto di questa popolazione orientale di ibis: a differenza dei cugini del
Marocco erano migratori, e tornavano ogni anno in Medio Oriente all’inizio della primavera per nidificare.
Tuttavia non si aveva la minima idea di dove andassero a svernare. Il sospetto cadeva sull’Africa Orientale,
poiché esistono osservazioni documentate tra la seconda metà dell’Ottocento e la Seconda Guerra
Mondiale – da parte di corpi di spedizione britannici e italiani, spesso comprendenti anche geografi e
naturalisti – di grosse concentrazioni di questa specie avicola, nel periodo invernale, sia in Etiopia che in
Eritrea.
Verso la prima metà di luglio, gli ibis inviano segnali di inquietudo migratoris, appunto: un campanello
interiore, un vero e proprio orologio biologico su base stagionale suona, comunicando che è ora di partire.
Pur essendo preparati, era emozionante vedere i nostri argonauti sparire da un giorno all’altro dal loro
rifugio nel deserto siriano dopo averli seguiti, quasi scortati, tutti i giorni per cinque lunghi mesi, per
assicurare che la riproduzione andasse a buon fine.
La stessa sensazione di spaesamento l’avevo provata tempo addietro quando, ritornando nel posto in cui
solo una settimana prima avevo incontrato una famiglia di nomadi, lo avevo trovato completamente deserto
e vuoto.
Non è facile indovinare il giorno preciso della partenza migratoria degli ibis. Succede che una mattina, poco dopo l’alba,
abbandonano i nidi e invece di dirigersi verso i pascoli, come di routine, cominciano a prendere quota di fronte alla loro
rupe, usando le prime correnti ascensionali della giornata. Volteggiano tutti insieme, alzandosi sempre più in alto, come
in una danza di gruppo, descrivendo cerchi sempre più ampi e alti.
Finché, diventati dei puntolini tra le nuvole, si abbandonano a una planata infinita verso l’ampio orizzonte sud,
verso le distese dei deserti dell’Arabia. E alla fine vengono ingoiati dall’azzurro acceso del cielo della prima
mattina. La migrazione inizia così, l’ho registrata nei miei occhi: un evento miracoloso ed evanescente, difficile da
cogliere, come tanti altri grandiosi eventi della natura. Avviene in silenzio, senza preavviso.
Niente bagagli. Soltanto un paio di grandi ali e un incrollabile antico richiamo a raggiungere le latitudini
meridionali, un istinto di sopravvivenza grave e irrevocabile. Una sera Adel mi aveva raccontato,
emozionato, che suo padre gli diceva spesso che loro, i nomadi, possedevano pochi beni materiali ma
avevano una ricchezza che i sedentari ignoravano: la libertà di muoversi in breve tempo e spaziare per il
deserto.
L’anno della marcatura, paradossalmente, mancammo all’appuntamento tanto sospirato della partenza. In
compenso a differenza degli anni precedenti, in cui una volta spariti all’orizzonte sud ci rassegnavamo a rivederli
solo l’anno successivo (con tutti i dubbi del caso: torneranno?), questa volta rimaneva qualcosa di prodigioso
nelle nostre mani. Un invisibile filo di Arianna che ci svelava l’arcano, il potere di seguirli nei cieli meridionali
dell’Arabia, passo passo durante la loro epica migrazione. Volavamo quasi con loro, sul loro dorso. Sullo
schermo dei nostri computerini appariva ogni giorno la localizzazione della tribù in migrazione. Ricevevamo
quotidianamente la posizione di almeno uno dei tre uccelli marcati, e la registravamo sulle mappe satellitari
di Google Earth. Fu un’esperienza entusiasmante non solo per noi, ma anche per migliaia di altri
appassionati che seguirono la migrazione tramite internet.
Fin da subito la tribù degli ibis puntò decisa verso Sud, facendo il suo ingresso in Arabia Saudita già alla
fine del primo giorno. Avevano macinato trecento chilometri; in seguito appurammo che tra i duecento e i
quattrocento chilometri era la media di volo giornaliera, con condizioni meteo buone. La sera gli ibis si
fermavano a dormire su qualche albero o, rischiando la vita, sui tralicci dell’alta tensione. Questi uccelli,
infatti, non volano di notte ma, come noi, riposano.
La prima sera la passarono in un villaggio dell’Arabia Saudita del nord. Qualche giorno dopo, mentre la
migrazione si snodava veloce ancora più a Sud, l’emozione fu grande nel vedere che la tribù stava
sorvolando la sacra città della Mecca, proprio come suggerito dalla leggenda dei villaggi islamici
dell’Anatolia meridionale.
Nei giorni successivi gli ibis continuarono a volare per centinaia di chilometri, fermandosi a dormire la
notte nell’oasi di turno. Allo stesso modo le carovane di cammelli sulla via della seta procedevano in passato a
tappe giornaliere costanti. Il deserto di Palmira è ancora attraversato da piste, ormai invisibili, costellate da antichi
caravanserragli (l’equivalente dei moderni motel, ma fortificati) tipicamente distanziati ogni quaranta o cinquanta
chilometri; la distanza, appunto, che un dromedario carico poteva affrontare in un giorno di marcia.
Dopo circa cinque giorni di volo gli ibis, stanchi, si fermarono qualche giorno a rifocillarsi in una località del
sud-ovest dell’Arabia Saudita, nelle vicinanze del villaggio di Jizan. Volando lungo le più svariate tratte
delle aerolinee civili, mi sono spesso immedesimato in un uccello migratore che sorvola il pianeta e mi
sono chiesto se esista ancora qualche angolo del globo non abitato dagli uomini. I segni della sua
invadenza (strade, campi, città) intaccano come cicatrici ormai tutta la superficie del pianeta.
Così ai nostri ibis in migrazione non rimane altra scelta che fermarsi a dormire sugli alberi di qualche
villaggio o sulle linee elettriche. E il giorno dopo fare colazione nei campi coltivati o negli incolti fra strade e
campi. Rischiando a ogni passo di essere impallinati dal cacciatore di turno, di essere avvelenati dai
pesticidi o di rimanere folgorati sulle linee elettriche. La migrazione degli uccelli è diventata una specie di
marcia attraverso campi minati senza fine.
Gli ibis effettuarono un’altra fermata questa volta più lunga, alcune settimane, nella pianura costiera dello Yemen, Arabia
Felix, vicino a un villaggio di nome Bajil. Cominciavamo a pensare che si trattasse della loro destinazione finale, il mitico
quartiere di svernamento degli ibis eremita orientali, quando, a sorpresa, abbandonarono anche questa località volando
velocemente ancora più a Sud, verso lo stretto di Aden. Si iniziò a ipotizzare che fossero intenzionati a raggiungere il
Corno d’Africa: gli uccelli non marini evitano per quanto possibile di attraversare il mare aperto, un ambiente per loro
pericoloso e ostile, usando sapientemente gli stretti tra i continenti.
Questi passaggi migratori sono “tradizionali”, cioè tramandati di generazione in generazione. Per questo
sono famosi presso gli osservatori avicoli lo stretto di Gibilterra, il Bosforo e anche lo stretto di Messina,
luoghi ideali per osservare le migrazioni. Si tratta di passaggi obbligati, dei veri e propri colli di bottiglia
delle rotte migratorie, nei cui cieli si concentrano, durante certi giorni di grazia e di bel tempo, numeri
astronomici di viaggiatori alati.
Anche i nostri uccelli si avviavano dunque ad attraversare lo stretto di Aden, ossia il passaggio più propizio tra la
penisola arabica e il Corno d’Africa. Non potevo credere ai miei occhi. Attraverso una vera e propria esperienza
di transfert stavo realizzando il mio sogno: stavo anch’io migrando dalla Siria verso una delle destinazioni che più
avevo vagheggiato da piccolo, l’Africa. “Per coprire la distanza che collega i due angoli opposti di un quadrato, si
deve prima passare per il terzo angolo”, recita un antico detto dell’Asia. Il Medio Oriente era stato per me il terzo
angolo, da cui era destino che passassi prima di raggiungere l’antico continente delle origini. Abbandonarsi alle
correnti zigzaganti della vita per raggiungere le destinazioni fantasticate. Senza forzare, lasciandosi andare.
In Polinesia i pescatori sanno che l’unica salvezza per chi sta affogando, nel turbine delle correnti dei Mari
del Sud, infide e imprevedibili, nei pressi delle bocche di uscita delle lagune bordate dalle barriere coralline,
è abbandonarsi nelle braccia della corrente stessa, e calmare l’animo ripensando alla bellezza della vita
passata. Inutile confrontarsi fisicamente con l’oceano selvaggio, inutile disperarsi. Solo abbandonandosi
alla corrente e placando l’angoscia della morte, se il destino è benevolo, si viene riaccompagnati a riva.
Con in dono una visione nuova della vita.
La mattina in cui ricevetti la localizzazione della nostra tribù di volatili nel mezzo del deserto della Dancalia,
uno dei luoghi più bizzarri e dal clima più ostile del mondo, fui estasiato all’idea che usassero proprio
quest’area geografica come loro quartiere di svernamento. Stravaganti i nostri ibis lo erano sicuramente.
Invece continuarono il loro viaggio. Fino a inerpicarsi, in volo, lungo le pareti dell’acrocoro etiopico,
torreggiante sulla Rift Valley.
Pochi giorni dopo si fermarono nel bel mezzo dell’acrocoro, a un’altitudine di varie migliaia di metri sul
livello del mare. All’inizio cominciammo a contare i giorni, sapendo, come avevamo imparato in
Yemen, che una sosta poteva durare anche diverse settimane. Poi le settimane cominciarono a
sommarsi le une alle altre, finché non passò un mese, poi due, senza registrare ulteriori movimenti di
lungo tratto. Iniziò quindi a essere chiaro che quello era il posto prescelto dai pennuti per trascorrere i
successivi sei mesi. Il loro luogo di villeggiatura ai tropici.
L’ultima osservazione di ibis eremita sull’acrocoro etiopico, nel 1977, era avvenuta a soli tredici chilometri
da dove si erano appena fermati i nostri amici. Confermando così che questa era una zona storicamente
importante per lo svernamento degli ibis eremita orientali. Dopo circa tre settimane di volo migratorio, e un
totale di tremiladuecento chilometri percorsi, erano dunque arrivati. E anche Abu Nug era arrivato con loro,
in Africa.