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Tavole... «a tavola»!
Gianni Brunoro
Se si deve dar credito all’antico adagio mens sana in corpore sano dovrebbe
essere evidente che anche gli eroi dei fumetti, per mantenersi sani, devono
nutrirsi. In realtà, nella finzione narrativa, non troppo spesso li vediamo
intenti a questa attività. Ovvio, del resto, e vale specialmente per gli eroi dei
fumetti avventurosi: nel loro inarrestabile attivismo, come possono avere il
tempo di dedicarsi ad azioni bensì indispensabili ma banali, come nutrirsi o
dormire o altre ancora più quotidiane, che nulla possiedono di
avventuroso?... In effetti, di fronte a noi lettori essi devono sempre mostrare
il loro volto attivo, “motorio”, impegnati come sono nell’“azione
avventurosa”. Logico, insomma, che vedere gli “eroi” sedersi a tavola per
“consumare un pasto” è un tipo di occasione per lo meno non frequente.
Lo è magari meno, semmai, nei fumetti umoristici, dove tutto ciò che
riguarda la tavola o comunque l’atto del nutrirsi, può più agevolmente
essere oggetto narrativo: non tanto per l’importanza in sé, quanto piuttosto
per tutto quanto il tipo di occasione può significare: ironie sulle
ambientazioni, sulle modalità, sui tic, sul contesto (eventualmente sociale),
sulla ritualità – e aspetti del genere – di questa “ordinaria” operazione.
Insomma nei fumetti occasioni in qualche modo “mangerecce” si possono
bensì rintracciare, ma l’aspetto interessante è quello di analizzarne, volta a
volta, il senso nel corrispondente contesto narrativo. Sicché, da questo
punto di vista del tutto generale, non c’è da stupirsi che rapporti con il cibo
compaiano addirittura prima dei fumetti veri e propri, ossia in certi loro
antenati.
Già infatti all’inizio dell’Ottocento l’umorista svizzero Rodolphe Töppfer
conseguì un qualche successo (addirittura presso intellettuali quali Johann
Wolfgang Goethe e Xavier de Maistre) pubblicando certe storie costituite da
disegni in sequenza, corredati di testi, in cui egli ironizzava su aspetti della
vita quotidiana. In uno di questi, Il signor Crépin, 1837, il suo beffardo
sorriso si appunta proprio su una situazione del genere: i commensali si
apprestano alla cena e il signor Crépin, maleducato, starnutisce sul cibo;
allora i bambini, schifati, accampano una scusa per allontanarsi da tavola.
Per l’autore, è un’occasione idonea a sottolineare, sia pure tramite l’ironia,
come anche quando si mangia le buone maniere vanno rispettate.
Sempre in questi proto-fumetti, l’umorista tedesco Wilhelm Busch si rese
celebre con certe storielle disegnate, la più popolare delle quali (1865, nel
periodico Fliegende Blätter) rimane ancora oggi Max und Moritz: una
sequenza di episodi che vede come protagonisti due fratellini monelli, i
quali ne combinano di tutti i colori. In uno di questi episodi, per esempio,
Busch racconta come una casalinga si appresti ad arrostire una fila di polli
(bellamente esposti appesi a un filo, dopo che lei gli ha tirato il collo e li ha
spennati), ma i due escogitano un trucco per sottrarglieli e mangiarseli.
Però, alla conclusione, alla coppia birichina spetta un destino drammatico.
Dopo averne combinate di tutti i colori nel corso degli episodi, alla fine, per
una serie di qui-pro-quo, capita a loro stessi di finire infarinati,
poi messi al forno, macinati e trasformati in bocconcini, passando dal ruolo
di chi mangia a quello di chi... viene mangiato: nella circostanza, da un paio
d’oche di passaggio. Pagano così il fio di tutte le proprie malefatte,
diventando la metafora di una cupa pedagogia teutonica, inesorabilmente
ligia al principio del “chi la fa l’aspetti”.
Tutta l’opera di Bush è genericamente importante per i fumetti in quanto,
secondo gli studi critici, essa starebbe a monte della loro nascita. Il fumetto
vero e proprio è una forma espressiva – definita poi dalla semiologia mass
medium, mezzo di comunicazione di massa – sviluppatasi come si sa nei
quotidiani statunitensi a partire dalla fine del 19° secolo. Infatti i primissimi
autori di fumetti si sarebbero ispirati a Busch e a vari umoristi analoghi, la
cui tecnica narrativa era fiorente in Germania nell’Ottocento. E a Max und
Moritz, nello specifico, si sarebbe ispirato nel creare la serie Katzenjammer
kids – nota poi in Italia come Bibì e Bibò – il disegnatore Rudolf Dirks, che
attraverso di essa praticamente inventò le fondamentali regole comunicative
dei fumetti: soprattutto la narrazione attraverso vignette in sequenza e i
balloon, definiti poi in Italia “nuvolette”, ossia gli spazi contenenti i
dialoghi. L’ispirazione ai monelli di Bush da parte delle storielle dei
Katzenjammer kids è abbastanza evidente: anche qui abbiamo due fratellini
monellacci che ne combinano di tutti i colori e ogni volta vengono puniti
per le loro marachelle. L’ambiente è poco realistico (una specie di isola in
cui vivono strampalate famiglie di vaga origine tedesca) ma divertente
grazie a una serie di bislacchi personaggi, fra le cui beffarde vicende non
mancano rapporti col cibo.
Per esempio, in una fra le tante storielle (creata però nel nostro esempio da
Harold Knerr, che per certe cause giuridiche sostituì in seguito Dirks), si
vedono i due monelli mentre arraffano di nascosto una torta messa a
raffreddare sul davanzale dalla madre, Tordella, per andarsela a mangiare in
santa pace da soli. Scoperti, pagheranno naturalmente il fio della
birichinata con una sonora sculacciata da parte di colui che nella sit-com
cartacea è una specie di padre putativo, il burbero Capitano (Cocoricò, in
italiano).
A dire il vero, situazioni analoghe si ripetono in questo fumetto con una
certa frequenza e con soggetti volta a volta diversi: ora le cibarie preparate
per il pic-nic, ora le salsicce appena arrostite sul barbecue, ora i vassoi di
popcorn... Tutte abitudini tipiche della società americana del tempo.
C’è un caso particolare in cui un “cibo”, benché non sempre o non
espressamente esibito, è il protagonista occulto della narrazione. Tutti
conoscono, per esempio, Braccio di Ferro, il buffo e simpatico marinaio che,
dal lontano 1929, è protagonista col nome originario di Popeye (“Guercio”)
di una sterminata serie di avventure in cui, fin dall’inizio, manifesta una
forza eccezionale.
Ebbene, tutti sanno ugualmente che, nella finzione narrativa, a conferirgli
quel requisito è appunto uno specifico alimento: nei momenti in cui Popeye
necessita di un apporto energetico di eccezionale qualità, si nutre di una
bella “dose” di spinaci, ritenuti ricchissimi di ferro: magari da lui ingoiati
spremendoli con la forza erculea delle sue dita schiacciando direttamente
una lattina. Fu una trovata talmente originale di Elzie Crisler Segar, l’autore,
che essa conferì al personaggio una straordinaria popolarità. Tanto che a
Crystal City, una città statunitense a economia agricola, in particolare grazie
alla coltivazione degli spinaci, gli fu eretto nel 1937 un monumento.
E poco importa che i successivi studi scientifici sulla nutrizione abbiano
chiarito che non sia affatto vero il requisito tanto decantato di quella
verdura. La popolarità di Braccio di Ferro lo ha talmente diffuso e radicato
nella convinzione popolare, che ancora oggi gli spinaci sono sinonimo –
incredibile ma vero! – di “alimento ricco di ferro”...
Eppure non è questa l’unica presenza del cibo in questa serie. Come ben
sanno i lettori, fra i comprimari di Popeye i due principali sono la fidanzata
Oliva (Olive Oil, nell’originale) e l’amico Wimpy, non a caso chiamato dai
traduttori italiani Poldo Sbaffini. Perché in effetti l’unico interesse di Poldo
sembra essere quello per i panini, da lui ricercati e regolarmente “sbafati”
con un piacere così evidente da... suscitare l’appetito anche nel lettore! Fra
le tante occasioni ce n’è una, per esempio, idonea a dimostrare quanta e
quale sia per lui la intangibilità del panino: un giorno, i tre vanno al mare
per una vacanza sulla spiaggia e a un certo punto si sente Olivia chiamare
aiuto perché, essendosi addentrata in acqua, le onde stanno
pericolosamente per travolgerla. Ebbene, come una saetta, Poldo – uscendo
a sorpresa dalla sua pigrizia – si precipita, ancora prima di Braccio di Ferro.
Ma la sequenza di vignette evidenzia poi che la sua preoccupazione,
l’unica!, non era per la salvezza di Olivia bensì per il cestino del pic-nic,
affinché non si bagnassero i panini. E la disgraziata Olivia, salvatasi poi da
sola, se la prenderà con Braccio di Ferro, stendendolo con un potente pugno
in faccia. In sostanza, sembra comunque la dimostrazione che se nella serie
Braccio di Ferro gli spinaci sono sacri, tuttavia non lo sono meno i panini.
Comunque, per quanto riguarda la presenza nei fumetti, gli spinaci sono
comunque l’unica cibaria che abbia fatto diventare proverbiale l’idea
associata, per cui ancora oggi chi dice “spinaci” viene automaticamente
rimandato al ricordo di Braccio di Ferro. Il quale se ne nutre in qualsiasi
momento, indipendentemente dalla posizione canonica in cui il cibo viene
consumato, che sarebbe appunto la tavola.
Ci sono altre situazioni in cui i protagonisti si nutrono indipendentemente
dal sedersi a tavola. Basterebbe pensare alla sterminata serie di storie
western, moltissime delle quali sono – come dire? – vissute in esterni, in
lunghe giornate a cavallo scorrendo le praterie e nelle corrispondenti
nottate all’aperto. Lì, naturalmente, il pasto degli eroi viene cotto alla
fiamma di un improvvisato fuoco di bivacco: molto spesso niente più che
un po’ di lardo e fagioli, o eventualmente della carne secca che i cow-boy si
portano dietro, mentre la quasi immancabile conclusione è un aromatico
bricco di caffè.
Aspetti del genere ne troviamo in abbondanza. Ne riscontriamo uno, per
esempio, in un nobilissimo esempio di western, la serie Ken Parker iniziata
nel 1977 presso le edizioni Bonelli. Il West è terra da uomini duri-rudi vite,
a volersi concedere un bisticcio verbale. E anche la nutrizione segue norme
“dure”, assai spartane. Per cui sedere attorno al fuoco è l’occasione ideale
per raccontarsi delle storie o cantare insieme vecchie canzoni. Lo vediamo
in La ballata di Pat O’Shane (maggio-giugno 1978), quando Ken Parker
scorta a lungo una ragazza poco più che adolescente con la testa così piena
di fantasie da correre inconsapevolmente dei pericoli.
In maniera più efficiente riscontriamo delle funzionali chiacchiere attorno
al fuoco di bivacco nell’episodio Storie di soldati (agosto 1982) in cui, nella
finzione letteraria, a Ken Parker viene ad accompagnarsi uno straordinario
raccontatore di storie: qui parafrasate a fumetti.
Ma soprattutto è l’occasione, per l’eccellente autore Giancarlo Berardi, di
parafrasare alcuni dei racconti del famoso scrittore Ambrose Bierce: vale a
dire colui che, nella finzione narrativa, si unisce in quel caso al gruppo di
cowboy che accompagnano Ken Parker.
Quando però si parla di western, è assolutamente impossibile prescindere
da quella serie (italiana ma famosa nel mondo: anzi oggi la più longeva di
tutte, in questo filone narrativo). E qui, francamente, i bivacchi – si può dire
– si sprecano. Lo riscontriamo, per esempio, in uno dei mille episodi di Tex
Willer (nello specifico, quello intitolato Deadwood, maggio 2010) in cui il
figlio di Tex, Kit Willer, conversa con il pellerossa Alce Grigio che, pur
essendo suo prigioniero, lo intrattiene pacatamente con lunghi sermoni
informativi sulla propria tribù, i Dakota. Un’occasione che ha il sapore di
metafora per quella valenza anti-razzista che caratterizza l’intera saga di Tex
Willer, un atteggiamento presente in essa da sempre.
Al di là, comunque di questa occasione singola, e proprio perché quella di
Tex è una saga sterminata (certo la più lunga al mondo, con le sue migliaia
e migliaia di pagine in 65 anni di vita editoriale, sostanziata da varie serie,
sotto-serie ed edizioni differenti), c’è contestualmente in essa una vera...
enciclopedia di bivacchi, “leggibili” sotto differenti profili. In fondo il
bivacco viene sfruttato dagli autori, sul piano narratologico, anche come
espediente utile per inserire diversioni, o flash back, o ricordi dell’uno e
dell’altro fra i protagonisti e possibilità similari. Ma essenzialmente, è ovvio,
ora come momento elitario della nutrizione nel West, quasi una metafora
della necessità, per i protagonisti, di nutrirsi allo scopo di rimanere vivi e
attivi; ora il bivacco come indispensabile pausa, ossia la sosta come
momento indispensabile alla sopravvivenza: c’è per esempio un momento,
nell’episodio Il passato di Tex, (p.292-vol.I della serie Tex Story, di cui si
dirà fra un momento) in cui, dopo aver cavalcato a lungo insieme all’amico
Dick, è scesa la notte e Tex suggerisce “Che ne diresti di fare una sosta di un
paio d’ore?”, e davanti al nicchiare di Dick egli afferma “Ai nostri poveri
cavalli occorrono ben più di un paio d’ore per riprendere fiato, e in quanto a
me, beh, prova a darmi una pacca sulla schiena e vedrai le mie ossa
sparpagliarsi lungo tutta la riva del fiume”.
È una dimostrazione “dall’interno” che anche gli eroi non sono inossidabili
ma hanno limiti umani. Che viene addirittura sottolineata nel fascicolovolume n.500 della serie, intitolato Uomini in fuga (testo di Claudio Nizzi,
bellissimi disegni a colori di Giovanni Ticci). Qui (pp.32, 33, 34) ha luogo
un prolungato battibecco fra Tex e il suo amico Carson, il quale comincia
col dire “avremmo dovuto ricordare a Kit e Tiger di prendere anche della
scorte di cibo”; e continua “con me ho gallette e pemmicam”. Concludendo
poi “rischiamo di dover mangiare carne di serpente a sonagli”. Ma “gli
indiani la trovano buonissima” ribatte Tex, che poi chiede “il caffè, almeno,
lo hai portato?” e Carson, mugugnando: “quello sempre”.
E dopo un po’ chiede “com’è venuto?”; “sei il solito artista”, riconosce Tex.
“bah – continua a brontolare Carson – riscalda lo stomaco ma non riempie
la pancia”. E Tex “abbi fede vecchio affamato, vedrai che i ragazzi
arriveranno con un bel cervo grasso da fare allo spiedo”. Battibecco
interessante, perché ci mette anche al corrente di quali potessero essere le...
portate degli spartani menù nei bivacchi. I quali si concludevano
inevitabilmente con una fumata: come si vede chiaramente in un successivo
bivacco durante questo stesso episodio (pp.88, 89), con Tex che, dopo
essersi bevuto la tazzona di caffè continuando a chiacchierare con Carson,
si arrotola una sigaretta.
Un significativo esempio di molteplici presenze di bivacchi è agevole
constatarlo grazie a una recente riproposta: in una serie di quattro grossi
tomi intitolati Tex Story nella collana degli Oscar Mondadori, sono stati
selezionati e raccolti vari episodi della saga, idonei a focalizzare i momenti
nodali della biografia di Tex. Ebbene, in essi figurano varie di quelle
“occasioni” in cui i protagonisti si intrattengono “a cena” in un bivacco;
anzi, tali occasioni sono qui talmente numerose da costituire quasi una
elegia del bivacco, o sicuramente da testimoniare vari degli aspetti secondo
cui gli autori sfruttano narrativamente questo tipo di situazione. Nel caso
specifico, dunque (vol.I, p.17), comincia Carson col raccontare come, da
giovane, Tex non fosse che un comune cowboy, però campione di rodeo; su
questo momento iniziale si innestano poi (pagine e pagine del racconto...)
varie vicende che lo hanno portato, per vendicare certi torti subiti, a farsi
giustizia da sé e a diventare quindi un fuorilegge.
Non finisce qui, del resto. Tutto questo volume è impostato in maniera tale
da raccontare vicende passate, senza però interrompere la continuità
narrativa. E allora, l’espediente è proprio quello di mettere questa volta
(vol.I, p.209) non al bivacco bensì a tavola i protagonisti, ai quali ancora
una volta Tex racconta una sua lunga vicenda passata, quando fu costretto a
combattere Fra due bandiere (titolo dell’episodio) avendo a che fare in modi
diversi con i militari: lui, un convinto antimilitarista.
Come direbbero poi gli imbonitori, “altro giro, altro regalo”... Ossia: un altro
gran bel “racconto di bivacco” si incontra nel successivo volume di questa
proposta editoriale. Particolarmente interessante perché in esso Tex inizia a
raccontare (vol.II, p.372), e lo fa per l’intero episodio, un momento esiziale
della propria vita.
Si avvia cioè Sul sentiero dei ricordi (titolo dell’episodio) e racconta di
quando, nel breve periodo del proprio matrimonio, egli accompagnasse la
moglie indiana con Lilyth a trovare un anziano frate presso una missione
francescana dove era stata educata da bambina; e in quell’occasione la
missione viene assaltata dai pellirosse, che rapiscono Lilyth. Sicché lui, per
liberarla, è costretto a una strenua lotta irta di pericoli. Qui, detto per inciso,
il testo è di Claudio Nizzi, il più importante “erede” storico del grande Gian
Luigi Bonelli, “inventore” di Tex e l’episodio si avvale dei disegni di uno dei
migliori collaboratori dell’équipe, Fabio Civitelli, suggestivo illustratore
delle tante scene notturne di vario genere su cui si regge il racconto: il quale
fra l’altro è costituito da un frequente alternarsi di flash-back e di scene di
bivacco, in cui i protagonisti continuano a mangiucchiare, mentre viene
illustrato ciò che il protagonista – Tex, ovviamente – continua a raccontare.
Pertanto, in questi volumi Tex Story viene nel contesto significativamente
sottolineato che il bivacco è bensì una “occasione” mangereccia, ma è anche
in maniera inscindibilmente contestuale la situazione – narrativa e storica –
di approfondimento dei rapporti umani, di travaso di esperienze e idee, di
eventuali confronti ideologici...
È insomma talmente un topos il bivacco, per cui anche nei fumetti
umoristici esso si presta a impostarci delle situazioni narrative. Per
esempio, una “portata” assai gradita nei bivacchi è la selvaggina, se e
quando la si trova. Proprio questa presenza più o meno occasionale della
medesima offre lo spunto a Benito Jacovitti per una delle sue tante trovate
spassose e surreali. Fra le decine delle sue creature, quella da lui più amata
e forse più popolare è Cocco Bill, cow-boy del tutto controcorrente: egli
chiacchiera col suo cavallo Trottalemme (autentico co-protagonista dei
racconti), non beve il tradizionale whisky bensì la tranquillante camomilla e
affronta vicende fra le più strampalate e bizzarre che si possano
immaginare. E anche al momento di fermarsi a bivaccare egli ricorre a
metodi a dir poco surreali.
La selvaggina, infatti, non sempre è così facile da trovare. Ma non per Cocco
Bill. È quanto risulta, per esempio, nell’episodio intitolato
Coccobillevolissimevolmente (edizione originale in Maxivitt, 1978/89, poi
ristampato più volte), dove il nostro eroe, dopo aver perentoriamente
dichiarato di aver fame, si mette a sparacchiare all’impazzata e un volatile,
già bell’e spennato e pronto per la cottura, cade in padella, dove
Trottalemme – qui in paradossale versione cuoco – si appresta a
prepararglielo per colazione.
Pur però nel suo sistematico atteggiamento grottesco, non sempre Jacovitti
tratta il cibo in maniera comica. C’è per esempio un caso in cui il suo
discorso si fa nella sostanza serissimo. Nel racconto Mandrago (Il Vittorioso,
1946) c’è un povero, comunissimo “uomo della strada” che acquisisce per
caso dei poteri magici.
A quel punto, qual è la maggior parte delle magie cui si dedica? Proprio
quella di procurarsi del cibo. E in una pagina esilarante, dopo aver fatto
magicamente apparire una tavola imbandita, eccolo impegnato, insieme al
suo assistente Pappotar, in una sequenza di golosi rapporti con appetitose
portate di ogni genere. Pur nel suo registro comico, la pagina evidenzia un
problema, in quel momento, esiziale per l’Italia: si era nel 1946, e in un
Paese come il nostro, uscito umiliato e distrutto dalla guerra. In quelle
condizioni, procurarsi un pasto era ancora una faccenda di urgenza basilare,
più fondamentale di qualunque altra esigenza...
L’episodio fumettistico, pur tragicomico, è tuttavia esemplare come
parafrasi del ruolo centrale, per i rapporti umani, del “mettersi a tavola”. E
anche per gli eroi del fumetto resta comunque indubitabile che essa ne è il
luogo deputato. È quanto era in certo senso sintomaticamente espresso in
una serie di storielle di Marco Biassoni nelle brevi animazioni pubblicitarie
di Carosello, diventate così famose da rifluire a suo tempo anche in una
serie di fumetti cartacei.
Lì, la tavola era protagonista “in prima persona”, trattandosi della... tavola
rotonda di Re Artù, alla quale era sempre in ritardo Lancillotto. E quando
finalmente egli arrivava, ecco la conclusione rituale di ogni breve
avventura: “morale della favola, in tavola”. Che se magari era funzionale
allo specifico scopo pubblicitario (trattandosi dello spot di un prodotto
alimentare, i biscotti Pavesi), tuttavia era anche la metafora di una
situazione, appunto, universale. Nel senso che spessissimo è a tavola che si
affrontano e a volte si risolvono faccende di ogni genere. Anche nei fumetti
è sintomatica la diversità delle condizioni che gli autori ci descrivono nel
contesto narrativo e i differenti significati assunti da quel momento del
racconto.
Ecco per esempio, una presenza a tavola del tutto corrente. Fra il 2008 e il
2009 la casa editrice Bonelli ha pubblicato una serie di albi intitolata Jan
Dix, creati da Carlo Ambrosini. Il protagonista eponimo è un famoso critico
d’arte – quindi una persona di cultura alta e in un settore specifico – al
quale, nella propria città, Amsterdam, si presentano casi polizieschi
connessi a opere d’arte, nei quali egli è costretto a indagare per venire volta
a volta a capo di un mistero da risolvere.
E per esempio nell’episodio intitolato Una tragedia americana lo vediamo,
nel corso di un’inchiesta, seduto a un tavolo di ristorante, mentre discute
tranquillo con una sua cliente. Una situazione quindi che ci relaziona su
una composta rispettabilità borghese, nella quale il sedersi insieme a tavola
– quasi una “colazione di lavoro” – è una delle maniere tradizionali in cui ci
si comporta nel nostro mondo reale.
A volte, tuttavia l’apparenza inganna... Dipende dal contesto. C’è per
esempio una serie fumettistica molto amata (tant’è vero che è sulla breccia
da decenni e addirittura con sempre maggiore successo, invece che con
stanchezza) incentrata sul personaggio Zagor, che ha come spalla un buffo
ometto di mezza età, Cico: il quale è basso e grassottello non per caso, bensì
perché ama molto indulgere a quelli che vengono definiti i piaceri della
tavola. E benché quella di Zagor sia una serie avventurosa, proprio la
presenza di Cico offre frequenti siparietti comici. C’è per esempio un
episodio, intitolato L’ombra del vampiro, nel quale i nostri eroi e un loro
amico capitano in un tetro castello abitato appunto da un vampiro: anche se
questo lo sa soltanto il lettore, non i personaggi. I quali vengono invitati a
cena e, sia prima sia durante la tavolata Cico si produce non solo in una
delle sue consueta mangiate, ma anche in una serie di conoscenze
gastronomiche da lasciare ammirati. Quando però nel seguito dell’avventura
si farà un piccola ferita, dalla quale esce del sangue, i rapporti fra lui e il
padrone di casa – vampiro! – si produrranno in una sequenza esilarante,
degna di un film di Stanlio e Ollio. Non sempre, però, è così. In un altro
episodio intitolato La prova del fuoco, i nostri eroi sono a cena dal
comandante del Forte Bravery e in una lunga sequenza di vignette che li
vede a tavola, si dimostrano di una urbanità quale magari da loro – così
adusi a eventi rudi e perfino selvaggi – sembrerebbe difficile aspettarsi.
Forse è una dimostrazione che, almeno nei fumetti, quando si è a tavola non
ci si può comportare che compitamente.
Ci sono infatti altri casi in cui la prospettiva è diversa, come nell’episodio di
Corto Maltese L’angelo della finestra d’oriente. Nello specifico, il dipanarsi
di una vicenda avventurosa conduce come altre volte Corto Maltese a
Venezia, per cui l’autore Hugo Pratt ne approfitta per un ammiccamento –
tecnicamente, quel che si definisce un inside joke – al proprietario, nella
realtà, della sua trattoria preferita. Sicché si vede il famoso e super-attivo
Corto Maltese del tutto rilassato, in tranquilla attesa al tavolo del ristorante,
nella quiete ombrosa di una pergola.
E a un certo punto la inserviente, dopo avere arrostito a puntino un pesce
alla brace, chiama per nome: “...Scarso! È pronto lo «sfogio» per Colto
Maltese!”, e Scarso, proprietario e amico di Corto, lo serve con un
soddisfatto: “Ecco, Corto, guarda che meraviglia di «sfogio» che ti abbiamo
preparato...”. Qui traspare magari il concetto che a volte “anche gli eroi
dell’avventura si rilassano”, ma contestualmente è anche un interessante
esempio, quasi un’occasione metafumettistica, di interazione tra fantasia
(quella del racconto) e realtà (quella dei rapporti interpersonali dell’autore).
A volte si riscontra che a tavola si possono discutere anche problemi
quotidiani o perfino esistenziali... Nella recentissima serie Il piccolo Pierre
(ed. Tunué, 1° volume 2013, autori Corrado Mastantuono e Stefano Intini) il
bambino che risponde a quel nome, di esuberante fantasia e un po’ sventato
ma anche coraggioso, proprio per tutte queste ragioni dà dei grattacapi al
padre. Il quale, per capire la situazione, chiede aiuto a chi meglio possa
conoscere il bambino, ossia alla sua tata.
E dove/come avvengono questi dialoghi? Esattamente a tavola, mentre lei gli
serve tutta una serie di succulente portate. Nel frattempo il bambino si è
allontanato da casa ma è stato raccolto da un vecchio saggio, il quale ha ben
capito la situazione. Pertanto lo accompagna a casa propria per inculcargli
un po’ di ragionevolezza. E qual è il primo passo? Dargli da mangiare, cioè
metterlo a tavola...
Altro interessante esempio di personaggi fumettistici a tavola è quello che
compare nella recentissima (16 aprile 2013) storia di Topolino dal titolo La
promessa del gatto, scritta e illustrata rispettivamente da Francesco Artibani
e Giorgio Cavazzano: i quali “mandano” Topolino e Minni in vacanza in
Sicilia, dove la vicenda li porta a conoscere Topalbano. Vale a dire un
personaggio che è l’amabile parodia di Salvo Montalbano, il celebre
protagonista dei non meno celebri romanzi di Andrea Camilleri. È
l’ammiccamento a una serie di gialli in cui l’approccio al cibo è abbastanza
fondamentale. Montalbano, si sa, è un buongustaio, un davvero raffinato
gourmet che non esita ad abbuffarsi dei cibi che ama. E anche la parodia
non rifugge da questo momento, facendoci vedere Topolino insieme a
Topalbano, intenti a mangiare al tavolo del ristorante e con tutti i tic di
quest’ultimo: dalla scelta specifica di una portata piuttosto che un’altra, al
sacrosanto silenzio durante il pasto.
Dando così un senso di quasi sacra ritualità a un tipo di occasione –
appunto, lo stare a tavola – presente anche magari nei racconti di Topolino,
dove però il mangiare è soltanto un momento uguale a tutti gli altri.
Ma siamo altrettanto lontani dall’edulcorata visione di un mondo
topolinesco dal forzato ottimismo, in cui i personaggi “recitano” una
spensieratezza che si concretizza nei rituali del picnic. Qui no, qui Topolino
– sia pure nella impostazione umoristica del racconto – è immerso in una
curiosa realtà, quella dei romanzi di Andrea Camilleri. Ossia una realtà che
non rifugge dal parlare di argomenti drammatici reali, come quello dei
rapimenti, o dello strapotere della criminalità mafiosa, o delle
prevaricazioni da parte delle cosche, o del diffuso vizio a-sociale
dell’omertà... Una piccola occasione, dunque – Topolino a tavola con
Topalbano – che riporta il piccolo eroe disneyano alla sua personalità
classica, quella del personaggio integralmente d’avventura, impegnato
magari su argomenti di valenza sociale. Qui è invece di particolare
interesse, perché rileviamo una situazione abbastanza diversa da quelle del
mondo Disney e nello specifico anche dal mondo di Paperopoli.
È, quest’ultimo, l’ambiente in cui, tante volte, Nonna Papera si esibisce
nella convenzionale preparazione delle sue torte di mele. Una situazione
talmente canonica da figurare sulla copertina di un volume incentrato su di
lei, dal quasi ovvio titolo Manuale di Nonna Papera. E se in questa
immagine essa figura alquanto seccata perché i nipotini Qui, Quo, Qua le
stanno scippando una torta, tuttavia subito nelle prime pagine interne la si
vede mentre è lei stessa che, amorevolmente, porta il dolce appena sfornato
ai golosi nipoti. E qualche pagina ancora più in là, eccola intenta a
prepararne un’altra: sembra quasi che questa sia la sua unica attività nella
vita... Ma il fatto è probabilmente molto più sottile e anche più semplice:
Nonna Papera è la versione paperinesca di una figura tradizionale
dell’iconografia americana, quella dell’anziana matriarca della famiglia o –
nello specifico – della fattoria.
Che Nonna Papera sia un simbolo non insignificante, lo si deduce anche da
una delle storie presenti nel “mitico” Topolino n.3.000, uscito il 28 maggio
2013, nella insolita consistenza di 322 pagine, appunto per celebrare il
raggiungimento di quell’eccezionale traguardo. Ebbene, fra i numerosi
racconti in esso presenti, uno – intitolato Qui, Quo, Qua e le prelibatezze a
km 3000 (testo di Teresa Radice, disegni di Stefano Turconi) – è proprio
incentrato su un argomento “alimentare”, tanto da esordire con la didascalia
“Questa storia inizia col profumo di sugo fatto in casa, con verdurine e
spezie dell’orto”.
E naturalmente vede come fondamentale protagonista “l’energica Nonna
Papera, che di «verde» ha il pollice perché è brava a coltivare ortaggi, piante
e fiori [...] della sua fattoria tra una torta di mele e un racconto intorno al
fuoco”. E poi il testo del fumetto è disseminato di allusioni a ricette le più
varie, da “ravioli fatti a mano con ripieno di spinaci e ricotta di capra, tutto
autoprodotto”, a “minestroni di verdure fresche” , al “bel piatto di spaghetti
con il pesto della nonna”, o “le tagliatelle al ragù vegetariano cotto a
puntino”, uno dei tanti contenuti nei “vasetti di sughi vari”, preparati con
“ingredienti genuini”, a “un secondo profumato di spezie appena colte”, a
“una bella fetta di crostata, farcita di marmellata di frutta di stagione”, ai
“biscotti con le nocciole della fattoria”; insomma quei tesori di “latte,
formaggi, frutta”, con cui preparare “Pasta fresca, torte, biscotti e
marmellate” preparati con le sue mani, come la “crostata con composta di
mele” che sarebbe magari l’ideale dessert con cui concludere ogni pasto.
Pasti sempre e solo rigorosamente vegetariani: essendo questo il principio a
cui si ispira tutto intero il racconto, anche per sensibilizzare i lettori alla
utilità di una scelta alimentare del genere.
Un racconto tutto disseminato di vignette “in cucina” o “a tavola” e ispirato
soprattutto alla difesa del cibo “bio” e alla opportunità, alla utilità, se non
alla necessità, di mangiare “biologico”.
Se non biologico, anche magari ampiamente vegetariano... E magari per...
opportunità sociale. Mi spiego. C’è una curiosa circostanza nell’episodio
Filo spinato sulla prateria appartenente alla serie Lucky Luke: la quale, sia
detto qui per informazione minima, è una serie western umoristica iniziata
nel 1947 dal belga Morris (pseudonimo di Maurice de Bevere), il quale, in
seguito, si fece scrivere i testi dal grande René Goscinny (celebre autore, fra
l’altro, di Astérix). Ebbene, l’episodio di cui sopra è incentrato su un ben
noto fatto storico: la contesa, nel West americano, fra gli allevatori di
bestiame e i coltivatori. E quando l’eroe della serie, Lucky Luke, viene
chiamato a far da paciere fra le due parti in lotta, egli viene invitato a un
pranzo conviviale presso i coltivatori. Pranzo di singolare coerenza –
almeno sul piano narrativo – con la loro condizione sociale, in quanto tutte
le portate, dalla prima all’ultima, sono costituite da piatti vegetariani, che
rispecchiano la condizione ideologica di chi intende dedicarsi alla
coltivazione di ortaggi: e quindi i commensali, ben distribuiti attorno alla
tavola, potranno gustare per esempio portate che vanno dalla “zuppa di
verdure” al “pollo ai piselli” alla “insalata di lattuga e pomodori”, alla
“crostata di zucca”. Che saranno poi anche le portate della gran tavolata
finale, alla quale siederanno – pacificati da Lucky Luke nell’episodio – gli ex
nemici allevatori e agricoltori. È dunque un altro di quegli esempi in cui il
fumetto assolve una funzione formativa, entrando nel ruolo della
educazione sociale.
È l’ennesima occasione in cui una storia a fumetti può dimostrarsi capace di
affrontare problemi reali. E se si pensa che questo possa avvenire solo
tramite storie realistiche più o meno dure in ambito avventuroso, piuttosto
che in “oziose” sedute di fronte a una tavola ben imbandita, ebbene, ci
possono essere esempi idonei a smentire tale idea. Un esempio inquietante
è quello presentato da Will Eisner nel suo graphic novel Affari di Famiglia
(1998). Occorre ricordare che di quella evoluta forma narrativa fumettistica
che è il graphic novel, lo stesso Eisner è considerato l’inventore, avendo
pubblicato nel 1978 il romanzo Contratto con Dio, prototipo del citato
filone. Dunque, in Affari di famiglia vediamo riunirsi tutto un numeroso
parentado – figli, loro coniugi, nipoti, loro fidanzate... – per celebrare in un
gran pranzo collettivo il compleanno dell’anziano genitore. Il quale, colpito
da ictus, è assistito dall’anziana moglie ma è incapace di comunicare e al
banchetto partecipa quasi abulico seduto in carrozzella, come vive ormai da
tempo.
L’occasione vorrebbe essere festosa, visto che la tavolata è un’eminente
momento di socializzazione. In realtà essa si rivela qui invece la spia di un
devastante insieme di rapporti parentali aggressivi, di insofferenze, di
morbosità, di invidie... Al punto che il ricco pranzo conviviale induce il
vecchio genitore – che, pur non parlando, ragiona lucidamente – a una
nausea generale per la vita, che egli conclude qui con una drammatica
azione estrema, suicidandosi. È come dire che a volte i cibi possono
dimostrarsi, anche metaforicamente, indigesti.
Però è vero in genere proprio il contrario. La gran tavolata e l’eventuale
abbuffata che essa comporta, è sintomo e occasione di allegria. Così si
configura, per esempio, in una serie avventurosa intitolata Il piccolo ranger,
creata nel 1958 dallo sceneggiatore Andrea Lavezzolo e dal disegnatore
Francesco Gamba (ma continuata poi per anni da altri scrittori e
disegnatori). E benché le avventure di questo giovanetto fossero spesso
drammatiche, tuttavia la conclusione era all’insegna dell’ottimismo. E
spesso addirittura l’happy end veniva celebrato con una gran tavolata, alla
quale partecipavano tutti i membri importanti del forte, che era la
guarnigione western in cui vivevano.
E secondo Lavezzolo questo era un aspetto così importante, che non di rado
lo faceva vedere ai lettori anche nel caso che si trattasse delle lunghe
traversate carovaniere. In certo senso per sottolineare l’importanza, dal
punto di vista del vivere civile, dello stare insieme a tavola, quasi una
filosofia di vita...
È un concetto – questo “star bene a tavola” – che riceve una esemplare
conferma anche in una storia a fumetti di Martin Mystère. Personaggio
dell’editrice Bonelli, esso è stato creato nel 1982 da Alfredo Castelli
(coadiuvato in seguito da diversi collaboratori, sia per i testi sia per i
disegni) ed è un “detective dell’impossibile”: sostanzialmente, una specie di
archeologo con una singolare vocazione per i casi misteriosi, da lui però
affrontati anche alla luce di una notevole competenza scientifica. Proprio
per questa ragione, il personaggio ha uno “zoccolo duro” di pubblico pure
fra le persone di cultura, anche perché non di rado le sue avventure si
destreggiano fra autentici argomenti scientifici.
È appunto questo uno dei casi che ci interessa nel presente contesto.
Nell’episodio uscito nel n.326 della serie, aprile/maggio 2013, intitolato Il
paradosso di Fermi (testo di Luigi Mignacco, disegni di Paolo Ongaro) c’è
una lunga sequenza di pagine in cui alcuni scienziati sono a tavola (“questi
discorsi non ci portano da nessuna parte, signori, ma i nostri piedi ci hanno
portato a Fuller Lodge, dove potremo nutrire i nostri cervelli con bistecche e
insalata!”) e, durante quella che si definirebbe una colazione di lavoro,
discutono di fatti scientifici, di teorie evolutive, di possibilità di vita
nell’universo e via discorrendo, coinvolgendo anche il “paradosso di Fermi”
(“quante civiltà tecnicamente evolute ci potrebbero essere nella nostra
galassia?”, o “quanti granelli di sabbia ci sono nel deserto del Sahara?” e via
discorrendo; ma “proprio così, cari colleghi. Noi non abbiamo tutti i dati del
problema”). Dopo di che, a fine pranzo, fra un dato scientifico e l’altro, ma
anche fra una battuta e l’altra,: “dieci minuti dopo essere stato formulato, il
paradosso di Fermi è stato risolto!”. Conclusione sarcastica, evidentemente,
visto che le loro sono state nient’altro che chiacchiere.
Bensì colte, ma solo chiacchiere. Però l’esempio è divertente, funzionale e
didascalico!, perfino con un sapore storico. In sostanza, è la metafora di una
situazione effettiva importante: ossia che spesso, a tavola, si risolvono
importanti problemi.
Del resto, sempre nello stesso episodio, si assiste un po’ dopo a un altro
fatto interessante: uno scienziato riceve di notte una notizia di valore
scientifico. Talmente importante, che lui sente la cosa come una
comunicazione ansiogena. E qual è la sua reazione? Corre al frigorifero,
travolto da una specie di fame ansiosa. Quasi a evidenziare che il cibo può
avere una valenza... medica non inferiore a quella di un tranquillante.
C’è però una serie fumettistica in cui la gran tavolata, il banchetto rituale e
chiassoso, figura come una vera e propria apoteosi e lo stare insieme
gozzovigliando sembra una scelta di vita vera e propria, irrinunciabile. Si
tratta della notissima serie Astérix, intitolata al piccolo Gallo che come si sa
vive nella Bretagna di qualche decennio avanti Cristo e insieme a tutto il
suo piccolo villaggio non intende accettare di essere sottomesso
all’invasione romana. Situazione generatrice di una serie incessante di
scaramucce, in cui i Romani hanno sistematicamente la peggio. E perché?
Proprio per una ragione “alimentare”, in quanto quella rude popolazione
ingurgita una pozione magica dalla formula segreta, preparata dal loro
sacerdote-druido Panoramix, grazie alla quale le persone assumono una
forza prodigiosa.
Ma Obélix – il più forte di tutti loro, grazie al fatto di essere caduto da
piccolo dentro il calderone della pozione magica – è anche un formidabile
ingordo: e in varie occasioni lo vediamo a tavola a sbafarsi qualche
cinghiale... Però il vero tripudio della tavola è alla conclusione di ogni
episodio, quando cioè la immancabile vittoria di questi irriducibili Galli
contro qualunque tipo di nemici (non solo i Romani, ma anche altri popoli o
altre entità, come per esempio i pirati) viene celebrata con una gran baldoria
alimentare: tutto il villaggio in una tavolata notturna finale alla luce delle
torce, fra canti e gozzoviglie di ogni genere. Con un’unica nota stonata, alla
lettera: cioè, il povero bardo del villaggio, Assurancetourix, il cui canto
stentoreo e disarmonico disturberebbe insopportabilmente la tavolata, viene
preventivamene legato, imbavagliato e magari appeso a un ramo di quercia,
alla larga dai banchettanti.
Al di là di questa vera e propria apoteosi dello stare a tavola, anche i fumetti
sembrano comunque a modo loro sottolineare quel vecchio adagio che
recita “a tavola non s’invecchia”. E la tavolata si dimostra un momento di
particolare aggregazione sociale.
Mi piace concludere questa “passeggiata” fra le TAVOLE A FUMETTI CON
PERSONAGGI A TAVOLA (se mi si concede il bisticcio verbale) con un vero
campione, fra gli autori che hanno trattato questo tema. In effetti, non
altrimenti si può definire Quino (il famoso autore anche del celebre fumetto
Mafalda), il quale, nella sua carriera di umorista, ha dedicato ad argomenti
alimentari una quantità sia di vignette sia di tavole a fumetti. Tante e tali
che, una volta raccolte, esse hanno dato adito a ben due volumi: Peccati di
gola (Pecados de gola, 1990) e Odissea a tavola (La aventura del comer,
2007), costituenti una autentica apoteosi del rapporto cibo/vignettistica, in
quanto Quino vi ha raffigurato una quantità di possibili situazioni,
qualunque tipo di significato e insomma rimandi “mangerecci” di ogni
genere. Peccati di gola è addirittura suddiviso in capitoletti, dal cui
semplice elenco, qui di seguito, si può avere una chiara idea di quanti e
quali siano gli approcci – grotteschi o realistici, surreali o di semplice gioco
grafico, e via discorrendo – da parte dell’umorista: Le provviste; I cuochi; Le
bevande; La scelta dei piatti; Il servizio; L’ambiente; I posti esotici; Gli
spuntini; Le diete; e non manca, alla fine, Il giudizio dell’esperto.
Quanto a Odissea a tavola, il volume non è nemmeno suddiviso in capitoli,
si tratta di cento pagine contenenti una sequenza ininterrotta di vignette e
tavole, sempre sulle stesse tematiche del volume precedente, ma con una
tale sequela di “variazioni sul tema” da lasciare sbalorditi. Un po’ per la
ricchezza di fantasia manifestata dall’autore. Ma soprattutto come
documentazione su quanti e quali siano i possibili rapporti psicologici
intrattenuti nei confronti del cibo, da parte di chiunque di noi, i cosiddetti
“consumatori”.