Ho acceso al TV mentre preparavo il pranzo, la tengo come

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Ho acceso al TV mentre preparavo il pranzo, la tengo come
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La messa in scena
di Marika Cassimatis
Venerdì 11 marzo, alle ore 14.30, Valentina alzò lo sguardo sulla televisione.
Era sintonizzata sul canale satellitare che trasmetteva le notizie a ciclo continuo, ventiquattro ore su
ventiquattro. L’audio era spento. Le piaceva avere a disposizione quella finestra sul mondo mentre
trafficava in cucina, studiava o faceva cento altre cose. Ogni tanto guardava e se le immagini erano
significative, alzava il volume.
Una serie di sequenze compulsive occupavano lo schermo, immagini mosse, fuori fuoco. Lesse i
sottotitoli: terremoto in Giappone.
Posò il coltello con il quale stava affettando i pomodori e andò a sedersi sul divano.
Un impiegato, all’interno di un grattacielo, si preoccupava di salvare il PC che stava per schiantarsi
a terra. Le pareti della stanza oscillavano.
Le vennero in mente le hostess che cercava con lo sguardo quando l’aereo sul quale viaggiava
incappava in un vuoto d’aria. Erano tranquille mentre continuavano a svolgere le loro mansioni e la
sua paura svaporava.
Il gesto di quell’uomo era altrettanto rassicurante, non pensava a se stesso, sapeva che la struttura
avrebbe retto.
I grattacieli sembravano parallelepipedi di gomma, rispondevano elastici alle sollecitazioni che
provenivano dalla profondità della terra. La telecamera si muoveva assieme alle pareti e al
pavimento, l’audio trasmetteva un rombo sordo.
La voce del giornalista fuori campo informava che si trattava di un terremoto di magnitudo 8,9
della scala Richter. In Italia avrebbe raso al suolo le città.
Valentina si chiedeva come facessero i giapponesi a vivere una vita normale sapendo di essere
seduti sopra ad una pentola a pressione.
Hanno la cultura del sacrificio impressa nel DNA e hanno inventato la parola kamikaze, che non
è da sottovalutare nella sua portata culturale. Per non parlare del harakiri.
Aveva affondato le mani tra i cuscini del divano rosso e con le unghie scorticava il legno delle
doghe.
Dall’unica finestra che illuminava l’open space arrivava attutito il sibilo del treno che correva poco
distante e la leggera vibrazione dei vetri rendeva molto realistiche le immagini che guardava.
Si dimenticò del pranzo, le riprese assorbirono la sua attenzione.
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Lasciò accesa la tv anche quando aprì le pagine del libro di economia politica. Doveva sostenere
l’esame all’appello di Aprile e mancavano tre settimane. Ma non riusciva a staccare gli occhi dallo
schermo, era attratta dal viso della gente, caparbiamente inespressivo.
Alle 15.30 sopraggiunse la prima onda dello tsunami. Più devastante del terremoto.
Guardando le panoramiche aeree, Valentina sentiva un peso opprimerle lo stomaco. Come se una
forza magnetica cercasse di risucchiare le sue energie verso il baricentro del corpo. Seguiva con il
fiato sospeso l’auto bianca che correva sulla strada, in diagonale rispetto alla direzione all’onda,
che era molto veloce.
Il guidatore non poteva vederla e si capiva che non ce l’avrebbe fatta a mettersi in salvo, gli stava
andando incontro. A pochi istanti dall’impatto il filmato si interrompeva.
Nel corso della giornata rivide quella scena decine di volte, il libro di economia aperto sulla stessa
pagina.
Che fine ha fatto la donna o l’uomo che guida? Non lo dice nessuno.
Il pensiero la tormentava e prese a massacrarsi le unghie delle mani, rosicchiandole nervosa. Quella
dell’indice della mano destra prese a sanguinare, una scheggia di legno del telaio del divano le era
entrata sotto l’unghia e non era riuscita ad estrarla. Aveva provato con un ago peggiorando la
situazione.
Alle ore 16 arrivò la notizia bomba: la centrale nucleare di Fukushima. Uno dei reattori in panne.
Fuga radioattiva.
Valentina fu assalita da una rabbia nervosa. I giapponesi avevano provato gli effetti devastanti delle
radiazioni, a Hiroshima e a Nagasaki, e nonostante tutto avevano costruito 52 centrali nucleari sulle
loro isole vulcaniche, sacrificando la memoria storica in nome della crescita economica.
E se esplodessero tutte, una ad una, come tappi di champagne dopo lo scrollone che hanno subito?
Pensieri angoscianti le attraversavano la mente, al culmine della tensione azzerò il volume della tv
e scattò in piedi. Decise di mettere a posto la libreria. Aveva bisogno di recuperare il controllo
compiendo gesti monotoni e banali come spolverare i libri e metterli in ordine alfabetico, per
cognome dell’autore. Le sue unghie erano così devastate che faceva fatica ad estrarre i libri dagli
scaffali. Arrivò alla lettera M e si trovò a sfiorare i romanzi di Murakami Haruki.
Chissà dove si trova. Ranocchio questa volta non ce l’ha fatta, Katagiri deve essere invecchiato.
Si scosse da quei pensieri e prese in mano il telefono. Pippo era in ufficio, aveva sentito la notizia
ma non conosceva i dettagli. Valentina gli raccontò l’essenziale con lo sguardo fisso sullo schermo
che riproponeva le immagini dell’onda nera che avanzava mentre l’auto sfrecciava in diagonale.
“Che dici se mettiamo in scena un racconto di Murakami?” gli buttò lì alla fine.
“Stiamo lavorando all’Uomo dal fiore in bocca ” rispose lui.
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“ Raccogliamo i soldi per i giapponesi colpiti dal disastro. Pensa a quelli che vivono vicino alla
centrale, ai bambini. Facciamo qualche cosa per loro.”
“Che hai in mente?”
“Ha scritto diversi racconti che toccano il tema del terremoto, Ranocchio salva Tokyo, per esempio.
“Lo hanno già portato a teatro, il regista era Sciaccaluga .”
Valentina era in piedi davanti alla libreria, il cordless in una mano mentre con l’altra scorreva i titoli
di Murakami. Si fermò sull’ultimo romanzo che avevo letto ed estrasse il volume. La spina che
aveva sotto l’unghia dell’indice la trafisse dolorosamente.
“A sud del confine, a ovest del sole, la storia di una crisi esistenziale che potrebbe essere la
metafora del terremoto. A trentacinque anni Hajime non sa più chi è, che cosa vuole. Ha tutto ma le
sue mani sembrano vuote. Un amore giovanile, idealizzato nel tempo, è l’unico slancio vitale che
gli rimane.
Rivede la ragazza diventata adulta ed è disposto a buttare tutto all’aria per lei.
Potrebbe essere un sogno, un miraggio, la sua vita è scossa da un forza distruttiva simile a quella di
un terremoto. La donna scompare nel nulla e lui rientra in famiglia. La quiete dopo la tempesta. Ma
nulla sarà più come prima.
Il Giappone si risolleverà da tutto questo ma avrà perduto le sue certezze. Nulla sarà più come
prima. ”
“ Ci penso, ne parliamo questa sera”, il tono della sua voce era quello di chi aveva colto la palla e
la soppesava prima di fare canestro.
Nei giorni dispari della settimana, alle sei di pomeriggio, Valentina, Pippo e altri
amici si
ritrovavano al Tempietto. Formavano una compagnia dilettante e sfogavano le frustrazioni
quotidiane mettendo in scena piccole rappresentazioni. Il ricavato andava in beneficenza.
Quella sera, sulle loro teste, era calata l’ombra del disastro nucleare. L’idea di Valentina riscosse il
consenso di tutti.
“E’ difficile da rappresentare ” aveva osservato Dolores. “Murakami non costruisce delle vere e
proprie trame”.
“Hajime vede passare Shimamoto prima tredicenne e poi donna adulta. Facciamo questi due
momenti. A tredici anni e a 32”, rispose Pippo. Aveva la fronte corrugata delle grandi occasioni.
Non riusciva ad accendere la pipa e trafficava nervoso con il fornelletto, ogni tanto passava la
mano sul collo e infilava le dita tra i riccioli disordinati.
La gestualità dei momenti creativi che Valentina conosceva bene. Il loro rapporto, tra alti e bassi,
andava avanti da anni.
“Ci sono le altre donne” intervenne Paola.
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“Le facciamo scorrere come meteore.
Dialoghi rapidi e secchi, al centro la storia che spiega il titolo. Il contadino
che sente
sopraggiungere la morte e si allontana camminando nella landa desolata della Siberia, seguendo
l’arco tracciato dal sole, verso ovest”. Pippo ci aveva rimuginato sopra dal momento in cui aveva
messo giù il telefono.
“Chi è quest’uomo?”
“Segue la parabola del sole. Sorge, risplende e muore. Da est verso ovest. Fugge dal disastro
nucleare” .
“ E io che faccio?” chiese Antonio accendendosi una sigaretta.
“Abbiamo bisogno di un sassofonista per il jazz club di Hajime. Tipo Sam in Casablanca. Lo fai tu.
E poi ci vuole il contadino siberiano e il protagonista ragazzo.”
“Troppa grazia. A proposito, dov’è finito Roberto?”.
“Shimamoto la fa Francesca?” si intromise Caterina con una voce che esasperava le note alte.
“Sono due, la giovane e l’adulta”.
“Io faccio la tredicenne?” chiese imbronciata la ragazza scuotendo la criniera di riccioli bruni.
Voleva interpretare la donna del desiderio.
“Faccio io la tredicenne” tagliò sbrigativa Valentina. L’adolescente triste era la chiave della storia.
Trascorsero le giornate successive a buttare giù idee e a stendere la sceneggiatura.
“Lo rendi troppo passivo, Hajime , il terremoto è un movimento che gli nasce dentro, non è solo
subito” insisteva Valentina.
“E un uomo in crisi di mezza età, rimbambito dal profumo del sesso. Quello che non ha mai
consumato con Shimamoto e che ha sempre sognato” le rispondeva Pippo.
“Devo trovare delle scarpe ortopediche, Shimamoto tredicenne è zoppa per gli effetti di una
poliomelite”, Valentina trascinò tra i denti la zeta, per sottolineare la sua contrarietà a mettere le
tette di Caterina al centro della scena.
Ma il regista non le dava retta e gli altri gli andavano dietro. Erano convinti che fosse l’occasione
giusta per riempire il teatro e fare il salto di qualità. Il sesso funzionava sempre. Così dicevano.
Caterina si era presentata alle prove con il vestito di scena, tacchi altissimi, tubino minimo
aderente.
“Sembri una peripatetica di viale Gramsci” l’aveva apostrofata Dolores.
“Carnalità, senza giri di parole” aveva detto lei ridendo. Non aveva un bel viso, i lineamenti erano
marcati e la pelle rovinata dal sole ma le sue curve erano mozzafiato.
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“E’ uno spettacolo in memoria delle vittime del disastro. Dovremmo essere tutti sottotono, magari
vestiti di grigio e nero. Ricordatevi che è una metafora” si ostinava Valentina mentre gli altri
alzavano gli occhi al cielo.
Non riusciva a togliersi dalla testa le scene di morte e disperazione, l’auto che correva incontro alla
morte. Il gruppo si stava allontanando dal progetto iniziale.
“Ho un’idea per il finale”, Pippo aveva gli occhi fissi sull’orlo della gonna di Caterina che
lasciava intravvedere il pizzo delle calze autoreggenti. La sua frase rimase sospesa nell’aria, ebbe
un attimo di smarrimento ma si riprese: “Hajime e sua moglie seduti sul divano, uno vicino all’altro.
Si tengono per mano, indossano una maschera antigas. Poi il buio sul palco e si aprono le uscite di
sicurezza, dall’esterno filtra una luce azzurrina, postatomica.”
“Bello, ma ci manca qualche cosa. Sul palco devono circolare dei gatti che miagolano in modo
sinistro.”
“Certo, Murakami senza gatti non si può fare”.
Continuavano a discutere e a fare proposte, Valentina si teneva fuori dalla mischia.
Pensano che sia gelosa di Caterina. Ma Shimamoto non è una puttana d’alto bordo, è l’ideale
femminino, come Beatrice per Dante. Anche se Dante non avrebbe mai pensato di fare sesso orale
con la sua musa. O forse lo ha pensato ma non lo ha scritto.
Ci sono molti indizi nel testo, non è una donna di carne e sangue, non zoppica più nell’età adulta.
Aveva solo quel piccolo difetto e il desiderio di Hajime lo ha cancellato.
Pippo e Valentina avevano preso a litigare, dal giorno dello tzunami dormivano ognuno a casa
propria.
Dopo aver trascorso alcune serate solitarie a guardare sullo lo schermo le immagini della catastrofe,
Valentina decise di invitare Antonio a bere qualche cosa.
Lui adorava Murakami.
Quella sera arrivò tenendo sottobraccio l’LP di vinile di Nat King Cole. Conteneva la canzone che
il sassofonista suonava al Robin’s Nest, il locale jazz di Hajime, South of the border.
Antonio collezionava la musica citata nei romanzi di Murakami, cercava le registrazioni originali,
partecipava alle aste on line. Si accontentava solo di incisioni su vinile. Considerava gli mp3 una
bestemmia, diceva che rubavano l’anima alla musica.
Valentina aveva il giradischi che le aveva lasciato suo padre. Modello anni settanta, inserito in un
mobile di legno laccato con sportello trattenuto da una catenella, le mappe cigolavano quando si
apriva. Antonio era rimasto a bocca aperta, la prima volta che lo aveva visto.
Posizionò con delicatezza la puntina sul disco e iniziarono a ballare, guancia a guancia.
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La
tv era accesa sulle notizie non stop, l’audio spento. Scorrevano le immagini mentre
ballavano alle note dello swing.
“Secondo te che fine ha fatto la donna che guidava l’auto?” chiese Valentina, il naso affondato
nelle pieghe della sua camicia.
“Perché dovrebbe essere una donna?” rispose lui.“Forse era una famiglia, papa-san, mama-san e
figli.”
Le liberò il collo dai capelli e vi posò sopra le labbra calde.
“Oppure potrebbe essere una coppia di amanti. Si sono incontrati in una pensioncina vicino al
mare, hanno fatto l’amore come pazzi e poi volevano tornare a casa.”
Valentina chiuse gli occhi e percepì il corpo dell’uomo attraverso la stoffa dei vestiti.
“Invece sono i personaggi del libro, Hajime e Shimamoto. Non torneranno più a casa. Non c’è più
casa, non è rimasto nulla”.
Antonio le afferrò le mani e l’attirò verso il basso, si inginocchiarono sul tappeto.
La guardò negli occhi e lei capì.
“Spogliati “ gli disse Valentina.
Avrebbero giocato a Shimamoto e Hajime nel capanno di
montagna, “..c’è voluto tanto tempo per arrivare fino a qui”.
Lui iniziò a sbottonarsi la camicia, “Ti amo Shimamoto” le sussurrò con voce roca. Si liberò dai
vestiti e lei prese a baciarlo lentamente, con meticolosità. Interpretarono passo passo tutta la scena.
Poi Antonio si alzò e andò a rimettere il disco dall’inizio. Sollevò con delicatezza il braccio del
giradischi e posizionò la puntina sul primo solco dell’LP.
Valentina preparò due gin tonic con molto ghiaccio.
Si coricarono sul divano, nudi. In tv trasmettevano il servizio sul reattore di Fukushima, i sottotitoli
spiegavano che un giornalista della rete era entrato nell’area considerata ad alto rischio.
Aveva superato la barriera dei trenta chilometri dalla centrale. La sua auto percorreva una città
fantasma, non c’era più nessuno, ogni tanto veniva inquadrato il contatore Geiger.
A Valentina vennero in mente le immagini di un film di fantascienza che aveva visto ma del quale
non ricordava il titolo. L’uomo indossava una tuta bianca e aveva la mascherina davanti alla bocca.
“Hai notato che la televisione italiana sta mettendo la sordina al Giappone? Ieri hanno detto che le
acque del mare antistanti all’area del disastro registrano valori di radioattività sette milioni di volte
superiori alla norma. Pochi minuti e poi sono passati al Nord Africa.
Come se fosse una notizia di poco conto.
Prima o poi quelle radiazioni arriveranno anche da noi”. Valentina si guardò le unghie martoriate e
si rese conto che la scheggia che l’aveva tormentata era sparita. Fece pressione sul polpastrello,
non sentiva più dolore.
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“Sono preoccupati per l’effetto che avrà sul referendum di Giugno”.
Valentina si infilò tra le gambe di Antonio, la testa appoggiata sul suo ventre morbido. La stanza
era calda ma dentro si sentiva gelare, il gin tardava a fare effetto.
“Ci saranno i banchetti per la raccolta delle firme, all’uscita del teatro”, lui l’abbracciò con
dolcezza, era di questo che lei aveva il bisogno.
“Qualche tv locale?”
“Pippo si sta dando da fare, è in gamba con le pubbliche relazioni.”
La ragazza posò le labbra sul suo ombelico e con la lingua prese a seguirne il contorno.
“Si sa niente di lui?” la mano di Antonio le sfiorava leggera la schiena.
“Lui chi?”
“Haruki Murakami”.
Valentina appoggiò la guancia sul petto del suo amante.
“Sul sito internet hanno assicurato che è in salvo, ma lui non ha fatto dichiarazioni”.
“Strano, pensavo che l’avrebbe fatto.”
Antonio raccolse da terra il bicchiere che conteneva dei residui di ghiaccio e lo fece scorrere sulla
gamba di lei.
“Forse ha avuto un lutto in famiglia” il vetro freddo le fece serpeggiare un brivido sulla pelle.
“ E se fosse lui l’autista dell’auto bianca?”
Valentina affondò le dita nel bicchiere, afferrò un pezzo di ghiaccio e lo mise in bocca. Si sciolse
subito e il liquido fresco le scese in gola.
“L’avremmo saputo.”