Twitter in Francia: la privacy fa un passo indietro

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PRIVACY
Twitter in Francia: la privacy fa un passo
indietro
Oreste Pollicino, Professore di diritto dei media, Università Bocconi, Of Counsel Portolano Cavallo Studio Legale
A CURA DELLA REDAZIONE DI LEX24
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Giovedi scorso, il 24 gennaio, il Tribunal de Grande instance di Parigi ha emesso una decisione che, se
non storica, è sicuramente assai significativa per il diritto globale di internet.
Per la prima volta infatti una Corte nazionale ha ordinato a Twitter di comunicare all’autorità giudiziaria tutti
i dati personali in grado di identificare gli autori di tweet di natura razzista ed antisemita contraddistinti
dagli hastag #unjuifmort e #unbonjuif, di per se’ gia’ abbastanza esplicativi. Il ricorso era stato presentato
a novembre del 2012, tramite procedura d’urgenza, dall’Union des étudiants juifs de France (UEJF),
associazione studentesca ebraica assai influente in Francia.
La piattaforma di microblogging aveva rimosso, su richiesta dell’UEJF, i messaggi più offensivi, ma si era
rifiutata di fornire i dati identificativi degli autori di tali messaggi. Per questa ragione l’associazione aveva
adito in giudizio la piattaforma chiedendo espressamente al giudice di Parigi non soltanto che fossero resi
accessibili i dati personali degli autori dei messaggi, ma anche che fosse disponibile un meccanismo sul
sito francese di Twitter in grado di consentire a ciascun utente che avesse riscontrato sulla stessa
piattaforma un qualsiasi contenuto ricollegabile al reato di incitazione all’odio razziale, di allertare le
autorità competenti. Ed il giudice francese, come si accennava in precedenza, ha dato ragione su tutta la
linea ai ricorrenti, non soltanto ordinando a Twitter di comunicare i dati in grado di identificare gli autori dei
messaggi incriminati, ma anche di mettere a punto nel più breve tempo possibile il meccanismo richiesto
attraverso un dispositivo che, nelle parole del giudice, deve essere “facilmente accessibile e visibile”. In
caso di mancato adempimento la sanzione prevista e’ di 1000 euro per ogni giorno di ritardo nel
conformarsi a quanto previsto dalla decisione.
Sono almeno tre le problematiche che emergono dalla lettura degli argomenti delle parti e del dispositivo
della sentenza (le motivazioni non sono ancora disponibili).
La prima ha a che fare con un evergreen del diritto del web: l’identificazione della giurisdizione
competente a decidere del caso. Secondo gli avvocati di Twitter, il trattamento dei dati rilevanti era
interamente avvenuto a San Francisco, laddove si trovano i server della piattaforma e quindi, di
conseguenza, competente sarebbe dovuto essere un giudice americano, anche perché, si aggiungeva, la
filiale francese della piattaforma di microblogging stabilita in Francia avrebbe esclusivamente una funzione
di antenna commerciale della casa madre, senza alcuna autonomia decisionale. La corte di Parigi deve
avere avuto un’altra idea a proposito, e non stupisce.
E’ ormai abbastanza diffusa la tendenza da parte dei giudici del luogo in cui si è verificato l’evento lesivo
a considerarsi competenti a giudicare della controversia, a prescindere dalla dove si trovi la server farm,
spesso argomentando come strumento rilevante ai fini del trattamento dei dati, alla luce della normativa
europea in materia di tutela dei dati personali possa essere anche il semplice personal computer
dell’utente, oppure facendo leva sull’autonomia decisionale della filiale nazionale dell’operatore del web
che ha la sua sede principale di stabilimento al di fuori dell’Unione europea.
La seconda problematica che caratterizza la controversia è questa volta di natura contenutistica, e
non procedurale come la precedente, e di spessore costituzionale: il contrasto tra la visione statunitense
del I emendamento, in cui la liberta’ di espressione assume un rango quasi sacrale e la sua portata
incontra pochissimi limiti, tra cui non vi e’ l’hate speech, e la visione che della liberta’ di espressione ha il
costituzionalismo europeo, in cui il suo esercizio incontra limiti piuttosto significativi e l’incitamento all’odio
razziale e, molto spesso, come accade nella esperienza costituzionale francese, uno di questi. Quale di
queste due visioni deve essere considerata prevalente? Ovviamente la risposta cambia a secondo del
soggetto a cui viene posta. La multinazionale del web con server negli USA ha tutto l’interesse che il il
giudice che decide una controversia come quella che si commenta sposi la concezione proria del I
emendamento della Costituzione USA, chi invece ritiene che la propria dignita’ o reputazione sia stata
lesa da un post o da un tweet, evidentemente si richiamera’ alla tradizione costituzionale europea in
materia di liberta’ di espressione.
La terza problematica ha che fare con la tutela della privacy ed il necessario contemperamento di
quest’ultima con altri diritti con essa confliggenti su internet. A differenza di casi di qualche anno fa
quali Peppermint e Promusicae, decisi rispettivamente dal Tribunale di Roma e dalla Corte di giustizia
dell’Unione europea, che avevano visto il prevalere del diritto alla tutela dei dati personali rispetto al diritto
in quel caso con esso confliggente, ed avevano quindi ritenuto illegittimo un obbligo in capo ad un hosting
service provider di fornire i dati identificativi di utenti che avevano commesso un illecito, in questo caso
invece la tutela dei dati personali si trova a soccombere nell’operazione di bilanciamento che il giudice fa.
Evidentemente, la ragione del diverso esito di detto bilanciamento va ricercato nella natura del diritto in
contrasto con la privacy. Nei casi prima richiamati si trattava di assicurare la tutela del copyright, diritto
non inviolabile a contenuto pecuniario che si ritiene non possa prevalere di fronte alle esigenze dettate
dalla protezione dei dati. Nel caso francese appena commentanto, invece, il diritto a detta protezione si
scontra con il piu’ inviolabile tra i diritti, la tutela della dignita’ dell’essere umano che viene evidentemente
lesa in caso di messaggi che incitando all’odio razziale siano discriminatori nei confronti di una
determinata categoria di persone. In questo caso il disvalore procurato dalla commissione del fatto illecito
e’ cosi significativo e, specialmente, di portata ultra-individuale, da non poter che avere la meglio sulla
tutela della privacy dell’autore dell’illecito.