Sotto il segno della metafora: Una conversazione con Giancarlo De

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Sotto il segno della metafora: Una conversazione con Giancarlo De
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the italianist 29 · 2009 · 350-365
Sotto il segno della metafora:
Una conversazione con Giancarlo De Cataldo
Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary
Giancarlo De Cataldo, nato a Taranto nel 1956, è Giudice di Corte d’Assise
a Roma e uno tra gli scrittori contemporanei più noti in Italia. È stato reso
celebre soprattutto dal libro Romanzo criminale (Einaudi, 2002), a cui è seguito
l’adattamento cinematografico per la regia di Michel Placido (2005). Ha pubblicato
diversi romanzi, tra cui Il padre e lo straniero (Manifestolibri, 1997), Teneri
assassini (Einaudi, 2000), Nelle mani giuste (Einaudi, 2007), L’India, l’elefante
e me (Rizzoli, 2008). Per Einaudi ha curato due raccolte di racconti noir, Crimini
(2005) – tradotta in inglese per Bitter Lemon (2007) – e Crimini italiani (2008).
Ha collaborato alla stesura di diverse sceneggiature per il cinema e la televisione.
Con Giuseppe Palumbo ha recentemente pubblicato anche un graphic novel, Un
sogno turco (BUR, 2008).
La violenza illustrata
Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary Giancarlo De Cataldo, nostra intenzione
in questa intervista è quella di discutere con lei alcune questioni relative alla
sua attività di scrittore e sceneggiatore, a partire da un nostro interesse storicocritico particolare che è anche al centro delle sue narrazioni: la rappresentazione
del terrorismo nella letteratura e nel cinema italiani degli ultimi trent’anni –
argomento al centro di una crescente attenzione e riflessione critiche, sia in
Italia che all’estero.1 A questo riguardo, un primo punto d’entrata rispetto alla
specificità della sua opera potrebbe essere individuato nella evidente assimmetria
che caratterizza la rappresentazione del terrorismo italiano, sia in ambito filmico
che in ambito letterario: si è parlato molto del terrorismo di sinistra e poco
del terrorismo di destra. Ci sono stati numerosi libri, memoriali, ricostruzioni
storiche, film che hanno discusso e rappresentato il brigatismo e il terrorismo
rosso, mentre molto meno è stato fatto rispetto a quello neo-fascista. Lei è invece
uno dei pochi autori che si sia cimentato con la grande narrazione complottistica
e sacrificale della destra.
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Giancarlo De Cataldo In effetti, sul piano della rappresentazione, possiamo dire
che per un certo periodo la rappresentazione del terrorismo di destra sia stata
assente, se non nella forma del complotto, come modalità narrativa privilegiata.
La rappresentazione del terrorismo di sinistra invece, secondo me, è essenzialmente
figlia di Le mani sporche di Sartre (1948). Il cinema di quegli anni era fatto
soprattutto dagli intellettuali di sinistra e questo intellettuale sente che il terrorismo
di sinistra, le BR, appartengono a una sua costola, e si interroga su come sia stato
possibile che anche dalla sua parola, dalla sua predicazione, dai libri che la sua
generazione ha studiato, sia potuta nascere questa distorsione e un uso così efferato
della violenza. Questo lo pone in uno stato di estrema lacerazione: da un lato, non
riesce a formulare una condanna risoluta e netta, dato che questo fenomeno è
una parte di sé, fa parte del cosiddetto ‘album di famiglia’ come scriveva Rossana
Rossanda;2 dall’altra non può giustificare sino in fondo l’uso della violenza.
C’è poi un ulteriore elemento da considerare: tutte le volte che un film sul
terrorismo di sinistra presenta delle vite avventurose da parte dei protagonisti,
ci sta mentendo, perché la vita dei terroristi rossi era molto regolare e noiosa.
Lo testimoniano i diari di Enrico Fenzi che racconta di quando era il capo della
direzione strategica delle BR: viaggiava solo in treno, prendeva appunti, studiava;
il che dal punto di vista letterario rende questo personaggio molto più simile a
all’agente segreto di Joseph Conrad che a uno 007. I terroristi di destra cominciano
ad essere studiati solo adesso – basta dare un’occhiata a libri come Cuori neri
(Sperling & Kupfer, 2006) di Luca Telese o La fiamma e la celtica (Sperling &
Kupfer, 2006) di Nicola Rao –, studiati anche per quei loro aspetti di irregolarità,
di avventura, e quegli elementi di fascino romantico che mancavano ai terroristi di
sinistra. Il personaggio del Nero in Romanzo criminale (interpretato da Riccardo
Scamarcio nel film) è diventato un archetipo per una serie di rappresentazione
successive, e ha in qualche modo liberato delle energie immaginative.
Quel romanzo nasce in effetti dall’esperienza personale di uno che ha
conosciuto tutti i tipi di terroristi, di destra e di sinistra, dentro e fuori dalle
patrie galere e che è giunto alla conclusione che i terroristi di destra sono
antropologicamente molto più interessanti di quelli di sinistra. Le vite dei terroristi
di sinistra sono state forse riscattate dal lampo di genio di Marco Bellocchio in
Buongiorno, notte (2003), ma il sogno della liberazione di Moro, e la stessa
citazione di Emily Dickinson, sono elementi del tutto estranei alla cultura di
qualcuno come Anna Laura Braghetti autrice del libro da cui è stato tratto il film.
Nell’universo individualista della galassia nera, questi personaggi invece venivano
veramente piegati a un complotto e la riprova è che i responsabili dei più grandi
crimini del periodo sono rimasti impuniti e se ne stanno tranquilli in Giappone o
in Sudamerica, ancora protetti da alcuni apparati dello stato. Inoltre, quelle figure
sono assolutamente più moderne ai nostri occhi di lettori contemporanei: un cane
sciolto delle periferie romane, uno schizzato di quartiere, un ultras della curva
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laziale, è molto più simile antropologicamente ai NAR degli anni ’70 che non ai
brigatisti che scrivevano centinaia di pagine sulle loro vittime, che le dovevano
in qualche modo spersonalizzare, e che non avevano il culto del gesto estremo,
dell’‘idea senza parole’, come scrive Furio Jesi nel suo libro Cultura di destra
(Garzanti, 1993), che ha animato invece quell’altro tipo da violenza.
PA, AOL È interessante vedere come sia stato soprattutto il cinema che, nel
panorama culturale italiano, si è posto di fronte al fenomeno terroristico con intenti
interpretativi, e in maniera quasi istantanea, mentre le cose stavano accadendo.
GDC Diciamo che un film come Colpire al cuore (1982) di Gianni Amelio era
un vero e proprio tentativo di elaborare, di capire che cosa stava succedendo,
ancorché si appoggiasse a un modello interpretativo, quello edipico, in qualche
modo deficitario, troppo limitato. In questo senso, Amelio – ma più tardi anche
Marco Bellocchio o sceneggiatori come Stefano Rulli e Sandro Petraglia –, hanno
creduto che l’unico modo possibile per avvicinare un paese senza memoria alla sua
memoria storica, fosse di affrontare la questione in maniera tangenziale, facendo un
cinema di drammi personali che diventano grandi tragedie storiche. Ma non è una
formula originalissima. Prima di questo abbiamo avuto invece un cinema brutto,
che ormai non guarda più nessuno; un cinema post-godardiano, sessattontardo,
un cinema dei critici cinematografici che prendo il posto degli artigiani, con il loro
tentativo di sovvertire e cancellare le regole della rappresentazione, che però non
ha funzionato. Lo sperimentalismo in letteratura – William Burroughs, Samuel
Beckett, il nouveau roman, il gruppo ’63 – ha lasciato qualche traccia e ci ha
anche insegnato qualcosa prima di essere riassorbito nella letteratura mainstream,
mentre non mi sembra che ci sia più grande traccia dello sperimentalismo filmico
nel cinema del dopo Jean-Luc Godard.
PA, AOL È interessante vedere a proposito come nei film d’autore la rappresentazione
della violenza venga evitata, glissata, mentre in un film di genere come Romanzo
criminale viene sovrarappresentata e quasi estetizzata. Secondo lei questo fatto ha
qualche effetto rispetto alla ricezione ideologica del film e alla ricostruzione della
memoria collettiva sul terrorismo?
GDC A proposito vorrei dire due cose: dal punto di vista della rappresentazione
diretta della violenza, va evitata innanzitutto quella immediata assunzione,
assolutamente superficiale, per cui tutti quelli che hanno un qualche compiacimento
intellettuale con la violenza o che leggono libri molto violenti, che considerano (e
io sono tra questi) la violenza come una componente essenziale dell’uomo e della
vita (e quindi la studiano per conoscerla) o che frequentano a proposito persone
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violente, sono necessariamente consegnati all’acting out. Quello lo fanno solo gli
assassini e quello è tutt’altro discorso
In seconda istanza bisogna mettersi d’accorso sulla definizione di ‘genere’. I
film di Sergio Leone sono film d’autore o di genere? Io un po’ mi arrabbio quando
i critici vedono in Romanzo criminale un film di genere, mentre in La seconda
volta di Mimmo Calopresti (1996) un film d’autore. Secondo me sono categorie
un po’ logore; inoltre sono passati molti anni e la violenza è entrata ormai nel
nostro linguaggio quotidiano. Io credo che il luogo deputato, il più caratteristico,
per la rappresentazione del terrorismo di quegli anni sia stato il ‘poliziottesco’, in
autori come Fernando Di Leo, Umberto Lenzi, o Sergio Sollima, ovvero in film
che non erano nemmeno considerati di genere, ma di sotto-genere. Si tratta di un
problema di prospettiva e di sguardo. Lo sguardo autoriale considera disdicevole la
rappresentazione diretta della violenza, invece la realtà è intessuta di violenza. Oggi
una rappresentazione realistica della violenza assume altri connotati: può essere
o stemperata dall’ironia, come fa Quentin Tarantino, o può diventare addirittura
metafisica come in Funny Games (1997, remake inglese 2007) di Michael Haneke,
un film sadico per eccellenza. Se dovessi fare una lezione di psichiatria forense sul
sadismo mostrerei quel film.
PA, AOL Funny Games è anche un film meta-generico, nel senso che contravviene
alle regole di genere dei film di violenza.
GDC Certo, ma secondo me non funziona, perché quello che conta è lo sguardo.
Con una affermazione probabilmente azzardata, direi che Umberto Lenzi, Sergio
Leone, Michele Placido sono capaci di guardare la realtà con l’occhio del criminale,
cioè riescono ad adottare il punto di vista del criminale. Un po’ come io ho tentato
di fare nel mio romanzo. Amelio, Calopresti, o Wilma Labate, sono borghesi che
prestano il loro occhio borghese, aristocratico, al criminale, nella fattispecie al
terrorista. Nel fare questo il borghese tradisce il suo intimo sentimento ribellistico.
Gli sarebbe piaciuto, in qualche modo, essere al loro posto, trovarsi dove non ha
mai avuto il coraggio di essere. De Cataldo, Leoni, Lenzi, non si sono mai sognati
di stare lì, ma se gli avessero detto ‘noi andiamo a fare un’azione; voi vi mettete sul
palco e filmate’, be’, noi ci saremo andati volentieri. Paradossalmente quello che
sembra uno sguardo di adesione è in realtà un punto di vista, adottato sì, ma in
modo distaccato. Quelli che empatizzano sono gli altri.
PA, AOL Slavoj Zˇ izˇ ek parlerebbe di ‘interpassività’.
GDC Sono d’accordo. Farei invece un’eccezione per un regista e a un film che amo
molto: Bernardo Bertolucci e La tragedia di un uomo ridicolo (1981). Bertolucci
è stato profetico nell’intersecare l’eterna tragedia italiana con l’eterna commedia
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italiana (una delle nostre grandi risorse ma anche uno dei grossi grandi limiti della
nostra cultura). In Bertolucci troviamo il borghese puro che non si sogna nemmeno
di entrare nella testa del terrorista, ma che riflette di rimbalzo sulla propria classe,
un po’ come Moravia (e del resto vengono dallo stesso ambiente). Ed è pertanto
capace di cogliere le corrispondenze del proprio essere borghese con la violenza
che sta fuori, fino a spiegarci che la violenza non viene da fuori ma da dentro. Per
questo io lo considero di un’onestà estrema.
Il complotto
PA, AOL Come si diceva, il complotto è stata la modalità narrativa dominante
usata per raccontare l’eversione di destra, allo stesso modo per cui la dietrologia
è diventata la forma narrativa comune della guerra fredda. L’obiezione tipica a
proposito è che il complotto sia in qualche modo una forma di iper-razionalizzazione
causalistica. Si cerca una agency, anche se questa agency non c’è, ma è disgregata
nel caos degli attori del dramma.
GDC Si tratta di vedere attraverso quale ipostatizzazione immaginativa viene
rappresentata tale agency. Se in modalità SPECTRE, alla Ian Fleming, o in
modalità più realistiche come ho cercato di fare in Romanzo criminale. Io credo
che i complotti esistano. Non è detto che vadano a buon fine. Quasi mai i complotti
funzionano come i complottisti li hanno immaginati. Il complotto è come una
lumaca che si lascia dietro una bava, e qualcuno risalendo questa bava riesce
ad arrivare alla lumaca. Non è vero che tutto sia casuale. Esistono sinergie che
confluiscono poi nel fiume principale della storia. C’era sicuramente qualcuno
che aveva interesse a eliminare Aldo Moro. Forse più di uno. I sovietici avevano
interesse a mettere un certo ordine, gli americani avevano interesse a mettere un
loro ordine, gli israeliani erano arrabbiati con Moro in quanto amico dei palestinesi
ecc. Ma perché non immaginare che qualcuno abbia suggerito qualcosa a qualcun
altro? Voglio dire, se noi intendiamo per complotto gli incappucciati, o i Beati
Paoli, non siamo a questo, ma se intendiamo linee strategiche generali che devono
governare il mondo, non necessariamente linee governative, diciamo movimenti
di interessi che poi si incalano in determinate persone che hanno il potere di agire
su determinate leve, dal più alto fino all’ultimo esecutore materiale, sì ci credo che
esistano dei complotti. Posso concedere che si intervenga a livello rappresentativo
in quanto si tratta di semplificare qualche meccanismo per rendere comprensibili
certi fenomeni, ma non è un modo per nascondere la realtà.
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PA, AOL Una semplificazione è l’ipostatizzazione del ‘grande vecchio’, come
motore di trame occulte.
GDC Certo, in quel caso si tratta di una semplificazione. Storicamente possiamo
anche fare dei nomi, come quello di Federico Umberto D’Amato,3 ma certamente
non è il solo. Un terrorista di sinistra una volta mi ha detto: è stato velleitario
cercare di ‘colpire al cuore’ lo Stato, perché lo stato non ha cuore, non solo perché
è spietato, ma proprio perché nessuno sa dove sia il cuore dello Stato, il suo centro
propulsivo. Si tratta anche in questo caso di una metafora.
PA, AOL C’è sempre il rischio usando la metafora del ‘grande vecchio’, e il
complotto come modalità di concepire e capire la società, di vedere una sorta di
‘mano di Dio’ dietro questi fenomeni.
GDC Se Dio è la divina provvidenza di stampo manzoniano, direi di no. Se Dio è
invece è il principio del caos, allora direi che è fortemente presente. È presente ad
esempio in molta letteratura anglosassone, anche non necessariamente noir, come
nel caso di John Banville, che è uno scrittore che amo molto e che considero uno
dei più importanti autori contemporanei. Penso anche a Orhan Pamuk che dal
punto di vista strutturale scrive dei veri e propri gialli, come nel caso di Il libro
nero (1990; Frassinelli, 1996) o Neve (2002; Einaudi, 2004). Si può scorgere in
questi casi l’idea del Deus absconditus, della fuga di Dio, che sia il ritirarsi di Dio
a provocare il caos e che lo strepito serva in qualche modo a richiamarlo. Questa
idea è molto forte e molto presente; è una idea che sottende il livello razionale della
modalità complottistica.
PA, AOL Non vogliamo darle l’impressione di credere che tutte le forme narrative
che utilizzano il modello complottistico siano delle forme di anti-storia. Perché
anche questo è diventato un luogo comune critico: che il complotto di fatto non
rappresenti nulla, solo un meccanismo psicotico, forme di paranoia personali.
GDC Ho avuto una discussione a riguardo con Gianni Riotta, ex-direttore del
TG1, che affermava appunto che il complotto non esiste. È vero che Carrero
Blanco è stato ammazzato dall’ETA, ma la CIA lo ha seguito passo passo perche
gli conveniva. Lo stesso si può dire per il caso Moro. Non dico che il complotto
spieghi tutto, ma che dietro qualche grande evento storico, ci sia qualcuno che ci
mette lo zampino, mi sembra innegabile. Non sempre il complotto viene portato
a termine. Watergate, per esempio, è stato un complotto mancato, e proprio per
questo sappiamo tutto a riguardo. Ma non possiamo dire che conosciamo solo i
complotti mancati mentre quelli non riusciti non esistono. Anche dal punto di vista
di una logica sottrattiva, popperiana, dobbiamo ammettere l’idea del complotto.
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PA, AOL L’obiezione tipica alla teoria del complotto è che tende a negare la
storia sociale, i grandi movimenti di massa, i processi emancipativi di carattere
collettivo…
GDC Sì, questa è l’obiezione che è stata fatta anche a Romanzo criminale. Per
esempio Roberto Silvestri, critico de il manifesto, mi ha accusato di non avere
parlato del movimento studentesco. Vedete, dal punto di vista di chi agisce le
leve dello Stato, o del consiglio di amministrazione di una grande banca, di chi fa
security, ecc., i movimenti sociali esistono solo quando creano disordine e vanno
repressi. Non spostano nulla. Il ’68 non ha intaccato molto le élite che hanno
continuato a seguire i loro percorsi privilegiati, riaffermandoli alla prima occasione
possibile. I movimenti sociali sono degli intoppi al potere.
Generi
PA, AOL Un altro luogo comune della critica italiana è la svalutazione, quasi
programmatica, del genere, noir o giallo che sia, nonostante il pubblico abbia
ormai superato i cavilli di queste distinzioni e non sembra tenerne conto.
GDC Sì è vero, però noi scrittori di noir continuiamo a non andare ai premi dove
vanno solo gli scrittori ‘veri’. Ci sono critici come Antonio D’Orrico (che ha una
profonda ostilità nei confronti della mia opera) per cui il discorso è semplice:
se uno scrittore rimane confinato alla pura scrittura di genere, come nel caso di
Giorgio Faletti ad esempio, allora può venire tollerato perché ha una sua specifica
collocazione; se un autore si azzarda invece a entrare in un territorio che non
è il suo e a parlare, ad esempio, di politica, lo massacrano. Da questo punto di
vista, la questione è semplice: io riconosco i limiti della mia scrittura rispetto ai
grandi maestri internazionali, come Pamuk o Abraham Yehoshua, ma non credo
che i miei libri non possano essere considerati all’altezza dell’ultimo vincitore
del Campiello. Il poliziesco italiano è una costola del poliziesco mondiale e viene
riconosciuto come tale, con una sua dignità e un profilo internazionale. Questo
poliziesco sta raccontando da trent’anni l’omicidio della democrazia ad opera dei
poteri occulti, e gli italiani sono molto bravi a farlo e possono competere sulla scena
internazionale. Dove siamo invece deboli è proprio sulla letteratura ‘classica’, del
resto di grandissimi autori ne nascono tre-quattro al secolo. Certamente c’è un
topos critico, c’è una certa ostilità accademica: quando devono parlare bene di
noi lo fanno obtorto collo, mentre abbiamo un ottimo rapporto con il pubblico,
abbiamo molti lettori giovani, funzioniamo bene sui media, perché sappiamo
parlare di qualcosa che vada al di là di noi stessi e del mero autobiografismo.
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Riusciamo ad avere un audience internazionale, nel senso che veniamo tradotti e
conosciamo le lingue. E soprattutto siamo una comunità a cui piace fare quello
che fa.
PA, AOL Si potrebbe dire che il genere rappresenti uno strumento epistemologico,
forse il più efficace, per poter sondare e rappresentare fenomeni come il
terrorismo?
GDC Il genere è come la parte degli esercizi obbligati nella ginnastica o nei tuffi.
Prima si dimostra di essere bravi con gli strumenti narrativi di base e poi si può
scrivere anche il resto. Io in fondo credo che il genere in sé, come il noir, non abbia
più molta ragione d’essere. Credo che si sia dissolto, diffuso in altri tipi di scrittura.
Il noir ha avuto la sua storia tra gli anni ’30 e gli anni ’60 e poi ha concluso la
sua parabola. Se si guarda all’ultimo romanzo di Melania Mazzucco, Un giorno
perfetto (Rizzoli, 2006), da cui Ferzan Ozpetek ha tratto l’omonimo film (2008),
si tratta di una storia di un poliziotto lasciato dalla moglie, che la perseguita e alla
fine uccide i figli: quella è una storia di Nelson Algren degli anni ’40-’50, quella è la
sua base e il suo mito. Ci sono molti germi di noir nella letteratura italiana recente, e
ormai il ‘noir italiano’ è diventato solo una definizione convenzionale. Certamente,
come dite voi, il genere è anche una chiave di interpretazione, ma le regole del
genere vanno ricontrattate perché sono cambiate. Sono cambiate molto meno nel
giallo classico, che è rimasto legato al whodunnit. Inoltre bisogna stare attenti al
pericolo di una overdose di noir: sono continuamente avvicinato da giovani scrittori
entusiasti che mi propongono saghe di migliaia di pagine sulla ‘ndrangheta.
Storia e finzione
PA, AOL Uno dei problemi fondamentali della tradizione letteraria italiana, ma
anche uno dei problemi centrali della sua produzione narrativa, è il rapporto
ambiguo, controverso, che esiste tra ‘Storia’ e ‘finzione’, tra evento storico e
racconto. Lei nell’introduzione al suo romanzo Le mani giuste parla di ‘storia
come metafora’.
GDC In realtà io uso il termine ‘metafora’ in maniera impropria come sinonimo di
‘mito’, di racconto. ‘Mito’ in quanto ogni storia possiede un antecedente classico.
Quindi una storia esemplare che si ripete e si rinnova. Cambiano i nomi e gli scenari,
ma i moti sociali, umani e politici rimangono gli stessi. Ora, la storia-come-metafora
che ho raccontato in Romanzo criminale o ne Le mani giuste, il mito di fondo,
l’oggetto narrativo che mi sta a cuore in queste narrazioni, è sempre lo stesso: il
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rapporto fra potere ufficiale e potere occulto, tra verità ufficiale e verità manipolata.
A questo riguardo mi sembra logico che il romanzo stesso sia in qualche modo una
manipolazione della realtà storica. È questo che in definitiva chiamo ‘metafora’.
Ovviamente questo si inserisce in una lunga tradizione. Limitandoci all’Italia
moderna, possiamo prendere il caso de I promessi sposi, che nasce sul topos del
manoscritto ritrovato, e si trascina appresso una discussione sul rapporto fra ‘vero’
e ‘verosimile’ – per la quale forse Alessandro Manzoni è forse più lucido nella Storia
della colonna infame che ne I promessi sposi. La nostra critica più paludata tende
sempre un po’ a resistere rispetto alla discussione della realtà degli effettivi prestiti
storici nel romanzo di Manzoni, tutti ampi e ben documentati. La nostra tradizione
critica di stampo idealista è ancora legata all’idea dello scrittore come genio che
scrive ispirato da una verità metafisica, e che deve evitare il rozzo contatto con la
realtà materiale e storica. Mentre Manzoni in effetti attinge alla storia, la trasfigura,
estraendone delle linee argomentative essenziali sul carettere degli uomini, sulle
dinamiche sociali e sul mito, per farne un’opera letteraria complessa. Ora, i termini
della questione non si sono spostati di molto. Io personalmente, se sto raccontando
una storia reale, come quella della banda della Magliana, prendo quello che mi serve
e butto via il resto. Sostituisco i passaggi storici controversi o poco chiari con una
mia interpretazione su come penso che certi passaggi storici possano essere avvenuti.
Si tratta di un modo di raccontare la realtà e di interpretarla, drammatizzandola.
Io quando ho cominciato a scrivere le mie storie non lo pensavo, ma molti me lo
hanno fatto notare: forse siamo costretti a drammatizzare la realtà perché alcuni
suoi elementi o ci sfuggono o non riusciamo a controllarli e il narrarla in questo
modo ce lo può far durare nel tempo.
PA, AOL Rispetto al rapporto fra finzione e realtà storica, ma anche ricollegandosi
al discorsi sui generi, vi è stato recentemente in Italia un dibattito sul cosiddetto
‘ritorno alla realtà’. Cosa ne pensa lei ha proposito? Il realismo di cui si parla
oggi può essere visto, da una parte, nient’altro come un altro ‘genere’ (anche il
documentario è un genere, e di successo). Dall’altra siamo sempre al di là di un
rapporto innocente e immediato con la realtà. Anche la rappresentazione più
realistica gioca con le convenzioni, filmiche o letterarie che siano.
GDC Gomorra di Garrone (2008) ad esempio è un film realista assolutamente
consapevole di giocare con il genere. La scena iniziale per esempio è un topos del
genere poliziesco o mafioso classico: il regolamento di conti dal barbiere nella
Chicago degli anni ’50. In questo senso vanno riprese e sottoscritte alcune delle
indicazioni date da Wu Ming in New Italian Epic, o quelle relative al recente
dibattito su un presunto ritorno al ‘neo-neo-realismo’. 4 Io credo che si stia
saldando la frattura che si era prodotta con la morte di Pier Paolo Pasolini, e
che era stata aggravata dall’ultimo Calvino, distante e metafisico, anti-realistico.
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Secondo me sono proprio gli scrittori di polizieschi che hanno facilitato questa
saldatura, questo passaggio storico, influenzando la generazione che ha prodotto
Roberto Saviano, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, e il ritorno a una forma
di neo-neorealismo. Molti hanno criticato questa mia affermazione, ma credo
proprio siano stati soprattutto gli scrittori di genere a farsi carico di una funzione
dello scrittore-intellettuale che gli scrittori cosiddetti mainstream per un certo
periodo hanno disertato programmaticamente. Ancora oggi, Roberto Carnero,
sollecitando i finalisti del Premio Campiello 2008 relativamente alla situazione
sociale e storica dell’Italia contemporanea, ha ottenuto una risposta del tipo, ‘noi
siamo semplicemente degli scrittori, e la realtà non ci interessa’. Lo stesso Garrone
si è schernito quando gli ho detto che ha fatto un grande capolavoro post-realista,
replicando che lui faceva solo cinema. In Italia c’è paura a rivendicare un ruolo,
a dire che l’intellettuale mette i piedi nella storia: noi scrittori di polizieschi e noir
lo facciamo e questo ci comporta una doppia critica, quella dei colleghi scrittori e
quella dei critici.
Storie criminali
PA, AOL Passando dalla letteratura al cinema, possiamo estendere quanto finora
detto a un film come Romanzo criminale? Come è stato recepito, rispetto alle
modalità di racconto della violenza e del potere?
GDC Romanzo criminale è stato un film di culto ma non di successo. Ha incassato
poco più di cinque milioni di euro in Italia e tre in Francia. Stranamente ha avuto
molto successo nel centro e Sud d’Italia, mentre molte sale del Nord lo hanno
rifiutato considerandolo un film troppo ‘romano’. D’altro canto l’intellighenzia
critica di sinistra lo ha attaccato definendolo addirittura un film fascista, per il
fatto che non teneva conto del movimento operaio e dava una rappresentazione
eroica dei criminali e dei fascisti ignorando la sinistra (violava per tanto le
implicite regole del gioco). Ciò nonostante è stato per tre anni il DVD più venduto
e noleggiato in Italia, e in Francia lo hanno accolto in maniera entusiasta, come
se fosse stata una cosa loro, esagerando addirittura con gli elogi e i paragoni. La
verità ovviamente sta nel mezzo: si tratta di un film che a me è piaciuto moltissimo
ma che rimane in parte irrisolto. Si poteva scegliere una strada più estrema: si
poteva fare un film più patinato o un film più ‘sporco’. Il rimanere a metà del
guado è stato visto come un segno di incertezza. Comunque per me il film doveva
presentare una forma di violenza certamente estetizzata, conservando però una
sua dimensione e carica politica. Nonostante lo abbiano scritto Rulli e Petraglia,
ovvero il salotto buono della sceneggiatura italiana (mentre io sono un outsider:
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mi hanno capito e voluto bene più certi ragazzi ‘agitati’ e inquieti che le persone
beneducate ... beneducate in senso letterario, voglio dire) non è il classico film
dove i fascisti sono perversi, sessualmente deviati, i poliziotti sono tutti corrotti e
c’è l’eroe di sinistra. La cattiva coscienza della nostra intellighenzia premia sempre
un po’ quel modello. È un film politicamente scorretto e quindi si è alienato un
po’ delle simpatie che contano. Ho visto Enrico Ghezzi qualche mese fa a Parigi e
mi ha detto: ‘De Cataldo, come ti sei permesso di scrivere che Gomorra e Il divo
[Paolo Sorrentino, 2008] sono due grandi film? Di fronte a questa merda persino
Romanzo criminale ha una sua dignità’. Perché un critico intelligente, aperto,
colto come Ghezzi deve cercare di stroncare sul nascere i momenti più esemplari
della rinascita del cinema italiano, chiunque li faccia? Perché il nostro paese deve
sempre cercare di spegnere quello che è nuovo? La sua risposta è stata: ‘perché
Gomorra è il regime’. Romanzo criminale allo stesso modo ha toccato questo tipo
di sensibilità ed è stato considerato un film di ‘regime’. Del resto c’è una divisione
anche all’interno della galassia critica di sinistra: all’anteprima per la stampa
di Romanzo Criminale, il manifesto ha mandato Andrea Colombo, uno spirito
libero, che si è dichiarato entusiasta del film e Silvestri, che lo ha bollato perché
non parlava del movimento studentesco. Una obiezione francamente assurda,
visto che il libro e il film vogliono parlare di tutt’altro.
PA, AOL Una sorta di zdanovismo culturale in epoca postmoderna? Di Romanzo
criminale è interessante il modo in cui la rappresentazione del potere viene
mescolato con una storia convenzionale di gangster. Per esempio nella versione
integrale, il ‘grande vecchio’ a un certo punto tenta di spiegare le ragioni del caso
Moro e del perché è stato abbandonato al suo destino. Una parentesi di pochi
minuti, molto didascalica, per raccontare un fatto di storia così importante. Anche
ne Le mani giuste, ci sono alcuni momenti di spiegazione contestuale e storica che
rallentano il flusso narrativo e che stonano dal punto di vista strutturale.
GDC Zdanovismo culturale mi pare un’espressione troppo forte. In questo
momento di crisi generale della cultura di sinistra, d’altronde, è come sparare
sulla Croce Rossa. Rispetto a quello che dite riguardo di problemi di carattere
narrativo, mi sono posto anch’io il problema. Ovviamente se ho inserito quegli
elementi era perché lo ritenevo opportuno. Capisco che i momenti didascalici
possano comportare dei rischi di indebolimento drammaturgico, ma dobbiamo
anche capire che in Italia può accadere di chiedere a un adolescente chi sono stati i
responsabili della strage alla stazione di Bologna e sentirsi rispondere che è stata AlQaeda! Per quanto riguarda il film, per esempio, a un certo punto abbiamo dovuto
togliere il riferimento all’omicidio Pecorelli, perché c’è stata una assoluzione che ha
cambiato le carte in tavola. Devo dire che in generale mi sono trovato in sintonia
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Antonello & O’Leary · Conversazione con Giancarlo De Cataldo 361
con il regista, Michele Placido, che ha aumentato gli elementi di brutalità e di
violenza e ha sfumato qualche passaggio di spiegazione.
PA, AOL Come giudica invece un film come Buongiorno, notte.
GDC Mi ha irritato fortemente, soprattutto la posizione assunta dalla Braghetti.
Però devo riconoscere a quel film una grande intuizione, una grande metafora,
il sogno di tutta la sinistra italiana: la liberazione di Moro. La sinistra vive
ancora del senso di colpa che sia stato qualcuno di loro ad ammazzarlo e quella
immagine di Moro che esce dalla prigione e se ne va per le strade di Roma è una
straordinaria e catartica liberazione dai sensi di colpa generazionale attraverso,
appunto, un sogno.
PA, AOL In termini narrativi, un problema in effetti è relativo al tipo di pubblico, o
al tipo di constituency, a cui il film si rivolge. In Buongiorno, notte, lo spettatore ha
una aspettativa già stabilizzata in quanto conosce interamente la storia che viene
raccontata, cosa che è meno vera per Romanzo criminale, certamente rivolto a un
pubblico più ampio che molto probabilmente ignora del tutto la cronaca di quegli
anni e soprattutto le vicende della banda della Magliana.
GDC È interessante a proposito vedere come in Francia il film abbia avuto un
grosso successo soprattutto nelle banlieue, tra i giovani magrebini e le frange più
agitate della gioventù francese. A volte capita che all’estero sappiano di più e
meglio la nostra storia di quanto la sappiamo noi. Io mi sono sentito bocciare
diversi progetti da Mediaset proprio su questa base: mi dicevano che era roba
vecchia e che il pubblico odierno non sa nulla di tutto ciò. Si parlava di Sandro
Pertini e della sua avventura storica umana, dai gruppi partigiani alla lotta al
terrorismo sino alla presidenza della Repubblica. Il pubblico di oggi al massimo si
ricorda del vecchietto che si agitava sulle tribune dello stadio Bernabeu, nel 1982
al mondiale di Spagna. Giorni fa sono stato a un dibattito alla Festa nazionale
del Partito Democratico sul generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nell’occasione
dell’anniversario della morte. L’età media del pubblico era sui sessant’anni. C’è un
problema serio di circolazione della memoria in Italia.
PA, AOL C’è certamente un difetto di memoria nella cultura italiana odierna,
d’altro canto gli scrittori e i cineasti di oggi trovano proprio in quegli anni una
riserva straordinaria di storie da raccontare.
GDC Certamente. La storia italiana, come altre storie, è una storia criminale, anche
una storia criminale. Una storia che è sempre stata raccontata. La stagione del
terrorismo ha avuto però uno strano destino: negli anni ’70 e ’80 i maggiori cineasti
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e i maggiori scrittori sono rimasti in disparte, si sono astenuti dal raccontare quelle
tensioni e quegli eventi. Le cose sono cambiate con gli anni ’90 e una serie di
scrittori ha ricominciato, in varie forme e modalità rappresentative, a scrivere
di storia italiana, a riscoprire fatti e aspetti della nostra storia recente declinati
soprattutto attraverso un genere che, in maniera molto ampia e non sempre
adatta, possiamo chiamare ‘noir’. Dopo venticinque anni di cattiva pubblicità e di
cattiva televisione noi cerchiamo di dare qualcosa di diverso ai lettori delle nuove
generazioni, parlando del lato oscuro della storia italiana recente.
PA, AOL Malgrado questi venticinque anni di cattiva televisione, è stata
realizzata una versione televisiva a puntate di Romanzo criminale, prodotto da
Sky. Probabilmente una storia in qualche modo ‘epica’ come quella di Romanzo
criminale può trovare un maggiore respiro all’interno di un formato televisivo.
GDC Purtroppo nel contesto italiano qualcosa che viene fatto per la televisione
assume immediatamente una connotazione deteriore e negativa. Questo è dovuto
al fatto che la televisione italiana, generalista, ha prodotto negli ultimi anni cose
scadenti, fatte per un pubblico vecchio e di vecchi. Il duopolio (che culturalmente e
politicamente è un monopolio) produce sempre le stesse cose da decenni. Sky adotta
un linguaggio nuovo, molto più americano. E negli Stati Uniti le cose migliori
vengono fatte ormai dalla televisione. Le due raccolte Crimini, per esempio, sono
ispirate alla serie televisiva Fallen Angels (Propaganda Films, 1993-5). Per quanto
riguarda la serie diretta da Sollima per Sky, si tratta di una versione più ‘sporca’ di
quella di Placido, più violenta, ma molto bella. Persino Aldo Grasso, il severissimo
critico del Corriere della sera, ne ha parlato benissimo.
PA, AOL Rispetto a quello che lei dice probabilmente una serie culto negli Stati Uniti
come The Wire (HBO, 2002-8) si avvicina per modalità narrativa e linguaggio a
film come Gomorra o a sceneggiati come Romanzo criminale. Venendo a un altro
aspetto del film, la storia di Romanzo criminale è essenzialmente una storia di
uomini, all’interno di una configurazione omosociale. La rappresentazione delle
donne è in qualche modo limitata agli stereotipi stabilizzati dell’amante e della
puttana. Patrizia agisce come elemento metonimico di socializzazione fra il Dandi
e Scialoja, fra il crimine e la legge. Degli anni ’70 vengono rappresentate le gesta dei
terroristi, in gran parte maschi, e vengono dimenticate le donne e le loro conquiste
emancipative.
GDC Carmelo Bene diceva che la storia la fanno gli uomini e le donne rimangono
fuori e questa le rende custodi di una sacralità che può anche porre rimedio alle
distorsioni della storia. Questa è la versione nobile. Io credo che la verità sia
più elementare: tutti i film in Italia li hanno fatti degli uomini, e questo incide
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Antonello & O’Leary · Conversazione con Giancarlo De Cataldo 363
notevolmente. Inoltre, Romanzo criminale è la storia di una fratellanza maschile,
e quindi la donna è un elemento di disturbo. È vero che in quel periodo storico ci
sono state molte affermazioni femminili e femministe come la legge sull’aborto, il
divorzio, ecc., ma nei meccanismi della storia, in Italia, le donne sono state sempre
subalterne. Sono ancora fortemente subalterne. Abbiamo avuto certamente grosse
conquiste del femminismo, ma il loro impegno non avrebbe avuto effetti politici se
non fosse stato sostenuto dalla forza dell’allora PCI, con i suoi 14 milioni di voti –
ovviamente quando hanno capito che aborto, libertà nelle relazioni non erano cose
da borghesi, ma conquiste di civiltà. A proposito si dice che il terrorismo sia stata
anche una risposta a queste conquiste sociali, il tentativo di riportare la società su
un terreno più arretrato.
Vittime e carnefici
PA, AOL Storicamente, nella rappresentazione del terrorismo, il punto di vista
delle vittime è stato spesso trascurato. Con la pressoché unica eccezione di Moro,
che per altro rappresenta una sorte di totem rappresentativo di un’epoca, c’è stata
una elusione da parte di registi e scrittori del punto di vista delle vittime. Mario
Calabresi, in Spingendo la notte più in là (Mondadori, 2007), e in parte Mimmo
Calopresti ne La seconda volta hanno cercato di raccontare questa prospettiva.
Quello di Calabresi è un libro sintomatico che esprime una sorta di esasperazione
e frustrazione con lo status di celebrità raggiunto dagli ex-terroristi. Del resto
portare il dibattito sul terreno dei diritti delle vittime rischia di sposare un’idea di
giustizia ipervendicativa.
GDC Il libro di Calabresi è un libro onesto e non piagnone. La giustizia serve a
mettere un diaframma fra la vittima e il carnefice: se si leva la giustizia alla vittima
non resta che la vendetta. In realtà nessuno potrà mai togliere alla vittima il diritto
a una vendetta, più o meno simbolica, al rimorso, al rammarico, all’odio. Non è
necessario che uno perdoni (questa morale cattolica posticcia sa molto di retorica
giornalistica). Ciò detto, il problema per molti è che si sia dato troppo spazio ai
terroristi, che parlino ancora troppo. Io credo che sapere di più di quegli anni, di
quella storia, sia utile anche a noi, per capire il nostro presente. E i contributi a
riguardo possono venire o dalle vittime o dai carnefici. Se impediamo ai carnefici
di parlare, sulla base di una istanza morale – offendono le vittime e quindi
stiano zitti –, ci amputiamo della possibilità di scrivere la storia. Le vittime sono
usate, e le stanno ancora usando, proprio quelle persone che non vogliono che si
ricostruisca nella sua interezza la verità di quel periodo storico, quelli che vogliono
solo una ricostruzione parziale, tendenziosa, edulcorata, di quegli anni. Ci si fa
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schermo delle vittime per impedire un confronto. La ‘Commisione per la verità e
la riconciliazione’, istituita in Sud-Africa nel 1995, è un precedente storico-politico
attraverso il quale si è deciso che vittime e carnefici dovevano sedersi attorno a uno
stesso tavolo per ricostruire la storia, senza sanzioni penali. Sono uno dei pochi,
con Daniele del Giudice, a credere che il nostro paese abbia ancora bisogno di una
Commissione del genere. Ogni volta che tiro in ballo questa idea, come risposta
ho qualche sorriso educato oppure qualche sguardo sdegnato di chi si nasconde
dietro la figura delle vittime: come si può chiedere ai familiari delle vittime di
sedersi attorno a un tavolo con gli stragisti, e dirgli ‘non vi mandiamo in galera, ma
diteci tutta la verità’. Qualcuno prima o poi dovrà dire che le vittime sono il nostro
alibi, per impedire di capire fino in fondo la nostra storia. So che è una posizione
impopolare e infondo ingiusta nei confronti dei sentimenti di chi ha sofferto, ma me
ne assumo la responsabilità. L’ostacolo è inoltre il processo penale e l’impiego della
giustizia come strumento per ricostruire la storia. Le condizioni che permettono
un processo del genere è che si riconosca che c’è stata una guerra civile, e in Italia
quasi tutti lo negano, che le due parti si siano riconosciute come eserciti in guerra,
e anche questo lo si nega, e soprattutto che ci sia la convinzione culturale condivisa
che l’interesse storico debba a un certo punto prevalere sull’interesse della giustizia
e da noi non accade. In Italia siamo condannati a una condizione di stallo che non
finirà mai.
PA, AOL Quello che è stato detto è che appunto tutta questa attività narrativa,
rappresentativa, immaginativa da parte di scrittori e cineasti abbia agito da parziale
compensazione rispetto alla mancanza di un passaggio storico del genere.
GDC Sì, ma il narratore non vuole ottenere un risultato politico. Racconta una
storia, fa circolare delle idee e la forza della narrazione, la forza della metafora, è
appunto quella. Un narratore attraverso la memoria deve insegnare qualcosa, non
può fare tabula rasa di tutto quello che ha nel proprio passato. Anche se siamo un
popolo con scarsa memoria, non è vero che gli autori italiani non fanno i conti con
la storia. È possibile scrivere una storia del nostro rapporto con la storia. C’è stata in
Italia una importante letteratura pre-Risorgimentale; c’è stata una letteratura postRisorgimentale altrettanto autorevole; c’è stata una grande letteratura della Guerra
(pensiamo a Emilio Lussu), e una grande letteratura meridionalista; siamo riusciti
a parlare della resistenza con grandi romanzi, così come del miracolo economico
degli anni ’60. I limiti e i problemi della nostra storia sono sempre stati affrontati,
attraverso modalità narrative che sono diventate di successo, che hanno costituito
scuole di pensiero, correnti letterarie. C’è però un deficit caratteristico della cultura
italiana: è come se anche la nostra tradizione letteraria più nobile venisse seppellita,
soffocata. Credo che sia responsabilità soprattutto dell’accademia, perché sono le
accademie che scrivono le storie della letteratura, e attraverso queste si costruisce
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Antonello & O’Leary · Conversazione con Giancarlo De Cataldo 365
la percezione che viene data ai giovani rispetto alle sorti e al profilo della nostra
letteratura. Io sono stato allievo di Guiseppe Petronio, e nella sua storia della
letteratura italiana alla fine di ogni capitolo c’era una scheda sulla fortuna letteria:
ad esempio nel capitolo dove si parlava di Massimo Bontempelli come autore di
riferimento degli anni ’30, si spiegava che all’epoca gli italiani leggevano in massa
Luciano Zuccoli, Guido da Verona, Annie Vivanti. La temperatura emotiva, la
circolazione delle idee all’interno di un corpo sociale erano diversi, il pubblico di
riferimento stava da un’altra parte. Questo è successo anche per quanto riguarda
il terrorismo. Noi abbiamo fatto dei film ma poi li abbiamo dimenticati. Ma non
abbiamo dimenticato quegli anni dentro di noi, perché il problema continua ad
esistere e continua in qualche modo ad angosciarci, ed è un problema con il quale
non abbiamo saputo fare i conti: i tedeschi lo hanno fatto meglio di noi con il
loro passato nazista, noi lo abbiamo fatto in maniera un po’ edulcorata, con il
nostro passato fascista, continuiamo a non volerlo fare fino in fondo con gli anni
di piombo.
Note
1
Si veda Imagining Terrorism: The Rhetoric and
4
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo,
Representation of Political Violence in Italy 1969-2009,
ritorno al futuro (Torino: Einaudi, 2009). Si veda il numero
a cura di Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary (Oxford:
speciale di Allegoria a cura di Raffaele Donnarumma e
Legenda, 2009).
Gilda Policastro su ‘Il ritorno alla realtà’: Allegoria, 57
2
‘Il discorso sulla DC’, Il manifesto, 28 March 1978, p. 1.
3
Figura di spicco nei servizi segreti italiani durante il
periodo della Guerra Fredda. Iscritto, inevitabilmente, alla
loggia masonica P2, collabora strettamente con i servizi
(2008); nonché lo speciale di Lo Specchio (Novembre
2008) a cura di Andrea Cortellessa, disponibile anche
in rete <http://issuu.com/passi.falsi/docs/cortellessa>
[accesso del 19 giugno 2009].
segreti degli Stati Uniti, ed è ritenuto responsabile di
despitaggi delle indagini sulle stragi di Piazza Fontana e
dei prima anni settanta. Muore nel 1996.
Pierpaolo Antonello, University of Cambridge [email protected]
Alan O’Leary, University of Leeds a.o’[email protected]
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